Per Coopsette la vocazione al “costruire” si accompagna all’ambizione di contribuire a uno sviluppo
equilibrato e alla qualificazione del territorio e degli insediamenti urbani.
Coopsette gestisce i mercati complessi in cui opera come impresa unitaria, agendo secondo la logica
dell’integrazione delle competenze, dei prodotti e dei servizi. Questa è la strategia che l’ha portata ad
essere tra i principali operatori nel mercato dello sviluppo immobiliare: analisi del territorio, ideazione,
promozione, realizzazione, gestione, messa a reddito e collocamento sul mercato di progetti ad elevata
complessità è ciò che la Cooperativa concretizza in ogni suo intervento.
A fronte degli inevitabili cambiamenti di strategia e di posizionamento sul mercato, l’orientamento culturale di Coopsette rimane fondamentalmente lo stesso dalla fondazione: l’impegno a mantenere una forte
incidenza dell’impresa in termini di opportunità di lavoro e di crescita professionale, produzione di valori
tangibili e intangibili nonché utilità sociale nei confronti delle comunità di insediamento.
La missione di Coopsette indica come uno dei principali obiettivi sociali ed imprenditoriali la volontà
di “essere un attore consapevole dello sviluppo sostenibile per gli ambienti sociali e naturali in cui si
opera”.
Per Coopsette, quindi, lo sviluppo sostenibile è una concezione non solo dell’economia, ma anche della
civile convivenza: è radicata da tempo in noi la convinzione che il futuro dell’impresa non possa prescindere dal grado complessivo di cultura espresso dai territori di radicamento.
La cultura rappresenta una risorsa per l’impresa e fare propria tale dimensione non è per Coopsette una
scelta di prestigio, ma un’esigenza imprenditoriale e sociale.
Coopsette ha scelto di svolgere un ruolo attivo nella promozione della cultura, in particolare nelle comunità
e sui territori nei quali svolge la propria attività e dove è insediata storicamente.
Cultura non intesa solo nelle sue accezioni più note (Arte, Musica, Letteratura), ma anche in tutte quelle
azioni ed attività che sono finalizzate ad aumentare il senso civico e lo sviluppo culturale di un Paese,
quali la solidarieà, lo sport, le attività ricreative e di aggregazione.
In questa ottica da anni sosteniamo le attività della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia: promotrice
contemporaneamente della tradizione e della modernità, la Fondazione propone al pubblico opere e rappresentazioni di altissimo livello culturale, contribuendo a diffondere l’identità di Reggio Emilia in Italia
e nel mondo e qualificando altresì l’immagine di tutta l’imprenditoria ad essa collegata.
Il Presidente di Coopsette
Fabrizio Davoli
– Può dirmi la parola d’ordine, gentilmente?
– Fidelio.
– Giusto, signore. Questa è la parola d’ordine per entrare.
Ma ora vorrei sentire quella per partecipare.
– La parola d’ordine per partecipare?... Mi rincresce,
io... io... temo... di averla dimenticata.
– Questo è spiacevole. Perché qui non ha importanza
se uno l’ha dimenticata... o non l’ha mai saputa!
Gentilmente, si tolga la maschera.
(da Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick)
collana libri all’opera
l’opera 2008
Teatro Municipale Valli, 6 e 8 aprile 2008
Ludwig van Beethoven
Fidelio op. 72
Oper in zwei Aufzügen von Joseph Sonnleithner und Georg Friedrich Treitschke / nach Jean-Nicolas Bouilly
Ed. Bärenreiter Verlag, Kassel (Edizione critica di H.Lüning e R. Didion)
Rappresentante per l’Italia, Casa Musicale Sonzogno di Piero Ostali, Milano
Libro programma a cura di Roberto Fabbi e Mario Vighi
Edizioni del Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia
SECONDA RISTAMPA
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2008
Ufficio stampa, comunicazione e promozione
In redazione: Lorenzo Baldini, Veronica Carobbi, Francesca Severini
Fotografie del montaggio e delle prove: Alfredo Anceschi
L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti di
riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
Indice
Notizie
15
Pillole. La vicenda. Il compositore. I librettisti.
Disco-videografia selezionata. Il Fidelio in Italia
Il libretto
Personaggi e ruoli vocali
Atto primo / Erster Aufzug
Atto secondo / Zweiter Aufzug
33
35
59
Saggio
Fidelio, opera politica di Esteban Buch
77
Documenti
Il Fidelio attraverso le lettere di Beethoven
97
La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione di Hannah Arendt107
14
Notizie
Pillole
Léonore ou L’amour conjugal; fait historique espagnol en deux actes di Jean-Nicolas Bouilly
– il testo teatrale da cui verrà ricavato il libretto del Fidelio – è basato su fatti realmente
accaduti cui lo stesso Bouilly prese parte, e che narra, probabilmente indulgendo in parte
all’intrigo romanzato, nelle sue memorie.
Dapprima royaliste, poi repubblicano, nel 1793 Bouilly accettò di essere inviato a Tours
come pubblico accusatore dei controrivoluzionari della Vandea. Fra costoro, ebbe il
dispiacere di trovare incarcerato il vecchio amico conte René de Semblancy. Deciso a
salvarlo riuscì, con la connivenza del carceriere Pujol, a introdurre nel carcere la moglie
del recluso, Madame Blanche, travestita da contadina, ma il tentativo di evasione fallì.
Nel frattempo – a causa delle atrocità commesse contro i vandeani dalla feroce repressione del radicalista Jean Baptiste Carrier – Robespierre convoca quest’ultimo e ordina
di allentare la repressione; in virtù di questi fatti si profila, inaspettata, la liberazione di
Semblancy. Non appena Carrier lo apprende, torna a Tours per eliminarlo e, mentre si
appresta a pugnalarlo, Madame Blanche lo ferma impugnando una pistola. L’inviato di
Robespierre, Saint-Andrée, conduce Carrier a Parigi sotto scorta.
* * *
Quando, nel 1797, Bouilly s’appresta a scrivere Léonore, i fatti sono recentissimi, sicché,
ad evitare complicazioni, sposta l’azione nella Spagna del Seicento e cambia i nomi dei
personaggi: Semblancy diviene Florestan; Carrier, Pizarro; Pujol, Rocco; Blanche, Leonore; Saint-André, Fernando.
* * *
La gestazione del Fidelio fu assai accidentata. Il libretto ebbe problemi con la censura
ancora a un mese della data prevista per la prima rappresentazione – il 20 novembre
1805 al Theater an der Wien – e quando questa ebbe luogo, Vienna era stata occupata
dai Francesi la settimana precedente. L’aristocrazia si era rifugiata nelle residenze
di campagna e il pubblico, comunque scarso, era composto in gran parte da militari
dell’esercito invasore, che non capiva i dialoghi in tedesco. In queste condizioni non
poteva certo determinarsi un successo e, per giunta, la critica giornalistica giudicò troppo
elaborata la musica.
* * *
15
Stephan von Breuning, convinto del valore dell’opera, rimaneggiò il libretto riducendo
l’azione a due atti e tagliando o sfrondando alcune parti. Questa nuova versione, per la
quale Beethoven scrisse una nuova ouverture, venne rappresentata il 29 marzo 1806
nello stesso teatro, con buon successo anche di critica. In effetti Napoleone nel dicembre
1805 si era ritirato da Vienna e la partecipazione alla vita cittadina, anche culturale, era
ripresa. Ma il travaglio del Fidelio era destinato a non finire qui.
* * *
In sèguito a dissapori di natura economica con l’impresario teatrale Von Braun, Beethoven
ritira la partitura e le repliche dell’opera subiscono una lunga interruzione. Nel 1810 Fidelio viene dato alle stampe (nella versione accorciata). In sèguito i due originali autografi
vengono smarriti, o rubati, così quando nel 1814 si presenta a Beethoven l’opportunità
di rimaneggiare l’opera per la terza volta, egli ha a disposizione soltanto la versione
stampata. È in questa fase che interviene il librettista Treitschke: alleggerisce il primo
atto, riplasma i due finali, reintegra alcuni elementi sfrondati da Von Breuning; mentre
Beethoven riscrive per la quarta volta l’ouverture (oltre alle due versioni precedenti, una
primissima era stata scartata ancor prima di giungere all’esecuzione pubblica).
* * *
Il tempo è poco e Beethoven non finisce la nuova ouverture in tempo per la “prima”, il
23 maggio 1814 al Theater am Kärtnertor, per la quale ci si avvarrà di un’ouverture di
ripiego: Die Ruinen von Athen. È solo tre giorni dopo, alla seconda rappresentazione che
finalmente Fidelio va in scena con la sua ouverture, ottenendo il meritato successo, nella
versione definitiva che oggi conosciamo.
La vicenda
Atto primo. Cortile della prigione di Stato.
Marzelline, figlia del carceriere Rocco, è corteggiata dal giovane secondino Jaquino,
che non vuol capacitarsi dell’improvviso mutamento dei sentimenti della fanciulla. Ella
infatti non lo prende più in considerazione da quando Fidelio ha cominciato a lavorare
nel carcere. Questi è in realtà Leonore, moglie di Florestan, che sta cercando il marito
misteriosamente scomparso nel carcere governato da Pizarro, suo nemico politico. Per
penetrarvi si è travestita e ha conquistato la fiducia di Rocco. Marzelline è dunque innamorata di Fidelio e sogna di sposarlo. Rocco, che fraintende lo zelo di Fidelio nelle
mansioni più dure come un segno d’amore per Marzelline, considera ormai promessi
sposi i due giovani, e raccomanda loro l’importanza del denaro.
Fidelio si offre di aiutare Rocco anche nei sotterranei (dove ella sospetta che possa trovarsi
Florestan). Il carceriere accoglie con favore le profferte d’aiuto del giovane e si impegna
a chiederne l’autorizzazione al governatore del carcere, Pizarro.
Intanto quest’ultimo riceve un dispaccio che lo avvisa dell’imminente ispezione del mi16
nistro in merito alla detenzione senza giusta causa di alcuni carcerati. Pizarro, allarmato,
decide dunque di uccidere il “prigioniero speciale” – null’altri che Florestan – nascosto
nei sotterranei, pregustando la vendetta e l’assassinio. Ordina a Rocco di scavare la
fossa per il misterioso prigioniero, che il governatore stesso ucciderà di propria mano.
Leonore ha ascoltato di nascosto il dialogo, inorridisce, ma presto si fa coraggio e passa
all’azione. Convince Rocco a concedere ai prigionieri un’uscita nel cortile. Felici di
trovarsi all’aperto, i carcerati intonano un coro di elogio della libertà.
Rocco ritorna recando buone notizie: Pizarro gli ha accordato il permesso di portare
Fidelio nella cella del prigioniero misterioso. Giunge Pizarro, furioso per l’iniziativa di
Rocco, ma questi stempera la sua ira ricordandogli che è grazia dovuta ai prigionieri una
libera uscita nel giorno dell’onomastico del re. Pizarro ordina astiosamente il rientro in
cella dei carcerati, che mesti si congedano.
Atto secondo. Oscuro carcere sotterraneo.
Florestan, incatenato, maledice l’oscurità e lamenta la felicità perduta; tuttavia è serenamente consapevole di aver fatto il proprio dovere. La visione di Leonore come angelo
liberatore lo rinfranca, poi, esausto per la durezza della detenzione, sviene. Sopraggiungono Rocco e Leonore/Fidelio per preparare la tomba di Florestan in una cisterna
abbandonata. Florestan si riprende, interroga Rocco, e viene riconosciuto da Fidelio, che
ancora non può rivelarsi ma lo conforta con pane e vino.
Pizarro entra e si rivela a Florestan, che lo fronteggia sprezzante. Nel momento in cui
il governatore estrae il pugnale per compiere il suo delitto, Leonore si interpone e si fa
riconoscere. Superata la sorpresa, Pizarro vorrebbe uccidere entrambi, ma Leonore lo
ferma puntandogli contro
una pistola. Si odono squilli di tromba che annunciano l’arrivo del ministro. Pizarro, seguito da Rocco, va a riceverlo. Rimasti soli, Leonore e Florestan, al colmo della felicità,
celebrano il loro ricongiungimento.
Piazza di parata del carcere.
Cittadini e prigionieri sono riuniti per celebrare il ministro Don Fernando, che reca ai
carcerati un messaggio di giustizia e fratellanza. Rocco richiama la sua attenzione sulla
sorte di Florestan, che Fernando riconosce con stupore come il caro amico da tempo
creduto morto. Il ministro ordina dunque l’arresto di Pizarro. A Leonore stessa è concesso il privilegio di togliere le catene al marito. Tutti i presenti partecipano alla gioiosa
celebrazione finale delle virtù di Leonore.
Il compositore
Ludwig van Beethoven nasce il 17 dicembre 1770 a Bonn, ma ha origini fiamminghe.
Fu il nonno Ludwig senior, anche lui musicista, a trasferirsi in Germania per lavorare
come Kapellmeister alla corte del principe elettore. Anche il padre Johann fu musicista,
17
benché mediocre. Questi sposò Maria Magdalena Keverich Laym, figlia del capo cuoco
alla corte del principe elettore di Treves, ebbero molti figli, ma solo tre sopravvissero,
Ludwig e i suoi due fratelli.
Ludwig non riceve un’educazione formale, studia inizialmente con il padre, poi con
Christian Gottlieb Neefe, organista di corte. Il desiderio di Johann è di avere per figlio
un bambino prodigio, come Mozart: a undici anni Beethoven è già in grado di sostituire
Neefe, a dodici anni pubblica alcune sue brevi musiche. Nel 1783 Neefe aiuta Beethoven
a pubblicare la sua prima composizione di una certa ambizione, le Variazioni su una
marcia di Daressler.
In questi anni Bonn è una città in crescita, culturamente viva, che ospita numerose
compagnie operistiche. Grazie a questa circostanza, Beethoven ha l’opportunità di venire
a contatto con le opere di molti compositori. Nel 1784 la corte vanta un’orchestra di 31
membri; a 14 anni Ludwig entra a farne parte come violista e in seguito viene nominato
sostituto dell’organista di corte.
Beethoven riceve riconoscimenti per il suo talento e nel 1787 si reca a Vienna per studiare
con Mozart. Questi riconosce il talento del giovane, ma le lezioni non durano a lungo a
causa della morte del padre di Mozart. Nello stesso periodo la madre di Beethoven si
ammala gravemente, Ludwig è costretto a tornare a Bonn, dove assiste alla sua morte.
Ora si ritrova con la famiglia sulle spalle, causa l’alcoolismo e l’inettitudine del padre.
Dà lezioni ai figli del cancelliere Joseph von Breuning, attività che lo mette in contatto
con un ambiente elevato, gli consente di affinare i modi e gli apre altre opportunità di
insegnamento. È per questa via che viene a contatto con il Conte Ferdinand von Waldstein,
appassionato di musica e generoso mecenate di Beethoven. In sèguito gli verrà dedicata
la celeberrima Sonata per pianoforte “Waldstein” (op. 53).
A 22 anni Beethoven torna a Vienna, dove riceve lezioni da Franz Joseph Haydn, il più
influente compositore dell'epoca, e da Antonio Salieri, per la composizione vocale.
Beethoven si esibisce pubblicamente per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 29 e
30 marzo 1795 in occasione di un concerto di beneficenza. Successivamente si esibisce
al pianoforte in occasione di un grandioso evento musicale promosso da Haydn alla
Redoutensaal. Il 17 ottobre 1795 pubblica la sua “opera prima”, i Tre trii con pianoforte
op. 1.
Nel 1799 dedica la Sonata per pianoforte op. 13, “Patetica”, al Principe Karl Lichnowsky
che si era prodigato come protettore del compositore. Negli anni seguenti Beethoven è a
Berlino e a Praga, dove dà molti concerti. Nel 1800 presenta i suoi due primi Concerti
per pianoforte, il Settimino e la Sinfonia n. 1; nel 1801 la Sonata per pianoforte “Al
chiaro di luna”.
Già prima dell’anno 1800 Beethoven si era reso conto che stava diventando sordo e per
molto tempo tenne nascosto questo fatto; nel 1801 riuscì a confidare il suo segreto ad
alcuni amici. Le sue condizioni peggioravano e nel 1802 scrisse il cosiddetto testamento
di Heiligenstadt, indirizzato ai suoi fratelli e rinvenuto soltanto dopo la sua morte, in
18
cui rivela le sofferenze sopportate in silenzio. Fra il 1802 e il 1804 scrive le Sinfonie n.
2 e n. 3 “Eroica”; quest’ultima è il primo dei suoi capolavori sinfonici e costituisce uno
dei segni del cosiddetto "secondo stile" della produzione di Beethoven, più distante dai
modelli di Haydn e Mozart ed enormemente più avanzato nella complessità formale.
L’unica opera per il teatro di Beethoven venne rappresentata per la prima volta nel 1805,
con il titolo di Leonore, ma fu soggetta a ripetute elaborazioni, fino alla versione definitiva del 1814, con il nuovo titolo di Fidelio. Vi si trattano i grandi temi della libertà,
della giustizia e dell'eroismo, mentre nell’eroina Leonore si può intravedere l’immagine
idealizzata che Beethoven aveva della femminilità.
Beethoven non si sposò mai. Frequentando da insegnante l’aristocrazia, non ebbe modo,
in quel mondo, di imbattersi molto spesso nel proprio ideale di donna. Con due eccezioni,
note attraverrso le lettere: l’“immortale amata” (forse la Contessa Guicciardi) e la Contessa
Josephine von Brunswig. Di quest'ultima Beethoven fu profondamente innamorato, ma
la relazione non andò oltre lo stadio dell'amicizia intima.
Fra il 1807 e il 1812 la produzione musicale di Beethoven è molto intensa: scrive la
sequenza vertiginosa delle Sinfonie dalla n. 5 alla n. 8; i Concerti per pianoforte n. 4 e n.
5; il Concerto per violino, diversi Quartetti e Sonate per pianoforte (la “Waldstein” op. 53,
l’Appassionata op. 57, fra le altre). Insomma, Beethoven si impone definitivamente come
il compositore più importante del suo tempo. L’ultima apparizione pubblica di Beethoven
al pianoforte risale all’aprile 1814, quando esegue il Trio con pianoforte op. 97.
Nel 1815 muore il fratello di Beethoven, Caspar Anton Carl. Questi aveva nominato la
moglie Johanna e Ludwig tutori del figlio di otto anni, Karl, ma Beethoven porta la donna
in tribunale accusandola di immoralità per ottenere la custodia esclusiva del bambino. Nel
1820 Beethoven vince la causa; il rapporto con il nipote sarà punteggiato di discussioni
continue, sospeso fra dispotismo e affetto. La seconda metà degli anni Dieci è anche un
periodo di ridotta produttività.
Intorno al 1820 prende il via l'ultima, straordinaria, fase creativa di Beethoven, detta
anche “terzo periodo”. La Sonata op. 106 “Hammerklavier” ne è una sorta di anteprima.
Segue una serie di capolavori di portata innovativa quasi incredibile, a maggior ragione
se si considera che all'epoca il loro autore ha perduto l'udito pressoché completamente:
la Missa Solemnis; la Nona Sinfonia; le Sonate per pianoforte opp. 109, 110 e 111; le
Variazioni Diabelli. Il Principe Nikolaj Golitsin gli commissiona tre quartetti; finisce,
fra il 1822 e il 1826, per comporne cinque (opp. 127, 130, 131, 132, 135, più la Grande
Fuga op. 133), considerati ancora oggi fra le musiche più profonde, radicali, complesse
e cariche di conseguenze che siano mai state scritte.
Quest'ultimo periodo è segnato dalla difficoltà di pubblicare musiche ritenute troppo
“difficili”. Grazie allo sforzo di alcuni ammiratori viennesi, vengono eseguite la Missa
Solemnis e la Nona: è un grande successo. Si dice che non potendo più udire gli applausi,
Beethoven fosse costretto a farsi un'idea delle reazioni del pubblico guardandolo.
Nel 1826 prende la polmonite, aggravata, causa il consumo eccessivo di alcool, da it19
terizia e idropisia. Le sue condizioni di salute peggiorano ulteriormente e per far fronte
alla situazione, il 6 marzo 1827 scrive alla London Philharmonic Society chiedendo di
organizzare un concerto a proprio beneficio. La Society mostra disponibilità e gli invia un
anticipo di 100 sterline per coprire le spese mediche. A metà marzo i medici dichiarano
che al compositore resta poco da vivere, così questi firma il testamento nel quale lascia
tutto al nipote. Dopo un breve coma, Beethoven muore il 26 marzo 1827 alle 17.30. Viene
sepolto nel cimitero di Währing. Al funerale partecipano più di 10.000 persone, presenti
Schubert, Hummel, Kreutzer e Grillparzer, che ha composto l'orazione funebre.
I librettisti
Joseph von Sonnleithner (Vienna, 3 marzo 1766 - 25 dicembre 1835)
Figlio del compositore Christoph von Sonnleithner, è personaggio fra i più attivi della vita
musicale e teatrale viennese. Redattore dal 1794 al 1796 del “Wiener-Theateralmanach”,
è fra i fondatori della Gesellschaft der Musikfreunde (1812) e del Conservatorio associato
alla Gesellschaft (1817). Fino al 1814 occuperà inoltre la carica di segretario dei Teatri
di Corte viennesi. Amico di Schubert e del nipote Grillparzer, progetta con Johann Forkel
una storia della musica in più volumi, che tuttavia non vedrà mai la luce. Sonnleithner
ha scritto e tradotto diversi libretti d’opera per Cherubini, Seyfried, Weigl e Gyrowetz,
ma il suo contributo librettistico più noto rimane l’adattamento della Léonore di Bouilly
per Beethoven: nonostante si tratti sostanzialmente di una traduzione, nella versione
di Sonnleithner trovano spazio diversi numeri aggiuntivi che permettono a Beethoven
di dar vita ad alcune delle sue pagine musicali più ispirate già nella prima versione
dell’opera, nonostante molti critici abbiano spesso attribuito l’iniziale insuccesso del
Fidelio proprio al libretto. Anche il libretto per Faniska di Cherubini (1806) ha a sua
volta ricevuto aspre critiche: eppure sia Haydn che Beethoven erano entusiasti estimatori
di questo lavoro. Strenuo patrono delle attività musicali per tutta la sua vita, all’atto della
sua morte Sonnleithner arricchirà l’archivio della Gesellschaft e del Conservatorio con
il prezioso lascito della sua collezione di strumenti musicali, di materiale librettistico e
della sua biblioteca personale.
Stephan von Breuning (Bonn, 17 agosto 1774 - Vienna, 4 giugno 1827)
Amico d’infanzia di Beethoven, si applica alla musica in giovinezza per poi dedicarsi
allo studio della giurisprudenza prima a Bonn e successivamente a Göttingen. Stabilitosi
a Vienna attorno al 1800, entra a far parte del consiglio di guerra nel 1817 e nel 1818
diviene consigliere di corte. In seguito al fiasco della prima rappresentazione del Fidelio,
Breuning avrà un peso fondamentale nella revisione del libretto. Nonostante alcuni dei
suoi interventi si possano considerare brutali, a lui si deve il rimedio a uno dei peggiori
momenti del libretto: il primo atto, lento e povero d’eventi. Von Breuning morirà pochi
20
mesi dopo Beethoven. Suo figlio Gerhard (1813-1892), costante compagno di Beethoven
nel corso della sua malattia finale, pubblicherà un memoriale, Aus dem Schwarzspanierhause (Dalla casa degli spagnoli neri, Vienna, 1874), che resta tuttora la più preziosa
testimonianza sugli ultimi mesi di vita del grande compositore.
Georg Friedrich Treitschke (Lipsia, 29 agosto 1776 - Vienna, 4 giugno 1842)
Giunto a Vienna nel 1800 per intraprendere la carriera di attore presso la Hofoper, nel
giro di due anni ne diviene poeta ufficiale e direttore di palcoscenico. Durante l’invasione
francese del 1809 ottiene l’incarico di impresario del Theater an der Wien, dove rimarrà
fino al 1814 (nonostante il suo reincarico alla Hofoper nel 1811).
Nel corso della vita, Treitschke scrive, traduce e revisiona svariati libretti d’opera e
Singspiel per le scene viennesi. Nel 1814 è Beethoven a chiedergli di porre mano al
libretto del Fidelio per la terza e ultima revisione dell’opera: Treitschke accetta e coglie
l’occasione per redigere un sostanzioso memoriale di quanto riesce a vedere nel corso delle
prove. Le sue modifiche al libretto spostano l’accento dal dramma personale di Leonore e
Florestan a un dilemma morale di portata universale. Fra le opere francesi da lui tradotte
figurano Medée e Les deux journées di Cherubini (divenuta Der Wasserträger) e diverse
altre di Spontini, Isouard e Boïeldieu, per non parlare delle sue traduzioni dell’Idomeneo
(1806) e di Così fan tutte (divenuta Die Zauberprobe, 1814) di Mozart. Alle professioni di
librettista e impresario Treitschke affiancherà un’intensa attività di entomologo, che vede
il suo culmine nel completamento del trattato Die Schmetterlinge von Europa (Le farfalle
d’Europa), la cui stesura aveva avuto inizio nel 1825 con Ferdinand Ochsenheimer.
Disco-videografia selezionata
1944 Rose Bampton, Jan Peerce, Herbert Janssen, Eleanor Steber, Nicola Moscona. Direttore
Arturo Toscanini, NBC Symphony Orchestra. Ried. cd IDI 2004.
1953 Martha Mödl, Wolfgang Windgassen, Otto Edelmann, Gottlob Frick. Direttore Wilhelm
Furtwängler. Wiener Staatsopernorchester. Ried. cd Andante 2005.
1956 Birgit Nilsson, Hans Hopf, Gottlob Frick, Paul Schöffler, Ingeborg Wenglor, Gerhard Unger.
Direttore Erich Kleiber. WDR Sinfonieorchester Köln. Ried. cd Urania, 2006.
1957 Leonie Rysanek, Ernst Haefliger, Dietrich Fischer-Dieskau, Gottlob Frick. Direttore Ferenc
Fricsay. Orchester der Bayerischen Staatsoper. Ried. cd Deutsche Grammophon 1998.
1962 Christa Ludwig, Jon Vickers, Walter Berry, Gottlob Frick. Direttore Otto Klemperer. Philharmonia Orchestra. Ried. cd EMI 2000.
1969 Gwyneth Jones, James King, Theo Adam, Edith Mathis, Franz Crass. Direttore Karl Böhm.
Staatskapelle Dresden. Ried. cd Deutsche Grammophon 2005.
1970 Helga Dernesch, Jon Vickers, Zoltán Kelemen, Karl Ridderbusch. Direttore Herbert von
Karajan. Berliner Philharmoniker. Ried. cd EMI 1988.
1978 Gundula Janowitz, René Kollo, Hans Sotin, Dietrich Fischer-Dieskau, Manfred Jungwirth.
21
Direttore Leonard Bernstein. Wiener Philharmoniker. Ried. cd Deutsche Grammophon 1990.
1979 Hildegard Behrens, Peter Hoffmann, Theo Adam, Hans Sotin. Direttore Georg Solti. Chicago
Symphony Orchestra. Ried. cd Polygram 1997.
1996 (Prima versione) Hillevi Martinpelto, Kim Begley, Matthew Best, Franz Hawlata. John Eliot
Gardiner. Orchestre Révolutionnaire et Romantique. Cd Archiv 1996.
1996 Deborah Voigt, Ben Heppner, Michael Schade, Matthias Holle, Elisabeth Norberg-Schulz,
Gunter von Kannen, Thomas Quasthoff. Direttore Colin Davis. Symphonieorchester des Bayerischen
Rundfunks. Cd BMG 1996.
2000 Waltraud Meier, Placido Domingo, Kwangchul Youn, Falk Struckmann, Rene Pape, Soile
Isokoski. Direttore Daniel Barenboim. Staatskapelle Berlin. Cd Teldec 2000.
2003 Angela Denoke, Jon Villars, Alan Held, László Polgár. Direttore Simon Rattle. Berliner
Philharmoniker. Cd EMI 2003.
1978 Gundula Janowitz, René Kollo, Hans Sotin, Manfred Jungwirth. Direttore Leonard Bernstein.
Chor und Orchester der Wiener Staatsoper. Ried. in dvd Deutsche Grammophon 2007.
1979 Elisabeth Söderström, Michael Langdon, Anton De Ridder, Elizabeth Gale, Curt Appelgren.
Direttore Bernard Haitink. London Philharmonic Orchestra. Ried. in dvd Arthaus 2006.
1991 Gabriela Benacková, Hans Tschammer, Joseph Protschka, Robert Lloyd, Neill Archer.
Direttore Christoph von Dohnányi, Royal Opera House Orchestra. Ried. in dvd Image 2001.
2002 Karita Mattila, Ben Heppner, René Pape, Matthew Polenzani, Falk Struckman, Jennifer
Welch-Babidge. Direttore James Levine. Metropolitan Opera Orchestra. Dvd Deutsche Grammophon 2003.
2005 Camilla Nylund, Jonas Kaufmann, László Polgar, Christoph Strehl. Direttore Nikolaus
Harnoncourt. Chor und Orchester des Opernhaus Zürich. Dvd TDK 2005.
Il Fidelio in Italia Cronologia a cura di Lorenzo Baldini
Note aggiunte su Reggio Emilia a cura di Francesco G. Sassi
Sequenza dei personaggi: Leonore, Marzelline, Florestan, Pizarro, Rocco, Don Fernando, Jaquino.
15 maggio 1883, Milano, Teatro Dal Verme Hedwig Reicher Kindermann, Augusta Kraus,
Anton Schott, Franz Krüchl, Joseph Chaudon, [n.i.], Julius Lieban. Direttore Anton Seidl. Regia
[n.i.].
4 febbraio 1886, Roma, Teatro Apollo Emma Wiziak, Virginia Mastrelli, Eugenio Caylus,
Gino Berenzone, Enrico Jorda, Antonio Riva, Enrico Scarabelli. Direttore Edoardo Mascheroni.
Regia [n.i.].
11 febbraio 1927, Torino, Teatro Regio Eva Turner, Rosina Torri, Ettore Cesa Bianchi,
Vilem Zitek, Vincenzo Bettoni, Ernesto Dominici, Luigi Cilla. Direttore Gino Marinuzzi. Regia
Giovacchino Forzano.
7 aprile 1927, Milano, Teatro alla Scala Elisabeth Ohms Pasetti, Ines Maria Ferraris,
Francesco Merli, Benvenuto Franci, Vincenzo Bettoni, Salvatore Baccaloni, Luigi Nardi. Direttore
Arturo Toscanini. Regia Ernst Lert.
18 novembre 1927, Milano, Teatro alla Scala Elisabeth Ohms Pasetti, Ines Maria Ferraris,
Francesco Merli, Luigi Rossi Morelli, Vincenzo Bettoni, Salvatore Baccaloni, Luigi Nardi. Direttore
Arturo Toscanini. Regia Ernst Lert.
23 marzo 1929, Roma, Teatro Reale dell’Opera Iva Pacetti, Laura Pasini, Ettore Cesa
Bianchi, Benvenuto Franci, Giulio Cirino, Giacomo Vaghi, Luigi Nardi. Direttore Gino Marinuzzi.
Regia Vincenzo Sorelli.
19 aprile 1930, Firenze, Politeama Fiorentino Eva Turner, Laura Pasini, Silvio Costa Lo
Giudice, Umberto Di Lelio, Giulio Cirino, Giulio Tomei, Alfredo Mattioli. Direttore Vittorio Gui.
Regia [n.i.].
2 febbraio 1937, Genova, Teatro Carlo Felice Iva Pacetti, Laura Pasini/Liana Grani, Silvio
Costa Lo Giudice, Luigi Rossi Morelli, Giulio Cirino, Nicola Rakowski, Alfio Tedesco. Direttore
Vittorio Gui. Regia Filippo Dadò.
27 settembre 1938, Roma, Studi EIAR (In forma di concerto) Iva Pacetti, Diana Micelli,
Aurelio Marcato, Benvenuto Franci, Vincenzo Bettoni, Giulio Tomei, Luigi Nardi. Direttore Gino
Marinuzzi.
22 marzo 1939, Milano, Teatro alla Scala Iva Pacetti, Ines Alfani Tellini, Giovanni Voyer,
Luigi Rossi Morelli, Vincenzo Bettoni, Nicola Moscona, Adelio Zagonara. Direttore Wilhelm
Sieben. Regia Mario Frigerio.
11 aprile 1940, Palermo, Teatro Massimo Germana Di Giulio, Diana Micelli, Giovanni
Voyer, Luigi Rossi Morelli, Vincenzo Bettoni, Dante Sciacqui, Nino Mazziotti. Direttore Mario
Cordone. Regia Romolo Gismondi.
5 marzo 1941, Roma, Teatro Reale dell’Opera Martha Fuchs, Carla Spletter, Franz Völker,
Jaro Prohaska, Josef von Manowarda, Walter Grossmann, Erich Zimmermann. Direttore Robert
Heger. Regia Edgar Klitsch.
1 maggio 1942, Firenze, Teatro Comunale Martha Fuchs, Elfriede Trötschel, Hans Grahl, Josef
Hermann, Kurt Böhme, Gottlob Frick, Karl Wessely. Direttore Karl Böhm. Regia Max Hofmüller.
9 novembre 1946, Roma, Teatro Quirino Lidia Cremona, Angelica Tuccari, Alvinio Misciano,
Edwin Frank Edwinn, Boris Christoff, Michael Tor, Manfredi Ponz de Leon. Direttore Francesco
Mander. Regia Acli Carlo Azzolini.
17 aprile 1947, Bologna, Teatro Comunale Carla Castellani, Magda Fulli, Giovanni Voyer,
Antenore Reali, Vincenzo Bettoni, Gino Belloni, Alfredo Mattioli. Direttore Paul van Kempen.
Regia Giuseppe Marchioro.
6 gennaio 1948, Napoli, Teatro di San Carlo Carla Castellani, Magda Fulli, Giovanni Voyer,
Antenore Reali, Vincenzo Bettoni, Iginio Riccò, Juan Oncina. Direttore Jonel Perlea. Regia Enrico
Frigerio.
18 dicembre 1948, Trieste, Teatro Verdi Carla Castellani, Magda Fulli, Harry Korhonen,
Antenore Reali, Vincenzo Bettoni, Mario Tommasino, Angelo Mercuriali. Direttore Jonel Perlea.
Regia Hans Duhan.
31 gennaio 1949, Milano, Teatro alla Scala Delia Rigal, Hilde Güden, Mirto Picchi, Giuseppe
Taddei, Boris Christoff, Dario Caselli, Angelo Mercuriali/Mario Carlin. Direttore Jonel Perlea.
Regia Oskar Fritz Schuh.
14 febbraio 1950, Venezia, Teatro La Fenice Delia Rigal, Ornella Rovero, Mirto Picchi,
Armando Dadò, Boris Christoff, Ernesto Dominici, Wladimiro Badiali. Direttore Vittorio Gui.
Regia Giuseppe Marchioro.
20 febbraio 1951, Roma, Teatro dell’Opera Christel Goltz, Emmy Loose, Julius Patzak,
Hermann Uhde, Kurt Böhme, Armin Weltner, Murray Dickie. Direttore Karl Elmendorff. Regia
Elisabeth Wöhr.
11 aprile 1951, Napoli, Teatro di San Carlo Dorothy Dow, Ornella Rovero, Peter Anders,
Piero Guelfi, Mario Petri, Iginio Riccò, Wladimiro Badiali. Direttore Ferenc Fricsay. Regia B[?].
Horowicz.
9 gennaio 1952, Milano, Teatro alla Scala Martha Mödl, Lisa Della Casa, Wolfgang Windgassen, George London, Otto Edelmann, Hermann Uhde, Erich Maykut. Direttore Herbert von
Karajan. Regia Herbert von Karajan.
27 gennaio 1952, Roma, Auditorium RAI (In forma di concerto) Gré Brouwenstijn, Graziella
Sciutti, Amedeo Berdini, Antonio Mancaserra, Sesto Bruscantini, Plinio Clabassi, Wladimiro
Badiali. Direttore Vittorio Gui.
21 marzo 1955, Cagliari, Teatro Massimo Dorothy Dow, Antonietta Pastori, Mirto Picchi,
Piero Guelfi, Paolo Montarsolo, Ivan Sardi, Rodolfo Moraro. Direttore Jonel Perlea. Regia [n.i.].
22 dicembre 1955, Roma, Auditorium RAI (In forma di concerto) Dorothy Dow, Irene
Gasperoni Fratiza, Amedeo Berdini, Giuseppe Taddei, Boris Christoff, Franco Calabrese, Nicola
Monti. Direttore Mario Rossi.
13 aprile 1957, Roma, Teatro dell’Opera Birgit Nilsson, Lore Wissmann, Sebastian Feiersinger, Gustav Neidlinger, Ludwig Weber, Alfred Poell, Gerhard Unger. Direttore André Cluytens.
Regia Elisabeth Wöhr.
22 dicembre 1957, Roma, Auditorium RAI (In forma di concerto) Leonie Rysanek, Elisabeth
Lindermeyer, Hans Hopf, Ferdinand Frantz, Ludwig Weber, Hans Braun, Murray Dickie. Direttore
Eugen Jochum.
25 maggio 1960, Firenze, Teatro della Pergola Inge Borkh, Hanny Steffek, Ernst Kozub,
Gustav Neidlinger, Arnold van Mill, Alfons Holte, Willy Brockmeyer. Direttore Alexander Krannhals. Regia Frank de Quell.
17 dicembre 1960, Milano, Teatro alla Scala Birgit Nilsson, Wilma Lipp, Jon Vickers,
Hans Hotter, Gottlob Frick, Franz Crass, Gerhard Unger. Direttore Herbert von Karajan. Regia
Paul Hager.
10 gennaio 1962, Parma, Teatro Regio Ingeborg Exner, Ursula Kerp, Sebastian Feiersinger, Tomislav Neralic, Peter Lagger, Heinz Borst, Georg Koch. Direttore Arthur Apelt. Regia Frank de Quell.
* 13 gennaio 1962, Reggio Emilia, Teatro Municipale Ingeborg Exner, Ursula Kerp, Sebastian Feiersinger, Tomislav Neralic, Peter Lagger, Heinz Borst, Georg Koch. Maestro del Coro
M. Tagini. Direttore Arthur Apelt. Regia Frank de Quell.
* Dallo
stesso testo
testo teatrale di
Bouilly è tratta
la Leonora di
Fernando Paër
(Dresda, 1804).
Al Teatro
Municipale di
Reggio Emilia
quest’opera
è andata
in scena il 31
24
15 febbraio 1962, Napoli, Teatro di San Carlo Lyane Sinek, Liselotte Hammes, Ernst
Kozub, Tomislav Neralic, Georg Stern, Albrecht Peter, Jürgen Forster. Direttore Eugen Jochum.
Regia Frank de Quell.
10 maggio 1962, Venezia, Teatro La Fenice Gré Brouwenstijn, Hanny Steffek, Jon Vickers,
Gustav Neidlinger, Josef Greindl, Kieth Engen, Murray Dickie. Direttore Karl Böhm. Regia Rudolf
Hartmann.
18 febbraio 1964, Roma, Teatro dell’Opera Hide Zadek/Lyane Synek, Graziella Sciutti,
Ernst Kozub, Boris Christoff, Otto von Rohr, Rudolf Knoll, Paul Späni. Direttore Lorin Maazel.
Regia Margherita Wallmann.
23 marzo 1965, Torino, Teatro Nuovo Lyane Synek, Melitta Muszley, Eugene Tobin, Tomislav Neralic, Arnold van Mill, Anton Diakov, Willy Brockmeyer. Direttore Efrem Kurtz. Regia
Frank de Quell.
7 aprile 1965, Genova, Teatro Comunale Ludmilla Dvorakova, Caterina Alda, Ernst Kozub,
Antonin Svorc, Heinz Hagenau, James Loomis, Willy Brockmeyer. Direttore Otmar Suitner. Regia
Frank de Quell.
9 febbraio 1968, Trieste, Teatro Verdi Ingrid Steger, Elisabeth Witzmann, Ernst Kozub,
Eduard Wollitz, Heiner Horn, Raymond Wolansky, Friedrich Lenz. Direttore Siegfried Koehler.
Regia Heinrich Altmann.
3 giugno 1969, Firenze, Teatro Comunale Sena Jurinac, Lee Venora, James King, Thomas Stewart, Franz Crass, Paul Schöffler, Gerhard Unger. Direttore Zubin Mehta. Regia Giorgio
Strehler.
6 febbraio 1970, Torino, Auditorium RAI (In forma di concerto) Claire Watson, Liselotte
Rebman, Ernst Kozub, Rolf Kühne, Arne Tyren, Ernst G. Schramm, Gerhard Unger. Direttore
Erich Leinsdorf.
19 febbraio 1970, Venezia, Teatro La Fenice Ludmilla Dvorakova, Ursula Farr, Claude
Heater, Antonin Svorc, Heinz Hagenau, Kenneth Asher, William McKinney. Direttore Heinz
Wallberg. Regia Werner Kelch.
17 marzo 1970, Roma, Auditorium RAI (In forma di concerto) Birgit Nilsson, Helen Donath, Ludovic Spiess, Theo Adam, Franz Crass, Siegfried Vogel, Peter Schreier. Direttore Leonard
Bernstein.
1 ottobre 1970, Perugia, San Pietro (In forma di concerto) Catarina Ligendza, Helen Donath, James King, Leif Roar, Kurt Moll, Heinz-Klaus Ecker, Harold Neukirch. Direttore Wolfgang
Sawallisch.
12 dicembre 1970, Roma, Teatro dell’Opera Claire Watson, Elisabeth Volkmann, Ernst
Kozub, Heinz Imdahl, Franziskos Voutsinos, Victor von Halem/Siegfried Vogel, [n.i.]. Direttore
Lovro von Matacic. Regia Frank de Quell.
18 dicembre 1970, Palermo, Teatro Massimo Marguerite Willauer, Bruna Rizzoli, Guy
Chauvet, Nicola Rossi Lemeni, Aurelian Neagu, Plinio Clabassi, Carlo Franzini. Direttore Nino
Sanzogno. Regia Herbert Graf.
13 febbraio 1971, Parma, Teatro Regio Gita Abrhamova/Alena Mikova, Jitka Kovarikova,
Ivo Zidek/Vilem Prybil, Cenek Mleak, Karel Pruska/Josèf Klan, Vladimir Nach, Radmil Kvirenc.
Direttore Jiri Pinkas. Regia Ilja Hylas.
16 febbraio 1971, Ravenna, Teatro Alighieri Gita Abrhamova, Jitka Kovarikova, Radmil
Kvirenk, Jan Kyzlink, Miloslav Tolas, Josef Kan, Lubomir Prochazka. Direttore Jiri Pinkas. Regia
Ilja Hylas.
15 maggio 1971, Napoli, Teatro di San Carlo Ingrid Bjoner, Olivera Miljakovic, Ludovic
Spiess, Zoltán Kelemen, Carlo Cava, Giannicola Pigliucci, Giorgio Grimaldi. Direttore Berislav
Klobucar. Regia [n.i.].
* 6 dicembre 1974, Reggio Emilia, Teatro Municipale (tre recite) Gabriela Benackova/
Adriana Ciani, Adriana Martino/Ida Farina, Robleto Merolla/Salvatore D’Amico, René Teucek/Aldo
Protti, Giancarlo Luccardi, Franco Federici, Maurizio Barbacini. Maestro del Coro G. Veneri.
Direttore Jan Hus Tichy. Regia Vaclav Kaslik.
7 dicembre 1974, Milano, Teatro alla Scala Leonie Rysanek, Jeannette Rion, James King,
Walter Berry/Siegmund Nimsgern, John Macurdy, Siegmund Nimsgern/Luigi Roni, Adolf Dallapozza.
Direttore Karl Böhm. Regia Günther Rennert.
marzo 1974,
direttore Peter
Maag, regista
Filippo Crivelli,
compagnia di
canto: Paolo
Barbacini,
G. Colmagro,
G. Tadèo,
G. Luccardi,
E. Di Cesare,
J. Marsh,
M. Casula.
25
[?] gennaio 1975, Modena, Teatro Comunale Gabriela Benackova, Ida Farina, Robleto
Merolla, Aldo Protti, Giancarlo Luccardi, Angelo Nosotti, Maurizio Barbacini. Direttore Jan Hus
Tichy. Regia Vaclav Kaslik.
19 gennaio 1975, Parma, Teatro Regio Gabriela Benackova, Adriana Martino, Robleto Merolla, René Teucek/Aldo Protti, Giancarlo Luccardi, Angelo Nosotti, Maurizio Barbacini. Direttore
Jan Hus Tichy. Regia Vaclav Kaslik.
15 marzo 1977, Roma, Teatro dell’Opera Roberta Knie/Joy McIntyre/Hanna Lisowska,
Mariana Niculescu, Wilfried Badorek, Rudolf Holtenau/Hans Kiemer, Victor von Halem, Hubert
Hofmann, [n.i.]. Direttore Georg A. Albrecht/Ugo Catania. Regia Filippo Sanjust.
18 settembre 1977, Perugia, San Pietro (Prima versione, in forma di concerto) Edda Moser, Sheila Armstrong, Reiner Goldberg, John Shirley-Quirk, [?] Mrozek, [n.i.], Werner Hollweg.
Direttore Erich Bergel.
10 febbraio 1978, Milano, Teatro alla Scala Gundula Janowitz, Lucia Popp, René Kollo,
Walter Berry, Manfred Jungwirth, Hans Helm, Adolf Dallapozza. Direttore Leonard Bernstein.
Regia Otto Schenk.
27 ottobre 1978, Trieste, Teatro Verdi Roberta Knie, Silvia Rhys-Thomas, Heribert Steinbach, Hans Kiemer, Heinz-Klaus Ecker, Giannicola Pigliucci, Ezio Di Cesare. Direttore Gustav
Kuhn. Regia Walter Eichner.
30 marzo 1979, Genova, Teatro Margherita (Prima versione) Anna Alexieva/Stefania
Moldovan, Silvia Baleani, Karl-Walther Böhm, Sándor Sólyom-Nagy, Ivo Ingram, Carlo Del Bosco,
Ezio Di Cesare. Direttore Carl Melles. Regia Virginio Puecher.
16 aprile 1980, Venezia, Teatro La Fenice Kathryn Montgomery/Marita Napier, Gabriele
Fuchs, Heribert Steinbach, Bent Norup, Helmut Berger-Tuna, Franz Grundheber, Martin Finke.
Direttore Gustav Kuhn. Regia Sonja Frisell.
7 febbraio 1984, Torino, Teatro Regio Sabine Hass/Rose Wagemann, Jolanta Omilian,
Gerd Brenneis, Wassili Janulako, Peter Meven/Kurt Rydl, Kurt Rydl/Armando Caforio, Maurizio
Barbacini. Direttore Milan Horvat. Regia Peter Busse.
16 giugno 1984, Firenze, Teatro Comunale Sabine Hass, Dinah Bryant, Gerd Brenneis,
Hartmut Welker, Bengt Rundgren, Thomas Thomaschke, Horst Laubenthal. Direttore Adam Fischer/Lorin Maazel. Regia David Kneuss.
9 maggio 1985, Roma, Auditorium Pio XII (In forma di concerto) Elisabeth Connell, Georgina
Resick, Thomas Moser/Richard Versalle, Hermann Becht, Helmut Berger-Tuna, Walton Groenross,
Thomas Moser. Direttore Lorin Maazel.
18 agosto 1986, Verona, Arena Gwyneth Jones, Sona Ghazarian, James King, Siegmund Nimsgern, Hans Tschammer, Walter Berry, Wilfried Gahmlich. Direttore Christian Badea. Regia [n.i.].
21 febbraio 1987, Messina, Teatro Vittorio Emanuele Hanna Lisowska, Regina Werner,
Dieter Schwartner, Rolf Haunstein/Klaus D. Butzek, Rainer Lüdeke/Konrad Rupf, Jürgen Kurth/
Hermann-Christian Polster, Horst Gebhardt. Direttore Johannes Winkler. Regia Uwe Wand.
12 marzo 1987, Bologna, Teatro Comunale Ingrid Haubold/Luana De Vol, Zorayda Salazar/Lynda Russel, James Wagner/Paul Frey, Hartmut Welker, Erich Knodt/Dieter Schweikart,
Franz-Josef Kapellmann, Uwe Peper. Direttore Rolf Reuter. Regia Filippo Sanjust.
9 maggio 1987, Napoli, Teatro di San Carlo Sabine Hass, Elizabeth Gale, Robert Schunk, Hartmut
Welker, Hans Sotin, Tom Krause, Ruediger Wohlers. Direttore Gabor Ötvös. Regia Filippo Sanjust.
27 gennaio 1990, Milano, Teatro alla Scala Jeannine Altmeyer/Luana De Vol, Johanna
26
Kozslowska/Faith Esham, Thomas Moser, Siegmund Nimsgern, Kurt Rydl, Dean Peterson, Uwe
Peper. Direttore Lorin Maazel. Regia Giorgio Strehler.
15 marzo 1990, Trieste, Teatro Verdi Ekaterina Ikonomou, Penelope Lusi, William Pell,
Neil Howlett, Victor von Halem/Aurio Tomicich, Aurio Tomicich/Dirk Sagemüller, Adolfo Llorca.
Direttore Spiros Argiris. Regia Frank Bernd Gottschalk.
16 aprile 1996, Roma, Teatro dell’Opera Susan Anthony, Susan Gritton, Jan Blinkhof,
Oskar Hillebrandt, Ulrich Dunnebach, Andreas Kohn, Josef Kundlak. Direttore Zoltan Pesko.
Regia Florian Leibrecht.
28 maggio 1996, Ferrara, Teatro Comunale (Prima versione, in forma semiscenica) Hillevi
Martinpelto, Christiane Oelze, Albert Bonnema, Matthew Best, Franz Hawlata, Geert Smits, Toby
Spence. Direttore John Eliot Gardiner. Regia Annabel Arden.
10 marzo 1998, Catania, Teatro Massimo Bellini Margaret Jane Wray, Patrizia Pace, Robert
Schunk, Franz Josef Kapellmann, Hans Sotin, Harry Peters, Francesco Piccoli. Direttore Ralf
Weikert. Regia Claude D’Anna.
24 aprile 1998, Venezia, PalaFenice Eva Maria Bundschuh, Carola Höhn, Jon Fredric West,
Albert Dohmen, Reinhard Hagen, Andreas Kohn, Fernando Portari. Direttore Isaac Karabtchevsky.
Regia Stéphane Braunschweig.
7 dicembre 1999, Milano, Teatro alla Scala Waltraud Meier/Elizabeth Whitehouse, Laura
Aikin/Eva Lind, Thomas Moser/Jan Vacik, Franz Josef Kapellmann, Kurt Rydl/Ulrich Duennebach,
Stephen Milling/Roy Stevens, Endrik Wottrich/Jonas Kaufmann. Direttore Riccardo Muti/Niksa
Bareza. Regia Werner Herzog.
10 dicembre 2000, Genova, Teatro Carlo Felice (Prima versione, in forma di concerto)
Carol Vaness, Svetla Vassileva, Jon Villars, Urban Malmberg, René Pape, Albert Schagidullin,
Robert Lee. Direttore Arnold Östman.
20 ottobre 2000, Pisa, Teatro Verdi Ekaterina Ikonomou/Inga Balabanova, Alexia Voulgaridou/Manuela Formichella, Heikki Siukola/Walter Coppola, Stephen Owen/Gianfranco Montresor,
Jyrki Korhonen/Gianvito Ribba, Filippo Bettoschi, Antonio Feltracco. Direttore Piero Bellugi.
Regia Pier Paolo Pacini.
25 ottobre 2000, Livorno, Teatro La Gran Guardia Ekaterina Ikonomou/Inga Balabanova, Alexia Voulgaridou/Manuela Formichella, Heikki Siukola/Walter Coppola, Stephen Owen,
Jyrki Korhonen, Filippo Bettoschi, Antonio Feltracco. Direttore Piero Bellugi. Regia Pier Paolo
Pacini.
4 novembre 2000, Rovigo, Teatro Sociale Ekaterina Ikonomou/Inga Balabanova, Alexia
Voulgaridou, Heikki Siukola/Walter Coppola, Stephen Owen/Gianfranco Montresor, Jyrki Korhonen/Gianvito Ribba, Filippo Bettoschi, Antonio Feltracco. Direttore Piero Bellugi. Regia Pier
Paolo Pacini.
11 novembre 2000, Como, Teatro Sociale Ekaterina Ikonomou/Inga Balabanova, Alexia
Voulgaridou/Manuela Formichella, Heikki Siukola/Walter Coppola, Stephen Owen/Gianfranco
Montresor, Jyrki Korhonen/Gianvito Ribba, Filippo Bettoschi, Antonio Feltracco. Direttore Piero
Bellugi. Regia Pier Paolo Pacini.
28 marzo 2003, Milano, Teatro degli Arcimboldi Waltraud Meier/Therese Waldner, Laura
Aikin/Eva Lind, Robert Dean Smith/Jan Vacik, Eike Wilm Schulte/Terje Stensvold, Hans Tschammer, Ildar Abdrazakov/Markus Brueck, Matthias Klink/Ferdinand von Bothmer. Direttore Riccardo
Muti. Regia Werner Herzog.
27
11 maggio 2003, Firenze, Teatro Comunale Elizabeth Whitehouse/Therese Waldner, Rachel
Harnisch, Stephen Gould, Gidon Saks, Giorgio Surian, Stephen Milling, Jörg Schneider. Direttore
Paavo Järvi. Regia Robert Carsen.
20 aprile 2004, Genova, Teatro Carlo Felice Gabriele Maria Ronge, Anat Efraty, Stuart
Skelton, David Pittman-Jennings, Matthias Hölle, Christopher Robertson, Paul Charles Clarke.
Direttore Lorin Maazel. Regia Georges Lavaudant.
8 ottobre 2004, Roma, Teatro dell’Opera Susan Anthony/Lisa Houben, Veronica Cangemi/
Rita Cammarano, Stephen Gould/Wolfgang Millgramm, Alan Titus/Boris Trajanov, Alfred Reiter/
Daniel Lewis Williams, Alfredo Zanazzo, Ferdinand von Bothmer/Claudio Barbieri. Direttore Will
Humburg. Regia Giovanni Agostinucci.
13 novembre 2004, Bologna, Teatro Comunale (Prima versione) Hillevi Martinpelto, Natalie
Karl, Johnny Van Hal, Jürgen Linn, Alfred Reiter, Detlef Roth, Matthias Klink. Direttore Daniele
Gatti. Regia Francisco Negrin.
4 dicembre 2005, Napoli, Teatro di San Carlo Jeanne-Michèle Charbonnet, Anna Skibinsky,
Jon Villars, Eike Wilm Schulze, Stephen Milling, Andreas Macco, Michael Spyres. Direttore Tomas
Netopil. Regia Toni Servillo.
28
29
Il libretto
32
Personaggi e ruoli vocali
Don Fernando, Minister Bariton
Don Pizarro, Gouverneur eines Staatsgefängnisses Bariton
Florestan, Gefangener Tenor
Leonore, dessen Frau unter den Namen ‘Fidelio’ Sopran
Rocco, Kerkermeister Bass
Marzelline, dessen Tochter Sopran
Jaquino, Pförtner Tenor
Erster Gefangener Tenor
Zweiter Gefangener Bass
Wachsoldaten, Staatsgefangene, Volk gemischter Chor
Die Handlung geht in einem spanischem Staatsgefängnisse, einige Meilen von Sevilla, vor.
Don Fernando, ministro baritono
Don Pizarro, governatore d’una prigione di Stato baritono
Florestan, un prigioniero tenore
Leonore, sua moglie, sotto il nome di Fidelio soprano
Rocco, capocarceriere basso
Marzelline, sua figlia soprano
Jaquino, portinaio tenore
Primo prigioniero tenore
Secondo prigioniero basso
Guardie, prigionieri di Stato, popolo coro misto
L’azione si svolge in una prigione di Stato spagnola, alcune miglia da Siviglia.
Epoca dell’azione: fine del XVII secolo.
Prima rappresentazione: Theater an der Wien, Vienna, 20 novembre 1805.
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ERSTER AUFZUG
PRIMO ATTO
Il cortile della prigione di Stato. Sul fondo il portone
principale e un’alta muraglia, sopra la quale sporgono
alcuni alberi. Proprio nel portone chiuso è praticata
una porticina, che viene aperta per ciascun visitatore.
Accanto al portone, la guardiola del portinaio. Le
quinte, alla sinistra degli spettatori, rappresentano le
celle dei prigionieri; tutte le finestre portano inferriate,
e le porte contrassegnate da numeri sono rinforzate
con ferro e assicurate con solidi chiavistelli. Nella
quinta più avanzata si trova lo porta dell’abitazione
del capocarceriere. A destra vi sono alberi difesi da
ringhiere di ferro che, presso un portone, indicano
l’ingresso al giardino del castello.
Scena prima
Der Hof des Staatsgefängnisses. Im Hintergrunde
das Haupttor und eine hohe Wallmauer, über welche
Bäume hervorragen. Im geschlossenen Tore selbst
ist eine kleine Pforte, die für einzelne Fußgänger
geöffnet wird. Neben dem Tore das Stübchen des
Pförtners. Die Kulissen, den Zuschauern links, stellen
die Wohngebäude der Gefangenen vor; alle Fenster
haben Gitter, und die mit Nummern bezeichneten
Türen sind mit, Eisen beschlagen und mit starken
Riegeln verwahrt. In der vordersten Kulisse ist die
Tür zur Wohnung des Gefangenenwärters. Rechts
stehen Bäume mit eisernen Geländern eingefaßt,
welche, nebst einem Gartentor, den Eingang des
Schloßgartens bezeichnen.
Erster Auftritt
Marzelline, Jaquino
(Marzelline stira la biancheria davanti alla sua porta;
accanto a lei c’è un braciere per riscaldare il ferro.
Jaquino è in piedi lì vicino, presso la guardiola, apre lo
porta a numerose persone che gli passano dei pacchetti
ch’egli deposita nella guardiola.)
Marzelline, Jaquino
(Marzelline plättet vor ihrer Tür Wäsche, neben
ihr steht ein Kohlenbecken, in dem sie den Stahl
wärmt. Jaquino hält sich nahe bei seinem Stübchen,
öffnet die Tür mehreren Personen, die ihm Packete
übergeben, welche er in sein Stübchen legt.)
N. 1 Duetto
Jaquino (eccitato, fregandosi le mani)
Ora, tesoro, ora siam soli,
possiamo chiacchierare in confidenza.
Nr. 1 Duett
Jaquino (verliebt und sich die Hände reibend)
Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein,
wir können vertraulich nun plaudern.
Marzelline (continuando il suo lavoro)
Niente d’importante, spero,
non voglio perder tempo nel lavoro.
Marzelline (ihre Arbeit fortsetzend)
Es wird ja nichts Wichtiges sein,
ich darf bei der Arbeit nicht zaudern.
Jaquino
Una parolina, dispettosa!
Jaquino
Ein Wörtchen, du Trotzige, du!
Marzelline
E parla allora, t’ascolto.
Marzelline
So sprich nur, ich höre ja zu.
Jaquino
Se non mi guardi più amichevolmente,
non tiro fuori neanche una parolina.
Jaquino
Wenn du mir nicht freundlicher blickest,
so bring’ ich kein Wörtchen hervor.
35
Marzelline
Wenn du dich nicht in mich schickest,
verstopf’ ich mir vollends das Ohr.
Marzelline
Se non fai a modo mio,
mi tappo ben bene le orecchie.
Jaquino
Ein Weilchen nur höre mir zu,
dann laß’ ich dich wieder in Ruh’.
Jaquino
Ma ascoltami un momento,
poi ti lascio ancora in pace.
Marzelline
So hab’ ich denn nimmermehr Ruh’,
so rede, so rede nur zu.
Marzelline
Non avrò dunque più pace;
parla, allora parla.
Jaquino
Ich habe zum Weib dich gewählet,
verstehst du?
Jaquino
Io t’ho scelta in moglie,
comprendi?
Marzelline
Das ist ja doch klar.
Marzelline
È chiaro, in verità.
Jaquino
Und wenn mir dein Jawort nicht fehlet,
was meinst du?
Jaquino
E se non mi manca il tuo consenso,
che pensi?
Marzelline
So sind wir ein Paar.
Marzelline
Allora siamo una coppia.
Jaquino
Wir könnten in wenigen Wochen,
Jaquino
Potremmo in poche settimane.
Zum Henker, das ewige Pochen!
Al diavolo questo eterno bussare!
Marzelline
Recht schön, du bestimmst schon die Zeit.
Marzelline
Ma bene, decidi già il tempo,
So bin ich doch endlich befreit!
Così son libera alfine!
Jaquino (für sich)
Da war ich so herrlich im Gang,
und immer entwischt mir der Fang!
Jaquino (fra sé)
Mi andavan sì bene le cose,
e ancora mi sfugge la preda.
Marzelline (für sich)
Wie macht seine Liebe mir bang’,
wie werden die Stunden mir lang!
Marzelline (fra sé)
Come m’inquieta il suo amore,
come mi diventan lunghe le ore.
(Jaquino öffnet die Pforte, nimmt ein Packet
(Jaquino apre la porta, prende un pacchetto e lo depone
(Man pocht.)
(Man pocht.)
36
(Bussano.)
(Bussano.)
nella guardiola. Intanto Marzelline continua il suo
monologo.)
ab, und legt es ins Stübchen; unterdessen fährt
Marzelline fort.)
So che il poverino si tormenta,
mi spiace tanto per lui!
Io ho scelto Fidelio,
amarlo è dolce conquista.
Ich weiß, daß der Arme sich quälet,
es tut mir so leid auch um ihn!
Fidelio hab’ ich gewählet,
ihn lieben ist süßer Gewinn.
Jaquino (tornando)
Dov’ero rimasto? Nemmeno mi guarda.
Jaquino (zurückkommend)
Wo war ich? Sie sieht mich nicht an!
Marzelline
Eccolo, riprende da capo.
Marzelline
Da ist er, er fängt wieder an!
Jaquino
Quando mi darai il tuo consenso?
Potrebbe essere oggi stesso.
Jaquino
Wann wirst du das Jawort mir geben?
Es könnte ja heute noch sein.
Marzelline (a parte)
Ohimè! Mi amareggia la vita.
Marzelline (bei Seite)
O weh, er verbittert mein Leben!
(a lui)
(zu ihm)
Adesso, domani e sempre: no, no!
Jetzt, morgen und immer: nein, nein!
Jaquino
Sei fatta proprio di sasso;
Né richieste né preghiere ti toccano.
Jaquino
Du bist doch wahrhaftig von Stein;
kein Wünschen, kein Bitten geht ein.
Marzelline (fra sé)
Devo esser dura con lui.
Marzelline (für sich)
Ich muß ja so hart mit ihm sein.
(a lui)
(zu ihm)
Adesso, domani e sempre: no, no!
Jetzt, morgen und immer: nein, nein!
(fra sé)
(für sich)
Devo essere dura con lui,
egli spera al minimo segno.
Ich muß ja so hart mit ihm sein,
er hofft bei dem mindesten Schein.
Jaquino
Allora mai più cambierai?
Che pensi?
Jaquino
So wirst du dich nimmer bekehren?
Was meinst du?
Marzelline
Ora te ne potresti andare.
Marzelline
Du könntest nun gehn!
Jaquino
Come? Mi vuoi impedire di guardarti?
Anche questo?
Jaquino
Wie? dich anzusehn, willst du mir wehren?
Auch das noch?
37
Marzelline
So bleibe hier stehn!
Marzelline
E allora resta qui!
Jaquino
Du hast mir so oft doch versprochen.
Jaquino
Pure, m’hai sì sovente promesso...
Marzelline
Versprochen? Nein, das geht zu weit!
Marzelline
Promesso? No, si va troppo oltre!
(Man pocht.)
(Bussano.)
Jaquino
Zum Henker, das ewige Pochen,
zum Henker!
Jaquino
Al diavolo questo eterno bussare,
al diavolo!
Marzelline
So bin ich doch endlich befreit!
Das ist ein willkommener Klang,
es wurde zu Tode mir bang.
Marzelline
Così son libera alfine!
Che bussare benedetto,
ero inquieta da morire.
Jaquino
Es ward ihr im Ernste schon bang:
wer weiß, ob es mir nicht gelang?
Jaquino
Sul serio ormai s’inquietava,
forse m’è andata bene.
Dialog
Rocco (ruft) Jaquino! Jaquino!
Marzelline Hörst du, der Vater ruft!
Jaquino Lassen wir ihn ein wenig warten. Also,
auf unsere Liebe zu kommen –
Rocco (ruft wieder) Jaquino! Hörst du nicht?
Jaquino (schreiend) Ich komme schon! (zu Marzelline) Zwei Minuten! (erneut rufend) Komme schon!
Dialogo
Rocco (chiama) Jaquino! Jaquino!
Marzelline Senti, il padre chiama!
Jaquino Lasciamolo aspettare un po’. Allora,
per tornare al nostro amore –
Rocco (chiama di nuovo) Jaquino! Non senti?
Jaquino (gridando) Vengo subito! (a Marzelline)
Due minuti! (di nuovo gridando) Vengo!
Zweiter Auftritt
Scena seconda
Marzelline (allein)
Marzelline (sola)
Marzelline Der arme Jaquino! Ich war ihm sonst
recht gut, da kam Fidelio in unser Haus. Und seit
der Zeit ist alles in mir und um mich verändert.
Marzelline Povero Jaquino! Gli sono sempre stata
affezionata, poi Fidelio è arrivato in casa nostra, e
da allora tutto è cambiato in me e attorno a me.
Nr. 2 Arie
Marzelline
O wär’ ich schon mit dir vereint,
und dürfte Mann dich nennen!
N. 2 Aria
Marzelline
Oh s’io fossi già a te unita
e potessi chiamarti mio sposo!
38
Ma una ragazza, di quanto pensa,
può confessarne solo metà.
Ma quando non dovrò arrossire
per un caldo bacio d’amore,
quando niente al mondo ci disturberà –
Ein Mädchen darf ja, was es meint,
zur Hälfte nur bekennen.
Doch wenn ich nicht erröten muß
ob einen warmen Herzenskuß,
wenn nichts uns stört auf Erden –
(Sospira e si porta la mano al petto.)
(Sie seufzt und legt die Hand auf die Brust.)
La speranza già colma il petto
di dolce, inesprimibile voluttà,
come sarò felice!
Nella serena pace domestica
mi sveglio ogni giorno,
ci salutiamo con tenerezza,
l’attività scaccia gli affanni.
E quando il lavoro è finito,
s’appressa la soave notte,
e posiamo dalle fatiche.
Die Hoffnung schon erfüllt die Brust
mit unaussprechlich süßer Lust,
wie glücklich will ich werden!
In Ruhe stiller Häuslichkeit
erwach’ ich jeden Morgen,
wir grüßen uns mit Zärtlichkeit,
der Fleiß verscheucht die Sorgen.
Und ist die Arbeit abgetan,
dann schleicht die holde Nacht heran,
dann ruh’n wir von Beschwerden.
Terza scena
Dritter Auftritt
Marzelline, Rocco, Jaquino
Marzelline, Rocco, Jaquino
Dialogo
Rocco Marzelline, Fidelio non è ancora tornato?
Marzelline No, padre.
Rocco Dove sarà?
Marzelline Certo avrà dovuto aspettare a
lungo dal fabbro.
Rocco Lo aspetto con impazienza!
Marzelline Eccolo! Eccolo!
Dialog
Rocco Marzelline! Ist Fidelio noch nicht zurück?
Marzelline Nein, Vater.
Rocco Wo bleibt er nur?
Marzelline Er hat gewiss lange beim Schmied
gewartet.
Rocco Ich erwarte ihn mit Ungeduld!
Marzelline Da ist er ja! Da ist er!
Quarta scena
Vierter Auftritt
Vorige, Leonore
(Fidelio/Leonore entra. Appare affaticata. È allo stremo
mentre fa per depositare il carico. Rocco la aiuta. Fidelio
barcolla sotto il peso.)
Vorige, Leonore
(Fidelio/Leonore tritt auf. Sie wirkt mitgenommen.
Sie ist am Ende, kurz vorm Aufgeben. Rocco hilft
ihr. Fidelio taumelt unter der Last.)
Rocco Fidelio, stavolta ti sei caricato troppo.
Leonore Devo ammeterlo, sono sfinito. Il fabbro aveva già tante cose da aggiustare.
Rocco Quanto costa tutto questo?
Rocco Fidelio, diesmal hast du dir zu viel aufgeladen.
Leonore Ich muss gestehen, ich bin erschöpft.
Der Schmied hatte auch so lange auszubessern!
Rocco Wieviel kostet alles zusammen?
39
Leonore Hier ist die genaue Rechnung.
Rocco Gut! Kluger Junge! Kaufst alles billiger
als ich.
Leonore Ich tu nur, was mir möglich ist. –
Rocco Ja, ja, du bist brav – dein Lohn soll nicht
ausbleiben.
Leonore Glaubt nicht, dass ich meine Schuldigkeit nur des Lohnes wegen –
Rocco (unterbricht) Still! – Meinst du, ich kann
dir nicht ins Herz sehen?
Leonore Ecco la nota precisa.
Rocco Bene! Ragazzo intelligente! Compri
più a buon mercato di me.
Leonore Cerco di fare del mio meglio. –
Rocco Sì sì, sei in gamba – il tuo compenso
non tarderà a venire.
Leonore Non crediate che io faccia il mio
dovere solo per il compenso –
Rocco (interrompe) Zitto! – Pensi che io non
sappia vedere nel tuo cuore?
Nr. 3 Quartett
Marzelline (welche während des Lobes, das Rocco
N. 3 Quartetto
Marzelline (che, durante le lodi che Rocco ha fatto
Mir ist so wunderbar,
es engt das Herz mir ein;
er liebt mich, es ist klar,
ich werde glücklich sein!
Mi sento sì strana,
mi si stringe il cuore;
egli m’ama,
è chiaro, sarò felice.
Leonore (für sich)
Wie groß ist die Gefahr,
wie schwach der Hoffnung Schein!
Sie liebt mich, es ist klar,
o namenlose Pein!
Leonore (fra sé)
È grande davvero il pericolo,
sì debole appare la speranza!
Ella m’ama, è chiaro,
o indicibile tormento!
Rocco (der während dessen wieder auf die Vor-
Rocco (che nel frattempo è tornato ancora sul pro-
Sie liebt ihn, es ist klar,
ja, Mädchen, er wird dein!
Ein gutes junges Paar,
sie werden glücklich sein!
Ella l’ama, è chiaro.
sì, fanciulla, sarà tuo.
Una bella, giovane coppia,
saranno felici.
Jaquino (der unter dem Beobachten sich immer
Jaquino (che, osservando, s’è avvicinato sempre più,
Mir sträubt sich schon das Haar,
der Vater willigt ein,
mir wird so wunderbar,
mir fällt kein Mittel ein!
Mi si rizzano i capelli,
il padre è d’accordo.
Mi sento sì strano,
non trovo più rimedio.
(Jaquino geht ab am Ende des Quartetts.)
(Jaquino esce alla fine del Quartetto.)
Leonore erteilte, die größte Teilnahme hat blicken
lassen und sie mit immer zunehmender Bewegung
liebevoll betrachtet hat; für sich)
derbühne zurückgekehrt ist; für sich)
mehr genähert hat, auf der Seite und etwas hinter
den Übrigen stehend; für sich)
40
a Leonora, ha mostrato la massima partecipazione e
l’ha osservata amorosamente con sempre maggiore
emozione; fra sé)
scenio; fra sé)
tenendosi da un lato, un po’ dietro gli altri; fra sé)
Dialog
Rocco Senti Fidelio, anche se non so come e
dove sei venuto al mondo – (si interrompe) – so
quel che faccio – io – io ti voglio come mio
genero.
Marzelline (felice) Lo farai presto, caro padre?
Rocco (ride) Non appena il Governatore sarà
partito per Siviglia. Il giorno dopo la sua
partenza, vi unirò!
Marzelline Caro padre!
Leonore Il giorno dopo la sua partenza?
Rocco Dunque, figli miei, vi amate di cuore,
non è vero? Ma questo non è tutto quel che
serve a un buono e soddisfacente governo
della casa; occorre anche – (fa il gesto di contare
denari)
Dialog
Rocco Fidelio, wenn ich auch nicht weiß, wer
du bist und wo du herkommst – (unterbricht sich)
– ich weiß doch, was ich tue – ich – ich mache
dich zu meinem Schwiegersohn.
Marzelline (erfreut) Wirst du es bald tun, lieber
Vater?
Rocco (lacht) So bald der Gouverneur nach Sevilla gereist sein wird. Den Tag nach seiner Abreise
geb ich euch zusammen!
Marzelline Lieber Vater!
Leonore Den Tag nach seiner Abreise?
Rocco Nun, meine Kinder, ihr habt euch doch
recht lieb, nicht wahr? Aber das ist noch nicht
alles, was zu einer guten Haushaltung gehört;
man braucht auch – (er macht die Gebärde des
Geldzählens)
N. 4 Aria
Rocco
Se non s’ha dell’oro appresso,
non si può esser davvero felici;
triste si trascina la vita,
sopravvengono gli affanni.
Ma se qualcosa suona e gira in tasca,
si tien prigioniero il destino;
e potenza e amore ti procaccia l’oro
e placa il più ardito desiderio.
La felicità è tua schiava per danaro,
è una bella cosa, l’oro, preziosa.
Se s’unisce niente con niente,
la somma è e resta misera;
chi in tavola trova solo amore,
dopo pranzo avrà fame ancora.
Dunque il fato vi sorrida propizio e benigno
e benedica e accompagni la vostra aspirazione;
in braccio l’amata, l’oro in saccoccia,
potete trascorrere molti anni.
Nr. 4 Arie
Rocco
Hat man nicht auch Gold beineben,
kann man nicht ganz glücklich sein;
traurig schleppt sich fort das Leben,
mancher Kummer stellt sich ein.
Doch wenn’s in der Taschen fein klingelt und rollt,
da hält man das Schicksal gefangen;
und Macht und Liebe verschafft dir das Gold
und stillet das kühnste Verlangen.
Das Glück dient wie ein Knecht für Sold,
es ist ein schönes Ding, das Gold.
Wenn sich Nichts mit Nichts verbindet,
ist und bleibt die Summe klein;
wer bei Tisch nur Liebe findet,
wird nach Tische hungrig sein.
Drum lächle der Zufall euch gnädig und hold,
und segne und lenk’ euer Streben,
das Liebchen im Arme, im Beutel das Gold,
so mögt ihr viel Jahre durchleben.
(Dopo la fine dell’Aria Leonora si calma e rivela la
propria intenzione.)
(Nach Ende der Arie fasst sich Leonore ein Herz
und gibt ihre Absicht preis.)
41
Dialog
Leonore Ihr habt schon recht, Meister Rocco; aber
ich, ich behaupte, dass die Vereinigung zweier Herzen das wahre Glücke ist. – Freilich gibt es etwas,
was mir nicht weniger kostbar sein würde.
Rocco Und was wäre das?
Leonore Euer Vertrauen. – Warum erlaubt ihr
mir nicht, euch zu begleiten?
Rocco Du weißt doch, dass ich Befehl habe, niemand zu den Staatsgefangenen zu lassen.
Marzelline Du arbeitest dich noch zu Tode,
lieber Vater!
Leonore Sie hat recht, Meister Rocco. Oft sehe
ich euch aus den Gewölben kommen. Ganz ermattet. Ganz außer Atem.
Marzelline Ja.
Rocco Ihr habt ja Recht. Diese schwere Arbeit!
Dialogo
Leonore Avete ragione mastro Rocco; ma io,
io sostengo che la vera felicità è nell’unione di
due cuori. – A dire il vero vi sarebbe una cosa,
che mi è non meno preziosa.
Rocco E che sarebbe mai?
Leonore La vostra fiducia. – Perché non mi
permettete di accompagnarvi?
Rocco Eppure sai che ho avuto l’ordine di non
lasciare avvicinare nessuno ai prigionieri.
Marzelline Tu t’ammazzi di lavoro, caro
padre!
Leonore Avete ragione, mastro Rocco. Spesso
vi vedo uscire dai sotterranei tutto stanco,
quasi senza fiato.
Marzelline Sì.
Rocco Avete proprio ragione. Che duro lavoro!
Rocco Unterdessen gibt es ein Gewölbe, in das
ich dich wohl nie werde führen dürfen.
Marzelline Wo dieser eine Gefangene sitzt?
Rocco Erraten.
Leonore Ist er schon lange her, dass er gefangen ist?
Rocco Zwei Jahre.
Leonore Zwei Jahre, sagt ihr? – Er muß ein großer
Verbrecher sein.
Rocco Oder er muß große Feinde haben. (geheimnisvoll) Nun, es kann nicht mehr lange mit ihm
dauern. Er wird Bald vor Hunger verrecken...
Leonore Großer Gott!
Marzelline Vater, führe Fidelio nicht zu ihm.
Diesen Anblick könnt´ er nicht ertragen. –
Leonore Warum denn nicht? Ich habe Mut und
Härte!
Rocco Ma c’è un sotterraneo dove non ti dovrei mai portare.
Marzelline Dove sta il prigioniero?
Rocco Indovinato.
Leonore È imprigionato da molto?
Rocco Due anni.
Leonore Due anni, dite? – Dev’essere un gran
malfattore.
Rocco Oppure deve avere grandi nemici. (con
mistero) Ora, non può averne per molto. Morirà
presto di fame...
Leonore Gran Dio!!
Marzelline Padre, non portare Fidelio da lui.
Non potrebbe sopportare tale vista. –
Leonore E perché mai? Ho coraggio e tempra!
Nr. 5 Terzett
Rocco
Gut, Söhnchen, gut,
hab’ immer Mut,
dann wird’s dir auch gelingen;
das Herz wird hart
N. 5 Terzetto
Rocco
Bene, figlio mio, bene,
abbi sempre coraggio,
e riuscirai;
il cuore si tempra
(Leonore dankt ihm mit einer Geste.)
42
(Leonore lo ringrazia con un cenno.)
affrontando
cose tremende.
durch Gegenwart
bei fürchterlichen Dingen.
Leonore (con forza)
Io ho coraggio!
Con sangue freddo
m’azzarderò a scender laggiù.
Per un grande compenso
l’amore può ben sopportare
anche grandi dolori.
Leonore (mit Kraft)
Ich habe Mut!
Mit kaltem Blut
will ich hinab mich wagen.
Für hohen Lohn
kann Liebe schon
auch hohe Leiden tragen.
Marzelline (con tenerezza)
Il tuo buon cuore
sopporterà tormenti
in queste tombe;
poi tomeranno ancora
la felicità d’amore
e gioie inenarrabili.
Marzelline (zärtlich)
Dein gutes Herz
wird manchen Schmerz
in diesen Grüften leiden;
dann kehrt zurück
der Liebe Glück
und unnennbare Freuden.
Rocco
Certo costruirai la tua felicità.
Rocco
Du wirst dein Glück ganz sicher bauen.
Leonore
Ho fiducia in Dio e nella giustizia.
Leonore
Ich hab’ auf Gott und Recht Vertrauen.
Marzelline
Puoi guardarmi negli occhi,
la forza dell’amore non è certo piccola,
sì, saremo felici!
Marzelline
Du darfst mir auch in’s Auge schauen;
der Liebe Macht ist auch nicht klein,
ja, wir werden glücklich sein!
Leonore
Sì, sarò felice ancora!
Leonore
Ja, ich kann noch glücklich sein!
Rocco
Sì, sarete felici!
Il governatore oggi deve permettere
che tu condivida il mio lavoro.
Rocco
Ja, ihr werdet glücklich sein!
Der Gouverneur soll heut’ erlauben,
daß du mit mir die Arbeit teilst.
Leonore
Mi toglierai ogni pace,
se indugi fino a domani.
Leonore
Du wirst mir alle Ruhe rauben,
wenn du bis morgen nur verweilst.
Marzelline
Sì, buon padre, pregalo oggi,
in breve saremo una coppia.
Marzelline
Ja, guter Vater, bitt’ ihn heute,
in Kurzem sind wir dann ein Paar.
43
Rocco
Ich bin ja bald des Grabes Beute;
ich brauche Hülf’, es ist ja wahr!
Rocco
Ormai son preda della tomba,
mi serve aiuto, è vero!
Leonore (für sich)
Wie lang’ bin ich des Kummers Beute!
Du, Hoffnung, reichst mir Labung dar!
Leonore (fra sé)
Da quanto sono in preda all’affanno!
Tu, speranza mi doni conforto!
Marzelline (zärtlich gegen ihren Vater)
Ach, lieber Vater! was fällt euch ein?
Lang Freund und Rater müßt ihr uns sein!
Marzelline (con tenerezza, al padre)
Ah, caro padre, che dite mai?
A lungo sarete nostro amico e consigliere!
Rocco
Nur auf der Hut, dann geht es gut,
gestillt wird euer Sehnen!
Gebt euch die Hand und schließt das Band
in süßen Freudentränen!
Rocco
E ora attenti, andrà tutto bene,
si placherà il vostro desiderio!
Datevi la mano e stringete il legame
con dolci lacrime di gioia!
Marzelline
O habe Mut! O welche Glut,
o welch ein tiefes Sehnen!
Ein festes Band mit Herz und Hand!
O süße, süße Tränen!
Marzelline
Oh abbi coraggio! Oh quale ardore!
Oh qual profondo desiderio!
Un saldo legame di cuori e mani!
Oh dolci, dolci lacrime di gioia!
Leonore
Ihr seid so gut, ihr macht mir Mut,
gestillt wird bald mein Sehnen!
Leonore
Siete così buono, mi date coraggio,
presto si placherà il mio desiderio!
Ich gab die Hand zum süßen Band,
es kostet bitt’re Tränen!
Ho dato la mia mano per un dolce legame,
che costerà amare lacrime.
(für sich)
Nr. 6 Marsch
Fünfter Auftritt
(fra sé)
N. 6 Marcia
Scena quinta
Rocco, Pizarro, Offiziere, Soldaten
(Pizzarro sitzt im Rollstuhl und spricht seinen
Offizier an.)
Rocco, Pizarro, Ufficiali, Soldati
(Pizzarro, in una sedia a rotelle, parla al suo ufficiale.)
Dialog
Pizarro Hauptmann! Drei Mann auf den Turm!
Zwölf Mann Tag und Nacht an die Zugbrücke!
Jedermann, der sich der Festung nähert, werde
sogleich vor mich gebracht!
Dialogo
Pizarro Capitano! Tre uomini sulla torre! Dodici uomini giorno e notte sul ponte levatoio!
Chiunque si avvicini alla fortezza sia portato
immediatamente davanti a me!
44
(L’ufficiale saluta e se ne va. Pizarro si rivolge a
Rocco.)
(Offizier salutiert und geht ab. Pizarro wendet
sich an Rocco.)
Pizarro C’è qualche novità?
Rocco No, signore!
Pizarro Dove sono i dispacci?
Rocco Eccoli.
Pizarro (apre le lettere e le scorre) Sempre raccomandazioni o lamentele. (si sofferma su una busta.)
Cosa vedo? Mi sembra di conoscere questa
scrittura! (Apre la busta. Legge)
Pizarro Was Neues?
Rocco Nein, Herr!
Pizarro Wo sind die Depeschen?
Rocco Hier sind sie.
Pizarro (öffnet die Papiere und geht sie durch)
Immer Empfehlungen oder Vorwürfe. (Pizarro
hält bei einem Kuvert inne.) Was seh’ ich? Mich
duenkt, ich kenne diese Schrift! (Er öffnet das
“Le dò notizia che il Ministro è venuto a conoscenza del fatto che le Prigioni di Stato cui
Ella sovrintende ospitano numerose vittime di
dispotica violenza. Domani il Ministro partirà
per sorprenderLa con un inchiesta.”
“Ich gebe Ihnen Nachricht, dass der Minister in
Erfahrung gebracht hat, dass die Staatsgefängnisse, denen Sie vorstehen, mehrere Opfer willkürlicher Gewalt enthalten. Er reist morgen ab, um Sie
mit einer Untersuchung zu überraschen.”
Kuvert. Liest)
(Fa cadere il foglio.)
(Pizarro lässt das Papier sinken.)
Dio, se scoprisse che ho gettato in catene questo Florestano ch’egli crede morto da tempo!
Eppure c’è un mezzo! un gesto audace!!
Gott, wenn er entdeckte, dass ich diesen Florestan
in Ketten liegen habe, den er längst tot glaubt!
– Doch es gibt ein Mittel! Eine kühne Tat!!
N. 7 Aria con Coro
Pizarro
Ah! Quale istante!
Placherò la mia vendetta!
Ti chiama il tuo destino!
Frugare nel suo cuore,
o voluttà, o gran piacere!
In preda allo scherno,
già ero quasi
disteso nella polvere.
Ora tocca a me
assassinare l’assassino,
nella sua ultima ora,
col ferro nella sua ferita,
gridargli ancora all’orecchio:
Trionfo! La vittoria è mia!
Nr. 7 Arie mit Chor
Pizarro
Ha! welch ein Augenblick!
Die Rache werd’ ich kühlen!
Dich rufet dein Geschick!
In seinem Herzen wühlen,
o Wonne, großes Glück!
Schon war ich nah’, im Staube,
dem lauten Spott zum Raube,
dahingestreckt zu sein.
Nun ist es mir geworden,
den Mörder selbst zu morden,
in seiner letzen Stunde,
den Stahl in seiner Wunde,
ihm noch ins Ohr zu schrein:
Triumph! Der Sieg ist mein!
La Guardia
Egli parla di morte e ferita,
ora via, alla vostra ronda!
Die Wache (halblaut unter sich)
Er spricht von Tod und Wunde,
nun fort auf unsre Runde!
45
Wie wichtig muß es sein!
Wacht scharf auf eurer Runde!
Dev’essere una cosa importante!
Attenti, vegliate nella vostra ronda!
Dialog
Pizarro (ruft den Offizier seiner Schildwache
zu sich.) Hauptmann! Besteigen Sie mit einem
Trompeter den Turm. – Sehen Sie mit der größten
Achtsamkeit auf die Straßen von Sevilla. – Sobald
Sie einen Wagen sehen, lassen Sie ein Signal
geben! Augenblicklich ein Signal, verstehen Sie?
(Der Offizier nickt.) Sie haften mir mit Ihrem Kopf
dafür! (Der Hauptmann salutiert.) Fort, auf Eure
Posten! (Der Hauptmann geht mit der Schildwache
ab. Pizzarro wendet sich an Rocco) Rocco!
Rocco Herr!
Dialogo
Pizarro (chiama a sé l’ufficiale della Guardia.) Capitano! Salga sulla torre con un trombettiere.
– Controlli con la massima attenzione la strada di Siviglia. – Appena avvista una carrozza
ordini di dare un segnale! Comprende? Un
segnale all’istante!
(L’ufficiale annuisce.) Me ne risponderà con la
testa! (Il capitano saluta.) Su, ai vostri posti! (Il
Nr. 8 Duett
Pizarro
Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!
Dir wird ein Glück zu Teile,
du wirst ein reicher Mann,
N. 8 Duetto
Pizarro
Adesso, vecchio, v’è premura!
Avrai una fortuna,
sarai un uomo ricco,
das geb’ ich nur daran.
eccoti intanto questa!
Rocco
So sagt doch nur in Eile,
womit ich dienen kann.
Rocco
Ma ditemi soltanto
in che posso servirvi.
Pizarro
Du bist von kaltem Blute,
von unverzagtem Mute
durch langen Dienst geworden.
Pizarro
Tu possiedi sangue freddo,
coraggio impavido,
dopo sì lungo servizio.
Rocco
Was soll ich? Redet, redet!
Rocco
Che devo fare? Dite, dite!
Pizarro
Morden!
Pizarro
Uccidere!
Rocco (erschreckt)
Wie?
Rocco (atterrito)
Che?
Pizarro
Höre mich nur an!
Pizarro
Ascoltami bene!
(Wirft ihm einen Beutel zu.)
46
capitano se ne va con la Guardia. Pizarro si rivolge a
Rocco) Rocco!
Rocco Signore!
(Gli getta una borsa)
Tu tremi? Sei un uomo?
Non dobbiamo indugiare;
importa allo Stato
toglier di mezzo
il suddito malvagio.
Rocco
Oh signore!
Rocco
O Herr!
Pizarro
Esiti ancora?
Pizarro
Du stehst noch an?
Du bebst? bist du ein Mann? –
Wir dürfen gar nicht säumen,
dem Staate liegt daran,
den bösen Untertan
schnell aus dem Weg zu räumen.
(fra sé)
(für sich)
Non deve più vivere,
altrimenti per me è finita.
Pizarro dovrebbe tremare?
Tu soccombi - io resterò.
Er darf nicht länger leben,
sonst ist’s um mich gescheh’n.
Pizarro sollte beben?
Du fällst, ich werde steh’n.
Rocco
Mi sento tremare le membra,
come potrei reggere?
Io non gli tolgo la vita,
accada quel che accada.
No, signore, togliere la vita
non è il mio dovere.
Rocco
Die Glieder fühl’ ich beben,
wie könnt’ ich das besteh’n?
Ich nehm’ ihm nicht das Leben,
mag, was da will, gescheh’n.
Nein, Herr, das Leben nehmen,
das ist nicht meine Pflicht.
Pizarro
M’adatterò io stesso
se a te manca il coraggio.
Ora affrèttati rapido e con animo
laggiù da quell’uomo,
tu sai, tu sai...
Pizarro
Ich will mich selbst bequemen,
wenn dir’s an Mut gebricht.
Nun eile rasch und munter
zu jenem Mann hinunter,
du weißt, du weißt –
Rocco
Che appena vive,
e s’agita come un’ombra?
Rocco
Der kaum mehr lebt,
und wie ein Schatten schwebt?
Pizarro (con ghigno feroce)
Da lui, da lui laggiù!
Io aspetto lì vicino,
tu scavi nella cisterna
rapido una fossa.
Pizarro (mit Grimm)
Zu dem, zu dem hinab!
Ich wart’ in kleiner Ferne,
du gräbst in der Cisterne
sehr schnell ein Grab.
Rocco
E poi? e poi?
Rocco
Und dann? und dann?
47
Pizarro
Dann werd’ ich selbst vermummt
mich in den Kerker schleichen:
Pizarro
Poi io stesso mascherato
penetrerò nel carcere:
ein Stoß – und er verstummt!
un colpo, ed è spacciato!
Rocco
Verhungernd in den Ketten,
ertrug er lange Pein.
Ihn töten heißt ihn retten,
der Dolch wird ihn befrei’n.
Rocco
Affamato e in catene
sopportò lunga pena,
ucciderlo è come salvarlo,
il pugnale lo libererà.
Pizarro
Er sterb’ in seinen Ketten,
zu kurz war seine Pein!
Sein Tod nur kann mich retten,
dann werd’ ich ruhig sein.
Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!
Hast du mich verstanden?
Du giebst ein Zeichen;
dann werd’ ich selbst vermummt
mich in den Kerker schleichen:
ein Stoß – und er verstummt!
Pizarro
Muoia nelle sue catene,
troppo breve fu la sua pena!
Solo la sua morte mi può salvare,
poi sarò tranquillo.
Adesso, vecchio, adesso v’è premura!
M’hai compreso?
Tu dài un segnale!
Poi io stesso, mascherato,
penetrerò nel carcere:
un colpo, ed è spacciato!
(Er zeigt den Dolch.)
(Ab gegen den Garten, Rocco folgt ihm.)
Sechster Aufritt
(mostra il pugnale)
(esce verso il giardino, Rocco lo segue.)
Scena sesta
Leonore (allein)
(Sie tritt in heftiger innerer Bewegung von der
andern Seite auf und sieht den Abgehenden mit
steigender Unruhe nach.)
Leonore (sola)
(Entra dall’altro lato estremamente agitata e segue
con lo sguardo e con crescente inquietudine i due che
s’allontanano.)
Nr. 9 Rezitativ und Arie
Leonore
Abscheulicher! wo eilst du hin?
Was hast du vor – in wildem Grimme?
Des Mitleids Ruf, der Menschheit Stimme, –
N. 9 Recitativo e Aria
Leonore
Scellerato! Dove t’affretti?
Che mediti con selvaggio furore?
Il richiamo della pietà, la voce dell’umanità –
rührt nichts mehr deinen Tigersinn?
Doch toben auch wie Meereswogen
dir in der Seele Zorn und Wut,
so leuchtet mir ein Farbenbogen,
der hell auf dunkeln Wolken ruht;
non toccano più il tuo cuore di tigre?
Ma se, come i marosi, imperversano
nella tua anima rabbia e furore,
per me riluce un’iride
che posa luminosa su cupe nubi;
(heftig)
48
(con ferocia)
riluce così serena e pacifica,
specchio di tempi antichi,
e ancora il mio sangue fluisce placato.
Vieni, speranza, non far impallidire
l’ultima stella a me affranta!
O vieni, illumina la mia meta, pur sì lontana,
l’amore la raggiungerà,
Der blickt so still, so friedlich nieder,
der spiegelt alte Zeiten wieder,
und neu besänftigt wallt mein Blut.
Komm, Hoffnung, laß den letzten Stern
der Müden nicht erbleichen!
O komm, erhell’ mein Ziel, sei’s noch so fern,
die Liebe, sie wird’s erreichen.
Seguo l’impulso interiore,
io non vacillo,
mi dà forza il dovere
d’un fedele amore di sposa!
O tu, per cui tutto sopportai,
possa io penetrare là
dove la malvagità ti tiene in catene,
e portarti dolce conforto!
Ich folg’ dem innern Triebe,
ich wanke nicht,
mich stärkt die Pflicht
der treuen Gattenliebe.
O du, für den ich alles trug,
könnt’ ich zur Stelle dringen,
wo Bosheit dich in Fesseln schlug,
und süßen Trost dir bringen!
(Esce verso il giardino.)
(Ab gegen den Garten.)
Scena settima
Siebenter Auftritt
Marzelline, Jaquino
(Marzelline e Jaquino entrano in scena, discutendo.)
Marzelline, Jaquino
(Marzelline und Jaquino betretend streitend die Bühne.)
Dialogo
Jaquino Ma, Marzelline.
Marzelline Non una parola!
Jaquino Chi l’avrebbe mai detto quando mi –
Marzelline Non una sillaba!
Jaquino Prima ero il caro Jaquino, ma da
quando questo Fidelio –
Marzelline (interrompendolo con vivacità) Fidelio
mi attira molto di più!
Jaquino Questo vagabondo, che il padre ha
raccolto solo per pietà, che – che –
Marzelline Che però io sposerò!
Dialog
Jaquino Aber Marzelline.
Marzelline Kein Wort!
Jaquino Wer das gesagt hätte, als ich mir –
Marzelline Keine Silbe mehr!
Jaquino Früher, da war ich der liebe Jaquino, aber
seit dieser Fidelio –
Marzelline (unterbricht ihn erneut) Fidelio zieht
mich weit mehr an!
Jaquino Dieser dahergelaufene Kerl, den der Vater
aus bloßem Mitleid aufgelesen hat, den – den –
Marzelline Den ich doch heiraten werde!
Scena ottava
Detti, Rocco, Leonore.
(Entra Rocco.)
Dialogo
Rocco (interrompe la figlia) Ma che avete da
Achter Aufritt
Die Vorigen, Rocco, Leonore.
(Rocco tritt auf.)
Dialog
Rocco (unterbricht seine Tochter) Was habt ihr
49
denn beide wieder zu zanken?
Marzelline Vater, er laeuft mich staendig nach.
Rocco Warum?
Marzelline Er will, dass ich ihn heirate.
Rocco (blickt lachend auf Jaquino) Nein, Jaquino, von deiner Heirat ist jetzt keine Rede; mich
beschäftigen andere Absichten.
(Sie erblickt Fidelio, der nun nach vorne tritt.)
Leonore Vater Rocco, ihr verspracht schon oft die
Gefangenen in den Garten zu lassen. – Ihr habt
es immer verschoben. Und heute ist das Wetter
so schön.
Marzelline Ja.
Rocco Ohne Erlaubnis des Gouverneurs?
Leonore Aber Ihr spracht so lange mit ihm. Vielleicht solltet ihr ihm einen Gefallen tun.
Rocco Einen Gefallen?
Leonore Dann wird er es so genau nicht nehmen.
Rocco Du hast recht. Auf diese Gefahr kann ich
es wagen. Wohl denn, öffnet die leichteren Gefängnisse. Ich gehe zu Pizarro und halte ihn zurück.
Neunter Aufritt
litigare voi due?
Marzelline Padre, mi perseguita sempre.
Rocco Perché?
Marzelline Vuole che lo sposi.
Rocco (guarda Jaquino sorridendo) No, Jaquino,
non si parli per ora del tuo matrimonio; ho
ben altri pensieri per la testa.
(Guarda Fidelio che sta giungendo da dietro.)
Leonore Padre Rocco, avete spesso promesso
di far uscire i prigionieri in giardino. – Ma
avete sempre rimandato. Oggi il tempo è così
bello.
Marzelline Sì.
Rocco Senza il permesso del Governatore?
Leonore Eppure avete parlato a lungo con
lui. Forse dovreste fargli un favore.
Rocco Un favore?
Leonore Non sarà più tanto pignolo.
Rocco Hai ragione. Posso correre questo rischio. Ebbene, aprite le celle del pianterreno.
Io però vado da Pizarro e lo trattengo.
Nona scena
Die Vorigen, Chor der Gefangenen
(Während des Ritornells kommen die Gefangenen
nach und nach auf die Bühne.)
Detti, Coro dei Prigionieri
(Durante il ritornello, i Prigionieri, pochi alla volta,
vengono in scena.)
Nr. 10 Finale
Die Gefangenen
O welche Lust, in freier Luft
den Atem leicht zu heben!
Nur hier, nur hier ist Leben,
der Kerker eine Gruft!
N. 10 Finale
I Prigionieri
O qual piacere, all’aria aperta
respirare in libertà!
Solo qui, solo qui è vita,
il carcere è una tomba.
Erster Gefangener
Wir wollen mit Vertrauen
auf Gottes Hilfe bauen,
die Hoffnung flüstert sanft mir zu:
Wir werden frei, wir finden Ruh’.
Primo prigioniero
Fiduciosi vogliamo
sperare nell’aiuto di Dio,
la speranza mi sussurra dolcemente:
saremo liberi, troveremo pace,
Die Gefangenen (jeder für sich)
O Himmel! Rettung! welch’ ein Glück!
I Prigionieri (ognuno fra sé)
O cielo! Salvezza! Qual gioia!
50
O libertà, tu ritorni?
O Freiheit, kehrst du zurück?
(Un ufficiale compare sul muro e dopo una breve
ispezione si allontana.)
(Hier erscheint ein Offizier auf dem Walle und
entfernt sich wieder.)
Secondo Prigioniero
Parlate piano! Frenatevi!
Orecchi e sguardi ci spiano.
Zweiter Gefangener
Sprecht leise, haltet euch zurück!
Wir sind belauscht mit Ohr und Blick!
(Prima che il coro sia completamente finito, Rocco
compare sul fondo della scena e parla pressantemente
con Leonore. I prigionieri si allontanano nel giardino;
Rocco e Leonore si avvicinano al proscenio.)
(Ehe der Chor noch ganz geendet ist, erscheint
Rocco im Hintergrunde der Bühne, und redet
angelegentlich mit Leonore. Die Gefangenen
entfernen sich in den Garten; Rocco und Leonore
nähern sich der Vorderbühne.)
Scena decima
Zehnter Aufritt
Rocco, Leonore
Rocco, Leonore
Leonore
Su, parlate: com’è andata?
Leonore
Nun sprecht, wie ging’s?
Rocco
Molto bene, molto bene!
Mi son fatto coraggio
e gli ho esposto ogni cosa;
immagineresti mai
che risposta m’ha dato?
Permetterà le nozze, e che tu m’aiuti;
fin d’oggi ti guiderò giù nel carcere.
Rocco
Recht gut, recht gut!
Zusammen rafft’ ich meinen Mut
und trug ihm alles vor;
und sollt’st du’s glauben,
was er zur Antwort mir gab?
Die Heirat, und daß du mir hilfst, will er erlauben;
noch heute führ’ ich in den Kerker dich hinab.
Leonore (prorompendo)
Fin d’oggi? fin d’oggi?
O che fortuna! o che gioia!
Leonore (ausbrechend)
Noch heute, noch heute?
O welch’ ein Glück, o welche Wonne!
Rocco
Vedo la tua gioia!
Ma un momento ancora,
poi andremo entrambi –
Rocco
Ich sehe deine Freude!
Nur noch ein Augenblick,
dann gehen wir schon Beide –
Leonore
Dove? dove?
Leonore
Wohin, wohin?
Rocco
– giù da quell’uomo,
Rocco
– zu jenem Mann hinab,
51
dem ich seit vielen Wochen
stets weniger zu essen gab.
cui da molte settimane
ho dato sempre meno cibo.
Leonore
Ha! wird er losgesprochen?
Leonore
Ah, verrà assolto?
Rocco
O nein!
Rocco
O no!
Leonore
So sprich, so sprich!
Leonore
Parla allora, parla!
Rocco
O nein, o nein!
Rocco
O no! o no!
(geheimnißvoll)
(con mistero)
Wir müssen ihn, doch wie? – befrei’n!
Er muß in einer Stunde
den Finger auf dem Munde
von uns begraben sein.
Lo dobbiamo, come dire?... liberare.
Deve entro un’ora
– acqua in bocca –
esser da noi sepolto.
Leonore
So ist er tot?
Leonore
È morto allora?
Rocco
Noch nicht, noch nicht!
Rocco
Non ancora, non ancora!
Leonore (zurückfahrend)
Ist ihn zu töten deine Pflich?
Leonore (sempre indagando)
Ucciderlo è tuo dovere?
Rocco
Nein, guter Junge, zitt’re nicht,
zum Morden dingt sich Rocco nicht, nein!
Der Gouverneur kommt selbst hinab,
wir beide graben nur das Grab.
Rocco
No, buon giovane, non tremare:
Rocco non è prezzolato per uccidere, no, no!
Il governatore viene laggiù in persona:
noi due scaviamo soltanto la fossa.
Leonore (bei Seite)
Vielleicht das Grab des Gatten graben?
Was kann fürchterlicher sein! Was!
Leonore (a parte)
Scavare forse la fossa del marito:
che può esserci di più terribile? Che?
Rocco
Ich darf ihn nicht mit Speise laben,
ihm wird im Grabe besser sein.
Rocco
Non devo più sostenerlo col cibo:
egli starà meglio nella fossa.
Wir müssen gleich zu Werke schreiten,
du mußt mir helfen, mich begleiten,
hart ist des Kerkermeisters Brot.
Dobbiamo porci subito all’opera:
tu mi devi aiutare, accompagnare;
duro è il pane del capocarceriere.
52
Leonore
Ti seguo, fosse sino alla morte.
Leonore
Ich folge dir, wär’s in den Tod.
Rocco
Nella cisterna in rovina
prepariamo facilmente lo scavo.
Credimi, non lo faccio volentieri:
anche per te è raccapricciante, mi sembra.
Rocco
In der zerfallenen Zisterne
bereiten wir die Grube leicht;
ich tu’ es, glaube mir, nicht gerne;
auch dir ist schaurig, wie mich deucht?
Leonore
È che non ci sono ancora abituato.
Leonore
Ich bin es nur noch nicht gewohnt.
Rocco
Te l’avrei volentieri risparmiato,
ma sarebbe troppo pesante per me solo,
e il nostro padrone è così severo.
Rocco
Ich hätte gerne dich verschont,
doch wird es mir allein zu schwer,
und gar so streng ist unser Herr.
Leonore (fra sé)
O che dolore!
Leonore (für sich)
O welch’ ein Schmerz!
Rocco (fra sé)
Mi pare che pianga.
Rocco (für sich)
Mir scheint, er weine.
(ad alta voce)
No, tu resti qui, vado io solo.
(laut)
Nein, du bleibst hier, – ich geh’ alleine.
Leonore (aggrappandosi a lui con tenerezza)
O no, o no,
devo vederlo, vedere il misero,
dovessi anch’io perire!
Leonore (innig sich an ihn klammernd)
O nein, o nein!
Ich muß ihn sehn, den Armen sehen,
und müßt ich selbst zu Grunde gehen!
Leonore e Rocco
E allora non più indugi:
compiamo il nostro duro dovere.
Leonore und Rocco
So säumen wir nun länger nicht,
wir folgen unsrer strengen Pflicht.
Scena undicesima
Detti, Jaquino e Marzelline
Elfter Auftritt
Vorige, Jaquino und Marzelline
Marzelline (entra precipitosamente, senza fiato)
Ah, padre, affrettatevi!
Marzelline (atemlos hereinstürzend)
Ach, Vater, Vater, eilt!
Rocco
Ma che ti succede?
Rocco
Was hast du denn?
Jaquino
Non più indugi!
Jaquino
Nicht länger weilt!
53
Rocco
Was ist geschehn?
Rocco
Che è avvenuto?
Marzelline
Voll Zorn folgt mir.
Marzelline
Pieno d’ira mi segue.
Pizarro
Nach, er drohet dir!
Pizarro
Ti minaccia!
Jaquino
Nicht länger weilt!
Jaquino
Non più indugi!
Rocco
Gemach, gemach!
Rocco
Calma, calma!
Leonore
So eilet fort!
Leonore
Partite in fretta!
Rocco
Nur noch dies Wort: sprich, weiß er schon?
Rocco
Solo una parola ancora: parla, sa già tutto?
Jaquino
Ja, er weiß es schon.
Jaquino
Sì, già lo sa.
Marzelline
Der Offizier sagt’ ihm,
was wir jetzt den Gefangenen gewähren.
Marzelline
L’ufficiale gli ha riferito
quel che ora concediamo ai prigionieri.
Rocco
Laßt alle schnell zurücke kehren!
Rocco
Fateli rientrare tutti rapidamente!
(Jaquino ab in den Garten.)
(Jaquino va nel giardino.)
Marzelline
Ihr wißt ja, wie er tobet,
und kennet seine Wut.
Marzelline
Voi già sapete come s’infuria,
e conoscete la sua collera.
Leonore
Wie mir’s im Innern tobet,
empöret ist mein Blut!
Leonore
Come infuria il mio cuore,
il mio sangue ribolle!
Rocco
Mein Herz hat mich gelobet,
sei der Tyrann in Wut!
Rocco
Il mio cuore mi ha approvato:
sia pure in collera il tiranno!
(Marzelline eilt Jaquino nach.)
(Marcellina s’affretta dietro Jaquino.)
54
Scena dodicesima
Detti, Pizarro, due Ufficiali, Guardie
Zwölfter Auftritt
Die Vorigen, Pizarro, zwei Offiziere, Wachen
Pizarro
Vecchio audace, quali diritti
ti attribuisci temerario?
Tocca forse al servo stipendiato
conceder libertà ai prigionieri?
Pizarro
Verweg’ner Alter, welche Rechte
legst du dir frevelnd selber bei?
Und ziemt es dem gedung’nen Knechte,
zu geben die Gefang’nen frei?
Rocco (con imbarazzo)
O signore!
Rocco (verlegen)
O Herr!
Pizarro
Allora, allora!
Pizarro
Wohlan, wohlan!
Rocco (cercando una scusa)
Il sopraggiungere della primavera,
la luminosa, calda luce del sole,
poi – (riprendendosi)
avete ben considerato
quanto parla a mio favore?
Rocco (eine Entschuldigung suchend)
Des Frühlings Kommen,
das heit’re warme Sonnenlicht,
dann – (sich fassend)
habt ihr wohl in Acht genommen,
was sonst zu meinem Vorteil spricht?
(togliendosi il berretto)
Oggi è l’onomastico del re:
noi lo festeggiamo in tal modo.
(in segreto, a Pizarro)
Quello laggiù muore, lasciate che gli altri
ora passeggino lieti avanti e indietro;
solo per quello si riservi la collera.
Pizarro (sottovoce)
Allora affrèttati a scavargli la fossa:
là troverò pace e serenità.
Rinchiudi di nuovo i prigionieri,
non permetterti più tanta audacia!
Scena tredicesima
Detti, Marzelline, Jaquino, i Prigionieri
I prigionieri (dal giardino)
Addio, calda luce del sole,
tu presto ci abbandonerai!
Già scende quaggiù la notte,
da cui non sorgerà sì presto il mattino!
(die Mütze abnehmend)
Des Königs Namensfest ist heute,
das feiern wir auf solche Art.
(geheim zu Pizarro)
Der unten stirbt, – doch laßt die Andern
jetzt fröhlich hin und wieder wandern;
für Jenen sei der Zorn gespart!
Pizarro (leise)
So eile, ihm sein Grab zu graben,
hier will ich stille Ruhe haben.
Schließ’ die Gefang’nen wieder ein,
mögst du nie mehr verwegen sein!
Dreizehnter Auftritt
Die Vorigen, Marzelline, Jaquino, die Gefangenen
Die Gefangenen (aus dem Garten)
Leb’ wohl, du warmes Sonnenlicht,
schnell schwindest du uns wieder!
Schon sinkt die Nacht hernieder,
aus der so bald kein Morgen bricht!
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Marzelline (die Gefangenen betrachtend)
Wie eilten sie zum Sonnenlicht,
und scheiden traurig wieder!
Marzelline (osservando i prigionieri)
Come son corsi verso la luce del sole,
e tristi di nuovo se ne allontanano!
Die Andern murmeln nieder,
hier wohnt die Lust, die Freude nicht!
Gli altri mormorano nel discendere,
qui non dimorano né il piacere né la gioia.
Leonore (zu den Gefangenen)
Ihr hört das Wort, drum zögert nicht,
kehrt in den Kerker wieder!
Leonore (ai prigionieri)
Sentite l’ordine, quindi non indugiate,
ritornate nel carcere!
Angst rinnt durch meine Glieder;
ereilt den Frevler kein Gericht?
Angoscia scorre nelle mie membra;
nessuna giustizia colpisce il malvagio?
Jaquino (zu den Gefangenen)
Ihr hört das Wort, drum zögert nicht,
kehrt in den Kerker wieder!
Jaquino (ai prigionieri)
Sentite l’ordine, quindi non indugiate,
ritornate nel carcere!
Sie sinnen auf und nieder!
Könnt’ ich versteh’n, was Jeder spricht!
Ha ciascuno i suoi pensieri!
Potessi capire quel che si dicono!
Pizarro
Nun, Rocco, zög’re länger nicht,
steig’ in den Kerker nieder!
Pizarro
Ora, Rocco, non più indugi,
scendi giù nel carcere!
Nicht eher kehrst du wieder,
bis ich vollzogen das Gericht!
Non tornerai indietro
prima ch’io abbia eseguito la sentenza.
Rocco
Nein, Herr, ich zög’re länger nicht,
ich steige eilend nieder!
Rocco
No, signore, non più indugi,
scendo giù rapidamente!
Mir beben meine Glieder;
o unglückselig harte Pflicht!
Tremano le mie membra;
o duro, sciagurato dovere!
(Die Gefangenen gehen in ihre Zellen, die Leonore
und Jaquino verschließen.)
(I prigionieri vanno nelle loro celle, che vengono
rinchiuse da Leonora e Jaquino.)
Ende des ersten Aufzuge
Fine dell’Atto primo
(für sich)
(für sich)
(für sich, Rocco und Leonore betrachtend)
(leise)
(für sich)
56
(fra sé)
(fra sé)
(fra sé, osservando Rocco e Leonore)
(a bassa voce)
(fra sé)
57
58
ATTO SECONDO
La scena rappresenta un oscuro carcere sotterraneo.
A sinistra degli spettatori v’è una cisterna ricoperta di
pietre e calcinacci; sul fondo vi sono numerose aperture
nel muro munite d’inferriate, attraverso le quali si
scorgono i gradini di una scala che scende dall’alto
verso il basso. A destra gli ultimi gradini e la porta che
si apre sulla prigione. Arde una lampada.
Scena prima
ZWEITER AUFZUG
Das Theater stellt einen unterirdischen dunkeln
Kerker vor. Den Zuschauern links ist eine mit Steinen
und Schutt bedeckte Zisterne; im Hintergrunde sind
mehrere mit Gitterwerk verwahrte Öffnungen in
der Mauer, durch welche man die Stufen einer von
der Höhe herunterführenden Treppe sieht. Rechts
die letzten Stufen und die Tür in das Gefängniß.
Eine Lampe brennt.
Erster Aufritt
Florestan (solo)
(È seduto su una pietra; attorno al corpo ha una lunga
catena, la cui estremità è assicurata al muro.)
Florestan (allein)
(Er sitzt auf einem Steine, um den Leib hat er eine
lange Kette, deren Ende in der Mauer befestigt ist.)
N. 11 Introduzione e Aria
Nr. 11 Introduktion und Arie
Florestan
Dio! Qual buio qui!
O orribile silenzio!
Deserto è tutt’intorno a me:
nulla vive oltre a me.
O severa prova!
Ma giusta è la volontà di Dio!
Non mi lamento:
Tu stabilisci la misura delle sofferenze.
Nei giorni di primavera della vita
la felicità è volata via da me;
Osai dire con coraggio la verità,
e le catene son la mia ricompensa.
Docile sopporto ogni dolore,
finisco misero il mio cammino;
dolce conforto nel mio cuore:
ho fatto il mio dovere!
(con un’esaltazione al limite della follia, ma tuttavia
serena)
Forse non sento un’aria soave,
Florestan
Gott! welch’ Dunkel hier!
O grauenvolle Stille!
Öd’ ist es um mich her:
Nichts lebet außer mir.
O schwere Prüfung!
Doch gerecht ist Gottes Wille!
Ich murre nicht:
das Maß der Leiden steht bei dir.
In des Lebens Frühlingstagen
ist das Glück von mir gefloh’n;
Wahrheit wagt’ ich kühn zu sagen,
und die Ketten sind mein Lohn.
Willig duld’ ich alle Schmerzen,
ende schmählich meine Bahn;
süßer Trost in meinem Herzen:
meine Pflicht hab’ ich getan!
(in einer an Wahnsinn grenzenden, jedoch ruhigen
Begeisterung)
Und spür’ ich nicht linde,
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sanft säuselnde Luft?
und ist nicht mein Grab mir erhellet?
Ich seh’, wie ein Engel im rosigen Duft
sich tröstend zur Seite mir stellet,
ein Engel, Leonoren, der Gattin so gleich,
der führt mich zur Freiheit in’s himmlische
[Reich.
(Er sinkt erschöpft von der letzten Gemütsbewegung
auf den Felsensitz nieder, seine Hände verhüllen
sein Gesicht.)
che sussurra dolcemente?
E non s’illumina la mia tomba?
Vedo come un angelo in rosea fragranza
posarsi consolatore al mio fianco,
un angelo, così simile a Leonore,
la sposa che mi guida alla libertà nel regno dei
[cieli.
(S’accascia sul sedile di pietra, sfinito dalle ultime
emozioni; le sue mani nascondono il volto.)
Zweiter Auftritt
Scena seconda
Rocco, Leonore, Florestan
(Die beiden Ersten, die man bei dem Schein einer
Laterne die Treppe herabsteigen sah, tragen
einen Krug und Werkzeuge zum Graben. Die
Hintertür öffnet sich und das Theater erhellt sich
zur Hälfte.)
Rocco, Leonore, Florestan
(Entrambi, che attraverso le aperture si son visti
scendere alla luce d’una lanterna, portano una brocca
e arnesi da scavo. Si apre la porta di fondo e la scena
s’illumina a metà.)
Nr. 12 Melodram und Duett
N. 12 Melologo e Duetto
Leonore Wie kalt ist es in diesem unterirdischen
Gewölbe!
Rocco Das ist natürlich, es ist ja sehr tief.
Leonore Ich glaubte schon, wir würden den
Eingang gar nicht finden.
Rocco (sich nach Florestans Seite wendend) Da
ist er.
Leonore (mir gebrochener Stimme, indem sie dem
Gefangenen zu erkennen sucht) Er scheint ganz ohne
Bewegung.
Rocco Vielleicht ist er tot.
Leonore (schaudernd) Tot?! (Florestan macht
Leonore Com’è freddo in questa vòlta sotterranea!
Rocco Naturale, è così profonda!
Leonore Ormai credevo che non ne avremmo
più trovato l’entrata.
Rocco (volgendosi verso la parte di Florestan) Eccolo.
Leonore (con voce spezzata, mentre tenta di
riconoscere il prigioniero) Sembra che non si
muova più.
Rocco Forse è morto.
Leonore (con un brivido) Morto?! (Florestan fa un
eine Bewegung.)
Rocco Nein, nein, er schläft. – Das müssen wir
benützen und gleich ans Werk gehen. Wir haben
keine Zeit zu verlieren.
Leonore (beiseite) Es ist unmöglich, seine Züge zu
unterscheiden. – Gott, steh mir bei, wenn er es ist!
Rocco (setzt seine Lanterne auf die Trümmer) Hier,
unter diesen Trümmern, ist die Zisterne von der ich
dir gesagt habe. – Wir brauchen nicht viel zu graben
60
movimento.)
Rocco No, no, dorme. – Dobbiamo approfittarne, e metterci subito all’opera: non abbiamo tempo da perdere.
Leonore (a parte) È impossibile distinguere i
suoi lineamenti. – Dio m’assista, se è lui!
Rocco (posa lo suo lanterna sopra le macerie) Qui,
sotto queste macerie, c’è la cisterna di cui t’ho
parlato. – Non ci occorre scavare molto per
giungere all’apertura. Dammi una pala, e tu
mettiti qui! (Scende nell’apertura fino alla cintola,
depone la brocca e posa il mazzo di chiavi acconto a
sé. Leonore sta sull’orlo e gli porge lo pala.) Tu tremi:
hai paura?
Leonore (con forzata sicurezza di voce) O no, solo
che è tanto freddo.
Rocco (rapido) E allora su, ti scalderai di certo
lavorando. (Già durante il ritornello, Rocco comincia
um an die Öffnung zu kommen. Du gib mir eine Haue
und stelle dich hierher. (Er steigt bis an den Gürtel in
die Höhlung hinab, stellt den Krug und legt das BundSchlüssel neben sich. Leonore steht am Rand und
reicht ihm die Haue.) Du zitterst, fürchtest du dich?
Leonore (mit erzwungener Festigkeit des Tones)
O nein, es ist nur so kalt.
Rocco So mache fort, beim Arbeiten wird dir
schon warm werden. (Rocco fängt gleich mit dem
a lavorare; frattanto Leonore approfitta dei momenti in
cui Rocco si piega, per osservare il prigioniero.)
Ritornell an zu arbeiten. Während dessen benutzt
Leonore die Momente, wo sich Rocco bückt, um den
Gefangenen zu betrachten.)
Rocco (durante il lavoro, a mezza voce)
Lesti su, or presto scaviamo,
fra non molto egli sarà qui.
Rocco (während der Arbeit, mit halblauter Stimme)
Nur hurtig fort, nur frisch gegraben,
es währt nicht lang, er kommt herein.
Leonore (anch’essa lavorando)
Non dovete lamentarvi,
sarete certo soddisfatto di me.
Leonore (ebenfalls arbeitend)
Ihr sollet nicht zu klagen haben,
ihr sollt gewiß zufrieden sein.
Rocco (cercando di sollevare una grossa pietra da
Rocco (einen großen Stein an der Stelle, wo er hi-
dove era franata)
nabstieg, hebend)
Vieni, aiutami a sollevare questa pietra,
Attento! Attento! È pesante!
Komm, hilf doch diesen Stein mir heben,
hab Acht! hab Acht! – er hat Gewicht.
Leonore (lo aiuta)
V’aiuto subito - non vi preoccupate;
ce la metterò tutta.
Leonore (hilft heben)
Ich helfe schon, – sorgt euch nicht;
ich will mir alle Mühe geben.
Rocco
Ancora un poco!
Rocco
Ein wenig noch!
Leonore
Pazienza!
Leonore
Geduld!
Rocco
Sta cedendo!
Rocco
Er weicht!
Leonore
Un pochino ancora!
Leonore
Nur etwas noch!
Rocco
Non è mica facile!
Rocco
Es ist nicht leicht!
(Fanno rotolare la pietra sopra le macerie.)
(Hier lassen sie den Stein über die Trümmer rollen.)
61
Leonore (ebenfalls wieder arbeitend)
Laßt mich nur wieder Kräfte haben,
wir werden bald zu Ende sein.
Leonore (riprendendo anch’essa il lavoro)
Lasciatemi riprendere le forze,
saremo presto alla fine.
Wer du auch sei’st, ich will dich retten,
bei Gott! du sollst kein Opfer sein!
Gewiß, ich löse deine Ketten,
ich will, du Armer, dich befrei’n.
Chiunque tu sia, ti voglio salvare;
per Dio, non sarai una vittima!
Sì, io sciolgo le tue catene
misero, ti voglio liberare.
Rocco (sich schnell aufrichtend)
Was zauderst du in deiner Pflicht?
Rocco (rialzandosi rapidamente)
Perché indugi durante il lavoro?
Leonore (fängt wieder an zu arbeiten)
Mein Vater! nein, ich zaud’re nicht.
Leonore (riprende a lavorare)
Padre mio, no, io non indugio.
(Graben. Florestan erwacht.)
(Scavano. Florestan si sveglia.)
Dialog
Leonore Er erwacht!
Rocco Er erwacht?
Leonore Ja.
Rocco (er steigt aus der Grube) Ich muss allein
mit ihm reden. (Er tritt auf Florestan zu.) Ihr
habt geruht?
Florestan Geruht? Wie fände ich Ruhe?
Leonore (leise) Diese Stimme!
Florestan Werdet ihr immer bei meinen Klagen
taub sein?
Leonore (leise) Gott! Er ist´s!
Rocco Ich vollziehe die Befehle, die man mir gibt.
Florestan Wenn ich denn verdammt bin, so lasst
mich nicht langsam verschmachten.
Rocco Alles, was ich euch anbieten kann, ist ein
Rest Wein. Fidelio!
Dialog
Leonore Si sveglia!
Rocco Si sveglia?
Leonore Sì.
Rocco (sale dalla fossa) Devo parlare da solo con
lui. (si avvicina a Florestan) Avete riposato?
Leonore Wer sollt es nicht sein! – Ihr selbst,
Meister Rocco –
Rocco Es ist wahr, der Mensch hat so eine Stimme.
Leonore Ja, sie dringt in die Tiefe des Herzens.
Leonore E chi non lo sarebbe! – Voi stesso
mastro Rocco –
Rocco È vero, quell’uomo ha una voce.
Leonore Sì, penetra nel profondo del cuore.
(betrachtet den Gefangenen, während Rocco, von
ihr abgewendet, mit gekrümmtem Rücken arbeitet;
leise, für sich)
(Leonore bringt den Krug in höchster Eile heran.)
Rocco (zu Leonore) Du bist ja ganz in Bewegung.
(Sie nimmt Florestan die Maske ab.)
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(mentre Rocco, discosto da lei, lavora con la schiena
piegata, ella osserva il prigioniero; sottovoce, fra sé)
Florestan Riposato? Come posso riposare?
Leonore (sottovoce) Questa voce!
Florestan Sarete sempre sordo ai miei lamenti?
Leonore (sottovoce) Dio! È lui!
Rocco Eseguo gli ordini che mi vengono dati.
Florestan Se sono condannato, non fatemi
morire lentamente.
Rocco Tutto ciò che vi posso offrire è un fondo
di vino. Fidelio!
(Leonore porta la brocca con grande sollecitudine.)
Rocco (a Leonore) Ma tu sei già commosso.
(Svelandosi a Florestan.)
Nr. 13 Terzetto
Nr. 13 Terzett
Florestan
Abbiate ricompensa in mondi migliori,
il cielo vi ha mandati a me.
O grazie! M’avete dolcemente ristorato;
non posso ricambiare la buona azione.
Florestan
Euch werde Lohn in bessern Welten,
der Himmel hat euch mir geschickt.
O Dank! Ihr habt mich süß erquickt;
ich kann die Wohltat nicht vergelten.
Rocco (piano a Leonore, traendola in disparte)
Volentieri ristorai il misero,
ormai è finita per lui.
Rocco (leise zu Leonore, die er bei Seite zieht)
Ich labt’ ihn gern, den armen Mann,
es ist ja bald um ihn getan.
Leonore (fra sé)
Con qual forza batte questo cuore,
ondeggia fra gioia e acuto dolore!
Leonore (für sich)
Wie heftig pochet dieses Herz,
es wogt in Freud’ und scharfem Schmerz!
Florestan (fra sé)
Vedo turbato questo giovinetto,
e anche quest’uomo si mostra commosso.
O Dio, tu mi mandi la speranza
di poter vincere ancora.
Florestan (für sich)
Bewegt seh’ ich den Jüngling hier,
und Rührung zeigt auch dieser Mann.
O Gott, du sendest Hoffnung mir,
daß ich sie noch gewinnen kann.
Leonore
Ci attende l’ora suprema, tremenda,
che mi reca morte o salvezza.
Leonore
Die hehre, bange Stunde winkt,
die Tod mir oder Rettung bringt.
Rocco
Faccio quel che impone il mio dovere,
ma odio ogni crudeltà.
Rocco
Ich tu’, was meine Pflicht gebeut,
doch hass’ ich alle Grausamkeit.
Leonore (a Rocco, togliendosi di tasca un pezzo di
Leonore (leise zu Rocco, indem sie ein Stückchen
pane)
Questo pezzo di pane - sì, da due giorni
lo porto sempre con me.
Brot aus der Tasche zieht)
Dies Stückchen Brot, – ja, seit zwei Tagen
trag’ ich es immer schon bei mir.
Rocco
Davvero vorrei, ma ti dico,
in verità, sarebbe osare troppo.
Rocco
Ich möchte gern, doch sag’ ich dir,
das hieße wirklich zu viel wagen.
Leonore
Ah! Volentieri voi confortaste il misero.
Leonore
Ach! Ihr labtet gern den armen Mann.
Rocco
Non è permesso, non è permesso.
Rocco
Das geht nicht an, das geht nicht an.
63
Leonore (wie vorhin)
Es ist ja bald um ihn getan.
Leonore (come sopra)
Ormai è finita per lui.
Rocco
So sei es, ja, so sei’s! du kannst es wagen.
Rocco
E sia – sì, e sia – ti puoi arrischiare.
Leonore (in größter Bewegung Florestan das
Leonore (porgendo il pane a Florestan)
Da nimm das Brot, du armer Mann!
Ecco, prendi il pane, o misero!
Florestan (Leonorens Hand ergreifend und an
Florestan (afferrando la mano di Leonore e strin-
O dank dir, Dank, o Dank!
Euch werde Lohn in bessern Welten,
der Himmel hat euch mir geschickt.
O Dank, ihr habt mich süß erquickt!
Bewegt seh’ ich den Jüngling hier,
und Rührung zeigt auch dieser Mann,
o wenn ich sie gewinnen kann!
O grazie a te, grazie, grazie!
Abbiate ricompensa in mondi migliori,
il cielo vi ha mandati a me.
O grazie, il cielo vi ha mandati a me!
Vedo turbato il giovinetto,
e anche quest’uomo si mostra commosso,
o s’io potessi vincere!
Leonore
Der Himmel schicke Rettung dir,
dann wird mir hoher Lohn gewährt.
Ihr labt’ ihn gern, den armen Mann!
Leonore
Il cielo ti mandi salvezza,
allora mi toccherà suprema ricompensa,
Volentieri avete confortato il misero.
Rocco
Mich rührte oft dein Leiden hier,
doch Hilfe war mir streng verwehrt.
Rocco
Sovente mi commosse la tua sofferenza
ma mi fu vietato severamente di aiutarti,
Ich labt’ ihn gern, den armen Mann,
es ist ja bald um ihn getan!
Volentieri ho ristorato il misero,
ormai è finita per lui!
Leonore
O mehr, als ich ertragen kann!
Leonore
Oh, è più di quanto posso sopportare!
Florestan
O daß ich euch nicht lohnen kann!
Florestan
O potessi ricompensarvi!
Brot reichend)
sich drückend)
(für sich)
(Florestan verschlingt das Stück Brot.)
Dritter Auftritt
gendola a sé)
(fra sé)
(Florestan inghiotte il pezzo di pane.)
Scena terza
Vorige, Pizarro
(Pizarro tritt aus dem Fahrkorb.)
Detti, Pizarro
(Pizarro esce dalla cesta.)
Pizarro Ist alles bereit?
Pizarro È tutto pronto?
64
Rocco Sì, signore.
Pizarro Bene! – Bene, il giovane si deve allontanare! (a Leonore) Via! Via, via!
(Leonore si allontana controvoglia.)
Rocco (a Pizarro) Gli devo togliere le catene?
Pizarro No! Il tempo stringe!
Rocco Ja, Herr.
Pizarro Gut! – Der Jüngling soll sich entfernen!
Rocco (zu Leonore) Geh! Geh, geh!
(Leonore entfernt sich widerstrebend.)
Rocco (zu Pizzarro) Soll ich ihm die Ketten
abnehmen?
Pizarro Nein! Die Zeit drängt!
N. 14 Quartetto
Pizarro
Muoia!
Ma prima deve sapere
chi gli dilania il superbo cuore.
Si squarcino le tenebre della vendetta!
Guarda, tu non m’hai ingannato!
(Si toglie il mantello.)
Pizarro, che volevi rovinare,
Pizarro, che dovevi temere,
ora è qui vendicatore.
Nr. 14 Quartett
Pizarro
Er sterbe!
Doch er soll erst wissen,
wer ihm sein stolzes Herz zerfleischt.
Der Rache Dunkel sei zerrissen!
Sieh’ her, du hast mich nicht getäuscht!
(Er schlägt den Mantel auf.)
Pizarro, den du stürzen wolltest,
Pizarro, den du fürchten solltest,
steht nun als Rächer hier.
Florestan (calmo)
Un assassino sta dinanzi a me!
Florestan (gefaßt)
Ein Mörder steht vor mir.
Pizarro
Ancora una volta ti rinfaccio
quel che tu facesti.
Solo un attimo ancora, e questo pugnale –
Pizarro
Noch einmal ruf’ ich dir,
was du getan, zurück.
Nur noch ein Augenblick, und dieser Dolch –
(Vuol trafiggere Florestan.)
Leonore (si getta in avanti e copre Florestan con il
proprio corpo.)
Indietro!
(Er will Florestan durchbohren.)
Leonore (stürzt mit einem durchdringenden Geschrei
hervor und bedeckt Florestan mit ihrem Leibe)
Zurück!
Florestan
O Dio!
Florestan
O Gott!
Rocco
Che succede?
Rocco
Was soll?
Leonore
Trafiggere devi prima questo petto!
La morte ti tocchi per la tua sete di sangue.
Leonore
Durchbohren mußt du erst diese Brust!
Der Tod sei dir geschworen für deine Mörderlust.
65
Pizarro (schleudert sie fort)
Wahnsinniger!
Pizarro (la respinge)
Pazzo!
Rocco (zu Leonore)
Halt’ ein! halt’ ein!
Rocco (a Leonore)
Fèrmati, fèrmati!
Florestan
O Gott! o mein Gott!
Florestan
O mio Dio!
Pizarro
Er soll bestrafet sein!
Pizarro
Dev’essere punito!
Leonore (noch einmal ihren Mann bedeckend)
Töt’ erst sein Weib!
Leonore (coprendo ancora una volta lo sposo.)
Uccidi prima sua moglie!
Pizarro
Sein Weib?
Pizarro
Sua moglie?
Rocco
Sein Weib?
Rocco
Sua moglie?
Florestan
Mein Weib?
Florestan
Mia moglie?
Leonore (zu Florestan)
Ja, sieh’ hier Leonore!
Leonore (a Florestan)
Sì, ecco Leonora!
Florestan
Leonore!
Florestan
Leonora!
Leonore (zu den Anderen)
Ich bin sein Weib, geschworen
hab’ ich ihm Trost, Verderben dir!
Leonore (agli altri)
Sono sua moglie, ho giurato
a lui conforto, a te rovina!
Pizarro (für sich)
Welch’ unerhörter Mut!
Pizarro (fra sé)
Che inaudito coraggio!
Florestan (zu Leonore)
Vor Freude starrt mein Blut!
Florestan (a Leonore)
Per la gioia mi si gela il sangue!
Rocco
Mir starrt vor Angst mein Blut!
Rocco
Per l’angoscia mi si gela il sangue!
Leonore (für sich)
Ich trotze seiner Wut!
Der Tod sei dir geschworen!
Leonore (fra sé)
Io sfido il suo furore!
La morte ti è dovuta!
66
Pizarro
Devo tremare davanti a una donna?
Li sacrifico entrambi alla mia ira.
(Si scaglia di nuovo su di lei e Florestan.)
Hai diviso con lui la vita,
ora dividi con lui la morte!
Leonore
Trafiggere devi prima questo petto!
(trae rapidamente dal petto una piccola pistola e la
punta contro Pizarro.)
Ancora una parola - e sei morto!
(Si sente la tromba sulla torre.)
Pizarro
Soll ich vor einem Weibe beben?
So opfr’ ich beide meinem Grimm.
(Dringt wieder auf sie und Florestan ein.)
Geteilt hast du mit ihm das Leben,
so teile nun den Tod mit ihm!
Leonore
Durchbohren mußt du erst diese Brust!
(zieht hastig eine kleine Pistole aud der Brust und
hält sie Pizarro vor.)
Noch einen Laut – und du bist tot!
(Man hört die Trompete von dem Turm.)
Leonore (abbraccia Florestan)
Ah! Tu sei salvo! Gran Dio!
Leonore (hängt an Florestans Halse.)
Ach! du bist gerettet! großer Gott!
Florestan
Ah! Son salvo! Gran Dio!
Florestan
Ach! ich bin gerettet! großer Gott!
Pizarro (stordito)
Ah! Il ministro! Inferno e morte!
Pizarro (betäubt)
Ha! der Minister! Höll’ und Tod!
Rocco (stordito)
Oh che avviene? Giusto Dio!
Rocco (betäubt)
O was ist das? gerechter Gott!
Scena quarta
Detti, Jaquino, due Ufficiali,
Soldati (con torce)
(Jaquino appare all’inizio della scala.)
Dialog
Vierter Aufritt
Die Vorigen, Jaquino, zwei Offiziere,
Soldaten (mit Fackeln)
(Jaquino erscheint an der obersten Öffnung der
Treppe.)
Dialog
Jaquino Padre Rocco! Arriva il Ministro! Il
suo sèguito è già davanti al portone!
Rocco Veniamo! Sì, veniamo! – e accompagneremo di sopra il signor Governatore!
Jaquino Vater Rocco! Der Minister kommt an! Sein
Gefolge steht schon vor dem Tor!
Rocco Wir kommen! Ja, wir kommen – und werden diesen Herrn Gouverneur hinauf begleiten!
[prosegue il Quartetto]
[Quartett folgt]
Leonore e Florestan
Suona l’ora della vendetta,
sarai / sarò salvato.
Leonore und Florestan
Es schlägt der Rache Stunde,
du sollst/ich soll gerettet sein!
67
Die Liebe wird im Bunde
mit Mute dich/mich befrei’n!
L’amore, alleato al coraggio,
ti / mi libererà.
Pizarro
Verflucht sei diese Stunde!
Die Heuchler spotten mein.
Verzweiflung wird im Bunde
mit meiner Rache sein!
Pizarro
Maledetta sia quest’ora!
Gl’ipocriti si beffano di me.
La disperazione sarà alleata
alla mia vendetta.
Rocco
O fürchterliche Stunde!
O Gott! was wartet mein?
Ich will nicht mehr im Bunde
mit diesem Wütrich sein!
Rocco
O ora terribile,
o Dio, che m’aspetta?
Non voglio esser più alleato
a questo feroce tiranno.
(Pizarro stürzt fort, indem er Rocco einen Wink gibt,
ihm zu folgen; dieser benützt den Augenblick, da
Pizarro schon geht, faßt die Hände beider Gatten,
drückt sie an seine Brust, deutet gen Himmel und eilt
nach. Die Soldaten leuchten Pizarro voraus.)
(Pizarro esce a precipizio facendo cenno a Rocco di
seguirlo; questi utilizza l’attimo in cui Pizarro si sta già
avviando, afferra le mani dei due sposi, le stringe al
petto, indica il cielo e s’affretta a salire. I soldati fanno
luce davanti a Pizarro.)
Fünfter Auftritt
Scena quinta
Leonore, Florestan
Leonore, Florestan
Nr. 15 Duett
Leonore und Florestan
O namenlose Freude!
Mein Mann an meiner Brust! / An Leonorens Brust!
Nach unnennbaren Leiden
so übergroße Lust!
N. 15 Duetto
Leonore, Florestan
Oh gioia indicibile!
Il mio sposo al mio petto! / Al petto di Leonora!
Dopo dolore inenarrabile
una così immensa gioia!
Leonore
Du wieder nun in meinen Armen!
Leonore
Tu ancora fra le mie braccia!
Florestan
O Gott! wie groß ist dein Erbarmen!
Florestan
O Dio, grande è la tua pietà!
Leonore und Florestan
O dank dir, Gott, für diese Lust!
Mein Mann / Weib an meiner Brust!
Leonore, Florestan
O grazie a te, Dio, per questa gioia!
Il mio sposo / La mia sposa al mio petto!
Florestan
Du bist’s!
Florestan
Sei tu!
68
Leonore
Son io!
Leonore
Ich bin’s!
Florestan
O piacere celeste!
Florestan
O himmlisches Entzücken!
Leonore
Sei tu!
Leonore
Du bist’s!
Florestan
Son io!
Florestan
Ich bin’s!
Leonore
O piacere celeste!
Leonore
O himmlisches Entzücken!
Florestan
Leonore!
Florestan
Leonore!
Leonore
Florestan!
Leonore
Florestan!
Scena sesta
Sechster Aufritt
Rocco, Detti
(Rocco stürzt herein. Alle drei ab.)
Rocco, die Vorigen
(Rocco stürzt herein. Alle drei ab.)
[Dialogo tagliato.]
[Ohne Dialog.]
Mutamento
Piazza di parata del castello con le statue del re.
Scena settima
Verwandlung
Paradeplatz des Schlosses, mit der Statue des Königs.
Siebenter Aufritt
Fernando, Pizarro, Jaquino, Marzelline,
Ufficiali, Guardie del castello,
Prigionieri di Stato, Popolo
(Le guardie del castello marciano e formano un
quadrilatero aperto. Poi da un lato compare il ministro
Don Fernando, accompagnato da Pizarro e ufficiali. Il
popolo accorre. Dall’altro lato entrano i prigionieri di
Stato, guidati da Jaquino e Marzelline, e s’inginocchiano
davanti a Fernando.)
Don Fernando, Pizarro, Jaquino, Marzelline,
Offiziere, Schloßwachen,
Staatsgefangenen, Volk
(Die Schloßwachen marschieren auf und bilden ein
offenes Viereck. Dann erscheint von einer Seite der
Minister Don Fernando, von Pizarro und Offizieren
begleitet. Volk eilt herzu. Von der andern Seite treten, von
Jaquino und Marzelline geführt, die Staatsgefangenen
ein, die vor Don Fernando niederknien.)
N. 16 Finale
Nr. 16 Finale
Popolo e Prigionieri
Lode!
Das Volk und die Gefangenen
Heil!
69
Heil sei dem Tag, Heil sei der Stunde,
die lang ersehnt, doch unvermeint,
Gerechtigkeit mit Huld im Bunde,
vor unsers Grabes Tor erscheint! Heil!
Sia lode al giorno, sia lode all’ora,
quando, a lungo bramata, ma inattesa,
la giustizia, alleata alla grazia,
appare sul limitare della nostra tomba! Lode!
Don Fernando
Des besten Königs Wink und Wille
führt mich zu euch, ihr Armen, her,
daß ich der Frevel Nacht enthülle,
die All’ umfangen schwarz und schwer.
Nicht länger knieet sklavisch nieder,
Don Fernando
Il cenno e la volontà dell’ottimo sovrano
mi portan qui da voi, o miseri,
perch’io disveli la delittuosa notte,
che nera e greve tutti vi cinge.
Non più in ginocchio come schiavi,
(Die Gefangenen stehen auf.)
Tyrannenstrenge sei mir fern.
Es sucht der Bruder seine Brüder,
und kann er helfen, hilft er gern.
(I prigionieri si alzano.)
lungi da me la severità del tiranno.
Il fratello cerca i suoi fratelli,
e se può soccorrere, volentieri soccorre.
Achter Auftritt
Die Vorigen, Rocco (durch die Wachen dringend),
hinter ihm Leonore und Florestan
Scena ottava
Detti, Rocco (passando fra le guardie),
dietro di lui Leonore e Florestan
Rocco
Wohlan, so helfet! helft den Armen!
Rocco
Su, soccorrete, soccorrete i miseri!
Pizarro
Was seh’ ich? Ha!
Pizarro
Che vedo? Ah!
Rocco (zu Pizarro)
Bewegt es dich?
Rocco (a Pizarro)
Ti turba?
Pizarro (zu Rocco)
Fort, fort!
Pizarro (a Rocco)
Via, via!
Don Fernando (zu Rocco)
Nun rede!
Fernando (a Rocco)
Parla dunque!
Rocco
All’ Erbarmen vereine diesem Paare sich!
Rocco
La divina pietà riunisca questa coppia.
(Florestan vorführend)
(presentando Florestan)
Don Florestan –
Don Florestan –
Don Fernando (staunend)
Der Totgeglaubte, der Edle, der für Wahrheit stritt?
Fernando (stupito)
Che morto credevamo, il nobile che lottava
per la verità?
70
Rocco
E soffrì tormenti senza numero!
Rocco
Und Qualen ohne Zahl erlitt.
Fernando
L’amico mio, che morto credevamo?
Incatenato, pallido sta dinanzi a me.
Don Fernando
Mein Freund, der Totgeglaubte?
Gefesselt, bleich steht er vor mir.
Leonore e Rocco
Sì, Florestan, lo vedete qui.
Leonore und Rocco
Ja, Florestan, ihr seht ihn hier.
Rocco (presentando Leonore)
E Leonore.
Rocco (Leonore vorstellend)
Und Leonore –
Fernando (ancora più colpito)
Leonore?
Don Fernando (noch mehr betroffen)
Leonore?
Rocco
La gloria delle donne vi presento; ella giunse qui.
Rocco
Der Frauen Zierde führ’ ich vor, sie kam hierher –
Pizarro
Due parole ancora.
Pizarro
Zwei Worte sagen –
Fernando
Non una parola!
Don Fernando
Kein Wort!
(a Rocco)
Ella giunse?
(zu Rocco)
Sie kam? –
Rocco
Là al mio portone, ed entrò qual servo
ai miei ordini,
e operò con tanta virtù e fedeltà
ch’io – l’ho scelta come genero.
Rocco
Dort an mein Tor, und trat als Knecht
in meine Dienste,
und tat so brave treue Dienste,
daß ich – zum Eidam sie erkor.
Marzelline
Ahimè misera, che senton le mie orecchie!
Marzelline
O weh’ mir! was vernimmt mein Ohr!
Rocco
Quel mostro voleva in quest’ora
compiere l’assassinio di Florestan –
Rocco
Der Unmensch wollt’ in dieser Stunde
vollzieh’n an Florestan den Mord –
Pizarro (nel massimo furore)
Compiere con lui! –
Pizarro (in größter Wut)
Vollzieh’n! Mit ihm! –
Rocco (indicando se e Leonore)
D’intesa fra noi due!
Rocco (auf sich und Leonoren deutend)
Mit uns im Bunde!
71
(zu Don Fernando)
(a Fernando)
Nur euer Kommen rief ihn fort.
solo il vostro arrivo lo fece desistere.
Das Volk und die Gefangenen (sehr lebhaft)
Bestrafet sei der Bösewicht,
der Unschuld unterdrückt!
Gerechtigkeit hält zum Gericht
der Rache Schwert gezückt.
Popolo e Prigionieri (con molta vivacità)
Sia punito il malvagio
che opprime l’innocenza.
La rettitudine, per far giustizia,
tiene sguainata la spada vendicatrice.
(Pizarro wird abgeführt.)
(Pizarro viene trascinato via.)
Don Fernando (zu Rocco)
Du schlossest auf des Edlen Grab,
jetzt nimm ihm seine Ketten ab!
Doch halt! – Euch, edle Frau, allein,
euch ziemt es ganz ihn zu.
Fernando (a Rocco)
Tu schiudesti al nobile la tomba,
levagli adesso le sue catene;
ma ferma: solo a voi, nobile signora,
a voi spetta liberarlo del tutto.
Leonore (nimmt die Schlüssel, löst, in größter
Leonore (prende la chiave, con emozione estrema
Bewegung, Florestan die Ketten ab; er sinkt in
Leonorens Arme)
scioglie le catene a Florestan, che cade fra le braccia
di Leonore)
O Gott! welch’ ein Augenblick!
O Dio, quale istante!
Florestan
O unaussprechlich süßes Glück!
Florestan
Oh gioia soave, inesprimibile!
Don Fernando
Gerecht, o Gott, ist dein Gericht!
Fernando
Giusto, o Dio, è il tuo giudizio!
Marzelline und Rocco
Du prüfest, du verläßt uns nicht.
Marzelline e Rocco
Tu ci metti alla prova, non ci abbandoni.
Das Volk und die Gefangenen
Wer ein holdes Weib errungen,
stimm’ in unsern Jubel ein!
Nie wird es zu hoch besungen,
Retterin des Gatten sein.
Popolo e Prigionieri
Chi ha conquistato una soave donna,
s’unisca al nostro giubilo!
Mai sarà abbastanza esaltata
la donna che salva lo sposo.
Florestan
Deine Treu’ erhielt mein Leben,
Tugend schreckt den Bösewicht.
Florestan
La tua fedeltà mi salvò la vita,
la virtù atterrisce il malvagio.
Leonore
Liebe führte mein Bestreben,
wahre Liebe fürchtet nicht.
Leonore
L’amore guidò i miei sforzi,
il vero amore è impavido.
72
Popolo e Prigionieri
Lodate con ardore e grande gioia
il nobile coraggio di Leonore!
Das Volk und die Gefangenen
Preist mit hoher Freude Glut
Leonorens edlen Mut!
Leonore (abbracciando Florestan)
Con l’amore son riuscita
a liberarti dalle catene.
L’amore sia altamente lodato,
Florestan è ancora mio!
Leonore (ihn umarmend)
Liebend ist es mir gelungen,
dich aus Ketten zu befrei’n;
liebend sei es hoch besungen,
Florestan ist wieder mein!
Leonore, Florestan, Marzelline, Jaquino,
Don Fernando, Rocco
Con l’amore sono / sei / è riuscita
a liberarti / -mi / -lo dalle catene.
Leonore, Florestan, Marzelline, Jaquino,
Don Fernando, Rocco
Liebend ist er mir / dir / ihr gelungen,
dich / mich / ihn aus den Ketten zu befrei’n.
Tutti gli altri
Mai sarà abbastanza lodata
la donna che salva lo sposo!
Alle andere
Nie wird es zu hoch besungen,
Retterin des Gatten sein!
Fine dell’opera
Ende der Oper
73
Saggio
76
Esteban Buch
Fidelio, opera politica
Fidelio è l’opera della libertà: «Zur Freiheit, zur Freiheit!», proclama Florestan dal
profondo della sua cella. Non si tratta di libertà in generale, concepita astrattamente in
nome di buoni sentimenti, ma della questione della libertà in relazione concreta con lo
Stato, il potere, l’abuso di potere. La “prigione di Stato” di cui si parla nel libretto, una
«prigione reale situata a qualche lega da Siviglia» in un’epoca non precisata, non ha molto
da invidiare, in materia di crudeltà, ai modelli storici di violazione dei diritti dell’uomo
in seno al sistema carcerario – Abu Ghraib, Guantanamo – o ancora alle carceri delle
dittature latino-americane degli anni Settanta. All’interno del sistema diretto dal governatore Pizarro, un gran numero di questi “prigionieri di Stato” sono permanentemente
sottoposti a una “violenza arbitraria”, come citato nella lettera anonima che, avvisandolo
della imminente visita del Ministro, accelera l’esecuzione clandestina di Florestan. Il
regime di funzionamento abituale della prigione impone ai detenuti sevizie quali la privazione di aria e di luce in celle isolate, l’assenza di qualsiasi momento di rilassamento
e di intimità, l’incatenamento frequente, la permanente sorveglianza uditiva e visiva, o
ancora – ed è sicuramente uno degli aspetti più feroci della situazione – l’inesistenza
di qualsiasi prospettiva di liberazione. Quanto al motivo per il quale essi sono lì, tutto
ciò che si sa è che si tratta di “prigionieri di Stato” cioè, secondo un dizionario del
diciannovesimo secolo, persone che hanno commesso «un atto che poteva mettere in
pericolo la sicurezza dello Stato». Se non è impossibile che tale definizione comprenda
atti incontestabilmente criminali, è chiaro che essa riguarda principalmente coloro che
oggi chiamiamo prigionieri politici.
Ciò basta a ricordare che il rigore del regime penitenziario descritto nel Fidelio non
è affatto opera di un uomo isolato, particolarmente malvagio o zelante. Pizarro è sicuramente responsabile di questa “violenza arbitraria” denunciata nella lettera, di cui
Florestan è la vittima più significativa, ma è il Ministro Don Fernando in persona, il più
alto rappresentante dello Stato, ad essere in possesso della lista degli uomini sottomessi
al regime di privazione riassunto nel coro dei prigionieri alla fine del primo atto: «La
galera è una tomba». C’è da credere che questi poveri prigionieri, ritrovando l’aria aperta, siano davvero troppo sconvolti dalle privazioni per cercare di scappare, rivoltarsi o
approfittare in qualche modo della situazione; invece si accontentano di cantare questo
coro sublimemente triste che, è vero, li ha resi immortali: «O welche Lust!» («O qual
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piacere!»). Questi sventurati sono sottomessi al benvolere di un’autorità che si esercita
senza alcun controllo esterno, salvo in casi eccezionali di denuncia anonima, e in modo
completamente arbitrario, poiché la magnanimità occasionale di un solo responsabile
è sufficiente a rendere caduca l’intera logica dello strumento di repressione. La frase
inverosimile di un Ministro incaricato della sicurezza dello Stato che alla fine si rivolge
ai prigionieri come «un fratello che va verso i suoi fratelli e li aiuta, se può», segna
l’iscrizione dell’opera nell’orbita ideologica dell’Illuminismo. Ciò è vero sul piano della
storia delle idee ma, in mancanza di una qualsiasi giustificazione, il suo gesto è solo la
dimostrazione del carattere autocratico del regime che rappresenta.
Tale discorso si richiama al potere del “migliore dei Re” che, presente in effigie nel
cortile della prigione, regna inequivocabilmente sui suoi attori, tenendoli soggetti al
proprio benvolere. L’invito che il Ministro rivolge ai prigionieri in ginocchio affinché
cessino di “prostrarsi come schiavi” davanti “ai tiranni” è generalmente interpretato
come l’annuncio di un’amnistia generale. Ora, se si segue il testo alla lettera, queste
belle parole accompagnano solo il siluramento di un funzionario incompetente, e non
dicono nulla su ciò che accadrà in seguito alle vittime di quest’ultimo. Non è da escludere
che, una volta calato il sipario, questi uomini siano rimandati nelle loro celle sino alla
prossima rappresentazione con in omaggio, forse, un sorso di vino alla salute del Re. E
l’assenso passivo del Coro del Popolo, che alla fine si unisce al Coro dei Prigionieri e
all’insieme dei personaggi dell’opera per celebrare il trionfo della Giustizia – Pizarro
escluso – mostra meno la dimensione democratica di questa politica, che i limiti morali
della libertà da “despoti illuminati”, concessa per continuare a esercitare il potere come
ai tempi più bui dell’assolutismo.
L’unica eccezione a questo sistema carcerario fondato sulla violazione ufficiale e sistematica dei diritti dell’uomo è sicuramente il carcerato Florestan che, a differenza degli
uomini citati nella lista del Ministro, è tenuto in prigione da Pizarro in maniera totalmente
clandestina. Questa è una situazione assolutamente illegale, soprattutto se confrontata
con i criteri dell’epoca, la cui sola funzione è di soddisfare i desideri di vendetta del
Governatore. Ciò corrisponde tecnicamente allo status di una persona sequestrata. La
storia dell’odio di Pizarro per Florestan resta vaga, ma se ne conosce abbastanza per comprendere che, per l’esattezza, non si tratta di una controversia politica. Contrariamente a
ciò che si può immaginare per gli altri detenuti, Florestan non è un prigioniero politico;
egli si ritrova privato della libertà non a causa di opinioni o di attività politica, ma per
aver denunciato Pizarro come «assassino» (Mörder), accusa riferita alla persona, non alla
sua funzione. Florestan ha detto una “verità”, precisa ancora, che aveva il “dovere” di
rivelare, senza che si sappia se tale allusione rinvii a una funzione politica precedente
alla sua prigionia, o piuttosto al dovere nel senso morale e generale del termine; quello
che, secondo l’imperativo categorico kantiano, impone a qualsiasi persona di dire il vero
in ogni occasione, a dispetto delle conseguenze per se stesso o la sua famiglia. In ogni
caso, la denuncia del crimine di Pizarro da parte di Florestan deve essere stata alquanto
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minacciosa per il Governatore perché questi tratti a sua volta da Mörder il prigioniero,
come se ne andasse della sua stessa esistenza, o quantomeno della sua esistenza pubblica.
Dato che Pizarro non è morto, ecco una metafora che potrebbe innanzitutto suggerire
che egli è un Mörder solo metaforicamente, ovvero che non ha ucciso, ma solo commesso
un atto moralmente paragonabile a un omicidio. Ora, cosa è grave quanto un omicidio?
Nella prospettiva dell’epoca, non sarebbe improprio pensare alla blasfemia, cosa che
di conseguenza avrebbe trasformato completamente l’universo morale dell’opera. Detto
ciò, la cattiveria di Pizarro è tale che non si ha per nulla voglia di scovare in lui un lato
gentile. In assenza di qualsiasi indicazione supplementare, il suo crimine è davvero
innominabile, e questo è un modo per renderlo più abietto.
A questo punto ci si può chiedere come mai la denuncia “assassina” del crimine di Pizarro da parte di Florestan non abbia avuto alcuna evidente conseguenza negativa per lui,
che si trova a regnare da tiranno sulla realtà chiusa della prigione e dei suoi prigionieri.
Florestan non è solo tenuto in una reclusione illegale, ma viene addirittura dato per morto
dai suoi amici politici, e da questo potente Ministro che lo ama e lo ammira. Se dunque
Pizarro non ha sofferto per la rivelazione del suo crimine, e si è potuto persino vendicare
gettando il proprio accusatore in una cella, per ucciderlo lentamente facendo credere
alla sua morte, è perché gode di protezione ai vertici dello Stato, come prova l’amico
altolocato che lo avvisa dell’arrivo del Ministro. Inutile chiedersi perché non abbia subito
ucciso Florestan; nel caso, non ci sarebbe stata l’opera. Ciò non toglie che, nella logica
dell’azione che si immagina propria dei tiranni, questo sembra un errore grossolano. La
questione è sapere in quale misura Pizarro è al suo posto per caso o per errore. Dunque,
delle due l’una: o l’attitudine criminale di Pizarro non è affatto l’eccezione – cioè l’agire
deviato e deviante di un uomo cattivo all’interno di un regime essenzialmente giusto –,
ma è bensì uno dei sintomi del carattere corrotto e criminale del sistema politico, inclusi
responsabili importanti come i capi delle carceri di Stato; oppure l’impunità di cui gode
il Governatore mostra la radicale debolezza di questo regime che lascia regnare una
qualsiasi apparenza di giustizia in seno allo Stato, in particolar modo all’élite dirigente
da cui provengono Florestan, Pizarro e Fernando. I dilemmi sono sempre tristi quando
oppongono l’iniquità all’incompetenza. Nell’un caso e nell’altro, il minimo che si possa
dire è che l’immagine dello Stato non ne esce esaltata.
In effetti, questo Stato mostra di aver fallito proprio in ciò che costituisce la sua ragion
d’essere, cioè organizzare i rapporti tra gli esseri umani secondo un principio diverso
dalla legge del più forte. È questa infatti che, sotto forma di un caratterizzato abuso di
potere, consente a Pizarro di tenere in pugno Florestan in fondo a una prigione clandestina. Sappiamo che la storia antica, moderna e contemporanea è piena di storie di Stati
colpevoli di simili fallimenti. Un prigioniero detenuto illegalmente veniva chiamato,
qualche anno fa in Argentina, desaparecido, scomparso, termine che si è imposto per
indicare le migliaia di oppositori che, sotto la dittatura del generale Videla e dei suoi
amici, riempivano clandestinamente le prigioni esse stesse clandestine, senza che alcuno
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potesse sapere dove fossero o se fossero ancora in vita. La detenzione dei desaparecidos
era del resto, nella grande maggioranza dei casi, solo una tappa che portava all’esecuzione
sommaria, che consisteva nel gettarli in mare da un aereo, dunque un vero e proprio
assassinio, come quello che Pizarro riserva nell’opera al suo nemico giurato. Le persone
erano altresì sottomesse alle torture più atroci – in particolar modo sevizie con elettricità e
waterboarding, tanto apprezzato anche dal governo Bush. In confronto, il regime speciale
dipinto nel Fidelio può sembrare persino benevolo, perché si tratta solo, se così si può
dire, di lasciare morire di fame e di freddo il prigioniero per mesi, con gli arti incatenati
ai ferri in fondo ad una prigione senza aria né luce, per poi, sotto la pressione delle circostanze, finirlo con un colpo di pugnale. Ma questa differenza nel grado di violenza fisica
sui detenuti è solo una riprova del fatto che la tecnologia della crudeltà si è evoluta con
i tempi, come tutte le tecnologie. Il nòcciolo della questione resta invariato: esercitare
una violenza senza limiti sul corpo e sullo spirito di un avversario, non solo per regolare
conti politici e personali, ma anche per appagare il desiderio sadico dei carnefici, per i
quali la questione della colpa non si pone neanche come pentimento ex post facto.
Che Pizarro sia un pericoloso sadico è intuibile dalla gioia di vendetta che si sprigiona
dal suo canto e dalle sue azioni, man mano che si avvicina il momento dell’esecuzione
di Florestan. «Affondare il ferro nel suo cuore! Che gioia, che felicità!». Tale gioia è
direttamente proporzionale all’odio che costui nutre nei confronti della sua vittima, ma
non si limita alla soddisfazione imminente del mero desiderio di distruggere l’avversario.
La descrizione dell’assassinio imaginato dall’omicida fa sopraggiungere la gioia che il
terrore della sua vittima gli promette di fronte alla rivelazione dell’identità di colui che
lo uccide: «Che muoia! E sappia innanzitutto che ci si prepara a trafiggere il suo cuore
orgoglioso! Si strappi il velo della vendetta! Guardami!”. È un piacere sadico propriamente drammaturgico, come si vede ancora dal dettaglio con cui, nella prima versione
dell’opera, Pizarro progetta di rivelare la propria identità lasciando cadere una maschera
che non ha alcuna ragione di indossare, dato che il solo testimone della scena destinato
a sopravvivere, il carceriere Rocco, sa tutto sin dall’inizio. Ecco dunque il piccolo teatro
della crudeltà di cui Pizarro è privato in extremis dal gesto di Leonore: «Ich bin sein
Weib!». Leonore merita sicuramente il titolo di eroina, in quanto è l’unico personaggio
che, sfidando l’assassino a uccidere qualcun altro diverso dall’oggetto del suo odio, cioè
lei stessa, riesce a impedire la meccanica del terrorismo di Stato, e quella degli eccessi
che egli stesso si autorizza rispetto alla sua legge.
Il passaggio di Leonore dallo statuto di testimone della scena a quello di attore, cui si
aggiunge quello in cui l’attore rivela di essere un’attrice. In altre parole, la trasfigurazione dal genero del carceriere nella moglie della sua vittima, è sicuramente la principale
trovata drammaturgica di questa storia, firmata in origine da Jean-Nicolas Bouilly (1798)
e ripresa dai librettisti successivi di Ludwig van Beethoven, ossia Joseph Sonnleithner
(1805), Stephan von Breuning (1806) e Georg Treitschke (1814). Essa è tipica del genere
dell’“opéra de sauvetage”, che all’epoca seduceva il pubblico aristocratico turbato dal80
l’insicurezza suscitata in tutta Europa dalle campagne di Napoleone, un esempio della
quale, Les deux journées di Cherubini, ispirò la scelta di Léonore ou l’amour conjugale.
Nella fattispecie, il salvataggio di un prigioniero da parte della propria donna mascherata da uomo e pronta a dare la vita per lui, può rimandare alla storia di Alceste e alle
commedie di travestimento del XVIII secolo. «Uccidi prima di tutto sua moglie!»: questo
grido lanciato da qualcuno che si crede essere un uomo, e che d’altronde proferisce una
minaccia di morte nel momento stesso in cui offre il suo corpo come scudo, riassume la
dimensione ibrida di un vero e proprio coup de théâtre. Ciò non sta affatto nella comicità
rimossa di questa scena capitale tuttavia così toccante, prolungata dalle interlocuzioni e
convergenzze degli altri personaggi: Sein Weib? Davvero? Ridete? Basta solo la pistola di
Leonore, estratta senza paura dal suo corsetto di ragazzo, e che ai nostri giorni avrebbe
suonato al metal detector della prima porta della prigione, per dare a questo momento
uno spessore drammatico innegabile, ricollegando alla modernità le tecnologie letali di
questa epoca apparentemente arcaica. Per costituire ancora oggi un modello di coraggio
delle donne, così come si trovano nei film noir e in altri sogni cinematografici, ma anche
sentirle nei sei colpi di pistola che, nell’opera di Alban Berg, Lulu spara contro il corpo
paralizzato d’amore del dottor Schön.
Vero è che Leonore non uccide Pizarro e non si saprà mai se è per uno scrupolo morale,
un istante di debolezza, o se è solo la tromba del Ministro che le impedisce di diventare
un’assassina o, se si vuole, una tirannicida. In ogni caso il limite di questo accenno di
elogio femminista, che potrebbe trovare nel personaggio di Lulu la sua reincarnazione ed
allo stesso tempo il suo rifiuto, è sicuramente il fatto che Leonore, così libera e audace,
non solo non preme il grilletto, ma addirittura parla solo in nome dell’amore coniugale.
La si direbbe non avere alcuna esistenza sociale fuori del suo status di moglie dell’eroe,
e resta estranea alla dimensione politica dell’intrigo. È il coraggio domestico allo stato
puro. Tranne che per un gesto, sicuramente essenziale: è lei che propone a Rocco di
lasciare che finalmente i prigionieri prendano aria nel giardino. Dobbiamo questo tratto
di infinita sensibilità all’ultimo librettista di Beethoven, Treitschke, in quanto nel testo
di Bouilly, seguito da Sonnleithner e Breuning, la passeggiata è un esercizio quotidiano
nella vita dei prigionieri. Nella versione definitiva, in compenso, è proprio Leonore
che innesca il passaggio verso la compassione umana verso cui tutta la storia finirà per
convergere nel finale che, logicamente, dall’elogio della Giustizia riviene a quello della
“nobile sposa”.
Per questa domanda tanto generosa quanto fuori luogo, Leonore non dà a Rocco giustificazione diversa dall’espressione compassionevole contenuta nella frase “i poveri prigionieri”, oltre che l’annotazione strettamente tattica e infinitamente maldestra che Pizarro
non ne saprà nulla in quanto «il Governatore non viene mai a quest’ora». Tale slancio
di compassione che viene dal profondo di un cuore sensibile è un topos dell’Aufklärung
che informa il recitativo prima della sua aria del primo atto, laddove si tratta di questa
“voce dell’umanità”, muta nell’anima del tirano Pizarro. Ed è sicuramente fondamentale
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che, per questa richiesta di clemenza che la dolcezza indirizza al rigore, sia una donna
a parlare, e in più una donna che nessuno sa essere tale, salvo lei stessa. In quanto dal
momento in cui lei ha presentato la sua richiesta a Rocco è la piccola Marzelline che
rincara, lei che parla con il cuore di giovane figlia del popolo: voce della natura umana,
in altre parole, al di là di qualsiasi politica. Certo, lei insiste per amore, o per empatia
con l’oggetto del suo amore; se Fidelio avesse proposto di appendere tutti i prigionieri
per i piedi nello stesso giardino nella prigione, forse lei avrebbe trovato anche questo
superbo. Ma in questo caso si tratta della confluenza felice della femminilità con l’amore
e la compassione, al servizio di tale idea spesso ripetuta senza poter mettere nulla al
di sopra, fino alla scoperta della fallocrazia come lezione della natura, cioè la credenza
secondo la quale le donne hanno più cuore degli uomini.
La figlia del carceriere che, sedotta, fa evadere il prigioniero, è una scena ricorrente nei
canti popolari sulle prigioni, il che ha dovuto corrispondere a qualche episodio nelle prigioni reali di un’epoca in cui la portineria degli edifici penitenziari poteva ancora essere
gestita in famiglia. Come spesso in storie di seduzione di ragazze ingenue, vi sono storie
di abusi, dei quali non si può dire se siano propriamente sessuali. In ogni caso pongono
un problema di coscienza. A differenza di Marzelline, Leonore non si riduce solo al cuore,
ed è questo che fa della sua resistenza al tiranno l’emblema della donna che è donna
dalla testa ai piedi. Come Tosca, se si vuole, con la differenza che Leonore ha solo il
corpo dell’uomo che simula di essere – a meno che il regista non decida di rivelare il suo
sesso mostrando il seno nudo di fronte al pugnale, ma parrebbe sconsigliabile. Leonore,
il cui nome significa “compassione”, è il senso del cuore alleato al senso della giustizia,
e ciò potrebbe essere, in un certo qual modo, una definizione della legge, concepita sotto
il regime dell’Umanità. Ora, in vista della sua dipendenza da impressioni sensibili – lo
spettacolo della sofferenza – questa legge può funzionare solo come casistica. In ciò
Leonore è sicuramente moglie di suo marito, che è anche un giustiziere caso per caso,
nello specifico è un caso unico.
Può essere questo che, contrariamente all’imperativo categorico, le permette di architettare questa strategia per il salvataggio del marito. In effetti, essa rappresenta una dimostrazione pratica di questo principio così doloroso per il senso morale, cioè l’idea che il
fine giustifica i mezzi. Come sappiamo, Leonore, trasfigurata fino al sublime dall’amore
coniugale, non ha esitato un attimo a ingannare non solo Rocco ma anche e soprattutto
la povera Marzelline. Difficilmente la fiducia di questa giovane ragazza nell’amore coniugale e nell’amore tout court sopravviverà al tradimento del suo fidanzato, trasmutato
in sposa travestita da prigioniero. Per questo è obbligata, rischiando di trovare Pizarro
nell’inferno degli esclusi, a unirsi al coro finale per celebrare la validità universale di
un amore coniugale che le potrebbe essere rifiutato nella maniera peggiore. La sorte di
Marzelline è di una assurdità psicologica che si spiega solo con l’autoritarismo di una
legge del genere operistico che impone a tutti di unirsi al coro della gioia finale, una gioia
che deve dimorare al di là di quanto può costare agli individui manifestarla e sentirla. Lo
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stesso dicasi per Jaquino, il cui cuore non viene mai veramente preso in considerazione,
anche dal suo punto di vista perché, invece di prenderla a male o affogare i suoi dispiaceri, reintegra dolcemente il suo ruolo di scagnozzo del sistema repressivo. Non gli si può
veramente augurare di riconquistare questa giovane donna la cui fiducia è stata tradita
dagli intrallazzi della nobile travestita, destinandosi senza dubbio di colpo alla nevrosi
e alla malinconia. Ma in ogni modo, lui non poteva meritarla più di Fidelio l’infedele. In
fin dei conti, tutte queste delusioni a catena non fanno che confermare la violenza del
principio della felicità per costrizione il cui paradigma è la frase dell’Inno alla gioia di
Schiller, ripresa nella Nona Sinfonia, che condanna coloro che non sono stati in grado
di diventare “amico di un amico” o “conquistare una nobildonna” ad esclusione pura
e semplice della comunità umana: «E che colui che non ha mai conosciuto tutto ciò si
allontani / Piangendo la nostra cerchia!».
Pizarro non piange ma alla fine è l’unico escluso da questo cerchio incantato, se non altro
per l’azione fisica di questi ferri e delle sue catene che si richiudono sulle sue membra
e sulla sua anima. E lui, il potente decaduto, il prigioniero VIP, sarà trattato bene nella
prigione spalancata e scura che lo attende? Non sappiamo ciò che succederà, in mancanza
di un Fidelio - Il ritorno. Nel testo di Bouilly, le cose non si presentavano molto bene
per lui: «Che si incateni questo mostro invece della sua vittima!», dice Don Fernando,
prima di aggiungere «E presto lo farò condannare, in nome della legge, a sopportare per
lo stesso tempo le torture create dalla sua barbarie». Strana giustizia davvero, quando lo
Stato fa della legge del Taglione il suo principio giuridico. Nell’opera di Beethoven tutto
ciò non è più detto esplicitamente, ma il fatto che Pizarro venga controllato da Rocco non
preannuncia nulla di rassicurante per quanto concerne il rispetto dei diritti umani. Del
resto, se vi è qualcuno che avrebbe dovuto seguire Pizarro nella sua caduta, è proprio
Rocco, il solo personaggio dell’opera davvero complesso dal punto di vista psicologico e
morale, o piuttosto della psicologia della morale. Tale complessità però non è evidente.
Ecco un uomo, si è portati a pensare, buono nel profondo, e ciò malgrado il suo mestiere,
i suoi princìpi ideologici, il suo atteggiamento nella questione di Florestan... Certo non
manca di qualità. Ama la figlia Marzelline e vuole il suo bene, stima il giovane Fidelio
al punto di cedere alla sua bizzarra richiesta di lasciar uscire di prigione i prigionieri.
Qualcosa di questa parola compassionevole sembra averlo toccato abbastanza da indurlo
ad accettare la richiesta – non tanto per convinzione, quanto piuttosto per accontentare
il futuro genero, cioè per ragioni in fondo poco chiare. Infatti, questa cortesia tocca una
faglia insondabile nel rude guardiano della prigione di Stato: il giovane uomo effeminato
dalle origini sconosciute e dalla solvibilità incerta l’ha sedotto al di là della ragione, cioè
a dispetto dei suoi consigli sull’importanza del denaro e, soprattutto, a dispetto delle
regole più elementari del suo mestiere. Questa benevolenza irresponsabile è più o meno
tutto quanto depone in suo favore, e quando si misura ciò che c’è sull’altro piatto della
bilancia, bisogna davvero volerlo trovare buono.
Malgrado il suo mestiere: è l’esecutore zelante della politica delle violazioni sistematiche
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dei diritti dell’uomo evocati sopra, una politica di cui conosce perfettamente il carattere
ingiusto e inumano. Malgrado i suoi principi: il suo celebre elogio del denaro non ha affatto la distanza critica o almeno scettica che si potrebbe trovare edificante in una morale
debole, e che si trova di fatto nelle proposte a noi contemporanee sulla questione, come
Money dei Pink Floyd. Malgrado la sua etica: si sa che nell’opera rifiuta di pugnalare
Florestan con le sue mani, e ciò è visto in generale come segno della sua umanità, mentre
sono mesi che si impegna a ucciderlo per inedia, mentre è pronto a scavare diligentemente la sua tomba e a dissimulare in tal modo la prova del crimine, mentre non esita
ad associare a tale compito sinistro il futuro genero, mentre, infine, viene pagato per il
suo silenzio. Complice, complice, l’archetipo del complice: ecco il gentile Rocco. Ce ne
vuole a considerare qualcuno più vile di questo brav’uomo, “prodotto sociale”, rimandato tacitamente al suo statuto di uomo del popolo, non colto e quindi poco propenso a
discernere il bene dal male, o comunque di farne il principio portante delle sue azioni.
Se si tratta di responsabilità morali e giuridiche degli esecutori del terrorismo di Stato,
il suo caso rientra perfettamente in questa figura giuridica vilipesa, in nome della quale
sono stati graziati tanto i torturatori nazisti quanto i militari francesi implicati nella
tortura in Algeria o, ancora, i militari argentini: l’obbedienza agli ordini. A Rocco non
piace maltrattare Florestan ma non ha scelta, poverino. Sfortunatamente per la coerenza
di questa linea di difesa, l’opera mette in scena la dimostrazione del contrario, in quanto
nel momento in cui confessa a Pizarro la sua ripugnanza a uccidere con le sue mani, tutto
ciò che subisce come rappresaglia è la messa in dubbio della sua virilità. A quel punto
il suo riscatto alla fine dell’opera rasenta l’inaccettabile e l’inverosimile, ed è indicativo
il fatto che nelle versioni del 1805 e 1806, alla fine del famoso quartetto del secondo
atto, Rocco prenda l’iniziativa di disarmare Leonore che sta per puntare la pistola contro
Pizarro, con il solo fine di compiacere il suo superiore, il quale un attimo più tardi finirà
ai ferri per ordine del Ministro. In breve, in questo universo politico e morale di Fidelio,
del quale si è spesso criticato a giusto titolo il carattere manicheo, vi è ancora largamente
spazio per tutta la cattiveria dei buoni.
Per quanto riguarda Florestan, è integralmente gentile e interamente sublime. Ciò si spiega
per la semplice ragione che, nel momento in cui l’opera inizia, egli ha già compiuto le
sue gesta e non fa che subirne le conseguenze in modo passivo. Subire, subire sempre,
ecco Florestan, questo eroe che anche dal fondo della prigione e dell’ingiustizia è pronto,
come Giobbe, a sottomettersi agli ordini sotto le specie della legge di Dio in quanto, dice
sospirando, «la volontà di Dio è giusta». Questa posizione era all’inizio talmente povera
di spessore umano e drammaturgico che dopo i fallimenti delle prime versioni di Leonore
è stato necessario aggiungere alla sua aria, all’inizio del secondo atto, questa seconda
parte – stando all’opinione comune uno dei migliori passaggi del Fidelio per come lo
si conosce dal 1814 –, in cui egli si scuote dal torpore per cantare le lodi della libertà,
della mano della mein Engel Leonor. Ma questa fortunata innovazione drammaturgica e
musicale ha un prezzo in quanto al di là del carattere esaltato della sua aria, per le virtù
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morali del personaggio, ciò ha come conseguenza di farlo sprofondare nell’allucinazione
e nella negazione della realtà più penose. Penose in quanto derivanti da un uomo che, in
seguito alle privazioni fisiche e psicologiche, non possiede più tutta la sua ragione e tanto
meno tutto il suo coraggio. Più tardi, infatti, quando la liberazione effettiva e reale arriva
dalla mano del suo angelo Leonore finalmente trasformato in donna, resta notevolmente
atono, come posto all’infinito nel ruolo di una povera creatura da proteggere. Ed è ancora
nel momento del delirio della sua aria, non in un altro passaggio che sarebbe imbevuto
di una qualsiasi forma di lucidità o di idealismo, che sorge dal fondo della prigione il
famoso straziante grido, «Zur Freiheit! Zur Freiheit!». Per di più, la libertà di cui si parla
non è altro che quella del Regno dei Cieli, in altre parole quella della morte, che da un
punto di vista politico è una forma alquanto derisoria di libertà.
***
Eppure. Dopo quasi due secoli, ad ogni rappresentazione, al momento dell’aria di Florestan, lo spettatore o la spettatrice condivide la speranza del prigioniero, desidera che sia
libero, comprende, con pena, che non fa che avere allucinazioni e sorride indovinando
o ricordando che alla fine dell’opera questo sogno di libertà diventerà realtà. Se mai un
carnefice in atto o in potenza si è unito allo spettacolo della sofferenza del personaggio,
se mai ha auspicato la sua morte, non l’ha detto né scritto, salvo errore. Davanti allo
spettacolo senza tempo della vittima della tirannia salvata dall’amore della sua donna,
noi siamo tutti Florestan o Leonore, siamo tutti, chissà, Florestan e Leonore. Sì, davvero,
si può immaginare qualcuno che guardando quest’opera potrebbe osare identificarsi in
Pizarro? Tutto in noi vorrebbe rispondere: no, è impossibile.
Non è che i cattivi non vadano all’opera. O che rifiutino di andarci per ascoltare il Fidelio
di Ludwig van Beethoven, avvisati del fatto che rischiano di ritrovarsi di fronte al loro
ritratto. Certo, qualsiasi spettatore di quest’opera assiste alla rappresentazione di uno
stato dei rapporti tra il potere e la libertà che moralmente e politicamente è intollerabile
oggi e lo è sempre stato. È per questa semplice ragione che, più della maggior parte
delle innumerevoli opere del repertorio in cui si parla di potenti e delle loro sventure,
l’opera di Beethoven merita il titolo di opera politica. La nozione di “opera della libertà”
descrive fedelmente la sua tematica. In compenso, il potenziale critico effettivo di un tale
spettacolo non è del tutto acquisito. Non come significato dell’opera che potrebbe essere
realizzata ovunque e in qualsiasi momento, salvo nell’eventualità di un fallimento estetico
della messa in scena, di un capovolgimento attestato dei suoi contenuti, o di un pubblico
troppo limitato per capire di cosa si tratta. Ciò è dovuto al fatto che l’opera resta fortemente
ambigua nel momento in cui si tratta di mettersi d’accordo su ciò che si mette in scena, su
ciò che è davvero intollerabile e perché. Di fatto, sono state adottate diverse precauzioni
sin dalle primissime rappresentazioni, e anche dopo, per evitare le interpretazioni falsate
per i potenti. Allo spettatore è stato anche proposto un regime di identificazione dei poli
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del bene e del male che resta allineato alla struttura sociale esistente.
È indubbio, per esempio, che in quest’opera Don Fernando sia presentato come portavoce
della Giustizia, in quanto incarna la moralità del regime che, alla fine dell’opera, sfila
di fronte all’effigie di questo Re assente e nonostante tutto onnipresente come principe
dell’ordine sociale legittimo. L’incoerenza di un Pizarro uscito indenne da ciò che lui dice
di aver distrutto, è il prezzo da pagare per fare emergere, all’interno dell’universo sinistro
di uno Stato le cui prigioni sono lasciate alla cattiveria sfrenata dei responsabili, una
figura del bene al di sopra di ogni sospetto. La storia della genesi dell’opera è da questo
punto di vista istruttiva. In effetti, tale fine risultava meno dalle intenzioni degli autori
che da una vera e propria negoziazione con i poteri pubblici, che risaliva ai preparativi
della primissima Leonore nel 1805. Se tutta la storia si compie sotto l’egida di un Re
buono e magnanimo, è perché il censore imperiale austriaco la impose come conditio
sine qua non per autorizzare la rappresentazione di quest’opera, severa nel giudizio sul
funzionamento dello Stato e della giustizia.
Quindi, la storia ideata dal francese Bouilly, musicata per la prima volta da Pierre Gaveaux
e creata a Parigi nel 1798, si ispirava ad una serie di episodi avvenuti durante il periodo
del Terrore e si iscriveva nell’orizzonte ideologico della reazione termidoriana, il colpo
di Stato che nel 1794 aveva estromesso dal potere i Giacobini denunciando il regime
dell’incorruttibile Robespierre non come pervertito da qualche uomo corrotto, ma come
impresa criminale in sé. Al momento della prima Leonore al Theater an der Wien il 20
novembre 1805, la presenza degli ufficiali francesi delle truppe di Napoleone che avevano
appena occupato la capitale austriaca, dà a questo incrociarsi di connivenze ideologiche
e di critiche morali un sentore di paradosso. Del resto, questi militari probabilmente non
parlavano il tedesco, e non erano andati a vedere l’opera in programma nella città occupata per riflettere sulle tensioni ideologiche della loro epoca ma solo per divertirsi – e
in ciò furono, tra l’altro, delusi. Questo incontro nello spazio di una serata tra una favola
di origine francese concepita per denunciare l’oppressione e dei francesi che i viennesi
identificavano con un regime di oppressione, è una bella ironia della storia, ma resta un
aneddoto. Più importante è il fatto che imponendo un happy end reale il censore abbia
contribuito a rendere verosimile l’idea che tutta questa storia riguardasse non un regime
straniero vilipeso ma un regime che controllava la mano di questo stesso censore, qui e
ora. Da ciò la necessità di controllarla, cosa che in ogni caso non sembra aver suscitato
grandi resistenze in Beethoven, nel suo librettista o nei suoi amici.
Successivamente, l’adesione dell’universo morale dell’opera alla configurazione ideologica
e politica dominante non farà altro che accentuarsi e definirsi. All’epoca della creazione
della versione definitiva del Fidelio, il 23 maggio 1814 presso il Kärtnerthortheater di
Vienna, Beethoven moltiplica i segni di obbedienza al regime in vigore, per esempio
componendo la sua ouverture Namensfeier op. 115 per la festa del Santo Patrono dell’Imperatore d’Austria, in previsione di una rappresentazione della sua opera alla quale il
sovrano Franz non parteciperà. Il fatto che Rocco, rimproverato da Pizarro per la passeg86
giata dei prigionieri, giustifichi la sua infrazione alla disciplina in nome della generosità
che deve ispirare la festa del Sovrano, mostra che anche i personaggi che rappresentano
il popolo sanno come giocare con le convenzioni della nazionalità per diminuire i rischi
di far intendere nei loro atti e nelle loro parole una critica politica. Certo, Rocco mostrava
di essere un suddito più furbo che fedele, ma non sembra che il suo opportunismo possa
essere eretto a teoria per tutto lo spettacolo, come sorta di stratagemma della ragione
cinica. Tutto indica al contrario che nella Vienna di Beethoven l’aggrapparsi alla ricerca
del bene da parte del potere non poteva offrire alcuna discussione.
È così che l’opera fece scalpore tra i numerosi aristocratici stranieri presenti sin dall’autunno del 1814 nella capitale austriaca per il Congresso di Vienna. Il fior fiore delle
monarchie europee, inebriate dalla vittoria sulla Francia di Napoleone, si premurò
dunque di andare a vedere la storia del gentile prigioniero e del cattivo governatore: lo
zar di Russia, il re di Prussia, il re di Danimarca, con le loro spose e i loro cortigiani,
vi si recarono tutti. Sono dunque questi stessi sovrani che, con tratti simili a quello del
monarca immaginario del Fidelio, sono rappresentati e lodati come benefattori dell’Europa nella cantata di Beethoven Der glorreiche Augenblick op. 136, creata in loro
presenza il 29 novembre 1814. Su scala continentale ciò si chiamava Santa Alleanza, e
se tutte queste teste coronate potevano sempre dire che annientando Napoleone avevano
liberato il mondo da un uomo cattivo, è chiaro che la loro priorità, per non dire la loro
motivazione, era sempre stata la preservazione dei loro privilegi e del potere, al prezzo
della sottomissione e dello sfruttamento dei loro popoli. È questa internazionale feudale
che qualche anno prima della Rivoluzione francese aveva osato, per la prima volta nella
storia, rimettere in causa.
Ecco le persone che allora accorrevano a teatro per vibrare insieme alla musica di
Beethoven e condividere empaticamente la sorte dei personaggi del Fidelio. E non vi è
ragione di pensare che il loro entusiasmo per l’opera risiedesse in un malinteso, che a
loro insaputa gli aveva fatto accettare le idee rivoluzionarie mascherate da divertimento.
Il modello del tiranno senza scrupoli si trovava nell’Imperatore francese decaduto, mentre
il nobile Florestan nella sua prigione poteva passare per uno di quegli aristocratici che
venivano maltrattati in Francia almeno dai tempi del trionfo dei Giacobini. Da questo
punto di vista l’elogio del Re imposto a Sonnleithner dal censore austriaco, che nel 1814
Treitschke aveva amplificato situando l’arrivo del Ministro nel cortile della prigione e non
più nella prigione stessa, nascondeva qualcosa di controproducente, nella misura in cui
impediva di vedere apertamente l’insieme della storia come una denuncia dell’iniquità
delle Repubbliche. È vero che se il regime rappresentato fosse stato una Repubblica un
happy end sarebbe stato escluso, e sarebbe stato necessario un epilogo completamente
differente, in cui per esempio Leonore e Florestan sarebbero fuggiti invece di essere
ricompensati dal potere. In ogni caso, l’adesione retrospettivamente probabile delle
persone che la nostra coscienza storica contemporanea iscrive più nella vicinanza dei
tiranni che in quella dei benefattori dell’umanità solleva dei seri interrogativi, che in
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mancanza di fonti devono essere realizzati su congetture, ma che non sono meno pertinenti, né meno scomodi.
Per esempio, l’uomo responsabile di orchestrare la politica della restaurazione sotto il
nome di Concerto d’Europa, che presto si definirà “ministro della politica dell’Europa”,
cioè il Principe di Metternich, avrebbe potuto pensare che Pizarro avesse un portamento
fiero, che avesse ragione di prendersi la sua rivincita, e soprattutto che avesse il diritto di
goderne, preso dalla sua immonda vertigine erotica? O avrebbe tremato come il mondo
intero di fronte alla minaccia sospesa sulla testa del prigioniero, a rischio di riconoscersi
nella figura del Ministro evocando questo o quel caso in cui, per eccezione piuttosto
che per vocazione, si era mostrato magnanimo? Per quanto concerne questi monarchi
trionfanti, è poco probabile che Fidelio li abbia incitati a un ripensamento critico su di
sé, è dubbio che siano in seguito andati a vedere se nelle loro numerose prigioni non vi
fosse qualche ingiustizia commessa, qualche cattivo trattamento da denunciare, qualche
tiranno da passare per i ferri. Probabilmente non era per mancanza di materia, in quanto
non doveva certo essere bello essere prigioniero politico dello zar di Russia o del re di
Prussia nel 1814.
Ma poniamo nuovamente la domanda in un altro momento della storia. Possiamo immaginare qualcuno che, vedendo quest’opera, si sarebbe augurato di essere Pizarro,
nonostante la punizione che lo attende alla fine? Un nazista, forse? Perché il portamento
e la condotta del personaggio non possono non ricordarci oggi i capi nazisti. Del resto non
è difficile esplicitare ciò in una messa in scena del Fidelio, da quando gli anacronismi
storici sono diventati risorse abituali dell’ermeneutica teatrale. L’opera di Beethoven,
compositore super-tedesco, agli occhi della propaganda ufficiale del Terzo Reich conobbe
nella Germania dagli anni trenta un successo innegabile, di cui è per esempio testimone
una nota dell’edizione viennese del giornale del partito Völkischer Beobachter, in un
articolo apparso nel marzo del 1938 pochi giorni dopo l’Anschluss: «Il finale vittorioso
del Fidelio è una profezia». E la presenza attestata di Hermann Göring per vedere il
Fidelio all’Opera di Vienna qualche giorno dopo l’ingresso delle truppe tedesche in
Austria chiarisce il recepire di questa “opera della libertà” di un colore livido, le cui
risonanze storiche sono forse inestinguibili. A chi si sarebbe sentito più vicino Göring,
a Pizarro o a Fernando? Si può pensare che abbia simpatizzato con Florestan, questo
loser salvato da una donna?
Poco dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, Thomas Mann si era reso commentatore
imbarazzato di tale dilemma, in una lettera scritta nel settembre 1945 per spiegare perché
non era pronto a ritornare a vivere nel suo paese: «Come mai il Fidelio di Beethoven,
quest’opera nata per celebrare la liberazione della Germania, non è stata proibita in
Germania per dodici anni? È uno scandalo che invece di proibirla le si siano date delle
interpretazioni sofisticate, che si siano trovati dei cantori per cantarla, dei musicisti per
suonarla, un pubblico per ascoltarla. Quale sciocchezza servirebbe per ascoltare Fidelio
nella Germania di Himmler senza nascondersi il viso tra le mani e precipitarsi fuori dalla
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sala!» A differenza di Göring, e come per Metternich, la presenza di Himmler per vedere
Fidelio non è attestata. Ma seguiamo il filo del pensiero di Thomas Mann, che denunciava come scandalo morale qualcosa della quale doveva comprendere perfettamente, lui,
l’autore del Doktor Faustus, la logica politica. Fidelio, proibito ai nazisti? Si può sempre
sognare, ma dal punto di vista del regime, è lì che risiederebbe la sciocchezza. Proibirla, e perché? Thomas Mann aveva umanamente ragione ad insorgere contro l’abominio
morale che avrebbe significato paragonare, per esempio, la tortura di Florestan nella
sua prigione al soggiorno dorato di Hitler nella prigione di Landsberg, ma si sa che nel
momento in cui la macchina propagandistica si mette in moto, tutto diventa possibile.
Le parole di Thomas Mann sono moralmente valide, ma storicamente inattendibili. È
necessario, anche se ci costa, contrastare questa credenza dogmatica nel valore morale
dell’arte classica, che l’esperienza nazista e il suo corteo di orrori avrà reso, diciamo, un
po’ desueta: vedendo lo spettacolo dei prigionieri uscire dalle proprie celle per respirare
l’aria della liberà, si crede veramente che il Reichsführer SS avrebbe gridato nella sua
mente, furioso, «rinchiudeteli, isolateli, rimetteteli al loro posto, puniteli, torturateli,
massacrateli»?
Difficilmente. È più realistico pensare che Metternich e Himmler siano stati entrambi,
soggettivamente parlando, dalla parte di Florestan. L’avrebbero entrambi, soggettivamente parlando, ammirato e, perché no, avrebbero desiderato Leonore. In quest’opera il
libretto è fatto in modo che la possibilità di assumere la posizione di Pizarro dal punto
di vista etico è sbarrata, per così dire, per l’eternità. Nella storia Pizarro è un tiranno
solo perché la sua crudeltà deriva direttamente dalle sue motivazioni egoistiche, che
ha messo sopra tutto il problema della sua funzione politica, prima di tutto il problema
della cosa pubblica in generale. Il crimine di Pizarro è di mettere la sua persona davanti
allo Stato. Non è il suo modo dispotico di esercitare il potere che viene denunciato, ma
le motivazioni egoistiche. Pizarro vuole la morte di Florestan e si appresta ad esaudire
questo desiderio in quanto l’eroe ha denunciato, a rischio della sua vita, la sua bassezza
morale. La bassezza morale è sempre esistita e continuerà senza dubbio ad esistere per
l’eternità, ma non ha mai costituito un programma politico.
Gli aristocratici, i nazisti, gli oppressori in generale non vogliono la bassezza, vogliono il
male. E questo male lo definiscono bene, lo chiamano libertà. «Zur Freiheit, zur Freiheit!»:
ascoltate, è Metternich che canta nel 1814, ascoltatelo inebriarsi di vocali e di speranza.
E come si chiama nel 1936 l’adunata del partito nazista a Nürnberg, questo immenso
spettacolo simile a quello catturato nel Trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, in cui
le orde di Himmler, questi giovani tedeschi dagli occhi azzurri irreprensibili, vibrano
nella penombra sinistra delle fiaccole? Ebbene, si chiama Congresso della Libertà. E nel
1980 a Buenos Aires, in piena dittatura, mentre le Madri della Piazza di Maggio fanno la
loro ronda per rivendicare i loro figli desaparecidos, Fidelio viene dato nel Teatro Colón
dei generali senza sollevare la benché minima obiezione da parte del potere, malgrado il
fatto che il regista non esiti a mettere delle griglie di ferro dappertutto e a far somigliare
89
i costumi di Pizarro e dei suoi uomini alle uniformi nere delle SS.
Sì, tutte queste persone volevano il male chiamandolo bene, e nella misura in cui il bene
che dicevano di volere era fondato sul diritto del più forte, che è una delle cose che il
bene come lo concepiamo oggi rifiuta con onore, questa perversione li rendeva capaci
dei gesti più bassi. Se vuoi il male, avrai la ricompensa del male e il prezzo del male, e
la bassezza verrà da sola. E di fatto arriva, e sconcerta spesso i fanatici: per fare un altro
esempio, molti cileni non hanno creduto alla cattiveria di Pinochet fino al giorno in cui
hanno capito che egli non solo aveva fatto torturare e massacrare migliaia di persone – gli
sembrava ancora dipendere dalla Ragione di Stato – ma che aveva anche sottratto milioni
di dollari – e ciò era davvero grave, si sono detti, scandalizzati. Salvo che la bassezza
non sia nel programma dei valori del male, è sempre il ritorno del rimosso. Quindi anche
Metternich, Himmler o Videla, o qualsiasi persona reale o fittizia suscettibile di occupare
un posto equivalente nel nostro immaginario politico non possono voler essere Pizarro,
almeno fino a che restano in linea con i loro rispettivi discorsi pubblici, e malgrado il
fatto che abbiano commesso dei crimini orribili quanto i suoi, se non di più.
In compenso possono volere, a teatro, lo spazio di un istante dei loro piaceri privati, e
tenere il ruolo. Ed è possibile capirli, in quanto in questo almeno sono vicini a noi, a
ciascuno di noi. In effetti, malgrado l’insondabile repulsione che il personaggio di Pizarro
ispira da un punto di vista morale, chi oserebbe dire, ponendosi una mano sul cuore,
che in nessun caso avrebbe voluto essere Pizarro per il suo canto? Cioè, esserlo quando
lancia il suo testo spaventoso nel quartetto del secondo atto, ancor più nel momento in
cui proietta nello spazio musicale di questo stesso quartetto, portato da tutta la ricchezza
dell’orchestra, questa melodia dalla potenza vertiginosa, fatta di un movimento discendente che paradossalmente non smette di spostarsi verso l’alto fino ad immobilizzarsi in
modo ossessivo sulla fondamentale della tonica, come un rilancio nel male portato dalla
levatura ritmica inesorabile della sequenza beethoveniana: «Pizarro, di cui tu hai voluto
la rovina! Pizarro, che tu avresti dovuto temere!» Che momento, welch’ein Augenblick, in
effetti, per riprendere l’inizio della sua aria del primo atto, che regala piaceri musicali
molto intensi, che schioccano come una frusta intorno alla parola Rache, “vendetta”.
Inutile negarlo: il personaggio fa paura ma è sublime, questa voce di basso scatenata,
magnifica di sinistra bellezza. E ognuno dei suoi momenti sulla scena è imbevuto della
potenza estetica del male, sin dalla sua prima frase cantata sino al suo ultimo grido di
collera, come se la sua voce non servisse che a esprimere la sua potenza, del momento
che avendo perso la partita, diventa subito un prigioniero muto.
È un tratto ricorrente nell’opera: i grandi cattivi sono tutto un programma sul piacere. Il
loro ruolo va ben al di là di quello di un respingente contro il quale mettere in evidenza
le virtù dell’eroe. Accanto a Pizarro, altri personaggi potrebbero essere convocati sulla
sua scia, come Hagen o Scarpia... Ossia un modo particolare di farsi desiderare, di questo
desiderio un po’ illegittimo e un po’ colpevole che ispirano nelle persone normali che, come
del resto la maggior parte degli stessi cattivi, credono di essere fondamentalmente dalla
90
parte del bene. È lì che si sottolinea il significato profondo di una delle novità introdotte
da Sonnleithner e Beethoven rispetto al libro originale Leonore ou l’amour conjugale. In
effetti, nel testo di Bouilly musicato da Gaveaux, poi da Ferdinando Paër a Dresda nel
1804, Pizarro è un ruolo parlato. Nello schema originale, la distinzione morale tra l’eroe
e il cattivo è anche garantita dalla differenza enunciativa istituita da questa scissione tra
il cantato e il parlato, secondo il principio spontaneo eppure efficace che vuole che chi
canta bene non possa essere veramente cattivo. Il giorno del 1805 in cui il tiranno ha
cominciato a cantare, qualcosa di fondamentale si è modificata nell’economia morale di
questa storia. Fidelio si presenta come un dilemma intorno al rapporto tra etica e politica
dal momento in cui si instaura questo rapporto a livello della pulsione dello spettatore,
facendolo godere del canto del male.
Vi è un elemento che si può avanzare per prolungare la riflessione di Carl Dahlhaus,
che si è chiesto in quale senso Fidelio è un’“opera politica”: «Se prendiamo il testo
del libretto in modo letterale, isolandolo dalla musica – cosa che da un punto di vista
estetico è impossibile – la vendetta di Pizarro contro Florestan è un affare puramente
personale: Florestan è la sola persona che non figura nella lista dei prigionieri. Ma la
conclusione banale che ne segue, cioè che la colpa o l’innocenza degli altri prigionieri
è una questione aperta, è rifiutata dalla musica del coro dei prigionieri e dal finale del
secondo atto: come non sentire che è stata commessa una ingiustizia contro persone che
si esprimono con tale musica? Se tutti i prigionieri sono vittime di un’ingiustizia – e la
musica non lascia alternativa – allora dietro Pizarro, l’uomo che mette la sua posizione
al servizio di una vendetta puramente personale, si profila l’ombra glauca di uno Stato
ingiusto, in cui gli oppositori politici sono gettati in prigione in massa. E allora il Ministro,
che rappresenta questo Stato, diventa – in accordo con il “meraviglioso” nell’estetica
dell’opera – una figura da favola che soddisfa tutte le speranze suscitate nell’opera a
dispetto della verosimiglianza. La musica riveste una duplice funzione: dal momento in
cui il suo linguaggio è incomparabilmente più potente di quello del testo, essa mette la
lotta privata al livello di un affare di Stato, ciò che rende veramente Fidelio un’opera
politica; allo stesso tempo, permette al dramma politico di cambiare la sfera della realtà
contro quella del “meraviglioso”, che è la base dell’opera».1
L’argomento è forte ed elegante, e fa ruotare l‘insieme della portata politica e morale
dell’opera di Beethoven intorno al significato estetico di un solo pezzo di musica, questo
famoso coro di prigionieri che è indiscutibilmente una delle musiche politiche più toccanti
mai scritte. Si ha molta voglia di crederci, e forse noi dovremmo ancora crederci, a costo
di rinunciare a qualsiasi possibilità di dare alle condotte morali e immorali degli essere
umani una traduzione estetica la cui validità e significato possono essere oggetto di un
certo consenso. Bisogna quindi constatare che è un argomento fragile, una fragilità il cui
sintomo risulta già nella forma retorica della nota di Dahlhaus: «Come non sentire...?». Le
avventure di Beethoven sotto il regime nazista hanno intaccato il capitale morale di cui si
poteva fino a quel momento accreditare la sua musica, a partire dall’esperienza del suo
1 Carl
Dahlhaus,
Ludwig van
Beethoven. Approaches to his
Music, Oxford,
Clarendon
Press, 1993,
p. 182.
91
pubblico e di biblioteche intere di esegesi concepite sul modo dell’umanesimo eroico.
Ma tale esperienza storica estrema rappresenta solo la rivelazione della precarietà del
punto di sutura tra etica ed estetica sul quale l’arte moderna fonda la propria legittimità
politica dall’epoca dell’Aufklärung. Lo si vede ancora nei suoi effetti pratici, o piuttosto
nella rarità di effetti pratici degni di tale nome. Di fronte al peso della ragione di Stato o
dell’inerzia della lotta politica, il coro dei prigionieri non avrà mai il potere di persuadere
un carceriere, un capo della polizia o un ministro a liberare chiunque. In compenso, la
bellezza nera del canto di Pizarro ci ricorda che l’arte è una strada sempre offerta alla
possibilità di reintegrare il male radicale all’interno dell’esperienza umana.
Tutto ciò perché la vera e propria risposta alla crisi del sillogismo che lega l’arte alla
morale può venire dal mondo della politica e non da quello dell’estetica. Questa è la
ragione per la quale non sembra molto utile brandire Fidelio come la bandiera di una
lezione senza tempo sulle virtù politiche del bello per far trionfare il bene. In compenso,
si constata che l’opera continua ad invitare tutti coloro che avranno la possibilità e il
desiderio di vederla, inclusi i Pizarro di questo basso mondo, a concepire una società
in cui, di fronte alla costrizione dello Stato e dell’ordine in generale, la questione della
libertà è decisa in favore di un valore assoluto di questa. «Zur Freiheit, zur Freiheit!»:
chi non ha voglia di gridarlo, anche se si tratta solo, come Florestan immagina nella sua
prigione, del presentimento del sollievo portato dalla morte? Ma chi non ha voglia di
comprendere perché la realizzazione totale di questo sogno è a tal punto improbabile,
nel teatro come nella vita, nello spazio privato della vita coniugale come all’aria aperta
del dibattito politico? È in questo che si può dire che il Fidelio di Beethoven è senza
dubbio un’opera politica che, a due secoli dalla creazione delle sue versioni successive,
resta ancora attuale.
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Documenti
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Il Fidelio attraverso le lettere di Beethoven
Beethoven rifiuta due libretti e s’appresta a lavorare al Fidelio
A Johann Friedrich Rochlitz,1 Lipsia
Vienna, 4 gennaio 1804
L’estremo ritardo nel restituirLe il Suo libretto, stimatissimo Signore, andrebbe ascritto
alla esitazione e lentezza di colui che non soltanto dirige il Teatro Wiedener, ma anche ne
censura la produzione2 — Per quanto mi potessi ritenere fortunato di comporre musica
per questo testo, mi sarebbe stato tuttavia impossibile farlo ora. Se I’argomento non avesse
avuto a che fare con la magia, il Suo libretto avrebbe potuto tirarmi fuori, in questo preciso
momento, da una situazione estremamente imbarazzante. Infatti ho rotto definitivamente
con Schikaneder,3 il cui impero, in verita, è stato completamente eclissato dalla luce delle
brillanti e seducenti opere francesi. Nel frattempo egli mi ha tenuto fermo per ben sei
mesi, ed io mi sono lasciato ingannare unicamente perché, avendo egli innegabili capacità nel creare effetti scenici, ho continuato a sperare che avrebbe prodotto qualcosa di
più brillante del solito. Ma sino a che punto sono stato indotto in errore! Speravo almeno
che avrebbe fatto rivedere e perfezionare notevolmente i versi ed il testo del libretto da
qualcun altro, ma inutilmente. È stato infatti impossibile persuadere un individuo così
infatuato della propria opinione. Ho quindi disdetto ogni accordo con lui, anche se da
parte mia avevo composto diversi pezzi. Provi a immaginare un argomento romano (del
quale non mi era stato detto né il piano generale né qualsiasi altra cosa), e una lingua e
dei versi quali potrebbero uscire soltanto dalla bocca delle nostre fruttivendole viennesi4
— Ebbene, ho fatto rapidamente adattare un vecchio libretto francese ed ora comincio a
lavorarci su.5 Se la Sua opera non avesse avuto a che fare con la magia, l’avrei agguantata
a due mani. Ma adesso, qui, il pubblico è tanto prevenuto contro argomenti del genere;
quanto prima, invece, li cercava e desiderava —
Questa è anche opinione del censore teatrale, il quale sostiene anche che, per quanto
eccellente si possa giudicare il primo atto, riesce difficile formulare un giudizio sull’intero soggetto senza avere sotto gli occhi tutti e due gli atti — La prego di non lasciarsi
scoraggiare da questi giudizi. Non appena avrà scritto un’altra opera, che però dovrebbe
risultare completa, me la mandi; e stia sicuro che la Sua fatica sarà generosamente re-
1 Johann Friedrich Rochlitz
(1769-1842),
teologo, scrittore e librettista.
2 Bartholomäus
Zitterbarth.
3 Emanuel
Schikaneder
(1751-1812),
famoso per i
suoi rapporti
con Mozart, era
allora direttore
del Theater
an der Wien,
che Beethoven
spesso chiamava impropriamente Teatro
Wiedener.
4 Il libretto di
Schikaneder
Vestas Feuer,
che Beethoven
respinse dopo
aver scritto
qualche abbozzo per la prima
scena.
5 Si tratta del
Fidelio.
97
tribuita, perché il proprietario del Teatro Wiedener non è affatto avaro per tutto quanto
concerne il teatro! Frattanto, sono veramente lieto di aver così avuto l’occasione di fare
la Sua conoscenza, e spero che l’attuale sgradevole incidente non Le impedirà di ricordarmi ogni tanto e di rivolgersi senz’altro a me, se io posso riuscirLe utile — A dire il
vero, potrei essere un poco arrabbiato con Lei per aver lasciato pubblicare tante notizie
false sul conto mio; ma invece no — mi rendo conto che Lei agisce in questo modo
unicamente perché ignora le vere situazioni di questa città ed il gran numero di nemici
che io ho a Vienna —
Con i migliori auguri.
Il Suo devotissimo
Beethoven
* * *
Beethoven sollecita il librettista a finire Fidelio e si arrabbia con il proprietario del Theater
an der Wien, che è anche il suo padrone di casa
A Joseph Sonnleithner
[Vienna, c. marzo 1804]
1 Ma l’opera
non andrà in
scena che a
novembre.
2 L’alloggio si
trovava presso
il Theater an
der Wien.
98
Caro Sonnleithner!
Considerando che è tanto difficile parlare con Lei, preferisco scriverLe a proposito
delle questione che dobbiamo trattare — Ieri ho ricevuto un’altra lettera relativa al mio
viaggio, e questa lettera rende irrevocabile la mia decisione di viaggiare — Quindi devo
caldamente pregarLa di fare in modo che il libretto, cioè la parte poetica, sia interamente
finito entro la metà del prossimo aprile, affinché io possa andare avanti col mio lavoro
e l’opera possa essere eseguita al più tardi entro giugno, epoca in cui potrei collaborare
io stesso all’esecuzione1 — Mio fratello Le ha parlato del mio trasloco. Ho preso questo
nuovo alloggio solo a certe condizioni, e cioè fino a che non mi sia possibile trovarne
uno migliore. II problema si era presentato già da qualche tempo e io volevo appunto far
valere i miei diritti presso Zitterbarth allorché il barone Braun è diventato proprietario
del teatro2 — Basta che le stanze di sopra nelle quali abita il pittore, e che sono buone
al più per un servitore, vengano sgombrate ed io avrei un alloggio che mi conviene. Dopo
di che si potrebbe cedere al pittore la mia abitazione e tutto sarebbe a posto — Nel mio
alloggio attuale il servitore deve dormire in cucina, e quello che ho adesso è già il terzo
— e anche lui non sopporterà una simile sistemazione per molto tempo, senza parlare
degli altri inconvenienti — So in anticipo che, se tutto dipende ancora dal degno Barone,
la risposta sarà no. Se è così, me ne andrò via di qui immediatamente.
Dal momento che l’ho incontrato, il suo comportamento è stato costantemente ostile — E
sia pure — ma io non andrò mai strisciando — il mio mondo è l’Universo — Adesso
attendo una risposta in proposito da Lei — perché non voglio restare neanche un’ora di
più in questo buco maledetto. Mio fratello mi dice che Lei si è lamentato perché io avrei
parlato male di Lei. Ma non presti ascolto a certe chiacchiere meschine che fanno a
teatro — L’unica cosa che trovo da ridire sul Suo conto è che dà troppo ascolto ad alcune
persone che certamente non lo meritano — Perdoni la mia franchezza —
Tutto Suo
Beethoven
* * *
Fine e inizio
A Joseph Sonnleithner
[Vienna, autunno 1805]
Caro Sonnleithner!
Adesso sono prontissimo — e resto in attesa delle ultime quattro strofe — per le quali,
provvisoriamente, ho già trovato il tema — È mio preciso proposito di scrivere l’Ouverture1
solo durante le prove, e non prima.
1 Cioè la prima
delle quattro
ouverture: Leonore I op. 138.
* * *
Lavoro, acciacchi, frenesia
A Friedrich Sebastian Mayer1
[Vienna, primi di novembre 1805]
Caro Mayer!
II quartetto del terzo atto2 è ora completamente corretto. II copista deve ripassare subito
a inchiostro ciò che è stato segnato con la matita rossa,3 altrimenti questi segni diventeranno illeggibili — Oggi pomeriggio mando di nuovo a prendere il primo e secondo
atto, perché anche questi voglio rivederli io stesso — Non posso venire, perché da ieri
ho delle coliche — la mia solita malattia — Non preoccuparti per l’Ouverture e il resto;
se necessario, potrebbe esser tutto pronto già per domani. A causa della tremenda crisi
attuale,4 ho tuttora tante altre cose da fare che debbo rimandare a poi tutto quello che
non è strettamente necessario —
Il tuo amico,
Beethoven
1 Attore e basso, sostenne il
ruolo di Pizarro
alla prima.
2 II secondo
atto, nella versione definitiva.
3 La gigantesca
matita rossa di
Beethoven, simile a quella di
un falegname.
4 L’occupazione
francese di
Vienna.
* * *
99
Beethoven modifica il libretto dopo l’insuccesso della prima versione
A Joseph Sonnleithner
[Vienna, primi di marzo 1806]
1 Musicata da
Cherubini.
2 In realtà insieme a Stephan
von Breuning.
Caro ed eccellentissimo Sonnleithner!
Spero che non mi risponderà con un rifiuto se La prego vivamente di volermi consegnare
una breve dichiarazione scritta che mi autorizzi a far stampare di nuovo sotto il Suo nome
il libretto con i cambiamenti attuali. — Mentre apportavo questi cambiamenti, Lei era
interamente preso dalla Sua Faniska;1 così mi misi a lavorare sul testo io stesso.2 Lei
non avrebbe avuto la pazienza di impegnarsi in queste modifiche, e la rappresentazione
della nostra opera sarebbe stata ritardata ancora di più — Perciò ho ritenuto di poter
fare assegnamento sul Suo consenso anche senza dirLe nulla. I tre atti sono stati ridotti
a due. Per arrivare a tanto e per dare all’opera un andamento più svelto ho accorciato
tutto il più possibile, il coro dei prigionieri e soprattutto altri pezzi del genere — Tutto
questo ha semplicemente reso necessario riscrivere il primo atto; ed in ciò consiste la
revisione del libretto —
Faccio stampare il libretto a mie spese e La prego ancora una volta di accondiscendere
alla mia richiesta.
Con stima, il Suo
Beethoven
* * *
Trambusti alle prove
A Friedrich Sebastian Mayer
[Vienna, pochi giorni prima dell’8 aprile 1806]
1 Si tratta della
versione rimaneggiata con
Breuning.
100
Caro Mayer!
II barone Braun mi informa che la mia Opera sarà eseguita giovedì.1 II motivo te lo dirò
a voce — Ma adesso ti prego vivamente di fare in modo che i cori siano provati ancor
meglio, perché l’ultima volta sono stati fatti degli errori tremendi. Bisogna inoltre che
giovedì abbiamo un’altra prova in teatro, con tutta l’orchestra — È vero che l’orchestra
non ha fatto errori ma gli attori in palcoscenico hanno sbagliato più volte — C’era da
aspettarselo con così poco tempo a disposizione. Tuttavia ho dovuto affrontare il rischio,
perché il b[arone] Braun aveva minacciato che se l’opera non fosse stata rappresentata
sabato, non lo sarebbe stata mai più. — Conoscendo l’attaccamento e l’amicizia che tu, in
ogni modo, mi hai sempre dimostrato, mi aspetto da te tutto il possibile anche in queste
prove. Dopo di che l’Opera non avrà piu bisogno di altre prove e potrete rappresentarla
ogniqualvolta vorrete — Ecco due libri2 — ti prego di darne uno a Röckel — Sta’ bene,
caro Mayer, e prendi a cuore questa faccenda come se si trattasse di cosa tua —
II tuo amico
Beethoven
2 S’intenda:
libretti. A
Röckel era
affidata la parte
di Florestan.
* * *
Maledette orchestre!
A Friedrich Sebastian Mayer
[Vienna, probabilmente l’8 aprile 1806]
Caro Mayer!
Ti prego di chiedere al signor von Seyfried di dirigere oggi la mia Opera. Oggi io stesso
voglio guardarla e udirla da lontano. In ogni caso la mia pazienza non verrà messa a dura
prova come certamente accadrebbe se mi trovassi presso l’orchestra e dovessi ascoltare
quanto viene storpiata la mia musica! — Non posso fare a meno di credere che lo facciano di proposito. Degli strumenti a fiato non dirò niente ma — che tutti i pianissimo e
i crescendo e i decrescendo e tutti i forte e fortissimo dovrebbero essere cancellati dalla
mia Opera! Tanto, non tutti sono osservati! Mi passa proprio la voglia di continuare a
scrivere qualcos’altro, se debbo sentire l’opera mia eseguita in questa maniera! —
Domani o dopodomani ti verrò a prendere per andare a pranzo. Oggi mi sento di nuovo
male. Il tuo amico
Beethoven
PS. Se l’Opera deve essere rappresentata dopodomani, domani dobbiamo fare un’altra
prova in sala — se no le cose andranno ogni giorno peggio!
* * *
*
* * *
Partitura smarrita
Al conte Moritz Lichnowsky
[Vienna, gennaio o febbraio 1814]
Caro Conte!
Mi farebbe un gran favore se volesse prestarmi per qualche giorno la partitura della mia
opera, “Fidelio”. [...] Adesso la vogliono rappresentare qui al Teatro di Corte,1 ma non
riesco a trovare la mia partitura. [...]
Tutto Suo
Beethoven
1 Per la qual
occasione,
Beethoven preparerà la nuova
e definitiva
versione.
101
* * *
Ricostruire rovine
A Georg Friedrich Treitschke1
[Vienna, marzo 1814]
1 È il librettista
che porterà a
compimento
la versione
definitiva.
EccoLe, caro e diletto T[reitschke], il Suo Canto!1 Ho letto con grande piacere le correzioni
che ha apportato all’Opera. Questo mi spinge a ricostruire con maggiore convinzione le
desolate rovine di un vecchio castello.
Il Suo amico
Beethoven
* * *
Restauro martirio
A Georg Friedrich Treitschke
[Vienna, aprile 1814]
1 Il terzo e
ultimo rimaneggiamento del
Fidelio.
2 La quarta e
definitiva ouverture, l’unica
denominata
Fidelio.
102
Caro e diletto Tr[eitschke]!
Quel maledetto concerto, che sono stato costretto a dare in parte a causa della mia miseranda situazione, mi ha fatto restare indietro con l’Opera1 — La Cantata che volevo
eseguire nel corso del concerto mi ha portato via altri cinque o sei giorni —
Così, adesso bisogna fare tutto in una volta e ci metterei minor tempo a scrivere una
cosa nuova che a rabberciare il vecchio con qualcosa di nuovo, come sto facendo. Sono
abituato, anche quando scrivo musica strumentale, ad avere davanti agli occhi l’insieme
— Ma in questo caso l’unità della mia opera è — in certo qual modo — sparpagliata
in tutti i sensi, e io debbo ricostruirmela dentro un’altra volta — Rappresentare l’opera
fra due settimane è assolutamente impossibile. Sono sempre convinto che ci vorranno
quattro settimane. Intanto il primo atto sarà finito fra pochi giorni — C’è però molto da
fare nel secondo atto e debbo anche comporre una nuova ouverture. Ma questa è proprio
la cosa più facile, perché posso scriverne una completamente nuova2 — Prima del mio
concerto avevo soltanto buttato giù qualche abbozzo qua e là, tanto nel primo che nel
secondo atto; e soltanto pochi giorni fa ho potuto cominciare a lavorare sul serio — La
partitura dell’opera è stata copiata nella maniera più spaventosa che io abbia mai visto.
Devo rivederla nota per nota (probabilmente era stata rubata). Insomma Le assicuro, caro
T[reitschke], che quest’opera mi farà guadagnare la corona del martirio. Se Lei non si
fosse dato tanta pena e tanta premura e se non avesse rivisto ogni cosa in maniera tanto
soddisfacente, del che Le sarò eternamente grato, non so se mi deciderei a fare la mia
parte — Ma Lei, con il Suo lavoro, ha ricuperato alcuni buoni resti di una nave che aveva
fatto naufragio e si era arenata —
In ogni modo, se pensa che così il ritardo diventa per Lei troppo grande, rimandi l’opera
a più tardi. Per quel che mi riguarda, continuerò a lavorare fino a che sarà tutto finito,
e proprio seguendo punto per punto tutti i cambiamenti e i miglioramenti che Lei ha
apportato, un lavoro che approvo ogni momento di più. Soltanto che non posso procedere
con la stessa velocità che se scrivessi un nuovo lavoro — e in due settimane è veramente
impossibile finire tutto — Agisca come meglio crede, ma anche come un amico mio. Non
sarà il mio zelo a far difetto.
Il Suo
Beethoven
* * *
Maledetti copisti!
A Georg Friedrich Treitschke
[Vienna, c. 14 maggio 1814]
Caro Tr[eitschke]!
[...]
Sono venuti da me a questo proposito alcuni Suoi copisti e anche Wranitzky.1 Ho detto
loro che Lei, caro Tr[eitschke], ha il controllo assoluto della situazione. Perciò adesso
aspetto soltanto di conoscere la Sua ponderata opinione sull’argomento — II Suo copista
è — un asino! — però gli manca completamente la proverbiale magnifica pelle d’asino2
— Perciò il mio copista si è assunto la copiatura ed entro martedì rimarrà ben poco da
copiare, e sarà lui che porterà tutto alla prova —
1 Anton WraMi lasci anche dire che tutta questa faccenda dell’opera è la più fastidiosa del mondo, nitzky, direttore
perché sono scontento di quasi tutto — e — in pratica, non c’è un brano nel quale la dell’orchestra
del principe
mia attuale insoddisfazione non debba essere rappresentata qua e là con un po’ di sod- Lobkowitz.
disfazione — Insomma è tutt’altra cosa che potersi abbandonare alla libera meditazione 2allaAllusione
commedia
fantastica Die
o all’ispirazione —
Eselshaut, con
Tutto Suo
musiche di scena
di Hummel.
Beethoven
* * *
103
Affari oltremanica
A Charles Neate, Londra
Vienna, 19 aprile 1817
Mio Caro Neate!
Fin dal 15 ottobre sono stato colpito da una grave malattia, dei cui strascichi sto tuttora
soffrendo; e non sono ancora ristabilito. Lei sa che sono costretto a vivere interamente
delle mie composizioni. Da quando mi sono ammalato ho potuto comporre ben poco e
quindi ho potuto guadagnare altrettanto poco. Per questo avrei accolto con animo tanto
più grato qualunque cosa Lei avesse fatto per me — Ma immagino che il risultato di
tutto ciò — sia niente.
Lei ha persino scritto a Häring lamentandosi di me, cosa, questa, che la mia onestà nei
Suoi confronti non merita davvero — Comunque debbo giustificare la mia condotta; e mi
piacerebbe che Lei sapesse che l’opera Fidelio è stata scritta parecchi anni fa, ma che il
libretto e il testo lasciavano molto a desiderare. È stato necessario rielaborare completamente il libretto e di conseguenza allungare parecchi pezzi di musica, accorciarne altri
e aggiungere anche delle composizioni nuove. Così, per esempio, l’ouverture è completamente nuova, e nuovi son pure parecchi altri brani. È pero possibile che a Londra l’opera
sia ancora nella prima versione; se è così, vuol dire che è stata rubata, cosa che in teatro
è quasi impossibile evitare. — Per quel che riguarda la Sinfonia in la, visto che Lei non
mi aveva dato nessuna risposta soddisfacente, ebbene, ho dovuto pubblicarla. Eppure
avrei aspettato volentieri tre anni, se Lei mi avesse scritto che la Società Filarmonica
l’avrebbe presa — ma non ho sentito nulla da nessuna parte — nulla. Ora, per quel che
riguarda le Sonate per pianoforte con violoncello, Le do un mese di tempo, dopo di che,
se non ricevo nessuna risposta da parte Sua, le pubblico in Germania. Poiché Lei non mi
ha dato notizie di queste opere, come non me ne ha date delle altre, io le ho consegnate
a un editore tedesco, che me le aveva chieste con insistenza. Però ho pattuito per iscritto
(Häring ha letto questo documento) che non potrà pubblicare le Sonate prima che Lei le
abbia vendute a Londra. Pensavo che Lei avrebbe potuto collocare quelle due Sonate per
almeno 70 o 80 ducati d’oro. L’editore inglese potrà stabilire il giorno in cui esse devono
comparire a Londra; e allora saranno pubblicate nello stesso giorno anche in Germania.
[...] La prego quindi, come ultima cortesia, di darmi il più presto possibile una risposta
a proposito delle Sonate. La signora Von Jenney è pronta a giurare su tutto ciò che Lei
ha fatto per me, e lo sono anch’io, cioè giuro che Lei non ha fatto niente per me, non farà
niente e ancora niente per me, summa summarum, niente! niente! niente!!!
Le assicuro la mia più completa stima e spero almeno di avere, come ultima cortesia,
una sollecita risposta —
Il Suo devotissimo servitore e amico
L. v. Beethoven
104
* * *
Basta con l’opera
Alla signora Anna Mildner-Hauptmann, Berlino
(Vienna, 6 gennaio 1816)
[...] qui a Vienna, con questa Direzione spilorcia, non riuscirò mai a raggiungere un
accordo per una nuova Opera — [...]
*
[da Gerhard von Breuning, Dalla casa degli spagnoli neri. Ludwig van Beethoven nei
miei ricordi giovanili]
«Volevo scrivere un’altra opera [dopo il Fidelio], ma non ho trovato nessun libretto che
fosse adatto. Ho bisogno di un testo che mi stimoli, un testo morale, edificante. Non sarei mai stato in grado di mettere in musica libretti come quelli di Mozart. Non sono mai
riuscito a pormi in uno stato d’animo adatto a testi libertini. Ho ricevuto molti libretti,
ma, lo ripeto, nessuno come avrei desiderato.» (LvB)
105
106
Hanna Arendt
La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione *
I
Per combattere il totalitarismo è sufficiente comprendere una sola cosa: il totalitarismo rappresenta la negazione più radicale della libertà. Tuttavia, questa negazione della libertà accomuna di
tutte le tirannie e non è l’elemento decisivo per comprendere la natura specifica del totalitarismo.
D’altro canto, chi non si sente chiamato in causa quando la libertà è minacciata, non si sentirà
mai chiamato in causa. Anche le condanne morali, l’indignazione nei confronti di crimini che non
hanno precedenti nella storia e che nemmeno i Dieci comandamenti hanno previsto serviranno a
ben poco. L’esistenza stessa di movimenti totalitari nel mondo non totalitario, cioè il fascino che
il totalitarismo esercita anche su coloro che dispongono di ogni informazione e che sono messi
in guardia contro di esso un giorno sì e un giorno no, attesta eloquentemente il crollo dell’intera
struttura morale, dell’intero corpus di quei divieti e comandamenti che nella tradizione hanno
espresso e incarnato le idee fondamentali di libertà e di giustizia nelle relazioni sociali e nelle
istituzioni politiche.
Eppure molti dubitano che questo crollo sia reale. Secondo costoro ciò che si è verificato è semplicemente un incidente di percorso, superato il quale, dovere di ognuno sarà quello di restaurare
il vecchio ordine, fare appello all’antica conoscenza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato e
mobilitare l’eterno istinto per l’ordine e la sicurezza. Costoro etichettano chiunque la pensi e si
esprima diversamente come un “profeta di sventura”, il cui pessimismo minaccia di oscurare il
sole che si leva in eterno sul bene e sul male.
La verità è che i “profeti di sventura”, i pessimisti storici della fine del XIX e dell’inizio del XX
secolo, da Burckhardt a Spengler, furono messi fuori gioco dalla realtà di catastrofi di cui nessuno
aveva saputo prevedere né le dimensioni né l’orrore. Tuttavia, apparentemente, alcuni sviluppi
avrebbero potuto essere previsti ed effettivamente lo furono. Sebbene di queste predizioni non
vi sia quasi traccia nel XIX secolo, ve ne furono nel XVIII e ricevettero scarsa considerazione
perché nulla sembrava giustificarle. Per esempio, è interessante sentire che cosa aveva da dire
Kant, nel 1793, a proposito dell’“equilibrio dei poteri” come soluzione ai conflitti derivanti dal
sistema europeo degli stati nazionali: «il cosiddetto equilibrio delle potenze europee è semplicemente una chimera, come quella casa di Swift costruita secondo tutte le regole dell’equilibrio così
perfettamente che, non appena un passero vi si posava, subito crollava».1 L’equilibrio raggiunto
dal sistema degli stati nazionali non era una mera chimera, ma in effetti crollò esattamente come
Kant aveva predetto. Nelle parole di uno storico moderno: «La prova del fuoco per l’equilibrio
dei poteri consiste proprio in ciò che dovrebbe impedire: la guerra» (Hajo Holborn, The Political
Collapse of Europe, 1951).
Dotato di una prospettiva meno rigorosa e nondimeno più vicino alla realtà è un altro autore del
* Saggio estratto da Hannah
Arendt, Antologia. Pensiero,
azione e critica
nell’epoca dei
totalitarismi,
Feltrinelli,
Milano 2006.
Il volume raccoglie saggi risalenti al periodo
1930-1954.
1 Sopra il detto
comune: “questo
può essere giusto
in teoria, ma
non vale per
la pratica”, in
Immanuel Kant,
Scritti politici,
e di filosofia
della storia
e del diritto,
a cura di N.
Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu,
Utet, Torino
1995, p. 280.
107
XVIII secolo, che in genere non viene annoverato tra i “profeti di sventura” e che è altrettanto
sereno e misurato, e persino meno inquieto di Kant (dopo tutto la Rivoluzione francese non era
ancora avvenuta). Non vi è un solo evento rilevante nella nostra storia recente, che non possa
rientrare nello schema di intuizioni tracciato da Montesquieu.
Montesquieu fu l’ultimo pensatore a indagare sulla natura del governo, a chiedersi, cioè, che cosa
lo rende ciò che è («sa nature est ce qui le fait être tel», L’Esprit des lois, libro III, cap. 1). Ma a
questa domanda Montesquieu ne aggiunse un’altra assolutamente originale: che cosa fa agire un
governo nel modo in cui esso agisce? Egli scoprì così che ogni governo non solo ha la sua “struttura particolare”, ma ha anche un “principio” specifico che lo mette in moto. La scienza politica
attuale non si interessa a tali questioni perché le considera, in un certo senso, prescientifiche;
esse rinvierebbero, infatti, a una comprensione preliminare che si esaurisce in una semplice
tassonomia: questa è una repubblica, questa è una monarchia, questa è una tirannia. Eppure sono
proprio esse a dare il via al dialogo della comprensione autentica ponendo la domanda: che cos’è
che ci consente di definire uno stato come repubblica, monarchia o tirannia? Dopo aver risposto
nella maniera tradizionale alla domanda tradizionale – sostenendo che una repubblica è un governo
costituzionale in cui il potere sovrano è nelle mani del popolo; una monarchia, un governo legittimo in cui il potere sovrano è nelle mani di un singolo uomo; una tirannia, un governo illegittimo
in cui il potere è esercitato da un solo uomo secondo il proprio arbitrio – Montesquieu aggiunge
che in una repubblica il principio dell’azione è la virtù che, da un punto di vista psicologico, egli
identifica con l’amore dell’uguaglianza; in una monarchia, il principio dell’azione è l’onore, la cui
espressione psicologica è una passione per la distinzione; e in una tirannia, infine, il principio
dell’azione è la paura.
È sorprendente che Montesquieu, celebre soprattutto per la sua scoperta e la sua chiarificazione
della divisione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario, definisca i governi come se il potere
fosse necessariamente sovrano e indivisibile. Curiosamente fu Kant, e non Montesquieu, a ridefinire
la struttura dei governi in consonanza con i principi individuati da Montesquieu.
Nel suo scritto sulla Pace perpetua, Kant introduce una distinzione tra “forme di dominio” (Formen der Beherrschung) e forme di governo. A distinguere le forme di dominio è solo la sede del
potere: tutti gli stati in cui il principe possiede un potere sovrano indiviso sono definiti autocrazie;
se il potere è nelle mani della nobiltà, la forma di dominio è l’aristocrazia; se invece è il popolo a
detenere un potere assoluto, il dominio avviene sotto forma di democrazia. La convinzione di Kant
è che tutte queste forme di dominio (come suggerisce la parola stessa “dominio”) siano, in senso
stretto, illegali. Il governo costituzionale o legale è reso possibile dalla divisione del potere che fa
sì che lo stesso organo (o uomo) non possa, in un solo tempo, fare le leggi, renderle esecutive, ed
essere anche giudice di se stesso. In consonanza con questo nuovo principio, che appunto risale a
Montesquieu e che trovò un’espressione chiara nella Costituzione degli Stati Uniti, Kant individuò
due fondamentali strutture di governo: il governo repubblicano, che si basa sulla divisione dei
poteri, anche se a capo dello stato vi è un principe, e il governo dispotico, in cui i poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario non sono separati. In un senso politico concreto, il potere è indispensabile e
consiste nel possesso dei mezzi di violenza necessari per far rispettare le leggi. Laddove, pertanto,
il potere esecutivo non è separato e controllato dai poteri legislativo e giudiziario, la ragione e il
discernimento non possono essere più la fonte della legge, ma è il potere stesso a divenirlo. È la
forma di governo dispotico quella a cui, a ben vedere, si applica il detto “la forza fa la legge” – e
ciò è vero a prescindere da tutte le altre circostanze: una democrazia retta dalle decisioni della
maggioranza, ma non controllata dalla legge, è altrettanto dispotica di un’autocrazia.
108
È vero che anche la distinzione kantiana non è più del tutto soddisfacente. La sua debolezza principale risiede nel fatto che dietro la relazione tra legge e potere sta l’assunto secondo cui la fonte
della legge è la ragione umana (intesa ancora nel senso del lumen naturale), e la fonte del potere
è la volontà umana. Entrambi gli assunti sono discutibili per motivi sia storici sia filosofici. Non è
possibile, e nemmeno necessario, discutere tali difficoltà in questa sede. Per il nostro scopo, che
è di circoscrivere la natura di una forma di governo nuova e senza precedenti, può essere saggio
appellarsi dapprima ai criteri tradizionali, anche se non più tradizionalmente accettati. Nella
nostra indagine sulla natura del governo totalitario, sulla sua “struttura”, per usare le parole di
Montesquieu, utilizzeremo la distinzione kantiana tra forme di dominio e forme di governo, oltre a
quella tra governo costituzionale (o, come dice Kant, “repubblicano”) e dispotico.
La scoperta di Montesquieu, per cui ogni forma di governo ha un proprio principio innato che la
mette in moto e guida tutte le sue azioni, è di grande importanza. Questo principio motivazionale
non solo era strettamente legato all’esperienza storica (visto che l’onore era stato indubbiamente il
principio della monarchia medioevale, basata sulla nobiltà, così come la virtù era stata il principio
della repubblica romana), ma in quanto principio di movimento introduceva la storia e il processo
storico in strutture di governo che, sin dalla loro originaria scoperta e definizione da parte dei
greci, erano state concepite come fisse e immutabili. Prima della scoperta di Montesquieu, il solo
principio di mutamento ammesso per le forme di governo era un cambiamento verso il peggio, la
degenerazione che poteva trasformare un’aristocrazia (il governo dei migliori) in un’oligarchia (il
governo di una cricca nell’interesse di una cricca), o capovolgere una democrazia che fosse degenerata in oclocrazia (governo della plebe) in tirannide.
I principi guida di Montesquieu – virtù, onore, paura – sono principi in quanto regolano sia le azioni
dei governanti sia quelle dei governati. In una tirannia, la paura non è solo la paura dei sudditi
nei confronti del tiranno, ma anche la paura del tiranno nei confronti dei suoi sudditi. La paura,
l’onore e la virtù non sono soltanto dei moventi psicologici, ma i criteri stessi alla luce dei quali
tutta la vita pubblica è condotta e giudicata. Proprio come è motivo d’orgoglio per i cittadini di una
repubblica non dominare i propri concittadini, è altrettanto motivo d’orgoglio per il suddito di una
monarchia distinguersi ed essere onorato pubblicamente. Identificando questi principi, Montesquieu
non intendeva sostenere che tutti gli individui in ogni epoca si comportano secondo i principi del
governo sotto cui è toccato loro in sorte di vivere, o che i cittadini di una repubblica non sanno che
cosa sia l’onore, e i sudditi di una monarchia che cosa sia la virtù. Né Montesquieu parla di “tipi
ideali”; egli analizza la vita pubblica dei cittadini, non le vite degli individui privati, e scopre che
in questa vita pubblica – cioè nella sfera in cui tutti gli uomini agiscono insieme interessandosi a
cose che sono di interesse comune a tutti – l’azione è determinata da certi principi. Una volta che
questi principi non sono più tenuti in considerazione e i rispettivi criteri di comportamento non
sono più giudicati validi, le istituzioni politiche stesse sono messe a repentaglio.
Al disotto della distinzione proposta da Montesquieu tra la natura del governo (che lo rende ciò che
è) e i suoi principi guida (ciò che lo mette in moto attraverso le azioni) vi è un’ulteriore differenza,
un problema che ha angustiato il pensiero politico sin dai suoi albori, e che Montesquieu individua,
ma non risolve, con la sua distinzione tra l’uomo in quanto cittadino (membro di un ordinamento
pubblico) e l’uomo in quanto individuo. In caso di conquista, per esempio, «il cittadino può perire
e l’uomo sopravvivere» («le citoyen peut périr, et l’homme rester», L’Esprit des lois, libro X, cap. 3).
In genere il pensiero politico moderno ha affrontato questo problema nei termini della distinzione
tra vita pubblica e vita privata, o tra sfera politica e sfera della società; di norma, il suo aspetto
più problematico si situa nel presunto doppio standard di moralità.
109
Nel pensiero politico moderno – nella misura in cui le sue categorie fondamentali sono determinate dalla scoperta, che risale a Machiavelli, del potere come fulcro di tutta la vita politica e
delle relazioni di potere come le leggi supreme dell’azione politica – il problema dell’individuo
e del cittadino è stato ulteriormente complicato e oscurato dal dilemma che oppone la legalità,
in quanto perno del governo costituzionale di un paese, e la sovranità arbitraria in quanto condizione naturale nell’ambito delle relazioni internazionali. Apparentemente, siamo dunque posti di
fronte a due diversi ambiti di duplicità nella valutazione di che cosa vi sia di giusto o di sbagliato
nell’agire – il duplice standard che deriva dal fatto che l’uomo è allo stesso tempo cittadino e
individuo, e quello che deriva dalla distinzione tra politica estera e politica interna. Entrambi i
problemi hanno un nesso col nostro tentativo di comprendere la natura del totalitarismo, visto che
i governi totalitari sostengono di averli risolti entrambi. La distinzione tra politica estera e interna
e i dilemmi che ne derivano sono risolti attraverso la pretesa a un governo globale. Tale pretesa
viene poi sostanziata così: trattando ogni nazione conquistata, nel completo disprezzo delle sue
leggi, come un trasgressore passato della legge totalitaria e punendo i suoi abitanti sulla base di
leggi amministrate retroattivamente. In altre parole, la pretesa a un governo globale coincide con
la pretesa di stabilire sulla terra una legge nuova e universalmente valida. Di conseguenza, tutta
la politica estera appare a uno sguardo totalitario come politica interna camuffata e tutte le guerre
esterne, in effetti, come guerre civili. La distinzione tra cittadino e individuo e i dilemmi che ne
derivano sono eliminati attraverso la pretesa totalitaria a un dominio totale sull’uomo.
Per Montesquieu solo il dilemma tra cittadino e individuo era un problema politico reale. Il conflitto
tra politica interna ed estera, in quanto conflitto tra diritto e potere, esiste solo fintanto che si ritiene
che il potere sia indivisibile e sovrano. Montesquieu, come Kant, riteneva che solo la divisione dei
poteri potesse garantire il governo della legge e pensava che una federazione mondiale avrebbe
alla fine risolto i conflitti connessi all’esercizio della sovranità. Un passo eminentemente pratico
verso l’identificazione tra politica interna ed estera venne fatto con l’articolo VI della Costituzione
degli Stati Uniti che, in perfetta sintonia con lo spirito di Montesquieu, prevede che, insieme alla
costituzione e alle leggi promulgate nel rispetto della costituzione, «costituiranno la legge suprema
della nazione tutti i trattati stipulati... nel nome degli Stati Uniti».
La distinzione tra cittadino e individuo diviene un problema non appena prendiamo coscienza della
discrepanza esistente tra la vita pubblica, in cui io sono un cittadino come tutti gli altri cittadini, e
la vita personale, in cui io sono un individuo differente da tutti gli altri. L’uguaglianza davanti alla
legge non è solo la componente distintiva delle repubbliche moderne, ma, in un senso più profondo,
prevale anche nei governi costituzionali come tali, in quanto tutti gli individui che vivono sotto
una costituzione devono ricevere in misura uguale da essa ciò che appartiene loro per diritto. La
legge, in tutte le forme costituzionali di governo, determina e provvede suum cuique: grazie a essa
ognuno ottiene ciò che gli spetta.
La regola del suum cuique, comunque, non si estende mai a tutte le sfere dell’esistenza. Non c’è
suum cuique che possa essere determinato e assegnato agli individui nelle loro vite personali. Il
fatto stesso che in tutte le società libere sia consentito tutto ciò che non è esplicitamente proibito
chiarisce la situazione: la legge definisce i confini della vita personale ma non può intervenire su
ciò che si verifica al loro interno. Da questo punto di vista, la legge assolve due funzioni: regola la
sfera pubblico-politica in cui gli uomini agiscono di concerto come uguali e in cui condividono un
destino comune, mentre, allo stesso tempo, circoscrive lo spazio in cui i nostri destini individuali
si dipanano – destini che sono così dissimili che non vi saranno mai due biografie completamente
identiche. La legge nella sua sublime generalità non può mai prevedere e provvedere il suum che
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ciascuno riceve nella sua inoppugnabile unicità. Le leggi, una volta stabilite, sono applicate sempre in conformità a dei precedenti; il problema che si presenta con le azioni e gli eventi della vita
personale è che la vita è distrutta nella sua stessa essenza non appena è giudicata attraverso criteri
comparativi o sulla base di precedenti. Si potrebbe definire il filisteismo, e spiegare i suoi effetti
mortali sulla creatività della vita umana, come il tentativo di giudicare alla luce di precedenti ciò
che per definizione sfida ogni precedente, attraverso una trasformazione moralizzante dei costumi
in “leggi” generali di comportamento ugualmente valide per tutti.
Ovviamente, il problema connesso a questa discrepanza tra vita personale e vita pubblica, tra
uomo inteso come cittadino e uomo inteso come individuo, non risiede solo nel fatto che le leggi
non possono essere mai usate per guidare e giudicare le azioni della vita personale, ma anche nel
fatto che i criteri con cui si identifica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in ognuna delle due
sfere non coincidono e anzi entrano spesso in conflitto. Il fatto che simili conflitti – che vanno dal
caso dell’individuo che infrange il codice della strada perché sua moglie sta morendo fino al tema
centrale dell’Antigone – siano sempre ritenuti insolubili, e che tali “trasgressori della legge” siano
quasi senza eccezione rappresentati dai grandi tragici come individui che agiscono in armonia con
una “legge superiore”, rivela la profondità della tragedia inscritta nell’esperienza umana della cittadinanza a cui l’uomo occidentale non è sfuggito neanche all’interno dei migliori corpi politici. Va
notato, tuttavia, che, stranamente, anche i filosofi hanno lasciato l’uomo occidentale solo in balia di
questa particolare esperienza, e hanno fatto del loro meglio per sfuggire alla questione, innalzando
la legge della città a un’universalità così priva di ambiguità che in verità essa non possiede mai.
Il celebre imperativo categorico kantiano – «agisci in modo tale che la massima della tua azione
possa diventare una legge universale» – va in effetti alla radice del problema in quanto questo è
nella sua quintessenza proprio ciò che la legge pretende da noi. Questa rigida moralità, tuttavia,
non tiene sufficientemente conto della sensibilità e delle inclinazioni e, per di più, in realtà finisce
per favorire comportamenti sbagliati in tutti quei casi in cui nessuna legge universale, nemmeno
la presunta legge della ragion pura, può stabilire ciò che è giusto.
Nemmeno nella sfera personale, in cui non vi sono leggi universali che possano mai determinare
senza ambiguità ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, le azioni umane sono completamente arbitrarie. Qui l’individuo è guidato non dalle leggi, sotto cui possono essere sussunti i singoli casi,
ma dai principi – come la lealtà, l’onore, la virtù, la fiducia – che, per così dire, orientano verso
certe direzioni. Montesquieu non si chiese mai se questi principi potessero avere, in quanto tali,
la forza cognitiva di giudicare o magari persino di stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Ciò che tuttavia egli scoprì, quando aggiunse alle forme di governo, così com’erano state definite
dalla tradizione, quel principio guida che è il solo in grado di far agire gli uomini, i governanti
non meno dei governati, fu che la legge e le relazioni di potere in ogni genere di comunità politica
possono stabilire solo i confini oltre i quali opera quella sfera della vita completamente diversa
che non è pubblica. Ed è proprio da questa sfera non pubblica che scaturiscono le fonti dell’azione
e del movimento in quanto distinte dalle forze strutturali e stabilizzanti della legge e del potere.
Delimitate dalla legge e dal potere, dai quali in taluni casi vengono sopraffatte, si trovano le origini
del movimento e dell’azione.
Montesquieu, come altri prima di lui, comprese che questi principi d’azione, e i loro criteri di ciò
che è giusto e di ciò che è sbagliato, variano ampiamente a seconda dei paesi e delle epoche, e,
cosa ancora più importante, scoprì che ogni struttura di governo, che si estrinseca nella legge e
nel potere, ha i suoi particolari principi in consonanza coi quali agiscono gli uomini che vivono
all’interno di tale struttura. Per inciso, solo questa scoperta fornì a lui, e agli storici che vennero
111
dopo di lui, gli strumenti per descrivere la specificità di ogni cultura. Siccome vi è stata un’ovvia,
e storicamente palese, corrispondenza tra il principio dell’onore e la struttura monarchica, tra la
virtù e il repubblicanesimo e tra la paura (intesa non come un’emozione psicologica, ma come un
principio d’azione) e la tirannia, vi dovrà essere allora uno sfondo da cui emergono sia l’uomo come
individuo sia l’uomo come cittadino. In altre parole, Montesquieu scoprì che vi è qualcosa di più
oltre all’opposizione, alla discrepanza e al conflitto tra la sfera personale e quella pubblica.
Il fenomeno della corrispondenza tra le differenti sfere dell’esistenza, e il miracolo dell’unità delle
culture e delle epoche a dispetto delle discrepanze e delle contingenze, indica che alla base di
ogni entità storica o culturale si trova un elemento comune che è al contempo fondamento e fonte,
struttura e origine. Montesquieu individua nella distinzione l’elemento comune in cui si radicano le
leggi di una monarchia, e da cui scaturiscono le azioni dei suoi sudditi, e identifica l’onore, il principio guida supremo nelle monarchie, con il corrispondente amore per la distinzione. L’esperienza
fondamentale su cui si basano le monarchie e, potremmo aggiungere, tutte le forme gerarchiche di
governo è l’esperienza, insita nella condizione umana, che gli uomini sono distinti, ossia differenti
l’uno dall’altro per nascita. Nondimeno, sappiamo tutti che in diretta opposizione a ciò, e con una
validità non meno pressante, sta l’esperienza contraria, l’esperienza della intrinseca uguaglianza
di tutti gli uomini, che “nascono uguali” e si distinguono solo per la condizione sociale. Questa
uguaglianza – nella misura in cui non è un’uguaglianza davanti a Dio, un essere infinitamente
superiore di fronte al quale tutte le distinzioni e le differenze diventano trascurabili – ha sempre
significato non solo che tutti gli uomini, a dispetto delle loro differenze, hanno uguale valore, ma
anche che la natura ha garantito a ciascuno una pari quantità di potere. L’esperienza fondamentale
su cui si basano le leggi repubblicane e da cui scaturisce l’azione dei suoi cittadini è l’esperienza
del vivere insieme e dell’appartenere a un gruppo di uomini dotati di uguale potere. Le leggi che
regolano le vite dei cittadini repubblicani non favoriscono la distinzione, ma piuttosto limitano il
potere di ciascuno in modo tale che vi sia spazio per il potere degli altri. Il fondamento comune
della legge e dell’azione repubblicana è quindi l’idea che il potere umano non è in primo luogo
limitato da un potere superiore, Dio o la natura, ma dal potere dei propri simili. E la gioia che
scaturisce da questa intuizione, “l’amore dell’uguaglianza” che è virtù, deriva dalla presa d’atto
che è solo per questo, cioè solo perché vi è uguaglianza di potere, che l’uomo non è solo. Infatti
essere soli significa essere senza uguali: «uno è uno e tutto solo e per sempre così sarà», recita
un’antica filastrocca inglese, che ha l’audacia di far comprendere alla mente umana quella che
può essere solo la suprema tragedia di Dio.
Montesquieu non ha specificato quale sia il fondamento comune della struttura e dell’azione nelle
tirannie; siamo quindi legittimati a colmare questa lacuna alla luce delle sue stesse scoperte. La
paura, il principio che ispira le azioni nella tirannia, ha un legame essenziale con l’angoscia che
avvertiamo in situazioni di completo isolamento. Questa angoscia svela l’altra faccia dell’uguaglianza, che corrisponde alla gioia che proviamo nel condividere il mondo con i nostri pari. La
dipendenza e l’interdipendenza di cui abbiamo bisogno per realizzare il nostro potere (la quantità
di forza che è specificamente nostra) si tramutano in una fonte di disperazione quando, in completo
isolamento, comprendiamo che l’uomo da solo non ha nessun potere ma è sempre sovrastato e
sconfitto da un potere superiore. Se avesse forza sufficiente per competere col potere della natura
e del fato, il singolo individuo non avrebbe bisogno degli altri. La virtù è ben felice di pagare il
prezzo di un potere limitato se ne riceve in cambio il dono della compagnia degli altri uomini; la
paura è la disperazione che nasce da un senso d’impotenza individuale in coloro che, per qualsiasi
ragione, si sono rifiutati di “agire di concerto”. Non vi è virtù, né amore dell’uguaglianza, che non
112
debba vincere questa angoscia dell’impotenza, giacché non vi è vita umana che non sia esposta alla
completa impotenza, se non altro di fronte alla morte, laddove l’azione cessa di essere una risorsa
disponibile. La paura, intesa come principio d’azione, è in un certo senso una contraddizione in
termini, poiché la paura è esattamente la disperazione che deriva dall’impossibilità di agire. La
paura, in quanto distinta dai principi della virtù e dell’onore, è priva del potere di autotrascendersi
ed è perciò essenzialmente antipolitica. La paura, in quanto principio d’azione, può essere solo
distruttiva o, nelle parole di Montesquieu, “auto-corruttrice”. La tirannia è quindi la sola forma di
governo che porta in sé i germi della propria distruzione. Mentre le circostanze esterne possono
causare il declino di altre forme di governo, le tirannie devono la loro esistenza e sopravvivenza
proprio a simili circostanze esterne, le quali possono impedirne la naturale degenerazione e corruzione (L’Esprit des lois, libro VIII, cap. 10).
Di conseguenza, l’impotenza che tutti gli uomini provano quando si trovano in una condizione di
radicale isolamento è il fondamento comune su cui può essere eretto il governo arbitrario e da cui
scaturisce la paura. Un singolo uomo che si pone contro tutti gli altri non fa esperienza dell’uguaglianza del potere tra gli uomini, ma solo del potere combinato e soverchiante di tutti gli altri
contro il suo. Il grande pregio della monarchia, o di ogni governo gerarchico, consiste proprio nel
fatto che gli individui, la cui condizione politica e sociale è definita dalla loro “distinzione”, non
sono posti mai di fronte a un’indistinta e indistinguibile entità composta da “tutti gli altri”, a cui
essi potrebbero contrapporre solo la loro assoluta minorità di individui isolati. Mentre lo specifico
rischio che corrono tutte le forme di governo basate sull’uguaglianza è che nel momento in cui la
struttura della legalità – all’interno della quale l’esperienza dell’uguaglianza di potere riceve il suo
significato e la sua direzione – crolla o si trasforma, gli uguali poteri degli individui si annullano
l’uno con l’altro e ciò che resta è l’esperienza dell’impotenza assoluta. Dalla percezione della propria impotenza e dalla paura verso il potere di tutti gli altri deriva quella volontà di dominare che
è la volontà del tiranno. Proprio come la virtù è l’amore per l’uguaglianza nel potere, la paura è in
effetti il desiderio, o nella sua forma degenerata, la brama di potere. Concretamente, e da un punto
di vista politico, non vi è altra volontà di potenza che la volontà di dominare, in quanto il potere
stesso, nel suo senso autentico, non può essere mai posseduto da un uomo solo. Il potere viene, per
così dire, misteriosamente alla luce ogni qual volta gli uomini agiscono “di concerto” e svanisce,
non meno misteriosamente, ogni qual volta un uomo è abbandonato a se stesso. La tirannia, che
si basa sull’impotenza essenziale di tutti gli uomini una volta che siano stati isolati gli uni dagli
altri, è il tentativo presuntuoso e insolente di essere come Dio, di essere investiti individualmente
del potere, in completa solitudine.
Queste tre forme di governo – monarchia, repubblica e tirannia – sono autentiche perché le basi
su cui poggiano le loro strutture (la distinzione di ciascuno, l’uguaglianza di tutti e l’impotenza)
e da cui scaturiscono i loro principi di movimento sono elementi autentici della condizione umana e si trovano riflessi in esperienze umane fondamentali. In seguito affronteremo la questione
del totalitarismo chiedendoci se questa forma di governo che non ha precedenti possa o meno
pretendere di rappresentare una situazione fondamentale, ugualmente autentica, benché finora
nascosta, della condizione umana sulla terra, una situazione fondamentale che potrà rivelarsi solo
nell’eventualità di un’unità globale dell’umanità – eventualità sicuramente senza precedenti come
il totalitarismo stesso.
II
Prima di procedere, è opportuno precisare che siamo quantomeno consapevoli di una difficoltà
113
insita in questo approccio. Per la mentalità moderna non vi è forse niente di più sconcertante nelle
definizioni di Montesquieu del fatto che egli prenda in parola l’autointerpretazione e l’autocomprensione dei governanti stessi. Il fatto cioè che egli non vada alla ricerca di motivi nascosti dietro le
affermazioni della virtù nella repubblica, dell’onore nella monarchia o della paura nella tirannia,
suona ancora più sorprendente in un autore che senza dubbio fu il primo a rilevare la grande influenza dei fattori “oggettivi”, come le circostanze climatiche, sociali, ecc., sulla formazione delle
istituzioni specificamente politiche.
In ogni caso, qui come altrove, la vera comprensione non ha molte altre scelte. Le fonti parlano e
ciò che rivelano è l’autocomprensione come pure l’autointerpretazione di individui che agiscono
e che credono di sapere che cosa stanno facendo. Se neghiamo questa capacità e pretendiamo di
conoscere meglio di loro e persino di poter spiegare loro quali sono i loro motivi “reali” o quali
sono le vere “tendenze” di cui sono oggettivamente espressione – a prescindere da ciò che essi
effettivamente pensano – li priviamo della facoltà stessa di parola, se ha senso questo termine. Se,
per fare un esempio, Hitler in più occasioni ha definito gli ebrei il problema principale della storia
mondiale e a conferma delle sue convinzioni ha progettato dei luoghi in cui sterminare tutte le
persone di origine ebraica, non ha senso sostenere che l’antisemitismo non abbia veramente avuto
grande importanza nell’edificazione del suo regime totalitario o che egli sia semplicemente stato
vittima di uno sventurato pregiudizio. Il compito dello scienziato sociale è di descrivere lo sfondo
storico e politico dell’antisemitismo, ma in nessun caso egli può concludere che gli ebrei sono
solo i sostituti per i piccoli-borghesi o che l’antisemitismo è un surrogato del complesso di Edipo,
o chissà cos’altro. I casi in cui le persone mentono consapevolmente e, per continuare col nostro
esempio, fingono di odiare gli ebrei mentre in verità vogliono uccidere i borghesi, sono molto rari
e facilmente smascherabili. In tutti gli altri casi, l’autocomprensione e l’autointerpretazione sono
il fondamento stesso di ogni analisi e di ogni comprensione.
Pertanto, nel nostro tentativo di comprendere la natura del totalitarismo ci porremo in buona
fede le tradizionali domande sulla natura di questa forma di governo e sul principio che la mette
in moto. Sin dall’affermazione dell’approccio scientifico nelle discipline umanistiche, sin dallo
sviluppo moderno, cioè, dello storicismo, della sociologia e dell’economia, la tendenza generale
è stata quella di considerare tali questioni inutili ai fini della comprensione. Kant infatti è stato
l’ultimo a riflettere secondo le direttrici della filosofia politica tradizionale. Tuttavia, mentre i nostri
criteri di accuratezza scientifica si sono costantemente raffinati e oggi sono superiori rispetto a
ogni epoca precedente, i nostri parametri per la comprensione autentica sembrano aver patito una
non meno costante decadenza. Con l’introduzione di categorie di valutazione del tutto estranee
e spesso insensate, le scienze sociali hanno davvero toccato il fondo. L’accuratezza scientifica
non consente alcuna comprensione che vada al di là dei limiti angusti della mera fattualità, e ha
pagato un prezzo assai salato per la sua arroganza, da quando le folli superstizioni del XX secolo,
travestite da pseudo-scientismo, hanno cominciato a compensare le sue carenze. Ai nostri giorni il
bisogno di comprendere è cresciuto esponenzialmente e mette a soqquadro non solo i criteri della
comprensione, ma anche quelli della mera accuratezza scientifica e dell’onestà intellettuale.
Il governo totalitario non ha precedenti perché sfida ogni comparazione. Esso ha fatto saltare
l’alternativa stessa su cui si sono basate le definizioni della natura del governo sin dagli albori
del pensiero politico occidentale: l’alternativa tra governo legale, costituzionale o repubblicano,
da un lato, e governo illegale, arbitrario, tirannico, dall’altro. Il regime totalitario è “illegale”, in
quanto sfida il diritto positivo, ma non è arbitrario, in quanto obbedisce a una logica stringente ed
esegue con implacabile necessità le leggi della Storia o della Natura. Lungi dal reputarsi “illega114
le”, la mostruosa, eppure apparentemente irresistibile pretesa del regime totalitario è di attingere
direttamente alle fonti dell’autorità da cui tutte le leggi positive – che siano basate sul “diritto
naturale”, o sui costumi e le tradizioni, o sull’evento storico della rivelazione divina – ricevono la
loro legittimazione ultima. Ciò che appare illegale al mondo non totalitario costituirebbe dunque,
per il fatto stesso di trarre ispirazione direttamente dalle fonti dell’autorità, una forma superiore
di legittimità, che può fare tranquillamente a meno dell’insignificante legalità delle leggi positive,
limitata semplicemente alla prevenzione dell’ingiustizia, ma incapace di realizzare la giustizia in
ogni singolo, concreto, e perciò imprevedibile, caso. La legalità totalitaria, poiché obbedisce alle
leggi della Natura o della Storia, non si preoccupa di tradurre tali leggi nei criteri del giusto e
dell’ingiusto per i singoli esseri umani, ma le applica direttamente alla “specie”, all’umanità. Dalle
leggi della Natura o della Storia, se opportunamente applicate, è legittimo attendersi che realizzino
alla fine una singola “Umanità”, ed è questa aspettativa che sta alla base dell’aspirazione, comune
a tutti i governi totalitari, di dominare l’intero globo. L’umanità, o, meglio, la specie umana, è vista
come l’attiva esecutrice di queste leggi, mentre il resto dell’universo le subisce passivamente.
A questo punto emerge una differenza fondamentale tra la concezione totalitaria della legge e
tutte le altre. È senza dubbio vero che la Natura o la Storia, intese come le fonti autoritative per
le leggi positive, tradizionalmente potevano rivelarsi all’uomo o come lumen naturale, nel diritto
naturale, o come la voce della coscienza, nella legge religiosa rivelata storicamente. In ogni caso,
esse non facevano degli esseri umani delle incarnazioni viventi di tali leggi. Al contrario, queste
leggi rimanevano distinte – come l’autorità che pretendeva obbedienza – dalle azioni degli uomini.
Paragonate alle fonti dell’autorità, le leggi positive umane erano considerate mutevoli e modificabili
a seconda delle circostanze. Nondimeno, queste leggi risultavano più stabili delle azioni, in continua
e rapida trasformazione, degli uomini e traevano la loro relativa stabilità da ciò che appariva, a
degli occhi mortali, come la permanenza eterna delle fonti autoritative.
Nella prospettiva totalitaria, al contrario, tutte le leggi diventano leggi di movimento. La Natura
e la Storia non hanno più una funzione stabilizzatrice in quanto fonti autoritative delle leggi che
governano le azioni dei mortali, ma sono esse stesse movimenti. Le loro leggi, pertanto, benché
sia magari necessario l’intelletto per percepirle o comprenderle, non hanno nulla a che fare con la
ragione o la stabilità. Alla base della credenza nazista nelle leggi razziali vi è l’immagine darwiniana dell’uomo come un prodotto più o meno accidentale dell’evoluzione naturale – un’evoluzione
che non ha necessariamente il suo termine nella specie umana così com’essa ci è nota. Alla base
della credenza bolscevica nella classe vi è la nozione marxiana degli uomini come prodotti di un
gigantesco processo storico che avanza verso la fine del tempo della storia – un processo, cioè,
che tende a negare se stesso. Lo stesso termine “legge” ha cambiato di significato: non denota più
la cornice stabile all’interno della quale le azioni umane dovevano e potevano avere luogo, ma è
diventato l’espressione stessa di questi movimenti come tali.
Le ideologie del razzismo e del materialismo dialettico, che hanno trasformato la Storia e la Natura da terreno stabile che sosteneva la vita e l’azione umana in forze gigantesche i cui movimenti
corrono attraverso l’umanità, trascinando con sé ogni individuo volente o nolente – o alla guida
della loro macchina trionfante, o sotto le sue ruote –, possono essere varie e complesse. In ogni
caso è sorprendente notare come, a dispetto di tutti gli scopi politici e pratici, queste ideologie
sfocino sempre nella medesima “legge”, la quale prevede l’eliminazione di alcuni individui in
vista dello sviluppo o del progresso della specie. L’esito del movimento naturale o storico risulta
dall’eliminazione degli individui dannosi o superflui allo stesso modo di come la fenice risorge
dalle sue ceneri; ma, a differenza del mitico uccello, questa umanità, che rappresenta il fine e
115
allo stesso tempo l’incarnazione del movimento della Storia o della Natura, esige, da chi vuole
accedere alla sua sanguinosa eternità, sacrifici continui, l’eliminazione permanente di classi o
razze parassitarie o malsane.
Proprio come nel governo costituzionale c’è bisogno di leggi positive per tradurre e realizzare l’immutabile ius naturale o i comandamenti eterni di Dio o, ancora, i sempiterni costumi e le millenarie
tradizioni storiche, così c’è bisogno del terrore per realizzare e tradurre in realtà vivente le leggi
del movimento storico o naturale. E proprio come le leggi positive che in ogni particolare società
definiscono le trasgressioni sono indipendenti da esse, di modo che l’assenza di trasgressioni
non renda superflue le leggi, ma al contrario ne rappresenti il loro perfetto governo, così anche il
terrore nei governi totalitari, quando cessa di essere un mezzo per la soppressione degli avversari
politici, si rende indipendente da questo scopo e domina supremo anche quando gli oppositori
non ostacolano più il suo cammino.
Se la legge rappresenta dunque l’essenza del governo costituzionale o repubblicano, il terrore
rappresenta allora l’essenza del governo totalitario. Lo scopo delle leggi è quello di fungere da
confine (per attenerci a una delle immagini più antiche, l’invocazione platonica di Zeus come il dio
dei confini, in Leggi 843a) e di rimanere ferme consentendo in tal modo agli uomini di muoversi
entro il loro ambito. In un regime totalitario, al contrario, si ricorre a ogni mezzo per “stabilizzare”
gli uomini, per renderli statici, così da impedire ogni atto spontaneo, libero o imprevisto, che
potrebbe ostacolare le libere scorribande del terrore. È la legge stessa del movimento, la Natura
o la Storia, a individuare i nemici dell’umanità, nessuna azione libera, di semplici uomini, può
interferire con essa. Colpa e innocenza diventano categorie prive di significato; “colpevole” è chi si
trova sulla strada del terrore, chi, cioè, volontariamente o involontariamente, ostacola il movimento
della Natura o della Storia. Il leader, di conseguenza, non applica delle leggi, ma realizza questo
movimento in consonanza con la sua legge intrinseca; la sua pretesa non è di essere né giusto né
saggio, ma di avere una conoscenza “scientifica”.
Il terrore immobilizza gli uomini per lasciar spazio al movimento della Natura o della Storia; elimina
gli individui per il bene della specie; sacrifica gli uomini per il bene dell’umanità – non solo coloro
che alla fine diverranno le vittime del terrore, ma di fatto ogni uomo, nella misura in cui questo
movimento, il suo inizio e la sua fine, può essere ostacolato solo da quel nuovo inizio e da quella fine
individuale che la vita di ogni uomo effettivamente rappresenta. Con ogni nuova nascita, un nuovo
inizio fa il suo ingresso nel mondo, e un nuovo mondo viene potenzialmente alla luce. La stabilità
delle leggi, che definiscono i confini e i canali di comunicazione tra gli uomini che vivono insieme
e agiscono di concerto, protegge così questo nuovo inizio e garantisce, al contempo, la sua libertà;
le leggi garantiscono la potenzialità di qualcosa di completamente nuovo e la pre-esistenza di un
mondo comune, la realtà di quella continuità trascendente che assorbe tutte le origini e si nutre di
esse. Il terrore fa innanzitutto piazza pulita di questi confini tracciati dalle leggi degli uomini, ma
non a beneficio di una volontà tirannica e arbitraria, né per amore del potere dispotico di un uomo
sopra tutti gli altri, né, meno che mai, in vista della guerra di tutti contro tutti. Il terrore sostituisce
i confini e i canali di comunicazione tra gli individui con un vincolo di ferro che li spinge gli uni
contro gli altri in maniera così salda che è come se fossero fusi insieme, come se fossero un solo
uomo. Il terrore, il servitore fedele della Natura o della Storia e l’onnipresente esecutore del loro
movimento predestinato, forgia l’unità di tutti gli uomini abolendo i confini della legge da cui
dipende lo spazio vitale indispensabile per la libertà di ogni individuo. Il terrore non è totalitario
in quanto riduce tutte le libertà o abolisce certe libertà essenziali, né in effetti, per quanto ci è
dato sapere, perché riesce a sradicare l’amore della libertà dai cuori degli uomini; semplicemente
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e spietatamente esso spinge gli uomini, così come sono, gli uni contro gli altri, distruggendo lo
spazio stesso dell’azione libera, che non rappresenta che la realtà della libertà.
Il terrore non esiste né per né contro gli uomini; esiste per fornire al movimento della Natura o
della Storia un incomparabile strumento di accelerazione. Una volta che l’innegabile automatismo
degli avvenimenti storici o naturali è compreso come un flusso necessario, il cui significato coincide
con la legge del suo movimento ed è perciò del tutto indipendente da ogni evento – il quale, al
contrario, può essere considerato solo un effetto superficiale e transitorio di tale legge sotterranea e
permanente – allora la libertà degli uomini parimenti innegabile, e che coincide col fatto che ogni
uomo è un nuovo inizio e in questo senso dà nuovamente inizio al mondo, può essere considerata
solo come un’interferenza arbitraria e irrilevante con forze superiori. Queste forze, a ben vedere,
non potrebbero mai essere deviate in maniera definitiva da una simile ridicola debolezza, potrebbero però essere ostacolate e impedite nel raggiungimento di una piena realizzazione. Il genere
umano, una volta organizzato in maniera tale da marciare al passo della Natura o della Storia,
come se tutti gli uomini non fossero che un unico uomo, accelera il movimento automatico della
Natura o della Storia portandolo a una velocità che non avrebbe mai potuto raggiungere da solo.
In pratica, ciò significa che il terrore esegue su due piedi le condanne a morte che la Natura ha
già pronunciato nei confronti di razze o individui inadatti o che la Storia ha decretato nei confronti
di classi e istituzioni agonizzanti, senza attendere l’eliminazione più lenta e meno efficiente che
presumibilmente si compierebbe in ogni caso.
In un governo totalitario perfetto, in cui tutti gli individui siano divenuti esemplari della specie, in
cui ogni azione sia stata trasformata in accelerazione e ogni gesto si sia tramutato nell’esecuzione
di condanne a morte – cioè laddove il terrore, in quanto essenza del governo, sia difeso a perfezione dall’interferenza fastidiosa ma irrilevante dei desideri e dei bisogni umani – nessun principio
d’azione nel senso in cui lo intendeva Montesquieu è più necessario. A Montesquieu servivano i
principi d’azione perché per lui l’essenza del governo costituzionale, legalità e distribuzione del
potere, era fondamentalmente stabile: poteva cioè porre dei limiti all’azione solo in senso negativo, non stabilire i suoi principi in senso positivo. Dal momento che la grandezza, ma anche la
debolezza, di tutte le leggi delle società libere dipende dal fatto che esse indicano solo ciò che
non si dovrebbe fare, e mai ciò che si dovrebbe fare, nel governo costituzionale l’azione politica e
il movimento storico rimangono liberi e imprevedibili, in quanto si conformano alla sua essenza,
senza però essere mai diretti da essa.
In un regime totalitario questa essenza è diventata essa stessa movimento – il governo totalitario
è solo in quanto si mantiene in costante movimento. Fintanto che il dominio totalitario non si
sarà esteso a tutta la terra, con il suo vincolo di ferro di terrore, e avrà fuso tutti gli individui in
un solo macroindividuo – il genere umano –, il terrore nella sua duplice funzione di essenza del
governo e di principio – non di azione, ma di movimento – non potrà essere pienamente realizzato.
Aggiungere a esso un principio d’azione, come la paura, sarebbe contraddittorio, perché anche la
paura (secondo Montesquieu) è pur sempre un principio d’azione e come tale imprevedibile nelle
sue conseguenze. La paura è sempre connessa all’isolamento – che può essere il suo esito o la
sua origine – e alle concomitanti esperienze di impotenza e debolezza. Lo spazio di cui la libertà
necessita per la sua realizzazione si trasforma in un deserto quando l’arbitrio dei tiranni distrugge
i confini della legge che delimitano e garantiscono a ciascuno la sfera della libertà. La paura è il
principio dei movimenti umani in questo deserto di isolamento e di assenza di prossimo; come
tale, tuttavia, rimane un principio che guida le azioni degli individui, i quali perciò conservano
un minimo, timoroso contatto con gli altri uomini. Il deserto in cui si muovono questi individui,
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atomizzati dalla paura, conserva una sembianza, benché distorta, di quello spazio di cui la libertà
umana ha bisogno.
La stretta relazione tra i governi totalitari e i regimi dispotici è in effetti palese e si estende a quasi
tutte le aree di governo. L’abolizione totalitaria delle classi e di quei gruppi della popolazione da
cui potrebbero emergere delle forme autentiche di distinzione, diverse dalle distinzioni arbitrarie
degli ordini e degli stemmi, non può che ricordarci la vecchia storia del tiranno greco che, per
iniziare un altro tiranno alle arti della tirannia, lo condusse fuori città in un campo di grano e,
giunti lì, tagliò tutte le spighe alla stessa altezza. Proprio il prevalere in tutti i regimi dispotici di
una parvenza di uguaglianza ha indotto molti a credere, erroneamente ma in assoluta buona fede,
che la tirannia o la dittatura derivino dall’uguaglianza, così come il neoconservatorismo della nostra
epoca scaturisce dall’abolizione radicale di tutti i fattori autoritari gerarchici e tradizionali presenti
in tutte le forme di dispotismo. Le politiche di spoliazione economica, così tipiche dell’efficienza
a breve termine e dell’inefficienza a lungo termine delle economie totalitarie, non possono non
farci venire alla mente il vecchio aneddoto che Montesquieu utilizzava per descrivere il governo
dispotico: quando i selvaggi della Louisiana desiderano cogliere dei frutti maturi, abbattono l’albero, semplicemente perché è più veloce e più semplice (L’Esprit des lois, libro V, cap. 13). Per
di più, il terrore, la tortura e la delazione sistematica, perennemente a caccia di pensieri segreti
e pericolosi, sono sempre stati gli assi portanti delle tirannie, e non sorprende che alcuni tiranni
avessero già consapevolezza del terribile uso che si può fare dell’inclinazione umana a dimenticare
e del terrore umano di essere dimenticati. Le prigioni dei regimi dispotici, in Asia come in Europa,
erano spesso chiamate luoghi di oblio, e in molti casi la famiglia e gli amici dell’uomo condannato
a un’esistenza da morto vivente nel più completo oblio venivano minacciati di punizioni se solo
avessero menzionato ancora il suo nome.
Il XX secolo ci ha fatto dimenticare molti orrori del passato, ma non vi è dubbio che ai dittatori
totalitari, se solo avessero avuto bisogno di istruzioni, non sarebbe mancata una scuola di antica
data in cui sono stati insegnati e valutati tutti i mezzi di violenza e scaltrezza utili per il dominio
dell’uomo sull’uomo. L’uso totalitario della violenza e in particolare del terrore è comunque diverso,
non perché trascenda di gran lunga i limiti del passato, e non solo perché non si possa ragionevolmente definire lo sterminio organizzato e meccanizzato di interi gruppi e interi popoli “omicidio” e
nemmeno “omicidio di massa”, ma perché la sua caratteristica principale è esattamente antitetica
al terrore poliziesco e spionistico passati. Tutte le somiglianze tra le forme totalitarie e tradizionali
di tirannia, per quanto possano apparire sorprendenti, sono somiglianze tecniche, e si applicano
solo agli stadi iniziali del dominio totalitario. I regimi diventano pienamente totalitari solo quando
si sono lasciati alle spalle la loro fase rivoluzionaria e le tecniche necessarie per la presa e il consolidamento del potere – senza ovviamente abbandonarle mai, dovesse ripresentarsene l’esigenza.
Gli studiosi del totalitarismo hanno un motivo molto più valido per identificare questa forma di
governo con la tirannia pura e semplice ed è il fatto che i regimi totalitari e tirannici concentrano
entrambi tutto il potere nelle mani di un solo uomo, che si serve di questo potere in modo tale da
rendere tutti gli altri uomini assolutamente e radicalmente impotenti – e questa è la sola somiglianza che abbia una relazione diretta col contenuto specifico delle due forme di governo. Se, per
di più, ricordiamo il desiderio insano di Nerone, il cui sogno, come narrano le antiche leggende,
era di ridurre l’intero genere umano a una sola testa, non possiamo non andare con la mente alle
nostre esperienze presenti del cosiddetto principio del Führer, utilizzato da Stalin nella stessa, o
forse persino maggiore, misura di Hitler. Esso si basa sull’assunto che non solo un’unica volontà
sopravvive in una popolazione dominata, ma anche che basta una sola mente per prendersi cura
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di tutte le attività umane in generale. Eppure è proprio in questo punto di massima somiglianza
tra governo totalitario e tirannico che la differenza decisiva emerge nella maniera più chiara. Nella
sua follia, Nerone desiderava trovarsi di fronte a una sola testa, così che la tranquillità del suo
potere non fosse mai più minacciata da una nuova opposizione: voleva, per così dire, decapitare il
genere umano una volta per tutte, benché sapesse che ciò era impossibile. Il dittatore totalitario,
al contrario, si sente la sola e unica testa dell’intera razza umana e l’opposizione lo preoccupa solo
in quanto essa dev’essere spazzata via prima dell’inizio stesso del suo dominio totalitario. Il suo
obiettivo ultimo non è la tranquillità del regime, ma l’imitazione – nel caso di Hitler – o l’interpretazione – nel caso di Stalin – delle leggi della Natura o della Storia. Ma queste, come abbiamo
visto, sono leggi di movimento che richiedono un moto costante e rendono quindi impossibile per
definizione il mero placido godimento dei frutti del dominio, le gioie venerande del governo tirannico
(che erano al contempo i limiti oltre ai quali il tiranno non aveva interesse a esercitare il proprio
potere). Il dittatore totalitario, distinguendosi nettamente dal tiranno, non crede di essere un agente
libero dotato del potere di realizzare la sua volontà arbitraria, bensì, piuttosto, si sente l’esecutore
di leggi superiori. La definizione hegeliana della libertà come comprensione e adeguamento alla
“necessità” conosce qui una nuova e terrificante realizzazione. Il leader totalitario sente che per
l’imitazione o l’interpretazione di queste leggi è richiesto un solo uomo e che tutte le altre persone,
tutte le altre menti e volontà, sono completamente superflue. Sarebbe assolutamente assurdo se
pensassimo che i leader totalitari in un accesso di megalomania ritenessero di aver accumulato e
monopolizzato tutte le possibili capacità della mente e della volontà umana, cioè, se supponessimo
che sono davvero convinti di essere infallibili. In breve, il leader totalitario non è un tiranno e può
essere compreso solo se prima comprendiamo la natura del totalitarismo.
In ogni caso, se il dominio totalitario ha ben poco in comune con le tirannie del passato, ha ancora
meno a che fare con certe forme moderne di dittatura da cui si è sviluppato e con cui è stato spesso
confuso. Le dittature del partito unico, di stampo fascista o comunista, non sono totalitarie. Né Lenin
né Mussolini furono dei dittatori totalitari, né compresero mai pienamente che cosa effettivamente
significasse il totalitarismo. Quella di Lenin era una dittatura rivoluzionaria del partito unico in
cui il potere risiedeva principalmente nella burocrazia di partito, quella stessa dittatura che Tito
cerca di emulare ai nostri giorni. Mussolini fu fondamentalmente un nazionalista e, a differenza
dei nazisti, un sincero adoratore dello stato, con forti inclinazioni imperialiste; se l’Italia avesse
avuto un esercito migliore probabilmente Mussolini sarebbe diventato un classico dittatore militare, proprio quello che Franco, proveniente dalle gerarchie militari, cerca di essere in Spagna con
l’aiuto offertogli e i limiti impostigli dalla Chiesa cattolica. Negli stati totalitari, né l’esercito, né
la Chiesa, né la burocrazia si sono trovati mai nelle condizioni di poter gestire o limitare il potere;
tutto il potere esecutivo è infatti nelle mani della polizia segreta (o nelle formazioni d’élite che,
come indicano gli esempi della Germania nazista e la storia del partito bolscevico, prima o poi
vengono incorporate nelle forze di polizia). Nessun gruppo o istituzione del paese è lasciato intatto,
non solo perché tutti sono costretti a “coordinarsi” col regime al potere e a sostenerlo – cosa che,
naturalmente, è di per sé già abbastanza grave – ma perché alla lunga non è letteralmente previsto che sopravvivano. I giocatori di scacchi che un bel giorno in Unione Sovietica scoprirono che
giocare a scacchi per amore degli scacchi non era più consentito costituiscono un buon esempio
in materia. Dello stesso tenore è l’affermazione di Himmler che spiegò alle SS che per un vero
nazista non vi era nulla – né compito né obiettivo – che avesse valore in sé.
Oltre all’identificazione tra regime totalitario e tirannia e alla confusione con altre forme moderne
di dittatura, e in particolare di dittatura del partito unico, resta un terzo modo per far apparire
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il totalitarismo più innocuo e meno originale o meno rilevante per i problemi politici moderni di
quanto effettivamente non sia: la spiegazione dei regimi totalitari in Germania o in Russia alla
luce di cause storiche, o di altro genere, significative solo per quello specifico paese. Contro questo
genere di argomentazione militano, ovviamente, i successi propagandistici davvero terrificanti
che entrambi i movimenti conseguirono al di fuori dei loro paesi d’origine, a dispetto della contropropaganda aggressiva e informata realizzata dalle fonti più rispettabili e rispettate. Nessuna
informazione sui campi di concentramento sovietici o sulle fabbriche della morte ad Auschwitz
riuscì a scoraggiare i numerosi fiancheggiatori che entrambi i regimi sapevano bene come attrarre.
Ma anche a prescindere da questo aspetto, vi è un argomento più serio contro questa spiegazione:
il fatto curioso che la Germania nazista e la Russia sovietica hanno avuto origine da circostanze
storiche, economiche, ideologiche e culturali per molti versi quasi diametralmente opposte, e
nondimeno giunsero a esiti strutturalmente identici. Spesso si sorvola su tale aspetto perché queste
strutture identiche si rivelano solo in regimi totalitari pienamente sviluppati. E questo stadio non
solo venne raggiunto dalla Germania e dalla Russia in momenti diversi, ma furono anche diversi i
tempi di occupazione e gli ambiti dell’attività politica e non politica assoggettati. A questa difficoltà
va aggiunta un’altra circostanza storica: la Russia sovietica imboccò la strada del totalitarismo solo
verso il 1930 e la Germania solo dopo il 1938. Fino a quel momento, entrambi i paesi, benché
presentassero già un gran numero di elementi totalitari, potevano essere ancora considerati delle
dittature del partito unico. La Russia divenne pienamente totalitaria solo dopo i processi di Mosca,
cioè, poco prima della guerra, e la Germania solo durante i primi anni della guerra. In particolare
la Germania nazista non ebbe neanche il tempo necessario per prendere pienamente coscienza
del suo potenziale maligno, che può essere comunque desunto studiando le minute delle riunioni
tenutesi nel quartier generale hitleriano e da altri documenti analoghi. Il quadro è ulteriormente
confuso dal fatto che pochissimi membri della gerarchia nazista erano pienamente a conoscenza
dei piani di Hitler e Bormann. La Russia sovietica, per parte sua, benché assai più evoluta come
regime totalitario, offre pochissimo materiale documentario, così che molte questioni rimangono
aperte, anche se ne sappiamo abbastanza per giungere a delle stime complessive e per trarre delle
conclusioni corrette.
Il totalitarismo, per come lo conosciamo nelle sue versioni bolscevica e nazista, si è sviluppato da
dittature del partito unico che, come altre tirannie, hanno usato il terrore come mezzo per generare
un deserto di isolamento e di assenza di prossimo. E, ciò nonostante, quando venne raggiunta la
proverbiale pace dei cimiteri, il totalitarismo non era ancora soddisfatto e trasformò subito e con
accresciuto vigore i suoi strumenti di terrore in una legge obiettiva del movimento. La paura, inoltre,
diviene insensata quando la selezione delle vittime non ha più alcun nesso con le azioni o i pensieri
individuali. La paura, benché sia senza dubbio il sentimento più diffuso nei paesi totalitari, non è
più un principio d’azione e non può più fungere da guida per degli atti specifici. La tirannia totalitaria non ha precedenti in quanto fonde le persone, le une nelle altre, nel deserto dell’isolamento
e dell’atomizzazione e pertanto immette un movimento gigantesco nella tranquillità cimiteriale.
Nessun principio guida dell’azione derivante dalla sfera dell’agire umano – come la virtù, l’onore,
la paura – è necessario o potrebbe essere usato per mettere in moto un corpo politico la cui essenza
è il movimento generato dal terrore. In sua vece il totalitarismo si affida a un nuovo principio che,
come tale, rende del tutto superflua l’azione umana in quanto espressione di libertà e sostituisce
il desiderio e la volontà stessi di agire con una brama e un bisogno di comprendere le leggi del
movimento secondo cui il terrore funziona. Gli esseri umani, trascinati o gettati nel processo naturale
o storico perché ne accelerino il movimento, possono diventare solo gli esecutori o le vittime della
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sua legge immanente. Secondo questa legge, essi possono essere, oggi, quelli che eliminano “le
razze e gli individui inadatti” o le “classi in via d’estinzione e i popoli in decadenza” e, domani,
quelli che, per le stesse ragioni, dovranno essere sacrificati. Invece di un principio d’azione, ciò di
cui ha bisogno il regime totalitario è dunque uno strumento per preparare gli individui altrettanto
bene sia al destino di esecutori sia a quello di vittime. Questa duplice preparazione, il sostituto di
un principio d’azione, non è altro che l’ideologia.
III
Le ideologie di per sé non sono totalitarie e il loro uso non è ristretto alla propaganda totalitaria così
come il terrore non è di per sé ristretto ai regimi totalitari. Come abbiamo dovuto imparare a nostro
discapito, non importa se l’ideologia in questione è insulsa e priva di ogni contenuto spirituale
autentico come il razzismo o se trabocca del meglio della nostra tradizione come il socialismo.
Solo nelle mani del nuovo tipo di governo totalitario le ideologie diventano effettivamente il motore
dell’azione politica, nel duplice senso che determinano le azioni politiche del leader e rendono tali
azioni sopportabili per la popolazione dominata. In virtù di ciò definisco le ideologie degli “ismi”
che pretendono di spiegare tutti i misteri della vita e del mondo. Il razzismo o l’antisemitismo
non sono quindi un’ideologia, ma solo un’opinione irresponsabile, finché si limitano a esaltare
gli ariani e a fomentare l’odio per gli ebrei; divengono un’ideologia solo quando pretendono di
spiegare l’intero corso storico come il frutto di una manovra oscura degli ebrei, o come il prodotto
di un’eterna lotta tra le razze, di una mescolanza tra le razze, o di chissà che altro. Analogamente,
il socialismo non è in senso stretto un’ideologia fintanto che teorizza la lotta di classe, inneggia
alla giustizia per i poveri e lotta per un miglioramento o una trasformazione rivoluzionaria della
società. Il socialismo, o il comunismo, diventano un’ideologia solo quando arrivano a sostenere
che tutta la storia è una lotta tra le classi, che il proletariato è destinato da leggi eterne a vincere
tale lotta, che a quel punto sorgerà una società senza classi e che lo stato, infine, si dissolverà. In
altre parole, le ideologie sono sistemi esplicativi della vita e del mondo che pretendono di spiegare
tutto, il passato e il futuro, prescindendo dall’esperienza reale.
Quest’ultimo punto è decisivo. Questa arrogante emancipazione dalla realtà e dall’esperienza, più di
ogni contenuto effettivo, prefigura il nesso tra ideologia e terrore. Tale nesso non si limita a rendere
il terrore una caratteristica onnipresente del dominio totalitario, nel senso che è diretto senza eccezione contro tutti i membri della popolazione a prescindere dalla loro colpevolezza o innocenza, ma
è anche la condizione stessa della sua permanenza. Essendo indipendente da una realtà esistente,
il pensiero ideologico considera l’universo dei fatti come qualcosa di artificiale e pertanto non
dispone più di alcun criterio per distinguere tra vero e falso. Se, per fare un esempio, come scrisse
Das schwarze Korps, non è vero che tutti gli ebrei sono mendicanti privi di documenti, cambieremo
i fatti in maniera tale da rendere quell’asserzione vera. Il fatto che un uomo di nome Trockij sia
stato il capo dell’Armata rossa cesserà di essere vero non appena i bolscevichi avranno il potere
per cambiare tutti i libri di storia, e così via. Il punto decisivo, qui, è che la coerenza ideologica,
che riduce tutto a un unico fattore dominante, è sempre in conflitto, da un lato, con l’incoerenza del
mondo e, dall’altro, con l’imprevedibilità dell’agire umano. Il terrore è indispensabile per rendere
il mondo coerente e mantenerlo tale, per dominare gli esseri umani fino a far loro perdere, insieme
alla spontaneità, l’imprevedibilità specificamente umana del pensiero e dell’azione.
Simili ideologie si erano già pienamente sviluppate prima ancora che comparisse la parola o venisse concepita la nozione stessa di totalitarismo. È chiaro che la loro stessa pretesa di totalità le
predestinava, in un certo senso, a svolgere un ruolo nell’evoluzione del totalitarismo. Meno chiaro
121
invece, in parte perché i loro assunti sono stati oggetto di sterili discussioni per secoli, come nel
caso del razzismo, e per decenni, come nel caso del socialismo, è cosa le ha trasformate in simili
principi supremi e motori d’azione. In verità, il solo nuovo espediente inventato o scoperto dai
leader totalitari nell’uso di queste ideologie è stata la trasformazione di una prospettiva generale in
un singolo principio che regola tutte le attività. Né Stalin né Hitler hanno aggiunto una sola nuova
idea, rispettivamente, al socialismo o al razzismo; eppure solo nelle loro mani queste ideologie
sono diventate a tutti gli effetti mortalmente pericolose.
È a questo punto che il problema del ruolo delle ideologie nel totalitarismo acquista tutto il suo
significato. Ciò che vi è di nuovo nella propaganda ideologica dei movimenti totalitari, anche prima
della loro ascesa al potere, è la trasformazione immediata del contenuto ideologico in realtà vivente
attraverso gli strumenti dell’organizzazione totalitaria. Il movimento nazista, lungi dal raggruppare
delle persone che per i più disparati motivi avevano maturate delle convinzioni razziste, le organizzò secondo dei criteri razziali oggettivi, così che l’ideologia razzista non rappresentasse più una
questione di mere opinioni, argomenti e nemmeno di fanatismo, ma costituisse la realtà effettiva e
vivente, anzitutto del movimento nazista, e in seguito della Germania nazista, dove la quantità di
cibo disponibile, la scelta della professione e la donna da sposare dipendevano dalla fisionomia
e dalla discendenza razziale. In effetti i nazisti, a differenza di altri razzisti, non credevano tanto
nella verità del razzismo quanto desideravano trasformare il mondo in una realtà razzista.
Un’analoga trasformazione del ruolo dell’ideologia si verificò quando Stalin rimpiazzò la dittatura
rivoluzionaria socialista nell’Unione Sovietica con un regime integralmente totalitario. L’ideologia
socialista condivideva con tutti gli altri “ismi” la convinzione di possedere la soluzione a tutti gli
enigmi dell’universo e il miglior sistema per la politica dell’umanità. Il fatto che dopo la Rivoluzione
d’ottobre nella Russia sovietica affiorassero nuove classi rappresentò ovviamente un duro colpo
per la teoria socialista, secondo la quale all’insurrezione violenta avrebbe dovuto fare seguito una
graduale scomparsa di tutte le strutture di classe. Allorché intraprese le sue purghe sanguinose
per edificare la società senza classi, attraverso lo sterminio metodico di tutti gli strati sociali che
potessero evolversi in classi, Stalin realizzò, ancorché in una forma inattesa, la credenza ideologica
dei socialisti nella scomparsa delle classi stesse. Il risultato non cambia: la Russia sovietica è una
società senza classi proprio come la Germania nazista era una società razzialmente strutturata.
Quella che prima era solo un’opinione ideologica, diventa una realtà concretamente vissuta. Il
nesso fra il totalitarismo e tutti gli altri “ismi” consiste nel fatto che il totalitarismo può servirsi
di ciascuno di essi come principio organizzativo e cercare di cambiare l’intero tessuto della realtà
in consonanza coi suoi assunti.
I due ostacoli principali sulla strada di questa trasformazione sono, da un lato, l’imprevedibilità, la
fondamentale inaffidabilità dell’uomo, e, dall’altro, la curiosa incoerenza del mondo umano. Proprio
perché le ideologie, come tali, consistono più di opinioni che di verità, la libertà umana di cambiare
idea è un pericolo grande e rilevante. Di conseguenza, se l’obiettivo è quello di far rientrare l’uomo
nel mondo fittizio e ideologicamente orchestrato del totalitarismo, non è più necessaria l’oppressione, ma il dominio totale e certo su di esso. Il dominio totale di per sé è del tutto indipendente
dal contenuto effettivo di ogni specifica ideologia; quale che sia l’ideologia che si predilige, che si
preferisca trasformare il mondo e l’uomo secondo i dogmi del razzismo o del socialismo o di ogni
altro possibile “ismo”, il dominio totale sarà sempre necessario. Ed è questa la ragione per cui
due sistemi così diversi l’uno dall’altro quanto a contenuti effettivi, origini e circostanze oggettive,
finirono per costruire delle macchine amministrative e di oppressione pressoché identiche.
Per il progetto totalitario di trasformazione del mondo secondo un’ideologia, il dominio totale sugli
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abitanti di un paese non è sufficiente. L’esistenza di un paese non totalitario, prima ancora della sua
ostilità, rappresenta una minaccia diretta alla consistenza della pretesa ideologica. Se è vero che il
sistema socialista o comunista dell’Unione Sovietica è superiore a tutti gli altri sistemi, ne consegue
allora che in nessun altro sistema può essere costruito nulla di così bello come una metropolitana.
Per un certo periodo di tempo, quindi, le scuole sovietiche hanno ripetuto ai loro alunni che al
mondo non vi era nessun’altra metropolitana oltre quella di Mosca. La Seconda guerra mondiale
pose fine a simili evidenti assurdità, ma solo per un breve periodo, poiché è la consistenza stessa
della pretesa ideologica a esigere che alla fine non sopravviva nessuna metropolitana fatta eccezione
per quella del regime totalitario. Allora le alternative si riducono a due: o vanno distrutte tutte le
altre metropolitane o i paesi in cui esse operano devono essere ricondotti sotto il dominio totalitario.
La pretesa a una conquista globale, insita nell’idea comunista della rivoluzione mondiale, come
peraltro nel concetto nazista di razza sovrana, non rappresenta una semplice minaccia causata
dalla brama di potere o da una folle sopravvalutazione delle proprie forze. Il vero problema è che
il mondo fittizio e capovolto di cui si nutre un regime totalitario non può sopravvivere a lungo se
l’intero mondo esterno non adotta un sistema analogo, consentendo così a tutta la realtà di diventare
una totalità coerente, non minacciata né dall’imprevedibilità soggettiva dell’uomo, né dalla qualità
contingente del mondo umano che lascia sempre una porta aperta al caso.
Non è chiaro, e la questione è peraltro assai dibattuta, se il leader totalitario stesso o i suoi diretti
sottoposti credano, insieme alla loro massa di accoliti e sudditi, negli assunti irrazionali delle
rispettive ideologie. Poiché i dogmi in questione sono così palesemente sciocchi e volgari, coloro
che tendono a rispondere affermativamente a tale questione sono anche propensi a negare le qualità
e le doti pressoché incontestabili di uomini come Stalin e Hitler. Viceversa, quanti sono inclini a
rispondere negativamente a tale questione, convinti che la manifesta doppiezza di entrambi costituisca una prova sufficiente del loro freddo e distaccato cinismo, sono anche propensi a negare la
curiosa imponderabilità della politica totalitaria, che viola in maniera così evidente tutte le regole
dell’autointeresse e del senso comune. In un mondo abituato a calcolare azioni e reazioni sulla
base di tali metri, una simile imponderabilità equivale a un pericolo pubblico.
Ma perché la brama di potere, che sin dagli albori della storia è stata considerata il peccato politico
e sociale per eccellenza, dovrebbe improvvisamente trascendere tutte le limitazioni precedentemente
note dell’autointeresse e dell’utilità e puntare non solo a dominare gli uomini come sono, ma anche
a cambiare la loro stessa natura; non solo a uccidere gli innocenti e gli inermi, ma a farlo anche
quando un simile omicidio rappresenta un ostacolo, più che un vantaggio, in vista dell’accumulazione del potere? Se ci rifiutiamo di cadere nella trappola delle formule e volgiamo invece lo
sguardo ai fenomeni reali, risulta evidente che il dominio totale, com’è attuato quotidianamente dai
regimi totalitari, è separato da tutte le altre forme di dominio da un abisso che nessuna spiegazione
psicologica del tipo della “brama di potere” potrà mai colmare.
Questa curiosa tendenza a trascurare l’ovvio interesse personale nei regimi totalitari è stata spesso
interpretata come il segno di una sorta di malinteso idealismo. E questa impressione non è del tutto
errata, se per idealismo intendiamo solo l’assenza di egoismo e di buon senso. L’abnegazione dei
leader totalitari è esemplificata forse al meglio dal fatto curioso che nessuno di loro si è dimostrato
mai particolarmente ansioso di scegliere un successore tra i propri figli. (È un’esperienza notevole
per gli studiosi delle tirannie incappare in una sua variante non afflitta dalla preoccupazione
classica dell’usurpatore.)
Per i regimi totalitari il dominio totale non è mai un fine in sé. Da questo punto di vista il leader
totalitario è più “illuminato” e più vicino alle aspirazioni e ai desideri delle masse che lo sostengono
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– spesso anche di fronte a un evidente disastro – dei suoi predecessori, i politici ossessionati dal
potere che non agivano più in vista dell’interesse nazionale, ma conducevano un gioco di potere fine
a se stesso. Il dominio totale, a dispetto del suo spaventoso attacco all’esistenza fisica degli individui
così come alla natura stessa dell’uomo, può condurre il gioco apparentemente antico della tirannia
con un’efficienza omicida senza precedenti perché lo utilizza solo come mezzo per un fine.
Penso che Hitler credesse sinceramente alla lotta tra le razze e alla superiorità razziale (sebbene
non necessariamente alla superiorità razziale del popolo tedesco), così come Stalin crede sinceramente alla lotta di classe e alla società senza classi (sebbene non necessariamente alla rivoluzione
mondiale). Nondimeno, alla luce delle qualità specifiche dei regimi totalitari, che potrebbero essere
stabilite in consonanza con una qualsiasi opinione arbitraria dilatata in una Weltanschauung, sarebbe perfettamente possibile per i leader totalitari o per i loro collaboratori più stretti non credere
al contenuto effettivo delle loro arringhe; talora pare quasi che la nuova generazione, cresciuta
all’ombra di un regime totalitario, in un certo senso abbia persino perso la capacità di distinguere tra
il credere e il non credere. Se le cose stessero davvero così, l’obiettivo dei regimi totalitari sarebbe
stato già in larga misura raggiunto: l’abolizione, cioè, delle convinzioni in quanto sostegno troppo
inaffidabile del sistema e la dimostrazione che questo sistema, a differenza di tutti gli altri, ha reso
l’uomo, in quanto essere capace di azioni e pensieri spontanei, completamente superfluo.
Alla base di queste credenze o non credenze, di queste convinzioni “idealistiche” o calcoli cinici, vi è un’altra credenza, di una qualità completamente diversa che, in effetti, accomuna tutti
i leader totalitari, come pure le persone che pensano e agiscono secondo schemi totalitari, che
ne siano consapevoli o meno. Mi riferisco alla credenza nell’onnipotenza dell’uomo e allo stesso
tempo nella superfluità degli uomini; la convinzione, cioè, che tutto sia permesso e, cosa ancora
più terribile, che tutto sia possibile. Stando così le cose, la questione dell’originaria verità o falsità
delle ideologie perde di importanza. Se la filosofia occidentale ha sempre sostenuto che la realtà
è verità – in quanto ciò è ovviamente il fondamento ontologico della adaequatio rei et intellectus
– il totalitarismo ne ha tratto la conseguenza che noi possiamo fabbricare la verità nella misura
in cui fabbrichiamo la realtà; che non dobbiamo attendere fino a quando la realtà si rivelerà e ci
mostrerà il suo vero volto, ma che possiamo creare una realtà le cui strutture ci saranno note sin
dal principio poiché essa è integralmente un nostro prodotto. In altre parole, alla base di ogni
trasformazione totalitaria dell’ideologia vi è in realtà la convinzione che essa diventerà vera, che
lo sia o meno. In virtù di questa relazione totalitaria con la realtà, il concetto stesso di verità ha
perso di senso. Le bugie dei movimenti totalitari, inventate al momento, ma anche le falsificazioni
operate dai regimi totalitari, sono secondarie rispetto a questo atteggiamento fondamentale che
esclude la distinzione stessa tra verità e falsità.
È in vista di questo fine, cioè per la consistenza di un ordine mondiale menzognero, più che per
brama di potere o per qualsiasi altra debolezza umanamente comprensibile, che il totalitarismo
esige il dominio totale e una supremazia globale ed è pronto a commettere crimini che non hanno
precedenti nella lunga e scellerata storia dell’umanità.
L’operazione compiuta da Hitler e Stalin nei confronti delle rispettive ideologie è stata semplicemente di prenderle terribilmente sul serio, ovvero di portare le loro pretenziose implicazioni a quelle
estreme conseguenze logiche per cui appaiono, a uno sguardo normale, assurde e irragionevoli. Se si
crede sinceramente che la borghesia non abbia semplicemente degli interessi contrari a quelli degli
operai, ma sia una classe destinata a scomparire, evidentemente è lecito uccidere tutti i borghesi.
Se si prende alla lettera la tesi che gli ebrei, lungi dall’essere semplicemente i nemici degli altri
124
popoli, sono in effetti dei parassiti, creati come tali dalla natura e perciò destinati a patire lo stesso
fato delle cimici e dei pidocchi, si sono poste le condizioni ideali per un loro sterminio. Questa
logica stringente, in quanto movente dell’azione, permea l’intera struttura dei movimenti e dei
governi totalitari. L’argomento più persuasivo, assai amato sia da Hitler sia da Stalin, consiste nel
ribadire che chiunque dica A deve necessariamente dire anche B e C e arrivare, alla fine, all’ultima
lettera dell’alfabeto. Tutto ciò che si frappone sulla strada di questo tipo di ragionamento – realtà,
esperienza, e l’intreccio quotidiano delle relazioni e dell’interdipendenza umana – va tolto di mezzo.
E in casi estremi questo destino tocca persino alla prudenza del comune interesse personale, come
ha ripetutamente dimostrato il modo in cui Hitler ha condotto la guerra. La mera logica, che parte
da una singola premessa comunemente accettata – ciò che Hitler era solito definire il suo dono
supremo del “ragionamento glaciale” – resta sempre il principio guida ultimo.
Possiamo dire, quindi, che nei governi totalitari l’ideologia sostituisce il principio d’azione di cui
parla Montesquieu. Sebbene finora abbiamo conosciuto solo due tipi di totalitarismo, entrambi si
basavano su una credenza ideologica che aveva già dimostrato la sua presa sulle grandi masse
ed entrambe le ideologie erano perciò ritenute assolutamente adatte per spingere all’azione, per
motivare le masse. Eppure, se esaminiamo con più attenzione ciò che sta effettivamente accadendo
o è accaduto a queste masse e ai singoli individui nel corso degli ultimi trent’anni, noteremo la
sconcertante facilità con cui molti sono passati da una camicia rossa a una nera, e quando questa
non andava, di nuovo a una rossa, solo per rimettersi quella nera poco dopo. Questi cambiamenti
– che sono molto più numerosi di quanto in genere siamo disposti ad ammettere nel nostro desiderio e speranza di vedere le persone, dopo una cattiva esperienza, rinunciare una volta per tutte
a indossare camicie di qualsivoglia colore – sembrano indicare che non sono neanche le ideologie,
con i loro contenuti manifesti, a spingere le persone all’azione, ma la logicità del loro ragionamento in quanto tale, quasi svincolata da ogni contenuto. Ciò significa che il passo successivo,
dopo che le ideologie hanno insegnato agli individui a emanciparsi dall’esperienza reale e dalla
forza della realtà attirandoli in un paradiso immaginario in cui tutto è noto a priori, li affrancherà,
se non lo ha già fatto, dal contenuto di questo stesso paradiso, e non per renderli più saggi, ma
per trascinarli ancora di più nel deserto delle pure conclusioni e deduzioni logiche astratte. Non
è più la razza o l’edificazione di una società fondata sulla razza, né la classe o l’edificazione di
una società senza classi, l’“ideale” ispiratore, ma la rete omicida delle mere operazioni logiche in
cui si precipita non appena si accetta una delle due idee. È come se tutti questi voltagabbana si
consolassero pensando che, quale che sia il contenuto che accettano – quale che sia il genere di
legge eterna a cui decidono di credere –, una volta che hanno fatto questo passo iniziale, niente
potrà più accader loro, e saranno salvi.
Ma salvi da che cosa? Forse possiamo rispondere a questa domanda se ritorniamo ancora una volta
sulla natura del totalitarismo, cioè sulla sua essenza terroristica e sul suo principio di stringente
logicità che insieme ne costituiscono la natura. Si sente spesso dire, ed è assolutamente vero,
che l’aspetto più orribile del terrore è che ha il potere di legare insieme individui completamente
isolati e così facendo di isolarli ancora di più. Hitler, come Stalin, può avere appreso dagli esempi
passati della tirannia che la maggiore minaccia al dominio totale proviene sempre da un gruppo
di persone tenuto insieme da un interesse comune. Solo degli individui isolati possono essere
dominati totalmente. Hitler riuscì a costruire la sua organizzazione facendola poggiare sulla salda
base di una società già atomizzata che egli contribuì deliberatamente ad atomizzare ancora di più.
Per ottenere gli stessi risultati, Stalin ebbe bisogno del sanguinoso sterminio dei contadini, dello
sradicamento degli operai, delle ripetute purghe della macchina amministrativa e della burocrazia
125
di partito. Per “società atomizzata” e “individui isolati” intendiamo qui una condizione in cui gli
individui vivono insieme non avendo nulla in comune, senza condividere una porzione visibile e
tangibile del mondo. Proprio come gli inquilini di un condominio formano un gruppo perché condividono tutti il medesimo particolare edificio, così noi diventiamo un gruppo sociale, una società,
un popolo, una nazione, ecc., in forza delle istituzioni politiche e legali che forniscono al nostro
generale vivere insieme tutti i normali canali di comunicazione. E proprio come questi inquilini
verranno isolati gli uni dagli altri una volta che l’edificio, per una ragione o per l’altra, verrà loro
sottratto, così il crollo delle nostre istituzioni – lo spaesamento politico e fisico sempre crescente
e lo sradicamento spirituale e sociale – è il gigantesco destino di massa della nostra epoca che ci
accomuna tutti, benché a livelli molto differenti d’intensità e miseria.
Il terrore, nel senso che qui intendiamo, non è tanto qualcosa di cui gli individui possono avere
paura, ma un modo di vita che dà per scontata l’assoluta impotenza dell’individuo e gli procura la
vittoria o la morte, una camera o la fine in un campo di concentramento, senza alcun legame con
le sue azioni o i suoi meriti. Il terrore si conforma perfettamente alla situazione di queste masse
in continua crescita, a prescindere dal fatto se esse siano il prodotto di società in decadenza o di
politiche programmate.
Ma il terrore di per sé non basta – si adegua ma non motiva. Se osserviamo da questa prospettiva
la curiosa logicità delle ideologie dei movimenti totalitari, comprendiamo meglio perché questa
combinazione possa essere così immensamente funzionante. Se fosse vero che esistono delle leggi
eterne che si ergono supreme sopra tutti gli affari umani e che esigono da ciascun essere umano
l’obbedienza più totale, la libertà sarebbe allora solo una farsa, una trappola che ci fa deviare
dalla retta via; lo spaesamento sarebbe allora solo una fantasia, un frutto dell’immaginazione che
si potrebbe curare scegliendo di conformarsi a una legge universale riconoscibile. E, infine – last
but not least –, per comprendere queste leggi e modellare l’umanità in modo tale che si conformi a
esse in tutte le mutevoli circostanze, non ci sarebbe bisogno dell’insieme delle menti umane, ma di
un solo uomo. Basterebbe la “conoscenza” di un singolo individuo, mentre la pluralità delle doti,
delle intuizioni o delle iniziative umane sarebbe semplicemente superflua. Il contatto umano non
avrebbe importanza, a contare sarebbe solo la conservazione di una funzionalità perfetta all’interno
della cornice stabilita da quell’unico individuo iniziato alla “sapienza” della legge.
È la mera logicità ad attrarre gli esseri umani isolati, perché l’uomo – nella solitudine completa,
senza alcun contatto con i suoi simili e quindi senza alcuna reale possibilità di fare esperienza – non
ha nient’altro su cui fare affidamento tranne le regole astratte del ragionamento. Lo stretto legame
esistente tra la logica e l’isolamento venne sottolineato da Lutero in una interpretazione non molto
nota del passo biblico in cui si afferma che Dio creò l’Uomo, maschio e femmina, perché «non è
bene che l’uomo sia solo». Lutero dice: «Un uomo solo deduce sempre una cosa dall’altra e pensa
tutto per il peggio» (Warum die Einsamkeit zu fliehen?, in Erbauliche Schriften).
La mera logicità, il ragionare senza rispetto per i fatti e l’esperienza, è il vero vizio della solitudine,
ma i vizi della solitudine nascono solo dalla disperazione dell’isolamento. Ebbene, in un mondo in
cui i contatti umani sono stati spezzati – per via del crollo della nostra dimora comune o per la crescente espansione della mera funzionalità, che gradualmente divora la sostanza, il nucleo reale delle
relazioni umane, o per via degli sviluppi catastrofici delle rivoluzioni che a loro volta scaturirono
da precedenti crolli – l’isolamento cessa di essere un problema psicologico che va affrontato con
termini tanto belli quanto privi di significato come “introverso” o “estroverso”. L’isolamento, come
i suoi correlati, lo spaesamento e lo sradicamento, è, da un punto di vista umano, la vera piaga del
nostro tempo. Senza dubbio, è ancora possibile vedere persone – benché diminuiscano di giorno
126
in giorno – che, per sfuggire insieme alla maledizione di diventare inumane in una società in cui
tutti sembrano essere superflui e sono ritenuti tali dai loro simili, si aggrappano l’una all’altra come
se fossero sospese a mezz’aria, senza l’ausilio di quei canali di comunicazione permanenti che
solo un mondo abitato in comune può fornire. Ma queste prestazioni acrobatiche che cosa provano
contro la disperazione che cresce tutt’intorno a noi, e che noi finiamo per ignorare tutte le volte che
ci limitiamo a stigmatizzare o a definire stupide, malvagie o malinformate le persone che cadono
vittime della propaganda totalitaria? Queste persone non sono nulla del genere; si sono limitate a
fuggire dalla disperazione dell’isolamento per cadere nei vizi della solitudine.
La solitudine e l’isolamento sono due cose diverse. Nella solitudine non siamo mai soli, ma sempre
insieme a noi stessi. Nella solitudine siamo sempre due-in-uno; diventiamo un individuo intero, nella
ricchezza come nei limiti delle nostre caratteristiche particolari, grazie e solo grazie alla compagnia
degli altri. Per quanto concerne la nostra individualità, in quanto è una – immutabile e inconfondibile
– dipendiamo totalmente dagli altri. La solitudine, in cui godiamo della compagnia di noi stessi,
non ci obbliga a rinunciare al contatto con gli altri, né ci sottrae completamente alla compagnia
degli altri uomini; al contrario, ci prepara per certe forme straordinarie di rapporto umano, come
l’amicizia e l’amore, cioè per tutti i rapporti che trascendono i canali usuali della comunicazione
umana. Se siamo in grado di reggere alla solitudine, di sopportare la nostra compagnia, è molto
probabile che sapremo sopportare ed essere pronti per la compagnia degli altri. Chiunque non sia
in grado di tollerare gli altri, in genere non sarà capace di sopportare se stesso.
La grande grazia della compagnia è che redime il due-in-uno rendendolo un individuo. Come
individui abbiamo bisogno l’uno dell’altro e diventiamo soli se, in virtù di un evento fisico o politico, siamo privati della compagnia e dell’amicizia. L’isolamento si produce quando l’uomo non
trova una compagnia che possa salvarlo dalla natura duale della sua solitudine, o quando l’uomo
come individuo, che ha costantemente bisogno degli altri per la sua individualità, è abbandonato
o separato dagli altri. In quest’ultimo caso egli è completamente solo, abbandonato anche dalla
compagnia di se stesso.
Le grandi questioni metafisiche – la ricerca di Dio, della libertà e dell’immortalità (come in Kant) o
le domande sull’uomo e sul mondo, sull’essere e il nulla, la vita e la morte – sono sempre poste in
solitudine, quando l’individuo è solo con se stesso e perciò potenzialmente insieme a tutti. Il fatto
stesso che l’individuo, in quel momento, si distanzi dalla sua individualità gli consente di porsi degli
interrogativi senza tempo che trascendono gli interrogativi posti, in modi diversi, da ogni individuo.
Ma a nessuna di queste domande viene data risposta quando si è isolati, quando l’uomo in quanto
individuo è abbandonato anche dal suo stesso sé e si perde nel caos degli altri. La disperazione
dell’isolamento consiste nel suo vero e proprio mutismo, che non consente alcun dialogo.
La solitudine differisce dall’isolamento, ma può facilmente divenire isolamento e, ancora più facilmente, può essere confusa con esso. Non vi è nulla di più difficile e raro di una persona che, dalla
disperata condizione dell’isolamento, trovi la forza per rifugiarsi nella solitudine, nella compagnia
con se stessa, ripristinando in tal modo i legami spezzati che la uniscono agli altri. Questo è ciò
che accadde in un momento particolarmente felice a Nietzsche quando concluse il suo grande e
disperato poema dell’isolamento con le parole: «Mittags war, da wurde eins zu zwei, und Zarathustra
ging an mir vorbei» (Sils-Maria, Die fröhliche Wissenschaft).2
Il vero pericolo nella solitudine è di perdere il proprio sé, così che, invece di essere insieme a
tutti, si finisce letteralmente per essere abbandonati da tutti. Questo è stato tradizionalmente il
rischio professionale del filosofo, che, per via della sua ricerca della verità e del suo interesse per
le questioni che chiamiamo metafisiche (che sono in effetti le sole questioni che interessano tutti),
2 «Era mezzogiorno, quando
l’uno divenne
due, e Zarathustra mi passò
vicino». La
Arendt cita qui
a memoria (cfr.
Friedrich Nietzsche, La gaia
scienza, trad.
it. di F. Masini,
Adelphi, Milano
1984, p. 274).
127
ha bisogno della solitudine, cioè di restare solo col proprio sé e quindi con tutti, come una sorta di
condizione lavorativa. In quanto pericolo insito nella solitudine, l’isolamento è pertanto un rischio
professionale dei filosofi e, per inciso, sembra essere uno dei motivi per cui non conviene affidare
ai filosofi la politica o una filosofia politica. Infatti, non solo essi hanno un interesse supremo che
raramente confessano – e cioè essere lasciati da soli, avere un proprio spazio di solitudine garantito e preservato da tutti i possibili motivi di turbamento, come quello legato all’adempimento dei
propri doveri di cittadino – ma questo interesse li ha ovviamente spinti ad appoggiare le tirannidi,
dove ai cittadini non è richiesta alcuna azione. La familiarità con la solitudine ha loro assicurato
una straordinaria penetrazione di tutte quelle relazioni che non possono essere realizzate senza
questa condizione di ritiro in se stessi, ma li ha spinti a dimenticare le relazioni forse ancora più
originarie tra gli uomini e lo spazio che esse costituiscono, e che scaturiscono semplicemente dalla
realtà della pluralità umana.
Dando inizio a queste riflessioni abbiamo sostenuto che comprendere l’essenza o la natura dei
fenomeni politici che determinano nel complesso la struttura profonda di intere epoche ci appagherà solo se riusciremo ad analizzarli come indici del pericolo insito nelle tendenze generali che
interessano e da ultimo possono minacciare tutte le società – non solo quei paesi in cui hanno già
prevalso o sono sul punto di prevalere. Il pericolo che il totalitarismo svela sotto i nostri occhi – e
questo pericolo, per definizione, non sarà scongiurato semplicemente dalla sconfitta dei governi
totalitari – nasce dallo sradicamento e dallo spaesamento e potrebbe essere definito il pericolo
dell’isolamento e della superfluità. Sia l’isolamento che la superfluità sono, ovviamente, sintomi
della società di massa, ma il loro significato autentico non si esaurisce con essa. La disumanizzazione è insita in entrambi e, sebbene raggiunga le sue conseguenze più orribili nei campi di
concentramento, esiste prima della loro costruzione. Come ho cercato di mostrare con la citazione
dalla Bibbia e la sua interpretazione da parte di Lutero, l’isolamento, per come lo conosciamo in
una società atomizzata, è in effetti contrario ai requisiti fondamentali della condizione umana.
Anche solo l’esperienza del mondo materiale e sensoriale dipende, in ultima analisi, dal fatto che
non un singolo uomo, ma gli uomini al plurale abitano la terra. [...]
Fondazione
Consiglio di amministrazione
Presidente
Graziano Delrio
Vice Presidente Vicario
Giuseppe Gherpelli
Giorgio Allari
Enrico Baraldi
Maria Brini
Annusca Campani
Elena Montecchi
Paola Silvi
Revisori dei conti
Carlo Reverberi presidente
Gianni Boni
Fabio Mazzali
Direttore artistico
Daniele Abbado
Consulente musicale
Cesare Mazzonis
Fondazione
Segreteria artistica e organizzativa
Costanza Casula
Lorella Govi
Annalisa Ferrarini
Segretario generale
Daniela Spallanzani
Amministrazione
Paola Azzimondi
Sandra Ferrarini
Maurizio Ghirri
Wilma Meglioli
Elisabetta Miselli
Personale
G. Paolo Fontana capo settore
Luisa Simonazzi
Copia e protocollo
Sabrina Burlamacchi
Federica Mantovani
Maria Carla Sassi
Danza
Giovanni Ottolini responsabile Danza e RED
Marina Basso
Archivio Biblioteca Editoria
Susi Davoli capo settore
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Stampa, comunicazione e promozione
Mario Vighi capo ufficio stampa
Paola Bagni
Veronica Carobbi
Roberto Fabbi
Lorenzo Parmiggiani
Francesca Severini
Biglietteria
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Ilaria Brillo
Luca Cagossi Usai
Concorso “Premio Paolo Borciani”
Mario Brunello direttore artistico
Guido A. Borciani
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Federico Bianchi
Mauro Farina
Brunella Spaggiari
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Gianluca Antolini cabinista
Marino Borghi
Luca Cattini fonico
Ousmane Diawara
Fabio Festinese
Guido Prampolini
Roberto Predieri
Paolo Vinattieri
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Maurizio Bellezza
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Massimo Foroni
Gianluca Foscato
Manuela Goidanich attrezzista
Renzo Grasselli
Gabriele Lazzaro
Alan Monney
Federica Parolini attrezzista
Luca Prandini
Andrea Testa
Sartoria
Monica Salsi
Elisa Davoli
Nicoletta Di Gaetano
Nuvia Valestri
Elisabetta Zinelli
Servizi generali
Maria Grazia Conforte
Cristina Gabbi
Mariella Gerace
Giuseppina Grillo
Lorena Incerti
Claudio Murgia
Sergio Petretich
Patrizia Zanon
Libri all’opera
Le pubblicazioni delle Edizioni del Teatro Municipale Valli
The Rake’s Progress di Igor Stravinskij, a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Municipale Valli, Reggio
Emilia, Edizioni del Teatro Municipale Valli, 1999, pp. 120 (contiene: libretto bilingue inglese-italiano; saggio e descrizione
della struttura dell’opera di Raffaele Pozzi).
Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Valli, Reggio Emilia,
Edizioni del Teatro Municipale Valli, 1999, pp. 113 (contiene: libretto; articoli e saggi di Giorgio Strehler, Maria Grazia Gregori,
Giovanna Gronda, Frits Noske). ESAURITO
Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Valli, edizione espressamente realizzata per il Teatro Comunale di Modena, 1999. ESAURITO
Werther di Jules Massenet, a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia, Edizioni del
Teatro Municipale Valli, 1999, pp. 100 (contiene: libretto bilingue francese italiano; articoli e saggi di Marco Beghelli, Giorgio
Cusatelli, Umberto Bonafini).
Andrea Chénier di Umberto Giordano, a cura dell’Ufficio Stampa del Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia,
Edizioni del Teatro Municipale Valli, 1999, pp. 98 (contiene: libretto; saggi di Marcello Conati, Guido Salvetti, Ugo Bedeschi.
Falstaff di Giuseppe Verdi, a cura di Roberto Fabbi e Mario Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale
Valli, 2000, pp. 106 (contiene: libretto; saggio di Angelo Foletto; testimonianze di Hanslick, Bonaventura, Monaldi, Celli, Mila,
De Van, Mula; estratti dal carteggio Verdi-Boito).
Otello di Giuseppe Verdi, a cura di Roberto Fabbi e Mario Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale
Valli, 2000, pp. 100 (contiene: libretto; saggio di Frits Noske; estratti dal carteggio Verdi-Boito; servizio fotografico di Stefano
Camellini).
Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2000,
pp. 72 (contiene: libretto; articoli e saggi di Donald Sulzen, Harald Braun, Charles Osborne; foto di Alda Tacca). ESAURITO
Der fliegende Holländer di Richard Wagner, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2001, pp. 83 (contiene: libretto bilingue; articoli e saggi di Carl Dahlhaus, Alberto Mari e Luisa Rubini; estratti da scritti
di Wagner e Friedrich Nietzsche).
L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, a cura di Roberto Fabbi e Mario Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Municipale Valli, 2001, pp. 72 (contiene: libretto; articoli e saggi di Rubens Tedeschi, Giorgio Pestelli, Francesco Bellotto).
Il trovatore di Giuseppe Verdi, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale Valli,
2001, pp. 94 (contiene: libretto; articoli e saggi di Alberto Arbasino, Pierluigi Petrobelli, Sergio Cofferati, Ugo Bedeschi).
Tout Rossini, gli atti unici di Gioachino Rossini, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del
Teatro Municipale Valli, 2001, pp. 140 (contiene: cinque libretti; saggi di Alessandro Baricco, Piero Mioli; diverse ricette del
Maestro).
Luciano Pavarotti. 40 anni di canto da Reggio al mondo, vol. rilegato + programma, a cura
dell’Ufficio stampa del Teatro Valli, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2001, pp. 90 (contiene: testi; articoli di Umberto
Bonafini, Giorgio Gualerzi, Francesco Sanvitale). ESAURITO
Maria Stuarda di Gaetano Donizetti, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale
Valli, 2002, pp. 82 (contiene: saggi di Luca Zoppelli, Paolo Cecchi; estratti da La reina di Scozia di Federico Della Valle;
Sonetto 94 di Shakespeare; fumetto di Casali e Michele Petrucci).
L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, a cura di Roberto Fabbi e Mario Vighi, Reggio
Emilia, Edizioni del Teatro Municipale Valli, 2002, pp. 113 (contiene: libretto; saggi di Claudio Gallico, Francesco Degrada; un
fumetto di Matteo Casali e Grazia Lobaccaro).
Il processo di Alberto Colla (prima assoluta), a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli,
2002, pp. 132 (contiene: libretto; note del Compositore; saggi di Quirino Principe, Giovanni Guanti; un fumetto di Casali e
Giuseppe Camuncoli; citazioni e disegni di Kafka).
Manon Lescaut di Giacomo Puccini, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2002,
pp. 123 (contiene: libretto; saggi di Jürgen Maehder, Ugo Bedeschi, Umberto Bonafini; estratti dal romanzo Manon Lescaut di
Prévost; fumetto di Casali e Werther Dell’Edera).
Tancredi di Gioachino Rossini, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2003, pp. 106
(contiene: libretto; saggi di Philip Gossett, Marco Beghelli; estratti da Le Rossiniane di Giuseppe Carpani; fumetto di Matteo
Casali e Michele Petrucci).
L’Olimpiade di Giovanni Battista Pergolesi, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2003, pp. 106 (contiene: libretto; un saggio di Francesco Degrada; la Lettera I su Metastasio di Stendhal; fumetto di
Giuseppe Zironi e Yoshiko Kubota).
Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, a cura di Fabbi e Viaghi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2003, pp. 112 (contiene: libretto; saggi di Paolo Cecchi, Gianandrea Gavazzeni, Ugo Bedeschi; estratti da romanzi e scritti
di James Ellroy, Augusto Illuminati, Jim Garrison; fumetto di Giuseppe Zironi e Antonio Pepe).
Mahler Chamber Orchestra. Claudio Abbado. Anna Larrson. Concerto con musiche di
Mahler, Beethoven, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2003, pp. 82 (contiene: testi; saggi di Arrigo
Quattrocchi, Lidia Bramani; un racconto di Achille Giovanni Cagna). ESAURITO
Les pêcheurs de perles di Georges Bizet, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli,
2003, pp. 120 (contiene: libretto; un saggio di Marco Beghelli; estratti da Angelo Arioli, Le Isole Mirabili. Periplo arabo
medievale; fumetto di Matteo Casali e Giuseppe Camuncoli).
The Rape of Lucretia di Benjamin Britten, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2004, pp. 122 (contiene: libretto bilingue; prefazione all’opera di Benjamin Britten; un saggio di Lidia Bramani; otto
illustrazioni di Nicola Carrù).
Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2004, pp. 154 (contiene: libretto; un saggio di Diego Bertocchi).
Orlando di Georg Friedrich Händel, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2004,
pp. 94 (contiene: libretto; un saggio di Lorenzo Bianconi; estratti dal Furioso di Ludovico Ariosto).
Le comte Ory di Gioachino Rossini, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2004,
pp. 108 (contiene: libretto; due saggi di Mario Marica; la ballata popolare Le comte Ory et les nonnes de Formoutiers).
Gustav Mahler Jugendorchester. Claudio Abbado. Nona Sinfonia di Mahler. A cura di Fabbi e
Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2004, pp. 55 (contiene: saggi di Peter Franklin, Arrigo Quattrocchi; antologia di
scritti di Claudio Abbado, Theodor W. Adorno, Alban Berg, Pierre Boulez, Luigi Rognoni, Arnold Schönberg, Ulrich Schreiber,
Bruno Walter). ESAURITO
Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni
del Teatro Valli, 2005, pp. 96 (contiene: libretto; saggi di Franco Bezza, Claudio Gallico; estratto dall’Odissea).
Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Kurt Weill e Bertolt Brecht, a cura di Fabbi e
Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 207, tavole a colori (contiene: libretto bilingue; saggio di Hartmut Kahnt;
contributi di Abbado, Adorno, Benjamin, Berio, Bossini, Brecht, Fabbri, Ferrari, Pestalozza, Sanguineti, Weill). ESAURITO
Peter Grimes di Benjamin Britten, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 135
(contiene: libretto; scritti di Benjamin Britten, Peter Pears; saggi di Michele Girardi, Gilles Couderc, Edward Lockspeiser).
Die Zaubeflöte di Wolfgang Amadeus Mozart, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2005, pp. 207 (contiene: libretto bilingue; saggi di Lidia Bramani, Giorgio Agamben; contributi di Luigi Pestalozza, Pier
Cesare Bori, Salvatore Natoli, Adriana Cavarero, Francesco Micheli, Fulvio Papi, Marco Beghelli). ESAURITO
Orchestra Mozart. Claudio Abbado. Giuliano Carmignola, Reggio Emilia, Edizioni del
Teatro Valli, 2005, pp. 55 (contiene: saggio di Marco Beghelli; contributi di Francesca Arati, Giulia Bassi).
La traviata di Giuseppe Verdi, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp.
90 (contiene: libretto; note di regia di Irina Brook; saggi di Roberto Verti, Gilles de Van, Catherine Clément, Rodolfo Celletti,
Bruno Barilli).
West Side Story di Leonard Bernstein, 2 voll. a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro
Valli, 2005, pp. 68 (libretto) e pp. 49 (saggi).
The Flood di Stravinskij / L’Enfant et les Sortilèges di Ravel, a cura di Fabbi e Vighi, Reggio
Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 81.
Le nozze di Figaro / Così fan tutte / Don Giovanni di Mozart (“Le opere italiane di Lorenzo
Da Ponte”), 2 voll. a cura di Fabbi e Vighi, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 189 (libretti) e pp. 88 (saggi).
ESAURITO
Filarmonica della Scala. Riccardo Chailly (contiene: un saggio di Oreste Bossini), Reggio Emilia,
Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 55.
Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck, a cura di Fabbi e Vighi (contiene libretto, note di regia
di Graham Vick, saggi di Fabbri, Kerényi, Hilman), Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2005, pp. 80.
Boris Godunov di Modest Musorgskij, a cura di Fabbi e Vighi (contiene libretto, note di regia di Graham
Vick, saggi di Foletto, Bedeschi, contributi di Komarova, Musorgskij, Nori, Raffaini), Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli,
2007, pp. 80.
Progetto Miracolo a Milano (prima assoluta) Totò il buonooo di Daniele Abbado. Miracolo a Milano di Giorgio Battistelli. Petrolio: Ken Saro-Wiwa poeta e martire di Boris Stetka, a cura di Fabbi e Vighi (contiene copioni e libretti,
interviste a Daniele Abbado e Giorgio Battistelli, contributi di Yorgure, De Curtis, Nori, Gianolio), Reggio Emilia, Edizioni del
Teatro Valli, 2007, pp. 105. ESAURITO
Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, a cura di Fabbi e Vighi (contiene libretto, note di regia di Giorgio
Gallione, saggi di Ruffin, Petrobelli, Zoppelli documenti a cura di Conati), Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2007, pp.
116.
L’Alidoro di Leonardo Leo, a cura di Fabbi e Vighi (contiene libretto, note di regia di Arturo Cirillo, un saggio di
Roberto Scoccimarro, un racconto di Giuseppe Montesano), Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Valli, 2008, pp. 125.
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Fondazione
Soci fondatori
Soci Fondatori Aderenti
Sostenitori
Partner
Amici del Teatro
Paola Benedetti Spaggiari, Enea Bergianti, Franco Boni, Gabriella Catellani Lusetti, Achille Corradini,
Donata Davoli Barbieri, Ennio Ferrarini, Anna Fontana Boni, Grande Ufficiale Comm. Ilario Amhos Pagani,
Comm. Donatella Tringale Moscato Grazia Maria di Mascalucia Pagani, Paola Scaltriti,
Mauro Severi, Corrado Spaggiari, Gigliola Zecchi Balsamo
Cittadini del Teatro
Gianni Borghi, Vanna Lisa Coli, Andrea Corradini, Milva Fornaciari, Silvia Grandi, Claudio Iemmi, Ramona Perrone, Viviana Sassi, Alberto Vaccari
Le attività di spettacolo e tutte le iniziative per i giovani e le scuole sono realizzate
con il contributo e la collaborazione della Fondazione Manodori
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Questa pubblicazione, sprovvista del talloncino
a fianco, è da considerarsi copia omaggio.
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