Costruzione di un’identità nazionale: alle origini del Risorgimento La storiografia che negli ultimi decenni si è dedicata ai processi di costruzione nazionale ha riservato una attenzione particolare al complesso di idee che ha sempre accompagnato questi movimenti. Al di là degli eventi politici che hanno portato alla costruzione (o negazione) di Stati nazionali, al di là dei motivi economici che possono aver spinto o meno gruppi di popolazione ad unirsi in entità nazionali, è stata cioè sottolineata l’importanza dei fattori di identità culturale. Sono stati simboli, valori, miti, a cementare da un punto di vista ideale l’unità di popoli che, ad un certo punto della loro storia, non solo hanno costruito uno stato nazionale, ma si sono sentiti, più o meno diffusamente, più o meno fortemente, “nazione”. Ora, è molto diffusa nella storiografia l’idea che questi simboli, valori, miti, non abbiano il loro fondamento in realtà originarie e oggettive. Contrariamente a quanto pensavano i protagonisti di allora cioè, le nazioni non sono sempre esistite; l’Italia, la Germania, non esistono da sempre. «Le nazioni quali modo naturale e di derivazione divina di classificare gli uomini [...] sono un mito; il nazionalismo, che talvolta si appropria delle culture precedenti per trasformarle in nazioni, che talvolta se le inventa, che spesso oblitera le culture precedenti; questa è una realtà» (Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma 1985, p. 56 [ed. or. 1983]). Così, «non sono le nazioni a fare gli Stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario» (E.J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo, Torino 1991, p. 12 [ed. or. 1990]). Insomma, la nazione è una costruzione, in buona parte di carattere ideale e culturale. Ciò non significa naturalmente che quei simboli, valori, miti siano del tutto inconsistenti: essi hanno spinto uomini e donne all’azione, hanno modellato identità, hanno fatto la storia. E quando oggi diciamo di appartenere ad una o ad un’altra comunità nazionale, con essi dobbiamo, in un modo o nell’altro, fare i conti. Uno storico italiano, Alberto Mario Banti, ha analizzato il processo di costruzione culturale dell’identità italiana, identificando un “canone risorgimentale”, cioè una serie di opere su cui si formarono le idee di quei patrioti che animarono le origini del nostro Risorgimento. Il «canone» risorgimentale [...] se si osserva la produzione letteraria ed artistica del Risorgimento italiano [...] si assiste [...] alla creazione di una mitologia, di una simbologia, di una ricostruzione storica della nazione italiana che ha in sé un’eccezionale forza comunicativa; questa complessiva mitografia ebbe, infatti, il potere di toccare la mente e il cuore di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica della penisola, tanto da diffondere l’idea dell’effettiva esistenza di un soggetto – la nazione italiana – che, nei fatti, sembrava molto difficile da identificare. Non solo: il messaggio fu così potente da convincere molti ad agire pericolosamente in suo nome, rischiando l’esilio, la prigione, la vita. Certo, molti di coloro che nel Risorgimento fecero proprie le idealità patriottiche furono mossi da un insieme vario di motivazioni sociopolitiche. C’erano ex giacobini ancora attivi, mai dimentichi degli ideali di eguaglianza e di libertà accarezzati in altri, forse più felici, momenti della loro vita. C’erano giovani intellettuali e laureati disoccupati e sottoccupati, che convertirono la loro frustrazione professionale in empito politico-militare. C’erano nobili desiderosi di recuperare, per via indiretta, parte del potere e del prestigio perso con l’abolizione dei privilegi nobiliari, avvenuta in epoca napoleonica, o desiderosi di riscattarsi dalla posizione – talora scomoda – di figli cadetti. C’erano anche molti agiati affittuari, avvocati, professori universitari, proprietari terrieri, che – come le altre categorie «inquiete» – erano desiderosi di contare politicamente più di quanto non fosse concesso loro dalle istituzioni degli stati preunitari. Ma questo elenco di motivazioni e di gruppi socioprofessionali alla fine lascia insoddisfatti, perché non sembra in grado di render conto della dedizione, e talora perfino del fanatismo, con il quale molti militanti risorgimentali combatterono le loro battaglie. Né spiega perché persone molto spesso economicamente e socialmente agiate scegliessero di affrontare pericoli gravi, fino a mettere a repentaglio la propria vita, senza che nessun particolare senso di frustrazione socioeconomica dovesse spingerli per forza proprio in questa direzione. [...] Ma allora come avvenne che un’ideologia come quella nazionale, che doveva superare l’ostacolo dell’esperienza quotidiana di una profonda difformità tra le varie parti della penisola, si affermò con tanta forza da spingere molti nelle sette, nella Giovine Italia, nelle cospirazioni, sulle barricate, o tra i volontari del 1848, del 1859 o del 1860? Ho cercato una risposta esaminando un campione di 33 memorie ed epistolari di uomini e donne del Risorgimento: e se si osserva la questione dalla prospettiva di queste persone, se si ascoltano le loro memorie, le loro parole, bisogna arrivare a concludere che fu l’idea di nazione, così come venne creata da un pugno di intellettuali straordinariamente creativi, a costituire la motivazione fondamentale che li spinse all’azione, e non il tale malessere economico o sociale, o la tale ambizione politica. Ciascuno di questi elementi (malessere e ambizione) avrà sicuramente avuto il suo peso. Ma non sarebbero stati sufficienti a trasformare dei giovani di buona famiglia in «pericolosi terroristi» (così avrebbero potuto esprimersi nei loro riguardi i portavoce dell’establishment preunitario), destinati a morte prematura, o alle prigioni, o all’esilio, se non ci fosse stato qualche cosa di più, se non ci fosse stato un orizzonte ideale capace di scatenare tempeste emotive nella mente e nel cuore. È nella mente e nel cuore di giovani, vissuti nella prima metà del XIX secolo, che si scatenano queste tempeste emotive. È quando si è giovani che si «scopre» la nazione. È da giovani che si abbraccia l’idea di battersi per essa. Chi ha lasciato memorie autobiografiche ha regolarmente accreditato questa immagine di sé, che, d’altra parte, getta luce sull’idea coltivata da Mazzini nel 1831 di proibire l’affiliazione alla Giovine Italia ai maggiori di quarant’anni. Il Risorgimento è un fenomeno generazionale. [...] non intendo dire che la lettura di testi poetici o narrativi fosse l’unico modo per «scoprire» la nazione italiana. È 1 perfettamente nota l’importanza della costituzione o della partecipazione a gruppi settari, o ad iniziative politiche clandestine, di un tipo o di un altro, attività ampiamente descritte anche nella stessa memorialistica risorgimentale. [...] Semmai il punto che mi pare debba essere sottolineato è che dalla memorialistica si ricava l’impressione che l’attimo dell’illuminazione, nel quale i futuri giovani patrioti del Risorgimento «scoprono» la nazione italiana, riescono a figurarsela, capiscono che è per lei che è necessario lottare, anche a rischio della propria vita, scatta quando essi si trovano di fronte a testi che proiettano quell’idea su un piano emotivo e simbolico. Ma quali sono le opere che appartengono a quella costellazione testuale che nell’esperienza di quei lettori che furono anche patrioti contribuì a fondare l’idea di nazione italiana, e che potremmo cominciare a definire come il «canone risorgimentale»? La ricchezza e la relativa precisione dei rimandi contenuti nelle memorie consentono di costruire un primo elenco di testi fondamentali, tutti pubblicati in un arco di tempo compreso tra il 1801 e il 1849. Il catalogo – per così dire – è questo: tra le opere poetiche sono citate le raccolte di Berchet e di Giusti; le poesie patriottiche di Leopardi; Dei Sepolcri, di Foscolo; L’esule, di Giannone; Fratelli d’Italia, di Mameli; Marzo 1821, di Manzoni; e Il Risorgimento, di Poerio. Tra le tragedie, Giovanni da Procida e Arnaldo da Brescia, di Niccolini; Francesca da Rimini, di Pellico; Il conte di Carmagnola e Adelchi, di Manzoni. Tra i romanzi, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, di Foscolo; Platone in Italia, di Cuoco; L’assedio di Firenze, di Guerrazzi; Ettore Fieramosca e Niccolò de’ Lapi, di d’Azeglio. Tra le opere storiche, il Saggio sulla rivoluzione di Napoli del 1799, di Cuoco; la Storia del reame di Napoli, di Colletta; la Storia d’Italia dal 1789 al 1814, la Storia dei popoli italiani e la Storia d’Italia. Continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, di Botta; e La guerra del Vespro siciliano, di Amari. Tra i saggi politici, Del primato morale e civile degli italiani, di Gioberti; e Delle speranze d’Italia, di Balbo. Tra le opere di memorialistica, Le mie prigioni, di Pellico; e le Memorie, di Pepe. Tra i melodrammi, L’assedio di Corinto, Mosè e Guglielmo Tell, di Rossini; Donna Caritea, di Mercadante; Norma, di Bellini; Marin Faliero, di Donizetti; Nabucco, ì Lombardi alla prima crociata, Ernani, Attila, Macbeth e La battaglia di Legnano, di Verdi. Dell’Alfieri «patriottico» è ricordato il Misogallo. In forma generica sono ricordati molte volte gli scritti di Mazzini. L’elenco, non molto sorprendentemente tutto al maschile, è significativo tanto per le inclusioni, quanto per le assenze. Particolarmente evidente l’esclusione dei Promessi Sposi, ovvero del massimo best seller in termini di edizioni e di copie vendute, della narrativa italiana primo ottocentesca. Alcune ragioni possibili di questa esclusione sono molto chiaramente enumerate da Giuseppe Mazzini.[...] Le sue gioie sono gioie di famiglia, i suoi dolori non arrivano fino alla rivolta, le sue espiazioni si compiono sempre attraverso la sottomissione e la preghiera [...] e il suo grido abituale [è]: Volgete i vostri occhi verso il cielo! Ma al di là di questa polemica nei confronti dell’etica della rassegnazione che – per Mazzini, come per altri patrioti – sarebbe propria del romanzo di Manzoni [...], mi pare che il punto fondamentale sia che il tema della nazione – e in particolare della nazione italiana – semplicemente non è al centro della storia manzoniana. Le allusioni a temi suscettibili di interpretazioni patriottiche non mancano, ma sono decisamente incidentali rispetto all’asse principale della narrazione. [...] È così che se ci sono realtà geopolitiche indicate chiaramente, esse riconducono alla realtà degli antichi stati italiani (dello Stato di Milano e della Repubblica di Venezia, in particolare), senza che alcun riferimento diretto parli della comunità nazionale italiana, o dell’appartenenza (o meno) dei personaggi del romanzo a questa comunità: conclusione che fa apparire, alla fine, del tutto ovvia l’assenza dei Promessi Sposi dal «canone risorgimentale». [ALBERTO M. BANTI, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000, pp. 30-49] 2 Tra le opere annoverate da Banti nel «canone risorgimentale», ce ne sono molte presenti in tutte le antologie. Proviamo, da qualche esempio invece meno citato tra i classici, ad estrarre alcuni contenuti ideologici che sicuramente si potranno ritrovare anche nell’analisi di altre opere, anche più note. I. Fratelli d’Italia. La storia reinterpretata Il Canto degli Italiani fu scritto nell’autunno del 1847 dal patriota genovese Goffredo Mameli (1827-1849), morto nella difesa della repubblica romana e fu musicato poco dopo da un suo concittadino, Michele Novaro (1818- 1885): si veda il sito www.quirinale.it/simboli/inno/inno.htm. L’Inno di Mameli divenne inno d’Italia nel 1946, in luogo della Marcia Reale. Il testo rappresenta un’eccezionale sintesi di gran parte dei motivi che ricorrono nel «canone»: l’Italia è una nazione che, dopo le glorie di Roma, è rimasta mortificata nei secoli; gli italiani sono chiamati ora ad un patto di unità, suggellato dal giuramento di dedicare la vita alla conquista della libertà. Fratelli d’Italia L’Italia s’è desta, Dell’elmo di Scipio S’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, Ché schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò. Noi siamo da secoli Calpesti, derisi, Perché non siam popolo, Perché siam divisi. Raccolgaci un’unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme Già l’ora suonò. Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò. Uniamoci, amiamoci, l’Unione, e l’amore Rivelano ai Popoli Le vie del Signore; Giuriamo far libero Il suolo natìo: Uniti per Dio Chi vincer ci può? Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò. Dall’Alpi a Sicilia Dovunque è Legnano, Ogn’uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano, I bimbi d’Italia Si chiaman Balilla, Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò. Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò. Son giunchi che piegano Le spade vendute: Già l’Aquila d’Austria Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, Il sangue Polacco, Bevé, col cosacco, Ma il cor le bruciò. Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L’Italia chiamò. Sottolineiamo i riferimenti storici: l’antica Roma nella prima strofa, con il ricordo di Scipione l’Africano, il vincitore a Zama di Annibale, La Vittoria che si offre alla nuova Italia e a Roma, di cui la dea fu schiava per volere divino, la coorte, cioè la decima parte della legione romana; la Polonia contemporanea nell’ultima, schiacciata dall’Austria e dalla Russia (“il Cosacco”). Soffermiamoci soprattutto sulla penultima strofa in cui una serie di allusioni raccolgono in eccezionale sintesi i luoghi della storia d’Italia più significativamente rivisitati dalla letteratura e dalla storiografia del “canone”: episodi, a volte modesti e ormai non più citati nei manuali, assurgono a dimostrazioni dell’eroismo italiano, reinterpretati come fatti di una storia lunghissima in cui la nazione italiana, anche se “calpesta e derisa”, non ha mancato di far brillare il suo eroismo: Legnano è, come si ricorderà, il luogo dove i Comuni della Lega Lombarda, guidati da Alberto da Giussano, sconfissero Federico Barbarossa (1176); Ferruccio è il capitano Francesco Ferrucci, morto a Gavinana nel 1530, mentre difendeva la Repubblica fiorentina dall’assedio delle truppe di Carlo V. Ferito e catturato, fu finito da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo delle truppe imperiali, al quale avrebbe rivolto morente la celebre espressione infamante “Vile, tu uccidi un uomo morto”; Balilla è il soprannome di Giovan Battista Perasso. Figura storicamente non accertata, secondo la tradizione è il ragazzo che lanciando un sasso contro alcuni dei soldati austriaci che occupavano Genova diede il via alla rivolta, che i genovesi in effetti condussero, contro la coalizione austro-piemontese, nel 1746. L’episodio si inserisce nella guerra di successione austriaca, che vide la Repubblica di Genova alleata con gli Spagnoli e i Francesi contro gli Austriaci e il Regno di Sardegna; Vespri Siciliani è il nome del moto palermitano scoppiato il lunedì di Pasqua del 1282 contro i francesi di Carlo d’Angiò. Il nome deriva dalla tradizione che fa iniziare l’insurrezione in occasione delle funzioni serali (Vespri), allorché, nei pressi della Chiesa dello Spirito Santo, un soldato francese recò offesa ad una donna italiana. Storicamente, l’evento è rilevante per l’intervento degli Aragonesi, che subentrarono in Sicilia agli Angioini. 3 II. La battaglia di Legnano di Giuseppe Verdi (libretto di Salvatore Cammarano): il giuramento La battaglia di Legnano è anche al centro dell’omonima opera del grande compositore Giuseppe Verdi (1813-1901): è un’opera in quattro atti, composta su libretto di Salvatore Cammarano, che fu rappresentata la prima volta al Teatro Argentina di Roma il 27 gennaio 1849, dunque in piena costruzione della Repubblica Romana, con la presenza nel pubblico di Mameli, Mazzini e Garibaldi. È l’opera verdiana per eccellenza patriottica e risorgimentale. Lo scontro degli eroi della Lega Lombarda contro Barbarossa è intersecato con le vicende di amore di Lida, la protagonista femminile dell’opera. Assolutamente “quarantottesca” è la sinfonia, soprattutto per ottoni e percussioni, trionfale il quarto atto e ridotto il ruolo di Barbarossa. Il fremente pubblico di Roma subissò di fischi il cantante che impersonava Barbarossa prima che aprisse bocca e chiese il bis dell’intero ultimo atto. Nel coro del primo Atto non sarà difficile ritrovare diversi temi centrali dell’Inno di Mameli: il giuramento, l’unità, la lotta per la libertà. Scena I Parte della riedificata Milano, in vicinanza delle mura. Da una parte della città s’inoltrano i Militi piacentini, ed alcune centurie di Verona, di Brescia, di Novara e di Vercelli: la contrada è gremita di popolo, come i soprastanti veroni, a cui pendono arazzi variopinti e giulive ghirlande: un grido universale di esultanza, un prolungato batter di palme, ed un nembo di fiori cadente dall’alto sulle squadre attesta le festevoli accoglienze ad esse prodigate. Arrigo è tra i guerrieri veronesi. Coro d’introduzione Coro Viva Italia! Sacro un patto tutti stringe i figli suoi: esso alfin di tanti ha fatto Un sol popolo d’eroi! Le bandiere in campo spiega, o Lombarda invitta Lega, e discorra un gel per l’ossa al feroce Barbarossa. Viva Italia forte ed una colla spada e col pensier! Questo suol che a noi fu cuna, tomba fia dello stranier! III. La donna e il Risorgimento Ne La battaglia di Legnano, il tema bellico è finemente intrecciato con quello amoroso: Lida, la protagonista femminile, moglie dell’eroe milanese Rolando, ritrova nella circostanza la vecchia fiamma, il veronese Arrigo. I due si incontrano in una stanza e Rolando, anche per le trame del prigioniero tedesco Marcovaldo (che Lida aveva respinto), visto il fatto, li chiude dentro. Per non mancare all’imminente battaglia però, Arrigo scappa dalla finestra. Al termine della battaglia (IV atto) egli, morente, farà in tempo a rassicurare l’amico Rolando, abbracciandolo: «Per la salvata Italia […]/ per questo sangue il giuro [...] / siccome è puro un Angelo / il cor di Lida è puro ... » Nell’immaginario risorgimentale dunque, la donna dell’eroe è con la sua purezza lo specchio della purezza della causa nazionale. La famiglia è la cellula di quella famiglia allargata che è la nazione. La difesa dell’onore della donna coincide con la difesa della nazione, come nell’episodio dei Vespri. Verifichiamo queste indicazioni con un impressionante controesempio, tratto dalle poesie di Giovanni Berchet (17831851). Qui la protagonista, in preda al rimorso, è considerata traditrice della causa nazionale per aver sposato un soldato tedesco. È interessante notare come la purezza nazionale sia connotata anche da elementi fisici: la capigliatura bionda del bambino (con una sorta di razzismo rovesciato rispetto a quello che esalta la superiorità del biondo) diventa il simbolo della colpa. 4 IL RIMORSO Ella è sola dinanzi le genti; sola in mezzo dell’ampio convito; né alle dolci compagne ridenti osa intender lo sguardo avvilito. Vede ferver tripudi e carole, ma nessuno l’invita a danzar; ode intorno cortesi parole, ma ver’ lei neppur una volar. - Trista me! qual vendetta di Dio mi cerchiò di caligine il senno, quando por la mia patria in obblio le straniere lusinghe mi fenno? Io, la vergin ne’ gaudi cercata, festeggiata fra l’itale un dì, or chi sono? L’apostata esosa che vogliosa al suo popol mentì. Un fanciullo che madre la dice s’apre il passo, le corre al ginocchio, e co’ baci la lagrima elice che a lei gonfia tremava nell’occhio. Come rosa è fiorente il fanciullo; ma nessuno a mirarlo ristà; per quel pargolo un vezzo, un trastullo, per la madre un saluto non v’ha. Ho disdetto i comuni dolori; ho negato i fratelli, gli oppressi; ho sorriso ai superbi oppressori; a seder mi son posta con essi. Vile! un manto d’infamia hai tessuto: l’hai voluto, sul dosso ti sta; né per gemere, o vil, che farai, nessun mai dal tuo dosso il torrà. Se un ignaro domanda al vicino chi sia mai quella mesta pensosa che sui ricci del biondo bambino la bellissima faccia riposa, cento voci risposta gli fanno, cento scherni gl’ insegnano il ver: - È la donna d’un nostro tiranno, è la sposa dell’uomo stranier.- Oh! Il dileggio di ch’io son pasciuta quei che il versan, non san dove scende. Inacerban l’umil ravveduta che per odio a lor odio non rende. Stolta! Il merto, ché il piè non rattengo, stolta! E vengo e rivelo fra lor questa fronte che d’erger m’è tolto, questo volto dannato al rossor. Ne’ teatri, lunghesso le vie, fin nel tempio del Dio che perdona, in fra un popol ricinto di spie, fra una gente cruciata e prigiona, serpe l’ira d’un motto sommesso che il terrore comprimer non può: - Maladetta chi d’italo amplesso il tedesco soldato beò! Vilipeso, da tutti reietto, come fosse il figliuol del peccato, questo caro, senz’onta concetto, è un estranio sul suol dov’è nato. Or si salva nel grembo materno dallo scherno che intender non sa; ma la madre che il cresce all’insulto forse, adulto, a insultar sorgerà. Ella è sola: ma i vedovi giorni ha contato il suo cor doloroso; e già batte, già esulta che torni dal lontano presidio lo sposo. Non è vero. Per questa negletta è finito il sospiro d’amor: altri sono i pensier che l’han stretta, altri i guai che le ingrossano il cor. E se avvien che si destin gli schiavi a tastar dove stringa il lor laccio; se rinasce nel cor degl’ignavi la coscienza d’un nerbo nel braccio; di che popol dirommi? a che fati gli esecrati miei giorni unirò? Per chi al cielo drizzar la preghiera? Qual bandiera vincente vorrò? Quando l’onte che il di l’han ferita la perseguon, fantasmi, all’oscuro; quando vagan su l’alma smarrita le memorie e il terror del futuro; quando sbalza dai sogni e pon mente come udisse il suo nato vagir; egli è allor che a la veglia inclemente costei fida il secreto martir: Cittadina, sorella, consorte, madre, ovunque io mi volga ad un fine, fuor del retto sentiero distorte stampo l’orme fra i vepri e le spine. Vile! Un manto d’infamia hai tessuto: l’hai voluto, sul dosso ti sta; né per gemere, o vil, che farai, nessun mai dal tuo dosso il torrà. G. BERCHET, Poesie, Laterza, Bari 1941, pp. 39-41. 5 Francesco Hayez, I vespri siciliani, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna. L’opera (1844-1846) è la terza versione dello stesso soggetto data dall’artista. Al centro della scena c’è la donna italiana offesa, col seno scoperto, violato, e circondata dai parenti che esecrano il gesto del soldato francese, con la spada. http://www.gnam.arti.beniculturali.it/opere/HAYEZ.HTM La Meditazione (L’Italia del 1848), 1851 (Civica Galleria d’Arte Moderna, Verona). La figura femminile, pura e bellissima, simboleggia l’Italia. Il libro che tiene in mano, a guisa di Bibbia, in realtà reca la scritta Storia d’Italia; la croce rappresenta il martirio risorgimentale, essendoci impresse le date delle Cinque giornate di Milano. http://www.artonline.it/Img/museum/Hayez/meditazione_g.jpg 6