Circolo Ufficiali Marina Mercantile
Riposto
Storie e racconti di mare
Volume XI
Opere selezionate del Concorso “Fatti di bordo”
Sezione Narrativa del Premio Nazionale ARTEMARE
RIPOSTO 1999
Comune
di
Riposto
Provincia
Regionale
Catania
Storie e racconti di mare - 11 a edizione
PRESENTAZIONE
Nella prima parte di questo undicesimo volume della collana “Storie e racconti
di mare” vengono pubblicati i lavori selezionati nell’edizione 1997 del Premio
“Fatti di bordo”, concorso nazionale riservato a quanti operano o abbiano operato
nel settore della Marina militare, mercantile o da diporto.
Nella seconda parte del volume sono stati inseriti alcuni racconti presentati da
naviganti nelle edizioni del Premio Narrativa aperto a tutti sul tema “L’uomo e il
mare”
Premio Nazionale ARTEMARE 1997 - XXIII edizione
Sezione NARRATIVA “Fatti di bordo ’97” - XII edizione
La Commissione giudicatrice - presieduta dal prof. Orazio Licciardello e composta
dalla dott.ssa Betty Denaro (segretaria), dal Com.te della Capitaneria di Porto di
Riposto Ten. Vasc. Giovanni Gravina, dall’Assessore alla P.I. dott.ssa Mariella Di
Guardo, dal prof Enrico Carbone, dal Cap. D.M. Mario Di Pino e dal Cap.L.C.
Mario Giannetto - ha così deciso:
Il primo premio viene assegnato a:
Sergio Iezzi di Ravenna per il racconto “LE LUCI DEL PORTO”
«Delicato, poetico, quasi dolente, il racconto rievoca, più per ciò che suggerisce
che per ciò che rivela apertamente, la figura di un uomo che, senza clamori e senza
gloria, ha trascorso la sua vita vicina al mare, e l’ha in esso tragicamente conclusa.
Questa pacata figura di antieroe - o forse di silenzioso eroe quotidiano - le tragiche
circostanze della sua morte, che appare incomprensibile e beffarda, emergono
attraverso poche immagini, delineate con tocchi rapidi e accostamenti inusuali e
arditi».
Il secondo premio è andato a:
Firmino Perfetto di Sant’Agata NA per il racconto “IL DUBBIO”
«Quali sono le paure più ricorrenti per un uomo di mare? Quali i suoi fantasmi,
a parte, certo, il timore di non poter più fare ritorno a casa?
Tra questi c’è sicuramente lo spettro della gelosia e della insicurezza, che sembra
quasi incarnarsi in Menicuccio, personaggio principale della vicenda.
A tratti boccacceschi, a tratti vagamente pirandelliano, il racconto si snoda veloce
verso il finale, sospeso, anch’esso, tra tragicità ed ironia».
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Il terzo premio è stato assegnato a:
Sebastiano Pagano di Riposto CT
per il racconto “I DUE BEPI”
«Con piglio vivace e tratto scorrevole, l’autore tratteggia le figure di due dei suoi
vecchi compagni di viaggio, simili per nome ed origini, ma diametralmente opposti
per carattere e sorti. Diversi al punto di apparire quasi complementari, emblematici
rappresentanti di due diversi destini segnati dal mare, anche nell’altra vita i due
protagonisti continuerebbero forse ad essere divisi, sedendo allegoricamente, come
si legge nel finale, “l’uno su una nuvola nera e l’altro su una nuvola bianca”».
La giuria ha ritenuto doveroso attribuire una menzione speciale all’autore:
Gaetano Alfaro di Sorrento NA per il racconto “TOMMASO MARESCA,
IL COMANDANTE”
«Per il bellissimo ritratto di Tommaso Maresca, “il comandante” in ogni senso
della parola, che preferisce sfidare la grave malattia pur di non abbandonare la
sua nave ed il suo compito e, proprio per questo, riesce a riscattarsi e a morire da
vincitore».
La Giuria ha voluto menzionare anche le opere di:
Norberto Biso di Lerice SP per il racconto “PRIMO IMBARCO”
«Per la vivacità del racconto, che attraverso episodi divertenti ma emblematici,
ci offre uno spaccato della vita di un marinaio alle prime armi».
Antonio Ciccarello di Roma per il racconto “L’IMPRESA DEL
GUARDIAMARINA SANDRONI”
«Per avere esaltato il coraggio di un uomo che, pur di portare a termine il suo
compito, non si arrende di fronte alle avversità e alla forza spietata del mare».
Antonio Riciniello di Gaeta LT per il racconto ”SANTA MARIA”
«Per l’originalità dello scritto, che accosta il racconto di mare alle vicende di
guerra ed alle storie personali di una piccola comunità».
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
La Giuria, infine, ha ritenuto degni di pubblicazione i seguenti lavori:
Bartiromo Anna
La fanciulla di Sciangai
Piano di Sorrento NA
Chirivì Francesco Grazie Guardia Costiera
Gallipoli LE
Di Mauro Giovanni Sogno e realtà
Trani BA
Lanza Andreina
Il furore del mare
Catania
Melissa Girolamo Quel travagliato viaggio per Novorossijsk Augusta SR
Molin Luciano
E’ satana il nemico
Mestre VE
Pagano Giovanni Martino Cafiero
Torre del Greco NA
Salemi Maria
La donna del pescatore
Bolzano
Il Presidente della Provincia Regionale di Catania, Euro deputato on.le Nello Musumeci, e la presentatrice
Emma Cardillo durante la cerimonia di premiazione dell’ARTEMARE 1997
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Il prof. avv. Giovanni Grasso, tra il sindaco ing. Rosario Mirone e la presentatrice Emma Cardillo,
ringrazia per il “Premio Città di Riposto 1997” : «Per l’alta professionalità e competenza dimostrate,
come magistrato prima e professore ordinario di Diritto penale dopo, per la vasta attività di ricerca
sullo studio di disposizioni legislative e regolamentari, per i numerosi incarichi di prestigio ricoperti
nel rappresentare l’Italia in Commissioni ministeriali, Conferenze, Congressi, Delegazioni, sia nei paesi
della Comunità Europa che in campo internazionale, Riposto è orgogliosa di annoverarlo tra i suoi
cittadini più illustri.»
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Presentazione del Sindaco di Riposto
On. Avv. Carmelo D’Urso
Accolgo con vivo piacere l’invito del prof.
Gioacchino Copani, presidente del Circolo
degli Ufficiali della marina mercantile di
Riposto, di scrivere qualche parola di
presentazione dell’undicesimo volume di “Storie
e racconti di mare”, che contiene i lavori
selezionati nell’edizione 1997 del premio “Fatti di bordo” ed alcuni
racconti presentati da naviganti nelle edizioni del premio di narrativa
sul tema “L’uomo e il mare”.
Il premio “Fatti di bordo”, unico nel suo genere, costituisce per quanti
amano affidare alla parola la narrazione di esperienze vissute in mare
un’occasione per rivivere situazioni, sensazioni, personaggi legati alla vita
di bordo.
Al premio predetto si è nel tempo collegato quello di narrativa aperto
a tutti anch’esso caratterizzato da una qualificata partecipazione.
Il volume mostra chiaramente nelle sue due parti la vitalità del “Premio
nazionale Artemare” istituito dal Circolo negli anni settanta per esaltare
in ogni suo aspetto il rapporto dell’uomo con il mare.
Le relazioni sui Fatti di bordo ed i racconti dei naviganti si impongono
al lettore per lo stile sobrio ed efficace espressione della psicologia degli
uomini di mare.
Sono certo che il premio “Artemare”, stabilmente entrato nella vita
della comunità cittadina, si inserirà con successo sempre maggiore, per
l’originalità della sua formula, nel panorama culturale italiano.
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Il sindaco, on. avv. Carmelo D’Urso, consegna il “Premio Città di Riposto 1998” all’ing. Salvatore
Castorina, alto dirigente della STMicroelettronics:
«Svolgendo da svariati anni (tra Milano, Lione, Ginevra, New York e Catania) il prestigioso ruolo di
alto dirigente di un colosso mondiale dell’informatica avanzata, ha dato un notevole personale apporto
per lo sviluppo nel territorio etneo di una fondamentale sezione della microelettronica d’avanguardia.
Il consolidamento nel nostro territorio di tale industria di rilevanza internazionale, oltre ad avere creato
numerosissimi posti di lavoro di alta specializzazione, ha dato credibilità alla Sicilia ed ha contribuito
a sfatare quei pregiudizi, spesso ingiusti, che anche nel settore dell’imprenditorialità hanno penalizzato
il Sud del nostro Paese.»
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Presentazione dell’Assessore alla Cultura
Prof. Roberto Di Bella
Il fascino dei racconti di “cose del mare” esprime da sempre la peculiarità di
manifestarsi, per la parte narrativa, attraverso la componente fantastica.
Ma i contenuti e le situazioni a cui rimandano gli scrittori possiedono sempre,
oltre ad una potente carica emotiva, anche il tratteggio di categorie essenziali
alla condotta umana quali il desiderio di conoscenza, di scoperta, di
autoaffermazione.
Lontano o vicino dalle tematiche dei grandi classici della letteratura di mare,
intervengono in questo volume le storie personali - anche variamente trasfigurate
- di coloro i quali, a contatto con il mare, hanno contribuito ad arricchire le loro
riflessioni estetiche e, soprattutto, la loro e la nostra umanità.
Racconti che in forma trasparente, talvolta con pirandelliana ironia, registrano
il distacco dalla famiglia e dagli affetti, la disgrazia e la morte, interessanti stralci
storici sulla storia della marineria mercantile italiana, quando ci si imbarcava
ancora sui piroscafi e le navi “Liberty” costituivano il punto di forza delle deboli
società di navigazione nell’immediato secondo dopoguerra.
E ancora. Le lucide pagine che narrano imprese risalenti all’ultimo conflitto,
compiute da marinari di valore: resoconti non solo di guerra, ma testimonianze
crude di un passato che, in qualità di monito, appartiene a tutti.
Scenari, questi, sui quali si appuntano le vicende personali di chi racconta,
ciascuno con la sua colorita aneddotica, ancorato saldamente a riferimenti
temporali limpidi, talvolta minuziosi, lungo percorsi che tessono griglie memoriali
a cui è possibile ricondurre situazioni e luoghi comuni, che nel trascorso di
decenni hanno anche caratterizzato i racconti della marineria ripostese.
Nel dare alle stampe questo undicesimo volume di “Storie e racconti di mare”,
eccellente frutto organizzativo del lavoro del Circolo Ufficiali Marina Mercantile
della nostra Città, esprimo, per il tramite del Circolo medesimo, sentimenti di
gratitudine nei confronti della marineria ripostese e di coloro i quali, molti non
più tra noi, per le forze ed intelligenze date al mare, hanno contribuito a rendere
famosa la nostra Città in Italia e all’estero.
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Cap. D.M. Sergio Iezzi
LE LUCI DEL PORTO
I
l sole questa mattina è un’arancia, una piccola arancia, di quelle in offerta
nelle reti rosse al supermercato. L’ultima arancia nella rete rossa di nuvole
leggere. La luce ha l’aria della notte, ancora umida e fredda.
C’è una finestra lunga ed accesa sul mare, unico tocco caldo di questa mattina di
dicembre, il riflesso del sole.
Le finestre accese sulle pareti ancora grigie delle case.
Il solito bar con gli odori del mattino, un caffè, due parole e due spiccioli di resto
con il barista, un’occhiata alla prima pagina del giornale, bianco sul tavolino nero,
i titoli neri.
La prima sigaretta e i tornanti della strada del porto prendono me e la mia macchina scassata come una valigia sul nastro trasportatore. I miei pensieri frenano alla
prima curva, qualche secondo per vedere la banchina di riva, poi i ciuffi dei pini, la
discesa dritta fino al primo gran tornante. Cerco di riordinare i miei pensieri, di
salvare gli occhi dal fumo della sigaretta che già mi bruciano, ho dormito pochissimo e male, cerco di trovare un nesso tra questa mattina splendida di dicembre,
asciutta con il sole appena alto, il riflesso sull’acqua calma del porto e la notte
passata umida fredda con quella pioggia sottile, insistente, buia senza luna. Non
riesco ancora a trovare un nesso, sembra proprio quando ci si sveglia di soprassalto
per un brutto sogno e si trova la stanza tranquilla, immersa nel buio, silenziosa.
Eppure non è un sogno, un incubo.
Dopo il secondo tornante, questa mia illusione svanisce, il bruciore intorno agli
occhi lascia posto ad un’ansia grande nel petto, un tiro lungo alla marlboro non
riesce a riempirla, come una pallottola è lì, tra la gola e i polmoni, la sento. Mi dice,
non è un sogno, è successo davvero ieri sera, con quella pioggia sottile, senza luna.
Tutta quella gente a quell’ora strana sulla banchina di riva, senza navi in arrivo, la
macchina dei carabinieri, la capitaneria, i furgoni dei sommozzatori, a quell’ora di
notte, con un freddo umido e pungente, mentre scendo adesso c’è un bel sole, non
ci sono navi ormeggiate e non c’è nessuno. Potrebbe essere uno dei tanti giorni di
quiete del porto, senza navi. Non è così.
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L’ultimo tornante, la discesa dritta scende a sfociare nella piazzetta del porto, la
macchina va da sola, l’ansia è sempre lì, più pesante, la marlboro è arrivata al filtro,
la butto dal deflettore.
Il piede trema, un po’, sul freno, i pensieri si riordinano da soli, veloci e con
logica inesorabile.
Resta ancora quella strana sensazione d’irreale, nella realtà dello sterzo tra le
mani, nel parabrezza sporco, nella realtà di questa mattina.
La macchina prende velocità, il tempo invece è fermo. Fermo ad ieri sera. Ho
davanti a me il viso del figlio di Giovanni, in piedi appoggiato alla porta dell’ufficio, quel viso giovane non ancora toccato dalla vita, così smarrito, gli occhi dietro
la montatura giovanile e nera cercavano risposte. Io gli ho chiesto solo se gli ultimi
giorni ci fossero stati dei problemi a casa, poche parole giusto per venire incontro a
quella grande domanda.
La risposta era già dentro di me, quando con la macchina, dopo un po’ che Giovanni non si vedeva tornare, ci eravamo fermati a pochi metri dal ciglio della banchina di riva.
L’effetto ottico e la visibilità erano incredibili, la lunga pozzanghera che costeggiava il bordo della banchina rifletteva le luci della petroliera ormeggiata di fronte,
il riflesso era tutt’uno con il mare, la banchina sembrava non finisse, il rimorchiatore sul quale doveva recarsi a portare i documenti per la partenza era sull’estremità
sinistra, ormeggiata di prua, con la coperta e tutte le luci verso nord, caso strano del
destino, quasi a negare quel po’ di luce che potesse contrastare, spezzare e dare
posizione reale del bordo e delle bitte.
La risposta era lì.
Giovanni quella sera non era mai arrivato al rimorchiatore. Dio solo sa perché.
L’unica risposta logica che la mente cercava sempre di scacciare, mentre a tarda
notte, i sommozzatori provavano ancora in lungo e in largo là sotto, di trovare
qualcosa.
Rivedo la luce accesa dell’ufficio, con le donne, i familiari che aspettavano qualche risposta.
Erano arrivati i sommozzatori di Ancona, si cercava nell’acqua buia, nera che
inghiottiva le luci dei flash, la banchina era piena di persone.
Niente, e una sottile speranza che non fosse così assurdo il destino.
Ora ricordo di essere risalito verso l’una, dopo che avevano sospeso le ricerche
per riprenderle l’indomani. L’unico pensiero che martellava la ma mente, la sagoma strana rilevata dall’ecoscandaglio della pilotina.
Freno la macchina davanti al palo di cemento in mezzo alla piazzetta ancora
vuota, la mattina entra con tutta la sua realtà, lì a pochi metri c’è l’ufficio, devo
entrarci.
Lì dentro c’è tutto il suo lavoro, le sue carte già scritte con la fedele penna usata
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Sergio Iezzi
LE LUCI DEL PORTO
fino alla fine, quando lasciava il solco sul foglio, senza più inchiostro la buttava nel
cestino. Spesso mi chiama “ragazzo”, a volte per sfottermi un po’ “professore”;
poteva essere mio padre, non gli ho mai risposto male anche se a volte esagerava,
ma niente di male.
Conosce il porto come le sue tasche, tutti conoscono lui. A volte un po’ orso, a
volte così bonario, preciso, la serranda dell’ufficio era quasi il big ben della piazzetta
del porto. Quante volte il sole è arrivato come una nave annunciandosi con un
leggero fumo di nuvole rosa all’orizzonte, quante brezze hanno stancato bandiere
di mille paesi, l’odissea di mille uomini trova pace nella sera del porto, anche le
navi riposano appoggiate alla banchina, quante notti le gru hanno caricato sui moli,
mentre sulle rotaie avanzava il silenzio, quante ancore di pensieri hanno dato fondo
alle notti, restavano solo mille cavi di speranza legati con forza a bitte di ricordi.
Più di venti anni nel porto, l’anno prossimo la pensione. Quante navi sono arrivate, quante sono partite.
Il vento fiero si sentiva da dietro al faro ed il mare grosso sbatteva sui muri grandi
del porto, a portare a spasso massi, a far ballare le navi e cantare gli scalandroni,
mentre i cavi tesi suonano come corde di archi fino a spezzarsi.
Le case del paese tutte in fila sul colle con la cupola della chiesa viste a tratti dagli
oblò.
In ufficio la telescrivente va come tutti i giorni, è ancora presto per le telefonate,
c’è già qualche fax. Arrivano un po’ alla volta tutti, c’è ancora un bel sole.
La banchina di riva torna pian piano a riempirsi, tutte le macchine di ieri sera e
gente, più gente di ieri sera, in più a tutto c’è la gru, con il braccio deciso sul mare,
la voce rauca del motore ed il cavo teso sul mare, pronto a rispondere a quella
grande domanda, a spegnere quell’ansia nel petto, a spezzare quella sottile speranza, a confermare di nuovo che spesso il destino è assurdo. A tirar su la macchina
rovesciata con il povero Giovanni.
Com’è gratuita la vita e com’è scontata la morte.
Com’è tutto chiaro alla luce del sole e come tutto può essere al buio.
Come i cerchi sempre più grandi partono dal centro dove è caduto un sasso, uno
piccolo, uno un po’ più grande e via fino a che l’acqua torna tranquilla.
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Il com.te Firmino Perfetto di Sant’Agata (NA) riceve il premio dal presidente della giuria prof. Orazio
Licciardello
Veduta del terrazzo dell’Istituto Nautico durante la premiazione
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Com.te Perfetto Firmino
IL DUBBIO
O
gni volta partiva sempre con lo stesso dubbio, un intimo tormento che si
portava dietro come un bagaglio, un oscuro presentimento motivato for
se da quell’inconscio stato d’ansia che la gelosia genera nell’animo umano, in particolare nell’uomo di mare, che col passar del tempo prendeva sempre più
posto nel suo cervello, e ogni volta, puntualmente con la prima lettera, la moglie gli
comunicava di essere incinta, regalandogli nove figli in dieci anni di matrimonio,
uno ogni anno.
Menicuccio, un pezzo d’uomo grande e grosso, forse un po’ toccato, era nato in
un piccolo paese della costiera Amalfitana, aveva la pelle scura quasi moresca, e i
capelli neri e crespi, e per questo motivo lo chiamavano il “marocchino”.
Figlio di pescatori, a sedici anni aveva preso a navigare come ragazzo di macchina sulle grandi navi a vapore, poi come fuochista. A guerra finita, non appena
congedato, si era sposato, e la moglie, figlia di povera gente come lui, era la più
bella ragazza di tutta la comunità dei pescatori.
Menicuccio e Trofimena si erano uniti in matrimonio nella prima domenica di
Maggio del quarantacinque, per un anno circa, per carenza d’imbarchi, poiché le
navi erano state quasi tutte affondate durante il periodo bellico, era rimasto disoccupato, poi finalmente aveva trovato posto come fuochista su quella turbocisterna,
e non era più sbarcato.
Menicuccio, come si suol dire, era un bravo ragazzo, tranquillo, servizievole e
lavoratore, ed il Direttore di Macchina, per queste sue buone qualità, non lo mollava. Ogni volta che la nave toccava un porto italiano, andava in licenza per una
settimana o due, e ritornato a bordo puntualmente si ritrovava con un figlio in più,
e ogni volta nel silenzio della notte, specialmente ripensando alla famiglia lontana,
l’assaliva quell’atroce dubbio, “possibile mai”, si chiedeva, per quelle poche volte
che stava con la moglie, ed a volte tornava a casa solamente per un giorno o due, ed
una volta ricordava di aver fatto una scappata di poche ore, al rientro a bordo si
trovava con una bocca in più da sfamare. Eppure pensava, caso strano, in quel
primo anno trascorso in famiglia, accanto alla moglie nel fiore della giovinezza,
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niente, neppure un aborto, e non appena imbarcato tutti quei figli, uno dietro l’altro
proprio come conigli, e passava il tempo libero in cuccetta e le ore di guardia alle
caldaie torturandosi il cervello e rodendosi dalla bile.
Poi pensava ai suoi marmocchi, guardava quelle foto ammucchiate sulla cuccetta, Angelina, Mafalda, Peppeniello, ... tutti con quei capelli neri e ricci come i suoi,
e la moglie così dolce e affettuosa che lo serviva come il prete all’altare quando
stava in casa, e si diceva, «con tutti quei figli da badare, povera donna, come potrebbe trovare anche il tempo per farmi le corna».
A guardar bene però quei due bitorzoli sulla fronte, lucidi lucidi, rassomigliavano stranamente a due piccole corna, e giù con la testa nello specchio, e ogni volta
sembrava diventassero sempre più prominenti, poi pensava che il toro si riconosce
dalle corna, e lui con quel suo fisico grande e grosso, e le donne che se lo mangiavano con gli occhi quando andava in franchigia, si sentiva un vero toro da monta, e
sorridendo per la sua scempiaggine, rassicurato si consolava.
Ormai era diventata un’abitudine, e pareva che nessuno ci facesse più caso, anche se poi tutti erano ansiosi di sapere, la prima lettera che arrivava da casa dopo la
licenza, portava puntualmente la notizia di un nuovo lieto evento, e il Direttore di
Macchina ogni volta a dirgli, «Domenico, Domenico, ma quando la smetterai di
fare il toro e penserai a mettere la testa a partito».
Certamente nove figli erano troppi, ma guardandosi alle specchio si trovava
maschio e toro, e si diceva, «ma si, i figli sono la ricchezza della famiglia, basta che
stiano bene in salute, me li ritroverò da vecchio», e giù a pagar da bere per tutti.
Quell’ultima figlia, però, rassomigliava è vero in tutto ai fratelli, ma era di carnagione chiara con i capelli biondi. Quando la vide aveva circa un anno, e lui che
aveva quel tarlo che gli rodeva il cuore e il cervello, non appena entrato in casa,
stava per fare una scenata, ma la bimba quasi per intuito lo prevenne, e dalla culla
agitando le manine, per la prima volta chiamò «papà», e lui non stette a pensarci
due volte, «è il richiamo del sangue», si disse, e l’accettò a braccia aperte.
Qualche giorno dopo, mentre la bambina giocava nuda sul letto, scoprì che aveva
una voglia di fragola sul culetto, proprio come la sua, e non ci furono più dubbi, non
poteva essere una coincidenza, quella era una prova determinante.
Si guardò allo specchio, e trovò che quella che segnava il suo fondo schiena era
identica e precisa a quella della figlia, come un marchio di fabbrica, e così partì per
un’altra campagna portandosi dietro una fotografia della bambina a pancia in giù,
con quella voglia ben in risalto, e l’appiccicò tra le altre sulla cuccetta.
Ma non appena a bordo, il dubbio come un tarlo puntualmente ricominciò a
rodere, e poiché non aveva uno specchio a portata di mano, o meglio di ... , saltava
sulla cuccetta e si controllava di dietro nello specchio sul lavandino, dapprima di
sfuggita, di nascosto dal suo compagno di cabina, poi chiudendo la porta a chiave,
con un piccolo righello prendeva le misure, non c’erano dubbi, erano le stesse,
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IL DUBBIO
perfettamente uguali, dallo stesso lato nella stessa direzione, alla stessa distanza
dall’osso sacro.
Un giorno capitò che col mare alquanto agitato, per un improvviso movimento di
rollio, cadde dalla cuccetta e si fece un gran male alla testa, proprio in fronte, e gli
uscirono due bernoccoli come due corna, «maledetta fissazione», si rimproverò, e
per qualche tempo rimase calmo.
Poi ricominciò.
Passò qualche mese, e quella volta arrivati a Bari, ricevette una lettera con la
quale la moglie gli faceva sapere di non stare troppo bene in salute, e che forse
doveva essere operata.
Menicuccio chiese una breve licenza e si portò a casa, e con la moglie da un
ginecologo di Napoli. Questi dopo aver visitato la paziente confermò la diagnosi, e
nel disporne il ricovero d’urgenza sottolineò, «così anche se la signora perderà la
sua maternità, potrà per il futuro vivere tranquilla, lontano da altre dannose gravidanze» e rivolgendosi al marito con quel fisico da toro grande e grosso, quasi per
fargliene colpa, aggiunse, «tanto, avete fin troppi figli, e sarebbe ora che questa
povera donna si riposasse».
Dopo l'operazione, appena la donna fu in grado di governare la casa da sola,
Menicuccio ritornò a bordo.
Passò qualche tempo, arrivò la prima lettera, la seconda e poi la terza, ma ovviamente non si parlava più di lieti eventi, e quasi quasi ne era dispiaciuto, e poiché il
tarlo rodeva sempre più, prese a dirsi «certamente ora può farmi le corna liberamente, senza preoccupazioni», e si guardava allo specchio toccandosi in fronte.
E poi rimaneva il dubbio dell’ultima figlia, e si andava a controllare il sedere
riprendendo a salire sulla cuccetta, dimenticando la botta.
Menicuccio non aveva mai tradito la moglie, neanche quando la nave aveva fatto
scalo a Manila nelle Filippine, ed era stata presa d’assalto da uno stuolo di ragazze
tutte giovani, belle compiacenti.Si trovavano dappertutto, in coperta, nelle stive,
nei corridoi, nelle cale, in macchina tra le caldaie, e qualche marinaio ne aveva più
d’una, solamente Menicuccio non ne volle sapere, disse che la moglie non meritava
di essere umiliata nella sua dignità di donna, di madre e di compagna, e lui uomo
d’onore, per dormire, di notte si barricava in infermeria con i suoi dubbi e la sua
gelosia.
Per questo suo comportamento la fama di toro cominciò a scemare, e qualche
giorno dopo, mentre preso dal dubbio di sempre si controllava il sedere dimenticando la porta aperta, il suo compagno di cabina, entrando improvvisamente, lo
trovò arrampicato sulla cuccetta con le brache abbassate ed in posizione equivoca,
e divenne la favola di bordo.
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Il Direttore di Macchina che era un gran burlone, gli fece pagare birra per tutti
con la promessa che, alla prima occasione, avrebbe mostrato a tutti la sua virilità.
E l’occasione non si fece aspettare.
La nave approdò a Moji in Giappone, e la sera scesero tutti a terra a far bisboccia, Menicuccio ormai era della partita, non potette tirarsi indietro e si accompagnò ad una bella giapponesina, e stette tutta la notte per dimostrare ai compagni di
bordo quello che sapeva fare un toro come lui.
Ma due giorni dopo, in navigazione, dovette ricorrere alle cure mediche per una
certa malattia di donne. Al porto successivo fu inviato in ospedale per gli accertamenti del caso, e tra radiografie ed esami vari seppe che, malgrado la sua prestanza
fisica, era sterile da sempre, non aveva mai avuto la capacità di procreare, era
affetto da azoospermia.
“Ma come”, si andava dicendo, “con nove figli in dieci anni, tutti neri e crespi
come lui”, impossibile, “di certo si erano sbagliati” e ripeté gli esami in Nord
Europa, ad Amburgo dove si fece visitare da due specialisti di nota fama, ma niente da fare, la diagnosi fu sempre la stessa.
In navigazione, nelle ore franche di guardia passava il tempo a guardare le fotografie dei figli, tutti con i capelli neri e ricci come i suoi, e la pelle scura quasi
moresca, poi con la fotografia della ultima nata, con quella voglia di fragola ben in
risalto, come la sua, con righello e compasso riprendeva le misure, “impossibile,
impossibile” si ripeteva, “sono tutti invidiosi e traditori, medici compresi”.
“È una congiura”, gridava.
Ma le analisi parlavano chiaro, glielo confermarono ancora una volta
inequivocabilmente a Genova, e aspettava che la nave arrivasse a Napoli per correre dalla moglie e gridarle tutta la sua rabbia.
Ma le cose precipitarono, lo stato di salute della donna negli ultimi tempi andava da male in peggio, e quando giunse al suo capezzale la trovò in fin di vita.
Lei lo accolse con un sorriso, come sempre, e fatto allontanare figli e parenti
tutti, disse che doveva confidargli un gran segreto.
E cominciò col ricordargli i primi tempi del matrimonio, quando saltuariamente
andava a pesca per raggranellare qualche soldo, dell’imbarco che tardava ad arrivare, del salumiere sotto casa tanto gentile e tanto disponibile a far di credito, e
proprio non pensava che quell’uomo così piccolo e gracile, già avanti negli anni,
con la moglie ancor giovane e prestante, potesse approfittare anche di lei ricattandola negli anni, insistentemente, incessantemente e prepotentemente per calmare
la sua inesauribile e morbosa virilità.
«Ma allora - saltò a dire Menicuccio - tutti quei figli con la pelle scura e i capelli
neri come i suoi?».
«Coincidenza, pura combinazione», rispondeva la moglie con un fil di voce.
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Firmino Perfetto
IL DUBBIO
Ma almeno l’ultima figlia, quella era sua, insisteva Menicuccio e, anche se cosciente della sua impotenza cercava di crearsi una paternità, dopo tutto quella voglia sul culetto parlava chiaro.
«No - gli fece cenno la moglie - nemmeno quella, pura combnazione, tutti figli
del salumiere».
«Porca puttana» esclamò Menicuccio in un impeto di rabbia, stringendo gli occhi in una smorfia di dolore, ferito nel suo orgoglio di maschio.
Ma alla moglie che gli chiedeva “perdono” quell’abbassare di palpebre sembrò
un cenno di consenso, e declinato il capo lo lasciò per sempre con nove figli da
accudire, tutti figli del salumiere.
Ogni riferimento è puramente casuale.
La cantante francese Velarie Dubois vincitrice, con la canzone “Sa cage”, del Premio Europeo della
Canzone marinara
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Cap.D.M. Sebastiano Pagano di Riposto premiato da Presidente e Segretaria della Giuria
Franco Battiato alla cena di ringraziamento offerta dal Presidente della Provincia
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Cap. D.M. Sebastiano Pagano
I DUE “BEPI”
B
EPI Zagovic e BEPI Bosic avevano molte cose in comune: luogo, anno
di nascita, professione. Erano nati a Lussinpiccolo, piccola isola nel golfo
del Carnaro, nell’anno 1907.
Macchinisti navali, avevano iniziato a navigare sulle navi della “Libera Triestina” e, quando questa Società di Navigazione aveva cessato l’attività, erano stati
assunti dalla “Società Italia S.p.A. di Navigazione” ove nel 1950 erano passati in
“Organico”.
L’inquadramento in “Organico” significava la certezza del posto di lavoro e, in
quegli anni, cosa molto importante, percepire uno stipendio anche durante i periodi
a terra.
Per una strana fatalità, entrambi avrebbero concluso la loro carriera al
raggiungimento dell’età pensionabile con il grado di primi macchinisti poiché il
ruolo Ufficiali della “Società Italia” precludeva, data la loro età, il successivo passaggio a Direttore di Macchina.
Li conobbi entrambi a cavallo degli anni 1957/58.
Imbarcato sul Liberty “VESUVIO”, rientravo a Trieste dopo un paio di giorni
trascorsi a casa.
Da circa sei mesi navigavo con la “Società Italia” come Allievo di Macchina.
Il primo impatto con BEPI Zagovic non fu dei più felici.
Rientrando a bordo, ebbi la sgradita sorpresa di non trovare più il primo macchinista con cui avevo fatto sei mesi di guardia e da cui ero stato trattato con estrema
signorilità.
Bruno Babuder, infatti, ultimo rampollo di una nobile famiglia veneziana caduta
in disgrazia, dava a tutti del “Lei”, «Pagano vada a dare un’occhiata ai cuscinetti
della linea d’asse, vada a dare un’occhiata in timoneria» e, quando al mio ritorno
riferivo su quanto ero andato a controllare, mi gratificava con un «grazie caro».
«Speriamo bene», pensavo mentre percorrevo la coperta alla ricerca del nuovo
primo.
BEPI Zagovic insieme al caporale e al carbonaio presenziava al sondaggio del
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bunker.
Nel gruppetto che intravedevo in lontananza, spiccava una figura in tuta bianca;
nell’avvicinarmi andava a materializzarsi una testa pelata dal profilo equino, un
viso scarno con un naso adunco su cui poggiavano un paio d’occhialini; dalle tasche della tuta pendevano degli stracci bianchi.
Zagovic borbottò, in risposta al mio «Sior, sono l’allievo», e mi tese due dita che
andò subito a pulirsi con un pezzo di straccio bianco.
Come ebbi modo di appurare in seguito, era un maniaco della pulizia.
Aveva “uso bordo” due paia di ciabatte e un paio di stivaletti.
Per muoversi in cabina usava un paio di ciabatte, un altro paio per percorsi interno nave: cabina- sala da pranzo, cabina - porta di accesso sala macchine; quest’ultimo paio faceva bella mostra di sé davanti alla porta della sua cabina nelle sue ore
di riposo e davanti alla porta della sala macchine durante le sue ore di guardia.
Scendendo in sala macchine teneva una mano avvolta in uno straccio bianco
onde isolarsi dal passamano.
Aveva la tazzina per il caffè “personale” la quale veniva riportata in cabina al
termine di ogni guardia per essere ivi lavata.
Nei cinque mesi trascorsi insieme mi rese la vita difficile.
Quando cercavo di dialogare mi rispondeva a monosillabe «Va bene», «Lo so»,
«Dillo al caporale».
Durante le ore di guardia stava quasi sempre seduto su di un panchetto, in prossimità della manica a vento, e tenendo una tavoletta poggiata sulle ginocchia, scriveva, scriveva sempre.
Non riuscì mai a capire quel continuo suo scrivere, quella risma di fogli manipolati in continuazione.
Il “VESUVIO” faceva viaggi fissi “Italia - Brasile - Uruguay - Argentina”. Durante la traversata atlantica andando a sud ci s’imbatteva nelle “bonacce equatoriali”
e quando non tirava un alito di vento mi mandava due - tre volte a “guardia” sul
ponte lance a orientare la manica a vento.
Spesse volte fui tentato di delegare qualcuno a scaricare da quell’apertura un bel
secchio d’acqua con destinazione sala macchine, destinatario primo macchinista.
Durante le soste nei porti non lo vidi mai scendere a terra, se ne stava rintanato in
cabina o al massimo si concedeva una passeggiata in coperta: prima del pranzo,
dirigendosi verso prora e, prima di cena, verso poppa.
Una volta si era in porto a Genova, mi chiamò e, dandomi una foto della moglie,
mi disse: «Alle dieci vai alla stazione ferroviaria di Principe, prendi mia moglie in
arrivo da Trieste e accompagnala a bordo».
Era la prima volta in quattro mesi che mi chiedeva un qualcosa di personale e ciò
mi sorprese; forse, pensavo, cominciava ad aprirsi uno spiraglio nei nostri rapporti?
Era l’inizio di un dialogo?
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SebastianoPagano
I DUE “BEPI”
Dall’alto della scalinata che sovrastava l’atrio della Stazione Principe, con un
occhio alla foto e uno alle persone che mi sfilavano davanti, non riuscì ad individuare la signora Zagovic.
Mesto e sconsolato, rientrando a bordo, cercavo delle attenuanti. Forse la signora
non era partita? Forse c’era un altro treno a seguire?
BEPI Zagovic mi aspettava in cima allo scalandrone e quando gli giunsi di fronte
m’investì: «Mona (fesso) dove ti s’è andato, a bagasce invece che alla staxion?
Mia moglie è già un’ora che s ‘è arrivata, ma và a ramengo (a farti f ) và».
Non mi diede il tempo di replicare, girò le spalle e se ne andò.
Dovendo restituire la foto mi recai presso la sua cabina. Al mio bussare la porta si
aprì e davanti ai miei occhi apparve una figura sorridente dai capelli grigi. Per un
attimo mi parve di vedere mia madre quando mi apriva la porta di casa.
Brava e buona signora Zagovic! «Non te la prendere, - mi disse - è la solita
storia, come potevi riconoscermi avendo in mano una foto vecchia di dieci anni?
Povero mulo (ragazzo) chissà cosa ti ha detto mio marito! Vedi “non le s’è cattivo”, è cambiato dopo la disavventura sul Galileo Ferraris».
La flotta mercantile della “Società Italia” negli anni cinquanta era strutturata in
tre categorie:
a) Le navi passeggeri definite le “Navi Bianche”:
- Cristoforo Colombo - Leonardo Da Vinci - Giulio Cesare - Augustus - Vulcania
- Saturnia - Marco Polo - Amerigo Vespucci - Antoniotto Usodimare - (La Leonardo
Da Vinci entrata in servizio a seguito della perdita dell’Andrea Doria).
b) Le navi miste:
Alessandro Volta - Antonio Pacinotti - Galileo Ferraris. Queste navi in gergo
erano chiamate gli “elettricisti” in grado di imbarcare, oltre al carico di merce varia,
anche un limitato numero di passeggeri (circa una ventina).
c) Le navi da carico definite le “Navi Nere”:
Vesuvio - Etna - Stromboli - Nereide – Leme.
A parte una ristretta cerchia di Comandanti e Direttori di Macchina che si
avvicendavano solo sulle “navi bianche”, gli Ufficiali di Macchina e Coperta erano
dalla “Società Italia” inseriti in un ruolo chiamato “Unificato”; ciò significava che,
a discrezione della “Società”, si potevano imbarcare su qualsiasi nave.
In linea generale, seguendo una certa prassi, sulle “Navi Nere” venivano imbarcati: gli Allievi, gli Ufficiali che passavano al grado superiore (per farsi le ossa) e
poi tutti coloro i quali si erano resi colpevoli di gravi negligenze nell’espletamento
delle loro mansioni a bordo.
L’Ufficiale di Macchina o di Coperta imbarcato o trasbordato per negligenza o
scarsa capacità professionale su una nave nera era “bruciato”: o si rassegnava o
lasciava la “Società”.
A 54 anni BEPI Zagovic era stato promosso al grado di primo I° Ufficiale di
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Macchina.
Poiché a 55 anni sarebbe andato in pensione, in base al ruolo degli ufficiali di
Macchina che lo precedevano, sapeva di non poter aspirare al grado di Direttore
ma, se pur magra consolazione, avrebbe concluso la sua carriera su una nave
“bianca”.
Mentre era a casa in licenza era stato preavvisato di tenersi pronto ad imbarcare
sul “Saturnia”, nave “bianca”, con viaggi fissi Trieste - Halifax - New York.
Purtroppo il destino era in agguato e pronto a giocargli un brutto scherzo.
Con la perdita dell’Indocina, la Francia mise in vendita alcune navi che aveva
adibito a trasporto truppe.
Tre di queste motonavi furono acquistate dalla “Società Italia”. Due si trovavano
a Marsiglia ove furono prese in consegna e portate a Genova per lavori di
ristrutturazione, la terza, la “Henry Poincarè”, ribattezzata “Galileo Ferraris”, si
trovava a Brest, in Bretagna, e doveva essere trasferita a Trieste.
Quando si dice il destino! BEPI Zagovic non risultava inserito nell’elenco degli
equipaggi che dovevano trasferire le navi in Italia, ma, per fatalità, casualità o mera
sfortuna, ecco che il 1° Macchinista, un triestino, un giorno prima della partenza
per Brest si ammala.
BEPI Zagovic venne chiamato a sostituirlo; si trattava di una decina di giorni, gli
fu detto, poiché appena rientrato a Trieste, coincidendo le date, sarebbe stato trasbordato sul “Saturnia”.
Accettò e, non vedendo in quella chiamata qualcosa di anomalo, partì per Brest.
Durante la traversata da Brest a Gibilterra, mentre era di prima guardia (04-08) in
sala macchine, si avvertì un forte rumore proveniente dal motore di Sn che venne
tempestivamente fermato.
BEPI Zagovic, non essendo riuscito a localizzare la provenienza del rumore e a
capacitarsi di quel che era successo, non prestando ascolto né all’allievo né all’operaio meccanico che gli consigliavano di fermare la pompa dell’olio e di aprire i
portelloni del carter, e, cosa ancor più grave, senza attendere l’arrivo in macchina
del Direttore, ebbe la malaugurata idea di fare un avviamento.
Avviamento - Fermata e fece la “frittata”.
Per insufficiente lubrificazione si era fuso il metallo bianco di due cuscinetti del
piede di biella e, conseguentemente, l’avviamento del motore aveva causato la rigatura dell’albero a manovelle.
Conseguenze: rientro a Trieste con un solo motore, lavori non previsti, ritardi,
etc... etc...
BEPI Zagovic si era come si suol dire “bruciato”. Addio “Saturnia”, addio “Navi
Bianche”, lo attendevano prima della pensione due “Navi Nere”: il “Vesuvio” ove
lo incontrai e lo “Stromboli” dove avrebbe concluso la sua carriera.
La storia di BEPI Zagovic mi venne raccontata quando, imbarcatomi da 3° sul
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I DUE “BEPI”
“Galileo Ferraris”, rilevai Giusto Gladulic che, da allievo, aveva vissuto quella
infausta prima guardia.
Il 28 Marzo del 1958 venni trasbordato sulla “Nave Bianca” “Vulcania”, con
viaggi fissi Trieste-Halifax-New York.
Dei tre primi macchinisti, capi guardia, BEPI Bosic, pur essendo di età superiore
agli altri due, non lo era come anzianità di organico e il turno di guardia da espletare
era quello dei più giovani: 08-12 e 20-24. Anche a me sul “Vulcania” venne assegnato quel turno.
Basso, tracagnotto, con un testone pieno di capelli bianchi ben pettinati, il viso
rossiccio su cui spiccavano due occhietti in continua rotazione, BEPI Bosic, quando lo incontrai per la prima volta, mi fece venire in mente quelle teste di cartapesta
che tante volte avevo visto troneggiare e ondeggiare sui carri allegorici del carnevale di Acireale.
Rarissime volte lo vidi arrabbiarsi; quel suo atteggiamento bonario, quasi da buon
padre di famiglia, ci trasmetteva durante la guardia una certa serenità e tranquillità.
Quando, notando una qualche anomalia, entravo in agitazione e correvo a riferire
l’accaduto, scuoteva il suo testone e mi diceva, «Ciò mulo cosa s’è nato, mica demo
a fondo?»(Ragazzo cosa sta succedendo, stiamo affondando?).
In navigazione, verso le 9, BEPI Bosic cominciava a guardare verso l’ascensore
e appena intravedeva una tuta bianca borbottava: «Ghe semo (ci siamo) sta
arrivando».
“L’ospite” era il direttore di Macchina che veniva a fare un giro d’ispezione concludendolo sul piano manovra ove esternava al Primo tutte le anomalie riscontrate.
BEPI Bosic incassava senza batter ciglio per poi, non appena il Direttore si allontanava, replicare a sua volta: «Ma che vada a ramengo, lù e tutta la sua famiglia, la
mi viene a dir che lì s’è na goccia de olio, lì s’è na goccia de acqua, ma questa s’è
na barca veccia, con due motori vecci e lù la mi viene a dir che mi non guardo, che
mi non vedo, che mi non giro, ma che vadi in malora, come se anche lù non s‘è
stato primo e non vedeva niente e ora che s’è Direttor la vede tutto; sto venexian
magnagatti che a guardarlo ben in viso la mi sembra ‘Nà pantegana de canal’ (un
topo di fogna)».
Dopo essersi sfogato, chiamava il carbonaio e lo mandava a prendere la colazione, indi chiamava me e il Terzo dicendo: «Demo muli magnemo (andiamo a mangiare ragazzi) che prima mi sono lavata la bocca e ora mi lavo lo stomaco», e giù
una tazza di caffellatte.
Durante la sosta a Napoli e a New York era compito del primo di seconda guardia, coadiuvato dall’allievo, effettuare la visita del collettore di lavaggio del motore
per controllare le fasce elastiche dei pistoni, la lubrificazione e lo stato di pulizia
delle luci di lavaggio.
Il collettore di lavaggio era un budello stretto e lungo e vi si accedeva da uno
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sportellino di limitate dimensioni; si entrava carponi in avanti e giunti in fondo si
retrocedeva per riguadagnare l’uscita.
Basso e tarchiato, BEPI Bosic incontrava notevoli difficoltà sia per entrare che
per uscire e poi, all’interno, per muoversi; a questo punto incominciava a sudare
copiosamente, gli occhiali gli si appannavano e, così, percorso qualche metro, si
fermava e, rivolgendosi a me, diceva:
«Ma guarda un po’ a stà età (a questa età) cosa mi tocca da far; ciò mulo (oh
ragazzo) va avanti ti, guarda ben, riferisci che mi prendo appunti».
Durante una guardia parlandogli del mio imbarco sul “Vesuvio”, il discorso cadde su BEPI Zagovic ed egli scuotendo il testone mi disse:
«Lo conosco ben, eravamo compagni di classe, abbiamo navigato insieme sulle
navi della “Libera Triestina” e poi sul “Saturnia”, era un buon omo, cordiale, allegro, di compagnia poi l’è capitato quel guaio e la sua vita è cambiata».
Il 24 Maggio del 1959 sbarcavo dal “Vulcania” e, dopo aver conseguito il patentino,
mi rimbarcavo da terzo Ufficiale su: - “Leme” - “Alessandro Volta” - “Galileo
Ferraris” - “Cristoforo Colombo” - e ancora -”Vulcania” .
“Navi Nere” - “Miste” - “Bianche” - una dopo l’altra con brevi intervalli di riposo, ma “I DUE BEPI” non li ho più rivisti.
Oggi, sono trascorsi 35 anni dal mio ultimo imbarco di cui ben 32 ai pontili di
una raffineria a Priolo (SR).
“I DUE BEPI”, se ancora appartengono a questo mondo, dovrebbero essere
ultranovantenni; se sono saliti in cielo chissà se siedono insieme su una nuvola
bianca o se anche lassù sono stati divisi: BEPI Zagovic siede su una nuvola “nera”
e BEPI Bosic su una nuvola “bianca”!
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Com.te Gaetano Alfaro
TOMMASO MARESCA, IL COMANDANTE
T
ommaso Maresca era il comandante del “Don Francesco”, una nave liberty
come ce n’erano tante nel dopoguerra.
E una sera di fine maggio, dal cielo terso, con le stelle occhieggianti nella notte
senza nubi e senza luna, Tommaso si era appartato sull’aletta destra del ponte di
comando. Non c’era vento, tutto era calmo, c’era solo un leggero movimento d’aria,
dovuto alla velocità della nave, che mitigava il calore della giornata trascorsa e
dava un senso di benessere molto conciliante.
Tommaso guardava avanti, là dove nell’oscurità della sera s’intuiva la linea
dell’orizzonte. E verso l’orizzonte invisibile Tommaso guardava ricercando il suo
passato.
Intanto la prua della nave solcava le onde lasciando una scia fosforescente. Era
un momento magico, che induceva Tommaso alla riflessione.
Questo era il suo secondo viaggio sul Don Francesco e l’itinerario era lo stesso
del primo. La nave, che da poche ore aveva lasciato Savona, era diretta a Point
Tupper nel Cut of Canso in Canada, per caricare gesso per Brunswich in Georgia.
Da qui, una volta scaricato, doveva recarsi a Norfolk in Virginia, per caricare carbone per Savona.
Tommaso, solo in quell’angolo del ponte, assaporava con soddisfazione questo
momento di serenità. E ne aveva ragione! Dopo cinque anni difficili e penosi, finalmente era ritornato al comando. E lì sul ponte, solo con se stesso, vagava con la
mente all’indietro nel tempo, rivivendo tutto il suo passato.
Era al comando del piroscafo “Santa Lucia”, agli inizi degli anni cinquanta. Il
Santa Lucia era una carretta, che era stata affondata durante l’ultima guerra nei
pressi di Tripoli in Libia; a guerra finita era stata recuperata dagli armatori, che,
dopo averla rimessa a nuovo, l’avevano noleggiata per il trasporto di granaglie
sulla linea del Sud America.
A quel tempo Tommaso Maresca era giovanissimo, ma non privo d’esperienza e
capacità. Proveniva da una famiglia contadina delle colline di Sorrento, e non è da
meravigliarsi che un uomo di mare possa nascere dalla gente dell’agricoltura, perché c’è molta somiglianza di carattere tra la gente di mare e quella di campagna.
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Entrambe sono dotate di resistenza alle fatiche ed alle intemperie, e sono votate al
sacrificio sul lavoro.
Per Tommaso quell’imbarco sul Santa Lucia fu catastrofico.
Ora in piena solitudine in quell’angolo del ponte, col pensiero rincorreva i fatti
all’indietro nel tempo.
All’epoca il Santa Lucia in zavorra era diretto a Buenos Aires: era circa quarantotto
ore che si navigava con nebbia densa.
C’era forte tensione a bordo. Tommaso aveva fatto diminuire la velocità della
nave, precauzione necessaria in quel tempo, quando le navi non erano fornite di
radar e solo in poche avevano la girobussola. Le vedette erano state rinforzate,
c’era anche un marinaio a prua che funzionava da vedetta, ed aveva il compito di
suonare ad intervalli la campana di prua, così come dal ponte veniva suonata la
sirena a vapore.
Da quasi due giorni sul ponte di comando Tommaso era a pezzi. Era coadiuvato
dai suoi ufficiali, i quali, rispettando i turni di guardia, riuscivano a fare qualche
riposino. Ogni tanto Tommaso faceva un punto stimato, basandosi su una velocità
presunta e sul tempo trascorso.
Sigarette e caffè sul ponte venivano consumati in grande quantità, per scaricare
tensione e stanchezza. La stanchezza veniva risentita fisicamente ed anche i riflessi
si appannavano.
Ad un certo momento Tommaso sentì il bisogno di scuotersi un po’. Chiese la
massima attenzione al suo primo ufficiale e decise di andarsi a fare una doccia
ristoratrice per svegliarsi un po’, e per vincere il torpore causato dalla lunga veglia.
Doveva essere una faccenda di una decina di minuti e poi sarebbe subito tornato sul
ponte un po’ più sveglio e più in forma.
Era arrivato in cabina e stava spogliandosi per infilarsi sotto la doccia fredda,
quando sentì il boato e un violento sussultare dello scafo. Poi un rumore di lamiere
che si spezzavano e si accartocciavano, infine il silenzio; un attimo e poi ancora
grida, voci e un frenetico corri corri.
Tommaso mezzo nudo saltò sul ponte. Pensava ad una collisione con qualche
altra nave. Ma una volta sul ponte si rese conto che la nave si era incagliata sulla
scogliera che circonda l’isola di Lobos, un isolotto disabitato, che per le navi provenienti dal nord segna l’inizio del Mar del Plata.
La corrente, purtroppo, aveva spostato la nave a dritta della rotta seguita e sospinto con più velocità la nave, per cui anche i punti stimati erano inattendibili.
Resosi conto immediatamente di quanto era successo, il comandante, d’accordo
con il direttore di macchina, manovrò con la marcia indietro e dopo vari sforzi e
tentativi riuscì a disincagliare la nave. Ma la carena aveva subito seri danni, lo
provava l’acqua di mare che usciva dagli sfoghi d’aria in coperta, a grande pressione; voleva dire che attraverso le falle, il mare era penetrato nei doppi fondi, ma
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TOMMASO MARESCA, IL COMANDANTE
Gaetano Alfaro
anche che le lamiere degli stessi, i cosiddetti “cieli dei doppifondi” avevano ben
tenuto nelle stive. Difatti le stive, ad una pronta ispezione, risultarono asciutte.
La nebbia intanto, quasi appagata dal disastro, a mano a mano andava diradandosi, soddisfatta del misfatto compiuto.
Una volta liberata la nave dagli scogli, il comandante decise di avviarsi al porto
più vicino, cioè a Montevideo, anche perché le rocce della scogliera di Lobos avevano aperto una falla anche nel deposito della nafta; infatti, dal ponte si notava una
lunga striscia nera in mare, dovuta alla fuoriuscita del bunker.
Il cantiere di Montevideo, avvisato via radio, stava approntando un bacino galleggiante per ricevere la nave sinistrata.
Intanto, dal momento in cui arrivò a Montevideo, Tommaso Maresca iniziò il suo
triste calvario: dovette affrontare cinque lunghi anni d’inchieste, tribunali ed avvocati. In questi frangenti le sue risorse economiche si ridussero al minimo e poiché
gli fu sospesa la patente di lungo corso, non poté più imbarcare.
Per fronteggiare la situazione, Tommaso andò a staccare i biglietti per conto di
una compagnia di navigazione di vaporetti turistici del golfo di Napoli, che aveva il
botteghino nel porto di Sorrento.
Finalmente, dopo molto penare, alla conclusione dell’inchiesta e del processo,
Tommaso vinse la causa; fu scagionato da ogni colpa e completamente riabilitato,
perché risultò che nel momento dell’incaglio il segnale sonoro per nebbia,
sull’isolotto di Lobos, era in avaria già da tre giorni. Quindi il silenzio ovattato
della nebbia non aveva consentito di sentire alcun rumore che avvertisse del pericolo.
Con questa sentenza definitiva Tommaso, riavuto il titolo professionale, si ripresentò all’armatore, che lo accolse con calore e simpatia, dimostrandogli tutta la
rinnovata stima per le sue capacità. Ed eccolo al comando del Don Francesco.
Ora su quella aletta di ponte della nave, in quella calma e calda serata di maggio,
era a queste cose che Tommaso riandava con la mente, mentre si accompagnava
con il fumo di una sigaretta.
Era felice, nuovamente “il Comandante”.
Unico intoppo era che già dalla fine del viaggio precedente avvertiva spesso una
specie di debolezza. A tratti faceva fatica pure a respirare.
Tommaso cominciava a rendersi conto che avrebbe dovuto tentare di smettere di
fumare sigarette. Ma era una cosa non facile. Dopo poco lasciò tutte le sue riflessioni e rientrò in sala nautica. Tutto era normale e tranquillo. Scambiò qualche parola
con l’ufficiale di guardia, scrisse le consegne per la notte sul libro di navigazione e
se ne andò in cabina a riposare.
Il viaggio continuò in piena serenità, ci fu qualche giorno di tempo cattivo, ma
niente d’eccezionale; la fortuna per Tommaso aveva veramente cambiato direzione, o almeno così egli pensava.
Il tempo triste faceva ormai parte del passato. A bordo aveva un ottimo equipag-
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gio che gli era molto affezionato e gli dimostrava fiducia e rispetto. Tommaso ormai vedeva davanti a lui un futuro favorevole.
Un giorno, durante il viaggio, stando a letto, riflettendo e sognando tante cose
belle per la sua carriera, avvertì un dolore alla spalla destra: un dolore lancinante
manifestatosi all’improvviso, come una pugnalata che gli toglieva il respiro. Dopo
un po’, il dolore lentamente si affievolì, ma restò un peso ingombrante alla spalla.
Questo dolore non era nuovo per Tommaso; in forma più leggera l’aveva avvertito
varie volte durante il viaggio. Pensando ad un reumatismo, prendeva qualche aspirina; aveva anche smesso di fumare, perché il fumo gli procurava affanno.
Intanto la nave era in arrivo a Brunswich in Georgia. Tommaso fece un programma: espletate le pratiche d’arrivo, sarebbe andato a visita medica. Certamente con
un medicinale adatto si sarebbe rimesso in forma.
Due giorni dopo Tommaso era dal dottore. La visita fu lunga e scrupolosa; alla
fine il medico guardò a lungo negli occhi il comandante e poi:
- Comandante, lei è ridotto proprio male! - una piccola pausa e il dottore riprese
- fuma molto?
- Si - fece Tommaso - però da qualche giorno ho smesso. Cosa ho dottore?
Tommaso ora si era preoccupato.
- Per ora non le faccio nessuna diagnosi, ma lei deve ricoverarsi immediatamente e deve fare tutti gli accertamenti che io prescriverò.
- Ma io come faccio?! Ho la responsabilità della nave! Basta che lei mi dia
qualcosa che mi rimetta in sesto e mi dia la possibilità di riportare la nave in Italia.
- Ma per le analisi e le radiografie occorrono solo un paio di giorni; che previsioni di sosta ha la sua nave?
- Otto giorni.
- Allora si faccia ricoverare, sia ragionevole. È per il suo bene.
- Va bene - disse Tommaso, convinto infine di fare le analisi. Tornò a bordo, diede
tutte le disposizioni al suo primo ufficiale per il periodo della sua momentanea
assenza da bordo e finalmente si fece accompagnare dal terzo ufficiale fino all’ospedale.
Tutte le indagini cliniche durarono esattamente due giorni. Tommaso attendeva
con ansia soprattutto il momento di tornare a bordo. La sera del secondo giorno il
direttore sanitario dell’ospedale gli comunicò che per l’indomani mattina sarebbe
stato pronto l’esito degli esami clinici.
Puntualmente, l’indomani mattina Tommaso fu sottoposto ad un’accurata visita
da un équipe medica. Dopo di che gli fu detto che il dolore alla spalla destra era
dovuto alla presenza di un liquido che andava aspirato.
Tommaso restò pensieroso, ma non disse una parola e si sottopose all’intervento.
L’operazione fu lunga ed alquanto dolorosa, ma subito dopo Tommaso si sentì alleggerito e ne ricavò grande sollievo e cominciò a respirare meglio. Quindi si sentì
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TOMMASO MARESCA, IL COMANDANTE
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rianimato, chiese al direttore sanitario se era una pleurite ciò che lo stava tormentando. E il medico gli rispose seriamente:
- Comandante, il liquido nella spalla si riprodurrà ancora, la cosa è seria, lei ora
deve sbarcare e decidere: o restare qua e farsi curare da noi, o quanto meno prendere il primo aereo e raggiungere l’Italia per farsi ricoverare al suo paese il più
presto possibile.
Il comandante Maresca guardò il medico, strinse gli occhi, e per un attimo in
veloce sequenza rivide tutto il triste passato, a cominciare dal giorno dell’incaglio
del Santa Lucia. Un brivido lo attraversò mentre sudava freddo. Stava di nuovo
perdendo il grado di comandante, stavolta per malattia. Pensò ai figli, alla moglie e
agli amici; no, non voleva tornare come uno scarto d’uomo, no! Doveva tornare da
comandante. Così esplose: - Io sono il comandante, cioè il capo della spedizione, e
come tale sono io che devo riportare la nave in Italia!
Il dottore con pazienza: - Comandante, si rende conto che lei è un malato grave?
Ma Tommaso rosso in viso, con veemenza: - Se pure avessi un cancro, io riporterò la nave in Italia.
Il dottore: - Lei l’ha detto, comandante, è proprio un cancro il suo male, ed è
anche molto avanzato.
Il povero Tommaso restò impietrito a questa rivelazione, si guardò lentamente
intorno, facendo molte considerazioni con se stesso, e poi con grande coraggio
domandò:
- Quanto mi resta da vivere?
Il dottore gli prese la mano con un gesto di solidarietà: - Pochi mesi ancora,
comandante.
Tommaso nel frattempo si era ripreso: - Dottore, per tornare in Italia con la nave
mancano al massimo venti giorni. Se io sbarco potrei guadagnare qualche inutile
mese di vita; tra venti giorni con la nave io sarò in Italia: là sbarcherò e mi farò
curare e avrò anche la famiglia vicina. E quando verrà il momento sarà il comandante Tommaso Maresca a morire! Quel comandante che non ha abbandonato la
sua nave, anche nella sfortuna più nera.
Ora Tommaso aveva acquistato freddezza e ragionava con determinazione:
- Grazie dottore, sottoscrivo tutte le volte che vuole la mia decisione. Torno a
bordo e mi assumo tutta la responsabilità.
Tommaso Maresca, il Comandante, tornò con la nave in Italia, a bordo non disse
nulla a nessuno; tenne per sé il suo terribile segreto. La navigazione si svolse regolarmente. Solo un giorno prima dell’arrivo telegrafò all’armatore, chiedendo di essere sostituito e spiegando anche il perché.
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Il com.te Gaetano Alfaro di Sorrento (NA) premiato nel 1997 e sotto nel 1996
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Cap. L.C. Norberto Biso
PRIMO IMBARCO
Q
uando s’invecchia e il futuro si accorcia sin quasi a confondersi con il
presente, la mente cerca spazio nel passato e lo ripercorre lentamente
soffermandosi su episodi lontani, che sembrano dimenticati e che si
riaffacciano invece prepotentemente alla memoria, se evocati da fatti spesso anche
banali.
Fu quanto mi accadde nei giorni scorsi quando, nel risistemare le mie carte, mi
capitò tra le mani il vecchio libretto di navigazione.
Nella prima pagina destinata ai movimenti d’imbarco e sbarco lessi: “Imbarcato
a Genova il 02 Febbraio 1951 in qualità di mozzo sul piroscafo denominato
Monviso...” E subito mi rividi giovane, alla ricerca del primo imbarco.
«Lei è il centottantesimo allievo a turno», mi rispose l’imperturbabile sottufficiale
addetto ai movimenti, al quale mi ero rivolto per sapere quali erano le mie prospettive d’imbarco, «ne chiamiamo circa venti l’anno” proseguì serafico, “provi a ripassare tra dieci anni».
La risposta non era davvero incoraggiante.
Avevo studiato sodo per conseguire il diploma da capitano, dopo che la guerra e
il successivo campo di concentramento mi avevano indotto ad abbandonare gli
studi di medicina ai quali mi ero iscritto dopo il conseguimento della maturità classica, e ad intraprendere gli studi nautici che sembravano offrire una più facile possibilità d’occupazione.
E ora, quella risposta, faceva precipitare in sentina il mio morale già a pagliolo.
Pensai quindi di ripiegare su un più accessibile imbarco da mozzo che mi era
stato offerto in quei giorni e che mi ero riservato di accettare se non avessi trovato
una migliore occupazione.
Ora non potevo più fare lo schizzinoso.
Avevo già 26 anni e avevo bisogno di imbarcare per riguadagnare il tempo perduto e maturare i mesi di navigazione necessari per sostenere l’esame di patentino
che mi avrebbe consentito di navigare sino al grado di secondo ufficiale.
E così il giorno seguente, dopo aver espletato le pratiche d’imbarco, salii a bordo
del “Monviso”, una nave tipo “Liberty” appartenente alla “Società di Navigazione
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Alta Italia”.
Il 1° Ufficiale, al quale mi presentai, era molto indaffarato.
Incaricò l’allievo di mostrarmi l’alloggio e mi disse di passare poi a consegnare il
libretto di navigazione al 2° Ufficiale e quindi di cambiarmi e di presentarmi al
nostromo.
Come mozzo diplomato avevo diritto ad una cabina tutta per me.
Questa, situata al piano di coperta, era molto grande perché destinata ad ospitare
sei persone.
Conteneva, infatti, tre duplici letti a castello e sei armadietti.
Scelsi un letto e un armadietto, mi cambiai, andai a consegnare il libretto al 2°
Ufficiale e poi mi presentai al nostromo: un genovese magro e grintoso come “Braccio di Ferro”, che prese in seguito a benvolermi perché lo liberai dalla “fatica” di
prendere nota dello straordinario dei marinai e di tenere il conto del consumo dei
generi di coperta.
Il “Monviso” era adibito a viaggi di carbone tra l’America e l’Italia, con qualche
puntata nel Nord Europa. Erano viaggi faticosi e stressanti, specialmente in occasione delle permanenze nei porti, se si andava direttamente a caricare o a scaricare,
senza aver fatto prima un po’ di sosta in rada. Le “Liberty” mal si prestavano ai
carichi di merce alla rinfusa, per i quali non erano state progettate, e richiedevano
una lunga preparazione per l’approntamento alle caricazioni e alle discariche. Anzitutto bisognava armare i picchi di carico con tutti i loro cavi, alzarli e abbatterli
dalla parte opposta al lato d’attracco. Poi bisognava togliere le incerate che coprivano i boccaporti delle stive, tre per ogni boccaporto, dopo averle liberate dei cunei
di legno e delle liste di ferro che le fissavano alle mastre. Si toglievano quindi i
“pannò”, pesanti pannelli di legno che chiudevano i boccaporti, infine si sollevavano le “galeotte”, robuste strutture di ferro incastrate all’interno delle mastre, sopra
le quali poggiavano i “pannò”. Queste operazioni andavano eseguite per le cinque
stive e bisognava poi ripeterle in senso inverso a caricazione ultimata. Tale lavoro
impegnava tutto il personale di coperta per diverse ore, spesso di notte o in condizioni meteorologiche avverse; nelle moderne “bull carriers”, invece, dotate di
boccaporti Mac Gregor ad apertura automatica, può essere eseguito da una sola
persona, semplicemente premendo un pulsante e spostando una leva.
Nonostante la fatica che questi lavori comportavano, rinunciavo spesso al riposo
pur di poter fare una scappatina a terra, specialmente se mi trovavo in un porto nel
quale non ero mai stato. Mi piaceva vedere posti nuovi, conoscere altra gente, ma
nel corso di quell’imbarco le occasioni per uscire furono davvero assai poche.
Ricordo in particolare il mio primo arrivo in Nord America. Eravamo nel porto di
Newport News, attraccati al Coal Pier n. 14, ben noto a tutti i marittimi che hanno
fatto viaggi di carbone. Ardevo dal desiderio di scendere a terra e durante una pausa
della caricazione ne chiesi il permesso al nostromo. «Vai pure», mi disse, «così mi
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Norberto Biso
PRIMO IMBARCO
compri una cappotta cerata. Io non ho tempo di scendere. Però chiedi prima il
permesso al primo ufficiale». Cercai il primo ufficiale ma non lo trovai: era andato
a terra a passare visita medica.
Bussai allora timidamente alla porta dell’alloggio del comandante, un genovese
tipico, già anziano, un po’ burbero e che parlava senza mezzi termini. «Scusi, comandante, posso fare una scappattina a terra?», gli chiesi speranzoso. «Devo anche comprare una cappotta cerata al nostromo», aggiunsi per sollecitare il suo
consenso. Mi guardò come se lo volessi prendere in giro. «Mia figè», commentò in
dialetto genovese, come sempre faceva quando voleva dar corpo ai suoi discorsi,
«mi a mussa l’ho sentia ciamà en mille modi, ma cappotta cerata du nostromo nu
l’aveiva mai ciamà nisciun!» (Senti ragazzo, io la f... l’ho sentito chiamare in mille
modi, ma cappotta cerata del nostromo non l’aveva mai chiamato nessuno!). «Vai continuò poi - e portati dietro mio nipote, ma digli che prima passi da me».
Suo nipote, figlio di un suo fratello, aveva qualche anno meno di me ed era imbarcato come piccolo di camera. Lo trovai e gli dissi che prima di scendere a terra
doveva correre dallo zio; nel frattempo mi precipitai in cabina a cambiarmi. Appena scesi dalla nave c’imbattemmo nel primo ufficiale che stava rientrando: «Ho
chiesto al comandante il permesso di scendere a terra - lo informai - rientrerò fra
tre ore».
«Va bene - rispose - ma mi faccia il piacere di comprarmi un album di dischi,
devo fare un regalo». «Quali dischi?», gli chiesi un po’ perplesso. Non ero certo di
saper interpretare i suoi gusti in fatto di musica.
«Qualunque disco andrà bene», rispose fiducioso e mi diede i soldi per l’acquisto. Anche altri marinai mi avevano chiesto di fare acquisti per loro conto: chi
voleva calze di nylon, chi del cioccolato, chi semplicemente dei francobolli per
spedire la posta. La caricazione durava soltanto una decina d’ore e non tutti potevano scendere a terra.
Appena fuori dal pontile prendemmo un tassi. Mi accorsi che il piccolo di camera
zoppicava. «Che cosa hai fatto?», gli chiesi. «Niente - mi ripose - è mio zio che ha
un paio di scarpe nuove che gli vanno strette e mi ha chiesto di calzarle così gliele
allargo un po’. Ma vanno un po’ strette anche a me», aggiunse rassegnato. Arrivammo in centro città. Mi sarebbe piaciuto girare con calma per le strade, fermarmi
a guardare i negozi, vedere come si viveva in quell’America di cui avevo sempre
sentito parlare. Ma non c’era tempo da perdere e soprattutto quel tempo, dal punto
i vista meteorologico si stava guastando.
Dopo aver gustato una “banana split”, ci limitammo a fare il giro dei Surplus e
dei Cinque e Dieci, per i nostri acquisti. I Surplus erano enormi magazzini sorti,
dopo la guerra, per smaltire le eccedenze delle forze armate. Vi si trovava di tutto a
prezzi stracciati: dal vestiario alle armi. I Cinque e Dieci erano invece dei grandi
magazzini, sparsi in tutte le città degli Stati Uniti, fondati dal nonno della celebre
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miliardaria Barbara Hutton. Erano così chiamati perché una volta, con 5 o 10 centesimi di dollaro, si poteva comprare la maggior parte degli articoli offerti in vendita. A quei tempi biascicavo appena un po’ d’inglese scolastico, assolutamente insufficiente per capire e per farmi capire.
Riuscii comunque ad effettuare tutti i miei acquisti, compreso un colapasta richiesto dal cuoco: «Water pass, spaghetti stop», avevo detto all’esterrefatto commesso, che dopo una breve titubanza mi aveva consegnato il colapasta. Non riuscii
invece a comprare le pietrine per la mia macchinetta accendisigari. Ora so che si
chiamano flint, ma a quei tempi lo ignoravo e azzardai una timida richiesta di “little
stones” (piccole pietre, traducendo alla lettera il termine italiano). Questa volta il
commesso mi guardò come se fossi un alieno. «What?» (che cosa?) mormorò mentre due punti interrogativi gli si accendevano nelle pupille. «Little stones, pietrine,
la peste che t’ammazza», risposi innervosito dalla faticosa conversazione che si
stava prolungando un po’ troppo. E mentre parlavo facevo scattare il pollice della
mano chiusa a pugno per simulare lo scatto dell’accendino. Niente, quasi mi si
incendiava il pollice, ma il commesso non capiva. Alzai gli occhi disperato e vidi in
una scansia un invitante barattolo di ananas. «Come si chiamano quelle?» chiesi,
indicandole con il dito. «Pineapples», rispose pronto il commesso. «E dammi le
pinneaples e vaffanculo», conclusi rassegnato, prendendo il barattolo di ananas al
posto delle pietrine.
Si era fatto tardi e uscii dal negozio con il piccolo di camera che zoppicava sempre più vistosamente. Le scarpe gli facevano male. All’improvviso mi ricordai dei
dischi che dovevo comprare per il primo ufficiale. Rientrai in fretta nel negozio:
«Dammi dei records», chiesi all’esausto commesso. «Quali records?» rispose rassegnato. «Dei Records», ripetei indicandogli un album di dischi che sporgeva da
uno scaffale. Me lo diede, mormorando qualcosa che non riuscii ad afferrare. Lo
presi e lo infilai, assieme a tutta l’altra merce che avevo comprato, in una capace e
robusta borsa di carta che lo stesso magazzino mi aveva fornito e uscii. Prendemmo
un tassi che ci riportò al pontile.
Il tempo era peggiorato e forti raffiche di vento spazzavano la baia. Si era fatto
buio e, per evitare di inciampare nei mucchi di carbone che cadevano dagli
“shiploader” che caricavano la nave, preferii passare dal lato libero del pontile. La
polvere di carbone, sollevata dal vento, ci avvolgeva ad ogni raffica. Sollecitai il
mio compagno a muoversi, ma dovetti rallentare io stesso perché le scarpe gli facevano male e non riusciva a tenermi dietro. Troppo tardi mi accorsi, alla luce di un
fanale, che un’alta rete metallica divideva il pontile nel senso della lunghezza. Era
un pontile lungo circa quattrocento metri e sperai che almeno in testata la rete terminasse e fosse possibile passare dall’altra parte. Ma non era così e fui costretto a
tornare indietro imprecando, mentre il piccolo di camera ululava sinistramente.
All’improvviso, il vento cessò e cominciò a piovere: un piovasco violento e con-
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Norberto Biso
PRIMO IMBARCO
tinuo che in pochi minuti ci inzuppò dalla testa ai piedi, rendendo penosa la nostra
marcia. Ad un certo punto la borsa di carta si stacco dalle maniglie e cadde sul
pontile rovesciandosi in parte. Maledicendo la sorte, ne estrassi la famosa cappotta
cerata del nostromo, nella quale avvolsi buona parte della merce caduta, e misi il
resto con la borsa ormai fradicia tra le braccia del “piccolo”, calcandogli in testa il
colapasta del cuoco.
Come Dio volle arrivammo a bordo, più bagnati che se fossimo arrivati a nuoto.
Consegnai l’album dei dischi al primo ufficiale che incontrai nei “carruggetti” e mi
ritirai in cabina dove depositai la roba e mi cambiai per riprendere il lavoro. La
nave stava completando la caricazione e c’era bisogno di tutto il personale di coperta per chiudere le stive e approntarla alla navigazione. Terminammo alle nove di
sera e con la manovra di partenza si fecero le undici, prima che stanco ed infreddolito potessi farmi una doccia e sdraiarmi finalmente in cuccetta a riposare.
Il mattino seguente, quando consegnai la merce che mi era stata commissionata,
fu un coro di proteste per le condizioni nelle quali si era ridotta. Tacitai tutti con il
racconto delle nostre peripezie. Verso le dieci incontrai il primo ufficiale: «Ma me
li hai scelti apposta quei dischi?», mi disse con un tono irritato. «Perché?», risposi
innocentemente, «lo sapevo che non avrei indovinato i suoi gusti». «Qui non si
tratta di gusti - precisò - lei mi ha comprato dei dischi parlati, dove Eddie Cantor
racconta barzellette in americano!». Eddie Cantor era un famoso comico, ma immaginai con quale divertimento il destinatario di quel regalo avrebbe ascoltato le
sue incomprensibili barzellette! Mi dichiarai desolato, e un poco lo ero, ma quando
fui solo scoppiai in una risata irrefrenabile. E forse fui l’unico a ricavare divertimento da quei dischi.
A mezzogiorno incontrai il piccolo di camera. Stava lavando i piatti in riposteria
e calzava zoccoli di legno che lasciavano scoperti i calcagni, vistosamente incerottati.
«Hai detto a tuo zio che le scarpe ti hanno fatto male?», gli chiesi. «Glielo ho detto
sì - rispose deciso - ma si è anche lamentato perché erano sporche e bagnate. E sai
cosa mi ha risposto quando gli ho mostrato le vesciche che mi sono venute nei
calcagni e gli ho detto che non avrei calzato mai più quelle scarpe?». Si fermò un
attimo per creare suspense. «Mi ha risposto: iih quanti cazzi!», proruppe indignato.
E riprese a lavare stoviglie.
Rimasi sul “Monviso” per tredici mesi, completando il mio imbarco da mozzo
che mi vide impegnato in tutti i lavori di coperta per un minimo di dieci ore al
giorno, più altre due o tre ore che passavo sul ponte per far pratica di carteggio e di
calcoli nautici.
Fu un imbarco duro e faticoso che mi lasciò tanti calli nelle mani e che considerai
allora come tempo perduto; ma che imparai in seguito ad apprezzare perché mi
lasciò anche una buona esperienza del lavoro e delle fatiche dell’equipaggio che
mai avrei appreso se non l’avessi vissuta sulla mia pelle.
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Villa Costanzo - A conclusione della premiazione in questa villa viene offerta una cena alle autorità e
agli ospiti di riguardo
Il Provveditore agli Studi di Catania, dott. Gaetano Ragunì, illustra il curriculum professionale dell’ing.
Salvatore Castorina, alto dirigente della multinazionale STMicroelettronics
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Contrammiraglio Antonio Ciccarello
L’IMPRESA DEL GARDIA MARINA ELIO SANDRONI
Desidero segnalare l’impresa dell’allora Guardiamarina Elio SANDR0NI. La
medesima, pur risalendo al giugno del 1940 (inizio dell’ultimo conflitto), non si
riferisce ad un’azione di guerra né ad un particolare episodio d’eroismo, ma ad una
storia avventurosa e quasi incredibile che ha per protagonista un giovane il cui
coraggio e la cui perizia marinaresca valsero a salvare la vita dell’intero equipaggio
di un nostro sommergibile.
L’impresa di Sandroni, che ha iniziato la vita marinara dopo il diploma di Capitano di lungo corso (conseguito all’Istituto Nautico “Duca degli Abruzzi” di Catania), trascende l’epoca e l’ambiente in cui si svolse, per assumere un significato dal
valore permanente, capace d’indicare ai giovani quanto possano in ogni avversa
circostanza la forza del carattere, la perseveranza e la solidarietà verso il prossimo.
Sandroni, che è mio collega nella grande famiglia marinara, aveva all’epoca 23
anni; è decorato di medaglia d’argento al V.M.
(L’impresa inizia dopo che il sommergibile Macallè affonda in Mar Rosso a levante di Porto Sudan di fronte ad un isolotto disabitato che l’intero equipaggio, per
fortuna illeso ma intossicato dal gas fuoruscito dagli impianti di raffreddamento,
riesce a raggiungere in parte a nuoto, in parte con un battellino ricuperato dal
sommergibile. Il racconto che segue è tratto dalla relazione ufficiale).
S
ull’isolotto si forma una strana colonia di persone molte delle quali ancora
inebetite dalle esalazioni di gas. Molti marinai cominciano ad andarsene in
giro per l’isolotto, grande quanto la Piazza S. Marco di Venezia, altri s’immergono
in acqua per lenire il caldo asfissiante: circa 60° con umidità del 100%. Si scava
nella sabbia una buca profonda per depositarvi due cassette di bottiglie d’acqua
minerale; vengono improvvisati ripari e tendaletti di fortuna con asciugamani e
sterpi trovati sulla spiaggia per difendersi dal caldo infernale, si designano gli uomini da porre a guardia dell’acqua con turni di due ore per ciascuna coppia.
Nel pomeriggio il Comandante Morone e l’Ufficiale in seconda decidono di in-
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viare qualcuno con il battellino a remi per tentare di avvicinarsi alla costa sudanese
e poi raggiungere, costeggiandola, il territorio nazionale per dare l’allarme e cercare di organizzare i soccorsi ai naufraghi, rimasti senza cibo né medicinali e con
acqua ormai insufficiente.
Il comando della spedizione viene affidato a SANDRONI; lo accompagneranno
il nostromo di bordo, Nocchiere Torchia, e il timoniere Costagliola.
Con il battellino di salvataggio di legno, delle dimensioni circa di un dinghy,
munito di remi, bussola magnetica, un accumulatore, una carta generale del Mar
Rosso, una busta di tela, un brogliaccio, due matite, alcuni pacchetti di gallette, un
pezzo di pancetta affumicata e tre bottiglie d’acqua minerale, i tre uomini si accingono ad attraversare il tratto di mare compreso fra l’isolotto e la costa sudanese e
poi il successivo tratto costiero fino a raggiungere il territorio eritreo: in tutto circa
200 miglia da percorrere a remi.
Sull’isolotto di Barr Musa Kebir cominciano i preparativi per attrezzare il battellino
alla navigazione: una gaffa da utilizzare come alberetto, alcuni pezzi di legno raccolti sulla spiaggia da servire come pennone ed una fascia di strapuntino da usare
all’occorrenza come vela. Il Comandante Morone con la carta nautica del Mar Rosso spiega al Guardiamarina Sandroni ciò che dovrà fare: raggiungere al più presto
la costa sudanese (in mano agli inglesi), quindi il territorio nazionale e chiedere
immediatamente soccorsi per i naufraghi che rischiano la morte per la sete, la fame,
il caldo e i disturbi provocati dalle esalazioni di gas cloruro di metile.
Alle 21.30 del 15 Giugno i tre uomini partono dall’isolotto: Sandroni si mette
subito ai remi e inizia il suo turno di voga di 4 ore. Costagliola si sistema a prua
accovacciandosi alla meno peggio per il suo turno di riposo. Torchia è al timone.
Ad evitare di accendere continuamente la luce per la lettura della bussola e il controllo della rotta, Sandroni consiglia di prendere come punto di riferimento una
stella dei settori poppieri e bassa sull’orizzonte. Sandroni tiene a precisare subito
che a costo di qualsiasi sacrificio e nel rispetto delle consegne avute dal Comandante, si deve assolutamente raggiungere lo scopo che è quello di salvare i compagni
rimasti sull’isolotto. L’acqua è razionata a due dita ogni 4 ore; i turni sono divisi
così: 4 ore alla voga, 4 al timone e 4 di riposo. Durante tutta la notte si voga, ci si
riposa, si sta di guardia al timone e alla bussola; il mare è calmo, spira una leggera
brezza.
Verso le 10.15 del 16 Sandroni avvista l’isolotto di Tella Kebir; si corregge la
rotta puntando su Ras Asis. C’è una corrente che spinge verso Sud; il mare per
fortuna continua ad essere calmo.
Di tanto in tanto appare la pinna di qualche squalo e ciò sconsiglia dall’attingere
acqua dal mare per bagnarsi; viene buttato a mare il pezzo di pancetta affumicata:
mangiandola si sarebbe soltanto aumentata l’arsura. Il sole picchia sempre più forte, l’acqua è ulteriormente razionata a due dita ogni 8 ore e si beve da un bicchierino
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L’IMPRESA DI ELIO SANDRONI
Antonio Ciccarello
d’alluminio sul cui interno è stato inciso un segno per la misura. Costagliola è
sempre molto attento, forte, volenteroso, pieno di fiducia e di slancio giovanile; da
buon toscano è allegro e vivace ma soprattutto è un buon marinaio.
Il nostromo Torchia, il più anziano dei tre, di carattere piuttosto introverso è pieno di dubbi: vuole conoscere i motivi per cui non si avvista ancora la terra e vorrebbe conoscere la velocità del battellino.
Sandroni spiega pazientemente che in quel tratto di costa non vi sono rilievi montuosi di grande altezza e dato che loro si trovano assai bassi sul livello del mare,
l’orizzonte è alquanto limitato. Circa la velocità del battello essa viene apprezzata a
circa 2 nodi senza tener conto della deriva e dello scarroccio.
Alle 6,30 del 17 Giugno si avvista la costa in corrispondenza di Ras Asis in
territorio sudanese. Il mare è leggermente mosso e il vento spira da S.W., cioè in
direzione contraria alla prora. L’acqua scarseggia, le mani e le natiche sono piene di
vesciche e di piaghe, le labbra spaccate; si avvertono i primi dolorosi disturbi
emorroidali dovuti alla fatica, alla posizione di voga sul legno duro, alla mancanza
d’acqua, al caldo micidiale e al sole che dardeggia sulla testa senza riparo.
Alle 10 Sandroni decide di prendere terra: ha creduto di vedere un po’ di fumo e
delle capanne, ma è solo effetto d’immaginazione o addirittura d’allucinazione,
perché il fumo non è altro che sabbia sollevata in alto dal vento in forma di spirali.
I tre uomini comunque toccano terra ma non trovano altro che sabbia, dune e deserto. Disperati per la sete, la stanchezza e la delusione riprendono la navigazione.
Ormai non è più rimasto che qualche bicchiere d’acqua: bisogna ridurre ancora le
razioni limitandosi ad inumidire le labbra soltanto ogni 4 ore.
Alle 14.30, aiutato da una leggera brezza, il battellino naviga a vela; la costa
sudanese scorre con esasperante lentezza davanti agli occhi dei tre marinai, occhi
arrossati dal caldo, dalla stanchezza, dalla veglia e dal sole. La temperatura si mantiene sui 60°, ora si procede nuovamente a remi con turni faticosi ed estenuanti ai
remi e al timone. È il 18 Giugno, alle 3 di notte il battellino resta in secca. Lasciato
Torchia a riposare, Sandroni e Costagliola si allontanano alla ricerca di fondali che
permettano al mezzo di riprendere la navigazione. Non li trovano e dopo un’ora di
ricerche tornano indietro: Sandroni propone a Costagliola di inumidirsi le labbra
introducendo dentro la bottiglia un pezzetto di carta; l’acqua però è finita!
Il vento è contrario e impetuoso, ma il fondale aumenta a poco a poco. Sandroni
e Costagliola a turno vogano come disperati; Torchia sta male, delira, teme che non
resisterà e continua a ripetere che finiranno tutti in pasto ai pescecani. Piange e si
lamenta di continuo e non ha più la forza di mettersi ai remi. Spesso Sandroni,
quando è il suo turno di voga, sospinge il battellino con le mani, fondale permettendolo, per riposare le braccia ma soprattutto per lenire i bruciori e i dolori provocati
dalle emorroidi. Anche Costagliola è stanco, sfinito, esausto; ora è preso da brividi
di freddo, certamente deve avere la febbre. Sandroni gli fa indossare la sua unica
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maglia di lana con maniche lunghe e cerca di confortare Torchia infondendogli
fiducia e coraggio. Alle 3,15 il battellino entra in un piccolo golfo a circa 5 miglia
a NW di Ras Casar. I tre prendono terra, nascondono il battellino fra i canneti e la
folta vegetazione che sorge sulla spiaggia e si inoltrano nell’interno. Scorgono alcune tende abitate da indigeni; un sudanese altissimo e molto robusto, armato di
scimitarra, esce da una tenda; altri appaiano armati allo stesso modo.
Sandroni ordina ai due marinai di non profferire parola alcuna: lascino parlare lui
solo! I tre uomini si avvicinano cautamente alle tende; Sandroni fa grandi cenni di
saluto con la mano portata alla fronte, poi alla bocca e gridando: Salam el lek! Deve
vincere la diffidenza degli indigeni, mostrarsi amico, ottenere un po’ d’acqua ad
ogni costo. Sandroni articola qualche frase in inglese, in francese e qualche parola
in arabo, cercando di far capire con larghi gesti delle braccia che sono dei naufraghi. Gl’indigeni rimangono impassibili. Alla fine Sandroni, disperato si ricorda
della parola “moia” che in arabo vuol dire acqua e grida: «moia, moia, moia!».
Ne ottengono da un piccolo catino di ferro smaltato, sporco, lurido che un indigeno è andato a prendere nella tenda e depone per terra. L’acqua ha un colore giallastro,
su di essa galleggia uno strato di finissima sabbia. Ad uno ad uno i tre uomini si
dissetano pur nutrendo forti sospetti sulla potabilità del liquido; dopo qualche tempo infatti Sandroni sarà colpito dall’ameba. I tre marinai subito dopo vengono costretti a viva forza dai sudanesi a sedersi sulla sabbia. Sono momenti emozionanti e
terribili; i sudanesi confabulano fra di loro, cosa mai staranno tramando? Alla fine,
come per miracolo, riescono lentamente e pigramente ad alzarsi, fanno finta di
volersi sgranchire le gambe e si allontanano dirigendosi molto cautamente verso la
spiaggia. Sandroni ogni tanto si volta indietro verso i negri per fare larghi gesti di
saluto e di ringraziamento con grandi cenni delle mani.
Il battellino viene raggiunto rapidamente: i tre uomini vi saltano dentro e
Costagliola si mette ai remi. Sospinto verso il largo, il battellino riprende la navigazione, il ritmo di voga viene aumentato al massimo.
Uscita dal piccolo golfo, la barca riprende la navigazione; il vento è però contrario, la velocità ridottissima. Alle 22 il battello rimane ancora una volta in secca. I tre
uomini ne approfittano per riposarsi un po’ in attesa dell’alta marea. Il 19 Giugno è
un’altra giornata di fatiche disumane, di sofferenze e di ansie.
La speranza di portare a termine la missione è sempre grande; la forza di volontà
e la tenacia non abbandonano mai, nemmeno per un istante, Sandroni e Costagliola.
Il povero Torchia è in uno stato compassionevole.
Alle 5 una foschia bassa impedisce di distinguere bene la costa. La carta nautica
è ormai logora e sgualcita, le località e i segni convenzionali non si leggono più.
Dopo un altro estenuante tratto di navigazione, sempre a remi fra bassi fondali
verso Est, finalmente i due scorgono bene la costa. Si avvista per fortuna un sambuco arabo a vela. Avvicinata l’imbarcazione, Sandroni riesce a sapere che il confine
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L’IMPRESA DI ELIO SANDRONI
Antonio Ciccarello
con l’Eritrea non è tanto lontano; allora il battellino si allontana dalla costa e si
mantiene per precauzione a circa 5 miglia di distanza.
Il 22 Giugno è l’ultimo giorno di questa odissea! Durante la notte la barca naviga
verso terra: all’alba viene però sospinta dal vento verso un altro bassofondo. I tre
uomini spingono a turno il battello a mano dirigendosi verso sud e camminando sul
fondo cosparso di sassi e ricci. Sono le 6 circa quando, finalmente fuori dalle secche, il battello ancora a forza di remi punta decisamente verso la costa che è quella
Eritrea. Una grande emozione coglie i tre uomini quando sulla spiaggia scorgono
una pattuglia di Ascari dell’esercito italiano. Sandroni si fa riconoscere agitando un
corpetto bianco e, dopo aver fatto arenare il battellino a 100 metri dalla spiaggia,
mette piede a terra . Gli ascari e il Buluk Basci che li comanda si prodigano in mille
modi, fornendo soprattutto the con latte di cammella dolcificato. Purtroppo gli ascari
non dispongono di alcun mezzo di comunicazione con il più vicino distaccamento
che è quello di Mersa Taclai.
Ancora una volta bisogna quindi riprendere il mare, ma prima viene consegnato
al Buluk Basci un messaggio in italiano sul quale sono precisate le coordinate geografiche dell’isolotto e la notizia che su di esso ci sono da 5 giorni i naufraghi del
sommergibile Macallè. Tale messaggio dovrà essere recapitato da un cammelliere a
Mersa Taclai il più presto possibile. Dal confine a quella località ci sono 30 miglia;
Sandroni decide di riprendere la navigazione anche se il mare è grosso e il vento
spira da NW. La navigazione alla vela è difficile e pericolosa per un battello così
piccolo, ma è veloce. Fece distendere sul pagliolo dell’imbarcazione i due marinai,
per aumentare la stabilità, e con il remo legato all’anello dello specchio di poppa, a
mo’ di timone, dirige verso SE, in direzione di Taclai. La vela formata dalla fascia
di strapuntino, una maglia e un asciugamano porta bene: la barca corre veloce con
baffi di schiuma!
Finalmente intorno alle ore 15 il piccolo faro di Mersa Taclai è in vista; esultante
e felice Sandroni manovra per prendere terra, ma c’è un’ultima difficoltà da superare. Una scogliera a fior d’acqua si trova proprio davanti a Mersa Taclai, un’ondata
aiuta il battello a scavalcarla, ma sulla parte poppiera della scafo si produce una
larga falla. Si provvede in qualche modo a tamponarla e si riprende la navigazione
verso terra, puntando sulla spiaggia. Sulla battigia i tre uomini sono accolti da alcuni ascari armati con moschetto puntato: Sandroni è a torso nudo con un paio di
pantaloncini corti legati con una cordicella, dice di essere un ufficiale della Marina
Italiana e prega di essere subito accompagnato dal Comandante della stazione di
vedetta.
Il Tenente di Artiglieria Curelli si prodiga per fornire ogni assistenza ai tre uomini; anche da Taclai però non si può lanciare il messaggio di soccorso. Tre cammellieri
partono per tre località vicine: Cavet, Alghena e Gheb con l’ordine di inoltrare con
la massima urgenza possibile un messaggio diretto al Comando Superiore dell’Africa
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Orientale di Massaua.
Sandroni, Costagliola e Torchia sono sfiniti dalla fatica; quando Sandroni si presenta al Ten. Cutrelli, questi gli chiede chi sia: «Sono il Guardiamarina Sandroni,
Ufficiale di rotta del Smg. Macallè affondato davanti all’isolotto di Bari Musa
Kebir. Avvertite subito Massaua con la massima urgenza, tutto l’equipaggio attende dal 15 Giugno di essere salvato».
I tre uomini vengono medicati e rifocillati; non riescono a reggersi bene sulle
gambe, ma hanno 1’orgoglio e la gioia d’aver portato a termine la missione loro
affidata.
Il 22 Giugno atterra sulla piccola pista di fortuna un aereo italiano che riparte
subito dopo aver imbarcato Sandroni coi suoi due marinai: arrivati a Massaua troveranno un’ambulanza che qualche minuto più tardi ne consentirà il ricovero in
ospedale. La penosa Odissea è finita!
Nel frattempo un aereo sorvola l’isolotto dei naufraghi ormai giunti allo stremo e
lancia abbondanti rifornimenti di cibo, acqua e vestiario. Più tardi il Sommergibile
Guglielmotti imbarcherà i superstiti, portandoli definitivamente in salvo in territorio nazionale.
Si addensano le nubi della guerra sul mare e non si conosce la sorte dei singoli,
ma intanto grazie all’impresa dei tre marinai e soprattutto del giovane e coraggioso
Sandroni, vero protagonista di questa straordinaria avventura, riabbracceranno le
loro famiglie.
Oggi Sandroni, che la Marina ha decorato di Medaglia d’Argento al V.M., ha il
grado di Contrammiraglio e vive a Venezia.
Il Nocchiere Costagliola vive a Porto Ercole, mentre Torchia purtroppo non è più
fra noi.
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Cap. D.M. Antonio Riciniello
“SANTA MARIA”
L
’8 settembre del 1943 colse la “Santa Maria” ormeggiata nel porticciolo di
Civitavecchia, tra menaidi, lampare e ancor più piccole imbarcazioni da
pesca. La conferma dell’armistizio, già annunciato da Radio Algeri dal
comandante delle forze armate americane, generale Eisenhower, fu diramata dal
Capo del governo italiano, maresciallo Badoglio, alle ore 19,45.
Il motorista della “Santa Maria”, peschereccio militarizzato operante come
dragamine nell’area di mare delimitata dal quadrilatero Gaeta – Ischia – Ponza Anzio, era a terra. Secondo Capo di cappello, il trentenne Gioacchino Gavazza,
aveva appena sistemato il locale motore per la notte e trasferito l’esiguo carico
elettrico di poche, occulte lampadine, sulle batterie. Erano le ultime operazioni, che
eseguiva ogni sera prima di recarsi all’appartamentino preso in affitto, dove sua
moglie Erasmina l’aspettava. Non avevano figli, e le 230 lire mensili che Gioacchino
percepiva gli permettevano di condurre una vita, se non agiata, sicuramente tranquilla.
La “Santa Maria” operava da tre anni come caposquadriglia nel dragaggio delle
mine, e in quel mese di settembre l’area di mare da perlustrare era quella compresa
tra Civitavecchia e Nettuno. Civitavecchia, dove il peschereccio ritornava ogni sera,
era il porto capolinea, mentre il mese prima lo era stato Gaeta poiché la zona di
mare da controllare si estendeva dall’isola di Ponza, attraverso Ischia, fino ad Anzio.
Il dragaggio mine, svolto essenzialmente da pescherecci militarizzati per il loro
basso pescaggio, era un’operazione bellica importantissima in quanto permetteva
di preparare rotte sicure ai convogli militarizzati della marina mercantile e alle navi
da guerra in navigazione lungo il Tirreno, l’Adriatico o il mare Ionio. I dragamine
procedevano normalmente in linea, a gruppi di tre. Al centro operava il peschereccio caposquadriglia, che passava i cavi di dragaggio muniti di ganasce alle altre due
imbarcazioni del gruppo, che agivano ai lati.
Poiché le mine, ancorate a pesanti corpi morti, erano poste a circa quattro-cinque
metri sotto la superficie del mare, il sistema di dragaggio lavorava ad una profondità media di otto metri, garantiti fra l’altro da un particolare attrezzo detto “aquilo-
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ne”, che assicurava anche una certa divergenza ai cavi di dragaggio.
I pescherecci, requisiti dal governo e quindi militarizzati, erano sottoposti a lavori di trasformazione, che consistevano in genere nell’approntamento di un robusto
castello di prua, nella creazione di cabine-alloggio per l’equipaggio, e di un particolare locale da adibire a stazione radio.
I cantieri navali del Golfo, particolarmente attrezzati per la costruzione di paranze,
lavorarono intensamente a trasformare in dragamine quelle imbarcazioni, che sugli
stessi scali avevano avuto in precedenza il battesimo del mare. “Mastri d’ascia”
senza eguali, impegnarono arte, cervello e mestiere per rendere confortevole a bordo la vita dell’equipaggio.
Per queste azioni militari, il Ministero della Marina aveva fornito la “Santa Maria” di una grossa mitragliatrice contraerea e di un’attrezzata stazione radio ricetrasmittente, con la quale notizie di carattere militare, come ritrovamento di aree
minate o nuove zone da perlustrare, venivano trasmesse in codice. Ben mimetizzata, la mitragliatrice era stata piazzata sul castello di prua, ma, fino a quel momento,
il mitragliere militare non aveva ancora sparato un colpo. Militare era anche il
marconista, mentre per essere caposquadriglia, la “Santa Maria” si avvaleva quasi
sempre, durante l’operazione di dragaggio mine, di un ufficiale della marina militare o, eccezionalmente, di un capo di prima.
Gioacchino, dunque, proseguì verso casa. Lungo la strada della marina notò una
certa animazione, un’allegria insolita per i tempi che correvano: «La guerra è finita, la guerra è finita!».
Percepì questa frase, ripetuta con cadenza quasi ossessiva nella calca che si andava formando; e volle capirci meglio. Dirottò per la Capitaneria di Porto, dove conosceva quasi tutti, in cerca di notizie più certe: la situazione generale, dopo l’annuncio dell’armistizio, non era chiara. In mattinata, aerei americani avevano bombardato il Sud di Roma verso la zona dei Castelli Romani, dove risiedeva il Comando
Tedesco, ma la fascia costiera era al momento controllata dagli Italiani. A casa,
Gioacchino trovò la moglie molto preoccupata per gli eventi che andavano maturando, e, insieme, decisero di trascorrere la notte a terra. L’indomani, 9 settembre,
Gioacchino e sua moglie raggiunsero di buon’ora la “Santa Maria”, ormeggiata nel
molo sussidiario. A bordo si viveva un’atmosfera d’ansia. Il comandante della
paranza, l’amico Patrò Giacomo nell’umanissimo mondo dei pescatori, aveva già
provveduto nottetempo a disfarsi della mitragliatrice e dell’apparato ricetrasmittente,
segni inequivocabili di compromissione in caso di sopralluogo da parte tedesca. La
“Santa Maria” aveva quindi assunto l’aspetto consueto di una normale barca da
pesca. A bordo l’atmosfera restava tesa: parte dell’equipaggio forzava per mollare
subito gli ormeggi per Gaeta dove, a detta dei più, erano già sbarcate le truppe
americane; altri pensavano di raggiungere la città via terra dopo aver affondato il
natante; altri ancora, proposero di raggiungere l’isola di Ponza dove il pescherec-
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“SANTA MARIA”
cio, dopo i fatti del 25 luglio, aveva scortato la corvetta “Persefone”, che conduceva
in esilio Benito Mussolini, imbarcato dal pontile Ciano.
A maggioranza, e anche perché questo era il pensiero di Patrò Giacomo, si decise
di salpare in nottata per Gaeta. Gioacchino, per la sua conoscenza dell’ambiente, fu
mandato ad avvertire il comandante della Capitaneria di Porto che durante la notte
la “Santa Maria” avrebbe lasciato il porticciolo: che non sparassero da terra!
Il pomeriggio del 9 settembre, verso le 16, un altro peschereccio militarizzato, il
“Sant’Antonio” di Terracina, mollava gli ormeggi dal pontile principale e con manovra veloce guadagnava il largo in mezzo ad una salva di proiettili, che per puro
miracolo non la colarono a fondo. Quando l’artiglieria da terra smise il tiro al bersaglio, il “Sant’Antonio” era un puntino nero sperduto all’orizzonte: gli uomini di
Kesserling, che in una giornata avevano raggiunto la costa tirrenica, probabilmente
non avevano ancora avuto il tempo per calibrare il tiro.
Che fare? Sulla “Santa Maria” i preparativi erano stati già ultimati e tutto era
pronto per la fuga. L’esperienza del “Sant’Antonio” però aveva attenuato, e di molto, l’entusiasmo con il quale l’equipaggio aveva predisposto la fuga notturna. Tutto
il personale ed il comandante Patrò Giacomo si riunirono a poppa e decisero, in una
sola intesa, che il tentativo andava esperito; se la costa veniva occupata dalle truppe
tedesche, e la sparatoria pomeridiana sul “Sant’Antonio” n’era la prova, cos’altro
c’era da sperare se non raggiungere Gaeta, probabilmente, come speravano, già
nelle mani degli americani? Purtroppo, però, gli alleati quel giorno erano impegnati
lungo le coste salernitane.
D’accordo con i pescatori locali, si spostarono gozzi, lampare e menaidi per creare un ampio varco alla manovra notturna della “Santa Maria”, che riuscì a guadagnare il largo lentamente, disbrigandosi come silenzioso fantasma, tra quelle piccole imbarcazioni. Anche alcuni membri dell’equipaggio del “Sant’Antonio”, che in
un primo tempo avevano preferito raggiungere Terracina via terra, all’ultimo momento si erano aggregati all’equipaggio della “Santa Maria”.
La navigazione notturna fu tranquilla e senza intoppi, ma all’alba del 10 settembre, la sgradita visita di un aereo tedesco annunciò il cattivo auspicio della giornata.
Fortunatamente l’accanimento con il quale il pilota s’intestardì contro la “Santa
Maria”, fu pari alla sua incapacità a centrare il bersaglio, sicché i proiettili, che il
mitragliere dispensava a profusione sulla paranza, si spensero in mare.
L’esperienza mattutina suggerì al comandante di far issare sull’albero un gran
lenzuolo bianco, in segno di non belligeranza, e proseguire la navigazione più al
largo. Verso le 10 del mattino, la “Santa Maria” puntò la prua su monte Circeo, per
sbarcare il fratello del comandante del “Sant’Antonio” e alcuni amici rimasti con
lui. Verso terra, nel calare in mare il canotto che avrebbe dovuto portarli a riva, la
paranza fu investita da un serrato fuoco di mitraglie proveniente dalla costa. Successivamente, mentre essa guadagnava il largo con una fuga veloce, cessarono le
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mitragliatrici e cominciò un nutrito cannoneggiamento. Comunque l’esiguo drappello d’uomini che avevano preso posto sul battello riuscì a raggiungere la costa.
Dopo circa quaranta minuti di fuga, una cannonata colpì la “Santa Maria” a poppa, poco al di sopra della linea di galleggiamento: non ci fu deflagrazione. Il proiettile perforante attraversò l’imbarcazione nel senso longitudinale e terminò la sua
corsa di morte nel locale motore, dove Gioacchino era di guardia. La dinamo d’emergenza fu letteralmente spiantata dalla base e sollevata sotto il cielo del locale, da
dove ricadde in un tonfo sordo colpendo di striscio la gamba del motorista che
prese a sanguinare. Tamponata alla meno peggio la ferita, Gioacchino salì in coperta e guardò a poppa. La scia era sempre normale alla costa, mentre le cannonate
innalzavano colonne d’acqua tutt’intorno. Guardò a prua: Patrò Giacomo giaceva
bocconi in coperta, al di fuori della timoneria. Mentre il motore continuava a girare
a tutta velocità, il motorista corse a prendere la ruota del timone e prestare aiuto al
comandante, ferito al petto, probabilmente da un proiettile di mitragliatrice. Da
sotto poppa, dove tutto l’equipaggio era raccolto, si sentivano dei lamenti. Giunse
trafelato un marinaio, ferito alla testa, col volto ridotto ad una maschera di sangue:
«Gioacchino, che facciamo? A poppa è un macello, Gioacchino!».
Legarono la ruota del timone mentre Erasmina, la moglie del motorista, era apparsa sottoprora. Il marito le fece cenno di non muoversi. Tamponarono alla meglio
col medicinale del pronto soccorso la ferita al petto del comandante e lo adagiarono
in timoneria. Si precipitarono quindi sotto poppa: il nostromo giaceva morto,
attorniato dai compagni dallo sguardo pietrificato dalla paura, che con lui avevano
diviso attimi di terrore. Il proiettile perforante gli aveva colpito in pieno la coscia
sinistra, all’altezza dell’inguine, asportandogliela di netto. Era morto quasi all’istante,
in una pozza di sangue. In quei frangenti, le cannonate continuarono a piovere
intorno al peschereccio, che non riusciva bene a tenere la rotta, con elevata intensità; poi le colonne d’acqua, sollevate dall’impatto dei proiettili con la superficie del
mare, diminuirono fino a scomparire del tutto.
Doppiata Sperlonga verso la mezza, la paranza spuntò, col suo bianco lenzuolo
disteso, tra Punta Scarpone e l’orizzonte, nella luce baluginante del pomeriggio.
La famiglia del nostromo in quel periodo era rifugiata su monte Moneta. La moglie vide in lontananza la paranza e chiamò a se i due figli. In quei due giorni
d’incubo aveva consumato gli occhi a furia di guardare il mare. Ora sperava che
quel puntino bianco all’orizzonte fosse la “Santa Maria”, dove suo marito era imbarcato da sempre. Così come la vedeva, l’imbarcazione aveva una grossa vela
quadra bianca issata all’albero e procedeva non troppo velocemente. Quando fu
all’altezza del fossato di Longato, vicinissima alla costa, la donna riconobbe nell’imbarcazione, la “Santa Maria” di Patrò Giacomo e notò che quella che sembrava
una vela, era in realtà un bianco lenzuolo, libero al vento. Navigava lasciando una
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“SANTA MARIA”
scia poco schiumosa, quasi un solco invisibile nell’azzurra distesa del mare, e non
creava i baffi di prora, come quando entrava a piena velocità nell’accogliente Golfo
di Gaeta dopo una giornata di pesca. In coperta non notò anima viva e questo fatto
le procurò un brutto presentimento. Le fu impossibile raggiungere la città in quel
momento. L’indomani, dopo una nottata d’angoscia e di disperazione, ebbe la ferale notizia della morte del marito da un contadino della zona, Mamucce Sgargiatieglie.
La “Santa Maria” procedeva ad andatura ridotta verso Gaeta. Il motore non aveva subito alcun’avaria, ma la velocità era stata diminuita per attenuare le vibrazioni,
che rendevano più pesante la condizione dei feriti. Doppiata la torre del monte a
Mare, l’imbarcazione apparve alla famiglia di Patrò Giacomo, residente in contrada
“Papardò” da qualche tempo, in una sinistra visione, che nei giorni a venire divenne
quasi un incubo per la trentenne Maria Civita, moglie dell’agonizzante Patrò Giacomo: quel lenzuolo bianco e il lento procedere della paranza, abituata da sempre a
ben altri ritmi, le davano la sensazione del lento procedere di un funerale.
«Dio, speriamo che non sia successo niente!», esclamò in un’accorata preghiera
mamma Civita, col pensiero rivolto alla numerosa prole: tre femmine e due maschi
compresi in un arco di appena undici anni; e con i tempi che si prospettavano. «Dio
mio, aiutami tu», invocò ad alta voce radunando intorno a sé i più piccoli.
Potevano essere le ore 14 quando la “Santa Maria” scomparve oltre gli strapiombi della Montagna Spaccata, verso l’abbraccio amico del pontile del Panificio. Ma
la giornata non era ancora finita, e non erano ancora finiti i guai del martoriato
peschereccio. Navigando nelle vicinanze del castello angiono-aragonese, a picco
sul mare, l’imbarcazione fu raggiunta da una tempesta di fuoco, che lasciò impietriti
i suoi sfortunati uomini. La micidiale mitragliata cessò subito, come per incanto,
mentre una folla di civili si sforzava di far capire all’equipaggio della paranza di
proseguire per Punta Molino anziché per il Panificio, dove ormai si erano installati
i Tedeschi.
Gli uomini in coperta, tra i quali il motorista Gioacchino, che continuava a dare
un occhio in timoneria ed uno al motore, sentirono bene l’invito della gente, che era
riuscita a far tacitare la mitragliatrice. La “Santa Maria” ormeggiò alla scogliera
verso le ore 16 del 10 settembre, di fronte ad una folla muta e composta, che già
presagiva la tragedia.
Gioacchino raggiunse d’un balzo la banchina e di corsa si diresse alla vicina
caserma dei carabinieri, che sorgeva a pochi passi dal molo, proprio di fronte all’ormeggio dove l’agonizzante natante aveva posto termine alla sua via crucis. Con la
morte del marinaio più anziano era rimasto l’unico uomo di fiducia degli armatori
del peschereccio, e adesso, in quelle confuse circostanze, e nei limiti del possibile,
cercava di espletare al meglio qualche indispensabile operazione burocratica. Avvertì i carabinieri dell’accaduto e proseguì verso la Capitaneria di Porto, che mai
raggiunse perché dissuaso dalla gente.
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Intanto la folla sul Lungomare era diventata incontenibile per numero e atteggiamenti: amici, pescatori, parenti e familiari pressavano per avere notizie.
Se non fosse stato per il lenzuolo bianco che dava subito l’idea del tragico, la
“Santa Maria” non avrebbe presentato alcun segno di travaglio tanto più che l’ultimo tratto da Punta Stendardo a Punta Molino, l’aveva percorso a piena velocità per
cercare di evitare i pericoli insiti nell’attraversamento del Panificio, come suggerito
dalla gente di Gaeta Medievale appena poco prima. La cannonata, presa nelle acque del Circeo, aveva squarciato il fasciame di poppa, al di sopra del galleggiamento, senza che l’assetto di navigazione subisse variazioni.
Le poche “autorità” presenti a terra cercavano di mettere ordine alla confusione
che andava montando. Sistemarono Patrò Giacomo su una carretta per condurlo
presso qualche struttura ospedaliera militare, sperabilmente ancora funzionante,
visto che quelle civili erano inesistenti e stavano subendo la sorte imposta dagli
eventi: fuggi fuggi generale e sciacallaggio. Vi era soltanto la possibilità che qualche medico locale, tuttora reperibile, potesse intervenire.
Il fratello dell’agonizzante Patrò Giacomo, che aveva seguito da “Papardò” l’ultimo tratto di navigazione della “Santa Maria”, si rivolse ad un suo amico medico il
quale, accertate le condizioni gravissime del ferito, consigliò di portarlo a casa.
Trasportato a spalla su una rudimentale barella dagli amici pescatori, il ferito affrontò l’ultimo e più impervio tratto del sentiero che conduceva a casa. Morì nel
volgere di poche ore munito dei conforti religiosi somministratigli dal parroco della
vicina chiesa della “Catena”. L’altro ferito, meno grave di quanto si temesse, raggiunse i familiari sul vasto spiazzo del Mandracchio, di fronte alla vecchia
“Ghiacciaia”. Insieme guadagnarono la campagna dove ormai stava sfollando la
popolazione cittadina. Gioacchino, di ritorno dal vano tentativo di raggiungere la
Capitaneria di Porto, per prendere la moglie che l’aspettava a bordo, s’imbatté nel
carro che trasportava il nostromo all’obitorio del cimitero. Aveva intanto appurato
che la famiglia del morto viveva in contrada Moneta e mentre si riprometteva di
recarvisi al più presto, incontrò tra la folla Mamucce Sgargiatieglie, amico comune,
al quale espose l’accaduto pregandolo di trasmetterlo ai familiari del defunto. L’indomani, con una carrozza che venne a prenderla al pozzo di Cologna, Rosinella si
recò al cimitero dove, sul freddo marmo dell’obitorio, accarezzò per l’ultima volta
il volto amato del marito.
A casa, Civita non si dava pace. Alcuni giorni prima dell’armistizio suo marito
era ricoverato all’ospedale di Villa Irlanda, condotto dai preti irlandesi, per le
complicanze di una banale influenza e vi sarebbe ancora rimasto se l’amore per la
sua “Santa Maria”, rimasta priva di comando in quel periodo triste e confuso, non
l’avesse indotto a partire per Civitavecchia nonostante le sue insistenze a rinunciarvi. Il destino, purtroppo, fa il suo corso, nel bene e nel male, sempre!
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“SANTA MARIA”
I morti della “Santa Maria” furono due tragedie per le rispettive famiglie, che
dovettero affrontare nove lunghi mesi di sfollamento tra sofferenze e privazioni di
ogni genere, prive dell’uomo che potesse condurle tra le mille difficoltà causate
dalla guerra, dai Tedeschi, dalla fame.
E meno male che il fratello di Patrò Giacomo pensò bene di affondare il peschereccio nelle acque basse della scogliera aprendo la valvola Kingston, opportunamente manomessa, che permise l’allagamento non traumatico e il suo dolce scomparire nel mare.
Con l’arrivo degli americani a Gaeta, nove mesi dopo, la “Santa Maria” fu uno
dei primi natanti a rivedere la luce del sole e riprendere la pesca che, per la lunga
stasi, diventava col trascorrere dei giorni, sempre più miracolosa.
...dopo circa quaranta minuti di fuga, una cannonata colpì....
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Il prof. Giuseppe Giarizzo e il dott. Gaetano Ragunì con la moglie prof.ssa Maria Platania visitano la
Villa Costanzo
Il T.V. Giovanni Gravina illustra un suo progetto sulla ristrutturazione del porto di Riposto
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Giorn. Anna Bartiromo
LA FANCIULLA DI SHANGAI
L
e onde mordevano rabbiose gli scogli che facevano da barriera protettiva al
basso promontorio di “Picco Blu”, tra i bagni della regina Giovanna e
l’uliveto demaniale dove sorgeva la rustica ed elegante villa del Capitano Alcioni.
Erano anni che non navigava più ormai, ma aveva bisogno di quel contatto quasi
fisico col mare, così sterminato davanti a lui, che gli concedeva spesso ricordi passati
che lo aiutavano ad accettare ora quel distacco forzato. Fece due o tre boccate dal
suo sigaro e fissò lo sguardo su quella distesa infuriata grigio-verdastra che si
ammantava di nuvoli di spuma, proprio come quella notte, in navigazione verso
Shanghai.
***
Sul ponte era un allerta frenetico. Lampeggiava. Fulmini improvvisi segnavano
il cielo di saette viola e in quella luce spettrale il mare sembrava ancora più
tempestoso.
Andava avanti così da alcune ore. Scrosci di pioggia invadevano la tolda e la
furia della natura pareva non volersi ancora calmare. Bisognò aspettare l’alba prima
che le onde si tenessero più a freno. D’un tratto il marinaio di guardia avvistò
qualcosa: - nave alla deriva, gridò, nave a babordo. Era, infatti, una giunca. Una di quelle imbarcazioni cinesi, snella e veloce, a tre
vele che si lasciava trascinare dalle correnti senza governare. Mutarono leggermente
rotta. Chiesero, poi, se vi fosse qualcuno a bordo. Ma non ebbero risposta. Due
marinai salirono allora sull’imbarcazione per ispezionarla. Il disordine delle cose e
gli strumenti in pezzi facevano chiaramente capire che era finita nel bel mezzo
della tempesta che alcune ore prima aveva colpito anche loro. Entrarono nelle cabine.
Tutte vuote. Solo in una di esse, le braccia lungo il corpo, supina, il capo rivolto
verso terra, i lunghi morbidi capelli neri che le coprivano quasi interamente le spalle,
una fanciulla cinese giaceva immobile, apparentemente senza vita.
La portarono a bordo prestandole le prime necessarie cure. Pian piano, a mano a
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mano che veniva rifocillata, riprendeva le forze, rivelando così in pieno tutta la sua
naturale grazia e bellezza. Trascorsero alcuni giorni. Appena possibile, il Comandante
le parlò amorevolmente chiedendole semmai ricordasse qualcosa dell’accaduto.
Ma non c’era molto da sapere. Usciti al largo per lavori, erano stati spinti lontano,
fuori rotta, dal maltempo che incalzava e, nella tempesta, lei era caduta in terra
perdendo i sensi. Degli altri tre componenti di bordo più nulla. Da terra, certamente,
dovevano già aver organizzato le ricerche...
***
La fioca luce della lampada sul comodino le illuminava il viso e, i meravigliosi
occhi neri, parevano scintillare come ossidiana al chiarore stellare. Un intenso profumo di salsedine si sentiva per l’aria.
Alcioni le si avvicinò carezzandole dolcemente le guance e rassicurandola che, in
breve, avrebbe potuto far ritorno a casa. Ma per Tin-siao-pen quella, ormai, non
suonava più come una gradita notizia. Avrebbe voluto fermare il tempo e dirgli che
preferiva restare con lui, se lo avesse voluto, ma tacque aspettando gli eventi. Quanto
a lui, era com’essere andato per spugne ed aver trovato, invece, una perla rara da
cui non intendeva staccarsi, ma non osava manifestarglielo causa la differenza d’età
che li separava. Trascorsi alcuni giorni, guadagnarono finalmente il porto di Shangai.
L’andirivieni intenso, frenetico e caotico di quell’importante centro orientale con
la sua fantasmagoria di gente e di colori, metteva il capogiro.
Era giunto così il momento di sbarcare la fanciulla, sebbene...
***
Due mani sottili, delicate gli carezzavano ora morbidamente il collo interrompendo quel carosello di pensieri a ritroso che gli erano balenati nella mente nell’affacciarsi sul terrazzo prospiciente il mare. Egli le strinse fra le sue e senza voltarsi,
lo sguardo fisso davanti a sé, con un certo sorriso, mormorò: - Pensavo al nostro
incontro, ai momenti vissuti insieme da quando sei voluta restarmi accanto, ai
paesi che abbiamo visitato, ai posti che abbiamo toccato, alle piacevoli ore vissute
sulle navi e a quanto io sia fortunato ad averti e devo al mare quest’immenso
regalo.
- Che durerà in eterno, concluse Tin-siao-pen baciandolo teneramente mentre i
capelli, alla lieve brezza del vento, le scherzavano capricciosamente sul viso.
Alcioni ricambiò felice del suo amore e della sua presenza che gli donavano
immensa serenità e lo facevano consapevole che ella ormai racchiudeva tutto il suo
mondo in quei due occhi di velluto nero.
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Mar.llo Francesco Chirivì
GRAZIE, GUARDIA COSTIERA
Il telefono squilla
di notte, di giorno, di sera,
una voce risponde tranquilla:
- Capitaneria di Porto, Guardia Costiera.
Al di là del filo,
qualcuno parla con affanno e frenesia
e a fatica scandisce “soccorso” a panfilo,
peschereccio, nave e quel che sia...
Soccorso inquinamento...
non vi è differenza
si allerta tutto il personale in un momento,
con sapienza.
Il piano di emergenza
che il coordinatore responsabile estende
viene dato alla motovedetta in partenza
verso chi in difficoltà attende.
Le condimeteo del dì
preoccupano abbastanza
anche se in mare in quell’istante lì
a navigare è una Super Speranza.
Nella sala operativa
si concentrano tutte le comunicazioni,
si appronta ogni nuova iniziativa
che possa dare buone soluzioni.
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Occorre il tempo necessario,
prima che la motovedetta si porti in zona
e con lo sguardo teso sull’orario
il punto nave sulla carta si posiziona.
L’attesa si fa lunga;
l’aria diventa pesante;
la speranza è che giunga
nota rilassante.
Finalmente! Poco distante
dalla motovedetta un segnale di avvistamento arriva,
si tratta di un natante,
con due persone a bordo, alla deriva.
Si vivono minuti interminabili
a partire dalla ricevuta notizia,
pensando alle condimeteo instabili
fino al recupero delle persone con perizia.
Operazione felicemente conclusa,
la stima di tutti per i risultati ricavati,
carta stampata inclusa
che porta i nominativi dei salvati.
La motovedetta è stata ormeggiata,
il personale è intento a rassettare...
incalza un’altra mareggiata
e poco importa se potrà riposare.
Il telefono squilla
di notte, di giorno, di sera,
una voce risponde tranquilla:
- Capitaneria di Porto, Guardia Costiera...
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Mar.llo Giovanni Di Mauro
SOGNO E REALTA’
P
er il 50° delle nozze con mia moglie ci furono festeggiamenti oltre ogni
previsione. S. Messa di ringraziamento, fiori, regali, telegrammi augurali
di parenti e amici. L’immancabile pranzo di gala in un noto ristorante del
luogo concluso con la torta nuziale e i rituali brindisi con lo champagne. Ora per
completare la gioiosa ricorrenza bisognava fare il viaggio di nozze. Le nostre due
figlie avevano interpellato un’agenzia di viaggi per mandarci a New York dai nostri
parenti, che ci avevano più volte invitato a trascorrere un periodo di vacanza presso
di loro.
Io, a loro insaputa, avevo contattato un’agenzia specializzata in crociere, per sapere gli itinerari delle stupende navi da crociera che oggi solcano tutti i mari. Dopo
tantissimi anni, volevo riprovare a navigare in maniera rilassata e senza timori;
cosa purtroppo che non accadeva quando ero imbarcato nel periodo bellico, che di
rilassatezza non se ne parlava neppure.
Ma sia io che le mie figlie, non avevamo tenuto presente l’altra persona interessata a prendere parte al viaggio. Mia moglie!
Quando le proponemmo i nostri itinerari di viaggio, lei candidamente c’informò
che aveva fatto già gli approcci con l’albergo, ancora esistente, in cui 50 anni orsono
avevamo trascorso un periodo non tanto breve, della nostra felicissima luna di miele.
Non ci furono parole, argomenti validi né miei né delle nostre figlie atti a dissuaderla dalla sua decisione. Fu irremovibile. Sentenziò:
- O si va a Ravello oppure il viaggio dovrai farlo da solo.
In questa località, per la mitezza del clima e per i lussureggianti giardini e i magnifici panorami dimorò, tra le altre tante personalità illustri anche il famoso musicista Richard Wagner. Durante la sua permanenza in Italia nel 1882 e proprio qui a
Ravello ultimò l’opera “Parsifal”, dramma con cui concluse la sua carriera di musicista. Trasferitosi a Venezia moriva d’infarto l’anno successivo.
Alcuni giorni dopo, una delle figlie col marito, in macchina, ci accompagnarono
a Ravello, dove giungemmo nel tardo pomeriggio.
Fummo accolti con tanta cortesia, ed a mia moglie il direttore dell’albergo offrì
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un fascio di rose stupende. Ci avevano riservata la stanza che in certo qual modo
corrispondeva a quella da noi occupata 50 anni prima.
A conclusione della cena che consumammo la sera stessa, portarono in tavola
con nostra gran sorpresa la torta nuziale in segno di benvenuti. Ringraziammo il
personale del gentile pensiero, e stanchi del viaggio andammo a letto soddisfatti
dell’accoglienza riservataci.
Dopo aver scambiato qualche convenevole con mia moglie, augurandoci buona
notte ci addormentammo, almeno io, profondamente.
Sognai, nel sogno vidi il portiere che mi diceva:
- Commendatore! Giù c’è un tale che ha chiesto di lei.
- Non vi ha detto il suo nome?
- No, ha detto che lei lo conosce benissimo e che ha bisogno di parlarle urgentemente, sta aspettando nella Hall.
-Va bene, ditegli di attendere, tra poco scendo per sentire che vuole.
Quando scesi, trovai un giovane che dall’aspetto non poteva avere più di venti venticinque anni. Sorridendo mi venne incontro porgendomi la mano e addirittura
chiamandomi per nome. Questo mi sconcertò alquanto, perché quel giovane non
l’avevo mai visto, mai conosciuto.
- Ma noi ci conosciamo?, - chiesi - Dove ci siamo incontrati, e come posso io
anziano avere un amico giovane come voi!
- Siete il secondo capo furiere Mario Mozzone?
- Sì, sono proprio io!
- Noi ci siamo conosciuti in quel triste periodo esattamente a Taranto nel 1941.
- Mi volete dire chi siete! Come vi chiamate!
- Mi chiamo Antonio Casillo e sono di Amalfi. Sapendo che siete arrivato con
vostra moglie a Ravello in occasione delle nozze d’oro, sono venuto per farvi gli
auguri e per rammentarvi una promessa che certamente avete dimenticato.
- Dove ci siamo conosciuti esattamente, in quale posto e in che circostanza.
- Fu durante la vostra destinazione al Comando in Capo a Taranto, nel febbraio
1941. Io ero addetto alla pulizia degli uffici e nel riordinare gli alloggi dei
sottufficiali. Con voi c’era capo Randazzo, capo Bizziolo, capo Forcina.
Indubbiamente per conoscere questi miei commilitoni di cui ricordavo perfettamente i nomi e i volti era proprio vero che era a Taranto nel 1941.
- Dici di chiamarti Antonio Casillo, ma ci fu qualcosa di particolare che ti porta
a ricordare di me?
- Sissignore! Nelle vostre ore libere dal servizio, scrivevate per me, che sono
analfabeta, le risposte alle lettere che ricevevo da mia moglie Carmela.
Ad udire ciò, si aprì uno spiraglio nella mia memoria. Ora sì, ricordavo esattamente di lui. Ricordavo che al mio arrivo a Taranto, lui era già in servizio agli
alloggi sottufficiali. Senza che glielo avessi chiesto, mi aiutò a sistemarmi, mi pro-
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Giovanni Di Mauro
curò uno stipetto libero per riporre la mia roba e mi fornì un lucchetto con la relativa chiave. Il letto lo rifaceva con cura, come pure nel pulire e riordinare la mia
scrivania.
Queste premure nei miei confronti mi lasciavano perplesso, non sapevo a che
attribuirle, erano delle anticipazioni di cortesia che in seguito mi avrebbe chiesto di
ricambiare e di cui sul momento ne ignoravo la ragione.
Alcuni giorni dopo, stavo leggendo, durante le ore di riposo, si affacciò sulla
porta, si avvicinò timidamente dicendomi:
- Avite che fà! Premmettete, me putieese lescere sta lettre. Aggiate pacienza, me
iute na cosa inda l’uocchie e non la pozze lescere.
Esaudii la sua richiesta e mentre gliela leggevo, si udì nel corridoio una voce che
gridò: “Chille nu sape lescere!”. Feci finta di niente e continuai a leggere; ma Casillo,
offeso rintuzzò verse chi aveva gridato quella verità: “Puezze passà nu guaie!”.
L’indomani lo vidi venire con busta e foglietto tra le mani e mi chiese:
- Se ve cercasse nu fagore mm’ò facciareste?
E da quel giorno divenni il suo scrivano. Ogni qualvolta riceveva una lettera dalla
moglie, dopo averla letta, mi pregava di scrivere la risposta. Dovevo rileggerla
alcune volte prima di chiuderla per spedirla, alfine soddisfatto di quello che avevo
scritto mi diceva; - Io non m’abbasto a ringrazzià!.
La promossa! Sì, era vero che avevo promesso. Quando in una delle lettere della
moglie gli lessi che era incinta, fece dei balzi di gioia, mi abbracciò come se fosse
stato merito mio, che la moglie doveva avere un bambino. Quando si fu calmato,
mi disse che dovevo fare il padrino di suo figlio e volle la mia parola che al momento giusto non mi sarei tirato indietro. Trascorsero così i mesi, dalle lettere che gli
arrivavano e che gli leggevo seguivo con curiosità il procedere della gestazione.
Un giorno, mi fu concessa una breve licenza per un lutto accaduto in famiglia,
durante la mia assenza Casillo fu chiamato nell’ufficio movimenti dove gli comunicarono che era stato imbarcato sull’incrociatore “Alberico Da Barbiano”. Doveva
raggiungerlo a Palermo dove era di base.
Dal mio collega Pizziolo si fece scrivere una lettera alla moglie per dirle che
partiva per Palermo e che le avrebbe fatto sapere sue nuove al più presto. Al mio
rientro, appresi dal collega della sua nuova destinazione e aggiunse:
- Ha lasciato detto per te, di non dimenticarti della promessa fattagli.
Ne fui rattristato, ma si sa in quel tempo si veniva trasferiti facilmente per nuove
destinazioni e le evenienze portano facilmente a dimenticare gli amici occasionali.
Qualche tempo dopo mi giunse una cartolina da Tripoli che Casillo si era fatta
scrivere per me.
Il mattino del giorno 14 dicembre 941 giunse un fonogramma al Comando in
Capo di un tragico accadimento. Durante le prime ore, esattamente alle 03.25 l’incrociatore “Da Barbiano” prima, e alle ore 04.22 il “Di Giussano”, erano stati silu-
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rati nelle acque di “Capo Bon” (Tunisia), mentre cariche di materiale bellico e
truppe navigavano verso Tripoli, dai Ct inglesi: “Maori, Legion e Sikh”. Il “Da
Barbiano” colpito da tre siluri s’incendiò ed affondò immediatamente capovolgendosi. Pochissimi i superstiti.
Il “Di Giussano” colpito al centro da un siluro con inutilizzazione delle due macchine, di due caldaie e sviluppo di incendio. Ebbe appena il tempo di sparare qualche salva sul nemico che si allontanò subito. Dopo un’ora la nave spezzatasi in due
scomparve tra i flutti. Di questa nave gran parte dell’equipaggio e dei trasportati
riuscì a mettersi in salvo.
Nell’apprendere quella triste notizia, il mio pensiero corse a Casillo che si trovava sul “Da Barbiano”. Chissà se si era salvato. Col tempo si seppero i nomi dei
sopravvissuti, ma ahimè, non figurava tra quelli. Tutto poi col tempo e con gli
eventi bellici, sempre più tragici, passò nel dimenticatoio.
Ora a distanza di oltre mezzo secolo era lì davanti a me, così come lo ricordavo
l’ultima volta che lo vidi in vita. Gli chiesi incuriosito:
- Come mai non parli più in vernacolo?
- Dal posto da cui temporaneamente sono venuto, si parla una sola lingua: il
latino, questo per evitare confusione di linguaggio come successe durante la costruzione della torre di Babele. Sono stato autorizzato a “scendere” per potervi
incontrare e rammentarvi la promessa.
- Ma devi convenirne che ormai è troppo tardi per poterlo fare, tuo figlio è già
uomo maturo, a suo tempo sarà stato certamente battezzato.
- Questo dovete appurarlo voi!
- Già, come faccio a sapere queste cose, dove devo informarmi di come sono
andate gli eventi dopo la tua scomparsa?
- Ricordati che devi farlo, hai promesso e devi mantenere!
Stavo quasi per dargli del cocciuto, che mi ritenevo libero dalla parola data, essendo ormai trascorso tanto tempo da quel lontano giorno in cui promisi, ma era
scomparso dalla mia vista.
Al mattino mia moglie mi chiese:
- Ma stanotte che avevi, non facevi che girarti e rigirarti nel letto profferendo a
volte parole smozzicate incomprensibili, mi sembravi piuttosto agitato; siamo venuti qui per stare rilassati e tu mi sembri in ansia, cosa ti succede!
Le raccontai quello che mi era accaduto in sogno, una cosa inverosimile ma che
mi era parsa vera, come se vivevo in quel momento i fatti del 1941.
- Ma non me n’avevi mai parlato in tutti questi anni, come mai!
- A volte certe cose, certi periodi vissuti scompaiono dalla mente, in ispecie se si
tratta di cose spiacevoli, tristi come questa.
Durante la passeggiata che eravamo soliti fare dopo colazione, manifestai il desiderio di recarmi ad Amalfi, tanto più che era così vicina da Ravello. Sentivo una
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voce interiore che mi diceva: vai all’anagrafe, cerca di sapere la posizione attuale
della famiglia Casillo e dei suoi eredi.
Mia moglie fu del mio stesso parere.
- Penso che devi farlo il più presto possibile, chissà che non è stato un sogno
premonitore, devi proprio andare.
L’indomani di buon mattino, presi la corriera per Amalfi, il Municipio era lì davanti alla fermata. L’impiegato, mi chiese i dati:
- Casillo Antonio classe 920 l’indirizzo non lo conosco, un tempo lo sapevo a
memoria, avevo scritto tante lettere a quell’indirizzo. Ma gli anni inesorabili cancellano i ricordi.
Cercò tra i registri polverosi, sfogliò pagine e pagine, alfine esclamò:
- Casillo Antonio fu Gennaro classe 920, coniugato con Carmela Cucumazzo,
abitante in via Pasquale Chiatone N. 26. E aggiunse: Casillo è deceduto per cause
belliche in data 13 Dicembre 1941. La moglie è ancora in vita.
Ringraziai, chiesi come potevo recarmi a quell’indirizzo.
- Giù trovate le carrozzelle, ditelo al cocchiere l’indirizzo e siete già arrivato.
Ringraziai per l’informazione e mi affidai ad un cocchiere che mi portò a destinazione. Si fermò in una strada stretta davanti ad un sottano. Chiese alla donna che era
seduta fuori:
- Sta accà e case Carmele Cuccumazze?
La donna fece un segno di assenso, come per dire, abita qui. Poi rivolgendosi a
me disse:
- Signò, potete scennere, abbiamo arrivate!
Lo pagai e se n’andò. La signora che aveva risposto al cocchiere con la testa,
seduta fuori, si alzò e mi chiese:
- Che vulite, chi site, chille ca và cuntrullanne e penzione? Mia suocera tene solo
chille du marite muerte durande la uerre!
La rassicurai, non volevo controllare nulla, volevo solo parlare con la vedova
Casillo.
- Quann’è accussi, mo’ ve la chiame.
Affacciandosi nel basso chiamò:
- Mà!, Ué mà, accà sta nu signore ca te vole parlà.
Capii che chi chiamava doveva essere la nuora, moglie del bambino che a suo
tempo dovevo tenere a battesimo come promesso.
Uscì sulla soglia una donna che poteva avere pressappoco la mia età, ma ne dimostrava molto, ma molto di più. Il suo viso era coperto da una fitta rete di rughe
profonde, le spalle incassate come se portasse addosso un gran peso; aveva i capelli
radi e incanutiti, celati a malapena da un fazzoletto che portava sul capo piuttosto
logoro. La bocca sdentata e vestita dimessamente.
- Me vulite parlà! Chi site! Nov’àgie mai viste, e vuie comme me canuscite!
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- Io invece vi conosco, e da tanto tempo, attraverso le lettere che mandavate a
vostro marito quand’era a Taranto, lettere che gli leggevo e alle quali rispondevo
sotto dettatura del povero Antonio; quindi sapevo anche che stavate incinta e di cui
io sarei diventato il padrino per espressa volontà di vostro marito che si fece promettere che avrei mantenuto la parola data.
La donna mi ascoltava a bocca aperta, incredula di quanto le dicevo.
Alla fine esclamò:
- Giesù, Giesù! Ma vuie che me decite; Maronna mia, che stache a sende!. Site
vuie ca screvieve e lettre ad Andonie. Trasite, trasite! favurite, accussì potimmo
parlà de cose passate.
- Dicite! Dicite, faciteme sape’ de quanne stieve nzieme che Andonie? Isse quanne
venétte a case me parlaie e vuie, me decette; aggia truvate u patrine pu peccerille
ca dà nasce! Cummé c’avite aspettate tant’anne pe veni a truvarce?. E quante
tiembo avite state nzieme che Andonie?
- Beh! esattamente non ricordo, ma penso sei o sette mesi e forse più.
- Dicite, dicite...còmme ve truvate da chiste parte.
- Siamo venuti io e mia moglie a Ravello in occasione del 50° anno delle nostre
nozze per trascorrere un periodo di riposo.
- Uh! Che decite! Ebbrave, ebbrave. Agurie, agurie pé n’alte ciend’anne de bona
salute. Se cambave ancora Andonie, pure nuie l‘avisseme festeggiate, ma ù destine
a volute accussì, non c’è che fà.
- E il ragazzo? Cioè, ormai è uomo maturo. Vive qui con voi?
- Eccome! A vì loche, chesse é a mugliera soa. Ne’ Cungè, và a chiamà maritete
Gennarì; dencille, accà stà n’amiche de pate, chille ca duveve fà u patrine!
Rivelgendosi a me:
- Tena a puteca indò viche appriesse, face ù mestod’asce (falegname). Mò co u
vedite, che piezze d’òmme se fatte!
Concetta, tornò in compagnia del marito. Davvero un bell’uomo di aspetto e
aitante nella persona, capelli folti e ricciuti e mi parve di vedere una vaga somiglianza con il padre, benché lui era più basso del figlio.
- Gennari! Belle é mammà. Stu signore steve che patete a Tarante. Isse te duveve
tené a batteseme quanne nascieste. Accussì vuleva patete.
Gennarino, mi abbracciò e mi baciò scoppiando in lacrime sulla mia spalla. Ripresosi dalla commozione, si scusò per la famigliarità presasi, dicendomi:
- Ma io vi considero il mio padrino, se questa fu la volontà di mio padre, anche se
per circostanze tragiche non si é avverato..
Accennai che si stava facendo tardi, dovevo andare, mia moglie mi attendeva in
albergo per l’ora di pranzo. Dissi che sarei tornato ancora prima di partire, avrei
portato mia moglie per fargliela conoscere.
Mentre dicevo ciò, notai degli sguardi tra Gennarino e la madre, come se si par-
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lassero con gli occhi, ed ad un tratto la madre fece un cenno di assenso con la testa
verso il figlio.
Il figlio si alzò e guardandomi dritto negli occhi disse:
- Sig. Mozzone, dev’essere stato il destino, oppure mio padre, chissà, a mandarvi
qui da noi oggi, per farvi adempiere a quella promessa non mantenuta per cause
indipendenti dalla vostra volontà. Mio figlio e la moglie, dopo due bambine, finalmente giorni orsono hanno avuto il sospirato maschietto, a cui verrà imposto il
nome di mio padre; caso vuole che a tutt’oggi non è stato ancora battezzato per
alcuni dissapori nati tra i congiunti a chi spetta fare il padrino. La decisione che
abbiamo preso in questo momento, pur senza parlare, io e mia madre metterà fine
a queste beghe tra parenti. Poiché non avete potuto essere il mio padrino, è nostro
vivo desiderio che lo diventiate di mio figlio.
- L’avita fà,- incalzò la madre. - Andonie accussi vuleve, nun l’avite fatte pù figlie
facitele pu nipote. Isse sarrà felice de chessa decisione.
Accettai!
Ci salutammo e vollero abbracciarmi e non la finivano di ringraziarmi di essere
andato a trovarli e soprattutto per aver accettato di fare il padrino. Mia moglie mi
chiese: - Come mai tanto tempo, gli altri hanno già finito di pranzare!
Rimase allibita quando le raccontai minuziosamente quello che era accaduto, al
che mi rispose:
- Il sogno é stato premonitore, era proprio destino che esaudissi il desiderio di
suo padre, non avendo potuto col figlio, ora lo farai col pronipote. Si vede che la
promessa la dovevi proprio mantenere.
Il rito si svolse nel Duomo, celebrato monumento per la scenografica scalinata in
stile arabo-normanno del IX secolo. Mia moglie mise al collo del bimbo una collanina
con medaglietta in oro con l’effigie della Vergine, sul retro aveva fatto incidere:
“Promessa mantenuta 1941-1995 M.M.” (Mario Mozzone).
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Anno 1975 - I ed. del Premio - Sono presenti T. V. Luciano Dassatti oggi Ammiraglio, il Sindaco dott.
Salvatore Patti, il Presidente del Circolo Gioacchino Copani e il dott. Gaetano Ragunì oggi Provveditore
agli Studi di Catania
Anno 1976 - II ed. del Premio - E’ presente Mons. Salvatore Costanzo oggi Vescovo di Siracusa
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Andreina Lanza
IL FURORE DEL MARE
Mare,
ho visto la tua implacabile ira
le navi affondare,
aggrovigliate nel tuo inesorabile vortice,
le onde squassare la riva
il tuo grido confuso al furore del maestrale.
Ho conosciuto la tua collera!...
E poi ho sentito il tuo silenzio, l’agghiacciante silenzio,
l’indifferenza per l’uomo: che senza pietà
ha saccheggiato e deturpato la tua bellezza
profanato il tuo pudore,
ha vomitato pece nei tuoi fondali
coperto di tenebre il tuo azzurro,
ha cambiato in ghigno il tuo fanciullesco sorriso,
ha soffocato nella melma la tua melodiosa voce!...
Ti chiedo perdono mare, nel sacro nome del tuo Universo;
perdono per gli oltraggi,
per lo sterminio degli uccelli (tuoi angeli custodi)
per la sopraffazione, l’indifferenza, l’odio e l’egoismo
che fa dell’uomo: un criminale senza regno né Dio,
ti chiedo perdono, per i tuoi fondali grondanti di sangue
e la muta agonia delle tue indifese creature!
Per tutti i martiri e gli eroi che giacciono nel tuo grembo
immersi nell’apoteosi dell’ultima preghiera.
Oh! Immenso mare, arcano e meraviglioso, severo e paterno:
Placa il tuo furore! ...
Restituisci agli uomini di buona volontà la fede di Noè,
la dignità secolare del saggio marinaio (tuo prediletto)
affinché le tue reti, purificate dall’amore
e benedette da Dio
affiorino colme di grazia
per sfamare gli uomini redenti! ...
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Il Provveditore agli Studi di Catania, dott. Gaetano Ragunì, premia i Presidi proff. Aurelio Strano e
Armando Patané con Targa d’argento al merito: «Due uomini di vecchia stampo, due figure
rappresentative della nostra Riposto che hanno speso la loro vita al servizio della Scuola e della Cultura.
Questo Premio vuole essere il riconoscimento di una Comunità che ha potuto apprezzarli come bravi
insegnanti prima e come efficienti presidi dopo.»
Il palco del Festival della Canzone marinara
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Cap. L.C. Girolamo Melissa
QUEL TRAVAGLIATO VIAGGIO PER NOVOROSSIJSK
E
ra quasi la fine del 1968, dopo aver sostenuto gli esami di Patentino a
Genova, imbarcai con la qualifica di 3° ufficiale sulla T/c AGIP LIVOR
NO; avevo lasciato la compagnia di navigazione SIDARMA a malincuore, ma il desiderio di bruciare le tappe della mia futura carriera mi aveva fatto
decidere in tal senso, in quanto all’epoca di questo mio racconto la sopraddetta
Società di navigazione possedeva soltanto cinque navi che effettuavano gli indimenticabili viaggi per il centro America.
Oggi, con l’esperienza dei miei cinquant’anni, quella scelta non l’avrei certo fatta, avevo lasciato quelle meravigliose serate Messicane per il torrido sole del Golfo
Persico; infatti, la petroliera “AGIP LIVORNO” effettuava di norma viaggi per il
kuwait e raramente, con grande gioia di tutto l’equipaggio, qualche viaggio per il
Mar Nero.
Non ricordo esattamente se fu durante il primo o il secondo viaggio per
Novorossijsk che accadde quello che sto per raccontarvi.
Avevamo ultimato le operazioni di discarica e avevamo lasciato il porto di Multedo
(Genova), diretti in Russia, alle prime luci dell’alba di una giornata quasi primaverile: il mare calmo, l’affilata prua fendeva l’acqua mentre alcuni delfini giocavano
festosamente. La nave viaggiava alla massima velocità spinta dalla sua potente
turbina, tutto era tranquillo a bordo e le ore passavano alternando la guardia agli
svaghi, alla lettura, al pensiero della famiglia che perennemente angoscia l’animo
di ogni navigante. Avevo fatto un pieno di profumo di zagara nell’attraversare lo
stretto di Messina, ed ora eravamo quasi in vista dei Dardanelli; come di consueto
era compito del 3° ufficiale scendere la biscaglina per salire a bordo della motobarca
ufficio, mentre la nave sotto la guida esperta del pilota locale continuava la navigazione nello stretto.
Avevo preparato tutti i documenti e la solita stecca di sigarette americane, poiché
anche se tutto è in ordine serve sempre ad ammorbidire l’accigliato ufficiale turco
che mi stava osservando seduto dietro quella piccola scrivania colma di timbri di
ogni forma e misura.
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Mi aveva ringraziato con un cenno del capo dopo avere conservato la stecca in
cassetto ed ora osservava con cura l’atto di nazionalità della nave, che come si sa è
il suo certificato di nascita.
CANAKKALE, si chiama così il posto ove si effettuava tale operazione, nome
amato, per lo più dai naviganti di un tempo che fu, in quanto si riceveva la tanto
attesa posta; oggi nell’era dei cellulari, dei telefoni, in genere la cara e tanto desiderata lettera è stata dimenticata totalmente.
Certamente oggi il navigante soffre meno di ansia, ma allora il potere di quella
lettera, sia che essa fosse della cara madre o della donna amata, aveva un fascino
indescrivibile; mi sentivo orgoglioso e responsabile allo stesso tempo quando, dopo
aver sbrigato le formalità, risalivo la biscaglina con quel carico prezioso. Giunto in
coperta, quasi tutto l’equipaggio pendeva dalle mie labbra, mentre circondato leggevo ad alta voce i cognomi dei destinatari, come quando a scuola i maestri chiamano l’appello.
Quanta delusione e amarezza si notava alle volte negli occhi di chi per un motivo
o l’altro restava a mani vuote.
Mi sentivo stupidamente responsabile quasi fossi stato io stesso a provocare tale
situazione.
Eravamo ancora in navigazione nelle acque del Mar di Marmora, erano circa le
sette di un mattino assai fosco, stavo attraversando la passerella, che dal mio alloggio portava verso poppa, quando il marinaio, il buon Raimondo, un chioggioto di
notevoli qualità marinare, che di lì a poco avrebbe preso con me il servizio di guardia sul ponte, mi chiamò con voce concitata: «Sior, sior presto venga corriamo», il
viso sbiancato come se avesse visto qualcosa di terrificante, «Cosa è successo»,
forse gli gridai mentre lo seguivo velocemente verso poppa. «Sior, il fuochista Rossi si sta facendo la barba in cabina».
Non ebbi il tempo di riflettere su quella ridicola risposta che fummo in pochi
attimi sulla soglia della piccola cabina del fuochista, un gelese di poco più di trent’anni, che per una questione di delicatezza continuerò a chiamarlo Rossi in questo mio
racconto.
La faccia piena di schiuma bianca, l’asciugamano sulla spalla, se ne stava dritto
davanti lo specchio; si voltò di scatto verso di me e mi guardava quasi stupito,
mentre io ansimavo per la precedente corsa. In quell’attimo mi si gelò il sangue
nelle vene perché notai, stretta tra le dita (della mano destra), una nuda lametta con
la quale pericolosamente tentava di radersi.
Aveva lo sguardo assente, gli occhi si muovevano in un modo strano; a questo
punto capì subito che il cervello del povero Rossi, per un motivo che in quell’istante ignoravo, era andato in tilt.
Riuscii a mantenere la calma fortunatamente e, parlandogli in dialetto siciliano,
cercai di stabilire una conversazione amichevole senza drammatizzare.
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QUEL TRAVAGLIATO VIAGGIO PER NOVOROSSIJSK
Girolamo Melissa
Quando giunse il comandante, che nel frattempo era stato avvisato della situazione, ero riuscito quanto meno a farmi consegnare da Rossi la pericolosa e inconsueta
arma promettendogliene una di qualità superiore.
Anche il comandante, un vecchio procidano di grande esperienza, con estrema
discrezione diede ordini ben precisi per fronteggiare la critica situazione che si era
venuta a creare.
Nonostante avessi la mente confusa, notai che la presenza del comandante ebbe
un effetto positivo sul fuochista, e gli obbediva quasi come un automa agli ordini;
evidentemente, nel suo subcosciente, il rispetto per la massima carica a bordo era
rimasto intatto.
Si mise a passeggiare nei corridoi assieme al comandante, mentre io e il marinaio,
rovistando nei cassetti dei mobili della sua cabina, toglievamo tutto quello che potesse essere pericoloso per lui e per gli altri; anche l’ascia da pompiere situata nella
paratia del corridoio lato dritto fu prudentemente rimossa.
Il fuochista Rossi era molto robusto e da ragazzo aveva frequentato con discreto
successo una palestra di pugilato; questo aggravò ancor di più la situazione, in
quanto giustamente la sorveglianza non poteva essere, per ovvie ragioni, affidata
ad un solo marinaio.
La navigazione continuò con il sacrificio di tutti; gli ufficiali montavano di guardia senza marinai; il comandante, il marconista, il nostromo, di solito fuori guardia,
gli facevano compagnia mentre la nave procedeva con il pilota automatico.
Durante la notte creava seri problemi: era molto nervoso, dormiva ad intervalli, si
alzava di scatto dalla cuccetta, non sopportava la presenza dei due marinai messi lì
per la sua sicurezza; diverse volte tentò il suicidio in quei due giorni di navigazione
interminabili. Il comandante aveva appurato che il fuochista aveva avuto precedentemente una discussione animata con il caporale di macchina; che sia stata questa la
causa rimarrà per sempre un mistero, così come è misterioso e allo stesso tempo
complesso il nostro cervello.
Fu quasi una liberazione quando l’ancora affondò nella rada di Novorossijsk. Il
comandante immediatamente informò l’autorità competente e la locale agenzia della
situazione a bordo, chiedendo urgentemente l’invio di uno specialista. Ero di guardia sul ponte ed erano passate da poco le ore nove, i due marinai erano in compagnia del signor Rossi ed io ero solo con i miei pensieri, stavo scrutando con i binocoli il magnifico panorama, quella boscaglia sempre verde, lambita dal mare.
Novorossijsk mi piaceva molto; durante il viaggio precedente avevo conosciuto
Valentina, la classica ragazza asiatica dal viso bianco e rosso, con gli occhi di un
azzurro molto intenso, la sua gentilezza, il suo modo di fare, il suo meraviglioso
sorriso, nonostante siano trascorsi moltissimi anni, sono rimasti intatti nella mia
mente.
Mi ricordo che le avevo disegnato sulla borsetta bianca di finta pelle lo stemma
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riprodotto sulla nostra ciminiera, il famoso cane a sei zampe.
A Genova le avevo comprato un disco di Celentano, alcune paia di calze di nylon
di diverso colore ed un bracciale di perle coltivate, tutta merce desiderata a quel
tempo dalle ragazze russe. Non vedevo l’ora di scendere a terra per poterla rivedere.
All’improvviso vidi un veloce motoscafo bianco che uscito dal porto ora si dirigeva deciso verso di noi, avvisai telefonicamente il comandante e mi precipitai in
coperta nei pressi della scala reale; il barcaiolo accostò alla scala; gesticolando e
parlando un inglese di difficile interpretazione mi fece capire che a bordo c’era il
dottore.
Rimasi stupito da quella fragile e minuta figura che uscì dall’abitacolo della
motolancia; ora saliva lentamente la scala con la classica valigetta nera, un impermeabile color sabbia.
La osservavo con attenzione, mentre mentalmente rimproveravo a me stesso il
fatto di aver pensato, da maschilista, che una donna così fragile, come appariva,
non potesse fare il mestiere dello psicanalista.
Fu presto in coperta e dopo le presentazioni del caso la accompagnai nel salone
dove il comandante con il malato e le due guardie del corpo erano in trepida attesa.
Non doveva avere più di trent’anni, era assai graziosa con i capelli a caschetto di
un colore biondo oro che facevano da cornice al viso minuto.
Aveva un’espressione spaurita, chissà, forse era la prima volta che le capitava di
visitare un malato di mente a bordo di una petroliera abitata solamente da uomini.
Le feci strada spingendo cortesemente la porta del salone mentre il comandante
alzatosi dalla sua poltrona le venne incontro presentandosi a sua volta.
Rossi guardava attentamente la dottoressa e sbuffava come una vecchia locomotiva a vapore mentre lo visitava accuratamente.
Feci un cenno di intesa ai due marinai che erano pronti ad intervenire per qualsiasi evenienza; solo Dio poteva sapere i pensieri che si agitavano nella mente confusa di Rossi.
Ultimata la visita la dottoressa si appartò con il comandante nella piccola saletta
adiacente al salone e capii subito tutto guardando il volto della professionista; la
conferma l’ebbi quando poco dopo il comandante in segreto mi mise al corrente
della diagnosi.
La dottoressa aveva consigliato di sbarcare il marittimo in quanto era pericoloso
per sé e per gli altri, e aveva ulteriormente aumentato le preoccupazioni del comandante ricordandogli che eravamo su una bomba galleggiante; involontariamente
aveva messo il coltello nella piaga.
In quel momento viene a galla tutta la responsabilità; la figura del comandante, di
colui che a bordo fa una vita molto comoda, ma che in alcuni momenti si trova
completamente solo a risolvere problemi enormi.
«Melissa, che Dio ci assista», mi disse con voce che non nascondeva un certo
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QUEL TRAVAGLIATO VIAGGIO PER NOVOROSSIJSK
Girolamo Melissa
nervosismo, «ho deciso di non sbarcare Rossi in questo posto. Sarà un sacrificio
per tutti, correremo qualche rischio, ma in questa terra non mi sento di lasciarlo».
Avrei voluto abbracciarlo in quel momento e sicuramente il comandante si accorse
attraverso i miei occhi che io condividevo appieno la sua tanto sofferta decisione.
Comunicammo la nostra volontà alla dottoressa, la quale augurandoci buona fortuna mi lasciò le medicine per il paziente; annotai con cura in un quaderno le modalità d’uso che lei gentilmente mi dettava.
Avevo visto Valentina ma la mia franchigia a terra quella volta fu diversa; mentre
cercavo di svagarmi, avevo costantemente il pensiero a bordo e al povero Rossi.
Il viaggio di ritorno sembrò più lungo del solito, e ciò era prevedibile, sudai le
sette proverbiali camicie per somministrare le medicine al malato, a volte sembrava
un bambino, nascondeva le pastiglie sotto la lingua e poi ridendo le sputava via
beffandosi di me; dovetti agire con astuzia e messomi d’accordo con il cuoco feci
mescolare le medicine nei vari cibi.
Fu un sollievo per tutti quando, dopo il pranzo successivo, il fuochista cadde in
un sonno profondo e dormì per molte ore. Quando si svegliò sotto gli occhi vigili
dei due angeli custodi, evidentemente assai riposato, iniziò a passeggiare in lungo e
largo per tutta la nave facendo percorrere ai marinai decine di chilometri contro la
loro volontà.
Il comandante aveva informato della propria decisione l’armatore, il quale tramite agenzia aveva organizzato il tutto per il ricovero urgente in una clinica specializzata della città ligure.
Quando lasciammo Genova per intraprendere un altro viaggio, la tranquillità era
ritornata a bordo e ci sentivamo fieri perché il nostro sacrificio era servito a salvare
sicuramente un nostro compagno.
Non ricordo più in quale porto ci trovavamo, ormai quell’avventura faceva parte
dei nostri ricordi passati; il comandante ricevette una lettera dalla lontana Gela, era
la moglie del fuochista Rossi che con parole assai aspre spiegava al comandante
che era venuta a conoscenza del ricovero del marito molto tempo dopo e cioè quando lei, non ricevendo lo stipendio del marito, aveva telefonato a Milano; aveva
ragione quel vecchio marinaio triestino quando all’inizio della mia carriera sul mare
mi disse: «Ragazzo, ricordati che la lettera ha la sua importanza, ma la certezza
della nostra buona salute a bordo è data alle famiglie dal salario che alla fine del
mese viene rimesso».
Era stata ingiusta la signora, non era compito del comandante avvisarla, forse lui
aveva salvato il marito dalla morte, ma questo la signora non lo seppe mai.
Il comandante ebbe un attimo di smarrimento, ma poi conservò la lettera con cura
insieme a tante altre in quel grosso bagaglio chiamato “ESPERIENZA”.
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Cap. D.M. Luciano Molin
È SATANA IL NEMICO!
Eravamo venuti per portarvi farina,
non sapevamo chi era Maometto
poco sapevamo di Cristo.
All’arrivo ci avete sgozzati
aperti come agnelli.
Morendo udimmo: - isslamm... isslamm.. del sangue il sibilo
dalle nostre gole spillante:
- mamm..ma.. - e si chiuse
il suono nelle bocche svuotate.
Perché noi che eravamo venuti
con stive cariche di farina?
Marinai parlavamo il dialetto
dicevamo “paisà” come voi dite “Allah”,
non importava per noi se il vostro pregare
era volto ad oriente, noi dovunque piegavamo i ginocchi.
L’oriente e l’occidente si potevano
anche toccare alla fine del viaggio:
era solo questione d’aspettare.
Bisognava mangiare ogni giorno
e noi venimmo con “Lucina”
carica di farina.
Voi ci avete tagliato la gola
avete sparso la semola sulle pozze di sangue,
sarà rosso il vostro “couscous”
sarà dolce di sangue.
A Procida i figli aspettano il padre
che giunga svuotato di sangue,
del sangue seccato su lame arrugginite.
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Perché avete fatto un’offesa come questa
ai fratelli di “El Msih”, ai fratelli di “Rabbi”?
Il nostro sangue resterà senza riscatto
senza perdono senza speranza.
Che gusto avrà l’acqua del pozzo
nell’oasi di Jijel, nell’isola di Procida?
Poveri che trucidate i poveri
bestemmiando,
ascoltate dei morti la sentenza:
- È Satana il nemico! -
Il Direttore di Macchine Luciano Molin di Mestre VE
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Concetta Musumeci
MARE MIO GRANDE AMORE
Un nodo mi serra la gola
mentre mi avvio verso casa.
Gocce di pioggia mi bagnano il viso
ed io penso a te:
“Mare mio grande amore”.
Come un uomo galante mi tenti
e accresce in me il desiderio di averti.
Verrò, verrò da te...
e danzerò
e canterò
e sognerò: che tutti i marinai
tutti i capitani sfileranno per me.
E la tua musica sarà un inno
alla vita
all’amore
alla pace.
Ti amo...
“Mare mio grande amore”
verrò, verrò da te...
E tu mi racconterai di tutti i pescatori
della loro gioia per la ricca pesca
e di tutte le navi che hanno
baciato le tue acque.
Oh!
Comune di Riposto
“Mare mio grande amore”.
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Si scioglie ora quel nodo
che mi serrava la gola.
E il pianto mi strugge
in questo attimo di vita
che svanirà.
Ma io godrò appieno...
Non lascerò scivolare la vita,
io riderò
io piangerò
...e vivrò.
E poi...verrò, verrò da te
“Mare mio grande amore”.
Un’altra veduta della villa Costanzo
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Cap. Sup.D.M. Giovanni Pagano
MARTINO CAFIERO
D
a circa sei anni navigavo con la Flotta Lauro e non avevo avuto occasione di
conoscere il Comandante Martino Cafiero. Tutti ne parlavano nei discorsi di
bordo come una persona che portava “iella”, poiché dove c’era Lui succedevano
sempre guai, era proprio il classico tipo “scalognato”. Aveva avuto parecchie disavventure e tante avarie generali e quando si parlava di Lui i marinai facevano le
corna e tutti gli scongiuri di rito, sperando sempre di non incappare mai sulle navi
dove Lui era al comando. Nessuno diceva però che Martino Cafiero non fosse un
bravo Comandante, anzi come mestiere n’aveva da vendere, era un ottimo Comandante. Ascoltando questi discorsi io annuivo con la testa ed anziché pensare come
la pensavano tutti immaginavo il Comandante Martino Cafiero un grande uomo,
che nonostante tutte le peripezie che aveva passato e sopportato, continuava la sua
vita sul mare, sempre con più testardaggine, ligio al dovere, sempre pronto ad affrontare gli ostacoli ed il destino avverso. Le sue ultime peripezie le avevo apprese
sulla M/n Ravello, una vecchia nave costruita nel 1940, un gioiello per quell’epoca
al cui varo aveva presenziato il Capo del governo Benito Mussolini. La nave fu
adoperata durante la guerra per trasporto truppe, e nell’immediato dopoguerra servì
al trasporto dei nostri emigranti per il Venezuela. Questo vecchio ferro da stiro
venne ancora una volta trasformato ed adibito per trasporto merce varia e alla rinfusa. Nei lavori di trasformazione, furono lasciate molte cabine passeggeri sul cassero
di poppa e 1' immenso salone di riunione, come per dimostrare il suo vecchio e
glorioso passato. Fra le cabine passeggeri e la discesa in sala macchine c’era uno
spazio che chiamavamo “Piazza Banchi”, come la famosa piazzetta di Genova
dove i marittimi contattavano i “sensali” per imbarcare. Uno di questi famosi sensali
era un certo “Carletto”. Questo spazio era il punto di riunione dove si pronunciavano i discorsi più disparati ed i ragionamenti della giornata.
M’imbarcai sulla M/n Ravello a Trieste il 23 aprile 1966 ed il Comandante Martino
Cafiero era sbarcato il viaggio prima, perciò a “Piazza Banchi” la sera c’era tanto
da raccontare e l’equipaggio era contento che era sbarcato quello “jettatore” (espressione tipica napoletana).
A furia di sentire parlare di quest’uomo come l’uomo della sfortuna, l’uomo che
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porta male, pur non conoscendolo mi ero affezionato al personaggio perché era un
cognome a me tanto caro che avevo scoperto per la prima volta nel lontano 1951
quando m’iscrissi all’Istituto Tecnico Nautico di Riposto. Non sapendo dove si
trovava e non conoscendo il nome della via chiesi informazioni al giornalaio di
Piazza San Pietro, il quale gentilmente mi disse che dovevo prendere Via Gramsci
e svoltare alla prima traversa a sinistra. Per non sbagliare, all’angolo prima di girare
c’è il panificio di don Camillo. Seguendo le indicazioni, trovai la stradina e lessi per
la prima volta che si trattava di Via Federico Cafiero. In seguito seppi che Cafiero
era stato il primo preside dell’Istituto Nautico di Riposto. Un cognome rimasto
tanto caro, familiare, come un qualcosa che mi apparteneva ed, ogni qualvolta che
sentivo parlare a sproposito del Comandante Martino Cafiero, era come se m’avessero ferito personalmente negli affetti più cari.
Una sera nella nostra “Piazza Banchi” seppi appunto dai marinai del disgraziato
viaggio e tutti i guai che il Comandante Cafiero aveva passato sul “Ravello”, dopo
un lungo e difficile viaggio dall’Italia a Santo Domingo, in centro America, ed
altrettanto disgraziato quello di ritorno da Santo Domingo a Napoli. Io ascoltavo e
tentennavo il capo, più ascoltavo più si ingigantiva questa figura di Comandante e
speravo, un giorno o l’altro, d’incontrarlo, parlare con lui, sapere della sua viva
voce questo racconto che immaginavo tanto drammatico, poiché veramente mi era
stato dipinto a fosche tinte.
Dopo circa otto mesi e mezzo d’imbarco sul “Ravello”, il 30 dicembre 1966,
venni trasbordato sul piroscafo Gioacchino Lauro. Il Gioacchino Lauro era un liberty
che doveva servire agli americani ad affrontare un solo viaggio e che nel 1966
navigava ancora. Un taxi mi accompagnò al porto nuovo di Trieste dove il Gioacchino
Lauro era ormeggiato. Per prima cosa notai, con somma meraviglia, che la nave era
carica all’inverosimile, cataste di materiale sanitario che arrivava fin sopra la “normale”. Il primo a venirmi incontro fu il Comandante Giacomino Paturso, uomo di
fiducia della Flotta Lauro, amico personale di “Don Achille Lauro”, che dirigeva
tutto il piano del carico ed era il responsabile di tutta la merce accatastata sul molo.
Erano i tempi d’oro della Flotta Lauro, sei coppie di navi, partivano da Trieste,
cariche con ogni ben di Dio, dirette nei paesi del Golfo Persico, merce che per la
maggior parte arrivava dai paesi dell’Est (Cecoslovacchia, Ungheria). Salii a bordo
dove mi venne presentato il Comandante della Nave: Martino Cafiero! Trasalii e mi
vennero in mente tutte le storie che avevo sentito raccontare sul suo conto sul
“Ravello”, gli strinsi la mano e farfugliai a malapena il mio nome. L’allievo di
coperta mi accompagnò attraverso una scaletta, dove di fronte c’era la mia cabina,
ove sistemai subito tutte le mie cose.
Il Comandante Martino Cafiero era molto diverso da come l’avevo immaginato,
pensavo di trovare un uomo alto smunto, scavato dalle sofferenze del mare, invece
mi sono trovato davanti un pezzo d’uomo tarchiato di grossa stazza con un faccione
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MARTINO CAFIERO
rosa che sprizzava salute da tutti i pori. Ad occhio e croce stimai che poteva avere
sui quaranta-quarantacinque anni e non mi sbagliai. Subito mi risultò simpatico, un
uomo affabile e soprattutto leale, aperto, ed anche un tipo scherzoso. La simpatia,
come si sa, così come l’antipatia, è reciproca, pertanto simpatizzammo subito. Mi
sono trovato tanto bene che rimasi a bordo per due anni di seguito e chissà ancora
quanto ci sarei rimasto se il 17 ottobre 1968 la nave non fosse andata in disarmo per
vetusta età ed essere tagliata nel porto di La Spezia. Per me e per il Comandante
Cafiero fu un giorno di lutto, le navi non hanno un’anima, ma c’è qualcosa che ti
unisce, che senti d’amare, e quando la perdi è come se ti venisse a mancare una
persona cara.
Di quei due anni trascorsi sul Gioacchino Lauro ho tanti ricordi da raccontare di
Martino Cafiero, che io chiamavo “il mio Comandante” mentre lui, benevolmente,
mi chiamava “Giannuzzu”, per me era un padre più che il Comandante ed ero tutto
orecchi ad ascoltare i suoi racconti.
Partimmo da Trieste stracarichi, con la merce stivata perfino nei “carruggetti” e
nelle cabine, diretti nei porti di Khorramshahr (oggi Bandar Komeini) e Bassora,
situati sullo Shattal-Arab.
Tutte le sere dopo aver finito il mio turno di guardia (smontavo alle ore 20.00)
avevo preso l’abitudine di salire in plancia e conversare con Martino Cafiero, che,
seduto su una sedia altissima, scrutava l’orizzonte mentre la nave avanzava. Ma in
questo viaggio non si vedeva nulla, perché, come dicevo, la merce copriva tutto
l’albero maestro, lasciando scoperto sola la “formaggetta”.
Fu una di queste sere, mentre facevamo rotta su Port Said, che mi sedetti sulla
pedana vicino alla sua sedia e gli chiesi, data ormai la confidenza acquisita, che
raccontasse la brutta storia che aveva avuto sul Ravello.
Io, la storia, l’avevo sentita raccontare parecchie volte dai marinai e la conoscevo
perfettamente, ma volevo ascoltarla dalla sua viva voce, da lui, che ne era stato il
protagonista.
Fu così che iniziò il racconto:
«Partimmo da Napoli i primi di dicembre del 1965 per Santo Domingo nei Caraibi,
dopo aver fatto i lavori di riparazione ed il carenaggio alla S.E.B.N: (Società Esercizi Bacini Napoletani). Prima di partire ci fu un battibecco far il Direttore di Macchina e l’Ispettore di Macchina Pasquale Barbieri, causa il non perfetto allineamento dell’asse portaelica rispetto alla linea asse. Il Direttore insisteva perché venisse
perfettamente allineato, in quanto tale anomalia poteva causare gravi conseguenze.
Ma, come si sa, gli armatori fanno pressioni, poiché la nave ha un costo d’esercizio
e deve partire e che qualche millimetro d’abbassamento non compromettono la
sicurezza della nave. Poi, se si dovesse rompere qualche perno degli accoppiatoi,
diceva 1’Ispettore, il cantiere darà una serie di perni da poter sostituire. A malincuore siamo partiti, facendo rotta per Gibilterra e giù per le Canarie. Tutto era tran-
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
quillo, anche il mare ci era stato amico dato il periodo invernale. Quando mancavano tre giorni per arrivare a Santo Domingo si è rotto un perno dell’accoppiatoio, poi
un altro, poi un altro ancora, insomma fummo costretti a fermarci. Il Direttore di
Macchina, con tutto il personale, tutti giù nel “tunnel” per cercare di togliere i perni
tranciati e mettere quelli nuovi. Siamo ripartiti a lento moto, aumentando la velocità di crociera e di sicurezza nello stesso tempo, lasciando una persona sempre fissa
vicino all’accoppiatoio onde segnalare i movimenti dell’asse. Dopo circa 12 ore di
navigazione si manifestano altre rotture, e giù nuovamente a sostituire i perni. Eravamo in vista dell’isola caraibica, stavamo per imboccare il Canale di Mona, quando ancora una volta si tranciano tutti i perni. C’erano rimasti solo due perni, il terzo
macchinista, quello che si dava più da fare a “battere di mazza”, riuscì, ancora una
volta, a togliere i perni rotti e infilare gli ultimi due che ci consentirono d’arrivare
davanti al porto di Santo Domingo, dove demmo fondo, ma nella manovra si ruppero gli ultimi due perni rimanendo con l’asse portaelica staccato dall’accoppiatoio.
Per prima cosa chiamammo l’Agenzia, dalla quale ci fu risposto che non potevano
salire a bordo a “fare la pratica” in quanto a terra era in corso una rivoluzione e la
sera c’era l’obbligo del coprifuoco, se mai l’indomani, se la situazione fosse migliorata avrebbero fatto in modo di venire a bordo. Il giorno dopo l’Agenzia non
venne, io le spiegai le condizioni in cui eravamo ed avevamo bisogno di un’officina
per farci dei perni per l’accoppiatoio asse portaelica. Alla fine decidemmo con
l’Agenzia che avremmo messo noi la lancia di salvataggio in mare e che ci avrebbero aspettato fuori del porto su una vicina spiaggetta e vedere se un’officina ci poteva fare questi benedetti perni. Nella lancia andai io, il Direttore di Macchina, due
marinai e un motorista. Eravamo diretti a tutta velocità quando di botto si ferma il
motore, vani furono i tentativi per metterlo in moto e siamo rimasti alla deriva. In
quella zona la corrente si aggira sui quattro-cinque nodi, è come un fiume in piena,
noi cercavamo di remare, ma la corrente era più forte di noi, eravamo disperati, più
sfortunati di così non potevamo essere. Poi come per miracolo la corrente cambiò
direzione, riuscimmo alla disperata, stremati nelle forze e con gli occhi sbarrati
dalla paura, a toccare terra, issando sull’alberetto un asciugamano bianco, insieme
al tricolore.
L’Agenzia, che ci aspettava, ci portò in un capannone-officina dove consegnammo uno dei perni rotti dicendo di farcene 24. A furia di “smanettare”, di pulire le
“candele” il motore della lancia ripartì e cosi tornammo a bordo, nessuno parlò o
fece commenti, eravamo morti dalla paura. Dopo dieci giorni che eravamo all’ancora vennero i rimorchiatori e ci portarono in porto, dove subito iniziammo la discarica, e subito dopo la caricazione dello zolfo con destinazione Sfax (Tunisia).
Durante la sosta furono sistemati i perni dell’accoppiatoio, tenendoci cari quelli di
riserva. Potevamo stare tranquilli con tutti quei perni di scorta, ma la tranquillità
durò appena due giorni di navigazione quando il terzo giorno si spezzavano ad uno
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MARTINO CAFIERO
ad uno come stuzzicadenti. Un giorno se ne rompeva uno, poi due, qualche volta
tre, il fatto sta che il mare si era messo in burrasca, avevamo superato da poco le
isole Canarie quando rimanemmo con l’ultima muta di perni. Ad uno ad uno si
spezzarono anche questi e rimanemmo così in balia delle onde, eravamo come un
cavalier che perde la spada e aspetta che l’altro cavaliere lo finisca. Il panico incominciò ad impadronirsi dell’equipaggio, il nostromo che sbraitava «Ho i figli a
casa! Comandante vede cosa deve fare!». Il marconista che pestava sui tasti del
telegrafo, la Flotta Lauro ci rispose che in zona c’era la M/n Napoli, che stava
venendo in nostro soccorso. Infatti, la “Napoli” si avvicinò il più possibile a noi e
sparò il primo razzo con il sacchetto del “live line” ma cadde in mare, a furia di
provare sia noi che loro avevamo finito i razzi, finalmente l’ultimo arrivò a bordo,
dove fu legato al cavo da rimorchio. Era quasi tutto pronto per il rimorchio ma al
primo strappo il cavo si ruppe e svanirono le nostre speranze. La nave veniva
sbatacchiata dalle onde sempre più alte tanto che la murata di diritta, all’altezza
della cambusa, si squarciò e l’acqua invase tutto il locale. A bordo oltre allo spavento era sceso uno scoramento generale, si vedevano delle facce allampanate e
qualcuno sulla “tolda” della nave che stava in ginocchio a pregare, sperando ed
implorando che Iddio non si fosse dimenticato di noi e che qualcuno ci venisse a
salvare. La M/n Napoli stava a poca distanza da noi, ma era impotente per venire in
nostro soccorso date le proibitive condizioni del mare, aspettavamo da un momento
all’altro la tragedia. Ma la speranza è l’ultima a morire, eravamo muti, impietriti,
solo un miracolo ci poteva salvare. L’unico esagitato era il nostromo che con un
rasoio in mano cercava di raggiungere il ponte di comando, chissà quale gesto
inconsulto voleva fare, poverino era uscito di senno. Il contatto radio era il nostro
unico conforto, infatti, prima d’imbrunire apparve la sagoma del nostro “Salvatore”, era un rimorchiatore d’alto mare di nazionalità tedesca che era stato contattato
dalla Flotta Lauro ed era salpato da Lisbona e si dirigeva a tutta forza verso di noi
avendo saputo le nostre coordinate. È stata una luce, un raggio di sole in mezzo alla
tempesta, in pochi minuti la sua possente sagoma si accostò alla nostra murata e,
come due scoiattoli, salirono a bordo due uomini. Il nostromo buttò in mare il rasoio e si mise a disposizione, li accompagnò lui stesso in plancia, dettero istruzioni
come agganciare il cavo da rimorchio e risalirono a bordo del rimorchiatore. In
meno di dieci minuti spararono i razzi con i sacchetti e dopo circa mezzora, eravamo già a rimorchio tirati da un cavo di circa duemila metri alla velocità di circa 8 10 nodi.
L’equipaggio, da morto che era, ritornò vivo, finirono le preghiere, si spensero le
candele davanti ai Santi ed in particolare a Sant’Antonio di Paola, patrono dei marinai. Il fuochista Gennaro Sorrentino anche lui spense il cero che aveva acceso
davanti alla Madonna di Pompei, dicendo lo conservo, mi potrà servire per un’altra
volta. Dopo quattro giorni di rimorchio giungemmo a Sfax ed iniziammo la disca-
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rica dello zolfo. Il rimorchiatore dopo aver firmato tutti i documenti riguardo il
rimorchio come stabilito dalla Flotta Lauro ci “mollò” tornandosene a Lisbona.
Durante la sosta a Fax presentai l’avaria generale tramite consolato e al giudice che
mi chiese: “Comandante Martino Cafiero, lei è davvero una persona molto sfortunata a passare tutti questi guai, ma perché non la fa benedire questa sua nave?”.
“Vede signor Giudice a dire il vero prima di venire qui sono passato da una Chiesa
cattolica ed ho pregato il sacerdote che benedicesse per primo me, e poi mi sono
fatto dare una boccettina d’acqua benedetta e un poco d’incenso per benedire anche la nave poiché ne ha proprio bisogno, ecco qua e trassi di tasca la boccettina
con l’acqua santa e un sacchettino d’incenso”. Il giudice tunisino che capiva molto
bene l’italiano scoppiò a ridere come un matto. Tornati a bordo con la macchina
dell’Agenzia, appena varcata l’entrata dell’ambito portuale, vidi un fumo bianco,
che si innalzava dal molo dove il “Ravello” stava ormeggiato. Intanto le sirene del
porto si erano messe a suonare e si vedeva un fuggi fuggi generale, ci avvicinammo
alla nave, i portuali erano scappati tutti a terra, si vedeva questo fumo salire dalla
stiva centrale, e si sentiva la puzza dello zolfo che bruciava. Un corto circuito della
“benna” aveva causato l’incendio. In poco tempo arrivarono i pompieri e con
l’ausilio del personale di bordo (la pompa antincendio d’emergenza aveva funzionato a dovere) l’incendio fu domato.
Intanto la discarica stava por finire e bisognava salpare, ma il problema dell’asse
non era stato risolto, l’ufficio tecnico di Napoli aveva contattato un altro rimorchiatore di stanza a Porto Empedocle il quale ci condusse a rimorchio fino a Napoli.
Salpammo da Sfax il 26 gennaio 1966 e giungemmo a Napoli il 29 mattina. Grande
festa a bordo, ci chiamavano i sopravvissuti del “Ravello”, abbracci fra i familiari,
ormai tutti erano al corrente di quello che avevamo passato. Verso le ore 10 arrivò
l’ispettore di macchina ed il capo dell’Ufficio Tecnico, ingegnere Coppa.
Non ci aspettavamo elogi e tantomeno complimenti, ma una parola di conforto,
d’incoraggiamento, per tutto quello che avevamo passato credo che la meritavamo.
Dopo tutto la colpa non era nostra, non eravamo stati noi a sbagliare e questo alla
Flotta Lauro lo sapevano bene. Invece come primo atto procedurale fu stilato un
elenco delle persone che dovevano essere sbarcate immediatamente.
In primis il Direttore di Macchina con tutto il personale di macchina, compreso il
terzo Ufficiale di Macchina, si proprio lui che si era prodigato più di tutti, che aveva
perso tante nottate nel tunnel per sfilare i perni rotti e rimpiazzarli con quelli sani,
con una mazza in mano, stremato nelle forze per cercare di far arrivare la nave in
porto e portarci tutti in salvo».
Con quest’ultima considerazione il racconto di Martino Cafiero finì. Subito dopo
si sentì la voce del marinaio di vedetta che disse: «Comandante siamo in vista del
faro di Porto Said».
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Maria Salemi
LA DONNA DEL PESCATORE
C’è uno spicchio di luna
che splende questa notte
e la brezza marina
fa scivolar lo scialle
sulla pelle bruciata.
Osservo in lontananza
la tua ombra fugace
dissolversi nel buio
e ascolto nel silenzio l’eco della risacca
frangersi sugli scogli ...
La mente mi trascina
verso terre lontane
lungo spiagge assolate
verso coste africane ...
... Un brivido mi scuote ...
Mi accingo a far ritorno
alla tua casa bianca
calcinata dal sole.
E affondo camminando
i piedi nella sabbia,
le barche dentro al molo
sussurrano preghiere ...
Attendon di salpare, come tutte le sere.
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Il filosofo Manlio Sgalambro, il dott. Luigi Turinese, l’uff.R.T. Angelo Fornaca, il padrone di casa
Pippo Costanzo e Franco Battiato
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
II Parte
Introduzione
Il Circolo Ufficiali Marina Mercantile di Riposto promuove e organizza dal 1975
il Premio Nazionale ARTEMARE, inteso ad evidenziare, nelle diverse discipline
artistico-letterarie, il legame esistente tra “L’uomo e il mare”.
L’Associazione, con questo suo impegno culturale finalizzato alla tematica “mare”,
si propone di rivalutare l’interesse per il mare, salvaguardare la nostra tradizione
marinara e contribuire alla difesa di questo patrimonio della Gente di mare.
Le varie sezioni del Premio, man mano istituite negli anni (Canzone, fotografia,
gastronomia, giornalismo, modellismo, narrativa, pittura, scultura, video documentario, tutte aventi per soggetto “L’uomo e il mare), si rivolgono a tutti coloro i quali
subiscono particolarmente il fascino del mare e intendono trattare un argomento
specifico della problematica attuale che interessa la vita stessa della Nazione.
La sezione Narrativa, denominata “Fatti di bordo”, a differenza delle altre, è stata
riservata, fino alla settima edizione, ai soli naviganti, i cui racconti - ispirati a
circostanze, avvenimenti, persone o ambienti marittimi - evidenziano le aspirazioni, i problemi, gli eroismi, le esperienze, i sentimenti propri del navigante.
Dal 1988, su suggerimento del Prof. Giuseppe Giarrizzo, Preside della Facoltà di
Lettere dell’Università di Catania, tale premio di narrativa è stato aperto anche ai
non naviganti e ciò per sentire altre voci sulla questione in esame e al fine di dare
maggior rilievo e importanza alla nostra iniziativa ed avere altre testimonianze altrettanto qualificate e indicative dell’epoca in cui viviamo. Da allora, ad anni alterni, il premio di narrativa è stato riservato un anno ai soli naviganti e l’altro aperto a
tutti.
Tutti i racconti premiati nelle 12 edizioni riservate ai naviganti sono stati pubblicati nei 10 volumi precedenti e nella prima parte di quest’undicesima edizione della
collana. In questa seconda parte, affinché la collana conservi un suo valore documentario, affondando le sue radici nella realtà della quotidiana vita di bordo e nella
storia stessa della nostra Marina, vengono inserite le opere presentate dai naviganti
nelle sei edizioni del concorso aperto a tutti.
I lavori premiati che sono stati presentati dai non naviganti saranno inseriti in un
successivo volume della stessa collana.
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
L’Ammiraglio Gaetano Sodano presenta il X volume della collana “Storie e racconti di mare”
Anna Pavone, la bella e brava presentatrice del Festival della Canzone sul mare
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Cap. Sup.D.M. Giacomo Caiazzo
PROLOGO
Camminava a zigzag, come il mare gli aveva imposto, un po’ più lento del solito,
con le mani dietro la schiena che reggevano il giornale.
Finalmente qualcosa si muoveva, evasori scoperti, inquisiti gli inquisitori, un
pentito, di cui per fortuna (di chi?) si sapeva nome cognome e recapito suo e di tutti
i suoi parenti, che rivela, lady Diana che scopre la cellulite, addirittura tra qualche
anno non si pagheranno più tasse; e poi si riformeranno le riforme.
Un mondo nuovo? Per lo meno, però, che ci lascino l’ICI!
Nel divagare, Mauro si era portato sulla marittima, l’amica bitta, un brulichio di
barche e gommoni, la folla della domenica con le canne, le tute dei sub, e davanti a
sé la rada con il mare riflettente la montagna.
Ma quella nave era sempre lì al centro della rada, spenta e nera, incatenata ai
fondali, inanimata e spettrale, alta a poppa e lunga, tanto lunga, la nave del petrolio.
Quante storie quella nave non ha raccontato, nelle visceri della sua capienza misteri non svelati, segreti nascosti, come la Veedol, la nave petroliera di Mauro.
Chissà, lì in quella cittadina dove il “fluttuare continuo del mare non dà tregua ai
neri scogli”, nella terra del forno di “don Camillo” o dei “prodi Ulissidi”, nella
Riposto “dell’Artemare”, forse può interessare uno scorcio di fatti di mare, ché
altrimenti la Veedol porterà sempre con sé!
E prova a scrivere Mauro, e a ricordare solo qualche fatto, per non appesantire,
solo quattro ...
LA GRANDE PETROLIERA
P
iccola o grande, è una nave diversa sulla quale si vive una vita diversa, prima
o poi la incrocia, l’uomo di mare, la petroliera.
Mauro ne incontrò una immensa; per percorrerla in lungo e in largo impegnava
pezzi di ore. Abituato fino allora a centellinare lo spazio, la “Veedol” lo meravigliava per la coperta di ferro come un’autostrada e la poppa larga col ponte in alto
simile ad una pista per aerei.
La struttura granitica e l’aspetto ciclopico impressionavano Mauro; il ponte lucido, imponente per la distesa, gli ricordava le strade americane percorse dalle Cadillac
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ad alettoni.
La maestosità lo induceva però alla riflessione, non più spazi limitati per più
persone, ma ampi spazi per ciascuno.
Due mesi di mare attraverso due oceani, dal Kuwait al Nord America: un mare
piatto, chiaro, trasparente nel primo, un mare glaciale, grigio, nel secondo.
Una nuova dimensione veste l’uomo di mare che diviene petroliere; Mauro si
coglieva in pensiero, per la pachidermica struttura delle fiancate, per le lamiere
terse, levigate, per il suo andare solitario, integrato nella grande silenziosità della
vita sulla nave.
Una cabina ampia a più camere, un arredamento moderno, asciutto, dal timbro
metallico in antitesi alle fantasie barocche delle navi tradizionali, con i capi di banda a vernice trasparente.
Il tempo scorreva sulla Veedol come in astrazione; le distese dell’oceano per notti
e giorni, le albe ed i tramonti susseguentesi a scansione, imponevano a Mauro il
pensiero.
Attendere alle proprie mansioni e costruirsi un sogno; una montatura di vita, una
comandata sequela di pensieri piacevoli, per reggere la giornata in uno spazio più
lieto possibile.
Perché la petroliera è sempre in mare, davanti l’orizzonte e sopra il cielo, ai fianchi la grande distesa azzurra che incrocia a cerchio l’orizzonte.
Mauro confrontava la folla e gli spazi stretti delle navi tradizionali con la solitudine e la possanza assoluta della grinta gigantesca della Veedol; e aveva deciso di
optare per il godimento di quelle atmosfere silenziose sì, ma lineari e assorbenti che
si indelebila in una fissità orizzontale, dopo la ricezione dell’immagine.
I petrolieri devono decidere così; allora la moglie sarta diventa tessitrice di tele
penelopee, il figlio studente un pico della mirandola, la fidanzata una madonnina in
campana di vetro; così origina e si completa la volontà di resistere.
In definitiva la petroliera aspetta l’uomo di mare ad una grande prova; se l’incedere del marinaio diventa obliquo spallando i passanti, se il suo viso si esterna al
riso in endemia, allora la petroliera ha lasciato il segno; viceversa, l’uomo riesce a
crossare le ossessioni e a rimanere indenne dal ghigno al riso.
Una comunità di poche persone, per mesi senza toccare terra su una nave dagli
spazi interni enormi come cassoni; migliaia di tonnellate di petrolio stivate il cui
olezzo si installa nelle narici.
L’arrivo in porto un rito; l’attesa della posta, prima contenuta in una religiosa
compostezza poi sfociante in tensione all’avvicinarsi del momento.
Meglio buone nuove ché la mancanza di verifiche si tramuta in dolore per l’impotenza dell’assenza.
Mauro vedeva Gavino, un giovane ingrassatore sempre unto dai capelli già radi,
con gli incisivi orizzontali e le orecchie ad angolo che diveniva un gigante; leggeva
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LA GRANDE PETROLIERA
Giacomo Caiazzo
e proiettava il suo petto incavato avanti e cercava la vista degli altri marinai per
trasmettere il compiacimento e riceverne l’assenso.
Gavino leggeva la Giacinta e percepiva un momento felice, forse addirittura d’ardore; scorreva i profumi d’amore assaggiati una sera di tempo prima: un fischio
stridulo ma amico avvisava la Giacinta che il suo uomo si avviava sul talamo... di
pietra della vecchia strada ferrata. Leggendo, Gavino quasi si stirava e un moto
cigliare aggrottato si evidenziava assieme alle labbra serrate per mimare una repressione; ah, se la Giacinta gli fosse stata... più vicino!
Ma un po’ più in là Giacobbe leggeva ed evitava la platea; da un po’ la cinquantina aveva preso il sopravvento; forse la sua lettera non traduceva un amore, perciò
un cenno di stizza, un pendolare costante del capo immerso nella lettura; ma la
Marta non gli aveva sempre detto trent’anni prima che bastava... l’amore?
E poi Golia il siciliano; lo chiamavano così per il suo possente aspetto; le lettere
a Golia cantavano le storie dei fatti e misfatti del suo famoso quartiere, 1’Arenella:
Totuccio, un amico di famiglia, aveva comprato un nuovo appartamento, Ciccio il
vicino di casa aveva avuto un incidente stradale, Mariuccia, la figlia di zi’Ntò si
incintò, il vecchio Masino si era ritirato definitivamente..., in galera: le notizie a
Golia facevano presto il giro della nave.
Per Viciè invece era sempre catastrofe; le notizie di Carmilina l’affondavano:
Pasqualino aveva avuto una febbre da cavallo, la sorella di Viciè non aveva risposto
al saluto di Carmilina, s’era rotto il servizio buono di bicchieri, il fratello aveva
avuto guai con la finanza per via della bottega, ma lei lo aveva... salvato;
- Viciè, frateme ti manda tante benedizioni!. L’ultima notizia era di Marchetiello,
il più piccolo, che faceva sempre filone: - guagliò, quanne vene patete!.
Mentre Viciè leggeva, i marinai attorno spargevano il sale grosso; qualcuno si
faceva il segno della croce.
Giorgione, un Bud Spencer e mezzo, aveva preso il mare per Lilli, un’entraîneuse
di Via Gramsci in Genova; Giorgione era il buttafuori del Mocambo.
Basta! La luce soffusa, il tintinnio dei bicchieri, le facce dondolanti con gli occhi
semi chiusi, i fiumi di whisky e tutte le sere come un pilota di formula uno; quanti
baveri avevano stretto le sue grosse mani!
Lilli era il suo futuro, il ritorno a casa di sera e forse la mamma di Paolo al quale
Giorgione avrebbe insegnato una Genova senza Via Gramsci; Lilli era sempre lì nel
taschino della sua tuta, davanti i fuochi delle caldaie: Lilli, è l’ora dei polverizzatori!
Un bacio alla foto e assieme al lavoro, con i guantoni super, costruiti con l’amianto
di bordo.
Giorgione così viveva la sua vita di ex asociale; raccontava, con le corde vocali
ispessite, il suo passato da protagonista, mortificandolo, quasi pretendesse gli spiragli della redenzione.
Il tempo passava sulla Veedol e Giorgione cumulava milione su milione che Mauro,
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il suo ufficiale di guardia sviluppava: più milioni più vani, ma Paolo occupava
sempre più stanze, ed allora l’imbarco... si allungava.
La svolta di Giorgione: come per tutti una volta nella vita; un bisogno naturale di
ricambio, dall’oggi al domani, di punto in bianco, un altra vita nella stessa.
Da buttafuori a fuochista, votato alla svolta, anche Giorgione redento.
A lui però il destino aveva riservato una controsvolta.
In rada a Mina Al Ahmadi, nel golfo persico, tutti intenti alla lettura della posta e
improvvisamente un trambusto, un accorrere di marinai negli alloggi di poppa e
un’assordante rumorosità.
In una cabina chiusa dal di dentro un tramestio di colpi meccanici e urla cavernose
da scuotere i timpani; i rumori si ingigantivano a tratti poi il silenzio, di nuovo urla
e colpi di magli come auto pressate al macero.
Era la cabina di Giorgione; qualcuno aveva in mano un arnese d’acciaio che
infilò tra la porta e la paratia di ferro; la porta cedette: Giorgione era lì accasciato
come un elefante abbattuto sanguinante alle mani e al viso, esanime e spiritato.
Più in là stritolata con rabbia una palla di carta; Mauro la prese, era la lettera di
Lilli, che informava Giorgione di essere incinta, ma.. non di lui! “Chissà se mai un
giorno tu... !”
Le storie delle navi nei film sono diverse: amori, feste, divise, gradi di oro, belle
fanciulle come libellule; a chi mai avrebbe interessato la storia di Giorgione? O la
storia di Tonino?
Già, la storia di Tonino, il mozzo della turbonave Veedol, un procidano claudicante
per un incidente, ma sempre al riso; qualche mossa da guappo, per opporsi al fisico
forse; però un marinaio perfetto.
La Veedol con le sue storie procedeva imperterrita lasciando, quasi compiaciuta,
lo svolgersi del destino di quelli che l’abitavano.
Nemmeno la storia di Tonino la scalfì, tanto lo sapeva che era il petrolio che
incideva, che aggrediva, ma non se ne doleva; essa voleva e doveva trasportare il
petrolio.
Tonino e Pitollo, Mauro e Zagli, il direttore: il pomeriggio, tra tressette e briscola;
Zagli rideva sempre e già camminava obliquo: il segno del petrolio!
Per Tonino e Pitollo erano sempre mazzate; poi la scopa risolutrice tra loro due;
Tonino non ci stava a perdere ed allora manipolò il settebello sotto il tavolino.
Come fece Pitollo ad accorgersene, pur con un occhio strabico che svirgolava
verso l’alto?
- Mariuolo!
- Nunn’offendere, strunze!
- Mariuò, mariuò, mariuò!
- Vuò verè che te spertosa na’ recchia! (vuoi vedere che ti buco un orecchio?).
- Famme verè, strunze! (fammi vedere).
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LA GRANDE PETROLIERA
Giacomo Caiazzo
Allora Pitollo prese il righello nero sul tavolo del direttore, lo spezzò sulle sua
ginocchia, ne prese la metà come una spada nella mano destra e lo infilò nell’orecchio destro di Tonino il quale incredulo e a mò di sfida si era disposto consenziente,
stirandosi il proprio lobo destro.
Il sangue zampillava a stella, mentre il pezzo di righello bilanciava nel lobo di
Tonino.
- M’accise! Pitollo scappò nella propria cabina, alla vista del sangue; allora Mauro
bloccò Tonino e Zagli gli sfilò il righello lacerandogli completamente il lobo.
Una corsa all’infermeria e l’orecchio di Tonino divenne come quello di Van Gogh;
il poverino si incamminò con una mano sulla parte lesa verso la sua cuccetta; almeno tutti pensarono così.
E invece Tonino riapparve subito con un coltellaccio in mano e si diresse verso la
cabina di Pitollo nello stesso corridoio.
Di nuovo folla e un solo coro: Tonì torna indietro. Tonino si voltò e fece l’atto di
scagliare il coltello sulla folla; tutti indietro di due passi.
Si fermò davanti alla cabina di Pitollo disponendosi a terra con le gambe incrociate e iniziando un movimento a semicerchio del capo e delle spalle in contemporanea urlava: “
- T’aggia accidere assassine!”
Un giorno e una notte, fino allo biascicare le parole che non si distinsero più,
perché Tonino, minuto e claudicante, spense le proprie energie come i fari di un
automobile che, accesi, affievoliscono per la batteria che muore.
Pitollo era lo stesso che sull’aereo per raggiungere il Kuwait aveva chiesto
all’olandesina della KLM di tenersi ferma per un po’; voleva pur con un solo occhio, impressionare l’ultimo esemplare di donna prima della Veedol.
Come in raccoglimento Zagli, Mauro, Tonino, Lucio e altri presero a fissare la
figura bionda che, consenzientemente ferma, si sentì spogliare e fu pervasa da attimi di calore e si sentì beata; decine di dita del tocco lieve le scendevano lungo le
spalle e sfioravano i seni giovani.
Si diede per un po’ tutta a Giacobbe, la biondina, perché più triste e lontano; le
sembrava che non avesse... l’ardire!
Sull’aereo viaggiava pure Anselmo, il cameriere, che camminava come un robot
ovvero si trascinava per via delle ossa rigide; un uomo tutto di un pezzo, un armadio rettangolo perfetto dalle spalle al bacino.
Quasi ai sessanta, sulla nave Anselmo era sempre in guerra appena si ritirava
nella sua cabina: i capelli e il sesso i suoi nemici; lo specchio del lavandino lo
incupiva per via dei quattro capelli che gli erano rimasti; e i giornali delle donnine,
a letto lo prostravano: un mondo... lontano!
Una volta in crociera nei Caraibi, la Teresita lo fece cantare per sei volte il doppio
del gallo di Gesù:
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- allaneme ra’palla Ansè! (non dire bugie)
- e poi ti ... svegliavi Ansè;
Allora il cameriere prendeva fiato tirava un po’ il corpo all’indietro e si lanciava
sul malcapitato di turno, per afferrarlo; ma bastava scansarsi in tempo e Anselmo
data la sua rigidità, sbatteva sulla parete.
A gara Mauro e i compagni gli offrivano soluzioni speciali per i capelli; infusi di
catrame, petrolio e sale; oppure alcool, gasolio e pepe, e Anselmo frizionava tutte le
sere.
- Ansè, devi frizionare forte, fino a che esce il... rosso!
A volte spuntava radioso, ciarliero e più in corda del solito; era perché aveva
vinto una piccola battaglia di notte, da solo:
- E bravo, Ansè! Un altra cartuccia, ma il bossolo... dov’è?
Ogni sabato era cinema; Anselmo aveva pazientemente cucito una serie di pagine con fotografie osè da giornali, e Mauro aveva costruito un apparecchio che avvolgeva le pagine in un grande rotolo che veniva appunto svolto ogni sabato.
Le immagini ingrandite venivano proiettate su una parete della sala da pranzo;
Anselmo era l’operatore: tante sedie, luci spente, una musica in sottofondo e lo
svolgersi del rotolo vedeva proiettate cosce, sederi, seni, quasi in animazione.
Grida, lazzi, qualche sospiro:- ferma Ansè! Un’immagine forte che ammutoliva
la sala.
Gli incontri culturali del sabato pomeriggio.
Motivi di sorpasso allo stallo, per giornate solitarie e uguali; l’esigenza di trovarsi un varco nell’impossibile; una produzione di reattività nel giovane per sminuire
il drammatico.
Per gli anziani una disgressione all’impigrimento; una svolta coartata per allontanare la visione ossessiva degli affetti lontani, perché protagonisti assenti.
Le menti elaborano; per una difesa e per un alibi; quella notte era scurissimo e
umido, già si era nei mari Persiani; come ogni notte Mauro e Lucio preparavano lo
spuntino delle quattro del mattino, alla fine del turno di guardia in macchina.
Erano soliti cercare in cambusa; nella cella della carne troneggiava una testa di
bue, con due grosse corna e gli occhi spalancati; senza parole afferrarono la testa
per le corna, si portarono in coperta e attraverso la passerella centrale che correva
parallela alla nave si inoltrarono negli alloggi di prua degli ufficiali di coperta,
depositando la testa di bue sulla fontanina dell’acqua refrigerata, alla base della
scala che portava al ponte di comando.
Accovacciati sotto la passerella Mauro e Lucio attendevano il prossimo cambio
di guardia degli ufficiali di coperta.
Un urlo lacerante e un tonfo, il cui rumore resisté al proprio eco; lampi di luce
alternati a fasci, e un nuovo urlo e un nuovo tonfo più marcato; e poi un vociare
alterato di più persone nel mentre si accendevano tutte le luci del ponte di comando.
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LA GRANDE PETROLIERA
Giacomo Caiazzo
Mauro e Lucio presero a fuggire carponi sotto la passerella, tra le tubazioni di
nafta che invadevano la coperta; vestiti com’erano si infilarono ognuno nel proprio
letto delle rispettive cabine.
Mauro con la tuta addosso si copri persino la testa con le lenzuola; era invaso da
corna di bue e occhi rosso sangue che gli apparivano in movimento a semicerchio;
ma una testa era ferma che si sovrapponeva a quelle forme in movimento: era la
testa del direttore Zagli che tentava di... svegliarlo perché il comandante aveva
indetto un’assemblea.
- Ma come, a quest’ora?
- Cassià, muoviti deve essere qualcosa di grave.
Il comandante era lì al centro del salone in pantaloncini bianchi e camicia aperta
sul petto striminzito:
- Qualcuno vuol farmi paura! Figuriamoci! A me ex sommergibilista: chi sa
parli! Per qualcuno potrà essere questo l’ultimo imbarco.
Gavino non capiva; Anselmo guardava gli altri spaventato, Mauro e Lucio interrogavano gli altri per capire, perché .... si erano svegliati di soprassalto ....
Bianchi come le lenzuola appena lavate il primo ufficiale di coperta e l’allievo
apparivano frastornati; come ogni notte prima di montare di guardia sul ponte si
erano fermati a bere l’acqua della fontanina; ma non trovando il pulsante nell’oscurità si erano serviti del flash-lite: ma due grosse corna e due occhi rossi spiritati li
avevano folgorati.
Il mistero visse al tempo.
Il sommergibilista però non demorse, mai! Per ogni incrocio di sguardi il suo
volto indagatore stagliava la mira oltre la testa.
Avrebbe captato un giorno, su Pitollo, o su Lucio, o su Mauro l’avorio levigato...
delle corna?
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Il direttore di macchina Giacomo Caiazzo di Pozzuoli NA (il secondo da sinistra) in attesa di ricevere
il premio per il racconto “La grande petroliera” : «Il racconto colpisce per la sapiente capacità narrativa
con la quale rappresenta realisticamente la quotidianità, talora affabulatoria talaltra esistenzialmente
tragica, della vita di bordo, che il mondo “conchiuso” della petroliera, come una sorta di “istituzione
totale”, esalta, amplifica, o addirittura esaspera.»
Il sindaco, on.le avv. Carmelo D’Urso, ringrazia gli intervenuti alla cerimonia di premiazione
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Cap. D.M. Guido Campailla
L’ULTIMA TRAVERSATA
E
ra una motonave da carico di piccolo tonnellaggio, piuttosto vecchiotta e
sotto bandiera panamense, dal nome mitologico, familiare forse all’armatore, d’origine greca.
“Artemide”, si chiamava, la più casta delle vergini dell’Olimpo, che - al contrario
dei marinai di bordo, ciascuno dei quali era atteso da tre mogli, come consentito dal
Corano - ignorava le gioie dell’amore.
La comandava un capitano genovese, un fior di marinaio e uomo di gran cuore, al
quale l’equipaggio, composto di somali e kenyoti, che già avevano navigato sui
sambuchi a vela, ripetendo gesta di cui non si parla più nella marina, era assai
devoto. D’ordinario, i viaggi dell’Artemide si riducevano ad un raid mensile, che
per le condizioni e la velocità della nave, specie con cattivo tempo, non era cosa da
poco, tra Dar- es Salaam o Mombasa e le rade deserte della Somalia, raramente
spingendosi fino agli scali del Golfo di Aden.
Quella volta proveniva appunto da Gibuti, diretta a Mogadiscio. Soffiava in pieno il monsone di sud-ovest, e per la piccola nave, in rotta verso sud, voleva dire
affrontare circa settecento miglia di mare sotto un vento teso di prora, con mare
fortemente accorrentato e continuo beccheggio da battifondo.
Calava la sera quando, in vista dei lampi del faro di Ras Hafun, il comandante, ad
evitare l’insidia delle secche sotto costa durante la notte, ordinò al timoniere di
guadagnare cammino verso il largo, riservandosi di riportarsi in rotta alle prime
luci dell’alba, quando la costa, piatta e deserta, tornava a distinguersi, segnata nello
sfondo cupo dalla fascia bianca dei frangenti.
Ma l’alba quella volta non trovò la piccola nave a caracollare tra i marosi. La
debole luce filtrata tra le nubi nere rivelò, sulla costa desolata, la tragedia avvenuta
nella notte: la nave giaceva abbattuta su un fianco, quasi interamente sommersa, a
meno di un centinaio di metri dalla terra, flagellata dai frangenti che le alzavano
intorno ventagli di spuma. Sulla riva oltre la scogliera un vecchio pastore, seminudo
nella futa bianca, appoggiandosi ad una pertica si portava dall’uno e dall’altro dei
naufraghi, offrendo loro un po’ di latte in una ciotola di legno. Più in là, in un
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avvallo verde, un gregge di capre nere pascolava disperso tra gli arbusti. Alcuni
fusti vuoti e il relitto di una scialuppa ballonzolavano nella schiuma della risacca.
C’erano tutti gli uomini dell’equipaggio. Mancava solo il comandante.
Ma a questo punto conviene riprendere la storia dal principio.
Lasciato il porto di Gibuti, la nave aveva navigato tranquillamente lungo il ridosso
africano, fin sotto Ras Halula. Ma già prima che scapolasse Capo Guardafui, poco
distante, alla bonaccia del ridosso era subentrato un mare lungo, gonfio e scuro,
foriero di guai. Già si scorgevano, appena oltre il promontorio, i marosi correre
torreggiando nel letto del vento, sotto la volta arruffata delle nubi in fuga verso
nord. Cielo e mare formavano nel breve orizzonte un’unica macchia scura. L’aria
perdeva lì ogni trasparenza e il promontorio stesso sembrava sott’acqua, la nave
come sospesa in quel blu.
Furono quelli gli ultimi momenti di tregua. Appena doppiato il Capo, subito alle
prime ondate la nave si era impennata, quasi perdendo il governo. Faticosamente, si
era poi disposta alla via, iniziando un beccheggio duro, ampio e disordinato, fatto
di affannosi pendolamenti, tonfi fragorosi, lunghi sussulti e sinistri stridori lungo lo
scafo, in una visibilità a tratti zero per gli improvvisi e violenti piovaschi.
Alla luce del giorno, tonfi e rollate erano, certo, motivo di preoccupazioni e di
ansie, ma assai più temibile si presentava la notte, per il continuo scarroccio dovuto
alle forti correnti, la presenza di vaste secche e la totale inesistenza di punti di
riferimento, priva di radar com’era la nave, lungo miglia e miglia di costa affogata
nel buio.
Quando i lampi del faro di Ras Hafun sparirono in quel buio, la furia parve esaltarsi intorno alla nave. Forse il timore di essere troppo piccola cosa di fronte a tanta
violenza, affiorò in quelle ore nell’animo dei marinai con oscuri presentimenti,
come se ogni ora non avesse futuro e la notte fosse solo una sospesa aspettazione
della fine.
Vi era dell’orrido, intorno. C’era contro il fremito delle macchine e il ferro che
tagliava l’onda, come un antico rancore di natura. Con occhi dolenti le vedette
scrutavano dalla plancia il biancore fosforescente dei marosi, e con parole brevi a
mezza voce, intendendosi come si poteva solo in un mestiere di secoli, avvertivano
il timoniere, appena la prora cedeva alle onde e la nave tendeva a traversarsi al
mare. Se n’accorgevano dal movimento sotto i piedi scalzi, spesso era lo stesso
capitano a dar di mano alla ruota del timone per rimettere sveltamente la nave alla
via; poi al tavolo della saletta nautica, curvo sulle carte sotto la lampada, ricontrollava
i punti stimati di posizione, in un’incertezza molesta, in attesa dell’alba che non
spuntava mai.
Ossuti e con occhi lampeggianti, i marinai liberi dal turno di guardia si riposavano
accosciati in piccoli gruppi nei corridoi, sotto le lampade, in un tanfo pesante di
caprino, di tabacco masticato, di richiusa acidità e di caffè o “ciai” più volte riscaldato.
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L’ULTIMA TRAVERSATA
Guido Campailla
Erano già trascorse molte ore della notte, quando il telegrafo di macchina trillò
concitatamente. E fu subito allarme. Le macchine rallentarono di colpo, si fermarono, la nave traballò nel tentativo di andare indietro, l’elica precipitò furiosamente
facendo tremare la poppa. Poi fu silenzio e nel silenzio, più intenso e vicino si fece
il mugghiare dei marosi, come se intere mandrie stessero affogando nel buio. Fu
questione di momenti: dopo un primo violento scossone, la nave cominciò a sbandare, poi, con uno sconquasso da far accapponare la pelle, s’inclinò rapidamente e
di nuovo si raddrizzò, per sbandare di nuovo, più di prima, in un pauroso fiottar
d’acqua nell’interno, le luci morenti negli ultimi giri del gruppo elettrogeno. Brancolarono nel buio pesto, cercando ad ogni passo le paratie con le mani allungate,
accalcandosi alle scalette, con l’estrema sensazione che una tomba aperta incombesse alle loro spalle. Guidati dal chiarore che si era acceso in coperta, sbucarono
sul ponte lance, dove un fascio di luce ispezionava la scialuppa grande, intatta,
penzolante nel vuoto, a pochi palmi dalle creste dei cavalloni. Più volte, nel corso
della manovra, tra voci disperse nel vento, i frangenti minacciarono di trascinare in
acqua l’imbarcazione, vuota. Più volte i tentavi d’imbarcarsi fallirono. Quando,
issato a bordo l’ultimo uomo, fu la volta del comandante, egli indugiò per un lungo
momento, invano sollecitato ad una voce dai marinai, poi voltò decisamente la
lampada e spari verso il cassero. Urlavano ancora i marinai a piena gola perché
tornasse indietro, quando l’imbarcazione, strappata alla nave, venne trascinata verso terra dalle ondate, in un furioso ribollio di schiuma.
Gli uomini fissavano ora con gli occhi bruciati dal salino la nave sommersa tra i
frangenti. Lame di luce ancora pallida traforavano le nubi all’orizzonte e nei riflessi
del primo sole il mare appariva meno irruente, non più così accanito. Un velo d’acqua tremolava con vaghi arcobaleni intorno al relitto, dove si era compiuto il destino del comandante, e spere effimere si aprivano e si disfacevano al ritmo dell’onda
lungo la nave anch’essa senza vita.
In una cruda pena, gli uomini rimproveravano in cuor loro il comandante. Poteva
saltare anche lui sulla scialuppa, tante mani tese lo avrebbero afferrato. Ma non lo
aveva fatto. Deliberatamente. Si era assicurato che gli uomini potessero mettersi in
salvo, li aveva animati ed assistiti fino all’ultimo momento, mai più determinato né
più severo con la sua stessa sorte... Perché lo aveva fatto? La nave era
irrimediabilmente perduta, l’equipaggio già sulla scialuppa di salvataggio. Non
mancava che lui... A chi ed a che cosa poteva servire il suo gesto? Che cosa, rinunciando a salvarsi, aveva voluto pagare? Di che e verso chi, si sentiva debitore della
sua vita stessa?
Forse nemmeno lui avrebbe saputo dirlo. Ancora padrone del suo destino, lo
aveva egli stesso concluso. Tutto era consumato. Perché lui era la nave.
Sembrava ora il mare incolpevole, e assurdamente lontano il ricordo di quella
tragica notte, come avvenuta in un tempo senza memoria, dinanzi ad un futuro
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senza pena. Presente era solo quel sentirsi vivi, di nuovo padroni della vita, già
ridotta ad una fiammella che stava per spegnersi nel fragore dell’onda e che ora
tornava a divampare, nelle carni già rabbrividite.
In disparte, sulla sabbia umida il vecchio pastore, deposta la pertica verso il mare,
in direzione della Mecca, si disponeva ieraticamente alla prima preghiera del giorno. Forse, volgendo lo sguardo verso quei marinai affranti sulla sabbia, ma salvi,
mai come in quel momento aveva visto, in modo più lampante, un atto di Misericordia dell’Altissimo.
Avvampava intanto la scena nel sole rosso, e sembrava irreale.
La presentatrice della serata Lorenza Micalizzi, il cerimoniere Cav. Giovanni Calì, il dott. Gaetano
Ragunì, il sindaco on. avv. Carmelo D’urso e l’ing. Salvatore Castorina a cui è stato conferito il Premio
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Amm. di Squadra Giovanni Ciccolo
FINALMENTE IN SALVO
Nella primavera del 1942 la 4a Flottiglia MAS al comando del Capitano di Fregata Francesco Mimbelli, Medaglia d’oro al Valor Militare, venne trasferita in
Mar Nero per collaborare con la Marina Tedesca.
Detta flottiglia era articolata su due squadriglie MAS (diventate successivamente tre), una squadriglia di sei sommergibili tascabili tipo CB e una colonna
autotrasportata di mezzi d’assalto, Colonna Moccagatta.
Fu costituita una base logistica a Costanza (Romania) ed una base operativa a
Yalta (Crimea). Il Tenente di Vascello Giovanni CICCOLO era comandante di una
delle due squadriglie MAS.
Nella primavera del 1943 gli equipaggi dei MAS e la Colonna Moccagatta furono rimpatriati. Rimase in Mar Nero la squadriglia dei sommergibili CB con base
operativa a Sebastopoli (Crimea) e base logistica a Costanza.
Il comando della base di Costanza fu assegnato al T.V. CICCOLO (che chiuse la
sua carriera di 44 anni di servizio in Marina col grado di Ammiraglio di Squadra,
comandante, in campo NATO, delle Forze Navali Alleate del Mediterraneo con
sede a Napoli).
***
L
’armistizio dell’8 settembre del ‘43 mi colse sulla strada dalla base navale
operativa italiana di Sebastopoli sul Mar Nero (Crimea) alla nostra base
logistica di Costanza. Le strade erano del tutto inadeguate per un mezzo pesante e il
nostro - pieno di materiali e marinai - uscì di strada in un pantano. Una piccola
colonna di mezzi cingolati tedeschi (i cui uomini pure erano inconsapevoli degli
eventi di quella mattina) ci tirarono fuori dal pasticcio, rimettendoci in carreggiata.
Quando raggiungemmo Costanza all’una e trenta di notte del 9 settembre, trovai
il mio assistente, il Capitano Commissario Gambini, molto agitato. Aveva appreso
dalla radio che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati. Era chiaro che la
nostra posizione in Romania sarebbe presto stata critica, quindi telefonai alla caserma dove il nostro personale era alloggiato e ordinai di distruggere tutte le carte e i
documenti degli archivi segreti. Non ce ne fu tuttavia il tempo; nel volgere di pochi
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minuti i soldati tedeschi circondarono la caserma e la mia palazzina, sequestrando
le nostre armi e confinandoci nei nostri quartieri.
Tramite il personale di servizio romeno della mia palazzina riuscii a mettermi in
contatto con il comandante locale romeno, il Capitano di Vascello Macellariu. Gli
feci immediatamente notare che se gli eventi occorsi in Italia avevano reso necessario il disarmo dei militari italiani, questo sarebbe dovuto essere compiuto dai romeni e non dai tedeschi. Si considerava la Romania una nazione sovrana o un territorio
occupato dai tedeschi? Il mio discorso ebbe l’effetto desiderato. Il Comandante
Macellariu era un valoroso ufficiale, severo, austero, retto e molto determinato a
non permettere ai Tedeschi di considerare la Romania come un territorio conquistato, piuttosto che alleato. Quella stessa notte iniziarono una vigorosa discussione
con i Tedeschi sul diritto della Romania di assumere la nostra custodia. Vinsero i
Romeni; ottennero la rimozione delle guardie tedesche e, usando le loro stesse unità militari, predisposero una stretta guardia intorno alla nostra caserma. Con le nostre informazioni circa gli eventi in Italia, limitate a frammenti captati per radio, la
nostra posizione in Romania divenne ancor più confusa. Il personale della squadriglia italiana di sommergibili presso Sebastopoli, come tutto il resto del personale
italiano in quella base, aveva firmato una dichiarazione per la quale avrebbe continuato a cooperare con la Marina Tedesca. Il personale della base logistica di Costanza tuttavia, sotto la giurisdizione del comando militare romeno, non poté essere
costretto a cooperare.
Diversi giorni più tardi, due dei sommergibili tascabili di Sebastopoli arrivarono
a Costanza per intraprendere lavori di manutenzione con l’assistenza di personale
tedesco. Ci era stato ordinato di non approcciare il personale o gli ufficiali dei
sommergibili, ma riuscimmo nel tentativo di stabilire contatti clandestini e trovammo conferma al nostro sospetto per il quale la decisione dell’ufficiale in comando a
Sebastopoli era stata presa sotto la minaccia di severe rappresaglie tedesche. In tali
circostanze, orchestrai un piano per fare in modo che i tre sommergibili rimasti a
Sebastopoli venissero a Costanza con i loro equipaggi, ufficialmente per essere
sottoposti a lavori di manutenzione, così che potessero essere trasferiti alle autorità
romene. L’ufficiale in comando della squadriglia di sommergibili fu d’accordo sul
piano, a condizione che esso venisse compiuto senza la sua esplicita partecipazione
o consenso, perché si era impegnato per iscritto con i tedeschi a garantire la sua
collaborazione e temeva ritorsioni.
Dopo avere ottenuto l’approvazione della Legazione Italiana a Bucarest, combinai un incontro segreto con il Comandante Macellariu. Proposi di trasferire i cinque
sommergibili, una volta arrivati a Costanza, alla Marina Romena, alla condizione
che non venissero messi in servizio attivo durante la guerra e che, alla fine della
stessa, la Romania li avrebbe in qualche modo pagati al Governo Italiano. Il Comandante Macellariu era attirato dall’idea di ordire un complotto contro i tedeschi;
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egli era amaramente risentito per il modo in cui essi interpretavano l’alleanza, a
dispetto del significativo contributo dato dai Romeni alle operazioni di terra sul
fronte meridionale.
Pochi giorni dopo, il nostro comandante di squadriglia a Sebastopoli arrivò per
convincerci a firmare la dichiarazione di cooperazione con i Tedeschi. In effetti,
egli aveva del tutto revocato la sua segreta adesione al mio piano. Voleva rivolgersi
al nostro personale navale e insisteva perché io restituissi i materiali dei sommergibili
che avevo consegnato ai Romeni. Io dissi “No” al Comandante, e confermai la mia
determinazione a non mutare la mia decisione, che era la sola conforme, sia
legalmente che sul piano della disciplina militare, al nostro giuramento da ufficiali.
Aggiunsi che, se egli non avesse cambiato la sua decisione, non avrei più potuto
riconoscerlo come mio comandante. Riunii tutto il personale, in modo da dargli la
possibilità di persuaderlo a sposare la sua causa, ma nessuno accettò le sue proposte.
Il Capo Servizio del Genio Navale della Squadriglia CB Luigi Navarra era un
conterraneo del comandante della squadriglia e aveva una grossa influenza su di
lui. In qualche modo persuase il comandante a mandare i suoi tre restanti sommergibili a Costanza per i lavori e a considerare il nostro piano, che nel frattempo si
stava sviluppando. Il 30 novembre i tre sommergibili da Sebastopoli arrivarono a
Costanza. Come precauzione contro una possibile azione tedesca, la Marina Romena trasferì tutto il personale italiano di Costanza a una sua caserma di Bucarest.
Appena le tre unità navali arrivarono, le autorità romene prelevarono i nostri equipaggi, li sostituirono con personale romeno e cambiarono le bandiere. Quando i
tedeschi, pochi istanti dopo arrivarono alla banchina, trovarono i Romeni di guardia ai sommergibili e non si sentirono di usare la forza contro i loro alleati. Ricorrendo a dettagliati inventari già esistenti, la Marina Romena stese un atto ufficiale
di consegna che specificava che i termini di vendita sarebbero dovuti essere
regolarizzati dai due governi in data successiva.
Il personale dei nostri sommergibili fu mandato il giorno successivo a Curtea de
Arges, una cittadina sulle pendici dei Carpazi. Ognuno poteva circolare liberamente, ma a patto di non abbandonare l’area. Nel complesso c’erano circa cinquecento
membri dei servizi militari italiani. Il Ministro della Guerra romeno autorizzò gli
Italiani a lavorare in altre località e, grazie ai nostri numerosi concittadini residenti
in Romania, la maggior parte lo fece. Io fui chiamato a Costanza per essere incaricato del Consolato Generale Italiano, ma la mia permanenza lì fu molto breve. I
Tedeschi, che non avevano digerito la mia azione relativa ai sommergibili, scoprirono che ero a Costanza e chiesero alle autorità romene di arrestarmi. Per la mia
stessa incolumità, queste ultime insistettero perché io tornassi a essere un internato
a Curtea de Arges, dove vivevo una tranquillità non proprio gradita.
Uno dei nostri marinai che lavoravano a Costanza più tardi mi informò che la
Marina Romena si stava preparando a rendere operativi i sommergibili italiani.
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Questo era ovviamente contrario ai termini del nostro accordo originario. Sentivo
che questa mancanza dei Romeni rispetto agli impegni assunti era mia responsabilità e che avrei dovuto prevenirla; così chiesi al nostro addetto navale a Bucarest di
organizzare un incontro con il Capo di Stato Maggiore della Marina Romena. Invece di discutere i loro piani di riattivare i sommergibili, decisi di tentare un colpo:
offrii aiuto! Sapevo che la Marina Romena aveva un solo un sommergibile di costruzione italiana e non aveva personale tecnico sufficientemente formato per mettere i nostri sommergibili in condizioni di operare; egli accettò con gratitudine.
Qualche giorno più tardi, lasciai Curtea con una squadra di dieci sottufficiali,
meccanici ed elettricisti. Li avevo accuratamente informati sulla nostra missione
appoggiata dalla legazione italiana. Simulando di aiutare i Romeni nel lavoro di
normale manutenzione, dovevamo prevenire, attraverso il sabotaggio, ogni possibilità
dei sommergibili di non essere mai usati contro le Forze Alleate. Mentre i sottufficiali
aiutavano i Romeni nel revisionare i motori e le altre apparecchiature, non fu difficile
sabotare le batterie-accumulatori, in maniera irreparabile. A questo punto
consigliammo ai Romeni di mettere a secco gli scafi in banchina. Nonostante i
nostri sforzi tesi a nascondere la nostra presenza in porto, i Tedeschi ne vennero
presto a conoscenza e cercarono di farci prigionieri. I Romeni però, sempre in allerta,
arrivarono prima e ci riportarono a Curtea de Arges. Ricominciò l’avvilente vita
dell’internamento; la completa mancanza di notizie la rendeva doppiamente
deprimente.
In Romania, nell’agosto del ‘44 successe ciò che già era successo in Italia: i
Romeni revocarono la loro alleanza con i Tedeschi e passarono dalla parte degli
alleati. I combattimenti si accesero e molto sangue fu versato finché i Russi arrivarono e occuparono praticamente tutta la Romania. Appena finita la guerra, i Russi
cominciarono una sistematica spoliazione. Gli stabilimenti industriali furono smantellati e i macchinari trasportati in Russia. I pozzi petroliferi di Ploesti furono incamerati nell’organizzazione sovietica, che ne trasferiva la produzione in Russia. Dopo
pochissimo tempo c’era un grande squallore dappertutto. Il cibo iniziò a scarseggiare, l’economia precipitò e fiorì il mercato nero. I soldati russi in franchigia malmenavano e depredavano senza pietà i cittadini romeni e talvolta addirittura lo facevano contro i loro stessi ufficiali.
Quando i Russi arrivarono in Romania, il personale militare italiano a Curtea de
Arges fu liberato e il campo d’internamento abbandonato. La legazione italiana mi
mandò nuovamente a Costanza per affidarmi la responsabilità del Consolato Generale, ma presto fui richiamato a Bucarest, dove la grande massa di ex internati stava
creando significativi problemi alla Legazione. All’iniziativa dei comunisti, incoraggiata da agenti sovietici, molti dei militari italiani aderirono all’Unione dei Patrioti Italiani, che si batteva perché la Legazione li aiutasse a cercare vitto, alloggio,
soldi e lavoro. Il loro atteggiamento diventò così minaccioso che la Legazione die-
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de vita a un’organizzazione di assistenza sotto la mia direzione e con l’assistenza di
ufficiali dello Stato Maggiore e di ufficiali medici. La Legazione stanziò risorse
economiche per far fronte alla molteplicità di richieste, ma tali risorse non erano
mai sufficienti ed eravamo costantemente destinatari di reclami, proteste e richieste
assurde. Fu allora che assunsi due degli elementi che avevano più seguito fra gli
agitatori. Questi immediatamente compresero che avevano bisogno di calmare i
loro ex compagni di protesta e di riportarli alla ragione. I loro sforzi furono coronati
da successo, grazie alla fiducia che gli altri riponevano in loro.
Nel frattempo, un numero sempre crescente di soldati italiani - scappati dai campi di prigionia di guerra tedeschi, mentre i Russi avanzavano verso ovest - arrivò a
Bucarest. Si era sparsa la voce dell’esistenza di un ufficio assistenza e i soldati vi
pervenivano in massa, mettendo alla prova la nostra abilità nel procurare cibo, vestiti e alloggi. Fortunatamente la notizia della nostra situazione raggiunse Vienna e
la locale Croce Rossa Italiana. Grazie ad essa, ottenemmo assistenza finanziaria e
ristabilimmo i contatti con le nostre famiglie in Italia, un vero sollievo dopo tanto
tempo senza notizie. Fu in quell’occasione che venni nominato delegato della Croce Rossa Italiana in Romania. La nuova situazione mi permise di rivolgere la mia
attenzione ai negoziati con i Russi per il rimpatrio del nostro personale militare;
un’operazione che si rivelò enormemente difficile. Con così tante persone coinvolte, il rimpatrio sarebbe potuto essere svolto solo con attiva assistenza e cooperazione delle autorità russe e il mancato riconoscimento da parte loro della nostra missione diplomatica rese il trattare con loro un compito frustrante.
Diversi anni prima, avevo fatto la conoscenza ad Odessa di un giovane ufficiale
medico che prestava servizio come agente del Reparto Informazioni del Ministero
della Marina presso quel consolato. Parlava russo perfettamente e aveva numerosi
amici nella comunità sovietica. Un giorno si presentò nel mio ufficio di Bucarest e
mi annunciò che un suo amico russo voleva parlarmi. Quando ci incontrammo
questi mi disse che, quando i Russi avevano conquistato Costanza, gli archivi della
Marina Tedesca erano finiti nelle loro mani. In quegli archivi era contenuto un
rapporto sul colpo di mano effettuato dal Tenente di Vascello Ciccòlo della Marina
Italiana in seguito al quale i cinque sommergibili italiani erano stati consegnati ai
Romeni. Quel rapporto mi valse la buona considerazione da parte delle autorità di
occupazione sovietiche. Non persi tempo nell’avvantaggiarmi di questa occasione
di intraprendere le operazioni di rimpatrio del nostro personale. Tra le altre cose,
ottenni un documento russo che ordinava ai comandanti dei campi di prigionia e
d’internamento nella zona sovietica - nella quale molti nostri militari erano ancora
trattenuti - di rilasciarmi tutti gli italiani da me richiesti. Ne trovai molti nella zona
di confine tra Russia e Romania e subito feci partire il primo gruppo di militari
italiani per l’Italia, dove arrivò senza incidenti dopo circa dieci giorni. I convogli
successivi si effettuarono con sufficiente regolarità e il numero complessivo dei
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rimpatriati ammontò ad alcune migliaia. Questa cifra include il personale civile e
quello militare rimpatriato da Bucarest a Roma e ad altre capitali occidentali, per
mezzo dei frequenti voli della Commissione Alleata. Nel novembre del ‘45, il rimpatrio di quasi tutto il personale era completo. Rimanevano tuttavia circa trenta
persone che non potevano essere rimpatriate in aereo o in treno, poiché si trattava di
personale militare ospedalizzato con seri problemi di salute. Erano inoltre rimaste
diverse mogli di militari in avanzato grado di gravidanza. Decisi di utilizzare ciò
che avevo a disposizione - un grosso camion, un autobus e una Fiat 1100 - e trasportare io stesso in Italia i nostri problematici passeggeri. Con i tre veicoli vistosamente contrassegnati con i simboli della Croce Rossa e portando con noi documenti
ufficiali bollati e firmati dai Russi e dalla Croce Rossa, il convoglio partì da Bucarest
il 14 dicembre del ‘45.
Credevo che saremmo arrivati a casa di lì a due o tre giorni; invece avevamo
appena iniziato la salita sulle pendici dei Carpazi, che doveva portarci al confine
con l’Ungheria, quando il nostro autobus si fermò per un avaria al motore. Dalle
indicazioni si capiva che eravamo vicini a un villaggio dotato di un ospedale militare romeno e di una stazione ferroviaria. Raggiunsi in macchina l’ospedale e spiegai la nostra situazione al direttore, che inviò diversi mezzi per prendere il nostro
personale e ci procurò un pasto e alcuni letti in un dormitorio. Il giorno dopo mi
alzai presto e mi recai alla stazione ferroviaria, nella speranza di riuscire a procurare qualche vagone sul quale caricare i nostri mezzi e continuare in treno il viaggio.
Il Capo Stazione eccepì che non aveva l’autorità per soddisfare le mie richieste e
che avrei dovuto cercare il consenso dei Russi presenti in stazione. Prima di lasciare Bucarest, la Legazione mi aveva dato 200 dollari per il viaggio; ebbi l’intuizione
che era giunto il momento per cominciare a utilizzare quella preziosa riserva. L’incentivo funzionò e il Capo Stazione mi indicò il parco mezzi ferroviari, dicendomi
di cercare ciò che mi serviva. Trovai un lungo pianale di fabbricazione russa a otto
assi usato per il trasporto dei cannoni. Il Capo Stazione obbiettò che lo avrebbero
fucilato nel caso in cui mi avesse consegnato materiale bellico russo, ma un’altra
somma di denaro lo convinse anche su questo punto e ricevetti il pianale. Il personale di stazione romeno ci aiutò a rizzare tutto in modo che il carico fosse ben
fermo sul carro e agganciò il vagone su un treno diretto a Budapest. Le cose andarono lisce: al confine nessun intoppo. I militari sovietici videro i nostri simboli
delle Croce Rossa, osservarono attentamente i nostri documenti, confrontarono il
numero di persone presenti nel nostro convoglio con quelle che figuravano sui
documenti e ci lasciarono proseguire. Avevamo appena lasciato il confine romeno
quando apparvero due estranei clandestinamente saliti sul carro al confine e desiderosi di andare a Budapest. Erano ebrei polacchi che parlavano molto bene il russo,
il tedesco e l’ungherese e un po’ di italiano. Spinto da senso umanitario e dalla
considerazione dell’utilità che avrebbe potuto recarci la loro conoscenza delle lin-
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gue, decisi di lasciarli proseguire il viaggio con noi. C’era però una difficoltà: i due
non figuravano sui nostri documenti ufficiali e ad ogni conta delle persone sarebbe
stata rilevata una discrepanza. Venne così il momento della prima falsificazione dei
documenti di viaggio. Da uno di loro feci inserire nella lista due nomi in russo a
caso, così eravamo a posto almeno numericamente. Era tuttavia ovvio che i due
avevano seri motivi per evitare di essere scoperti dai Russi, così avevamo solo da
sperare che non venissero riconosciuti.
Le guardie di confine a Budapest controllarono i nostri documenti, contarono le
persone e trovarono tutto in ordine. Poiché la nostra destinazione ufficiale era
Budapest, fummo lasciati su un binario morto. Incoraggiato dal successo della prima falsificazione, procedemmo alla seconda. Uno dei nostri due esperti interpreti
aggiunse “Vienna” dopo “Budapest” sui nostri documenti di viaggio. Con uno di
loro mi recai dal Capo Stazione ungherese che era affiancato dai soliti soldati russi.
Questi girarono e rigirarono nelle mani gli strani documenti, ma alla fine ci diedero
il permesso di ripartire. Ai due Polacchi non parve vero di poter proseguire con noi
fino alla capitale austriaca.
Quando arrivammo alla Stazione Est di Vienna, decisi di tentare una terza
falsificazione dei documenti di viaggio: dopo le destinazioni di Budapest e Vienna,
aggiunsi Roma. Presentai il documento al Capo Stazione che divideva l’ufficio con
i militari russi. Questi, mezzi addormentati su due poltrone, con bottiglie vicino a
loro, erano visibilmente ubriachi. Il funzionario delle ferrovie austriache disse che
non poteva dare il permesso di procedere a un gruppo di persone che intendevano
passare dalla zona russa a quella americana. Una volta di più, funzionò l’elargizione
di valuta pregiata. Così ammorbidito, l’austriaco mi informò che c’era un treno
militare russo in partenza un’ora dopo dalla Stazione Ovest della città. Azzardai la
proposta di utilizzare una locomotiva di manovra per trasferire il carico attraverso
la città. Così fu fatto, e il nostro strano convoglio arrivò appena prima che il treno
per il confine fosse pronto per partire. Grazie a vistosi simboli della Croce Rossa, i
controlli furono svolti senza troppa pignoleria e presto ci trovammo in viaggio per
la zona americana in coda a un treno russo. Ero preoccupato su ciò che sarebbe
successo a San Valentino al confine austro-italiano (il treno russo si sarebbe fermato
lì). Il nostro problema era attraversarlo. I due Polacchi ci avevano lasciato a Vienna,
così mi trovai senza un buon interprete proprio quando ne avrei avuto più bisogno.
I Russi e gli Americani ebbero lunghe conversazioni, fecero varie ispezioni, dello
strano carico, esaminarono i tre veicoli e controllarono la lista dei passeggeri (dalla
quale avevo eliminato i nomi dei due Polacchi). Nel frattempo la mia ansia cresceva.
Finalmente apparve una locomotiva condotta da personale americano, con
contrassegni “USA”. Si agganciò al nostro carro e ci rimorchiò attraverso il confine
fino al posto di blocco americano. Fummo agganciati a un treno diretto in Italia.
Eravamo in salvo!
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Il com.te Gaetano Cristaldi di Catania riceve il terzo premio per il suo racconto “La nave felice”: «Con
tratto brioso e ilare l’autore racconta un episodio particolare ed inedito della vita di mare: il contrabbando
di valuta, che il comandante, all’insaputa dei suoi uomini, usa per fare fruttare il loro stesso denaro.
E’ un tocco di colore, un aneddoto divertente che spezza il cliché della figura del marinaio votato solo
alla fatica e alla sofferenza, va oltre lo stereotipo della vita sul mare come sempre stentata e dura, e ci
fa intravedere uno scenario diverso e variopinto.»
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Com.te Gaetano Cristaldi
LA NAVE FELICE
V
i racconto di una nave, una nave che fu forse la più felice che abbia solcato
i mari: non ve ne fu mai prima una più contenta di quella e, credo, nessuna
dopo.
Quella nave si chiamava “Marian P”. Non so a che cosa fosse riferita la lettera
“P”; e... vi prego di non fare gli spiritosi. Batteva bandiera del Panama la “Marian
P” ed era adibita per il trasporto di gas liquido tra il Venezuela e la Florida. A bordo
eravamo tutti italiani: siciliani, calabresi e gli immancabili molfettesi; non v’è nave
italiana, o con equipaggio italiano, che non abbia rappresentanti di Molfetta, del più
marinaro dei paesi pugliesi con il loro curioso e incomprensibile dialetto. V’erano
anche due liguri ed uno era di Camogli e l’altro di Oneglia e quest’ultimo si chiamava Garibaldi, proprio Garibaldi, Giuseppe Garibaldi. Ed egli aveva barba e baffi
biondi, sguardi a lampi: in tutto perfettamente somigliante all’eroe dei due mondi
che ricordavamo dalle stampe sui libri di scuola.
Il comandante della “Marian P”, era di Palermo. E quanti identificano un siciliano come basso di statura e con capelli e baffi scuri, non hanno mai conosciuto il
capitano Angelo Ursino: egli era alto, biondo, occhi azzurri, come un norvegese.
Del vero palermitano aveva il carattere: avaro di parole, pareva gli costasse fatica
spiccicarne due; distante, altero.
Come avvenne allora che quella nave, proprio la “Marian P” diventasse tanto
felice? - Vi chiederete?- Il lavoro era duro e pericoloso: eravamo insomma come
una bombola di gas galleggiante e tra i primi esperimenti di navi adibite al trasporto
di gas liquido e già v’era stata più d’una nave gassiera che era volata in... cielo. Un
comandante parco di parole e piuttosto ombroso; e con a bordo Giuseppe Garibaldi
che come il suo compagno di Camogli, mugugnava lamentandosi di tutto e per
tutto, instancabilmente. È così d’uso tra la maggior parte dei liguri che lo considerano quasi un diritto. È risaputo che i contratti d’arruolamento d’equipaggio nell’antica marineria genovese venivano sottoscritti con la dicitura: “Con o senza libertà di mugugno”. E con paga differente secondo la condizione scelta.
Udite, udite: un giorno, il comandante ordinò di riunirci tutti a poppa perché, ci
fece sapere, doveva tenere un discorso. Eravamo assai curiosi: lui, un discorso! La
maggior parte di noi dalla sua bocca non aveva sentito che uno stentato, “buon
giorno”; anzi ancor meno, un generico: “bona”, tratto proprio dal linguaggio ligure
e usato su tutte le navi con equipaggi di italiani. “Bona” può voler dire tutto: buon
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giorno, buona sera, buona notte, come va? va tutto bene? Il capitano Ursino lo
aveva adottato appunto dal linguaggio dei genovesi che, come si sa, in fatto di
risparmio non hanno rivali.
- Questo mese - ci disse il comandante quando ci riunì tutti a poppa della “Marian
P”- non spedirete rimesse a casa. Affiderete a me tutta la vostra paga: vedrete che
vi converrà.
E non diede altre spiegazioni, voltò le spalle e si avviò per la scaletta che immetteva
nel corridoio del suo alloggio. Fummo noi, quella volta, a restare in silenzio, allibiti. Poi fu Garibaldi a parlare:
- Come? - chiese - dare a lui i “dinei”?
- Ché, Garibaldi, non ti fidi?- ribatté un compagno.
- No, non dico questo, ma...
- E allora stai zitto e sgancia la “grana”.
Passarono pochi giorni e quella mattina, avevamo lasciato da poco Miami, quando il comandante ci riunì di nuovo a poppa:
- Ecco - disse stendendo a tutti una busta con sopra segnato il nome di ciascuno di
noi - vi restituisco il vostro denaro.
Prendemmo la nostra busta e non osammo aprirla fin quando il capitano non
terminò la distribuzione e si allontanò nel più assoluto e solito silenzio.
Quando finalmente aprimmo la busta e contammo le banconote in dollari che
conteneva, restammo sorpresi e felici: erano esattamente il doppio di quanto avevamo sborsato appena qualche giorno prima.
- E che è? La ripetizione del miracolo della moltiplicazione di pani e di pesci?chiese sempre Garibaldi e continuava a contare i dollari, incredulo.
Da quel momento la “Marian P” diventò una nave felice, la più felice al mondo:
il miracolo si ripeteva ogni cinque o sei giorni, tutte le volte che dopo la discarica,
lasciavamo Miami. Il capitano ci riuniva a poppa e ci restituiva esattamente il doppio di quanto gli avevamo consegnato prima dell’arrivo in Venezuela. E quando
qualcuno e quel qualcuno non poteva essere altri che il solito Giuseppe Garibaldi,
tentò di chiedere, con tanto timore e prudenza per la verità, una qualche spiegazione, il comandante Usino lo interruppe e tacitò con poche e brusche parole:
- Incassate - disse - e non fate domande: è un miracolo e si rinnoverà tutte le
volte che salpiamo da Miami. Finirà - aggiunse - se ne farete parola con estranei.
Non parlatene con nessuno, non scrivetelo a madri, mogli e fidanzate. Se si saprà
fuori della nave, il miracolo non si ripeterà più. Perciò: zitti e mosca!
Continuammo dunque, e ogni qual volta lasciavamo Miami il nostro capitale
raddoppiava, ma anche la nostra curiosità e formulavamo:
- Quello ha trovato un modo di vincere alla “roulette” - sentenziò uno dei
molfettesi e quando disse la parola francese “roulette” la pronunciò in un modo che
per capirlo impiegammo una buona mezz’ora.
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Gaetano Cristaldi
LA NAVE FELICE
- A Miami c’è il casinò - continuò - e lui ha scoperto un sistema sicuro per vincere alla... “rrullotti”.
- Ma quale casinò? Quale “rrullotti” o “roulette”? - chiese Garibaldi - Se non
mette mai piede a terra quando arriviamo in Florida?
- E allora li stampa lui? Ha una macchina in cabina e li stampa?
- E perché i dollari si raddoppiano soltanto quando lasciamo gli Stati Uniti?
Perché vuole i nostri dollari prima dell’arrivo in Venezuela?
- In Venezuela scende, eccome! Va via per un giorno intero!
Intanto a bordo della “Marian P” avveniva il finimondo. Le prime a trarre vantaggio di tutto quel denaro che c’era piovuto improvviso addosso, furono le donne
di Punta Cardon. Punta Cardon è il posto più infame che non abbia mai visto. Si
raggiunge dal porto in taxi e immaginate un nostro stabilimento balneare: decine,
forse centinaia di cabine di legno poste in lunghissime file. Proprio, dicevo, come
in uno stabilimento balneare. V’era però una differenza, certo non trascurabile;
laggiù non v’era una spiaggia o una scogliera giacché il mare restava lontano più di
una decina di chilometri: v’erano soltanto le cabine di legno e alle porte di queste,
affacciate tante donne nell’attesa di clienti venezuelani e dei marinai delle tante
petroliere che arrivavano al vicino porto di Amuay Bay. Donne bianche, nere,
mulatte, alcune biondissime, venute da ogni angolo del pianeta e finite dopo incredibili e sventurate vicissitudini in quell’inferno. Stavano tutte affacciate alle porte
delle misere cabine con atteggiamento invitante, mimando la specialità cui sapevano meglio dedicarsi. Alcune portavano alla bocca enormi biberon e li leccavano
con ostentata lussuria, muovendo la lingua con febbrile e furiosa velocità. Altre
chiudevano l’indice e il pollice della mano e la muovevano freneticamente: come a
scuotere un immaginario campanello. Voleva dire, come ci spiegarono, e non ne
capimmo bene il motivo, che erano brave a darsi in modo diverso.
Con tutto il denaro che avevamo guadagnato, molti di noi si avventarono sulle
donne di Punta Cardon come avvoltoi. I più assidui clienti erano due molfettesi; si
diceva che uno di loro, in una sola notte, avesse varcato le porte di ben diciotto
cabine: un record quasi olimpico.
Giuseppe Garibaldi, da quel sentimentalone che era, invece, s’innamorò di una
bellissima venezuelana che immancabilmente si chiamava Anita. E spese una fortuna perché pretese che ella lasciasse Punta Cardon: le affittò una casa vicina al
porto e andava a trovarla ogni qual volta ritornavamo dalla Florida. Smaltita la
sbornia sessuale, ci vennero altre e diverse necessità. Fu sempre lo stesso Garibaldi
a cominciare: chiese al comandante che spesso andava in città, di comprargli colori
e pennelli. Ben presto Giuseppe Garibaldi trasformò la sua cabina in studio e dipingeva notte e giorno. Disegnava sfere grandi e piccole come palle e palline e le
colorava rosse, verdi, gialle, viola. Il sosia dell’eroe dei due mondi affermava che le
palle sono l’inizio e il fine di tutto.
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
- Che cos’è il mondo? - chiedeva sicuro - Se non una palla? E le teste degli
uomini non sono forse simili alle palle? E gli stessi uomini, quelli veri, non hanno
forse...
La palla era per lui l’inizio e l’energia del mondo; ma si sbagliava. È il denaro il
vero motore di tutto, anche e soprattutto dell’arte. Si, certo, Fidia, Michelangelo e
Raffaello furono grandi; ma sarebbero mai esistiti se non vi fossero stati i mercanti
greci e i banchieri fiorentini che inventarono persino la cambiale? Certamente no.
Così come senza i dollari che gli procurava il capitano Ursino, Giuseppe Garibaldi
non avrebbe mai dipinto le sue palle rosse, verdi, gialle e viola. Le migliori doti
dell’uomo si evidenziano soltanto quando egli ha vinto la battaglia della sua sopravvivenza, ed è libero dal bisogno, dalla paura del domani.
L’esempio di Garibaldi non restò isolato: a bordo della “Marian P” vi fu chi si
dedicò alla musica; proprio un molfettese acquistò un violino e cercò di suonarlo,
suscitando le più accese proteste da tutto il resto dell’equipaggio, fino a quando non
intervenne personalmente il capitano Angelo Ursino che provvide al sequestro dello strumento. E spuntarono tra noi collezionisti di francobolli, di monete, di farfalle
e appassionati lettori di romanzi. La festa continuò così per più di quattro mesi. Poi,
improvviso, arrivò un telegramma con l’ordine di cambiare viaggi: partivamo sempre dal Venezuela, ma diretti non più in Florida, ma nel Salvador.
Passammo, in una mattinata uggiosa e umida, come lo sono spesso quelle dei
tropici, il canale di Panama; e mentre la nave saliva sulla montagna, innalzandosi
da una chiusa all’altra, piangevamo come bambini. Non conoscevamo il
marchingegno che il capitano aveva inventato; ma comprendevamo tutti che il miracolo era finito.
Una notte, trascorsi alcuni mesi, il capitano Ursino, sul ponte di comando, mi
confidò il suo segreto:
- Semplice - mi disse - non era che contrabbando di valuta: in Venezuela cambiavo al mercato nero Dollari in Cruzeiros; e a Miami davo questi all’agente della
nave che li cambiava in diverse banche americane in dollari e alla quotazione
ufficiale. Ci si guadagnava più del doppio, ma una percentuale dovevo darla allo
stesso agente che provvedeva al cambio negli Stati Uniti senza che io corressi rischi.
Dopo qualche mese ancora, sbarcai per fine contratto dalla “Marian P” e non ho
più incontrato il comandante Ursino. Mi aveva detto, una volta, che con tutto il
denaro guadagnato, egli non lo aveva certo speso con le donne di Punta Cardon,
voleva acquistare uno yacht a vela e navigare con una sua amica, libero per i mari
del mondo.
Ci ripenso a volte. E credo che egli sia ancora laggiù: con una donna bellissima,
a bordo di uno strepitoso veliero diretto dal Venezuela alla Florida.
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Cap. D.M. Amedeo Dall’Asta
UN MARINAIO E UNA CORNICE D’ARGENTO
L
a nave arrivò a Marsiglia quando era già sera. Aveva navigato per tutto il
giorno sotto un cielo scuro, sul mare leggermente agitato, mentre soffiava
una leggera brezza umida che entrava nelle ossa e immalinconiva ogni
pensiero. Lui non era di guardia, poteva perciò stare in coperta a guardare l’attracco.
All’entrata del porto un rimorchiatore si affiancò alla vecchia carretta quasi non
fosse degna di essere trainata seguendola di malavoglia. Le banchine erano deserte,
solo una squadra di ormeggiatori stava aspettando di afferrare le sagole che dalla
nave dovevano essere lanciate per tirare a terra i pesanti cavi da ormeggio.
La manovra pareva più lunga del solito. A quell’ora lui non era di guardia, poteva
perciò starsene in coperta a guardare l’attracco rabbrividendo per il freddo e l’umidità salmastra. La città non si vedeva, davanti alle banchine una fila di capannoni in
mattoni che un tempo dovevano essere stati rossi, la nascondeva. I portoni erano
chiusi, dai finestroni con pesanti inferriate non trapelava nessun movimento, sembrava che tutti fossero scomparsi. Solo in quel momento capì che era domenica.
La nebbia calò all’improvviso con odore di catrame e di fumo, poco dopo fu
notte e si accesero in coperta le luci usate solo in porto. A terra i fanali dall’alto dei
capannoni non riuscivano ad illuminare le banchine. Il cameriere suonava la campana della mensa; lui sarebbe voluto rimanere ancora in coperta al freddo provando
piacere nel sentire le ossa gelare quasi per dare una ragione fisica a quel dolore
sottile che da giorni e giorni gli aveva invaso l’anima, ma scese a cenare. Passò
prima in cabina e dalla scrivania vide il sorriso di Lei incorniciato nel portaritratti
d’argento che in un recente, ma ormai tanto lontano giorno gli aveva regalato con la
sua più bella fotografia.
Rivisse le ultime ore passate insieme prima dell’ultima partenza. Cercava di ricordare quello che Lei gli disse e le precise parole che aveva usato, senza capire
quello che in realtà voleva dirgli o forse non voleva capire. Ricordava l’ultimo
abbraccio, il suo odore, il fiato caldo della sua bocca, il profumo dei suoi lunghi
capelli, il gusto del suo bacio che gli sembrava diverso, il suo corpo che non era più
tanto attaccato al suo, quel corpo che pareva di marmo caldo e che poteva diventare
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
tanto tenero e dolce.
- Ti scriverò.- Gli disse Lei. Era sicuro che non l’avrebbe fatto.
In sala mensa l’allievo ufficiale distribuiva la posta appena arrivata. Per lui non
ce n’era. Pensò a Lei che non aveva scritto: perché?
Ognuno prese le proprie lettere leggendole in silenzio mentre i piatti dalla cucina
tardavano ad arrivare perché la posta era giunta anche là. Quella sera si sarebbe
cenato in ritardo e nessuno avrebbe parlato del cibo cattivo o delle donne incontrate
o sognate. C’era un’aria di malinconia negli sguardi di quegli uomini che riponevano in tasca le lettere da rileggere con calma in cabina. Le avevano scorse in fretta
per sapere subito le notizie di casa, rimandando a più tardi una lettura più attenta.
Le avrebbero rilette per tutta la navigazione fino al prossimo porto, cercando così di
stabilire un legame, in qualche modo un contatto con il mondo, con la casa, con la
famiglia, con la loro donna, con il luogo dov’erano cresciuti, che è sempre il posto
più bello del mondo, perché forse si ritrovano gli affetti.
Solo chi non ha casa e nessuno che l’aspetta può fare il marinaio.
Lui guardava i suoi compagni mentre questa volta mangiavano in silenzio. L’angoscia lo prese: Lei non aveva scritto e sentiva che non l’avrebbe più fatto.
Quegli uomini dall’apparenza duri e sicuri stavano silenziosi per tenersi dentro
l’impressione, che ben presto sarebbe svanita, di essere a casa. Non aveva mai
incontrato un marinaio soddisfatto della vita di mare e non si spiegava come fossero finiti là. A parlarci assieme scopriva strane storie, motivazioni incredibili; ma
nessuno che amasse il mare e la vita in giro per il mondo. Erano tutti infelici e fuori
posto, lui non si riconosceva in loro, non voleva diventare così. Pensò a Lei che non
aveva scritto: perché?
Quella sera nessuno dei colleghi gli propose di scendere in città; non sopportando
l’idea di andare a letto per non dormire decise di uscire da solo. Era ormai notte,
camminava a testa alta prendendo con voluttà il vento sul viso. Uscì dal cancello
del porto salutando con un cenno il doganiere che gli rispose dall’interno della
guardiola come fosse abituato a vederlo. Dopo pochi passi era già in città, le strade
erano bagnate e lastricate con cubi di porfido a pavé. Camminava male sui
marciapiedi stretti, la strada deserta a schiena d’asino faceva convogliare l’acqua
nei lati dove si scaricava in frequenti aperture. Le case erano ad un piano, raramente
a due, buie, sembravano più deserte che addormentate. Avevano facciate che
ricordavano le fabbriche del primo novecento. In giro non si vedeva nessuno. Il
centro della città era lontano. Qui, fuori dal porto, non c’erano le luci sfavillanti
della “Canebière” con i suoi negozi e locali di lusso, i marinai il più delle volte si
fermavano qui, quasi presi dal panico e dalla paura della città dopo tanti giorni e
mesi di mare e solitudine.
Cominciò a piovere a minutissime gocce, come se tutta la nebbia precipitasse
giù, ed, infatti, c’era ora più luce, si distinguevano meglio i contorni delle case, le
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UN MARINAIO E UNA CORNICE D’ARGENTO
Amedeo Dall’Asta
luci sembravano più vivide. Improvvisamente, illuminate, vide le vetrate colorate
di un bistrò che permettevano di vedere solo le ombre all’interno. Passando davanti
alla porta uscì un marinaio e intravide i compagni di bordo.
Entrò nella luce e nel rumore assordante delle voci ubriache.
Erano i marinai delle navi ancorate in porto. Dei suoi riconobbe alcuni timonieri,
un fuochista e il nostromo; non c’era nessun ufficiale e ne fu contento. A lui piaceva parlare in libertà con l’equipaggio interessandosi alle loro storie e problemi. A
bordo era come un piccolo mondo, con le sue classi e i suoi ruoli sociali, ed era
inopportuno dare confidenza agli inferiori appartenendo al rango degli ufficiali.
Lui cercava di opporsi, ma la disciplina e la consuetudine lo costringevano a volte
a comportarsi così.
Venne accolto subito con grida d’approvazione e lo invitarono a sedere con loro,
contenti di potergli dimostrare ospitalità e amicizia. Si alzarono tutti in piedi e gli
fecero posto attorno ai due tavolini rotondi che avevano accostato.
È incredibile come i francesi riescano a far sedere tanta gente nei loro locali
usando tavoli e sedie minuscoli. Il bistrò era pieno di uomini seduti uno vicino
all’altro e nei tavoli c’era poco posto per bicchieri, piatti e bottiglie. Un grammofono, che il padrone manovrava dal bancone col piano di marmo, suonava canzoni
tipicamente francesi, allegre, ma nello stesso tempo piene di tristezza. C’erano alcune donne che si aggiravano fra i tavoli, altre sedute e una assieme ai suoi compagni che continuò a mangiare quando si sedette. Bevevano tutti birra e la donna vino
rosso, mangiando della carne al sugo e cipolla cruda tagliata a fettine. Aveva un
viso pallido, spaventato, con un’espressione dura, a volte smarrita. Gustava il cibo,
lentamente, con appetito, senza mai parlare. I capelli neri cortissimi, gli occhi grandi e luminosi erano l’unica bellezza che si notava nel viso anonimo. Gli abiti erano
pesanti, di lana, dai colori incerti.
Quando finì di mangiare trangugiò d’un sol fiato il bicchiere di vino versandosene subito un altro che cominciò a sorseggiare con aria beata. Improvvisamente la
musica cambiò, divenne lenta; fra i tavoli una ragazza costrinse alcuni marinai a
spostarsi e nello spazio ricavato cominciò a ballare spogliandosi in uno strano modo,
muovendosi impacciata, ma ciò che stupiva di più era che vestiva abiti normali, non
i soliti costumi di scena per lo spogliarello. Lui la guardava con curiosità, senza
insolenza. Anche se il suo lavoro lo stata facendo male, si adoperava come poteva
per accendergli la fantasia. La vista delle sue nudità, anche se mostrate senza erotismo,
gli fece rimescolare il sangue di desideri lungamente attesi. Tutti guardavano ammutoliti. Quando rimase con le sole mutandine e fece per andarsene successe il
finimondo. Usci dal banco il padrone che la scortò fino nella piccola cucina sul
retro, con voce minacciosa mise a tacere tutti che ripresero lentamente a bere e a
urlare tra loro.
Il fuochista continuava a fargli festa strizzandogli l’occhio per convincerlo ad
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
andare con la donna seduta con loro. Gli ripeteva che c’era stato anche lui poco
prima, che era abile e gentile. Lui capiva che lo stava facendo quasi per un dovere
di ospitalità, per rendersi utile ad un superiore, anche se non aveva mai fatto pesare
questo suo stato, specialmente a bordo. Forse si comportava così proprio per questo.
Guardava la donna cercando di immaginarne il corpo sotto i brutti vestiti, la intravedeva giovane e disponibile. Le sue mani desiderarono toccarla. Le fece un
cenno che ella interpretò con sicurezza alzandosi. Il fuochista sorrise con complicità, gli batté una mano sulla spalla, si fece dare da lui del denaro che consegnò alla
donna, non voleva evidentemente che si facesse gabbare sul prezzo.
Uscirono e subito il freddo lo prese come se una grande mano gli stringesse il
corpo, ma l’aria era pura e sentiva un senso di benessere nei polmoni che respiravano a fondo.
La donna gli tese la mano allacciando le dita alle sue, questo gesto da innamorati
gli riempì il cuore di malinconia, ma anche di desiderio.
La donna si fermò e tenendolo sempre per mano apri il portone di una casa e disse
la prima parola:
-Viens.
Non così aveva sognato di abbracciare una donna nelle lunghe ore di navigazione, ma una voglia dirompente, tutta carnale guidava ormai il suo pensiero. Doveva
farlo con quella o con qualsiasi altra donna.
Entrò in lei senza sapere dove mettere le mani, e ad un tratto tutto finì.
Si rese conto di ciò che stava facendo sentendo sotto di sé il corpo di quella
sconosciuta. Ebbe paura, non di quello che aveva fatto, ma di come l’aveva fatto. Si
rese conto allora con sgomento di non aver usato nessuna precauzione e si avvicinò
al lavabo restandovi più del tempo necessario. La donna intanto si era già rivestita,
lo aspettava e disse:
- Viens, je ne suis pas malade.
Aveva un sorriso dolcissimo come se volesse rassicurarlo, un’espressione inaspettata in quella situazione. Si rendeva conto, ora più di prima, dell’assenza totale
di ogni sentimento nell’atto compiuto, ma quel sorriso pareva un gesto d’amore.
Nella più assoluta disperazione a volte c’è una tregua di serenità, così anche in
quel momento la sua ansia si fermò. Qualcosa gli venne donato con quel sorriso che
non voleva più dare solo risposta ad un interrogativo, ad un timore, ma voleva
eliminare la sua paura che stava diventando la paura di tutto questo vivere in un
mondo dove non c’è posto per le paure.
Quel sorriso e quelle parole volevano dire: non ti sei contagiato, né il corpo né
l’anima. Vieni, possono succedere anche di queste cose. Quante altre volte abbraccerai una donna senza amore? Ma a volte anche un solo sorriso inatteso può trasformare la cosa più sordida in una specie d’amore. Percepiva confusamente che, nell’istante in cui era durato quel sorriso, c’era stato forse più amore di quanto, a volte
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non ve ne sarà mai tra due che vivono assieme per anni nello stesso letto caldo e
pulito. Perché l’amore è anche solo un sorriso.
Quando rientrarono nel bistrò si voltò per parlarle ma la donna era già ad un altro
tavolo.
Il cielo era sereno quando usci con i compagni dal bistrò e cantando arrivarono
alla spiaggia, dietro al porto. La marea aveva spinto il mare lontano lasciando scoperta una lunga distesa di sabbia. La luna lo illuminava e una miriade di bagliori lo
facevano apparire agitato e inesorabilmente presente. Il mare alla fine li ritrovava
sempre e loro tornavamo come uomini senza casa, che hanno per tetto sogni, fantasie e desideri lontani.
Ormai fuori dell’abitato cantavano le canzoni di casa a squarciagola, quasi con
rabbia, ma con un po’ di nostalgia e un velo di tristezza; e immancabilmente “vola
colomba”, che sempre commuoveva i marinai ed era diventata come “sole mio” per
gli emigranti.
Vola colomba bianca vola
dimmelo tu che tornerà
dimmi che non sarò più sola
e che da me ritornerà.
Rallentò il passo lasciando andare avanti i compagni che continuavano a cantare,
il vento riprese a soffiare, forte e freddo. Si abbracciò portandosi le mani sulla
schiena e dagli occhi scesero veloci, senza dolore, alcune lacrime.
- È il vento sul viso, mormorò tra sé. E udendo la sua voce, sentì le labbra che si
stavano tagliando facendogli male.
- È il vento, e tutta questa storia.
E in quel momento pensò a Lei, che lo aspettava in cabina sorridendo nella cornice d’argento.
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Il Presidente della Provincia, on. Nello Musumeci, consegna la “targa d’argento al merito” al giovane
giornalista Domenico Di Martino: «Per il contributo dato con entusiasmo giovanile, attraverso la
Stampa locale, alla diffusione di notizie legate ai problemi del territorio, evidenziando doti letterarie,
proprietà di linguaggio, capacità critiche e di sintesi che lasciano intravedere una prestigiosa carriera
giornalistica.»
Il fotografo Antonio Ronzano di Milano, la pittrice Tany Donatiello di Milano e la scrittrice di mare
Anna Bartiromo di Sorrento
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Domenico Di Martino
IN MORTE DI TRE PESCATORI
Nella notte di pioggia
il mare è un dannato
che ad ogni goccia
si contorce disperato
trascinando nella sua perdizione
quello stuolo di ingenui pescherecci
che speravano di trovare la quiete
fra le braccia del porto.
Stridono impazziti
i violini di gomene
e cento antenne
danzano impaurite
sulla schiena d’ira
del gigante ubriaco di follia,
mentre le sue spumose imprecazioni
contro la scogliera
stuprano il silenzio umido.
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Uomini piccoli,
bardati solo di gialle incerate,
sfidano la tregenda
e si affrettano nel buio
per spegnere l’ansia
di chi aspetta dietro un vetro.
Stanotte però,
onde come fauci fangose
ingoieranno il coraggio,
il legno sarà bara
e mai più punterà la vita
nei colori dell’alba.
In preda al demone della tempesta,
il mare beve il suo tributo di sangue;
domani, pentito,
cercherà il perdono
con baci di bonaccia.
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L’Uff.R.T. Angelo Luigi Fornaca di Asti riceve il primo premio per il suo racconto «La tempesta”:
“Una nave vecchia e stanca, ma ancora solida e sicura; un vecchio e rude capitano, “dal pelo sempre
più grigio e dalla voce sempre più ringhiosa”; una ciurma di marinai giovani e forti, avvezzi alle
difficoltà della vita di mare. E, d’improvviso, una piccola comunità di forestieri stravaganti, turisti
della vita ancor prima che del mare, convinti, sull’onda di un facile consumismo, che tutto si può
provare e comprare: le emozioni, l’avventura perfino.
Questi gli ingredienti che l’autore miscela con maestria e perizia, sul filo di un appena percettibile
umorismo, teso a tratteggiare l’acuto contrasto tra chi dal mare ha imparato a conoscere la forza
devastante e chi invece crede di poterlo domare e padroneggiare senza ritegno.
Ma lo sguardo del mare, innocente e spietato come quello di una divinità pagana, sembra posarsi su
questi personaggi fatui, mettendone a nudo la fragilità e l’inconsistenza, Come se l’autore volesse
ricordarci che all’avventura del mare ci si consegna interi, senza ricevuta o biglietti di ritorno.»
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Uff. R.T. Angelo Luigi Fornaca
LA TEMPESTA
D
opo aver compiuto l’ennesima traversata oceanica, la “Signora” si era
ormeggiata nel porto di Le Havre. La tozza prua ed il massiccio scafo,
sormontato dal lungo fumaiolo, ne tradivano la veneranda età; ormai era
lontano il giorno in cui aveva ricevuto il battesimo dell’oceano e la spietata legge
del tempo aveva inciso ovunque profondi segni su quella che era stata una giovane
ed attraente carretta del mare: il suo abito di bianca pittura si era fatto via via più
sbiadito e rattoppato e qua e là, con il trascorrere degli anni, erano affiorate anche le
prime profonde rughe di ruggine a conferirle l’aspetto di una vetusta maturità.
Ciò nonostante aveva continuato il suo lento girovagare senza fine, da un porto
all’altro, portando sempre a destinazione con alta professionalità il suo equipaggio
ed il suo carico; ed anche quando erano apparse le prime veloci navi, dalle linee
possenti e filanti, ad irriderla per la sua lentezza, non si era arresa: ancora e sempre
era andata per la sua rotta, sbuffando poderose boccate di nero fumo dal lungo
fumaiolo, come a snobbare quelle che considerava soltanto volubili “ballerine”.
Lei non era mai stata “ballerina”, una di quelle che si agita e sobbalza ad ogni
alitare di vento ed al semplice increspare dell’onda; lei era una posata e tranquilla
carretta, la vecchia chiglia arrugginita, ma ancora ben salda e manovriera fra i flutti:
era questa la più preziosa qualità che l’equipaggio le riconosceva e per cui all’unanimità, l’aveva elevata al titolo di “Signora Scoglio”.
E, sebbene spesso fosse oggetto di salaci sberleffi e riferimenti poco cavallereschi, la “Signora” era sintesi tutta particolare per i suoi uomini che vedevano in lei
la casa, la madre ed un sicuro grembo in cui trovare rifugio nei momenti difficili: a
lei essi affidavano fiduciosi la vita, giorno e notte per lunghi mesi, come se non
fosse soltanto un’immensa scatola di ferro, bensì una creatura vera, viva, con un
corpo ed un’anima.
Così, dopo tanti anni di umile e fedele servizio, in quel mattino del 18 dicembre,
la Signora era impegnata nel portare a termine la sua ultima scaricazione. Tutto
l’equipaggio era impegnato nelle ultime operazioni ed ovunque ferveva una frenetica attività, mentre, nel suo covo, “l’Orso” si era attardato a “riposare”, come, in
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gergo, era definito il rumoroso russare del suo Capitano.
La sua era ormai una vecchia e ben collaudata consuetudine: “in mare a vegliare,
in porto a russare”, e lui l’aveva sempre fedelmente rispettata fino dal giorno del
suo “matrimonio”.
Era accaduto tanti anni prima: l’Orso, allora fresco Capitano di belle speranze,
aveva incontrato la giovane carretta ed era stato un autentico colpo di fulmine:
insieme avevano compiuto le prime traversate e superato le mille insidie nei tempestosi flutti degli oceani, imparando a conoscersi, a sopportarsi ed amarsi.
Lui era sempre sul Ponte di Comando, giorno e notte, anche per intere settimane,
quando la forza del mare superava il livello di guardia; sempre pronto a guidarla
con mano sicura attraverso i ribollenti marosi, a difenderla dall’onda assassina ed
anche attento e premuroso alle sue necessità, come pure a soddisfare qualche capriccio del suo amore.
Insieme, anno dopo anno, avevano trascorso la vita: poche volte, durante le soste
nei porti, dovute a lavori di manutenzione, lui l’aveva abbandonata per qualche
giorno. In quelle rare occasioni era stato visto scendere lo scalandrone, posare un
piede titubante sul pontile prima di avventurarsi oltre; poi allontanarsi con un passo
ciondolante e rigirarsi, di tanto in tanto, a gettare uno sguardo indietro, finché la
“diletta” non scompariva dal suo orizzonte.
Di anni n’erano passati molti: la giovane carretta era diventata la vecchia ‘Signora’ con tante rughe e qualche acciacco in più; lui, il Capitano, era ormai un vecchio
“Orso”, dal pelo sempre più grigio e dalla voce sempre più ringhiosa. Le sue assenze da Bordo si erano ancor più diradate con il passare del tempo: in porto, di tanto
in tanto, lui scendeva la scaletta e metteva piede sul Pontile, passeggiando per una
mezz’ora, su e giù, senza scostarsi da lei più di qualche metro.
I suoi modi erano sempre stati quelli di un rude istrione, ma, in seguito, di anno in
anno, era diventato più brusco e scostante e l’equipaggio gli aveva appioppato
quell’appellativo di “Orso” che gli calzava perfettamente. Sebbene sotto quella
scorza dura si potesse anche intuire un animo generoso, i “ragazzi” non lo amavano
e nell’antro poppiero non erano mai teneri nei suoi confronti, non risparmiandogli
i più feroci sarcasmi; tuttavia lo rispettavano per l’alta professionalità con cui riusciva
ad assicurare alla “Barca” una sicura navigazione anche nelle peggiori condizioni.
D’altra parte l’Orso, pur non manifestando alcun particolare sentimento affettivo, stimava la “ciurma”, perché erano marinai giovani e forti, su cui poteva contare
in qualsiasi circostanza.
Quel giorno, mentre l’Orso riposava, i ragazzi stavano lavorando duramente in
coperta e nelle stive e non ebbero modo di osservare l’arrivo frettoloso dell’incaricato dell’Agenzia Armatoriale con un telex urgente per il Capitano.
Mancava ormai poco a mezzogiorno quando l’Orso, uscendo dalla sua cabina,
chiamò il 1° Ufficiale ed il Nostromo:
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LA TEMPESTA
Angelo Luigi Fornaca
«Ragazzi! Nel pomeriggio imbarcheremo 200 Kg di aragoste vive, 100 Kg di
salmone affumicato, 50 Kg di caviale, 100 dozzine di uova fresche e 100 casse di
Champagne. Provvedete allo stivaggio.» – comunicò loro senza preamboli.
In tutta la storia della Signora non si erano mai affrontati ‘problemi’ di caviale e
di Champagne ed adesso l’Orso se ne usciva fuori con una sparata del genere!
Centinaia di Kg, centinaia di bottiglie, anzi, casse di Champagne!
Cosa stava accadendo a bordo della Signora? I due guardarono sbalorditi il Capitano, quindi si fissarono un istante negli occhi e annuirono in silenzio. Avevano
capito: “Questa volta l’Orso era totalmente impazzito, perduto per sempre! Poveretto,
in fondo, era stato un buon Capitano!”
«Il resto lo imbarcheremo domattina prima della partenza» - concluse l’Orso
prima di ritirarsi nuovamente nel suo antro, vomitando un fiume di “moccoli” che
lasciarono i due sempre più perplessi e preoccupati.
Ma nel pomeriggio, quando arrivò il grosso camion delle provviste con una montagna di casse di Champagne ed i numerosi contenitori in cui tentacolavano centinaia di rosse aragoste vive, i ragazzi dovettero ricredersi sulle reali condizioni mentali del Capitano.
Tuttavia rimaneva il mistero di quell’incredibile carico ad alimentare la fantasia
dei ragazzi di Poppa. Chissà? Sicuramente c’era in vista qualcosa di grosso: forse
l’Orso aveva fatto un bel 13? No, senz’altro da scartare: conoscendo la sua
proverbiale ‘taccagneria’, al massimo poteva mollare un paio di casse di birra.
Forse era una faccenda di contrabbando? Poteva reggere per lo Champagne, ma
non certamente per il resto: era impensabile che l’Orso mettesse in piedi una ‘bancarella’ su una piazza di un qualsiasi porto a vendere uova ed aragoste!
Mistero fittissimo. Per saperne di più non rimaneva che aprire bene gli occhi e le
orecchie, perché mai l’Orso avrebbe confessato cosa stava succedendo; e, perciò, i
ragazzi si disposero pazientemente all’attesa, vigili ed attenti, con vivissimo interesse per quella misteriosa montagna di casse e per il ghiotto companatico. Tutto
era possibile e nulla si poteva escludere, anche qualche coinvolgimento eno-gastronomico: nessuno poteva scartare a priori alcuna ipotesi mentre andava incontro a
questa nuova avventura.
La sera e la notte trascorsero senza che avvenisse nulla di nuovo a fare luce sul
misterioso carico; poi, al mattino, quando ormai mancava meno di un’ora alla partenza, il sipario incominciò lentamente ad alzarsi.
Il muso inconfondibile di una Mercedes venne a fermarsi sul pontile, proprio
sotto lo scalandrone della Signora; poi ne seguì una seconda, una terza, una quarta
ed, infine, la quinta ed ultima si accostò alle altre e spense il motore. Si aprirono le
portiere e ne venne fuori un nutrito gruppetto, rumoroso e vociante, capeggiato da
una biondissima al grido di: «Capitano! Vogliamo la tempesta! Dacci oggi la nostra tempesta quotidiana!»
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
La “ciurma”, affacciata sui Ponti superiori, intuì immediatamente che i sogni di
possibili coinvolgimenti eno-gastronomici, dovuti al prezioso carico, stavano per
naufragare miseramente di fronte a quell’uragano biondo che era in procinto di
investirli e partì qualche sonora bordata di fischi stile yanchee, con risvolti nostrani,
all’indirizzo sottostante.
Ma, sorpresa fra le sorprese, chi era quell‘imbusto gallonato nella divisa Ufficiale, con spalline e berretto a nastrini dorati, che scendeva lo scalandrone andando
incontro alla nuova eterogenea banda appena arrivata? Mai si era visto tanto, mai si
era osato tanto sulla vecchia Signora: sempre ed ovunque le divise erano state bandite in ogni occasione; sempre e soltanto si erano indossati abiti marinareschi, veri
casual, i più conformi alla tradizione di Capitan Morgan!
E, purtroppo, la ciurma stava osservando quello che non avrebbe mai immaginato di vedere: colui che era intento a dare il Benvenuto ai nuovi arrivati era proprio
l’Orso! Sul Pontile! Incredibile!
Ma non erano ancora finite le sorprese, anzi: chi era quel rumoroso branco di
pseudo – marinai che si apprestavano ad andare all’arrembaggio della vecchia
Signora?
«Capitano! 10 casse di Champagne a Lei ed al suo equipaggio se ci regala una
vera tempesta!» - gridò una voce maschile dal gruppo sul Pontile.
Una salva di perforanti fischi partì dai Ponti superiori verso il basso, dove l’Orso
stava guidando nuovi imbarcanti sullo scalandrone fino al Ponte Coperta.
«Mr. Penny” - era la voce dell’Orso - per una tempesta, una vera tempesta, si può
tentare, ma ci vorrà tutto lo Champagne di Bordo, non una bottiglia in meno» sentenziò il novello Cicerone, manifestando insospettate doti commerciali.
«Abbasso la noia! Viva la tempesta!» - ritornò alla carica una biondissima e temeraria ospite.
Una seconda bordata di frangi-timpani fischianti inondò i nuovi arrivati mentre
mettevano piede in Coperta.
«Mrs. Penny” - chiosava ancora il gallonato Capitano alla straripante biondissima - l’equipaggio Le dà il Benvenuto nel suo tipico stile marinaresco».
La ciurma sovrastante i Ponti superiori si stava attentamente interessando allo
spettacolo di quel branco di ‘animali terrestri’, stanchi delle loro “foreste dorate”,
intenti a tentare nuove rotte per sopravvivere alla morsa della noia al prezzo di una
metamorfosi marina: un processo che aveva molte probabilità di risultare travagliato
ed indigesto.
Era semplicemente stupefacente vedere il famoso finanziere J. Paul Penny abbandonare il suo Mega-chalet sulle nevi di S. Moritz per calcare la tolda di una
delle sue numerose carrette del mare! Eccolo, infatti, il genio di Wall Street: colui
che in pochi anni aveva raggranellato una fortuna colossale trafficando in diamanti,
uranio, petrolio, scavando miniere e costruendo una grandiosa Flotta commerciale,
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LA TEMPESTA
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era giunto a bordo della vecchia Signora.
Ma i ragazzi sul Ponte di poppa non avevano occhi che per la biondissima Cleo,
la sua giovanissima e già chiacchierata mogliettina: fisico stupendo, ex reginetta di
Play-boy, un piccolo vulcano in perenne eruzione, di fronte alla quale le valvole del
maturo J. Paul erano saltate, provocando quella paurosa sbandata che aveva avuto
il suo epilogo nel recente matrimonio.
La coreografia vedeva anche altri dieci maschi e femmine, un giovane branco di
bipedi nomadi alla corte dei Sovrani, un sottobosco disinibito, strisciante e vorace,
alla costante ricerca del solito piatto di caviale e di qualche coppa di Champagne
per mitigare l’eterna arsura.
Questi erano i “pirati terrestri” che si lanciavano all’arrembaggio, mentre la ciurma
di poppa non poteva evitare di abbandonarsi alle più sfrenate fantasie.
Come se avesse captato un segreto messaggio, Cleo si fermò a metà della scaletta
sul Ponte cabine e, rivolta alla piccola folla sottostante, cinguettò:
«Ciao ragazzi, una cassa di Champagne a chi mi farà vedere una vera tempesta!».
Mentre la ciurma stava ancora assaporando l’invitante guanto di sfida che era
appena stato lanciato, gli altoparlanti ruppero il silenzio con un fragoroso messaggio di servizio:
«Posto di manovra! Chi a prua a prua, chi a poppa a poppa!» - risuonò l’ordine
proveniente dalla Plancia della Nave.
Era la partenza.
L’Orso aveva raggiunto il Ponte di Comando ed impartito gli ordini di manovra.
Salpata l’ancora e mollati i cavi a prora e a poppa, la Signora si mosse lentamente:
era iniziato il lungo viaggio che dal Nord-Europa ci avrebbe portati negli Stati Uniti
attraverso l’Oceano Atlantico.
Il tempo era tipicamente invernale: cielo grigio ed un gelido vento da Nord non
promettevano nulla di buono per l’immediato futuro della navigazione. Il Servizio
Meteorologico di Portishead , in Inghilterra, prevedeva l’arrivo di una serie di forti
perturbazioni sull’Atlantico con tempo burrascoso per i giorni successivi: forse i
nostri ospiti avrebbero avuto la “fortuna” di trovare ciò che andavano cercando.
La notizia di una probabile bufera era stata accolta dai nostri ospiti con una serie
di festosi hurrà di giubilo, ma ben presto incominciammo a rollare sull’onda, prima
dolcemente, poi con crescente vigore, e l’allegro vociare andò lentamente attenuandosi fino a diventare un sommesso brusio.
Quella stessa sera avevamo in programma un grande Party di Benvenuto in onore
degli illustri ospiti, ma, durante la giornata, le condizioni meteo non riscontrarono
alcun miglioramento e fu necessario rinviare la Festa al giorno dopo, tempo
permettendo.
La notte ed il giorno successivo transitammo per il canale della Manica ed entrammo nel Golfo di Biscaglia con le condizioni meteorologiche tendenti ad un
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lento ma costante peggioramento.
La Signora andava incontro all’onda oceanica con la consueta e collaudata sicurezza, rollando, beccheggiando e sollevando alti spruzzi di mare sulla prua: condizioni normali di navigazione con tempo perturbato che non destavano alcun problema agli orsi marini, ma che disturbavano alquanto gli apprendisti lupi dell’oceano. Infatti, i nostri ospiti dovevano avere qualche difficoltà di adattamento a contatto con la realtà atlantica, perché le loro apparizioni sul Ponte Passeggeri si erano
notevolmente diradate e nelle loro Cabine regnava uno strano, quasi totale silenzio.
Fu così giocoforza rinviare il Party a tempi migliori, non facilmente pronosticabili
nell’immediato futuro.
Per due giorni la Signora cavalcò sull’onda sempre più insistente e gonfia dell’Atlantico con l’Orso saldamente in sella sul Ponte di Comando. Il vento si era
fatto più vivo e teso di giorno in giorno e, purtroppo, le previsioni non erano per
nulla allettanti: una catena di forti depressioni coinvolgenti gran parte dell’Oceano
era in fase di approfondimento ed in movimento verso la nostra rotta.
All’alba del 22 dicembre eravamo ormai in pieno Atlantico e al centro di una
forte burrasca. Il barometro era caduto a quota 985 mbs e continuava a scendere
mentre il Meteo di Portishead annunciava l’approssimarsi di due profonde depressioni a nord ed a sud della nostra posizione con forti venti di burrasca e mare molto
agitato forza 8 e 9.
La giornata era grigia e fredda con cielo minacciosamente coperto da veloci passaggi di densi cumuli di nubi ed intermittenti forti piovaschi; il vento soffiava teso
ed ululante ad una velocità di 40/45 nodi sollevando alte ondate sormontate da
creste arrotolanti e cadenti in rigagnoli di schiuma biancastra.
L’Orso aveva trascorso la sua terza notte sul Ponte, scrutando l’invisibile orizzonte e l’avvicinarsi incessante delle onde, sfoggiando la consueta perizia nel “tagliare” il mare per evitare pericolosi traumi alla sua diletta. Dal canto suo, la Signora si difendeva bene: saliva e scendeva sull’onda alta, rollando, beccheggiando e
sollevando grandi spruzzi sulla prua che invadevano completamente la coperta, il
Ponte e la poppa.
Sotto, nelle Cabine sul Ponte Passeggeri, la pace era scesa a placare tutto e tutti:
l’onda atlantica aveva il magico potere di spegnere anche il sacro fuoco di Cleo e di
saziare la fame e la sete dei suoi amici. Infatti, a causa del mal di mare, i nostri
ospiti avevano cessato quasi del tutto di alimentarsi e disertavano ormai da vario
tempo la Sala da Pranzo, limitandosi a qualche sporadico panino con acciughe che
regolarmente restituivano alle ribollenti acque del mare.
Tuttavia, le pessime condizioni dell’oceano non suscitavano soltanto nausea e
vomito, anzi! La quotidiana ispezione ai grossi contenitori di acqua aveva rivelato
che le aragoste manifestavano una vivace attività, come se, di ora in ora, sentissero
rinascere una nuova speranza di vita. A Nettuno piacendo, avrebbero potuto so-
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LA TEMPESTA
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pravvivere per tutta la traversata Atlantica: per un condannato era quasi l’eternità.
Intanto la ciurma, con il morale in cresta d’onda, sorvegliava pronta ad intervenire per ogni evenienza, anche sui contenitori ed il loro contenuto, non dimenticando
quella montagna di casse di Cordon Rouge.
Durante la notte le condizioni del tempo subirono un ulteriore peggioramento: il
vento aumentò di intensità, le rollate si fecero più ampie e le testate di prua ancora
più forti e minacciose. Erano le avvisaglie che stavamo entrando in una nuova fase.
Alle prime luci del 23 dicembre, la burrasca era ancora salita di intensità e ci
trovavamo ormai nel pieno di una violenta tempesta. Il barometro continuava a
scendere raggiungendo quota 945 mbs, mentre il Meteo di Portishead informava
che l’Atlantico settentrionale era percorso da due profonde depressioni che arrecavano fortissimi venti di tempesta con mare forza 10 e 11.
Il nuovo giorno si presentava a tinte sempre più cupe: il cielo era coperto da
fosche nubi che si rincorrevano da un capo all’altro dell’invisibile orizzonte con
frequenti rovesci di scroscianti piovaschi; il vento rumoreggiava sinistramente soffiando ad una velocità di oltre 75 nodi, ed il mare innalzava altissime onde con
creste che si disperdevano in bianchi rivoli di schiuma.
L’Orso era sempre sul Ponte di Comando, il viso tirato e gli occhi arrossati dalla
fatica e dal sonno, resistendo a tutte le sollecitazioni ed intenzionato a non mollare.
Anche la Signora stava incontrando grossi problemi: rollando e beccheggiando,
picchiava pericolosamente sull’onda, finché fu necessario ridurre la Macchina e
dirottare a sud per evitare le massicce ondate che si abbattevano sulla prua.
Intanto in Stazione Radio le notizie che pervenivano erano preoccupanti : numerose Navi erano in serie difficoltà, intrappolate nella violenta tempesta e, purtroppo, secondo le previsioni Meteo, le condizioni del tempo avrebbero subito ancora
un ulteriore peggioramento.
A Poppa, la ciurma si difendeva strenuamente come un branco di lupi accerchiati
nonostante la fatica ed il freddo; sul Ponte Passeggeri, invece, i nostri ospiti erano
in pieno dramma: nausea e vomito erano i loro incubi con un corollario di sentori
non propriamente esotici. Non era un bello spettacolo e nemmeno Cleo lo era più,
purtroppo: sbattuti da un angolo all’altro nelle Cabine e nelle cuccette, nel tardo
pomeriggio scattò la loro violenta ribellione, come un ammutinamento contro le
forze della natura.
«Basta con questa tempesta! Voglio andare a casa!» - ordinò Cleo, rivolta ai
venti in tono isterico e con grossi lacrimoni sulle guance, trovando unanime solidarietà in J. Paul e in tutti i suoi compagni di viaggio.
Ormai nessuno di loro riusciva più a cogliere il lato avventuroso della situazione
e J. Paul, pallido e con lo stomaco a pezzi, si decise a chiedere al Capitano di
cambiare rotta e dirigersi verso il più vicino porto. Purtroppo la terra più vicina era
ad oltre 300 miglia: con il mare in quelle condizioni, alla velocità massima possibi-
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
le di 2 nodi, non saremmo mai arrivati in tempo per salvare i nostri passeggeri dal
generale collasso.
E, mentre l’Orso sul Ponte stava esaminando le possibili alternative alla richiesta
di J. Paul, in Stazione Radio la situazione si fece improvvisamente drammatica ed
impresse la svolta decisiva agli avvenimenti successivi. Durante il mio turno di
Servizio alla Radio, captai ‘forte e chiaro’ un sinistro segnale di SOS: una Nave era
in grave pericolo nelle nostre vicinanze e chiedeva immediato soccorso.
Un rapido calcolo alle rispettive posizioni ci rivelò che la Nave in pericolo si
trovava a circa 50 miglia a sud-ovest, raggiungibile in 25 ore, alla nostra massima
velocità possibile. In quel momento la Signora era l’unica e forse ultima speranza
di vita per quegli uomini e l’Orso, ignorando l’ordine di J. Paul, decise di dirigersi
verso la Nave in pericolo, a dispetto di tutti i calcoli di convenienza.
Mentre scendevano le tenebre della notte, le condizioni generali da tempo subirono un ulteriore peggioramento e mantenere la nuova rotta divenne ancora più difficile: la vecchia Signora era investita da ondate sempre più violente che la sferzavano da prua a poppa scuotendola profondamente nelle sue arrugginite strutture.
All’interno della Nave le rollate assunsero, via via, le dimensioni di una pazzesca
partita a ping-pong, con rimbalzi sempre più pericolosi di corpi umani da una paratia all’altra. Gli ospiti, terrorizzati ed in preda ad un totale crollo psicologico, piangevano ed urlavano come sentissero imminente l’approssimarsi della fine: fu necessario trasferirli tutti, con materassi e buglioli, nel Salone precedentemente addobbato per la Festa di Benvenuto e “rizzarli” alle paratie con catene di cime, onde
evitare le pericolose picchiate.
Lo spettacolo poteva anche non mancare di una certa vena umoristica, ma era
assai difficile coglierla in quel momento: la ex bellissima Cleo, il grande magnate
del petrolio, gli amici ed i loro fedeli buglioli giacevano distesi su improvvisati
materassi, legati in vita con cime rizzate alle paratie come in un film dei tempi
gloriosi della Pirateria; ed i festoni multicolori intrecciati sotto il “cielo”, inneggianti
a mirabolanti avventure marine, assumevano l’aspetto del sadico scherzo di una
ciurma di Pirati ad un branco di puzzolenti invasori che avevano osato sfidare l’Atlantico.
Anche l’ultimo estremo tentativo di Cleo per richiedere un elicottero e lasciare
quell’inferno era destinato a fallire miseramente. Il Servizio Costiero della Marina
Militare Inglese rispose che nessun elicottero poteva alzarsi in volo e resistere in
quelle condizioni: «Dimenticatevi il grande uccello con le pale e somministrate ai
passeggeri la pillola contro il mal di mare!».
Intanto in Stazione Radio si vivevano ore drammatiche. La Nave in pericolo non
rispondeva più alle chiamate: un silenzio significativo della tragedia che si stava
compiendo là fuori, nel buio della notte, in mezzo a quell’inferno di vento e di
acqua, senza che noi, ormai potessimo più intervenire in aiuto.
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LA TEMPESTA
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Nel frattempo l’Atlantico, come un grande ragno, stava per catturare nuove prede
nella sua immensa rete: altre tre Navi avevano lanciato i segnali di SOS chiedendo
disperatamente soccorso, ma le loro posizioni non erano nelle nostre immediate
vicinanze e ci trovavamo nell’impossibilità di prestare qualsiasi aiuto.
Anche per la Signora la situazione era diventata molto critica dopo l’ultima durissima notte e, all’alba del 24 dicembre, ci trovavamo in serie difficoltà con la
tempesta che aveva raggiunto le dimensioni di un violento uragano.
L’oceano era devastato da onde eccezionali, ribollenti sulle creste in nuvole di
bianca schiuma sotto la forza del vento, mentre, sopra di noi, il cielo era completamente oscurato da una nera cappa che rovesciava scrosci di violentissimi piovaschi:
un diluvio di proiettili di acqua con un incessante boato sulle lamiere del vecchio
scafo: uno scenario che sembrava molto simile ad un quadro apocalittico con l’approssimarsi del Giudizio Universale, quando il resto del mondo si apprestava a
celebrare la Festività di Natale in un’atmosfera di pace e di serenità.
Intanto le notizie Meteo che pervenivano in Stazione Radio volgevano ancora al
peggio: le due ampie depressioni precedentemente segnalate si erano fuse in un
unico grande vortice di 925 mbs con venti ad oltre 130 nodi e mare da forza 12 a
pericolosissimo uragano. Tutte le Navi erano severamente diffidate dall’avventurarsi nella zona dell’Atlantico coinvolta dalla tempesta.
In quelle condizioni anche per la Signora iniziarono le ore più difficili. La forza
del vento e del mare raggiunse tale intensità da sopraffare quella della Nave: sfuggendo al controllo del timone si dispone trasversalmente alle gigantesche onde e
tutti i tentativi dell’Orso e dei suoi uomini per riportarla in rotta risultarono vani.
Ormai eravamo alla deriva, in completa balia dell’oceano, come un topo fra gli
artigli del gatto che si trastulla in attesa di vibrare la zampata finale. E l’Atlantico
sembrava divertirsi come non mai: senza controllo poteva sollevarci e sprofondarci
fra le sue immense onde vibrando le sue micidiali mazzate.
I colpi distruttivi arrivarono sotto forma di enormi muraglie di acqua che investirono la Nave da prua a poppa: la prima lancia di salvataggio fu spazzata via da
un’ondata che ci investì dall’alto come una montagna cadente; la seconda lancia fu
scaraventata in coperta e, rotolando oltre, si inabissò definitivamente fra i flutti;
soltanto il lungo fumaiolo oppose ancora una strenua resistenza vibrando sotto l’impeto del vento, ma, quando un’ennesima montagna d’acqua lo investì in pieno, si
contorse e si spezzò con un acuto stridore di ferraglia, sparendo successivamente
nelle profondità del mare.
Nonostante le gravi mutilazioni, la Signora resisteva ancora, ma ormai non era
più in grado di reggersi: sbandava e picchiava paurosamente di prua, sempre sul
filo di rovesciarsi e di spezzarsi.
L’oceano era sempre più un’immensa catena di alte muraglie di acqua e di profonde vallate: un aspetto irreale, ma con contorni vagamente familiari, come un
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paesaggio collinare del lontano Astigiano.
La lunga notte di Natale trascorse lentissima, ora dopo ora, in stato di grave emergenza ed in spasmodica attesa degli avvenimenti. All’alba del 25 dicembre la vecchia carretta resisteva ancora. L’Orso era sempre tenacemente aggrappato sul Ponte
di Comando, ma, ormai, soltanto impotente spettatore: la Signora, sopraffatta dalla
furia dell’oceano, non rispondeva più ai comandi e stava agonizzando.
In Stazione Radio avevo raccolto l’ultimo disperato appello di aiuto da una Nave
che si stava spezzando, poi, il grande, agghiacciante silenzio della tragedia compiuta; ancora altre Navi stavano lanciando drammatiche richieste di soccorso: nel suo
furore distruttivo, l’Atlantico chiedeva sempre altre vittime per rinnovare il suo
profondo cimitero.
Ormai pochi segnali di vita salivano dal Salone dove erano rifugiati i nostri ospiti, strettamente avvinghiati ai loro improvvisati giacigli: mentre Cleo piangeva sommessamente, inseguita da nefaste visioni di antiche leggende del Mare, J. Paul
imprecava all’amaro destino che lo aveva strappato dalle tranquille serate nello
Chalet sulle pendici innevate della montagna.
Erano incubi di un remoto passato in cui il povero naufrago vedeva l’anima sua
staccarsi dal corpo prima di precipitare nelle profondità degli abissi; e, pure, fugaci
visioni di sogni spezzati accanto al caminetto, il cognac nel bicchiere, il paio di
morbide pantofole e la dolce Cleo accucciata ed adorante ai suoi piedi.
Questi ed altri erano gli incubi e le farneticanti visioni del branco di bipedi alieni
che stavano sfidando l’Atlantico in una notte di tempesta.
Intanto l’oceano non mollava la sua preda braccandola con le sue ondate distruttive, mentre il mare, il cielo ed il tempo stesso sembravano disegnare sempre più i
contorni dell’irreale.
E fu allora che fra i ragazzi a poppa incominciarono a serpeggiare i primi dubbi
sulla possibilità di farcela ad uscire da quella che assumeva sempre più l’aspetto di
una visione apocalittica: nessuno aveva mai immaginato di poter vedere ciò che si
era scatenato sulla vecchia carretta, squassata e sommersa da quelle che apparivano
come autentiche montagne d’acqua dell’oceano.
Anche sul Ponte di Comando nulla confortava più l’antica sicurezza marinara di
venirne fuori a dispetto di qualsiasi avversità; tuttavia l’Orso era ancora e sempre
proteso con le residue energie nel vano tentativo di attenuare l’urto dei fenomenali
marosi che ci investivano con implacabile monotonia: il suo, purtroppo, era ormai
soltanto l’aiuto impotente dello sguardo, ancora teso e determinato, ad accompagnare ogni ondata nell’estremo e disperato tentativo di protezione.
Trascorse un’altra lunga e durissima notte ed all’alba del 26 dicembre la vecchia
Signora galleggiava ancora.
Nelle ultime ore avevamo avuto una lieve attenuazione della forza del vento.
Anche secondo il Meteo di Portishead Radio l’uragano stava perdendo la primitiva
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LA TEMPESTA
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violenza e muoveva decisamente verso le coste inglesi, allontanandosi dalla nostra
posizione: a Nettuno ed a Eolo piacendo, in giornata la situazione avrebbe potuto
volgere al meglio.
Nel pomeriggio l’intensità del vento andò calando ulteriormente ed assunse le
ridotte dimensioni di una severa tempesta con mare forza 9 e 10, mentre l’onda
collinare, sempre lunga e gonfia, stava attenuando la sua primitiva aggressività.
Ritornata anche una discreta visibilità, la vecchia Signora apparve irriconoscibile:
senza lance di salvataggio, con un moncone contorto di fumaiolo, era ridotta ad un
enorme cumulo di ferraglia grigiorossa. La combinata violenza del vento e del mare
aveva spazzato via la bianca pittura delle sovrastrutture lasciando a nudo il sottostante
fondo delle lamiere arrugginite.
Lentamente la Signora riprese a rispondere ai comandi ed a mettere la prua al
mare puntando decisamente verso la Penisola Iberica.
Immediate ed immancabili risuonarono le grida di vittoria della ciurma dagli
antri di poppa: «Evviva! Nessun dubbio: soltanto la vecchia carretta poteva venire
fuori da quell’inferno, dove, purtroppo, altre più giovani erano finite nel grande
cimitero dell’Atlantico. Soltanto la Signora era la regina dei mari!»
Nella serata le condizioni del tempo migliorarono ulteriormente e ciò permise di
riprendere una velocità decente. La costa spagnola distava meno di 100 miglia a
sud-est, raggiungibile entro la mattinata del giorno seguente.
Dopo essere riemersi dal lungo stato comatoso ed avere abbandonato il Salone, i
nostri ospiti sembravano avere una maledetta fretta e manifestavano un solo grande
desiderio: la via del cielo.
Il mare era sempre molto gonfio ed il vento ancora ululante, ma stavano assumendo le ridotte dimensioni di una normale burrasca. La Signora saliva e scendeva,
rollava e beccheggiava, fendendo l’onda con la consueta e consumata maestria dei
suoi giorni migliori. Ciò, tuttavia, non entusiasmava Cleo ed i suoi amici: sempre
più impazienti, attendevano il compimento della loro avventura con l’arrivo dell’elicottero all’alba del nuovo giorno.
A causa delle ancora avverse condizioni del tempo, al Party di addio fu servito un
menu di tipo spartano: niente caviale e champagne, ma il “Convento passò” il celebre piatto unico con ‘acciughe e vino cancarone’. La persistente grande onda lunga
dell’Atlantico non permetteva celebrazioni eno-gastronomiche, ma quando J. Paul
introdusse la parola “Champagne”, l’Orso lo interruppe immediatamente: «Per
ragioni di sicurezza siamo stati costretti a buttare a mare le casse di Champagne e
le altre provviste per alleggerire la Nave che minacciava di affondare!» - disse e la
questione fu definitivamente chiusa per gli ospiti.
Sempre cullati dall’onda oceanica andammo incontro all’addio con i nostri ospiti, apparentemente placati nella loro sete di avventura e nuovamente bramosi di
ritrovarsi nella quotidiana ‘noia’ delle loro foreste dorate.
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«Cara Signora - stava dicendo l’Orso, sempre più loquace, alla giovane ospite spero che in questi giorni i suoi desideri siano stati pienamente soddisfatti con il
contributo della Dea Bendata».
«Dea Bendata?» - domandò Cleo.
«Sì, la Fortuna! - proseguì il novello Cicerone - Perché ha potuto vivere non una
normale tempesta, ma un autentico uragano, uno di quei mostri che compaiono
soltanto una volta nella vita e, soprattutto, potrà raccontarlo ai suoi nipotini».
Indecente ed irripetibile pare sia stato il mormorio, a denti stretti, della ritrovata
bellezza di Cleo, prima di salire sull’elicottero e sparire nel cielo di Finisterre insieme a J. Paul ed i suoi amici.
Lentamente la Signora riprese la sua navigazione attraverso l’Atlantico che stava
gradatamente ritrovando un po’ di calma: soltanto un’ampia e lunga onda ‘morta’
ricordava ancora ciò che nei giorni precedenti era stato uno dei più terribili uragani
della sua storia.
Giorno dopo giorno, a ridosso entro le arrugginite lamiere della vecchia Penny, il
Capitano e l’Equipaggio furono impegnati nel “custodire” il segreto di quel
prestigioso carico di caviale, salmone, aragoste e Champagne: il prezioso tesoro
finito in fondo all’oceano a causa dell’imperversare di un violento uragano.
Era, forse, anche questo il segreto per cui la ciurma stimava, ed ora “amava”,
quell’istrione dell’Orso e la sua vecchia Signora.
Tavolo delle autorità
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Amm. Giuseppe Mataluno
MISSIONE SPECIALE
D
opo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, la Marina Militare Italiana, nel
l’ambito della cobelligeranza con le forze armate alleate nella lotta con
tro i tedeschi, svolse anche il compito di provvedere alla scorta dei numerosi convogli che solcavano, allora, i mari d’Italia. Io, come giovane Ufficiale,
uscito da poco all’Accademia Navale, ero allora imbarcato su uno degli avvisi scorta che svolgevano tale attività e perciò, quale addetto alle armi subacquee, trascorrevo la maggior parte delle mie giornate in navigazione fra Taranto e Augusta, in un
lento ed estenuante servizio di sorveglianza contro gli eventuali attacchi dei sommergibili nemici.
Ricordo che, di solito, per colmare quel percorso ci volevano diversi giorni durante i quali le difficoltà, insite alla vita di bordo, col passare del tempo diventavano
sempre più gravose, sia per la monotonia di quel tipo di lavoro sia per gli inevitabili
fastidi dovuti alla prolungata permanenza in mare, fra i quali primeggiavano quelli
dovuti alla sempre crescente scarsità d’acqua dolce per bere o per lavarsi e di viveri
freschi.
Per fortuna il Comandante della mia nave era il più anziano di tutti quelli delle
altre unità e perciò doveva, di frequente, spostarsi lungo l’intero convoglio, il che
avveniva ad una velocità un po’ più sostenuta con un certo sollievo allo stress psicologico dovuto a quel lento procedere, dovendosi adeguare alla velocità della nave
più lenta rappresentata, talvolta, da una vera e propria “carretta” addirittura non
superava i quattro, cinque nodi. Peraltro c’è da dire che accadeva, quasi sempre,
che, arrivati in prossimità del porto di Augusta, quando già pregustavamo la prospettiva di consumare qualche buona cenetta in una trattoria di quella città, ci giungeva l’ordine di invertire la rotta e di provvedere alla scorta, verso Taranto, dell’altro convoglio che già avevamo intravisto, con apprensione, uscire da quell’ancoraggio.
Per nostra fortuna, però, sopraggiungeva ogni tanto l’opportunità, oltre che di
allontanarci, per qualche tempo, da quel servizio ingrato, anche di svegliare le nostre risorse combattive ed era quando la mia nave veniva destinata ad effettuare una
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missione “speciale” il cui scopo era quello di portare, in condizioni di segretezza,
rifornimenti di vario genere ai “commandos” alleati e ai partigiani che operavano in
determinate località dell’Albania o della Grecia occupate dai tedeschi. In tale occasione, dopo aver caricato, di solito a Taranto, tali materiali, peraltro accompagnati
da un Ufficiale alleato, la nave prendeva il mare, in una notte di plenilunio, con
rotta verso l’Adriatico e l’ora di partenza e la velocità venivano scelte in modo da
arrivare sul posto designato nella completa oscurità.
Una volta giunti sul posto (ricordo che una di dette località era nota con
l’appellativo di “strade bianche”), peraltro individuato per mezzo di impulsi luminosi
emessi da terra, con una sequenza concordata in precedenza, la nave si fermava ad
una certa distanza dalla costa e l’equipaggio provvedeva a mettere in mare i sei
barchini ripiegabili che erano stati imbarcati a Taranto. Questi, dapprima a rimorchio
della motobarca di dotazione della nave, comandata da un giovane ufficiale
opportunamente armato, e poi manovrati, ciascuno in maniera autonoma, da una
coppia di marinai di bordo per mezzo di adatte pagaie, si dirigevano verso la costa
con l’ordine di fare il possibile per imbarcare il maggior numero di italiani che
avrebbero trovato fra la moltitudine di gente che anelava di fuggire da quella località.
A questo proposito mi viene in mente che, in occasione di un’altra missione di
tale genere, effettuata in epoca successiva e durante la quale svolsi le funzioni di
ufficiale al comando della motobarca, dovetti, con fatica, superare l’ostilità di un
ufficiale inglese, che comandava le operazioni d’imbarco a terra, dovuta al fatto
che aveva perduto un fratello in una della battaglie combattute contro di noi in
Africa Settentrionale e quindi faceva in modo di ostacolare l’imbarco dei nostri
connazionali. Tuttavia, essendo già a conoscenza di tale situazione, i marinai dei
barchini avevano ricevuto l’ordine di non raggiungere terra tutti insieme nello stesso punto, ma di sparpagliarsi nei vari approdi, cercando di atterrare nei luoghi dove
avevano riconosciuto la presenza di italiani.
Per inciso, in occasione di un’altra missione nella stessa località, quello stesso
ufficiale, riconoscibile dal caratteristico fazzoletto azzurro che portava al collo, sempre nella foga di ostacolarci nelle manovre di raccolta degli italiani, addirittura
aveva confuso due marinai di bordo con gli sbandati del posto e soltanto dietro la
minaccia, da parte di questi ultimi di prenderlo a pagaiate, desisté da tale proposito.
Ad ogni modo tale tipo di missione richiedeva che il mare, in quelle località, fosse
del tutto calmo, onde evitare, come qualche volta è accaduto di dover tornare sul
posto più di una volta, con evidente maggior impiego di tempo e di sforzi.
Comunque, in occasione di una di queste missioni, mentre la nave stava
provvedendo al reimbarco dei barchini, dopo aver recuperato tutte le persone che vi
erano a bordo, peraltro in una sistemazione precaria che è facile immaginare,
udimmo, provenienti a distanza sul mare, delle grida di aiuto. «Italiani, venite a
prenderci!». Era la frase che veniva ripetuta disperatamente da parte di due individui
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Giuseppe Mataluno
MISSIONE SPECIALE
che sapevamo essere in mare, anche se non riuscivamo a scorgerli nel buio della
notte, ma, mentre la nave si attardava, navigando a lento moto sul posto, con il
pericolo di essere scorta dai tedeschi che sapevamo distribuiti sulle colline circostanti,
gli “autori” di quelle invocazioni giunsero sotto la nave, dopo aver percorso, in un
tempo molto breve e spinti dalla forza della disperazione, i due o tre chilometri che
ci separavano dalla costa, e perciò furono issati a bordo mentre la nave si allontanava
velocemente da quella località.
Durante la navigazione di ritorno a Taranto ognuno di noi era ritornato ai propri
compiti e, dato l’impegno richiesto dalle circostanze e l’oscurità che ancora avvolgeva la nave, non mi fu possibile dedicare molta attenzione a tutta la gente che
avevamo a bordo. Soltanto 1’indomani, a giorno fatto, potei vedere che si trattava
di profughi di diverse origini e di diversa nazionalità: americani in divisa armati
fino ai denti, militari dell’Esercito italiano che, alla data dell’8 Settembre, erano
rimasti in balia di se stessi, russi disertori delle forze armate tedesche, civili fra i
quali anche qualche donna, ecc. che, peraltro, sapevamo, come era accaduto le altre
volte, che, al rientro alla base, sarebbero stati prelevati dai Carabinieri e non li
avremmo mai più rivisti. Seminascosti in un angolo e intenti a mangiare il cibo che
nel frattempo era stato distribuito intravidi anche i due “nuotatori” che erano arrivati a bordo all’ultimo momento e, poiché erano semisvestiti, regalai loro i pantaloni e le magliette estive che mi erano avanzati dai tempi dell’Accademia e che avevo
ancora con me.
Oggi come oggi, a distanza di tanti anni da quel giorno, anche se non ricordo
assolutamente i loro cognomi e da quale parte d’Italia fossero originarie, mi accade
talvolta di ripensare a quelle due persone fino ad immaginare, addirittura, di
rincontrarli e di domandarmi se sia ancora presente nei loro ricordi o se abbiano
conservato, come eventuale portafortuna, quegli indumenti che ebbero l’occasione
di indossare in quelle disgraziate, ma anche fortunate circostanze come testimoni
della loro salvezza.
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Il com.te Augusto Meriggioli di Genova vince il primo Premio “Fatti di bordo” nel 1995 ed il Premio
Giornalismo nel 1998: «Per aver vissuto una vita sul mare e per il mare: da navigante prima, fino a
raggiungere il massimo grado di comandante, da scrittore dopo - raccontando con vera maestria le sue
esperienze vissute sul mare e vincendo più volte il nostro premio “Fatti di bordo” - ed infine da giornalista,
scrivendo per diverse testate di riviste marittime ed in atto Editore e Direttore responsabile della rivista
“Uomini e Navi”».
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Com.te Augusto Meriggioli
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«Alla via così!»
l Secondo Ufficiale aveva la stessa voce impostata di quel conduttore televi
sivo che riunisce i cuori infranti. E al pari di quello, proveniva da Procida.
Un’isola dove il mare è la professione principale della popolazione intera sia
nella versione navigatoria, diportistica, dei servizi commerciali, oppure semplicemente lusoria. L’Istituto Nautico qui è frequentato anche da molte ragazze, pur se
poche si cimentano, una volta conseguito il diploma, alla navigazione di lungo
corso o a condurre macchine navali, preferendo proseguire gli studi all’Università
oppure impalmare un buon partito, molto spesso il compagno di banco, divenuto
nel frattempo ufficiale nella marina mercantile. La ragazza del Secondo, come vuole consuetudine, era diplomata Capitano di Lungo Corso, ma aveva riservato a lui
l’andar a malafora a prender colpi di mare, preferendo stare in casa a trasformare
l’assegno mensile nel corredo e suppellettili per la casa. In compenso navigava
tutte le sere lungamente su Internet!
«Alla via così... rottaaa... 88 gradi».
Confermò il Marinaio che aveva voglia di parlare e cercava di stimolare il suo
caposervizio a dire qualcosa, qualsiasi cosa che interrompesse la monotonia della
sorveglianza al nulla che li circondava. Non vi era traffico, stelle da calcolare o
punti costieri da rilevare e il timoniere si era subito accorto che il Secondo teneva
pensieri per la testa. Peccato!
In una notte scura con atmosfera chiara, cioè coerente a quanto recita il regolamento per evitare gli abbordi in mare, serena e silenziosa pur con folate di vento a
20 nodi e onde di tre metri che seguivano la nave senza disturbare lo scafo, se non
si chiacchiera un pochino per tenersi reciprocamente svegli, è dura da far passare la
seconda guardia dalla mezzanotte alle quattro.
«Dove andiamo con la nuova rotta?», azzardò nuovamente il Marinaio sperando
in migliore fortuna.
«A Gibilterra, a fare bunker», rispose brusco il Secondo. Poi, essendosi accorto
di essere stato ingiustamente sgarbato, aggiunse:
I
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«È cambiato il viaggio, andiamo a caricare etanolo ad Augusta».
Protetto dal buio il Marinaio sorrise compiaciuto. Lui era di Pozzallo, un borgo
marinaro a pochi chilometri, C’era la possibilità di far venire moglie e figli ad
incontrarlo. Che fortuna!
Il Secondo si accorse che la notizia aveva messo di buon umore il subalterno. Il
cambiamento d’attitudine nonostante l’oscurità del ponte di comando era palpabile.
Era un caso che questa piccola motonave avesse ancora una vedetta/timoniere,
pensò l’Ufficiale. Le navi moderne, quelle a tecnologia avanzata come questa, erano classificate OMBO, One Man Bridge Operator, avevano quindi solo un navigatore
sul ponte. E seguendo il filo logico di questo pensiero proseguì ragionando sul fatto
che gli equipaggi sono talmente ridotti da rendere difficile mettere insieme quattro
persone per un tressette! Con queste tabelle d’armamento così magre la vita di
bordo si esprimeva abitualmente nella routine della guardia, pochi minuti in saletta
mensa a masticare un cibo che non piaceva per principio, poche ore rintanati in
cabina a macerarsi in un riposo che non rilassava per niente, poi ai ricominciava il
ciclo. La gente che non aveva un equilibrio psicofisico roccioso, tendeva a sviluppare la sindrome del lupo solitario.
La motocisterna era relativamente piccola se comparata a quei mammuth che
trasportano fino a 500 mila tonnellate di greggio oppure a quelle porta-contenitori
da 7.200 teu che, al pari di Beethoven, fanno entrata e fuga dai porti che scalano.
Lunga 110 metri e larga 18, era stata costruita a Bilbao 20 anni prima. Nelle due
stive da carico, appoggiati su una struttura di legno che li isolava dalla lamiera dello
scafo, vi erano due contenitori cilindrici d’acciaio inossidabile da 1250 metri cubici
per il trasporto di gas liquefatti. Equipaggiata con la prescritta dotazione strumentale, aveva passato l’ultima visita dell’ispettore del Registro Navale due mesi prima.
Una nave in ordine.
Il Secondo Ufficiale controllò la rotta sulla girobussola, lesse la magnetica nel
periscopio che scendeva dalla controplancia, poi disse al Marinaio di innestare il
pilota automatico e di fare attenzione al traffico ed entrò nella sala nautica per
registrare i dati sul giornale di bordo.
Fu proprio in quel momento che il rumore sordo ed insistente del motore rallentò,
si affievolì e quindi tacque. Un attimo d’esitazione e silenzio, poi mancò la luce.
Una decina di secondi di buio e poi, forte come una cannonata, lo spunto di partenza del generatore d’emergenza che cominciò ad arrancare come un 18 Bi Elle della
Prima Guerra Mondiale. Una luce giallognola e spettrale si diffuse dalle lampadine
d’emergenza. Allarmi vari cominciarono a suonare, ronzare e lampeggiare. Sul
quadro della console di navigazione una miriade di lucette rotonde e quadrate erano
accese. Tutte rosse.
Pochi istanti di stupefatto silenzio poi, ansando per aver fatto di corsa le scale, il
Comandante fece la sua comparsa sul ponte di comando, in mutande e canottiera,
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seguito a ruota dal Primo Ufficiale, in pigiama.
«Cosa è successo?», chiese al Secondo, poi senza aspettare risposta proseguì:
«Faccia un salto in macchina a vedere cosa è successo» e rivolto al Primo un
ruvido, «Vada a mettersi qualcosa di pesante lei, non si mai».
Data un’occhiata in giro, registrati ed archiviati gli allarmi attivi, il Comandante
scese al piano inferiore nel locale centralina dove erano sistemati i controlli e gli
strumenti per la condotta della macchina in automatico ed il Marinaio lo sentì armeggiare e toccare qua e là. Qualche allarme smise di suonare, ma la maggioranza
delle lucette della console di navigazione sul ponte continuavano a fare rosso fisso.
La lancetta del quadrante dei giri di macchina, intanto, si era portata inesorabilmente sullo zero. L’indicatore di timone era bloccato sul tutto a sinistra. Guardando la
superficie del mare attraverso i vetri ci si poteva rendere conto che l’abbrivo diminuiva progressivamente. Aumentava invece il fischio del vento che s’infilava nelle
fessure delle porte del ponte. Secondo la bussola magnetica, la nave si stava abbattendo a dritta porgendo il fianco a vento e mare che rumoreggiavano molto più di
quando erano in fil di poppa e tutto ciò cominciava a dare sui nervi al Marinaio, ora
solo sul ponte di comando deserto. Cominciò a soffrire l’angoscia dell’abbandono.
Chi li avrebbe aiutati? Si accorse che stava pregando sottovoce quando si rese
conto che non ricordava più le orazioni dell’infanzia. Accennò un Paternoster mezzo
in latino e mezzo in italiano, mentre con le orecchie cercava di interpretare le voci
inquiete e lo scalpiccio dei ponti inferiori. Il silenzio irreale lasciato dalla macchina
ferma era interrotto a malapena dal tuf tuf arrancante del motore del generatore.
L’agitazione nei carruggetti inferiori cresceva d’intensità. Giungevano suoni di
passi veloci, voci concitate in cui si avvertiva la preoccupazione, pur restando indecifrabili. Poi, di colpo, sul ponte ricomparve il Comandante. Ora vestiva quello
che, in momenti normali, chiamava scherzosamente equipo de frio.
«Lascia perdere quel timone. Vai a metterti panni pesanti, poi corri al posto di
abbandono nave».
Un senso di disperazione gelò il cuore al Marinaio che si avviò a precipizio per la
stretta scaletta che portava alla sua cabina, tre ponti più in basso. Quando la raggiunse sentì suonare fischio e campanelli d’allarme, sette brevi ed uno
lungo...abbandono nave.
“Signore aiutaci!”
Giunto in cabina, cominciò a raccogliere le cose più preziose che aveva: il portafoglio con la foto di figli e moglie, le sigarette, due tavolette di cioccolata olandese,
il giaccone impermeabile, i soldi nella busta impermeabile. Stava quasi per abbandonare l’alloggio quando si ricordò che questa era un’emergenza vera, non un’esercitazione. Recuperò il giubbotto salvagente, un passamontagna di lana, la coperta
di lana grigia, una torcia. Indeciso se prendere l’elmetto di plastica, optò per il no.
Su una lancia alla deriva non cadevano meteoriti!
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Si guardò un’ultima volta in giro. Vide i giocattoli che voleva portare ai figli per
il prossimo Natale e gli vennero le lacrime agli occhi. Si mosse per prenderli, ma la
nave cominciò ad inclinarsi lentamente di poppa. Sentì le urla dei compagni, i passi
incalzanti, il rimbombo di porte che sbattevano ed oggetti che cadevano. L’eccitazione di un avvenimento inusuale. Lasciò perdere i giocattoli e corse verso la il
ponte d’imbarco della lancia numero uno. Qui trovò il resto dell’equipaggio ammucchiato a paratia ed il Secondo Ufficiale che contava e ricontava le teste urlando
di stare fermi. Il Nostromo ed altri due marinai avevano già liberato le ritenute,
aperto il portello d’ingresso, dato volta alla barbetta di prora e tolto i fermi agli
scivoli. Tutti indossavano i giubbotti salvagenti, qualcuno guanti ed elmetto. La
fioca luce d’emergenza saltellava impazzita sulle strisce riflettenti incollate sulla
stoffa dei giubbotti.Decise di dare una mano e liberò lo zatterino salvagente che
cadde in mare con un tonfo. La botta della bomboletta del CO2 che si apriva, confermò che il canotto si stava gonfiando. Qualcuno intanto aveva calato la biscaglina.
Altri arrivarono con coperte e la valigetta dell’ossigeno. Uno provò il fischietto di
dotazione nel giubbotto e l’improvviso ed imprevisto fischio fece saltare i nervi a
tutti che copersero il malcapitato di male parole, tutte rigorosamente nel dialetto
natio.
La nave, lentamente, senza interruzione, quasi con pigrizia, si appoppava sempre
più. Il Comandante arrivò col Primo Ufficiale che reggeva due sacchetti di plastica
con documenti e libri di bordo e chiese al Secondo:
«Ci siamo tutti?».
Ricevuto un cenno della testa quale assenso, si guardò in giro e asciutto, molto
asciutto, ordinò:
«Abbandoniamo la nave».
Nel buio della notte si distingueva benissimo il bianco degli occhi sgranati e si
discerneva il pallore dei volti. La tensione, come la paura, era nettamente percepibile.
Ciononostante nessuno perse la testa. Tutti mantennero la calma, quasi fosse un
normale addestramento.
«Scendete nella lancia - aggiunse deciso il Comandante - fate piano. Abbiamo
tempo. Non fatevi male. Date volta allo zatterino, ci può servire».
Il Marinaio non ricordava come fosse arrivato nella lancia. Si ritrovò seduto sul
banco di voga, la sagola dello zatterino in mano e tutti i compagni intorno che si
guardavano l’un l’altro atterriti. Immobili e muti... in attesa.
A trenta, quaranta metri sulla sinistra, la motonave che era stata per loro casa e
lavoro, sofferenza e passione, continuava nel suo inesorabile inabissarsi poppa in
avanti. Più velocemente adesso. Il generatore di emergenza si era fermato e le luci
si erano spente. Si indovinava a malapena la sagoma di ciò che rimaneva dello
scafo che si stagliava contro il vago chiarore del cielo stellato. Improvvisamente,
uno scroscio come un intenso piovasco tropicale... poi non ci fu più nulla da vedere.
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La nave era scomparsa.
Cominciò, nel freddo intenso della notte, l’attesa dei soccorsi. Il Marinaio sentì
che il Comandante, parlava. Rivolto a tutti e a nessuno, con frasi smozzicate, seguendo una logica da rapporto degli eventi alla Capitaneria. Diceva:
«Acqua in macchina. Gli allarmi non hanno suonato. Ha coperto i generatori.
Non c’era più niente da fare. Ho parlato via radio con Algeciras. Manderanno
qualcuno a prenderci. Un elicottero. C’è anche una nave russa che sta arrivando».
Il ballonzolìo delle onde stava facendogli venire il mal di mare. Strano. Da ragazzo, aveva fatto per anni il pescatore, uscendo con piccoli gozzi di legno anche con
mare forza sei o sette e non aveva mai patito. Forse la paura!
Quando, come gli altri, sentì il rumore dell’elicottero che si avvicinava non avrebbe
saputo dire quanto tempo era passato dal momento in cui la motonave era scomparsa. Aiutò il Secondo Ufficiale ad aprire il contenitore dei razzi e dei fuochi a mano
ed a spararli. Furono visti perché l’elicottero si posizionò sopra di loro, leggermente di fianco, sollevando colla grande pala rotante onde brevi ed intense come il
vello di una pecora. Essere raccolti però, era impresa ardua.
Il va-e-vieni con cintura calato dall’alto non stava mai fermo. Saliva, scendeva,
volteggiava impazzito e si allontanava proprio quando stava per essere afferrato da
una delle mani protese. Forse era la lancia che si alzava e scendeva sulle onde ed
impediva di agguantarlo. Per cercare di afferrarlo, due o tre rischiarono di cadere in
acqua e di farsi male contro i banchi della lancia. Grida che nessuna udiva, segni
che nessuno capiva, poi il Comandante disse basta e fece segno all’elicottero di
smetterla e di andarsene.
In quel momento qualcuno gridò:
«Una nave... una nave!».
Quando l’imbarcazione risalì sulla cresta dell’onda, tutti poterono vedere un piccolo cerchio di luce bianca sotto il quale, simmetrici, vi erano altri due cerchi di
luce, uno verde a sinistra ed uno rosso a dritta. Era proprio una nave e dirigeva
proprio su di loro. Gi occhi esercitati dei naufraghi avevano subito colto il messaggio di quella collocazione delle luci. La nave russa che aveva promesso di venire a
salvarli seguiva una rotta di collisione con la lancia. Li avevano visti. Che bravi! E
nessuno pensò più all’elicottero che rimase a volteggiare sopra le loro teste con un
rumore assordante scatenando un fastidioso turbinio di vento e di onde.
Ci volle parecchio tempo prima che la nave russa riuscisse a mettersi di sopravvento
alla lancia che continuava la sua danza sulle onde. Ci vollero fatica e sforzi immani
prima di abbrancare la rete di corda e le due scalette a tarozzi che l’equipaggio
russo aveva preparato sulla fiancata di sottovento della nave. Uno per uno, alla fine,
ce la fecero tutti. Chi tirato, chi spinto, chi da solo, si ritrovarono sulla coperta della
nave salvatrice. Incolumi. Coperte e pacche sulle spalle, una tazza di te forte che
faceva stringere i denti come fosse stato sugo di limone. Sorrisi, ancora pacche, poi
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domande in un inglese incomprensibile. Quindi altre pacche sulle spalle. Il prezzo
della salvezza!
Quando la nave russa trasferì i sopravvissuti ad una motovedetta della Capitaneria
di Gibilterra l’indomani mattina, questa li portò verso una banchina dove erano ad
attenderli ambulanze, autorità, pompieri, curiosi.
Un naufragio, rifletté il Marinaio, è pur sempre un avvenimento fuori dall’ordinario e merita qualche minuto di attenzione. Dal punto di vista giornalistico è quasi
come un uomo che morda un cane.
Quando ci sono centinaia di vittime allora l’attenzione dura qualche giorno in
più. Poi si affievolisce e il ricordo rimane negli ex voto. Giusto. Ne avrebbe fatto
uno con un cuore d’argento, la foto della nave e la lista dei sopravvissuti da portare
al santuario di San Francesco di Paola.
Quando finalmente furono a ridosso del molo foraneo del porto e il Marinaio
riuscì a salire sulla banchina, si allontanò qualche metro dal gruppo di salvati, salvatori e curiosi e, sperando di non essere visto, posò un ginocchio sul cemento e
recitò quanto ricordava del Paternoster. Poi fece silenziosa promessa a sua moglie,
lontana ed ancora ignara, di non ritornare mai più a malafora.
Rialzandosi vide che altri avevano fatto altrettanto!
Il dott. Luigi Turinese di Roma illustra la motivazione del “Premio Sicilianità 1998” conferito al prof.
Manlio Sgalambro: «Per avere rivelato della sicilianità l’elemento celato, non trionfalistico, non retorico:
posizione metastorica di chi osserva con acuta presenza, ma non infischiato nella vanità dell’umano
affannarsi.»
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Cap. L.C. Radames Resaz
DOPO L’8 SETTEMBRE
L
’8 settembre, alle undici, Jack Mason irrompe nella cabina.
«Radames, Italy has surrendered».
«How do you know it?».
«Heard just now from radio Rio de Janeiro».
La notizia non mi sorprese: l’aspettavo ormai da diversi giorni. Jack era tutto
eccitato:
«La nostra missione è finita; vedrai che ci fanno ritornare a casa. E anche voi
ritornerete in Italia».
«Con questi ufficiali? - esclamai io - Non credo che le cose andranno lisce».
«E perché no? - sorrise Jack - per voi la guerra è terminata».
«Il comandante lo sa?», chiesi, ancora incerto sul da farsi.
«No, non gliel’ho detto. È meglio che gliene parli tu».
«All right. Andiamo».
Scesi al ponte di sotto dove si trovava la cabina del comandante: stava scrivendo,
e al rumore che feci entrando si voltò e sorrise.
«Buon giorno, che c’è di nuovo?».
«C’è di nuovo che Jack ha sentito radio Rio de Janeiro annunciare la resa dell’Italia agli alleati».
«È falso - scattò il comandante inviperito, e diventò rosso dalla rabbia - è falso,
falso, falso!».
«Credo invece che sia vero, comandante; e gli inglesi qualcosa ne dovevano
sapere perché stanno preparando le valigie. E noi cosa facciamo?».
Il comandante si era ripreso.
«Senta - disse - tra un’ora circa c’è il bollettino delle venti di radio Roma. Vada
con il primo ufficiale e con il telegrafista alla sede dell’italcable. Sentite le notizie
e poi tornate a riferire. Comunque io dagli inglesi non prenderò ordini, semmai
vado con i nostri alleati, i tedeschi».
Fra di me io pensavo: «sì, vai pure con i tedeschi, io certamente no».
Facemmo approntare la barca di servizio e ci recammo a terra. L’RT e il primo
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ufficiale camminavano avanti facendo capire che non avevano niente a che fare con
un sospetto antitedesco, che per loro significava antitaliano. Io ero contento di esser
solo, perché stavo pensando i pro e i contro delle mie future azioni. Ma non era
questione di restare a bordo: troppo pericoloso.
La strada correva diritta dal porto alla stazione dell’Italcable: il sole equatoriale
picchiava forte sull’asfalto e sulle bianche pareti delle casette ad un piano che delimitavano la strada. A metà della sua lunghezza la strada si allargava in una piccola
piazzetta, con quattro alberi rachitici, dove c’era un piccolo bar - il Bar Africa - e
dove in quel momento dormicchiavano due persone. Sul marciapiede opposto al
bar una negra, con un fazzoletto colorato in testa, a piedi nudi, andava verso il
porto. Da un portone, ad una cinquantina di metri innanzi, vidi uscire il marchese
De Pombal, minuscolo, segaligno nel suo completo bianco, panama e bastoncino.
Era in esilio da quindici anni perché rappresentante del partito liberale antisalazarista
e viveva nell’isola appartato da tutti. Nei quattro mesi che eravamo stati nell’isola
l’avevamo sempre visto farsi la passeggiata serale solo soletto, con lo sguardo fisso
avanti a sé, estraneo tra la sua gente.
Mi veniva incontro e sorrideva; e più si avvicinava e più il sorriso si allargava. Io
rallentai il passo, poi mi fermai. Mi arrivò addosso, mi buttò le braccia al collo e
gridò, con una voce incredibilmente forte per quel corpo così minuto:
«A Italia resurgirà».
Io ero emozionato e non sapevo che fare e che dire. Lui mi baciava e piangeva.
«Finalmente siete liberi dalla schiavitù. Ora risorgerete: la patria di Dante ritorna quella di prima. Viva l’Italia libera, viva il libero Portogallo!».
Capii che la guerra era finita e perduta e capii che qualcosa di nuovo stava per
cominciare non solo per noi italiani, ma per tutti gli oppressi nel mondo.
Lo abbracciai anch’io con affetto e lo ringraziai augurandogli la realizzazione
delle sue speranze.
Quando arrivai all’ITALCABLE mancavano pochi minuti alle sedici ora locale,
ore venti di Roma. Oltre ai miei c’erano il direttore e il cassiere della stazione radio.
Ascoltammo la voce di Badoglio con gli occhi bassi, senza fiatare.
Quando cessò, il telegrafista si alzò di scatto, si portò le mani alla gola, diventò
spaventosamente pallido e crollò a terra. Lui era convinto che tutta la flotta
angloamericana fosse in fondo al mare, che Londra fosse un cimitero senza più un
edificio in piedi, che Hitler stava per vincere la guerra con l’immissione delle armi
segrete. Rinvenne dopo mezz’ora, balbettava come un bambino, la parte destra
della faccia gli era rimasta paralizzata.
Il telegrafista, accompagnato dal primo ufficiale e da un autista dell’ITALCABLE,
venne ricoverato in ospedale. Io tornai a bordo da solo. Mentre la barca mi portava,
riandavo col pensiero agli avvenimenti dell’ultimo anno:
Lo sbarco degli americani in Marocco, Stalingrado, la perdita della Libia e della
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DOPO L’8 SETTEMBRE
Radames Resaz
Tunisia, lo sbarco in Sicilia, e mi si facevano sempre più vive nella mente le parole
di un anarchico del secolo scorso:
“La folla continuerà a vedere nel solo Duce il vero uomo, il vero cittadino; tutte
le classi della nazione non cesseranno di sollecitare titoli e decorazioni, il governo
persisterà ad approvare soltanto le fazioni di quelli che sono sempre pronti ad
applaudire tutti i suoi atti. Continuerà a sudare ammirazione e riverenza verso chi
desidera di essere rispettato dalla folla. Muore la critica, rimane infruttuosa la
resistenza dei pochi indipendenti che ancora calpestano il suolo di quel paese sfortunato. E questo governo tranquillo e contento di sé e dell’ammirazione e dell’ubbidienza generale, non vede la catastrofe orrenda che in una notte può precipitarlo
nell’abisso della sciagura. In tale momento doloroso si scopriranno le conseguenze del sistema di adorazione e di sottomissione praticato per tanto tempo. Si è
disimparato a pensare al bene pubblico e a trovare nella propria mente i mezzi e le
risorse per promuoverlo. Non si è mai pensato che al governo, confondendo questo
con il popolo e con la patria. Si è presa l’abitudine di essere servili per ottenere
premi e applausi, non di acquistare la stima e la soddisfazione di se stessi, con lo
sviluppo della propria individualità. La sciagura, quindi, non troverà il popolo
preparato alla difesa e questo finirà per perire se nel suo grembo non si troveranno
elementi sani e naturali che avevano potuto perseguire il loro sviluppo individuale,
perché mai non ambirono né titoli, né decorazioni; il nerbo e la forza intatta di
questi elementi sani e robusti sapranno, nell’ora suprema e decisiva, redimere tutte
le colpe di un governo sciocco e di una società ridicola. Una nazione che guarda
con rispetto idolatrico l’almanacco dello Stato riceve quello che merita, quando le
si dà come senatore il cavallo incitatus. Essa stessa alleva i propri oppressori e
quelli che la renderanno impotente. E così avviene che essa si addormenta sugli
allori di Rossbach e si desta sotto i colpi di Jena.”
Nel corso di quell’anno io ero arrivato alle stesse conclusioni. Ero certo che l’Italia aveva camminato verso la catastrofe orrenda, ma quale sarebbe stata questa
catastrofe non potevo certo immaginarlo. La propaganda alleata diceva che le tre
nazioni del Tripartito sarebbero rimaste occupate dagli eserciti alleati per venticinque anni per apprendere il sistema democratico, ma ciò non mi preoccupava, perché conoscevo bene l’inglese e se gli alleati fossero rimasti in Italia non mi sarebbe
mancato un posto ben retribuito.
Appresa la notizia il comandante dichiarò che lui non accettava l’armistizio e non
avrebbe eseguito gli ordini di Badoglio; poi si chiuse nella cabina assieme al capo
macchinista.
Dopo un’ora uscirono, ordinarono la barca e si recarono a bordo del “Gerarchia”, l’altra nave italiana rifugiatasi nel porto di San Vincente fin dallo scoppio
della guerra.
La nave apparteneva alla società Garibaldi, una cooperativa fondata dall’anarco-
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
sindacalista Giulietti nel 1919 con navi austriache provenienti dal bottino di guerra.
Dopo l’avvento del fascismo la compagnia passò sotto il controllo del ministero
della marina mercantile e gli equipaggi vennero epurati, con la sola eccezione del
Giulietti. Allo scoppio della guerra i comandanti erano tutti fascisti e quello del
“Gerarchia” era il più fascista di tutti.
Non mi aspettavo niente di buono da quella visita e, in omaggio al sano principio
“Soldato che scappa buono per un’altra volta!”, mi preparai ad alzare i tacchi.
Al ritorno la guardia doveva portare a terra la guardia franca. Io ero franco di
servizio e così mi accodai ai sei marinai che andavano a terra; avevo preso tutti i
miei documenti e tutti i miei soldi.
Disertavo per la seconda volta. Il futuro avrebbe detto se facevo bene.
Avevo detto al mio cameriere Agostino A. di mandarmi a terra i bagagli con la
guardia franca e rimasi piacevolmente sorpreso di vederlo nella barca.
“Che bravo ragazzo - pensai - ha voluto portarmeli lui stesso”.
Mi sporsi per aiutarlo e lui mi porse cinque valigie.
«Come mai? - chiesi - A chi appartengono queste altre tre valigie?».
«Sono le mie, signor capitano, ho deciso anch’io di andarmene e di seguire la
sua stessa sorte. Credo che il comandante stia commettendo un grave errore».
«Bene, son contento, ora però dobbiamo vedere come sistemarti, perché io ho
trovato alloggio presso due ufficiali, miei amici, ma lì siamo stretti e non credo che
potremo sistemare anche te».
«Oh, non si preoccupi per questo, io vado a casa dei miei amici portoghesi».
«E da chi vai? - chiesi sorridendo - Da Terezinha?».
«Sì, sì, mi hanno sempre detto che la loro casa era la mia, e quando questa
mattina ho detto loro della situazione che si era creata a bordo, della decisione del
secondo ufficiale di abbandonare la nave e della mia intenzione di fare lo stesso, mi
hanno rinnovato l’invito».
«Ah, bene, Terezinha ne sarà contenta».
Agostino A. aveva perduto moglie e due figlie nel bombardamento di Genova,
compiuto dalla flotta inglese subito dopo la nostra entrata in guerra. Avevo saputo
da Jack Mason che lui era a bordo della corazzata che aveva centrato la Stazione
Principe, ma non avevo mai fatto sapere ciò ad Agostino, perché mi sembrava orribile che fosse obbligato a servire tutti i giorni uno degli artefici della sua tragedia,
né potevo considerare Mason direttamente colpevole; lui aveva fatto il punto nave,
aveva centrato l’obiettivo con il telemetro, aveva passato le coordinate alla direzione di tiro e tutto il resto era venuto da sé.
Durante la permanenza a San Vincente a seguito dell’esplosione che aveva ucciso Censini, Agostino aveva conosciuto una ragazza di sangue misto e tra i due
l’amicizia si era consolidata, era stato accolto in casa come possibile “novio” e ora
gli avvenimenti stavano accelerando il loro rapporto.
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DOPO L’8 SETTEMBRE
Radames Resaz
Arrivati in banchina ci facemmo gli auguri e ci abbracciammo. Lo rividi solo
quindici anni dopo a Genova, dove era rientrato assieme a Terezinha che nel frattempo aveva sposato e dalla quale aveva avuto due figli color cioccolata.
Mi feci accompagnare da un indigeno che bighellonava sulla banchina e mi recai
a casa di Maruja Montijo. Avevo conosciuto la ragazza in occasione di in ballo
organizzato dalla Croce Verde portoghese e in tale occasione avevo conosciuto la
madre e la zia. Era una ragazza di sangue misto, di padre portoghese e di madre
indigena di una delle isole dell’arcipelago. Dopo quel ballo ci eravamo visti due
volte la settimana: andavo a trovarla portando qualche chilo di zucchero, del caffè
e dei cibi in scatola perché, pur essendo il Portogallo neutrale e non sopportando le
sofferenze dei popoli in guerra, anche a San Vincente c’era scarsità di viveri.
La ragazza mi piaceva e non mi piaceva: mi piaceva perché era bella, alta, flessuosa, con una pelle color cioccolato ma non scura, svelta, intelligente, insomma
aveva tutte le qualità di una buona sposa, ma il fondo razzista che si annidava
ancora in qualche parte del mio subcosciente mi bloccava e non mi permetteva di
scoprirmi. Non so se la ragazza fosse innamorata di me, ma certamente sentiva per
me una forte simpatia e anche i genitori mi trattavano con affetto. Avevo una volta
accennato all’ambiente di bordo, al pericolo di una rottura tra me, orientato per la
pace con gli alleati, e gli altri, accesi fascisti e filotedeschi, e in tale occasione il
padre, che era un funzionario di rilievo dell’Amministrazione coloniale, mi aveva
detto:
«Mi casa es su casa» e di non preoccuparmi del futuro, perché lui mi avrebbe
aiutato.
Non furono affatto sorpresi di vedermi perché avevano sentito radio Lisbona che
aveva dato notizia dell’avvenuto armistizio; mi sistemarono in una stanza a
pianoterra, poi pranzai con loro, si parlò della situazione e il padre mi tranquillizzò
nuovamente promettendo che il mattino seguente mi avrebbe accompagnato dal
capo della polizia per metterlo al corrente della posizione mia e di quella degli
equipaggi delle navi italiane in rada.
Al pomeriggio andai a trovare i miei amici ufficiali dell’esercito, li misi al corrente di quanto era successo e li pregai di interessarsi al modo in cui poter abbandonare l’isola e rientrare in Europa.
Tornai a casa Montijo sul tardi e cenai con loro, poi Marujita mi accompagnò
nella mia stanza e rimase a chiacchierare con me lasciando la porta aperta. Lei era
contenta e io ero eccitato. Cercavo di abbracciarla, ma lei mi respingeva con dolcezza, mentre io d’altra parte non facevo forza ma cercavo di convincerla con le
buone a darmi un bacio. Di tanto in tanto sentivo la madre che chiamava:
«Maruja, adonde estas, vienes!».
«Aqui estoy - rispondeva la ragazza - Ahora vengo», ma intanto non si muoveva.
Alla fine la madre scese, facendo un po’ di rumore, per cui ci trovò composti e
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
tranquilli.
«Marujita è tardi, andiamo a dormire, anche il signor ufficiale sarà stanco». Ci
salutammo, loro se ne andarono e io mi buttai sul letto e caddi in un sonno profondo.
Dormivo ancora quando Maruja mi svegliò:
«Alzati, papà è pronto e ti aspetta».
L’afferrai per un braccio e la trassi a me riuscendo a baciarla sulla guancia.
«Lasciami stupido, ci possono vedere, non è il momento».
«Ah, bene - pensai - se non è il momento ora, vuol dire che lo sarà più tardi, forse
stasera. Bene, alziamoci e vediamo cosa ci riserva questa giornata».
Ci avviammo verso il comando di polizia, che si trovava sulla strada principale,
ma a dieci minuti di cammino. Il comandante accolse il signor Montijo come un
vecchio amico, abbracciandolo con affetto, poi si rivolse a me e porse la mano
invitandomi cortesemente a sedere.
«Il mio amico, qui presente, è il secondo ufficiale della nave italiana “Taigete” cominciò a spiegare il signor Montijo -Ha appreso dalla radio che l’Italia è uscita
dalla guerra e pensa che il suo dovere sia quello di rientrare con la nave in Italia,
ma il comandante della nave ha scelto di mettersi al servizio del nuovo governo
fascista che continua la guerra assieme ai tedeschi. Ora, poiché questo governo,
con Mussolini o senza Mussolini, questo non si sa ancora, non è un governo riconosciuto dal governo portoghese... ».
«Nem lo serà - interruppe il capo della polizia ridendo - non lo sarà, state pur
tranquilli. Signor ufficiale, noi le assicuriamo la nostra protezione, l’assicuriamo
che la aiuteremo a mettersi in contatto con l’ambasciata d’Italia a Lisbona per
decidere cosa si dovrà fare. So che lei abita in casa del mio amico Jorge, questo mi
basta, non abbiamo bisogno di altre garanzie».
Contento da scoppiare lo ringraziai, rimasi ancora un poco a sentire i due amici
che commentavano la resa dell’Italia, poi ci congedammo. Il signor Montijo si
avviò verso il suo ufficio e io mi diressi verso la casa dei miei amici. Uno di loro era
un ex ufficiale del Tercio, una formazione di volontari portoghesi che aveva fatto la
guerra civile spagnola agli ordini di Franco, a suo tempo acceso fascista,
anticomunista e antibolscevico, come amavano chiamarsi a quel tempo, ma ora era
piuttosto intiepidito perché la situazione storica si era capovolta e i giudizi netti di
sette-otto anni prima non erano ormai più tanto netti.
Da un lato il regime dittatoriale di Salazar dava fastidio a una parte dell’aristocrazia portoghese e a una parte della borghesia che simpatizzava con l’Inghilterra;
dall’altro lato il fatto che la Russia lottasse a fianco degli americani e degli inglesi,
o meglio che gli americani e gli inglesi lottassero a fianco della Russia bolscevica,
accomunava nella stessa speranza della fine della guerra i destini inglesi e russi.
Il suo collega, Jorge, da civile amministrava una società di lavori subacquei - era
in sostanza un palombaro - e apparteneva appunto a quella borghesia industriale
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DOPO L’8 SETTEMBRE
Radames Resaz
che provava simpatia per la democrazia inglese.
Ero certo che in qualche modo mi avrebbero aiutato.
Quando sentirono cosa mi era successo si sganasciarono dalle risa.
«Sei nato con la camicia - disse Rodrigo - in un colpo solo sei uscito dalla guerra
e ti sei trovata la “novia”. Cos’altro vuoi dalla vita?».
«Un momento - dissi io - andiamo piano con la novia. È una meticcia e non ho
nessuna voglia di sposarla, né di restare su quest’isola. Voi dovete aiutami e farmi
andare a Lisbona, da dove potrò trovare il modo di raggiungere l’Italia. Il mio
dovere è di combattere per il mio re e per la mia Patria e voi, da ufficiali, mi potete
comprendere. Non è questo il momento di pensare agli amori».
Le parole mi uscivano fluenti dalla bocca, ma dentro di me i sentimenti erano
contrastanti. Sì, sentivo l’impulso di ritornare in Italia, ma il re non entrava, anzi
non sentivo nessuna simpatia per lui, ma poi sentivo anche il desiderio di restare
vicino a Maruja e forse, chissà...
Comunque le parole erano uscite e i miei amici stavano ormai discutendo cosa si
poteva fare per aiutarmi nel mio piano di fuga.
«Senti - disse Rodrigo - il 27 arriva la “Reina do Mar”; il primo ufficiale è un
mio camerata del Tercio e farà quello che io gli dirò. Tu tienti pronto, la nave sta in
porto solo un giorno e tra gente che va e gente che viene c’è di solito una grande
contusione. Non dovrebbe essere difficile farti salire a bordo; quello che deve fare
il mio amico è di trovare un posto sicuro dove nasconderti. Sei d’accordo?».
«D’accordissimo!».
«Va bene - disse Jorge - allora d’accordo. Adesso è l’ora dell’aperitivo, andiamo
al Bar Africa a passare un’oretta prima del pranzo».
Per partire senza sollevare sospetti, dovevo lasciare la casa del signor Montijo e
trasferirmi nell’alloggio di Rodrigo e perciò quella sera stessa, durante l’ora di cena,
ringraziai la famiglia per l’aiuto che mi aveva dato e dissi loro che avevo trovato
una sistemazione indipendente vicino all’alloggio dei miei amici. Rimasero sorpresi della mia decisione e cercarono di farmi cambiare idea, ma credo più per innata
gentilezza e senso di ospitalità che per altro; alla fine accettarono la mia decisione,
intendo dire i due vecchi, perché non mi parve che Maruja ne fosse soddisfatta.
Verso le undici mi ritirai nella mia camera e caddi in un sonno profondo Mi
svegliò un bacio ardente sulla guancia, ma finsi di dormire. Quando la ragazza
riprese fiato e si scostò un poco, l’afferrai per la vita e la tirai verso di me. Si difese
e cercò di staccarsi dalla mia stretta, ma io pesavo con tutto il corpo su di lei e lei
non poteva raddrizzarsi perché il bordo del letto le impediva di fare un passo avanti.
Così perdette l’equilibrio e mi cadde addosso. Io ne approfittai per farla ruotare
sopra di me e adagiarla sul mio fianco sinistro, tenendola sempre stretta. Lei ansava,
lottava in silenzio, ma sempre più debolmente. Io la strinsi a me e cominciai a
baciarla.
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
«Cabron - ansimò - perché te ne vuoi andare?».
Io non risposi e continuai a baciarla; lei rispose ai miei baci. Quando fu la mia
volta di riprendere fiato, lei si staccò per quanto io glielo permettevo e ansimò:
«Lasciami, lasciami, maldido, eres un diablo».
«Marujita, che dici? Ti voglio bene e anche tu me ne vuoi».
«Si, te ne voglio, ma perché sei voluto andar via dalla mia casa?».
«Perché da un momento all’altro dovrò rientrare in patria e non voglio arrecare
fastidi a tuo padre».
«Ecco, dici di volermi bene, e parli di andartene».
«Le cose non sono così semplici come tu le vedi. Lasciamo perdere questi argomenti e vieni più vicino».
Lasciammo perdere quegli argomenti perché anche lei aveva poca voglia di parlare. E che importanza avevano le parole in quella situazione?
Prima che facesse chiaro si staccò e disse:
«Verrò io da te più tardi, ora me ne devo andare, altrimenti la mamma si accorgerà che non ho dormito nella mia stanza. Lei si alza sempre molto presto la mattina».
L’accompagnai fino alla porta, stringendola sempre forte e continuando a baciarla.
Oh, Marujita, dolcezza mia, grazie, grazie e grazie.
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Ammiraglio (CP) Ferdinando Russo
NOSTALGIA DELL’ANTICA MARINA
R
ovistando tra le mie numerose carte dei ricordi passati, sono usciti fuori
quelli dei viaggi compiuti in tutte le direzioni quasi sempre su transatlan
tici di linea, su cui ero imbarcato quale Ufficiale di Bordo con incarichi
speciali ed infine di qualche crociera. La mia preferenza è senz’altro per i primi,
perché a bordo vi erano passeggeri e merci, per cui facendo scalo in vari porti ove
si sbarcava gli uni e le altre la sosta era piuttosto prolungata e così si aveva agio di
visitare città importanti quasi sempre a poca distanza dal porto.
Con le navi da crociera invece, dopo giorni di navigazione, arrivando in un porto,
c’era poco tempo per dedicarlo a visite e divertimenti locali; quando, per caso si
stava ancorati anche una notte, il Commissario di bordo provvedeva ad uno
spettacolino con qualche artista del luogo.
Mi sembra un tempo ancora vicino, quando di giorno, in abito adatto, scendevo a
visitare posti incantevoli e quando di notte, indossato lo smoking tropicale, raggiungevo i locali da ballo, a volte sontuosi, a volte non tanto, perché ridotti ad una
cabina su palafitte infisse nel mare. Lì m’inebriavo delle canzoni e della musica
afro-cubana, dei liquori tipici, come il cuba-libre, la tequila, il bourbon whisky, la
caipirina, abbracciato a splendide danzatrici mulatte, abbigliate di poco, piume e
strass, dal profumo di caffè e cannella. Che bello lasciarsi trasportare dal mambo,
dal calipso o dalla samba, scanditi dalle voci di Harry Belafonte, Vinicius De Moraes
o Regina Profeta.
Quelle ore inoltrate non stancavano, ma mettevano buona disposizione nell’animo per il lavoro dell’indomani.
Devo dire che quelle gioiose compagne occasionali si ritrovavano in viaggi successivi e rappresentavano delle buone amiche in paesi oltre gli oceani.
Naturalmente quel genere di vita era più consono alla gente di mare in età giovane e con voglia istintiva di divertirsi dopo giorni e giorni di traversate tra mare e
cielo, senza distinzione di giorni feriali e festivi.
Capitava talvolta di trovarsi in disposizioni d’animo non tanto favorevoli allo
svago, o per vicende personali oppure per avvenimenti improvvisi di carattere mol-
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
to increscioso.
Così a me è capitato una volta di assistere all’imbarco della salma di un mio
carissimo amico e compagno degli studi professionali, nonché di competizioni sportive, il quale essendosi avventurato in mare aperto nel Golfo dei Caraibi, era stato
azzannato e quasi dilaniato da uno squalo. Per caso, egli era il cugino di un eroe
della nostra Marina Militare, incursore subacqueo che aveva partecipato all’impresa famosa del siluramento di due corazzate nella Baia di Alessandria d’Egitto al
tempo della sfortunata guerra ‘40-‘45 e quindi deceduto.
Si trasportò a bordo quel corpo inerte dalle Antille fino al porto di Napoli. È
quello un ricordo molto triste della mia carriera di marinaio.
Pertanto, a parte i lati belli della navigazione pacifica, in condizioni favorevoli, è
ben lungo l’elenco delle sciagure verificatesi in tutti i tempi a carico delle marinerie
di tutto il mondo.
Quante navi scomparse in mare, corpi e beni. I “Lloyds” di Londra, famosi assicuratori di quasi tutte le grandi navi di ogni Nazione, ne hanno il conto esatto.
Disgraziatamente ancora ai nostri giorni, ogni tanto, nel loro Building nella City,
suona tristemente la campana: un bastimento è naufragato!
I croceristi che sbarcano al termine di un periplo, generalmente effettuato nei
mari vicini o nell’emisfero Australe, generalmente in stagione favorevole qual è
l’estate, portano con sé i ricordi lieti del tempo trascorso a bordo, forse due settimane, col mare in bonaccia e di giorno in compagnia anche degli allegri delfini che
saltellano per gioco accanto alle fiancate della nave, la quale lascia la scia bianca,
su cui si avventano i gabbiani per raccogliere un po’ di resti della cucina, mentre il
sole calava suggestivamente sulla linea dell’orizzonte: scene panoramiche riprese
con le proprie telecamere!
Difficilmente essi hanno conosciuto le tempeste! A un vecchio uomo di mare, di
quelli che in lunghi anni di navigazione è a volte capitato di passare nel Canale di
Panama e perfino per lo stretto di Magellano sono restati tanti ricordi e dei solchi
scavati sulla propria fronte!
Attualmente la navigazione marittima, quella di un tempo, è per sempre finita!
Essa è stata definitivamente soppiantata dalla navigazione aerea.
Un aereo di grandi dimensioni può portare oltremare un carico di passeggeri
quasi uguale a quello di una nave di medio tonnellaggio, in poche ore, al posto di
settimane e mesi impiegati sulla stessa rotta da un mezzo marittimo.
Anche la navigazione cosiddetta di cabotaggio, cioè da porto a porto, è stata
soppiantata dai camion e dai T.I.R.
Sono restate pochissime “carrette”, cioè navi da carico per trasporto merci voluminose e di molto peso.
Unica eccezione, cioè non è tramontata, per le navi cisterna, le quali ora sono
diventate mega-petroliere, con centinaia di migliaia di tonnellate di stazza per ognuna
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NOSTALGIA DELL’ANTICA MARINA
Ferdinando Russo
di esse. La vita a bordo di esse per l’equipaggio somiglia ancora a quella della
navigazione di un tempo, con la differenza che le soste nei porti di carico e scarico
sono molto più brevi, i relativi porti sono quasi sempre decentrati dalle grandi città
e permangono i pericoli del mare e quelli dovuti alle sostanze trasportate, facilmente infiammabili. Tutti ricorderanno gli affondamenti di grosse petroliere, che spesso si sono spezzate in tronconi sulle coste rocciose, con spargimento di natta, tanto
dannoso alla flora e alla fauna marina!
Questi miei ricordi sono tra i più cari e nostalgici della mia gioventù, unitamente
a quelli delle regate a vela, da me anche effettuate, le quali mi facevano rammentare
la vita dei miei antenati passata sul mare con mesi e mesi di traversate dall’Italia ai
continenti più lontani, in un tempo remoto in cui non esistevano i moderni ausili di
importanza capitale quali la radio, il radar, la televisione, l’ecoscandaglio, i sonar,
ecc.
A quei tempi, mi riferisco alla fine del secolo passato, all’infuori delle vetture a
cavallo, la nave era l’unico e solo mezzo di trasporto per uomini e cose.
Il prof. Giuseppe Giarizzo, Preside della Facoltà di Lettere dell’Università di Catania, più volte Presidente
della Giuria del concorso “Fatti di bordo”, parla della validità della manifestazione ripostese nel contesto
della marineria nazionale
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Il fascino del mare
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L’istruzione nautica in Italia
Il mare è un elemento da trattare bene, importante ed essenziale per la
sopravvivenza dell’uomo, specialmente per l’Italia che ha circa 8000 Km di
coste. Recentemente, diverse campagne di sensibilizzazione sulla
valorizzazione delle risorse marine - promosse dai Ministeri della Pubblica
Istruzione e della Marina Mercantile, da alcuni Governi Regionali, da radio
e televisioni e da varie associazioni ambientaliste - hanno invitato i giovani
a “Vivere il mare”, “Amare il mare”, “Amor di mare”, ecc. Però solo l’Istruzione
nautica può dare la possibilità di vivere il mare da “protagonisti”.
Questo tipo d’istruzione, oltre che nell’Accademia navale di Livorno, viene
impartita negli istituti tecnici nautici che, in Italia, sono appena 36. Sono
scuole dislocate solo nelle grandi città di mare e in alcuni piccoli paesi a più
alta tradizione marinara, come Camogli, Piano di Sorrento, Pozzallo, Procida,
Riposto (aperta nel 1820 dall’allora Governo Borbonico), Torre del Greco.
L’istruzione nautica si avvale di una struttura didattica del tutto particolare
ed unica nel suo genere. La scuola, prima, e la vita di bordo, poi, formano
uomini con una selezione particolarmente severa. Inoltre l’avventura, la
voglia di conoscenza, lo spirito di sacrificio rendono l’uomo di mare
compatto nel morale e nel fisico, facendolo crescere nel rispetto della natura.
Andare per mare attraverso gli oceani, visitare i paesi più lontani dei vari
continenti, sono senza dubbio occasioni di arricchimento culturale e
professionale.
La struttura di una nave è così complessa che la sua conduzione impone
conoscenze ed attitudini particolari. Il vastissimo impiego dell’automazione
nella gestione di tutte le sue funzioni vitali, l’importanza della componente
elettronica così sofisticata, il contatto quotidiano con tutti i servizi tecnici in
essa installati (che vanno dalla produzione all’utilizzazione dell’energia
elettrica, dagli impianti frigoriferi per la conservazione dei viveri al
condizionamento dei locali, dai distillatori di acqua per tutti gli usi di bordo
ai depuratori delle acque reflue, agli inceneritori dei rifiuti solidi, ecc.)
permettono al navigante di acquisire una professionalità invidiabile. Tali
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Storie e racconti di mare - 11 a edizione
conoscenze sono certamente universali e, pertanto, sono valide non solo
per il navigare ma anche per qualsiasi altra attività professionale che il
diplomato nautico intenderà intraprendere.
Da alcuni anni l’Istituto Nautico sperimenta nuovi programmi di studio
che ne fanno una scuola non più indirizzata solo alla navigazione, ma aperta
a tutti i grandi problemi del mare. Si può dire che i Nautici “educano con il
mare ... e non solo per il mare”. L’allievo nautico riceve una istruzione teorica
integrata da vari tirocini a bordo di navi in servizio e, nell’ultimo anno di
corso, da una lunga crociera nel Mediterraneo su nave di linea. Lo studente,
inoltre, ha la possibilità di praticare, oltre alle normali attività sportive, anche
il nuoto, la voga e la vela.
Purtroppo, da quando il Ministero della Pubblica Istruzione ha disposto
che i Consigli di classe indirizzino ufficialmente i genitori degli alunni delle
terze medie al tipo di scuola più idoneo per i propri figli, è accaduto qualcosa
di strano: i nautici hanno avuto un forte calo nelle iscrizioni e, quello che è
più grave, anche nella qualità degli studenti che vi accedono. Forse perché
i più bravi vengono spinti verso questo o quel tipo di liceo, i meno studiosi
vengono indirizzati presso gli istituti tecnici più conosciuti, i peggiori
consigliati a iscriversi negli istituti professionali: cioè l’orientamento
scolastico viene effettuato tenendo conto più del profitto che delle attitudini.
Mentre - per la specificità degli studi e per la grande responsabilità alla
quale si è chiamati nella condotta e nella guida di una nave moderna - gli
istituti nautici dovrebbero poter curare particolarmente la selezione degli
allievi, tramite test attitudinali, tra gli aspiranti che siano in possesso di
Licenza Media conseguita con buon profitto, abbiano sana e robusta
costituzione, amino il mare e soprattutto siano giovani fortemente
“motivati”.
Oggi, anche le ragazze, che hanno il mare nel cuore e desiderano provare
sensazioni sempre nuove, possono impegnarsi in mansioni e attività proprie
del navigante e vivere da protagoniste l’emozionante esperienza di bordo.
Quali esperienze più esaltanti di:
- vivere per giorni e giorni con il mare come solo infinito orizzonte e
provare sensazioni irripetibili;
- passare dall’Oceano Pacifico all’Atlantico e viceversa tra le montagne
del Canale di Panama;
- attraversare il Canale di Suez, lo Stretto di Gibilterra, di Magellano o
quello del Bosforo;
- Circumnavigare l’Africa, le Americhe, o l’intero globo;
- toccare isole lontane come Sumatra, Giava, Trinidad, Cuba, le Hawaii,
ecc.;
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- visitare grandi città come New York, Los Angeles, Londra, Tokyo, Hong
Kong, Singapore, ecc. e paesetti sperduti nei più lontani angoli della Terra;
- conoscere usi e costumi della maggior parte delle genti che popolano il
nostro pianeta.
Queste sono solo alcune delle occasioni che si presentano al navigante.
Certo, andare per mare comporta impegni importanti e gravosi, ma la
professione dell’ufficiale marittimo, specialmente se fatta con passione,
riserva grandi soddisfazioni, non ultimo quello di trovare facilmente lavoro
che, oltre tutto, risulta essere particolarmente redditizio. Perché la Marineria
italiana rimanga nel futuro, resti in auge e la sua Bandiera continui a essere
presente in tutti i mari del mondo, occorrono iniziative concrete che possano
spingere i giovani verso l’istruzione marinara. A questo riguardo potrebbe
essere giusto che si svolgessero attività promozionali per permettere, sia
agli insegnanti della Scuola Media che alle giovani generazioni, la
conoscenza diretta e reale dell’affascinante vita di bordo e consentire loro
di interagire con tutta la tecnologia concentrata nel piccolo spazio di una
nave.
Gioacchino Copani
Da sinistra: Prof. Manlio Sgalambro, Maestro Franco Battiato, Prof. Orazio Licciardello, Dott. Luigi
Turinese
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Veduta di Riposto
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INDICE
PRESENTAZIONE ......................................................................... 3
Presentazione del Sindaco di Riposto .............................................. 7
Presentazione dell’Assessore alla Cultura ....................................... 9
Cap. D.M. Sergio Iezzi
LE LUCI DEL PORTO ................................................... 11
Com.te Perfetto Firmino
IL DUBBIO ..................................................................... 15
Cap. D.M. Sebastiano Pagano
I DUE “BEPI” ................................................................. 21
Com.te Gaetano Alfaro
TOMMASO MARESCA, IL COMANDANTE ............. 27
Cap. L.C. Norberto Biso
PRIMO IMBARCO ......................................................... 33
Contrammiraglio Antonio Ciccarello
L’IMPRESA DEL GARDIA MARINA ELIO SANDRONI .......... 39
Cap. D.M. Antonio Riciniello
“SANTA MARIA” .......................................................... 45
Giorn. Anna Bartiromo
LA FANCIULLA DI SHANGAI .................................... 53
Mar.llo Francesco Chirivì
GRAZIE, GUARDIA COSTIERA ................................. 55
Mar.llo Giovanni Di Mauro
SOGNO E REALTA’ ....................................................... 57
Comune di Riposto
Provincia Regionale di Catania
Pagina 157
Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Andreina Lanza
IL FURORE DEL MARE ............................................... 65
Cap. L.C. Girolamo Melissa
QUEL TRAVAGLIATO VIAGGIO PER NOVOROSSIJSK ......... 67
Cap. D.M. Luciano Molin
È SATANA IL NEMICO! ............................................... 73
Concetta Musumeci
MARE MIO GRANDE AMORE.................................... 75
Cap. Sup.D.M. Giovanni Pagano
MARTINO CAFIERO .................................................... 77
Maria Salemi
LA DONNA DEL PESCATORE .................................... 83
II Parte
Introduzione ..................................................................... 85
Cap. Sup.D.M. Giacomo Caiazzo
LA GRANDE PETROLIERA......................................... 87
Cap. D.M. Guido Campailla
L’ULTIMA TRAVERSATA ............................................ 95
Amm. di Squadra Giovanni Ciccolo
FINALMENTE IN SALVO ............................................ 99
Com.te Gaetano Cristaldi
LA NAVE FELICE........................................................ 107
Cap. D.M. Amedeo Dall’Asta
UN MARINAIO E UNA CORNICE D’ARGENTO .... 111
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Circolo Ufficiali Marina Mercantile - Riposto
Storie e racconti di mare - 11 a edizione
Domenico Di Martino
IN MORTE DI TRE PESCATORI ................................ 117
Uff. R.T. Angelo Luigi Fornaca
LA TEMPESTA ............................................................ 119
Amm. Giuseppe Mataluno
MISSIONE SPECIALE ................................................ 131
Com.te Augusto Meriggioli
PAURA DI MARE ........................................................ 135
Cap. L.C. Radames Resaz
DOPO L’8 SETTEMBRE ............................................. 141
Ammiraglio (CP) Ferdinando Russo
NOSTALGIA DELL’ANTICA MARINA .................... 149
L’ISTRUZIONE NAUTICA IN ITALIA .................................... 153
Comune di Riposto
Provincia Regionale di Catania
Pagina 159
Finito di stampare
presso la Tipo-litografia BRACCHI
Giarre - Via L. Pirandello, 56
Tel. 095/931427
Febbraio 1999
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Storie e racconti di mare - Circolo Ufficiali Marina Mercantile