Anceschi-Gavazzeni brevissimo 1 L’amicizia letteraria tra Gianandrea Gavazzeni e Luciano Anceschi Nel 2006, in occasione del decennale della morte, venne apposta una lapide che reca queste parole: “Qui nacque / Gianandrea Gavazzeni / Direttore d’orchestra / 1909-1996”. La dicitura “direttore d’orchestra” è oggettivamente troppo sintetica per caratterizzare, sia pur sinteticamente, il profilo dell’artista e si dovrebbe completare con “compositore, scrittore e intellettuale”. Per illuminare la vastità della sua cultura accumulata attraverso letture sterminate e conversazioni intense con amici scrittori, musicisti, pittori pubblichiamo un breve scorcio del carteggio intercorso tra Gianandrea (Gavazzeni) e Luciano (Anceschi). L’amicizia iniziò intorno alla fine degli anni Trenta a Milano, si dipanò a Mozzo, dove Anceschi durante la guerra era sfollato nella Villa Albani, e a Baveno dove Gianandrea e la moglie Mariuccia Polli - Gavazzeni si sposò giovanissimo, a 23 anni - si erano rifugiati durante la guerra. Nell’archivio Gavazzeni ci sono 66 lettere scritte al Maestro da Anceschi1, mentre nell’archivio di Anceschi ve ne sono 248 di Gavazzeni2. Le lettere che i due si scambiarono dal 1938 indicano il cammino percorso per prendere consapevolezza delle loro passioni, viverle con entusiasmo pugnace e coerenza etica, nonostante il fascismo prima e la guerra poi. Luoghi e tempi del loro apprendistato A Roma, dal 1921 al 1925 Gianandrea aveva frequentato Santa Cecilia, i teatri romani, gli ambienti letterari che ruotavano intorno alla rivista “la Ronda”. Nel comitato redazionale c’erano allora Riccardo Bacchelli, autore del Mulino del Po, Antonio Baldini di Pazienze ed impazienze di mastro Mastoso, Bruno Barilli, musicista e critico musicale per la Tribuna, il Corriere della sera, Il Resto del Carlino, Vincenzo Caldarelli, redattore dell’Avanti!, collaboratore della rivista la Voce, che aveva già pubblicato Prologhi (1916), Viaggi nel tempo (1920), Favole e memorie (1925), Emilio Cecchi, scrittore e critico, interprete delle opere letterarie italiane della prima metà del XX secolo. Ardengo Soffici, esponente del Futurismo, pittore, romanziere e poeta. La vita musicale romana era dominata da Ottorino Respighi, che Gianandrea non ebbe come insegnante. Suo maestro di contrappunto e fuga fu Alessandro Bustini, insegnante anche di Goffredo Petrassi, poi amico di Gianandrea per oltre sessant’anni. Alfredo Casella fu invece il docente di pianoforte, con il quale Gavazzeni avrebbe stretto solida amicizia3. 1 Ho consultato l’archivio presso la biblioteca privata della famiglia Gavazzeni, che qui ringrazio per avermi consentito al’accesso alle carte private. Tra le 66 lettere di Luciano Anceschi a Gianandrea Gavazzeni ivi conservate, ne ho scelte due: una inedita scritta a Mozzo ( Bg) il 18 giugno 1944 e l’altra scritta da Bologna il 3 aprile 1988, apparsa come prefazione del libro di G. Gavazzeni, La casa perduta, saggio di prose lombarde,1 pubblicate da Pierluigi Lubrina, Bergamo, 1988 2 Le due lettere pubblicate di G. Gavazzeni si trovano nel volume Il Laboratorio di Luciano Anceschi, pagine, carte, memorie, Scheiwiller, Milano, 1998. Nel libro è pubblicato un primo lavoro di riordino e catalogazione della biblioteca e dell’archivio donati da Luciano Anceschi al Comune di Bologna nel 1991. I volumi sono stati collocati nei fondi speciali della biblioteca comunale dell’Archiginnasio nel 1997. La donazione consiste di 30.000 volumi, con 3.000 estratti particolarmente rari, oltre 18.000 lettere di più di 1.000 corrispondenti, migliaia di dattiloscritti di Anceschi, poeti, prosatori e saggisti del Novecento. Una prima catalogazione durata dieci anni fu affidata dalla Soprintendenza per i beni librari e documentari della regione Emilia Romagna a Elena Romagnoli e Anna Gurioli che hanno potuto contare sull’aiuto di Maria Cannito Anceschi, il riordino del materiale e il disegno definitivo per la pubblicazione si deve ad Antonella Campagna. 3 “Una grande amicizia, Alfredo Casella. L’ho conosciuto a Roma, avevo ancora i calzoni corti. Lui era in commissione a Santa Cecilia, nell’ottobre del ’21, quando ho fatto il concorso di ammissione. Chi l’avrebbe detto allora che qualche decennio dopo saremmo diventati amici, come se non ci fosse stata una differenza generazionale. La quale non impediva di darci del “tu” e di stare parecchio insieme sia quando veniva al Nord, sia negli incontri fiorentini, nei Maggi “storici” e nei periodi romani, dove la casa di Casella era un punto di riferimento. Erano le due Rome. Quella di 1 A quattordici anni il “ritardato” Gianandrea, come l’aveva definito la sua insegnante di quarta elementare, è un adolescente curiosissimo di arte e di politica, è un vorace lettore, dalla memoria prodigiosa. Gianandrea Gavazzeni con il tempo diventerà un autodidatta dalla cultura sterminata. Due sono le strade che lo attraggono in modo particolare: la scrittura e la musica. Quale scegliere come professione? Il dubbio lo avrebbe a lungo assillato; le coltiverà entrambe anche se i suoi testi letterari e critici, che alla pubblicazione ebbero discreto seguito, oggi sono del tutto dimenticati e pressoché introvabili. A Milano, durante il fascismo e la guerra resistono alcuni luoghi di cultura ed umanità quali il Conservatorio G. Verdi dove Ildebrando Pizzetti insegna composizione a Gianandrea Gavazzeni, iscrittosi al Conservatorio nel novembre 1925, e l'Università degli Studi di Milano (inaugurata nel 1924) dove Antonio Banfi diventa titolare della cattedra di filosofia nel 1933. Il filosofo, con il suo maestro Piero Martinetti, aveva fondato già la Nuova Scuola di Filosofia all’Accademia Scientificoletteraria di Milano. Banfi, che perfezionò i suoi studi in Germania, diffuse in Italia il neokantesimo della scuola di Marburgo, la fenomenologia di Husserl, il pensiero di Georg Simmel e di Max Sheler. Nelle sue lezioni e nei suoi scritti dichiara finita l’epoca del neoidealismo italiano. Le lezioni di Banfi, frequentate anche da persone non iscritte all’università, aprono nuovi orizzonti di pensiero ai suoi allievi tra i quali L. Anceschi, che poi si mostrerà sempre interessato alle sperimentazioni letterarie, alle letterature straniere, alle opere pittoriche e musicali. Sarà Anceschi a definire le connotazioni poetiche della “linea lombarda”, scoperta in pittura da Roberto Longhi e Rossana Bossaglia, entrambi amici del Maestro. Pizzetti e Banfi, due insegnanti, maestri di vita per Gianandrea Gavazzeni e per Luciano Ancheschi. Antonio Banfi (Vimercate, 30 settembre 1886 Milano 22 luglio 1957) sarà il “formatore” di un nutrito numero di filosofi quali Mario Dal Pra, Ludovico Geymonat, Enzo Paci, Mario Untersteiner, Giulio Preti, Remo Cantoni, Dino Formaggio. Luciano Anceschi, nato a Milano nel 1911 (era di due anni più giovane del Maestro), si laurea con Banfi scrivendo la tesi di filosofia estetica: Dal classicismo inglese al simbolismo francese. Storia del concetto di autonomia ed eteronomia dell'arte e di poesia pura, conclusioni teoriche. Trasferitosi a Milano nel novembre 1925, Gianandrea scopre la città dei Navigli, la Milano della Scala di Toscanini, del Conservatorio G. Verdi di Pizzetti, della Società del Quartetto; inizia a frequentare gli ambienti letterari milanesi che fanno capo alla rivista il Convegno, fondata da Ezio Ferrieri, con sede nel retro di Palazzo Gallarati Scotti in via Borgospesso. In quella sede modesta sarebbe nata la rivista Il Convegno letterario che segnalerà per prima in Italia le opere di Joyce e di Paul Valéry. Il giovane musicista visita spesso la galleria d’arte la Bottega della poesia, fondata da Walter Toscanini ed Emanuele Castelbarco, e gli ambienti delle case editrici Treves, edizioni di Uomo, Rosa e Ballo, frequenta i giornalisti del Corriere di Albertini, de l’Ambrosiano, e le trattorie, numerose allora a Milano, tra le quali il Bagutta dove erano di casa Bacchelli, Alberto Mondadori, Raffaele De Grada. Ricorda, dal canto suo, Anceschi: “Il Craja, il Savini, il blue Bar, e Terenzio. Luoghi in cui le iniziative nascevano da un dialogare infinito tra cultura accademica e cultura militante, che trovava uno dei suoi punti di riferimento nella vita universitaria e nell’insegnamento dei maestri - Banfi soprattutto - che a loro volta moltiplicavano il fervore di noi studenti”4. L’abitudine a frequentare trattorie sarà un punto fermo nella vita sociale di entrambi tant’è, che saranno tra i premiati della “Tavola all’Amelia”, locale situato nei pressi di Mestre di proprietà dell’entusiasta ed appassionato d’arte Dino Boscarato. Dagli anni Sessanta fino al 2005, nella Respighi “piacentiniana”, con una pseudo cultura ufficiale. Al di là del Tevere c’era invece la Roma di Casella, di via Nicotera 5, in affitto nel villino di Romualdi padre: ahimè, padre e nonno di missini” in G. Gavazzeni, Scena e Retroscena, una testimonianza, Rizzoli, Milano, 1994, con introduzione di Goffredo Petrassi, p. 165. “I “venerdì” in casa Casella erano fra i più interessanti della Roma di allora: ci trovavo Pirandello, Emilio Cecchi, Bontempelli, Alvaro e i giovani musicisti che crescevano attorno a Casella a cominciare da Goffredo Petrassi, con il quale iniziò proprio allora, nel ’34 la mia lunghissima amicizia”. In G. GAVAZZENI, Scena e retroscena, una testimonianza, cit., pp.165-166. 4 Che importa chi parla, dialoghi con Luciano Anceschi, a cura di MICHELE GULINUCCI, Diabasis, Reggio Emilia, 1992, p. 22. 2 trattoria si danno convegno molti ospiti, “i tavolanti”, tra i quali Antonio Barolini e Giovanni Barbisan, Sylvano Bussotti e Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Dino Buzzati, Giuseppe Berto e moltissimi altri. Il circolo, nato nel 1965, durò fino al 2005. Luciano Anceschi è il primo dei premiati per la letteratura (1965), Gianandrea Gavazzeni per la musica nel 1977. Dopo questa piccola fuga in avanti ritorniamo al drammatico 1929, anno in cui Anceschi si iscrive all’Università ed entra con autorità nel mondo della filosofia e dell’arte. In un’intervista rilasciata a Michele Gulinucci nel marzo 1990 in vista dei suoi ottant’anni, Anceschi parla della singolare generazione che studiò a Milano tra gli anni ’30 e il ‘36: “[...] e si incontrò con qualche frutto a discorrere e a studiare, e, tra studi e discorsi, a formarsi sotto i grandi portici dell’Università Milanese. A me sembra che, in noi, un senso disilluso, devastato del mondo, da cui nasceva non so che ansiosa accettazione del presente, cercasse il riscatto nell’opera, in qualcosa che “sta e resiste”. […] Eravamo tanto presi […] che avvolgemmo sempre anche l’amore del passato nella rete delle nuove ragioni. Studenti “difficili”, e poco “regolari”, l’accento dei nostri interessi era posto tutto su noi stessi, sul tempo. [...] Ognuno trovò poi, per suo conto, la sua strada ma ciò che aiutò tutti fu, alla fine, una dottrina dell’immagine, dico che confida nelle possibilità poetiche della presenza degli oggetti, e che preferisce la corposa allegoria alla diafana analogia […]. Noi sognavamo una immagine che fermasse il sentimento inquieto e reale della nostra presenza - non un’assenza, un rifiuto, una platonica libertà”.5 Questo il primo configurarsi della poetica della letteratura Lombarda. Quei giovani praticavano la libertà di pensiero, si contrapponevano con la forza delle idee nuove al principio di autorità, rappresentato per le lettere da Croce. Combattevano il fascismo fondando riviste nuove che in cui esprimere il loro pensiero. Era ovvio che si scontrassero con la censura fascista che soppresse la prima rivista, Camminare, e poi le altre, Il Cantiere (1934-35), Corrente (1938-40). Quando ha inizio l’amicizia Anceschi-Gavazzeni? Nella lettera apparsa come prefazione al libro del Maestro La casa perduta, Anceschi6 fa risalire al ̕38, anno della scrittura del saggio Le ragioni native del musicista, l’inizio della loro amicizia. Sicuramente a quell’epoca Gavazzeni aveva letto la tesi di Anceschi Autonomia ed eteronomia dell'arte, sviluppo e teoria di un problema estetico7 pubblicata da Sansoni nel 1936. L’opera è infatti nella biblioteca di casa Gavazzeni. Nei mesi successivi, sulla rivista Il Quadrante (31-32 novembre-dicembre), appare il saggio Tradizione e Arte. Anceschi affronta la “tradizione come qualcosa di dinamico, che permette alla vita dell’arte di muoversi in una quantità multivoca, anzi infinita di direzioni, lasciando all’opera d’arte e al mondo dell’arte la loro vitale autonomia artistica”8. Giovane studente di poco più di vent’anni, Anceschi si era già accostato all’opera poetica di Mallarmé (appare nella rivista L’Italia letteraria del 1º maggio 1935 il saggio Atmosfere di Mallarmé) a quella di Rimbaud e di Leopardi. Le pubblicazioni già avvenute e quelle in cantiere diventano oggetto di discussioni, di scambi di libri, di scritture critiche ed epistolari. L’amicizia era ormai solida quando Anceschi nel giugno 1944 scrive a Gavazzeni: “Spero che tu venga presto a Milano. Ho molte cose di cui parlare con un amico: e sono cose piuttosto legate ai nostri discorsi abituali. Perché la nostra amicizia, se non fosse altro, sarebbe certo questo: un discorso prolungato sulla civiltà”. 5 Ibidem, pp. 21-22. Vedi n.2. 7 A proposito di questa prima opera, Alfredo Giuliani così si esprime: “Era una fine ricognizione delle poetiche moderne, dal preromanticismo al simbolismo, centrata sul nesso Poe-Baudelaire: l’antitesi autonomia - eteronomia vi appariva come una polarità immanente alla vita dell’arte e della letteratura, e la principale ragione della sua instabilità. Le arti tentano di unificare una quantità di elementi esterni, ai quali possono soccombere; e d’altra parte cercano di imporre o di sostituire alla realtà dell’esperienza i propri impulsi formali, i quali possono irrigidirsi e perdere la vitalità concettuale che li giustifica. Si tratta di vedere la dialettica storica, sommamente complessa, la tensione ineliminabile tra i due poli. All’interno di questo infinito confronto tra autonomia ed eteronomia, Anceschi individua la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie, la loro teoricità sempre nuova dentro l’orizzonte prammatico che le caratterizza”. In Il Laboratorio di Luciano Anceschi, pagine, carte, memorie, Scheiwiller, Milano, 1998, p. 18. 8 In Laboratorio di Luciano Anceschi…. ivi, p. 530. 6 3 Abbiamo già individuato alcune affinità elettive tra le due personalità, tra queste sicuramente l’estrema curiosità per tutti gli ambiti artistici: musicali, letterari e quelli delle arti figurative; un’apertura verso i temi proposti dalla fenomenologia intesa come “scienza dell’esperienza della conoscenza”. La fenomenologia come disciplina dell’occhio che si attarda ad analizzare la forma per vederne gli sviluppi successivi. Spiega Anceschi: “la fenomenologia critica, in prima istanza non si esaurisce nel piacere della scelta: è un metodo che individua le forme in cui un determinato fenomeno si manifesta e vive, e cerca di descriverle”9. La fenomenologia come scienza antidogmatica che propone la sospensione del giudizio prima che il fenomeno appaia nella sua datità essenziale. La frase, ricorrente sul labbro del Maestro, “sospendo il giudizio”, non era una battuta bensì nasceva dalla famosa epoché che aveva appreso dalla filosofia fenomenologica husserliana fatta amare a Gavazzeni da Anceschi. Negli anni il Maestro resterà fedele alla filosofia della reticenza, tant’è che l’amico Paolo Grassi, spesso incline a “intemperanze linguistiche”, l’aveva così stigmatizzata: “Il nullismo di Gianandrea è una filosofia di fronte alla quale il nichilismo russo diventa il più roseo ottimismo”10. È stupefacente, per esempio, la citazione nella seconda lettera di Gavazzeni della filosofa ebreopolacca Jeanne Hersch, (1910-2011), allieva di Heidegger, ma soprattutto di Karl Jasper, autrice de L'illusion philosophique, tradotto da Fernanda Pivano con introduzione di Nicola Abbagnano, e pubblicato a Milano nel 1942. Il suo testo più famoso, L'être et la forme, pubblicato a Parigi nel 1946, sarà tradotto in Italia da Roberta De Monticelli per Bruno Mondadori soltanto nel 2006 con il titolo di Essere e forma!11. È un piccolo esempio dell’apertura mentale del Maestro che da un lato è radicato nella sua terra, apparentemente ligio alle convenzioni dell’ambiente provinciale e nello stesso tempo è spirito libero, dentro il flusso di idee europee. Nonostante l’avversione al fascismo ed al nazismo, grande è il suo amore per la musica sinfonica, la filosofia e la poesia germaniche; conosce bene l’opera di Novalis, Goethe, Hölderlin, Heine, Rilke. Gavazzeni sarà per tutta la vita un appassionato lettore di Thomas Mann, di Karl Kraus e di moltissimi altri. La madre, signora Rina, conosceva il tedesco ed è probabile che sia stata lei l’iniziatrice del figlio alla civiltà tedesca e Gianandrea, pur non conoscendo la lingua, aveva un sogno segreto: scrivere un romanzo, come i Buddenbrock, situato in terra orobica. Anceschi rappresentava una porta aperta all’arte; Petrassi e Dallapiccola alla musica contemporanea. In un rigo tratto da Scena e retroscena Gavazzeni annota: “Quando si afferma che nella vita gli amici sono pochi, io posso dire il contrario: per me gli amici sono stati moltissimi, e importanti. Occorrerebbe un libro soltanto per le amicizie”12. Anceschi e Gavazzeni avevano esperimentato la mancanza di libertà, avevano visto crollare sotto i bombardamenti biblioteche, chiese, teatri, persino la Scala. E molte volte si chiesero con dolore e senso d’angoscia: come vivere in “un mondo capovolto”? Scrive Anceschi molti anni dopo: “Bisogna avere fatto l’esperienza profonda del nulla per sapere quanto il nulla possa essere attivo, produttivo e ricco di stimoli, possa sorprendentemente aiutarci a ritrovare il senso della continuità e della mobilità, a ritrovare il senso della intensità e della lentezza senza timori e remore. Un umanesimo disilluso avverte che, dopo tante decapitazioni, dopo tante distruzioni, la «testa», come è stato detto, ricresce ancora”13. Per combattere lo sconforto esistenziale, entrambi lavorano, e molto, in vari ambiti: Anceschi in quello della critica letteraria, della filosofia dell’estetica, della critica artistica, Gavazzeni in quello della critica musicale, dell’indagine del rapporto tra musica e parola, della composizione. Ma il rapporto con ciò che andavano scrivendo è molto diverso nei due: Anceschi, che incarnava “la 9 Che importa chi parla…., cit., p. 32. G. GAVAZZENI, Scena e retroscena, una testimonianza, Milano, Rizzoli, 1994, p. 212. 11 JEANNE HERSCH, Essere e forma, prefazione di Roberta de Monticelli, Milano, Bruno Mondadori, 2006. 12 G. GAVAZZENI, Scenae retroscena…., cit. p. 177. 13 Che importa chi parla….., cit., esergo. 10 4 difficilissima gioia della ricerca”14, si mostrava soddisfatto del lavoro che faceva, Gavazzeni no. “Era sempre dubitoso” - come amava dire. Certamente Anceschi aveva un rapporto positivo con la realtà per personalità o per contagiato. Aveva subìto in profondità il carisma del suo maestro Antonio Banfi, fatto di amore per la vita e di gioia di vivere; amore che non lo abbandonò neppure sul letto di morte tanto da esclamare prima di morire: “Che gioia” “Che gioia!”. Dopo questa breve ricostruzione dei caratteri assunti dall’amicizia Ancheschi - Gavazzeni è opportuno proporre due lettere che mostrano bene i rapporti amichevoli tra i due. La prima è di Gavazzeni, scritta l’8 settembre 1943, data fatidica nella storia d’Italia. «Baveno Villa Franca (Novara) 8 settembre 1943 Carissimo, grazie per la tua cartolina. Condivido il tuo stato d’animo. Come vedi il mio disperato pessimismo è sempre più confermato dai fatti. Non sappiamo ancora dove e come si fermerà la curva della parabola. La distruzione della vita culturale milanese è un fatto che peserà irreparabilmente sulla nostra generazione. Noi saremo gli eroi falliti del nostro secolo. Forse chi verrà dopo potrà sulla macerie riprendere a vivere. Noi no. Pensa che tra le distruzioni di quei barbarici bombardamenti c’è quella delle case editrici musicali: Ricordi, con tutte le officine e i magazzini dove c’era gran parte delle musica operistica e sinfonica italiana antica e moderna, cioè anche i materiali d’orchestra che servivano per le esecuzioni. Non solo: è andato anche il preziosissimo archivio dov’eran conservate le partiture autografe più importanti: Rossini, Bellini, Verdi, Donizetti, Catalani, Puccini, Pizzetti. Tutto è andato. Lo stesso è avvenuto per la casa Sonzogno. L’imprevidenza di questi signori editori è stata addirittura criminale! Anche la musica edita da Ricordi e da Sonzogno così è andata. Si sono salvate soltanto le composizioni che avevo da Carisch,15 il quale era sfollato nella bergamasca, già da un anno circa. Ed era la casa meno importante delle tre. Ora ci sono temi grossissimi che ci angosciano, ma quando di scorcio diamo un’occhiata alla cultura dello spettacolo della “repubblica dei professori”, dei De Unamuno italiani, è addirittura grottesco. Quell’articolo di Flora sul “Corriere”! Questi crociani della malora, questa genia di appestati, queste mummie presuntuose e avvelenate, vorrebbero dunque buttare a mare un blocco di vent’anni di letteratura, di poesia, di pittura italiana! Vent’anni di scavo della lingua! E lo si vede quando edificante sia lo stile Janni sul “Corriere”! Esattamente insomma come avevamo previsto. Ricordi? Se usciremo sani e salvi dalla bufera e se ci sarà possibile occuparci ancora di cose nostre urgerà fare un giornale dinamitardo e barricadiero che rechi sotto la testata queste parole: «Da una dittatura Mussolini non intendiamo cadere in una dittatura Croce!» Occorrerà rimettere in piedi un neo-fascismo letterario ed artistico e adottare la violenza per la difesa del nostro lavoro e di quanto abbiamo raggiunto. Ad Arona c’è Beniamino, sfollato da Usellini. Ci vediamo spesso. Resterà qui anche lui tutto l’inverno, nulla succedendo in contrario. Quando non ti serve più se vuoi puoi spedirmi l’Età Barocca e il libriccino di James. Scrivimi. Io lavoro ancora al Pizzetti, tanto per non lasciarlo incompiuto. Leggo disperatamente. Ti abbraccio16 Gianandrea G.» La guerra continua, la vita si fa difficile e l’ottimismo di Anceschi è messo a dura prova dalle difficili condizioni di vita. «Mozzo, 18 giugno 1944 Caro Gianandrea, 14 Alfredo Giuliani in Che importa chi parla…. cit., p. 37. G. GAVAZZENI aveva pubblicato con la casa editrice Carisch, Canti per Sant’Alessandro, 1935; Concerto tra violino e orchestra 1936. 16 In Laboratorio di Luciano Anceschi…., cit., p. 170. 15 5 molto tempo è trascorso, ed io non ti ho ancora risposto. Non volermene male, ti prego. Una quantità indicibile di noie di preoccupazioni e anche di guai. (tra cui recentemente, qui, a Mozzo, un grosso furto che tra l’altro ha turbato molto mia moglie, togliendole cose a lei [e a me] care), e poi una generale mollezza, e quasi un fastidio di vivere mi hanno trattenuto dallo scriverti, e poco anche dal farmi vivo cogli amici. E potrei anche dirti con una lettera di Rilke «lavoro, preoccupazioni quotidiane, malessere»: e il mio animo, poi, ora è in uno stato simile a quello che già a te solevo imputare di pessimismo: siamo modesti relitti di un mondo naufragato e deluso, come troveremo un senso nuovo per la nostra vita? Ma, forse, questo è proprio un momento di stanchezza, soprattutto se penso che quello che ci pare un mondo naufragato17, già allora, in quel mondo lontano, noi ci sentivamo diversamente «relitti», e magari di un mondo favoloso e tutto d’idea. Ma, caro Gavazzeni, ancora mi consolo con il lavoro; ed ho pronte le bozze del libro che ti è dedicato «a Gianandrea Gavazzeni, dilettissimo amico»18 presso Vallecchi: contiene saggi sul Petrarca, sul Vico, sul P. Bartoli: e anche scritti minori. E varie prove sulla poetica dell’ermetismo: alcune note polemiche, in risposta a Russo19. Il titolo è Miscellanea - prove critiche: e vorrei che in esso non si vedesse tanto l’intenzione di accusare una raccolta di scritti vari e occasionali, quanto l’indicazione di un interesse possibilmente vasto, una proposta di un umanesimo moderno ed europeo. Anch’io leggo molto, e davvero lo scrivere e il leggere sono una condizione quotidiana del nostro ut melior fiam, del nostro solitario e tragico voler esser migliori. Ho letto Mastro Pulce20 che è davvero un esercizio superiore e lucidissimo di libera fantasia che gioca in un intreccio di metamorfosi, di intenzioni morali, di stupori e fissazioni con una scioltezza imparagonabile e davvero sovrana. Credo che sia una delle favole più belle dell’umanità: è così nostra, con una coscienza evidente di organizzare lietamente il mondo d’intenzioni inquietissime. Ho letto le lettere di Rilke: e di quell’animo molle e dolce così rotto da una romantica malattia, da sehensucht (nostalgia) che trova un’armonia e una quiete solo nella festa della parola: e da poco avevo riletto i suoi Quaderni21 e anche le belle traduzioni (le più belle certo in lingua italiana) del povero Pintor22, che mi pento di aver conosciuto troppo fuggevolmente. Molte altre letture, naturalmente: e ho tradotto (per Rosa e Ballo) il Barocco di Eugenio D’Ors, e sto traducendo The sacred Wood di Eliot23: due libri così diversi, di cui ti parlerò forse più avanti in un’altra lettera. Anche a me, ma devo avertelo già scritto, l’introduzione di Contini è sembrata, non so, di un tono un po’ leggero e mondano, anche se, come sempre, coltissima e con certe prospettive profonde…Ma mentre lì c’è troppa contentezza di sé, d’altra parte, penso che il mio torto è sempre stato quello di prendere le cose con troppo di quell’animo che i tedeschi dicono gründlich e che noi potremmo dir grave: di prender sempre tutto con quell’impegno totale che mi costringe ad un esame minuzioso e serrato più che con largo ed aperto discorso. Fui anch’io tra gli ascoltatori della tua Bergamasca; e fu anche curioso l’effetto: mentre resa da te, m’aveva fatto quella viva impressione che sai, e dato come quel senso di latente follia e come di un urgere ansioso che mi par proprio di un mondo locale, ecco davvero nel concerto mi parve un’altra cosa, più debole, meno allusiva. E, come dissi a tua madre, mi sentii tratto un poco a darne la colpa all’esecuzione: altrimenti come avrei potuto spiegare le diverse sensazioni e giudizi? 17 Le sottolineature sono nel testo manoscritto. L. ANCESCHI, Idea della lirica, edizioni di Uomo, Milano, 28 marzo 1945. Nell’agosto 1945 sarà pubblicato presso Mondadori. 19 LUIGI RUSSO (Delia, Caltanissetta, 1892 - Marina di Pietrasanta, Lucca, 1961). Professore di letteratura italiana nelle università di Firenze e Pisa. Critico di formazione crociana, pone attenzione al contesto storico in cui operano scrittori e poeti. Di particolare rilevanza i suoi studi su Verga, Manzoni, Alfieri, Foscolo, Leopardi, raccolti in "Ritratti e disegni storici". Gli è conferito l’incarico di rettore della Scuola Normale di Pisa nel 1943, incarico che conserverà per due anni. Vivaci ed arguti sono i suoi interventi critici nelle riviste con le quali collabora; dapprima con La nuova Italia, poi come direttore dal 1925 al 1947 della rivista Leonardo. Rassegna bibliografica mensile; nel 1946 fonda la rivista Belfagor che pubblica saggi di critica, storia, politica, filologia e arti figurative. 20 Favola di ERNEST THEODOR AMADEUS HOFFMANN, scritta nel 1819. 21 I quaderni di Malte Laurids Brigge, 1910. 22 GIAIME PINTOR (Roma, 30 ottobre 1919 - Castelnuovo al Volturno, 1 dicembre 1943). Sarà il traduttore di Rilke, Heinrich von Kleist, Hugo von Hofmannsthal. 23 Il sacro bosco, prima edizione, Milano, Muggioni, 1946. Seconda edizione, Bompiani, 1974. 18 6 Certo il Saggio sul Leopardi dell’amico De Robertis è cosa elegantissima, si sa, e piena di osservazioni esatte e calzanti, ma io la vedo assai come una dichiarazione di principi, che scorcia un poco la prospettiva del poeta: quella scrittura lampante ed educata resta, però, e comunque, un bell’esempio, e una bella condanna, per i nostri rapidissimi e tripudianti crociani contenti di facili formule, ma ignorantissimi del lavoro e della fatica reale dell’arte, da un lato, dall’altro, delle infinita complessità del problema estetico. Vorrei, insomma, un poco che qualcuno dei nostri amici crociani indugiasse con qualche affabile attenzione sul problema dei rapporti tra parola e musica, e sul quel problema che tanto ci sta a cuore e che tu continui a lasciare e riprendere nei tuoi scritti e nelle tue stesse composizioni. Sì, il Flora qualche cosa di esatto ha pur detto, ma ecco è proprio là dove è meno «dogmatico» della scuola, dove è più libero, e come rapito di questa libertà. Ma questa lettera non ha più fine: ed io voglio che ti porti ancora la misura del mio affetto: in questo caso, davvero, il discorso non finirebbe facilmente. Ecco, anche il mio lavoro richiede in certi momenti solitudine spirituale e fisica, e come un rapimento dentro: e mai come in questi momenti mi ha portato fastidio l’interrompere frequente certe prove iniziate in un momento di calore e di vita. Ma troppo spesso mi prende un senso che il nostro lavoro vale davvero “solo per noi”: e vorrei che questo senso fosse ormai vinto. Quanto si vorrebbe collaborare col mondo! E chissà che a nostra insaputa si collabori più di quel che si crede! Anche Mallarmé contribuiva davvero a far nuova e diversa la vita! Ancora voglio ogni tanto illudermi che ci resti un aperto destino di collaborazione, e che noi stessi possiamo francamente rompere quelle circoscritte ragioni nelle quali un destino di cui non siamo colpevoli ci aveva costretto. Ricordami ai tuoi. Abbi i migliori saluti da mia moglie e da Giovanni. Un abbraccio dal tuo Luciano» Le ragioni native dello scrittore e del musicista Nelle lettere si individuano alcuni argomenti che affronteremo seppure brevemente: tra queste vi è l’indagine che ritornerà per anni sulla “ragioni native” dell’artista e sul rapporto tra musica e poesia, tra paesaggio e musica. Le ragioni native, espressione che troviamo nel vocabolario di entrambi, sono le sorgenti che alimentano la vena poetica nella quale la parola si compenetra con la musica per concorrere a definire un’immagine feconda. Per la musica e la poesia il nucleo è lo stesso: è rappresentato dal paesaggio legato ai primi anni dell’infanzia. L’immagine di quell’angolo remoto ben vivo nella sua memoria, suscitava nel Maestro il desiderio di tradurre in parola e in musica i fermenti dell’anima. Scrive Gavazzeni nel saggio Le ragioni native del musicista: “Ragioni native, influssi etnici, sono definizioni usate in tante occasioni. Monotonia di modi di esprimersi. Anche stramberia, in certe congiunture non precisamente decise. Qualcuno con mille buone ragioni, può chiedere il perché di questo, ed esigere le pezze d’appoggio. Son quelle stesse che ho offerto, da una volta all’altra, portandole su da un’espressione, strappandole a una musica come il solo lembo di verità che mi sembrasse vivo, il solo sangue che apparisse in fermento, al di là di maniere e di artifici”24. Tra il 30 e il 45 Gavazzeni scrive e compone moltissimo. Cerca di dare forma alla voce che urge dentro, legata alla stimmung di due luoghi della sua poesia: il Cinquandò e Martinengo. In parallelo alle composizioni musicali, scriveva e pubblicava saggi critici: Spiriti e forme della Lirica Belliniana, nel volume Bellini, a cura di Ildebrando Pizzetti, Treves, Milano 1936; Donizetti - Vita e Musiche, Fratelli Bocca, Milano, 1937; Donizetti, nella collezione “I maestri della musica”Firenze, 1939; Mussorgsky e la musica russa dell’800, Sansoni, Firenze, 1943; Guida Musicale del Siegfried di R. Wagner, Monsalvato, Firenze, 1944; Le feste musicali, scritti d’occasione, Gentile, Milano, 1944; I luoghi del musicista e le ragioni native del musicista, due saggi scritti negli anni Quaranta e pubblicati dalla casa editrice Pierluigi Lubrina nel 1988. Importante è la pubblicazione di Parole e suoni, edita nel 1946 dalla casa editrice il Balcone, Milano, nella collana musicale diretta da Alberto Carrà, figlio del pittore Carlo. In esergo una dedica all’amico: “A Luciano 24 G. GAVAZZENI, La casa perduta, saggio di prose lombarde, con prefazione di Anceschi, Pierluigi Lubrina, Bergamo, 1988, p. 45. 7 Anceschi / per un’amicizia nata su una comune ricerca musicale e poetica, con vivo affetto”. Il libro è una raccolta di undici saggi che sono una rielaborazione in ambito musicale della “poetica della parola” che “l’Anceschi” - come lo chiamava il Maestro - andava definendo in saggi ed articoli apparsi sull’Ambrosiano, sulla rivista Il Cantiere. Il giovane studioso difendeva la poesia ermetica di Ungaretti, la poesia di Salvatore Quasimodo, le sue traduzioni dei lirici greci, illustrava le linee della poetica di Baudelaire, di Mallarmé, di Valéry, di Rimbaud, di Claudel, di Proust, di Eliot, tutti autori su cui ritornerà nei saggi successivi. E poi pubblicava le note critiche fondamentali sulle poetiche contemporanee. Gavazzeni, dal canto suo, postillava ed estendeva il discorso di Anceschi in ambito musicale e rifletteva sul rapporto fra parola e musica negli 11 saggi scritti dal 1936 al 1945. Nel primo, Idea della Poesia per la Musica, del 1935, Gavazzeni stabilisce alcuni punti fermi a proposito della relazione tra musica e parola a cui ritornerà nei saggi del ‘41 e del ‘45 per ribadire le intuizioni anteriori con nuovi esempi, suffragati dalle opere dei contemporanei. Il primo punto è l’incipit del primo saggio e poi tutti gli altri sono estrapolati dai successivi: 1) “Ai giorni nostri, nelle composizioni che non riguardano il teatro d’opera, i rapporti tra musica e poesia vivono d’una esistenza mutevole, capricciosa, esposta agli estri di gusti e di culture multiformi […]”.25 2) “Non tutte le opere poetiche possono essere musicate. Per Gavazzeni la poesia di Dante, Leopardi, Foscolo è di una musicalità assoluta, ha una sua unità di canto e parola che non può essere valorizzata dalla musica. Al contrario “nelle interferenze tra musica e poesia trovata da Debussy nelle sue liriche vocaliche, […] l’accostamento assume valore di compenetrazione tra i due elementi cui il diverso mezzo espressivo non toglie certo affinità. Il musicista inclina verso i poeti del suo mondo spirituale, e la parola o il verso compiuto vengono assunti in quanto mezzo attraverso il quale giungere ad un risultato unitario”26. 3) Nel saggio Ancora sulla parola e il suono, scritto nel 1941, Gavazzeni parte dalle osservazioni al volume di Anceschi Saggi di poetica e di poesia27: “La lirica è certamente anche per noi «storia del cuore dell’uomo». Ma tale idea, ormai, implica all’interno delle distinzioni: la «storia del cuore» non può essere attuale e neppure deve essere risolta in Diario o in Narrazione: essa deve avere una assoluta condizione di canto. Di qui tutta la contemporanea ricerca del linguaggio, e la Poetica della parola; poi la riscoperta di un tutto intimo e quasi privato linguaggio poetico, e della presenza attiva della voce”28 . 4) Infine, al musicista basta captare una parola, un suono per scoprire la sua musica interiore ed enucleare il proprio linguaggio musicale. La parola, dice Gavazzeni, è in musica l’intervallo: “cioè il passare da nota a nota, equivale alla durata della parola così come la nota sta alla sillaba”29. Questi brevi cenni ci mostrano una profonda condivisione da parte di Gavazzeni del pensiero critico dell’amico che delinea “la ricca fenomenologia delle poetiche artistiche e letterarie, la loro teoreticità sempre nuova dentro l’orizzonte prammatico che le caratterizza”30. A questa sintesi del pensiero anceschiano operata dal poeta Alfredo Giuliani, si deve aggiungere il prosieguo: “(La poetica) è una teoria del fare, una scelta determinata di regole e di tecniche, un gusto pronunciato per una certa tematica, un indirizzo di stile (o un’inclinazione a mescolare più stili), la ripresa di una tendenza del passato, e così via. Le poetiche, i modelli teorici sono innumerevoli. O così sembra. Ma prendiamo, per esempio, un poeta. Le sue idee esplicite sul fare poesia saranno significative e ci aiuteranno nella lettura di ciò che scrive. Però ci aiuterà ancora di più a prefigurare nel suo modo di 25 G. GAVAZZENI, Parole e suoni, il Balcone, Milano, 1946, p. 6. Ibidem, p. 11. 27 L. ANCESCHI, Saggi di poetica e di poesia, con una scheda sulla Swedenborg, Firenze, Parenti, 1942. Evidentemente Gianandrea Gavazzeni si riferisce a saggi scritti nel ’34 e ’41 che aveva avuto occasione di leggere. 28 G. GAVAZZENI, Parole e suoni, cit., p. 103. 29 Ibidem, p. 114. 30 A. GIULIANI, La vita della poesia nello specchio della critica, in Laboratorio di Luciano Anceschi, Pagine, carte, memorie, cit., p. 38. 26 8 pensare l’atto di comporre in versi, di capire le intenzioni operative che agiscono implicitamente nella sua scrittura”31. Nei due saggi I luoghi del musicista e Le ragioni native del musicista, esplicitando i modi della sua ispirazioni musicale, Gavazzeni mette a punto anche il suo linguaggio poetico. Pur ricorrendo alla terza persona, parla sempre di sé. Non facili sono stati nella sua vita i rapporti con il suo “io furioso” che cercava di tenere a bada chiamandolo come Pascal. “L’io è detestabile32. A questo proposito è opportuno citare l’affermazione di Anceschi: Non conosco un’estetica che non porti in sé anche un’etica, e viceversa”. Da questa affermazione perentoria nasce l’imperativo morale di Anceschi nei confronti di se stesso e degli altri: quello di dimostrare nei propri scritti e nella propria vita onestà intellettuale ed etica, in Gavazzeni poi il suo diario intriso di impeto moralista raccoglie istanze etiche così forti che più d’uno lo ha avvicinato a Montaigne. «Mi sono fermato, in altra occasione, sugli effetti di quello che si è soliti chiamare ambiente. Ne è uscito qualche risultato, qualche indicazione pratica. Ma l’ambiente va inoltre considerato per i suoi temi meno ponderabili, per quel che rimane sospeso nell’aura: un ambiente morale, intellettuale, poetico, legato al costume che è valso a dargli origine, a caratterizzarne la sigla. Il costume medesimo di questo ambiente è nato dalle abitudini; e le abitudini dalle musiche, dai talenti dei musicisti legati a quel mondo da pratiche di vita, da norme di esistenza artistica. Per un musicista che si trovi a nascere, a evolversi, a vivere, pur dopo grande numero di anni, in quell’ambiente, entro quelle antiche norme, c’è la possibilità di tutta una genesi. Ed essa andrà da una tradizione di musiche, di musiche sonate e cantate, sacre e profane, drammatiche o idilliache, alle fogge d’una cultura, ai modi di esprimerla, di vestirsene, in mezzo all’abitudine civile di una città, di una istituzione, d’un singolo teatro. E non si fermerà qui la vena di tale genesi. Accanto alla tradizione di musiche o di pitture, ci sono i colori della città, del luogo dove tale struttura è cresciuta, è durata, maestra per intere misure temporali. Colori di muri, di pietre; pietre fulve e grigie, mattoni rossi, decorazioni in cotto. Torno ai limiti d’un’arte letteraria e poetica, d’un circolo e d’una scuola, nella genesi di quel musicista, c’è la parlata viva, gli accenti, le inflessioni, di quanti vivono intorno a lui. E più marcatamente nelle città e nei luoghi meno battuti dai movimenti di varia migrazione, nei siti meno affetti da cosmopolitismo. Dove la gente è uguale da gran tempo. E c’è una dignità, un modo, in tutti, vetustissimo e agile, articolato. Quello che si chiama il modo civile di vivere e di esprimersi, nei vari rapporti umani, secondo caratteri definiti, chiusi in una forma, con una loro faccia scolpita e viva […]33. Non bastarda la voce del musicista che ascolta, in sé, le voci di una natura, di inclinazioni uscite da lui uomo, da lui cresciuto su un determinato pezzo di terra. Possiamo difenderlo con sincerità. Difenderlo con tenacia. Sicuri di non perdersi nei sogni, di non essere ingannati da fusioni spurie, come può avvenire quando un linguaggio si intorbida in altri linguaggi, quando l’espressione di un’arte sconfina in zone non sue. Letteratura e musica. Musica e pittura. I pericoli si perdono. I pericoli passano alla stessa stregua di tutti quelli che ostacolano, che mordono la pagina di un artista. Basta la voce di lui sia pura, che sia accanimento di vita il suo, che un valore, di qualunque misura, posto in qualunque termine, abbia i suoi segni tutti realizzati, tutti compiuti. E’ la sua verità, infine a strappare un linguaggio, a frugarlo, a impadronirsene; perché soltanto nella sua pienezza si scoprono le possibilità di perfezione, e la bellezza, anche sulla vena delle influenze e dei legami nativi può andare oltre l’aspirazione, fermarsi, rimanere sulla forma concreta. Musica così che sta nell’anima delle cose cresciute intorno ad un musicista, venute da altre cose antiche, su fili atavici. La voce di quest’antichità, nei limiti come questi, è forse il solo modo perché lembi d’esistenza, intuizioni e visioni non fuggono via, non si frangono al primo ostacolo. Il modo, per un musicista, di fermare una sua norma»34. 31 Ibidem, p. 38. La massima 494: Le moi è haїssable. Vous Miton (amico libertino e teorico dell’onestà), le couvrez, vous ne l’ôtez point pour cela: vous êtes donc toujours haїssable, (L’io è detestabile. Voi, Miton, potrete coprirlo, ma non strapparlo via: restate, dunque, sempre detestabile). In Pascal Pensées, Libre de Poche, La classique, Paris, 1991. 33 G. GAVAZZENI, La casa perduta, cit., p. 46. 34 Ibidem, p. 52. 32 9 Nel libro Gianandrea Gavazzeni, musica come vita a cura di Luciano Alberti e Giovanni Gavazzeni, il saggio di Silvio Cerutti e Alessandro Solbiati esprime un giudizio critico sulle composizioni del maestro. La sua opera compositiva è divisa in tre periodi: “La prima fase di apprendistato, occupato dal balletto Il Furioso nell’isola di San Domingo,35 dall’Interludio tratto dall’Oratorio “Canti per Sant’Alessandro”36, dal Dialogo per tenore a baritono, tratto dall’opera Paolo e Virginia37, nonché dal Concerto per violino ed orchestra, ed anche il Concerto in la, per violoncello ed orchestra”38. Composizioni giovanili si possono considerare La morte di Dafni; Sonata per violino;; Il Preludio Sinfonico (1929) eseguito al Teatro Donizetti; ripresentato Teatro Donizetti nel 1934 e poi al Festival di Venezia nel 1941. Proponiamo qui la lettura di una pagina di Gavazzeni in cui ci descrive la nascita dell’oratorio di Sant’Alessandro. «Il punto culminante; il punto pretenzioso. L’ho già detto prima, però, voglio additare un modello di viver musicale. Soltanto, intendo fornire alcune giustificazioni, dopo tanto scrivere a proposito di altri, a me stesso, prima: ad alcuni amici che vogliono ascoltare. Da qualche anno in qua un gruppetto di lavori che muovono un indizio, che inducono a fissarsi su un particolare ambiente: Canti per Sant’Alessandro, ch’è una cantata sacra, un oratorio per voci soliste, voci corali, orchestra. Sant’Alessandro, patrono di terre bergamasche, è in cima a un campanile di chiesa, tutto in ferro, con una bandiera. E una colonna, ancora, davanti a un’altra chiesa, dove gli fu mozza la testa dai pagani. Un coro in festa in cui si parla di santuari, di festività sacre, di rogge, torrenti, bestie che saltano libere sui prati. Al modo dei contadini. E intanto l’Alleluja, alla fine, con l’improvviso raccoglimento che cala sulle sagre, dopo il chiasso. Una scena che potrebbe essere di teatro; i pagani tumultuano, un tiranno vuole che Alessandro faccia sacrificio agli idoli. Alessandro tira una pedata maestosa e i vasi, i tripodi, i manichini vanno all’aria come pentole. Nuovi tumulti dei pagani. Interludio con una voce femminile. Vi si parla dell’Adda, il più bel fiume lombardo, il più ricco di anse, sponde, isolotti carichi di betulle. Alessandro, nel fuggire lo attraversa camminando sulle acque. Fugge verso Bergamo. Gli appare così come la vede il viaggiatore al bivio della strada per Venezia. Terra di Venezia anche qui, ma libera, la città, e da Milano e da Venezia. Era nata per essere di Bartolomeo, ma non fu mai sua. La cometa non si congiunse. Poi, nell’oratorio, la scena del martirio, con cori di soldati, come in quelle pitture scenografiche, rozzissime, che stanno sui sacrati di paese. Santa Grata che porta il capo del martire su per le strade verso città alta. Nel passare da un bosco costellato di pigne, detto Pignolo, dalla macchia di sangue di ogni goccia che cade crescono gigli. Quei gigli che le figlie di Maria portano in processione. E santa Grata va su, sempre su, passa dalle porte dove più tardi spiccherà il leone, traversa la città, sino a un podere suo, fuori sui colli: e lì seppellisce il capo del martire. C’è ancora il poderetto. Silenzioso: né orto né giardino, tutto cespugli. Infine un coro di gloria. Al modo come si canta in questa città piena di gente che prega»39. 35 Il Furioso nell’isola di San Domingo (tratto da un’opera di Gaetano Donizetti, librettista J. Ferretti, è rappresentato per la prima volta al Donizetti nell’ambito del “Teatro delle Novità”. Balletto in due quadri. Adattamento scenico e musica: Gianandrea Gavazzeni. Prima ballerina: Edda Carignoni. Primo Ballerino: Dino Cavallo. Dirett. d’orch.: Gianandrea Gavazzeni. Coreografia: Carlo Tiben. Scene e costumi: Sandro Angelini. Petrassi era in teatro per la prima e scrisse “Ed ero a Bergamo al suo debutto, nella sua città, nel suo teatro: dirigeva nel contesto del Teatro delle Novità oltre a due opere nuove in un atto di Franco Margola e di Vincenzo Davico, un suo balletto, Il Furioso all’isola di San Domingo, tratto dal libretto dell’opera omonima di Gaetano Donizetti, e poi la Suor Angelica di Puccini, un esordio sofferto, tesissimo: dirigeva tremando, quasi traumatizzato da questo primo incontro con un autore che sarebbe poi diventato il suo pane quotidiano, che avrebbe scavato fino alle fibrille”, in Scena e retroscena, cit. p. 8. 36 Canti per Sant’Alessandro, Melodramma da concerto per soli, coro e orchestra, costituito da: I. Preludio, II. Coro di festa, III. Scena con recitativo e coro di pagani, IV. Interludio con voce femminile, V. Scena di Martirio, VI. Finale. 37 Paolo e Virginia, opera in 1 atto, libretto di Mario Ghisalberti, rappresentata al teatro Donizetti per la Fiera del 1935. 38 SILVIO CERUTTI E ALESSANDRO SOLBIATI, Il compositore, in Gianandrea Gavazzeni, musica come vita, a cura di Luciano Alberti e Giovanni Gavazzeni, Arte & Grafica, Bergamo, 1999, p. 118. 39 G. GAVAZZENI, La casa perduta, cit., pp. 57-60. 10 “[Il] periodo di mezzo40 che parte da Canti di operai lombardi, comprende i notturni di bevitori bergamaschi41, Il Coro di contrabbandieri di grappa i primi due concerti del Cinquandò,42 la Bergamasca, e arriva fino alla Sonata da casa per violino, pianoforte e archi”.43 Per quanto riguarda il periodo di mezzo i critici sottolineano la significatività e la modernità dell’idea compositiva. Gavazzeni stesso avverte nella nota anteposta alla partitura Canti di operai lombardi: “Il titolo di questa composizione non si riferisce al suo intendimento programmatico o descrittivo. E neppure sottintende l’uso di materiali tematici popolareschi. Sta semplicemente ad indicare l’indole narrativa del movente ispiratore. Non per gusto letterario, ma per necessità poetica”44. Infine, per quanto riguarda i due primi concerti del Cinquandò, Silvio Cerutti e Alessandro Solbiati affermano che in essi “si tocca un equilibrio importante in una conquista tecnica ottimale e la spinta ad usare nuovi sentieri per dar vita a qualcosa di più significativo. Siamo in presenza di un ciclo di lavori per orchestra e sappiamo benissimo che intanto venivano alla luce gloriosamente i Concerti analoghi di Goffredo Petrassi”45. Il coro di contrabbandieri di grappa trasfigura le voci degli avvinazzati uditi nella cascina della nonna di Martinengo, incarnano il popolaresco, il grottesco tanto amato dal Maestro. Ma sentiamo come Gavazzeni descrive l’incanto divertito all’ascolto delle voci ferrose degli ubriachi: «Passano avvinazzati in strada, a sera tarda. La strada che vien giù dal paese con una grande curva, e dopo, qui sotto, comincia ad andare dritta tra rogge e infilate d’alberi, diritta per chilometri. Avvinazzati sempre sentiti, sempre seguiti con attenzione estrema perché il loro grottesco, la loro deformazione, sono grottesco e deformazione che stanno sulla verità, sul succo del tema. Sono la somma di tanti caratteri che s’incrociano e si urtano. È la congiuntura. Avvinazzati, dico, avvinazzati che cantano. Canzoni popolari, frammenti magari improvvisati nell’impeto del vino, e canzoni d’autore, anche; canzonette, lanciate da uno strumento all’altro, giunte attraverso inverosimili trascrizioni sino a questi avvinazzati che passano. Lo strano si è che non ho mai avvertito gran differenza tra la canzone popolare e la canzonetta, quando vengono fuori da queste voci sconquassate e ferrigne. E ho pensato più volte alle ragioni, speculando sulle diversità, sulle assonanze di sillabe e di suoni: quel ferro e quella ruggine delle voci. Credetti capirlo l’ultima volta. Sentii, tra sonanti accenti, calar tutta l’importanza delle voci, sulla loro qualità, su quel raschio e quel rombo che passava. E perder forza invece la melodia popolare vera e propria, l’invenzione anonima svuotarsi, fungere come da pretesto. I medesimi accenti, la stessa forza vocale piombava anche sulle curve volgari della canzonetta, sulle sue combinazioni sguaiate, puerili. Le immagini, l’eco di tutto quel vocio era forse il medesimo. Ascoltando con emozione sentivi ch’era l’immagine, la verità stessa delle voci, la loro qualità grave e gagliarda a dare il senso vivo di un rapporto, a dare il senso di tutta l’altra verità che s’intravedeva appena. Non la melodia popolare, ma l’uomo e la donna che la intona. L’increspatura e il ritondo, l’onda e il taglio acre di loro voci a buttar giù convenzioni, a demolire la cifra del color locale, della melodia caratteristica, della maniera popolaresca. Una frana di muri e calcinacci; e sopra loro, le voci d’argento, le voci di caverna, che lanciano gridi e vocalizzi. Per me la realtà di un canto popolare di una regione è questa. Da un’altra parte sarà diverso. Anzi è senz’altro diverso, e in molti casi. Si pensi cosa significa canto popolare per i russi. Significati, pesi diversi in Mussorgsky o in Rimsky Korsakow, ma l’essenza, il fondo musicale è uguale, ha un suo valore, un carattere. Si citi Kodàly, o Bartôk, ancora. O De Falla. Ma poi, vedi un po’ con Janàcek è tutto diverso, tutto all’opposto; e anche in lui vale l’immagine che il canto popolare gli suscita, valgono i gridi, gli strappi delle voci, la parlata, il discorrere. 40 Il periodo di mezzo occupa gli anni 1937-1944. La prima avvenne alla Fenice nel 1940, direttore Franco Ferrara, durante la sovrintendenza di Petrassi. 42 Il primo concerto è dedicato alla memoria della nonna Teresa Monzini Borella, il secondo al nonno Antonio Monzini, il nonno, il capo della caccia. 43 S. CERUTTI E A. SOLBIATI, Il compositore, cit., p. 119. 44 G. GAVAZZENI, cit., p. 147. 45 Ibidem, p. 156. 41 11 Ora intendo dedurne che nella formazione etnica di un musicista la melodia, il ritmo caratteristico della regione hanno funzioni diverse, funzioni che nemmeno si somigliano. Come elementi che non abbiano mai avuto nulla in comune nell’argomento stesso. Non si nega nulla con questo: si vogliono riconoscere varie specie. E dove ci si fermi su una di queste siamo, di botto, sull’autobiografia, sulla confessione»46. “Il terzo periodo, che parte dal 1944 e giunge fino alla decisione di desistere dallo scrivere, include Due Arie religiose, pubblicate nel ’44, Le Due sonate in tempo solo, del 1945, Il terzo concerto del Cinquandò, del 1949, e sembra volere indicare ch’è venuta meno nel musicista la fiducia di potere dire qualcosa che si inserisca nel filone ormai consolidato della musica contemporanea. Infatti, proprio in quell’epoca Gavazzeni si distacca dalla corrente presa dalla produzione europea e pare aver in sospetto ogni forma d’avanguardia o di modernità, per cui assistiamo ad un vistoso ritorno all’accademia. La tecnica s’è fatta più agguerrita rispetto agli inizi, ma coesiste, con l’abilità consumata, un desiderio, o un bisogno di tornare indietro dal punto di vista stilistico che denuncia una scelta ideologica”47. Forse non solo ideologica ma anche frutto di delusioni. Al saggio Idea della poesia per musica, scritto nel 1936, aggiunge, prima di essere editato, una postilla scritta nel 1946 che conclude così: “Mi piace chiudere la presente nota con un aneddoto personale: avendo messo in musica cinque poesie di Beniamino Dal Fabbro per voce di soprano e pianoforte le feci conoscere nella veste musicale al poeta, che è anche un musicista, e quindi nella condizione migliore per giudicare il rapporto. Finita l’audizione chiesi a Dal Fabbro che impressione suscitasse in lui, autore delle poesie, l’ascoltarle per la prima volta con l’aggiunta della musica: «di una sopraffazione» mi rispose con tono asciutto e malinconico l’amico”. A proposito dei suoi Canti di operai lombardi, Gavazzeni riferisce i commenti di un direttore d’orchestra: “«Gavazzeni mio, questa è ‘na partitura da scappellott!», mi disse il direttore d’orchestra. Gli risposi che aveva ragione. E l’aveva senz’altro, da un certo punto di vista. Avrei dovuto spiegargli tante cose: grezzi accoppiamenti orchestrali, striduli timbri, pesantezze di ottoni, anche sporcizie di trame strumentali: pigrizia mi venne addosso, vincendomi”. Che delusione per Gavazzeni, nel costatare di non essere riuscito a trasfigurare in musica quel mondo amato. Eppure, nonostante lo scoramento iniziale, egli non cessa di dare ragione delle sue “necessità d’artista”. «Un fermento roco e sotterraneo spinge alle ultime giustificazioni. Non vogliono salvare un’esistenza musicale, non pretendono essere tanto forti da portare valori fermi dove, se anche se ne scorgono, sono troppo soggettivi e scossi da troppe parole, da troppi pretesti. Le giustificazioni estreme vengono spinte su dalla necessità di affermare sino all’ultimo quanto può esserci di vero, di vivente nel rapporto tra la carne e la zolla, tra lo spirito di un paesaggio. Individua se stesso, il musicista, in quel rapporto. Ma coinvolge i suoi simili, quelli che gli vivon vicini, poco discosto, operai o contadini o artigiani. Trascina con sé i caratteri di una regione, della sua regione; il modo come la gente lavora. Le officine piene di ferro e di fumo, di forni che colano; e appena fuori geometrie di campi, terre tutte brune o chiare, a riquadri, come mosaico. E poco più in là il gran fiume, l’anima cantante, il moto corrente di quel pezzo di mondo. In quest’ordine di cose il lavoro, anche il lavoro degli operai, è una disciplina, una forza cupa, una fatalità. Nessun lombardo può ignorare la potenza, l’incombere del lavoro manuale. Entra anche nella vita del musicista; ne occupa i pensieri, la fantasia. Bisogna dedicargli parte di sé stessi. La parte più forte di noi stessi. È un obbligo. Chi viene meno manca alla sua umanità. Un ramo secco da distruggere. Non più piacere del pittoresco, gusto di canzoncina casalinga, le ragioni native possono inchiodare un uomo come a una schiavitù, a una macina. Se è fatto di quel costrutto umano egli non potrà star che lì. Il solo modo non dico di salvarsi, perché sarebbe credersi capaci di portare qualcosa sulla riva, ma il solo modo di picchiare ancora, di lavorare. Chiudersi le braccia intorno al capo per non sentire né vedere altro. Dimenticando amici e nemici»48. 46 G. GAVAZZENI, La casa perduta, cit., p. 56. S. E A. SOLBIATI, Il compositore, cit., p. 119. 48 G. GAVAZZENI, La casa perduta, cit., p. 64. 47 12 Dal canto suo Anceschi pubblica nel 1945 Idea della Lirica, nelle edizioni di Uomo che porta la dedica: “a Gianandrea Gavazzeni, dilettissimo amico”. In esergo una citazione di T.S. Eliot: “Il passato è trasformato dal presente quanto il presente dal passato”. Nel libro i seguenti saggi: “Pretesto sui lirici greci”, pubblicato come introduzione ai Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo; “Cenni per una lettura dei primi lirici”, pubblicato come introduzione ai lirici minori del XIII e XIV secolo, scelta fatta in collaborazione con Salvatore Quasimodo per le rare edizioni della Conchiglia (1941); “Poetica dei lirici nuovi” saggio dedicato ad Antonio Banfi e pubblicato come prefazione a Lirici nuovi, antologia di poesia contemporanea, edizione Hoepli, 1943; “Nota a Benedetto Croce”, inedita. A proposito della lirica Anceschi scrive: “Diversa dall’etica, la lirica è, infine veloce e sintetica e la parola - per la quale qui si è accennato solo a qualche possibilità e disposizione di musica - è il centro crepitante di una straordinaria potenza di vita, è ipotesi di universo, quasi vago anticipo di verità”.49 Anceschi mostra gli “sviluppi lietissimi della civiltà poetica del novecento e pone “attenzione estrema ai particolari profitti e destini da Ungaretti e Montale e Luzi”, chiarisce inoltre che “Lo scopo più alto della attività critica non stia tanto nel giudizio rapido e sommario, ma in una volontà di cogliere - non senza la presenza continuamente vigile di una volontà educata al discernimento - le minime giunture dell’arte nel loro sviluppo, nella loro vita, in modo da cercare di rendere la durata reale delle esperienze del gusto e la riflessione sulla poesia”50. Affrontiamo brevemente due altri argomenti di cui abbiamo sentito discutere i due amici nelle lettere scambiate: si tratta della traduzione dell’opera di Eugenio D’Ors che apparirà per i tipi di Rosa & Ballo con il titolo Eugenio D’Ors e il nuovo classicismo europeo. Il barocco Anticipata da alcune pagine sulla rivista Critica del 1928 La Storia dell’età barocca in Italia di Benedetto Croce uscirà l’anno successivo. Il giovanissimo Anceschi (aveva allora 17-18 anni) ne legge alcune pagine sulla rivista, (il libro, come abbiamo sentito, se lo sarebbe fatto prestare dall’amico Gianandrea) e resta deluso dal tono derogatory, sprezzante di quelle pagine in cui il barocco perde “la complessità vitale” che lo caratterizza. Negli anni successivi, forse per l’influenza esercitata su di lui dal suo professore di estetica all’Università, Antonio Borghese, Anceschi, scopre l’opera di Eugenio D’Ors. Il giovane studente universitario resta affascinato dallo studioso catalano che possiede una visione del movimento più ampia di quella crociana, e lo indaga sia a livello europeo sia nell’ambito di tutte le arti: la pittura, l’architettura e la musica. Siamo portati a credere che Gianandrea Gavazzeni, il quale per “igiene mentale” iniziava le sue giornate eseguendo per un’ora al pianoforte partiture di Bach, abbia introdotto l’amico nel mondo della musica barocca. Anceschi si accosta al Barocco con estrema apertura mentale, in modo antidogmatico e riesce a coglierlo nelle sue manifestazioni polimorfe che, tuttavia, inquietavano il giovane Anceschi così come avevano inquietato il cattolico D’Ors per il quale “il Barocco si riassumeva nel «segno estetico del vitale, del femminino, del peccaminoso», da vincere, almeno ottativamente, con la casta luce della ragione e delle leggi della logica”51. Da parte sua Anceschi, non poteva neppure sottrarsi all’attrazione per il razionale - egli era allievo di Banfi, padre del razionalismo - sotteso all’ordine lineare dell’opera poetica di Valéry, di Eliot ed anche di Renato Serra. Il Barocco, antitesi del Classico, non era «il frutto di anime vuote e fiacche», come pensava Croce, suscettibili di «produrre gonfiezza, artificiosità, stupefazione» ma, era generatore di energie, impulsi, fermenti vitali e prefigura nei suoi movimenti spesso irrisolti l’inquietudine e l’angoscia dell’uomo contemporaneo. Grazie a studi e ricerche durate anni, Anceschi scopriva nel Barocco “i germi più segreti che per 49 L. ANCESCHI, Idea della lirica, cit., p. 64. Ibidem, p. 72. 51 ANDREA BATTISTINI, Gli studi di Luciano Anceschi sul Barocco in Laboratorio di Luciano Anceschi, Pagine, carte, memorie, cit., p. 239. 50 13 imprevedibili e come labirintici tramiti matureranno nella contemporaneità in cui viviamo”52. Il tema del barocco è argomento importante nella lettera scritta da Gianandrea dal lago Maggiore. «Baveno, 27 novembre 1944 Carissimo, grazie per la tua lettera che ho molto gradito per il tema interessante che la informava e per le notizie che mi davi circa i nuovi tuoi scritti. Sono particolarmente lieto che tu abbia vinto lo scoramento dell’anno scorso con la ripresa di attività di quest’anno. Il tema del Barocco poi mi interessa assai per tutti i riferimenti e gli allacci musicali che contiene. Nonostante il Croce - che con la sua consueta ottusità non se n’è mai accorto - il barocco fu per la musica una delle età più ricche e [favolose]. Tutte le epoche successive nascono di lì; tutte le forme strumentali e sinfoniche (anche lo strumentalismo del Gabrieli che cronologicamente appartiene al ‘500, per me è già Barocco) e teatrali; la cantata, l’oratorio, il vero senso della parola e del suono accostati: tutto insomma, nella musica, prende nuovo senso e nuova grandezza col Barocco. Nasce, infine, la musica moderna nella piena e molteplice estensione del termine. Quanto ai nomi ti basterà scorrere la pagine della Storia di Pannain e Della Corte - che è ottima per una panoramica del ‘600 - per accertarti di quale forza siano. Sono assai ansioso di leggere i tuoi scritti in proposito. La risposta al presunto “grande partenopeo” poi mi incuriosisce moltissimo. Indubbiamente quel senso di grandezza di cui mi dici nella lettera esiste; ma pesante e odiosa però. Non c’è scampo siamo […] delle grandi celebrità dell’epoca contemporanea! Io ho finito oggi il 1° tempo della Sonata per flauto e pianoforte. Non so ancora come sta venendo questo nuovo lavoro; la precedente Sonata da casa per violino e archi è piaciuta molto ad amici musicisti. Intanto è nata ancora una prova rilkiana: ho musicato cioè l’Annunciazione. Forse dovrò venire qualche giorno a Milano nella prossima settimana. Chissà che ci si veda. Poi, nulla succedendo in contrario, dovrei esserci per un po’ dal gennaio in avanti per la stagione d’opera della Scala. Ti ho scritto una cartolina a Mozzo. L’hai avuta? Vedi se puoi farmi quel favore che ti chiedevo (pregandoti scusare la seccatura). L’idea della collana degli studi musicali l’ho sempre. E vedi anche tu se puoi combinare qualcosa con qualcuno degli editori che hai sottomano. Se la facessi però la vorrei del tutto disancorata da criteri divulgativi o panoramici. Volumi isolati su musicisti o su argomenti musicali. Due o tre volumi all’anno. Intanto avrei già qualcosa di predisposto: il compositore Nielsen di Bologna cominciava qualche mese fa a tradurre un “Bruckner”; un altro amico residente a Milano ha aderito a tradurmi un “Franck” di Vincent d’Indy. L’autore di Cento anni di musica moderna mi dava una grossa sua raccolta di scritti assai importanti per la storia del costume e della cultura musicale in Europa in questi ultimi vent’anni. Di lui ancora potrei anche avere un volume di scritti mozartiani. Poi ho messo gli occhi su un ottimo “Ravel”. Insomma il criterio sarebbe questo che traspare da questi pochi nomi che ti ho citato. Vorrei anche poter far tradurre il “Busoni” di Dent. I libri musicali non sono più un debito per gli editori, e sempre meno lo saranno in avvenire. Mi diceva Grassi che il libro loro in testa alle vendite era proprio quello musicale. Certo che con la “Rosa und Ballo” o con la Ballo-haus che dir si voglia non potrei intendermi. Perché l’avversione di Ballo per me dev’essere ancora superiore alla mia per lui. Credilo: è un colossale dilettante! Ciononostante come persona mi può anche essere simpaticissima. Il mio giudizio e il mio sentimento vanno soltanto al suo atteggiamento estetico. Tra i vari editori non potresti vedere quali possibilità ci sono per il mio volume Difese della musica? Sono questi “studi” sui contemporanei che vorrei proprio veder fuori anche perché precisano molto della mia formazione critica; inoltre interessano una vitalissima parte - quanto c’è di meglio - della nuova musica italiana. Vedi se puoi aiutarmi, poiché chi lo sa mai se i fratelli Parenti riprenderanno l’attività editoriale. Qualche lettura: letture religiose in primo piano in questo periodo: Sant’Agostino e Tommaso da Kempis. Poi per svagarmi, nelle tetre e lunghe e angosciate serate lacustri, un po’ di Keller, di Meredith, di Stendhal. Un libro che mi ha interessato e a tratti appassionato: La crisi della civiltà del 52 Ibidem., p. 242. 14 Huizinga. Leggesti l’Illusione della filosofia della Hersch? Arbitrario ma sofferto, e con dei tratti veraci qua e là. Mi par che testimoni un sentimento della filosofia, più che un concetto logico. Irrazionale quanto mai, insomma. E delle recenti abortite poesie di Gatto che ne dici? Veramente brutte, mancate: e che sgomentano anche per i suoi proseguimenti futuri. Uscirà più nulla dei volumi che attendevamo di Ungaretti? Quello con le note e lo studio di De Robertis dato come già uscito nel: dello53 stesso autore dei recenti Studi di Le Monnier? Ne sai qualcosa? Molti cari saluti Gianandrea» La linea Lombarda L’ultimo argomento sul quale i due amici “lombardi” sono spesso ritornati è la definizione che in quegli anni si andava facendo della letteratura e pittura lombarda. Il lavoro di ricerca confluirà poi nella pubblicazione del libro: Linea Lombarda, Sei Poeti. Magenta, Varese, 1952. I sei poeti presentati sono: Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba. L’idea della linea lombarda prende forma intorno alla “poetica degli oggetti” che Anceschi, sempre nell’intervista di cui abbiamo parlato, delinea così: “Io pensavo ad una poesia molto diversa da quella che si faceva allora a Firenze, una poesia che non raccogliesse il senso della nostra vita intorno ad allegorie preziose, che non usasse come strumento principe l’analogia, ma si concentrasse su immagini di cose. Di cose. Sono queste le caratteristiche di una poesia che ho chiamato “lombarda”, non in virtù di meschine concezioni regionalistiche ma in base a una visione ampia e assai comprensiva della realtà letteraria. Diciamo pure “nordica”. Lo hanno dimostrato studi su autori diversi tra loro e lontani nel tempo - da Bonvesin da la Riva a Parini a Sereni. Senza dimenticare che in quegli anni noi scoprivamo una pronuncia particolare e di gran rilievo, della stessa poetica, cioè Eliot”.54 Il suo pensiero è condensato nella formula: “si è europei se si è anche lombardi”. Non ci sorprende, perciò, che nel 1967, quando ormai da quindici anni insegnava all’università di Bologna, Anceschi, al momento della fondazione con un gruppo di amici di una rivista letteraria abbia scelto di intitolarla ai fratelli Verri. “Fare «il Verri» in quel momento - ricorderà negli anni Novanta Anceschi -, significò proprio avere il coraggio di ricostruire una letteratura disfatta e di cercare vie nuove”55. La “linea lombarda” si caratterizza per un côté realista, essendo ben radicata nel tempo e nei luoghi. L’arte ha, quindi, come tensione ultima quella di dare forma ai moti dell’anima di un individuo che tuttavia vive in un certo tempo e in certi luoghi. È d’uopo ricordare a questo punto Roberto Longhi, amico di Anceschi e di Gavazzeni, il cui apporto critico fu fondamentale nella rivalutazione internazionale di Caravaggio e nella valorizzazione della sua influenza sulla pittura barocca del ‘600 e della pittura lombarda. Celeberrime ed imprescindibili le due mostre milanesi da lui curate sull’artista bergamasco e sui suoi seguaci, “Caravaggio e i caravaggeschi” nel 1951 e “I pittori della realtà in Lombardia” nel 1953. Per ridire “la vita misteriosa delle cose” che abitavano i paesaggi della sua terra, Gavazzeni accetta di ripubblicare nel 1988 saggi scritti cinquant’anni prima, specificando nel titolo dato al volume pubblicato da Lubrina, La casa perduta, il sottotitolo Saggio di prose lombarde. Era un modo di ricordare i tempi lontani, le discussioni fatte con l’amico, la temperie da cui erano emersi quei saggi, pienamente “lombardi”; ed Anceschi, critico-scrittore, riconosce alla prosa dell’amico il suo valore letterario. Gavazzeni, che aveva tanto cercato di rendere con le note “almeno l’orme, un’eco delle voci” del mondo della sua infanzia ormai scomparso, vi era riuscito pienamente con la parola. “Gavazzeni è uno scrittore”, afferma sicuro Anceschi nella lettera del 1988: riconoscimento tardivo e subito dimenticato. Tant’è che Gavazzeni è passato alla storia come “direttore d’orchestra e non 53 Sic, in Laboratorio di Luciano Anceschi….., cit., p. 245. L. ANCESCHI, Che importa chi parla, cit., pp. 23 - 24. 55 Ibidem, p. 75. 54 15 come scrittore”. Sulle ambiguità del suo mestiere di direttore d’orchestra scriverà nel libro La bacchetta spezzata, che appare nel 1987, ma la sprezzatura divertita la confida a Corrado Stajano in un’intervista rilasciata alla vigilia della pubblicazione de Il Sipario rosso, pubblicato poi da Einaudi nel 1992: “Devo essere sincero, pur nella mia “dissimulazione onesta” che non riguarda mai i sentimenti più profondi come l’amicizia. Quel che accade, se interferisce sulla nostra vita e ci ferisce, ci fa trarre un giudizio negativo o positivo sui tempi vissuti. È umano, troppo umano. Perché odio i moralismi? Se no, invece di fare quel mestiere da puttana che ho fatto, sarei andato nella trappa, avrei fatto il monaco. Lo chiamo mestiere da puttana perché uno che si presenta in pubblico a gesticolare in un alone luminoso con una bacchetta in mano è una puttana. Ed è una puttana uno che sfruculìa nei sentimenti altrui, uno che s’impossessa dell’amore di Rodolfo e di Mimì, dei capricci di Musetta, delle velleità di Marcello”56. Solo l’amicizia, di Anceschi e di altri, si salvava dal nullismo di Gavazzeni. Quest’ultima lettera, apparsa come introduzione al libro di Gianandrea Gavazzeni La casa perduta, saggio di prose lombarde57, mi pare che delinei bene nella sua aria un poco malinconica i modi e il senso di un’amicizia nata nella giovinezza e durata tutta la vita. Un’amicizia di cuore e d’intelletto che ha nutrito il pensiero di entrambi grazie al dialogo fecondo, intessuto di incontri pubblici e privati, allargati anche alle rispettive famiglie, alimentato da un intenso carteggio durato oltre quarant’anni. «Bologna, 3 aprile 1988 Caro Gianandrea, che cosa aggiungere alla chiarezza di questi precisi e distesi scritti che tu, con una sicurezza maggiore di quella che possiamo usare noi lettori, hai detto “saggi di prose lombarde”? Tu sai che l’aggettivo “lombardo” ha risonanze profonde nei giochi intricati della mia memoria; e non può che suscitare in me curiosità, calore, e, se mi permetti, affetto. È la seconda volta a distanza di decenni (fu uno dei primi numeri dell’«Aut Aut» migliore, più aperto che scrivo dell’amico Gavazzeni e all’amico Gavazzeni perché questo genere di scrittura tra noi ha sempre il sapore di una lettera. Credo che non avrei molto da togliere o da aggiungere; molte cose dovrei ripetere, mentre ora quell’aggettivo (“lombardo”) insiste a inseguirmi con assilli premurosi. Quel che posso dire, se mi è consentito di dirlo, è che Gavazzeni è uno scrittore. Lettori più pazienti di quel che posso essere io in questo momento, anche lettori più esperti di me nelle cose della musica, potrebbero non solo imparar molto, ma anche divertirsi nel cogliere le variazioni, i movimenti, le inquietudini di una scrittura sempre equilibrata e familiare, ma tutt’altro che semplice, piena di strati nascosti, e sempre così sottilmente legata alla “cosa”, anche con una straordinaria, minuziosissima, implacabile memoria visiva al limite fino a sfiorare l’elenco, un elenco pieno di sapori. Scrittore “lombardo”, insisto, con una sua tesa volontà di “fare i conti”, per dirla con Sereni, con alcuni oggetti e figure in cui ci imbattiamo, e sempre in quel gioco molto costoso tra l’intimità e le cose che è proprio di quei toni e di quei modi, anche nei massimi esempi. Ma, intanto, permettimi di ricordare che quasi ogni riga del tuo discorso mi riporta al tempo dei nostri incontri bergamaschi. Ecco, se ho amato una città, questa è stata Bergamo, dolcissima nei suoi fertili colli, con le sue antiche memorie intrise di una luce favolosa all’ora del tramonto, e tenace, e sveglia. E non dimenticherò certo mai le passeggiate da casa tua attraverso Sudorno fino al Pascolo dei Tedeschi con continue scoperte anche nel colloquio tra musica e parola, in quella calmissima terra, e quei silenzi prolungati, e le improvvise impennate; e la visita a certi remoti “roccoli”… Nulla ha potuto sostituire i colori di Bergamo, la città bassa vista da Sudorno con le sue luci sotto le nubi e la pioggia, e il gran muro di Santa Grata con le sue insinuazioni manzoniane, e la grazia corposa, intensa, piena si sapori di ogni cosa, e spero che questa grazia si sia salvata. 56 57 G. GAVAZZENI, Il sipario rosso, op. cit., pp. XV-XVI dell’introduzione. G. GAVAZZENI, La casa perduta, saggio di prose lombarde,57 pubblicate da Pierluigi Lubrina, Bergamo, 1988. 16 Intanto, si è salvata nelle tue “prose” dove una scrittura sicurissima si muove tra i lampi della memoria, vi prende l’avvio, e s’allarga alle vicende del costume, alle abitudini perdute, ai sapidi riti di una comunità piena di memorie. E tutto è inciso, ma poi anche disteso, sulla pagina con un affetto etico che non esclude l’ironia, una ironia tutta interiore, sfuggente, così rispettosa, così lombarda e civile. Non mi fermerò a segnalare alcune pagine, qua e là; talune di esse restano ferme nella mia antologia segreta, tutto il discorso è ricco di fermenti, ci sono movimenti tra una corposità vibrante e certi suggerimenti appena accennati, ma caldi, una musica continuamente ripensata. Le scelta dei brani che raccogli nel tuo piccolo libro sono tratte o sviluppi evidentemente del Diario (che è sempre il gran tesoro di questi ricordi e che tutti li comprende) e mi convincono per un tono continuo che passa di pagina in pagina, direi di riga in riga nelle diverse modulazioni dello stile, con una sua nordica garbatezza senza cedimenti, severa, e alla fine, piena di calore. Un Gavazzeni scrittore non è una novità o una scoperta per nessuno, suppongo; ma è, nel caso, una scoperta graditissima, tra le quiete invenzioni del Sudorno e le memorie fantastiche del Cinquandò, questa coerenza mobilissima, mentre certe nervature costanti risultano con pertinace sapienza, la sapienza di un lettore sterminato, attentissimo, e per niente corrivo. Queste “prose lombarde” sono, infine, nuovi “idilli” bergamaschi con un forte risalto di segreti che solo chi li conosce può intuire? Direi, invece, che qui l’idillio è la rivelazione dello stupore di un tema che nasconde infiniti segnali, che così resta per quanto è possibile svelato e, a suo modo, definitivo. Nel ricordare i nostri colloqui bergamaschi come tra le cose più intense dei miei anni migliori che ebbe la conversazione di Ungaretti, di Montale, di Quasimodo e di un mondo ormai lontano, mi fa piacere ritrovare in queste pagine i sapori perduti e ritrovati con tanta decisiva energia verbale e nitidezza di segno. Con particolare affetto rileggo lo scritto “sulle ragioni native” nella sua celata intensità; è del 1938, cinquant’anni fa, e forse lì è stato l’inizio della nostra amicizia. Tardi, per quel che mi riguarda, “abbiamo tirati i remi in barca”. Ma lo scrivere continua ad incantarci, mentre corrono andamenti sempre più corrivi; e noi continuiamo a tener fede ai sapori, agli strati profondi, a una misura, insieme oggettività e di intimità di una scrittura che ha avuto grande forza, che ha i suoi testi resistenti, e che per noi continua ad avere un senso vitale. Ti ricordo con l’affetto che sai Luciano Anceschi» Mimma Forlani Bergamo, 5 febbraio 2012 17