Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—1 ^ pag.
CAPITOLO 9
SUFFRAGIO UNIVERSALE E’ DEMOCRAZIA?
Sesto, impaziente d'iniziare la lettura del manoscritto, confortato dall'aria condizionata,
si pose a letto, nella posizione più comoda, interamente vestito.
Senza titolo e senza alcuna nota introduttiva, alcune riflessioni davano inizio al
manoscritto.
*****
"Gli studiosi di tutti i tempi, sopratutto i filosofi, nello studio dei sistemi di governo sono
unanimemente concordi nel dire che, per ottenere buoni risultati, la qualità degli uomini è più
importante della forma del governo.
Ciò, in pratica, potrebbe essere interpretato nel senso che anche una dittatura, se
condotta da un uomo che abbia molte qualità morali e capacità di statista, può rivelarsi un
ottimo sistema di governo.
Si è però compreso da tempo che la sorte di un popolo, che poi coinvolge anche
quella di molti altri popoli per gl'interscambi diversi e per i rapporti d'ogni tipo, non può
dipendere né dall'incertezza di tali qualità di un solo uomo che, normalmente, si rivelano e si
possono stimare dopo gli effetti degli atti governativi, né dalla mutevolezza della natura umana.
E' risaputo, infatti, che a priori, di un uomo che non abbia mai governato, sono tutt'al
più note le qualità intellettive e caratteriali, e non già la capacità di tradurre tali qualità in
decisioni governative dagli effetti sicuramente e generalmente benefici. La millenaria
esperienza, inoltre, ci indica che il potere, e l'ambizione a mantenerlo, può corrompere anche lo
spirito più eccelso.
Sarebbe pertanto opportuno che venissero chiamati a governare uomini la cui
esperienza politica abbia dato prova di avere cura degli interessi generali del Paese, più che
dei propri, dipendendo, principalmente, l'uno dalla cultura e l'altro dalla natura.
Poiché, invece, un bene, quale un buon governo, perché sia considerato tale, deve
assicurare migliori condizioni di vita al maggior numero possibile di cittadini in tutto il territorio,
nel minor tempo, il più a lungo possibile. Poiché , per l'anzidetta mutevolezza dell'animo e per la
precarietà psichica e fisica dell'uomo, un governatore deve potere essere sostituito con celerità,
ne deriva che anche un piccolo gruppo di governanti, per quanto degni ed eccellenti, non
possono dare di per se stessi una buona forma di governo, se essa sia basata esclusivamente
sulle quelle qualità che hanno assicurato la buona gestione dei loro affari.
Da tali considerazioni vengono quindi escluse le forme governative della monarchia e
della dittatura, nonché tutte le altre, quali la oligarchia, la plutocrazia ed altre ancora, le cui
qualità s'identificano con quelle di coloro che detengono il potere e mirano a trasmetterlo alla
propria dinastia o alla loro classe sociale.
Sulle così dette monarchie parlamentari, ci si limita ad osservare che, essendo un
ibrido di un’inutile e costosa finzione monarchica, nonché di un anomalo sistema democratico
parlamentare, possano, al più, avere una funzione giustificabile nei casi di transizione, per
breve periodo, dal sistema monarchico a quello democratico.
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Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—2 ^ pag.
Tale analisi è piuttosto sbrigativa, ma sufficiente per indicare che la democrazia è
l'unica forma di governo che si ritiene quindi migliore, se non altro, per ora, per assicurare al
popolo una sostituzione celere degli uomini che si dovessero rivelare non idonei, o addirittura
contrari, ad assicurare un generale benessere per i cittadini.
La democrazia, tuttavia, non è di per sé un sistema valido per gli anzidetti scopi, in
quanto che la si può realizzare in tanti modi, tanto che può divenire un paravento comodo,
dietro il quale si possono nascondere tutti i difetti di tutti i sistemi di governo noti ed anche di
quelli mai sperimentati.
Essa, infatti, può assumere le caratteristiche proprie dei gruppi, delle lobby, delle
ideologie, o dei sistemi politici che vengano a prevalere.
A nulla varrà, quindi, avere instaurato un sistema democratico, se in esso prevarranno
i germi dell'assolutismo fascista, o comunista, o capitalista, oppure, peggio ancora,
dell'indeterminatezza di sistema governativo, giacché si avrebbe un sistema governativo che,
benché eletto attraverso elezioni popolari, esprimerebbe un governo che, in pratica, si
manifesterebbe con le caratteristiche dei germi dei gruppi prevalenti.
Con ciò si vuol dire che, l'elezione popolare non assicura punto la democraticità del
sistema, né la giustezza dello stesso, e che l'elezione popolare dei parlamentari non è, di per se
stessa, garanzia di vera democrazia.
Infatti, varrebbe, forse, ad assicurare una saggia amministrazione di un nosocomio, la
elezione popolare di amministratori tra gli stessi amministrati?
Ed ecco un'altra ovvietà di cui si ha timore di parlare, uno dei tanti dogmi intangibili. Dico
della antidemocraticità dell'eguaglianza del voto.
A tal punto la mente va alle discriminazioni storiche dei diritti politici per censo, o per
classe, o addirittura per sesso. Perciò si è propensi subito, o a ritenere giusta l'uguale valenza
del voto di ogni cittadino, o addirittura ad evitare il sorgere del problema.
Ma non v'è a chi non salti agli occhi la ingiusta ed uguale valenza che in atto viene
data al parere, decisione, o voto, come si vuol chiamare, dell'analfabeta, che non sa perché non
leggendo non ha lo stesso grado di comprensione degli altri, e del voto dell'uomo di cultura che,
può anch'egli sbagliare nel giudizio, ma è senz'altro ben più consapevole dell'espressione della
sua volontà.
Coloro ai quali è stato posto tale problema, hanno obiettato immediatamente che non
c'è altro modo di eseguire elezioni democratiche, se non ricorrendo a sistemi discriminatori che,
perciò, sarebbero non democratici.
Ed in effetti, giacché né un titolo, né un grado di cultura, né una categoria sociale,
professionale od economica è aprioristicamente valida ad indicare il grado di comprensione
dell'elettore, a nulla varrebbe concedere maggiore o minor valenza di voto agli appartenenti
delle varie categorie. Ciononostante, ciascuno di noi sa che, nella prassi comune, diamo
differente valore al parere dello sciocco ed a quello del saggio, a quello del profano ed a quello
dell'esperto. Perché mai, quindi, nella decisione di coloro che vengono nominati per
amministrarci e governarci, i pareri, o voti, dovrebbero essere uguali?
Perché, è luogo comune, in democrazia tutti siamo UGUALI.
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Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—3 ^ pag.
Ed ecco un altro dogma intangibile, una tale ovvietà che induce al sorriso di scherno
colui che ode parlarne.
Uguali. Uguali nei diritti e nei doveri, s'intende. Ma è proprio vero, od è soltanto una
formuletta comoda, una finzione tra le tante, per fregiarci del vessillo della democrazia?
E' talmente ovvia la falsità di questa uguaglianza, che chi volesse obiettare dovrebbe
ricorrere a sofismi.
Si dice che ogni uomo è uguale a qualunque altro. In effetti, però, ciascuno si differenzia
per le diverse capacità personali, le quali consentono un diverso esercizio dei diritti, compresa
la capacità di ricorrere alla magistratura e la capacità di scelta del difensore, per la quale non è
affatto ininfluente la diversa capacità di affrontare finanziariamente il corso del giudizio. E ciò,
solo in parte, per la capacità dell'esercizio del diritto, se a ciò aggiungiamo la diversa capacità di
elusione dei doveri, la diseguaglianza tra cittadini diviene incolmabile. E ciò, facendo parte della
realtà, non deve essere escluso aprioristicamente nella formazione dell'attività governativa.
Perché negare che è vera ed esistente la diversità dei luoghi, dei clima, delle risorse
naturali, della produttività del territorio, delle risorse idriche, dell'irradiazione solare, e di tutto ciò
che incide naturalmente sulla produzione dei beni, come anche è vera ed esistente la diversità
naturale tra gli uomini per capacità di memoria, di apprendimento e di elaborazione dei
concetti?
Se tali diversità esistono in natura, cioè a prescindere da qualunque intervento umano,
perché negare che l'uomo con la sua stoltezza ed egoismo ha creato tante altre diversità tra gli
stessi uomini, nei diritti e nei doveri, affinché chi più ha, più possa ottenere? E vi pare che il
capitalismo, o il liberismo possa creare norme per ripristinare le uguaglianze, se mai vi siano
state, o magari lo possa il liberismo, che non si capisce da che cosa voglia esser libero se non
dalle regole statali che ne attenuano la tendenza all'asocialità?
Il compito, quindi, di un giusto governo sta nel prendere in considerazione tali diversità e
non già nel fingere che non esistano, al fine di provvedere ad eliminarle in massima quantità.
Per ora è sufficiente che si comprenda che l'uguaglianza dei cittadini, ancorché
teorica, è mera finzione politica.
V'è ancora un altro dogma intangibile insito nel sistema democratico, e cioè la
convinzione che la maggioranza esprima sempre una volontà dagli effetti migliori di quelli della
minoranza. Anzi, la base della democrazia sta proprio nel rispetto della volontà della
maggioranza e nel far sì che ad essa sia data esecuzione.
La realtà, invece, ci indica tutt'altra valutazione che, sia pure impopolare, non deve
essere taciuta nella ricerca della verità e del sistema politico migliore per il benessere dello
stesso popolo.
Non essendo esperti di antropologia, non si è in grado di dare cifre e percentuali
scientifiche sull'argomento, che gli studiosi invece sapranno quindi fornire. Partendo,
comunque, dalla modesta esperienza scolastica, si può asserire con certezza che una
scolaresca di trenta giovani contiene pochissimi alunni molto intelligenti, pochi intelligenti e,
purtroppo, molti d'intelligenza appena sufficiente ed alcuni di scarsa intelligenza. Ne deriva che
la cosiddetta maggioranza numerica è formata da coloro che non sono stati molto beneficati
dalla natura.
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Poiché, invece, per la valutazione delle conseguenze presenti e future di ogni specie,
derivanti dalle decisioni da adottare per la soluzione delle problematiche sociali, è
indispensabile molta intelligenza ed intuito, che danno l'impronta e migliorano l'esperienza e la
cultura, ne consegue che la cosiddetta maggioranza numerica, essendo per lo più
intellettivamente la meno dotata, darebbe le indicazioni peggiori.
Allora, direbbero i detrattori della democrazia, non è preferibile scegliere un solo
governante sicuramente intelligente e preparato a mille parlamentari, la cui intelligenza e
preparazione culturale sta alla media umana?
No, per ciò che già è stato detto sulla instabilità umana e per il pericolo insito
nell'accentramento del potere e, soprattutto, perché deve pur esistere un modo, un metodo, un
sistema che permetta di scegliere i migliori amministratori, sotto l'aspetto intellettivo, culturale,
tecnico e professionale, ancor prima che siano scelti od eletti per uno o per più rami del
parlamento.
Se ci si attiene soltanto all'intelligenza, pare che il problema non abbia soluzione, dal
momento che la scienza non è giunta a tal punto da garantire un aumento generale
dell'intelligenza all'umanità, ma giacché l'istruzione, la cultura e l'educazione migliorano molto lo
stato naturale intellettivo, esse sono i cardini della democrazia.
Il problema dei nostri tempi diviene quindi come si realizza una vera e giusta
democrazia.
Nel tentativo di trovare la migliore soluzione a detto problema, si può iniziare a
cercare d'individuare quali siano i criteri distintivi della democrazia e quali i difetti da eliminare.
Se, come già è stato detto prima, un buon sistema di governo è quello che si propone
di accrescere il benessere del popolo e di renderlo duraturo, i criteri distintivi della democrazia
sono da ricercare soprattutto nell'ordinamento della cultura e della giustizia, essendo questi i
beni primari immateriali che si trasmettono da generazione in generazione, e la capacità di
assicurare la migliore distribuzione della ricchezza al maggior numero di individui che,
trasmettendola agli eredi, assicurino ad essi condizioni più favorevoli di miglioramento.
Al contrario, ovviamente, l'ignoranza, lo scarso interesse per la cultura, la parzialità, la
faziosità, il disordine civile e morale, l'accentramento della ricchezza, l'accaparramento da parte
di pochi dei beni materiali, di cultura o di diffusione di essa, costituendo, questi ultimi, dittatura
occulta per il potere che ne deriva e per la capacità di condizionamento della gestione della res
publica e della libertà dei cittadini, sono da considerare elementi rivelatori di finzione di
democrazia.
Poiché tutto ciò sembra ovvio, ma non sufficientemente recepito, è necessario che si
espliciti la seguente considerazione.
L'attuale periodo storico è caratterizzato dalla tecnologia e dalla telematica che stanno
dando una particolare impronta mentale e comportamentale agli uomini del tempo.
La tecnologia avrebbe già dovuto avere il merito di alleviare l'umanità dai lavori più
faticosi e di rendere più agevoli e rapidi gli scambi tra i popoli, al fine di migliorarne i rapporti e
trarne vicendevoli benefici.
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Anche la telematica avrebbe già dovuto assolvere gli stessi compiti della tecnologia,
da cui deriva, ma per scopi più nobili di conoscenza, scienza, cultura ed educazione generale, i
quali, se bene realizzati, conducono tutti agli stessi vantaggi cui dovrebbe giungere la
tecnologia.
Anche tutto ciò è talmente ovvio che diviene spontaneo scusarsi di averlo scritto. La
realtà è invero totalmente diversa.
La tecnologia e la telematica, come ogni conquista sulla materia sono sorte in origine
dalla genialità dell'umanità, ma avendo avuto bisogno del capitale per affermarsi e
concretizzarsi, sono rimaste in balia del capitale, come di cosa materiale, con la conseguenza
che a disposizione dell'umanità sono rimaste soltanto le parti terminali di esse, che sono mere
illusioni di benessere e di conoscenza, perché artatamente filtrate e modificate per i fini di
potere che sempre il capitale si propone.
E' ovvio anche ciò? Sì, è vero, ma si sta cercando di dimostrare come attraverso le
ovvietà si sta giungendo a non parlare più dei problemi che continuano ad affliggere l'umanità.
Responsabile di tale sensazione di ovvietà è proprio la telematica. Essa, infatti,
attraverso la televisione ci abitua ad un tipo d'informazione veloce, tanto che, susseguendosi le
notizie le une alle altre, impedendo la possibilità all'ascoltatore di riflettere per assumere una
considerazione critica dell'apprendimento, ripetendo sempre nel medesimo modo ogni
problema, riduce le problematiche ad ovvietà ed il discuterne a banalità.
Infatti, volutamente o casualmente, ma il capitale non rimane inerte neppure davanti
alla casualità, esso tenta di sostituire l'informazione scritta, che permette riflessioni ed
approfondimenti, con quella televisiva, rapida, modificabile anche attraverso luci, colori,
espressioni e metodi psicotelepatici con effetti subliminali.
Chi oserebbe, dopo la caduta del muro di Berlino, la disgregazione dell'URSS ed il
fallimento delle teorie marxiste e leniniste, parlar male del capitalismo?
Nessuno che non voglia rischiare la derisione, perché la subliminale ovvietà
trasmessaci è la seguente: Due potenze mondiali si contrapponevano, l'Unione Sovietica e gli
Stati Uniti D'america; nella prima vigeva il marxismo-leninismo, nella seconda vige ancora il
liberismo capitalistico. Poiché l'Unione Sovietica non esiste più e le teorie stataliste marxiste si
sono rivelate disastrose per l'economia della nazione e per il benessere del popolo, ne deriva
che il liberismo capitalistico è vincente e, quindi, da preferire come sistema di governo.
Ma ciò è falso, quanto falsa era la certezza che il comunismo trasmetteva al popolo
che la proprietà statale avrebbe assicurato ad esso maggiore benessere.
Se veramente si vuole il bene del popolo, non si deve trasmettere alcuna sicurezza,
bensì argomentare esplicitamente su tutto ed esser pronti a modificare qualunque piano che si
dimostri fallace nell'interesse generale.
Partendo da tali buone intenzioni non si può aver timore di discutere anche su ciò
che sembra ovvio, giacché proprio dietro le ovvietà, spesso, vengono occultati i principi generali
ed eterni del buon governo, da parte di chi ha interessi contrari alla giusta ridistribuzione delle
ricchezze.
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Quale differenza v'è mai tra il capitale, inteso come beni economici e finanziari, in
mano ad un gruppo di governo e l'altro capitale in possesso di un ristretto numero di uomini che
determinano, ed in molti casi impongono, gli uomini di governo? Non è forse noto che un'esigua
percentuale di uomini, negli Stati liberali e capitalistici, detiene un'altissima percentuale di beni
economici e finanziari?
E non è forse altrettanto noto che libertà ed eguaglianza sono in stretta connessione,
tanto che a condizioni d'inferiorità corrisponde minore libertà?
Anche ciò vi risulta ovvio e banale? Sì, certo, ma da quanto tempo abbiamo
dimenticato di occuparcene seriamente.
Vi sembra tanto ovvio che chi non ha la casa dove abitare debba rinunziare persino
alla formazione di una sua famiglia, innescando così un sistema sociale che disgrega la stessa
società, svilisce la personalità ed impedisce l'estrinsecazione delle proprie facoltà lavorative e di
pensiero?
E' tanto ovvio che soltanto pochi eletti, o come si dice, pochi fortunati riescano,
nonostante ogni difficoltà, ad emergere, mentre il rimanente degli uomini, forse non dotati o
meno dotati dalla natura, debbano dibattersi tra difficoltà per sopravvivere? E che dire di quanti
risultano meno dotati per colpa della società, che non li ha posti nella condizione di potere
emergere? Forse che il mondo fu creato soltanto per i più dotati, per essere serviti dagli altri?
Non capite che al centro di tante diseguaglianze v'è soltanto il capitale e che più ci
convinceranno dell'importanza di esso, tanto più creerà diseguaglianze e, quindi, minore libertà
per coloro che non ne detengono o ne sono in possesso in quantità marginale?
Il sistema governativo che si fonda sul capitale, sulla quantità di esso che
diviene qualità, sull'indispensabilità di esso, come mezzo insostituibile per ottenere
fiducia, per migliorare il livello culturale, per ottenere giustizia, per guarire dai mali fisici,
per fondare la società primaria della famiglia, per intraprendere un lavoro da cui far
derivare il benessere in gioventù e la sicurezza nella vecchiaia, è già dittatura.
Ciò, questa volta, non appare ovvio e va quindi dimostrato, eppure è un concetto ben
più ovvio dei precedenti.
Che cos'è la dittatura se non un potere assoluto che si regola, si controlla e si giudica
da sé?
E, se il capitale è un tal potere da definire lo stesso sistema di governo come
capitalistico, e gli organi statutari sono ipersensibili allo stesso capitale da cui ricevano la
nomina e da cui deriva il loro potere, non è ciò di per sé dittatoriale?
Forse, a tal punto, rispunta il giudizio di ovvietà.
Allora si opporrà che nei moderni sistemi capitalistici esistono vari organi di controllo che
non sono sensibili al capitale. E ciò è falso. Vero soltanto nelle intenzioni e falso nella realtà, o
forse le vere intenzioni sono quelle di creare organi di controllo che abbiano soltanto la
parvenza d'indipendenza dal capitale.
Se una società insegna in famiglia, a scuola e nella pratica della vita che il bene
primario che dà diritto a tutto è il capitale, quanti potranno sottrarsi a tale imperativo categorico
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che vincola la psiche e che col tempo verrà trasmesso coi cromosomi da padre in figlio? E se
tale credo, come sta già accadendo, sostituirà gli altri etici e religiosi, che cosa accadrà?
Non è poi fantapolitica, ma soltanto tristissima realtà.
Coloro che detengono il capitale, in misura proporzionale ad esso godranno dei migliori
servizi, delle migliori assistenze e delle agevolazioni più propizie per i loro affari, facendo
vieppiù diminuire servizi, assistenze ed agevolazioni a favore di coloro che detengono il capitale
in quantità minore.
Il popolo diverrà sempre più ignorante e non comprenderà la vera causa dei suoi mali,
che è il generale egoismo, e li attribuirà esclusivamente alla carenza di capitale; allora accadrà
di tutto pur di venirne in possesso, né ne fermeranno la bramosia i vincoli di amicizia e
parentela, giacché non esisteranno più né inibizioni di educazione, né legali, né religiose, né
morali.
Ed il capitale proteggerà sempre più soltanto se stesso. ""
*****
Dopo tale assioma, almeno per l'autore, v'era una pagina bianca.
Sesto, accertatosi che lo scritto proseguiva, lo richiuse per riposare un po' e per
riflettere.
Lui avrebbe voluto sapere se il Professore ne era soltanto il mero estensore e, quindi,
Cesco ne era il vero autore, ma non doveva avere avuto molta importanza per l'omicida o gli
omicida di uno dei due o di entrambi.
Ed era possibile che il movente fosse proprio nel cercare d'impedire che il contenuto
di quel libretto venisse diffuso?
Ciò che aveva letto fino a quel momento non gli sembrava molto importante, anzi, se
lo stesso autore non avesse messo in guardia il lettore dal facile giudizio dell'ovvio, lo avrebbe
senz'altro giudicato in tal modo. Ma, a prescindere dal giudizio, quale idea si rivelava pericolosa
e per chi?
Sesto guardò l'orologio e si sorprese nel considerare di avere impiegato oltre un'ora
per leggere quelle poche pagine.
Possibile che avesse perso l'abitudine alla lettura? E sì, era proprio così. Era ormai
talmente abituato all'ascolto frettoloso ed all'aiuto a comprendere delle immagini, che la lettura
richiedente riflessione la eseguiva istintivamente con lentezza. In ciò il libretto aveva proprio
ragione, la televisione disabituava dalla lettura.
Tuttavia, doveva riconoscerlo, quella lettura lo aveva scioccato, soprattutto per le
considerazioni sulla maggioranza e sulla validità delle sue decisioni. Ed anche quelle sul
capitale. Ma, sapere tutto ciò era utile alla ricerca di un sistema di governo migliore, e
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soprattutto, era possibile realizzarlo? Doveva riconoscere, comunque, che era indispensabile
che venissero esplicitati tutti quei problemi che il libretto definiva dogmi intangibili, se si vuole
approfondire la ricerca della democrazia. Ed era forse ciò che si voleva impedire?
Tali riflessioni furono interrotte da un leggero battere di nocche sulla porta.
Non aveva dubbi che a bussare fosse Anna. Era davvero matta a cercarlo mentre in
casa v'era la figlia e Peppe. No, non le avrebbe aperto. Quindi rifletté di non avere chiuso la
porta a chiave. Avrebbe finto di dormire. Sentì nuovamente bussare con un po' più di forza e
d'insistenza. Era sicuro che se non avesse risposto se la sarebbe ritrovata nel letto.
E se avesse risposto a voce alta, come se fosse stato svegliato improvvisamente,
sarebbe scappata per non farsi sentire dalla figlia o avrebbe insistito? E, non poteva essere,
invece, proprio Celeste? Ma no, povero illuso, quella ragazzina non avrebbe avuto neppure il
coraggio di concedergli un bacio in un deserto. Vide che la maniglia si muoveva lentamente
verso il basso. Meglio fingere di dormire. E poi? L'avrebbe trattata male. E non avrebbe in tal
modo compromesso il suo lavoro? Meglio il lavoro che se stesso per lupara. Sentì dei passi.
Non osava guardare neppure di sottecchi. Doveva ormai trovarsi davanti al capezzale. Cercò di
respirare regolarmente, come in sonno profondo.
- Sono io.
Era una voce di uomo. Ormai doveva continuare a fingere di dormire, ma chi era? Oddio,
la voce gli era nota, ma perché veniva a svegliarlo?
- Peppe, sei tu, che ci fai qui?
- Ho bisogno di parlarti.
- A quest'ora?
- E quando potrei parlarti da solo?
- Hai cambiato tono e mi pare che non incespichi nel parlare.
- Sì, sono guarito. Parlo normalmente.
- Com'è possibile? Che cosa ti ha guarito?
- Te lo dirò poi. Hai trovato il libretto?
Proprio in quel momento si accorse che Sesto lo teneva tra le mani.
- Ora che lo hai visto è inutile che neghi.
- Chi te ne ha parlato?
- Nessuno. Nella comparazione tra la copia di quella burocratica biografia del Professore,
ch'egli stesso mi aveva dato, e l'originale consegnatomi da Don Calò, mi sono accorto che
qualcuno aveva aggiunto alla fine che in fondo v'era la verità, ed in fondo non poteva che
significare sotto la sua abitazione.
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Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—9 ^ pag.
- Lo hai letto?
- Soltanto l'introduzione, ma non mi pare che sia tanto importante da potere essere il
movente di due delitti.
- E quale altro mai potrebbe essere il movente? La stupidità uccide le idee e l'arroganza
gli uomini.
- Lasciami il tempo di leggerlo tutto e poi ti dirò.
- Non vale la pena. Te ne parlerò io.
- Lo conosci bene?
Peppe non rispose.
- Perché è così urgente che me ne parli ora?
- Lo capirai da te, se mi consenti di trattenermi a parlartene.
- Ormai, se te ne andassi non riuscirei lo stesso a dormire prima di averlo finito di
leggere. Dunque dimmi ciò che vuoi.
- Il Professore aveva cominciato ad eseguire una scrupolosa ricerca di ciò che si è
dimostrato sbagliato nella nostra ed in tutte le altre democrazie. Era convinto che soltanto
attraverso tale analisi si potesse giungere alla fondazione di una nuova e più giusta
democrazia. Perciò era indispensabile esaminare anche, e forse soprattutto, tutto ciò che
potesse sembrare ovvio. Aveva iniziato, quindi, tale analisi da due sole certezze: la democrazia,
come sistema di governo, ed il capitale come elemento funzionale di essa e non già motore o
promotore dello Stato. Si è fermata una macchina. Spegni la luce.
- La spengo, ma perché ti preoccupa?
- Ecco, guarda anche tu. - Disse Peppe osservando dalle sbarre della persiana. Qualcuno sta saltando il cancello.
In quell'istante si sentì Settimo abbaiare dal garage che era chiuso.
Lo sconosciuto si fermò proprio sul cancello, ma dopo aver capito che il cane era
rinchiuso proseguì la scalata.
- Ha una bomba! - Gridò Peppe. - Sveglia tutti! Chiama la Polizia. Io vado.
- Sei sicuro? - Domandò scioccamente Sesto, sentendosi incapace di dire altro e di
eseguire ciò che Peppe gli stava dicendo.
- Presto, sveglia tutti. - Gli gridò Peppe, ma con voce soffocata, mentre usciva dalla
stanza e si dileguava.
Finalmente, dopo avere superato mentalmente il timore del ridicolo se non si fosse
trovata traccia della bomba, farfugliando e ripetendo istericamente "Scappiamo, c'è una
bomba", sollevando letteralmente Celeste dal letto e trascinando Anna che già s'era svegliata
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Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—10 ^ pag.
ed alzata, Sesto fece uscire tutti dalla villa, assieme alla cameriera che era stata svegliata dal
cane e quasi contemporaneamente a chi aveva saltato il cancello.
Le tre donne erano in camicia da notte, mentre lui, fortunatamente, era ancora vestito
ed aveva quindi il portamonete da cui prese un gettone per avvertire la Polizia.
- Dov'è Settimo? - Fu la domanda più intelligente che gli riuscì di porre alle donne.
- Si è lanciato all'inseguimento del malfattore. - Rispose Celeste, che poi, con tono
piagnucoloso aggiunse: - E Peppe? - Non preoccuparti; è scappato prima di tutti. Si è accorto lui della bomba. Non so
perché, ma credo che non voglia essere trovato dalla Polizia.
- Non bisogna parlare di lui? - Domandò Celeste.
- Finché sarà possibile.
- E se vorranno sapere chi c'era nella villa?- Domandò Anna.
- Diremo la verità. - Rispose Sesto guardandola per la prima volta in viso.
Pareva pronta per andare ad una festa. La camicia da notte lunga sembrava un abito da
sera, che copriva appena i capezzoli del seno, pur esaltandone la forma perfetta; i capelli li
aveva ben raccolti sulla nuca con un fermaglio d'oro e grossi smeraldi ed esalava un delicato ed
intenso profumo di fiori.
Appena un minuto dopo, giunse una macchina della Polizia di Mondello ed un'altra dei
Carabinieri di Partanna Mondello.
Dopo una decina di minuti ancora, vi fu il caos noto in simili occasioni: transenne, Vigili
del Fuoco, fari di ogni tipo, telecamere e giornalisti.
Soltanto allora Sesto si ricordò di essere in servizio, ma essendo già più informato dei
colleghi, seguì soltanto le operazioni di disinnesco della bomba, che c'era, tramite la radio
trasmittente di un Ufficiale dei Carabinieri che aveva domandato a loro precisazioni sul punto in
cui poteva essere stata collocata.
Alle sei del mattino, dopo oltre tre ore dal disinnesco, fu dato il permesso di rientrare
a casa.
Ormai la sua presenza lì era nota a tutti. Purtroppo, aveva anche dovuto raccontare
alla Polizia le circostanze dell'incidente che aveva subito prima, portandone ancora evidenti la
tracce sul volto. Di conseguenza i due attentati furono messi in relazione e la motivazione fu
attribuita al servizio giornalistico di cui avrebbe dovuto occuparsi.
Anche i giornali e le televisioni riportarono la notizia di quella bomba soltanto come un
secondo attentato al giornalista, che da quasi un decennio seguiva le vicende delle "
Organizzazioni a delinquere", senza fare alcun cenno né alla mafia, né alle vicende di Cesco e
del Professore.
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La sua presenza lì veniva giustificata dal fatto che era un amico di famiglia del
proprietario della villa. Nessuno, però, aveva citato il nome del proprietario, né tanto meno chi
esso fosse ed i suoi precedenti penali.
Era stato difficilissimo spiegare la presenza di "Peppe U Lofiu" nella villa e nella sua
stanza, ed ancor più che proprio lui, loffio per quanto fosse, s'era accorto dello sconosciuto che
scavalcava il cancello e che aveva una bomba.
Che lofiu era mai, uno che da lontano intuiva che una bomba stava per essere collocata?
Perché si trovava nella sua stanza anziché in quella del garage che gli era stata assegnata?
In quell'occasione Sesto si rese conto che era più facile indagare, che addurre
motivazioni credibili del proprio operato. Ebbene, lui era un giornalista e stava indagando sulla
sparizione del fratello di Peppe, perciò lo aveva chiamato nella sua stanza, perché stava
tentando di far riemergere dalla memoria di quel giovane menomato ogni ricordo che potesse
essere utile per le indagini. A quell'ora? Sì, quell'ora, la circostanza del recente trasferimento
dal paese e la maggiore benevolenza conquistatasi per l'adozione del cane randagio,
rendevano propizio e favorevole il momento per il suo scopo.
Il cane aveva fatto ritorno dall'inseguimento, poco prima che le forze di polizia
andassero via. Era ferito alla testa, ma era riuscito a portare via al malfattore un pezzo di stoffa
insanguinata del pantalone. Unico indizio su colui che aveva collocato la bomba.
E Settimo fu il vero protagonista di quella storia. Forse perciò la stampa e le
televisioni si occuparono marginalmente degli altri protagonisti.
Rientrati nella villa, fu preparata una buona colazione, che consumarono dopo una
lunga doccia.
Sesto si chiuse nella sua stanza e cercò disperatamente ed inutilmente il libretto che
stava leggendo.
Romanzo di Francesco Capuzzello CAPITALANDIA Cap. 9—11 ^ pag.
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