Premessa
“Fai il bravo con la tua mamma.” Sentirsi dire queste parole è il sogno di ogni nonna che porti a passeggio il proprio nipotino.
“Ma io sono la nonna” risponderemmo deliziate,
tirando in dentro lo stomaco dietro la maglietta po’
attillata e ravviandoci una ciocca dei capelli da poco
sistemati dal parrucchiere.
Ebbene, scordatevelo. Nessuno ve lo dirà mai, a
meno che non facciate parte di quei rarissimi casi di
nonna trentottenne di cui si legge di tanto in tanto sui
giornali: “Mamma a sedici anni, nonna a trentotto”.
Scordatevelo, soprattutto in virtù della situazione
italiana attuale, che vede i figli restare tali fino a età
relativamente avanzate e procreare con tempi in altre
epoche improponibili, il che ci permette di diventare
nonne al più presto un po’ prima dei sessanta, ma quasi sempre parecchi anni dopo.
Accantonata questa illusione, solo parzialmente
legata allo stato intrinseco di nonna (una sessantenne, non importa se sia o meno una nonna, è sempre
una sessantenne e ci mancherebbe altro che non fosse
così) diventa sempre più necessaria una riflessione su
cosa voglia dire ritrovarsi nonna in un secolo come
il nostro, nel pieno di un ripensamento epocale che
coinvolge l’aumentata durata della vita, lo slittamento dell’età in cui i giovani raggiungono la maturità
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donatella paradisi
e l’indipendenza, la mutata percezione di se stesse e
della propria immagine, i mutamenti intervenuti nel
mondo del lavoro. Il tutto dando per scontata la parità
dei sessi, della quale non dovrebbe nemmeno essere
il caso di parlare.
E a fronte di tutto questo, una notevole scarsità di
documentazione e di informazione.
Mentre le librerie traboccano di testi, collane, enciclopedie in grado di soddisfare qualsiasi dubbio,
do­manda, perplessità di ogni futura mamma, indipendentemente dalla lingua, il grado di istruzione, la voglia e la capacità perfino di leggere (abbondano gli audiovisivi, con immagini in grado di essere esaurienti
per la più pigra delle lettrici), sono scarsi e solitamente
parziali i testi indirizzati a coloro che si accingano a
entrare, forti della “sola” esperienza di mogli, madri,
lavoratrici e magari zie, nello sconosciuto, favoloso,
terrificante, attraente, pericoloso, inquietante mondo
della NONNITÀ.
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LE SORELLE E LE AMICHE
Perché il mio golfino è più bello del tuo
Tutto comincia con le telefonate. Abbiamo appena
ricevuto da nostra figlia/figlio la straordinaria notizia
e già ci sentiamo bruciare dal desiderio di comunicarla
alle amiche.
Di persona o per telefono. O potremmo optare per
un SMS, strumento sempre più diffuso quando si tratta di diffondere le cosiddette notizie “a largo spettro”,
destinate a raggiungere i destinatari più disparati nel
più breve tempo possibile.
Basterà premere un tasto e l’intero universo, almeno l’intero universo che riguarda i nostri rapporti umani, sarà immediatamente messo a conoscenza
della novità, anche se c’è il rischio che il veterinario o
il parrucchiere, senza contare il commercialista, l’ortopedica e l’avvocato, restino abbastanza sconcertati nell’apprendere, nel pieno di una riunione, di una
visita, di un rapporto amoroso o di una sessione di
shopping, che Marianna diventerà mamma (Gaetano
papà) alla fine dell’estate.
Lo stesso avverrebbe ricorrendo a una mail, senza contare che in questo secondo caso non avremmo
nemmeno la certezza dell’immediata ricezione della
notizia.
Meglio, quindi, la classica telefonata.
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donatella paradisi
Si comincia naturalmente dalle sorelle. Dando per
scontato che ne abbiamo e che siano libere di ricevere
la nostra chiamata (si potrà alzare un attimo da quella
scrivania, non capita mica tutti i giorni che tua sorella diventi nonna!), rovesciamo sulla nostra più cara
parente (in mancanza della quale il discorso si sposta
sulla migliore amica) una novità il cui peso non siamo
ancora certe di poter sopportare.
Consideriamo il caso di coloro che diventano
nonne per la prima volta, dal momento che è soprattutto a loro e alla loro incantevole inesperienza che
sono destinate queste righe. Le chiameremo anzi
nuovenonne, così come si definiscono primipare
coloro che si accingono a diventare mamme per la
prima volta.
Il termine, lo sappiamo, è abbastanza banale, ma ci
è sembrato importante accompagnare il vocabolo nonna con quel nuova, che allude sia alla novità dell’esperienza di ognuna, che alle nuove caratteristiche che
tale esperienza assume in situazioni e tempi come
quelli in cui ci troviamo a vivere.
Ma torniamo alla sorella o all’amica, considerando
il caso in cui siano a loro volta neoprozie, che non abbiano cioè già vissuto la stessa frastornante esperienza.
I gridolini deliziati si sentiranno ben oltre l’isolato.
La futura prozia (che brutta definizione per una giovane signora che sfiora appena i sessanta!) sarà presa da
una smania operativa che comprenderà nell’ordine:
telefonare a sua volta a qualcuno (escluse purtrop­
po la sorella o la migliore amica, che si trovano dal­
l’altro capo del filo);
acquistare un peluche nel negozio più vicino;
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le nonne... vanno educate da piccole!
decidere di confezionare al più presto golfini/copertine/scarpine (questa opzione, purtroppo, è sempre
più rara e spericolata, visto la scarsità di giovani intorno ai cinquanta/sessant’anni che padroneggino ai
giorni nostri l’arte dei ferri e dell’uncinetto).
Completamente dimenticata negli anni battaglieri del dopo Sessantotto, la secolare arte del lavorare
a maglia si è però riaffacciata di recente, valendosi
dell’intrigante appellativo di knitting, e come tale
ha conosciuto una certa rinverdita gloria. Praticata,
si dice, perfino da numerosi attori hollywoodiani, ha
dato spunto alla nascita dei cosiddetti knitting bar,
abbastanza diffusi nei paesi anglosassoni, ma decisamente scarsi sul nostro territorio nazionale. Sono
stati istituiti, con analoghe motivazioni, anche diversi
corsi di maglia, alcuni dei quali nell’ambito di quelle
benemerite e assai frequentate accolite di canuti che
rispondono al nome di Università della terza età.
Forte di esperienze remote o recenti, la nostra volenterosa amica rivendicherà per sé la realizzazione di
deliziosi golfini, delegando all’eventuale neoprozia la
confezione di capi più modesti, quali le scarpette, o
più semplici da realizzare, ad esempio le copertine.
Stabilita questa opportuna distinzione operativa
(“i golfini li faccio io, tu avvia semmai una copertina”), la nuovanonna programmerà di acquistare un
certo numero di riviste di settore, dopo aver scovato
uno di quei rari negozi che rispondono al nome di
Mani di fata o L’oasi della maglia, individuati non
senza difficoltà con l’aiuto di Internet.
In altri tempi la nuovanonna sarebbe sicuramente
andata a scartabellare in qualche vetusto libretto, for-
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se addirittura scritto a mano da generazioni di nonne
e di zie, solitamente riposto sul fondo di un cestino da
lavoro; con tale nome ci si riferiva a un contenitore
realizzato il più delle volte in legno e dotato di numerosi scomparti destinati a contenere spilli, rocchetti,
forbici, un metro a nastro, bottoni e altro.
Ricordo interi pomeriggi della mia infanzia trascorsi a giocare con il cestino da lavoro che mia nonna e mia madre usavano congiuntamente. C’erano dei
meravigliosi gessi piatti, assai più attraenti di quelli
che usavamo a scuola. Erano quasi sempre bianchi
(scoprii in seguito che servivano per tracciare i segni
delle cuciture e del taglio su tessuti il più delle volte
colorati) e tracciavano linee sottili e precise sui fogli
da me appositamente scuriti con un paziente lavoro di
matita, o su qualche avanzo di stoffa che non mancava quasi mai nel cestino stesso.
C’erano poi i bottoni, i bei bottoni grandi e multicolori che si scucivano dai vestiti quando questi, divenuti inservibili (ma dovevano esserlo davvero, inutili perfino per fare stracci) venivano infine gettati via.
Non credo che nessuno, ai nostri giorni, si preoccupi
più di mettere da parte i bottoni e probabilmente i nostri vestiti confezionati di rado inalberano accessori
che meritino di essere conservati.
Non esistono quindi più quelle belle buste di bottoni
che, grazie alla mia fantasia di bambina, diventavano
attraenti dolcetti, i gusti rappresentati dai diversi colori,
le fogge a dar grazia all’improvvisata pasticceria.
Declassati a scatole per lo più modeste (non di rado
perfino scatole da scarpe!), i mitici cestini sopravvivono forse negli armadi di qualche signora matura (ben
oltre i sessant’anni, intendo) pronti a riemergere tutt’al
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più in occasione di un trasloco, mentre le emergenze
di cucito della famiglia vengono il più delle volte soddisfatte grazie a quelle miniconfezioni da cucito che
si trovano nelle stanze degli alberghi.
Constatata l’impossibilità di reperire vecchi testi
vergati a mano dalla nonna (oh, perché questa parola
ci dà oggi uno strano brivido?) e consultato convenientemente Internet, la nostra si recherà in una delle
rare oasi (ecco spiegato il motivo del nome!) della
maglia ancora esistenti in città.
Il sorriso compiaciuto della commessa, la cui età
può variare dai diciotto agli ottant’anni con relativa
molteplicità di competenza, vi farà certa per la prima
volta (la prima di innumerevoli, diversamente dolorose volte) del fatto che ha individuato in voi una nonna.
Non importa che oggi abbiate indossato il chiodo
nero sopra la maglietta a collo alto che vi nasconde il sottomento e che i pantaloni siano quelli di un
noto stilista giapponese acquistati a caro prezzo, ancorché in saldo, perché vi slanciavano e vi davano
una silhouette da trentenne. Nonostante gli occhiali
da sole, che ormai togliete solo in caso di alluvione,
e la luce favorevole che proviene dall’ingresso alle
vostre spalle, quando comincerete ad alludere a lane
e a golfini, la commessa scoprirà immancabilmente i
denti in un sorriso complice e vi sussurrerà deliziata:
“Allora, sta arrivando un nipotino!?”.
Fanno eccezione quelle vecchie (loro sì davvero
vecchie) proprietarie di negozio che in questo tipo di
attività ancora talvolta si trovano e che, dopo aver assunto nel corso dei decenni il colore e l’odore delle
scaffalature e delle merci, incapaci di lasciare il lavoro di tutta una vita nelle mani poco sicure di impru15
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denti figlioli o commesse inesperte, hanno raggiunto
un’età nella quale tutti coloro che non toccano la settantina sono considerati e chiamati “giovanotti”.
È da costoro che probabilmente trarremo le maggiori soddisfazioni. Una volta compresa la finalità
dell’acquisto (la signora talvolta non brilla per l’acutezza dell’udito) sarete fatte accomodare vicino a
un basso tavolino (e qui si riaffaccia, incontrollata, la
speranza: “Non penserà che sia io quella incinta?”)
e sommerse da riviste a dir poco datate e da infiniti
campioni di lane colorate.
“Guardi, guardi con calma” ripete la negoziante,
felice come un antiquario che abbia finalmente trovato un cliente capace di riconoscere l’unicità di una
miniatura del Settecento.
Abituate come siete a procedere in modo coerente
e razionale, comincerete a sfogliare le riviste in ordine di presentazione, mentre dentro di voi si faranno
vivi i primi cenni di sgomento all’idea di dover “proseguire a punto operato terminate le rigature sugli ultimi 14 (14) [19]{19}”.
Il tutto mentre cercate di abituarvi allo sconcertante aspetto dei bambini ritratti, curiosi esemplari d’infanzia che sembrano usciti da un album di famiglia
degli anni Sessanta. È probabile anzi che vi troviate a
fantasticare su cosa ne sarà stato di quei piccoli indossatori, delle fossette e dei riccioli, dei musetti annoiati
e dei candidi sorrisi.
“Ora sarà un manager” vi viene da pensare di
fronte al grintoso piccolo in pagliaccetto, che indossa quella giacchina un po’ buffa con un accenno di
doppio petto.
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