http://revolart.it/daverio-contro-tutti-noi-siam-lavoratori-lartecome-azione-politica-ed-estetica/ Daverio contro tutti – “Noi siam lavoratori. L’arte come azione politica ed estetica” October 16th, 2013 | Published in Eventi, Top, Vetrina Testo e Intervista di - GIUSEPPE ORIGO e DAVIDE PARLATO Foto di - MARTINA MARMO La sede dell’ Expo Piemonte di Valenza (città aurea dell’ Alessandrino) potrebbe dai più esser definita come un ecomostro: più simile a un’ ambasciata partorita dalla mente di qualche “visionario” architetto nazionalista che a uno qualunque dei mille casali che popolano la campagna mandrogna. Il bizzarro edificio, che sorge sulle macerie della locale Casa del Popolo, ospita in questo periodo, in onore probabilmente delle sue fondamenta, la Collezione d’arte Contemporanea Valentia annoverante diverse opere della seconda metà del 900 collegate dal comune tema della propaganda rossa degli anni di fuoco del PCI nostrano e curata dalla Fondazione Longo. “In un’ Italia così bella ma vilipesa è possibile realizzare manifestazioni di alto profilo culturale grazie agli appassionati che sopravvivono e, l’impegno della mostra, è quello di promuovere i contenuti morali espressi nelle opere” introduce agile la curatrice Lia Lenti. La parola, insieme con la patata bollente di dover affrontare il tema spinoso “Noi siam lavoratori. L’arte come azione politica ed estetica”, in una sala punteggiata dagli onnipresenti politicanti inter- bandiera alla ricerca di mediaticità, viene ceduta all’ ospitissimo della giornata: il critico, ormai Divo, Philippe Daverio. Lo scenario certo non è facile: la platea è per lo più colorata del rosso sbiadito dei radical chic, avvinghiati a ideologie giurassiche e pronti al giudizio formattato e qui e la, come funghi, spuntano un ministro Montiano, un sindaco Liberale, qualche destrorso in incognito… c’è di tutto e di più e il rischio di pestare il piede sbagliato è altissimo, quasi inevitabile. La soluzione del professore? Schiacciarli tutti. Il discorso è semplice: l’ideologia, o meglio, la capacità di creare nuove ideologie è morta, assopitasi a un’ epoca del format che tutti insieme abbiamo contribuito a creare, con la complicità sia di 20 anni vissuti in “una caricatura del Ventennio in versione avanspettacolo” che di una sinistra fintamente progressista capace solo di urlare slogan predigeriti da anni di propaganda ormai lontani. La collezione Valentia ne è così indicata come la sintesi: una cascata di opere urlanti massime di rivoluzioni dimenticate, inneggianti al “dibattito” e alla “lotta“, parole che han contribuito a creare il nostro Stato ma di cui si è persa memoria e libretto di istruzioni. Daverio è e si presenta come un antropologo culturale e non come un critico, il suo compito non è quindi cercare di spiegare l’arte ma estrapolare da essa, e da ogni fattispecie umana, la virtù. “Bello” e “brutto” non esistono come certezze, e ricorrere ad essi per descrivere l’arte è fallace e approssimativo: la Virtù invece, qualora estrapolata, è un canone assoluto. L’ Italia, figlia dell’ ideologia di massa, è viziata nel suo stesso essere unita, nell’ attanagliare una miriade di diversità virtuose sotto un comune sistema burocratico di stampo ottocentesco: non è un vero sistema burocratico, ma una sua brutta copia in piccolo, vittima di un ciclo autosclerotizzantesi. Il professore continua il dibattito invitando gli astanti alla riflessione sul partito di massa come setting per la formazione di un’arte del tutto autonoma, priva di contenuti. Stiamo pensando al ventennio fascista di Mussolini, all’imperialismo neoclassicista di Napoleone in Francia, all’appena terminato berlusconismo, tentativi di livellare le individualità e le coscienze tramite un’operazione che reca il suo prototipo nella grande controriforma luterana architettata dalla Chiesa cattolica. I parallelismi fra estetica e politica sono tipici degli anni ’50 nei quali si cercava di creare consenso anche sulla base di questi; le arti non sono necessariamente legate alle ideologie, dovrebbero essere entità autonome che vanno per la loro strada alla ricerca di un bello fittizio o di una virtù concreta: “non è vero che l’inno di Mameli è la composizione più bella che abbiamo, Puccini e Verdi scrissero decine di pezzi e opere migliori”. Le opere della Collezione Valentia si collocano in questa ottica: sono le retoriche di un PCI che cercano di giustificarne la possibilità di farsi massa e potere. Sono tele e composizioni testimoni di un forte smarrimento filopopolare nazionale, che invece di essere propulsivo si concretizzò in una gelatina collosa che catturò il pensiero bloccandolo in uno stato di stasi. Sono anche però testimoni della grande “responsabilità storica” della sinistra italiana di aver “gettato la spugna” di fronte alla competizione con il nuovo campione del gusto estetico che si stagliava all’alba degli anni sessanta: l’americanismo, che in breve mise sotto scacco un’Europa succube sotto il profilo del linguaggio artistico, dell’ideologia e del commercio. È però anche arte di regime quella delle opere della collezione Valentia, o meglio arte di un regime embrionale che si prepara a crescere ma non ne vede possibilità effettive, mortificandosi. Opere interessanti per l’antropologo ma assolutamente inutili per lo Storico dell’ Arte. Non siamo più capaci di creare Arte e, vittime di ancore ideologiche, stiamo perdendo anche la capacità di valutarla: non sappiamo più eccellere, reprimiamo questa nostra dote indolica (nello specifico un particolare spirito artisticomanifatturiero tutto italiano e maturato nei secoli, che ci ha sempre fatto primeggiare al mondo per “food, fashion, furniture e Ferrari”), abbandonandoci a esterofilie traviate, come il sindaco di Firenze che acconsente a esporre nell’ eccellenza suprema degli Uffizi l’ orrido “Diamond Skull” di Damien Hirst, avvalorandone e, in parte quindi, giustificandone il grottesco valore di 100 milioni di dollari. L’ odierna sinistra italiana è pelandrona, si nasconde pigra e si “occupa di baggianate“, complice anche di un governo di sistematica repressione dell’iniziativa nuova (“Odiamo i giovani e reprimiamo gli artisti”). Abbiamo abbandonato la competizione e questa mostra lo documenta alla perfezione. E come possiamo allora far risorgere una coscienza artistica in un orizzonte cimiteriale premedievale, in mezzo ad un popolo trasversale come quello descritto da Le Goff? Difendendo la competizione e riaprendo il dibattito nel tentativo di ricreare una qualche coscienza critica. Allora è questo il vero significato della collezione Valentia, il suo monito: ” Aprire un dibattito e creare l’ opportunità di fare un po’ di comune esame di coscienza”. INTERVISTA: PHILIPPE DAVERIO ORIGO: Arte e Ideologia.. lei ha asserito che, e qui mi trovo in completo accordo, la tendenza di arginare l’ Arte a un ruolo di mero supporto all’ Ideologia ne ha costituito un vizio. L’ideologia certo ormai sembra morta, o meglio, preconfezionata in idee desuete e formatate in prodotti abusati e ormai fuori contesto sociale e temporale. Non è che forse sarebbe il caso di aprire gli occhi e rendersi conto di quella che è l’effettiva situazione e il panorama dell’ Oggi, e in base a questo creare ideologie contestualizzate e adeguate ad esser perseguite in funzione, magari, della creazione di una nuova massa virtuosa? DAVERIO: La questione è duplice: noi oggi usiamo parametri ideologici che hanno in media 150 anni, abbiamo ancora i comunisti, gli anarchici, gli anticomunisti, i democristiani. Sono tutte categorie inventate fra il 1848 e il 1898 più o meno, e nel campo della politica non abbiamo inventato niente di nuovo, ed è incredibile; ma quello non solo nel campo della politica. Ad esempio, a giacca che lei porta è identica dal 1890, non è mai successo nella storia dell’occidente! Tra un vestito Luigi XIV e un vestito Luigi XVI sono passati solo settant’anni, ma sono vestiti molto diversi. Noi viviamo in un momento molto curioso, che non sono in grado di stabilire, di fermo nella mutazione dei gusti, forse perché siamo mutati in altri campi, perché fra l’inizio di questa giacca e oggi abbiamo fatto degli altri passi. Allora, noi abbiamo gabbie ideologiche che sono incredibilmente statiche in una realtà oggettiva che cambia. Se questo corrispondesse alla storia dei secoli precedenti, vorrebbe dire che siamo in una situazione prerivoluzionaria. Vorrebbe dire che le nostre gabbie di vita, i nostri parametri di antropologia culturale dovrebbero scoppiare. Non lo vedo avvenire ma è così. Allora questo che effetto ha sull’arte: che sembra tutto fermo, viviamo in un mondo in cui sembra tutto fermo. Siamo ancorati sostanzialmente a cose successe 150 anni fa. Una staticità così forte non l’abbiamo mai vissuta. Ma mi sembra una caratteristica dell’epoca in cui viviamo. Viviamo un mondo dove resta un po’ tutto fermo, siamo ancorati sostanzialmente a […]. Una staticità così forte non è mai stata vissuta. Ma mi sembra una caratteristica dell’epoca attuale. ORIGO: Ma il problema sostanziale quindi è il fatto di rimanere costantemente ancorati a ideologie del passato o il fatto che non riusciamo più a inventare ideologie nuove e più attuali? DAVERIO: Il problema è che non siamo più rivoluzionari. Ogni dieci anni, ogni quindici anni succedevano delle rotture generazionali, dall’89 in poi non è successo più niente. Ci sono dei movimenti oggi in corso, ad essere sinceri. I due movimenti più interessanti in Europa sono i Verdi in Germania e in Francia. In Germania hanno fatto il 22%, sono al governo di Tubingen, sono il primo partito di Berlino, sono una forza di mutazione, e in Francia è uguale. Noi non ce li abbiamo, abbiamo avuto la fregatura di Pecoraro Scanio, dopo di lui non si può più parlare facilmente di Verdi. E di fatti quando penso al successo folgorante della coppia di quei due peli grigi [del M5S, ndb], che secondo me portano iella, mi rendo conto che loro hanno preso quel pacchetto di emotività politica e se la sono messa appresso. Ma perché ci manca l’alternativa. Colpa vostra, perché non avete fatto la rivoluzione. ORIGO: Noi però non abbiamo neanche ricevuto l’input dalle generazioni precedenti. DAVERIO: Certamente. Normalmente esiste una dialettica storica facile, i ventenni vengono sobillati dai sessantenni per far la festa ai quarantenni, questo è il meccanismo della storia: cioè i sessantenni e settantenni ormai un po’ fuori pista fanno da “guru” ai ventenni, che si infiammano contro quelli che hanno il potere che ne han quaranta. Questo meccanismo funziona sempre, ma purtroppo per noi si è interrotto. Ma forse può ripartire. ORIGO: Ma dall’altro lato del mediterraneo pare che qualcosa si sia innescato. DAVERIO: Nord d’Africa no, non abbiamo ancora visto succedere qualcosa di oggettivamente intrigante. Però sicuramente il Mediterraneo qualcosa sta facendo. Noi siamo qui in mezzo in bilico. I tedeschi stanno facendo qualcosa: l’anno scorso ero ad una manifestazione studentesca a Berlino molto divertente, totalmente situazionista. Il più bel cartello l’ho ripreso, era di un gruppo che gridava: “vogliamo tutti i genitori ricchi”. Che non era male come idea, era una bella proposta, molto creativa se non altro, da noi non ci sono neanche quelle. Io provo spesso in università a parlare agli studenti, tenendo delle lezioni in aula magna, faccio delle provocazioni ma vedo che non attecchiscono. Però quando tengo un corso ad architettura e design sul concetto dell’avanguardia e le differenza fra Lenin e Trotzkij, ho sempre l’aula piena! Poi dopo non so se questa roba lascia dei germogli. Oggi c’è una penuria di cattivi maestri. La colpa è della mia generazione che non ha generato cattivi maestri, sono stati tutti presi dagli affari. Però forse qualcosa… Come dicono gli inglesi “is up to you”, o come dicono a Roma “ so cazzi vostra”. PARLATO: Vorrei fare una domanda per cercare di riaprire il dibattito. Lei nella conferenza ha parlato del ventennio appena passato come un periodo di pausa, una sonnolenza diciamo. Ma se invece di una sonnolenza fosse stato proprio un cambiamento radicale, non solo in Italia ma in occidente, un nuovo modo di pensare dovuto ai cambiamenti nel modo di relazionare, di comunicare eccetera. Per fare un esempio, circa ciò che ha detto riguardo la rivoluzione: c’è un fenomeno psicologico chiamato inerzia di gruppo per cui le persone riunite in un gruppo perdono iniziativa individuale scaricando la responsabilità su qualcun altro. Con la creazione di una rete mediatica con la comunicazione globale, questo grande gruppo potrebbe aver perso del tutto l’iniziativa, pensando a quel qualcun altro a cui scaricare il barile da qualche parte lontano nel mondo. Questo cambiamento del setting dell’arte così come dell’ideologia non potrebbe essere quindi considerato come la rottura radicale con un paradigma antico di modo che oggi sia impossibile fare una rivoluzione per un’arte che è morta? DAVERIO: Al riguardo c’è un tipo molto simpatico che si chiama Zygmunt Baumann, che sostiene che viviamo in una società fluida, dove gli scossoni non posso più avvenire. Ma questo non avviene mica sempre, ci son dei momenti in cui la società si rallenta, ma la fluidità non fa parte del suo schema costituzionale, perché dopo un po’ nasce una sorta di disappunto: non ci sono prospettive, non ci sono vie di uscita, la scommessa del confronto rimane. Il confronto rimane ma non ne abbiamo molta coscienza, e la presa di coscienza è il primo passo. PARLATO: Però quello che mi chiedo è se questo confronto noi non lo stiamo facendo contro un muro che è uno spirito romantico ormai passato, oppure effettivamente entriamo in un’epoca in cui sono diversi i termini di confronto ma non ne siamo ancora abbastanza dentro da poterli comprendere. DAVERIO: Ma perché siam pigroni! Siamo in una situazione e non la comprendiamo, sembriam matti! Dobbiamo essere in grado di capire che dall’altra parte ci sono i cinesi, che c’è una macchina produttiva formidabile, che è la più grande fabbrica del mondo, che si sta sviluppando senza sapere lei stessa dove va a schiantarsi. Lì ormai sono 120 milioni di operai, che pagano 20 euro al mese, un giorno o l’altro gli girano le scatole e qualcosa succederà. Dall’altro lato ci siamo noi, con una cultura storica manifatturiera che abbiamo abbandonato. Noi viviamo un momento di vuoto di pensiero, un vuoto totale. Basta vedere quello che c’è scritto sulla stampa quotidianamente, oppure vedere come si esprime l’autorità della politica. E ci si aspetta che un giorno o l’altro questo vuoto si riempia. Oggi si riempie con le promesse fallaci di quei due dirigenti anziani. Ma spetta a voi, voi vi dovete riunire, dovete incontrarvi, dovete menarvela, dovete leggere, dovete comunicare.