VolanZine n°9: tutti i racconti in concorso
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Questi racconti sono di proprietà dei legittimi autori, pubblicati in questo forum in licenza creative
commons.
I testi non riportano i crediti dei legittimi proprietari perché partecipano al concorso VolanZine che,
come da regolamento, prevede l'assenza dell'autore.
Dopo la scadenza delle votazioni, verranno resi noti i nomi degli autori.
Per contatti: [email protected]
Dicembre 2009
http://www.scripta-volant.org
E-book realizzato da Eleonora Lo Iacono
Redazione VolanZine: Luigi Bruno Cristiano, Eleonora Lo Iacono, Mirko Floria
[email protected]
VolanZine n°9: tutti i racconti in concorso
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VolanZine:
un gadget eccezionale!
Su un singolo foglio A4 è possibile stampare un racconto di
due cartelle e piegandolo in un determinato modo si può
ottenere una sorta di libretto che sta comodamente in un
taschino, e non ha bisogno di rilegatura.
Le Zine sono ampliamente usate da molto tempo, non ho
inventato nulla, le usano fondamentalmente per scriverci
pensieri e disegni, ci sono Zine che sono vere e proprie opere
d'arte. Se ognuno di noi scaricasse il racconto in formato Zine
che verrà confezionato dalla redazione e contenente il
racconto del mese, e se ne preparasse almeno dieci copie
spargendole in giro; non so dandole alle librerie, ai passanti, abbandonandoli sui tram come volete,
otterremmo una cosa che non si è mai vista, non in queste proporzioni, non con questi mezzi.
In pratica porteremo quel NON LUOGO che è la Rete nella Vita reale e dalla Vita Reale porteremo
i lettori alla Rete. Questo perché sulle VolanZine c'è un invito a chi le raccogliesse di raggiungerci
qui, di registrarsi e di dirci dove la hanno trovata.
Non aspettiamoci adesioni a centinaia, ma pensateci, tutto questo porta, con un costo praticamente
nullo, ad una diffusione nazionale (siamo dappertutto), e alla possibilità di farci conoscere come
singoli autori e come Associazione".
Le VolanZine saranno il biglietto da visita di questo gruppo, saranno la misura della qualità di
quanto scriviamo, saremo noi in molteplici luoghi, contemporaneamente, stando tranquillamente sul
divano.
Oh, bene.
Con l'ubiquità l'abbiamo risolta.
Ora c'è da pensare alla moltiplicazione dei pani e dei pesci.
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Luigi Bruno Cristiano
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REGOLAMENTO
1. VolanZine è un concorso per racconti brevi, per partecipare al quale è sufficiente la registrazione
gratuita al Portale Scripta-Volant.org. E' un concorso aperto a tutti i cittadini italiani, di qualunque
età purché maggiorenni.
2. Il concorso è gratuito e viene organizzato ogni due mesi
.
3. I racconti devono avere la lunghezza massima di 3600 battute spazi inclusi e devono essere
inediti.
4. Per partecipare al concorso, gli utenti, entro la data comunicata dalla redazione, dovranno inviare
via mail il proprio racconto, in formato word (.doc) a [email protected] ndicando il
titolo del racconto, il proprio nome e cognome e il nick in uso nel portale http://www.scriptavolant.org. Ogni autore potrà partecipare con un solo racconto
5. I racconti inediti saranno pubblicati in forma anonima sul Forum "Racconti in Concorso" e gli
autori potranno essere svelati solo a concorso concluso. Verrà inoltre realizzato un e-book, con tutti
i racconti partecipanti, scaricabile gratuitamente dal portale http://www.scripta-volant.org, per
facilitare la lettura agli utenti che li valuteranno.
6. A insindacabile giudizio della redazione, potranno non essere ammessi racconti che abbiano un
contenuto pornografico e/o offensivo.
7. I racconti pubblicati potranno essere letti, commentati e votati, entro i 30 giorni successivi alla
scadenza del concorso (la data verrà comunicata dalla Redazione), da tutti gli iscritti al portale che
abbiano partecipato al concorso e da tutti gli altri che abbiamo già inserito nel forum almeno 50
messaggi.
9. Gli utenti votanti sono tenuti a leggere e commentare tutti i racconti in gara. Sussiste comunque
l'obbligo di commentare almeno i cinque racconti preferiti. In caso contrario, il voto sarà annullato.
10. Gli utenti che abbiano partecipato al concorso sono tenuti a votare nel rispetto delle regole sopra
elencate. In caso contrario, il racconto verrà escluso dal concorso.
11. I racconti dovranno essere letti, commentati e votati con assoluta lealtà e schiettezza. La
redazione si riserva di annullare quei voti che siano in contrasto con questi requisiti.
12. Il racconto vincitore verrà pubblicato a cura della redazione in una VolanZine, distribuita
in tutta Italia. Partecipando al concorso gli autori acconsentono a cedere a titolo gratuito il diritto
di pubblicazione, riproduzione, diffusione e distribuzione al pubblico, all‟interno della VolanZine.
A Scripta-Volant è riservata la scelta del tipo di veste grafica. Tale concessione si intenda valida per
tutto il periodo di distribuzione. Concede, altresì, ove lo ritenesse necessario, il diritto di utilizzare
estratti dal racconto a fini pubblicitari e promozionali, in qualsiasi modo e forma.
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8. Il voto va espresso all‟interno del topic preposto, inserito ogni mese nel Forum “Cabina di Voto”,
dalla Redazione. Perché il proprio voto sia valido, ciascun utente dovrà indicare, in ordine di
preferenza, i cinque racconti preferiti. I voti espressi andranno in coda di moderazione e saranno
pubblici solo dopo la chiusura delle votazioni.
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13. La copertina della VolanZine potrà essere scelta dall'autore che potrà inviare alla redazione
un'immagine (di sua proprietà o che abbia il consenso del proprietario dell'immagine), oppure verrà
scelta un'immagine dalla redazione stessa.
14.Ogni autore dichiara che il proprio racconto è un‟opera originale di sua esclusiva paternità, che
non viola alcuna norma di legge e/o diritti di terzi e in particolare, non ha né forme né contenuti
denigratori, diffamatori o di violazione della privacy. In caso contrario, l'autore ne sarà l'unico
responsabile.
15. Partecipando al concorso, gli autori accettano tutti gli articoli del Regolamento
Link di riferimento:
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FORUM VOLANZINE
GUIDA COME PIEGARE UNA VOLANZINE
RACCONTI IN CONCORSO
CABINA DI VOTO
Seguono i 44 racconti in gara per quest‟edizione. Per ogni racconto sono disponibili due link: uno
per commentare il racconto nel forum, uno per votarlo.
VolanZine è un concorso a votazione pubblica: tutti gli iscritti che abbiamo inserito almeno 50 post
nel forum, possono votare!
Si vota entro il 6 Dicembre 2009
CONCORSO SEGNALATO SU:
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La Redazione VolanZine
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I vincitori delle precedenti edizioni:
VolanZine n° 8: Fanfara andante ma non troppo di Giuseppe Buscemi
VolanZine n°7: Adios Fidel di Luca Artioli
VolanZine n°6: Strega di Milena Esposito
VolanZine n°5: L'altro di Guido Oliva
VolanZine n°4: Quaranta di Piero Mattei
VolanZine n°3: Salsa & meringa di Attilio Facchini
VolanZine n°2: Orologi di Piero Mattei
VolanZine n°1: Niente di Strano di Eleonora Lo Iacono
VolanZine n°0: Coyote di Luigi Bruno Cristiano
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A ciascuno la propria notte
Oggi ho portato mio figlio al parco.
Oddio, forse parco è una parola grossa!
Ci siamo trasferiti da poco in questa città e tutto per noi è da scoprire.
Ho anche sbagliato lato, sono entrata dall‟uscita.
Mio figlio si avvicina di corsa alla staccionata che separa il giardino dalla zona riservata ai cani, attratto da quello che vede oltre. Lui vorrebbe entrarci a giocare… Come dargli torto.
Là ci sono, su un tappeto verde e morbido, strutture d‟abete chiaro per far giocare i cani. Là ci sono
anche cani e padroni.
Di qua, ci siamo solo noi. Lo sguardo si sofferma sulle due altalene: una è sporca di cacche di piccione, all‟altra manca una catena. Mio figlio verifica lo scivolo che non scivola.
Allora mi strattona la borsa «Mamma, se avessimo un cane, potremmo andare di là anche noi?» «Sì,
credo di sì» gli rispondo pensando che anch‟io vorrei un cane per passare di là, dove c‟è gente, dove
scambiare quattro chiacchiere fa arrivare prima l‟ora di pranzo di una domenica qualsiasi.
Mi siedo su una panchina di legno verniciato rosso, sull‟unica asse rimasta. Allora cerco di
decifrare frasi che ne ricamano la superficie, ma il tempo le ha rese illeggibili.
Ad un tratto mi sento osservata; i padroni dei cani mi fissano in modo strano, cattivo direi.
Distolgo lo sguardo per posarlo su un treno che sfreccia. Volti e storie mi passano dinanzi! Mi piacerebbe ascoltarle, rendermi conto che la mia storia qui, su questa panchina , non è troppo diversa
dalla loro.
Il parco si “popola”. Arrivano due vecchietti imbambolati, uno portato a braccetto, l‟altro spinto
sulla sedia a rotelle da badanti straniere, perse nelle loro lingue che qui nessuno capisce. Anche loro
ci scrutano in modo severo.
Penso: «Dove sono le mamme e i loro figli, i nonni e i nipotini, i giochi per i bambini?»
Ce ne andiamo, decisamente poco soddisfatti della nostra prima passeggiata nel quartiere.
E stavolta usciamo dal cancello dell‟entrata principale. Lì, mi sorride beffardo un cartello comunale,
tondo, con due pedoni, uno grande e uno piccolo che si tengono per mano, barrati di rosso. Mi intima, senza eccezioni, che durante il giorno mio figlio non può entrare nel giardino nemmeno se condotto al guinzaglio!?! No … a mano!
Questo mi irrita moltissimo ed al tempo stesso m‟incuriosisce.
Così, la domenica successiva, attendiamo in casa le otto di sera per uscire. È già buio, del resto è
anche settembre. Mentre ci dirigiamo al parco, schiamazzi giocosi ci giungono sempre più forti. Il
giardino è illuminato. Un gruppo di bambini ha inventato il modo di sfruttare lo scivolo che non
scivola. I nonni girano in tondo, mano nella mano, con i nipotini di tutti. La staccionata dei cani è
dei bimbi più piccoli che provano i primi passi appoggiandosi ad essa.
E poi ci sono mamme che fanno le mamme.
Mi avvicino ad una e chiedo: «Scusi, sono nuova di qui. Mi può spiegare il perché di tutto questo?»
«Di tutto cosa?»
«Del fatto che il giorno il parco è senza bambini. E stasera invece è intensamente vivo.»
Mi guarda stupita, quasi fossi un extraterrestre.
«Da dove viene lei? Strano che non sia informata. Non sa che da quando esiste la clonazione, i figli
propri non sono più ammessi dalla Regione? Le nuove leve vengono prodotte e cresciute in laboratorio finché non sono pronte per servire la Società. È un risparmio del governo: niente figli, niente
scuole, niente parchi. I nostri sono gli ultimi e sono solo dei residuati, senza diritti. Non è ancora
stata convocata per la sterilizzazione?»
«Ma io non ho cani…»
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«Che ha capito! È per la sua sterilizzazione!»
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Amore a 360°
Oggi è morta mia madre: in coma da una settimana per un ictus, si è spenta all‟età di 87 anni.
Contro il mio parere, da qualche tempo era ricoverata presso una struttura per anziani dove,
nonostante la lontananza, venivo a trovarti ogni settimana evitando accuratamente chi non avevo la
forza di incontrare. Ma da quando i medici mi hanno informato che ogni momento poteva essere
l‟ultimo, non mi sono mai mosso dal suo letto e nell‟egoismo di figlio ho pregato affinché almeno
per una volta, aprisse gli occhi. Ora che li ha chiusi per sempre, con lei va via un pezzo di me che
nessuno conosce ma che lei hai capito ed accettato senza remore.
Domani ci saranno i suoi funerali.
A tutto ha pensato papà e con l‟occasione rivedrò parenti di cui avevo rimosso il ricordo: il loro
cerchio gonfio di provincialismo, mi ha costretto ad allontanarmi, non accettava diversità.
L‟ansia di quello che sarà domani mi stringe il petto in una morsa togliendomi il respiro. Sono le
due di notte: città di merda, voglio dominarti, farti a pezzi per sopravvivere a questa nuova ondata
di dolore.
Se prendo la macchina e ti percorro nel sonno sarai indifesa ed io mi riapproprierò di quello che è
mio, i ricordi, i posti, la mamma, senza continuare ad odiarti così tanto…le strade sono deserte:
sono tutti chiusi nelle mura sicure del loro cinismo, ma dormono ora e non possono più ferirmi.
Provo a chiamarti.
“L’utente da lei desiderato non è al momento raggiungibile…”
Già, che stupido,dimenticavo che sei in vacanza con la tua famiglia ed io non sono autorizzato a
chiamarti: sono il tuo amore clandestino.
Posso solo viverti nell‟ombra, in una dimensione irreale come il buio della notte…se tua moglie
sapesse!
Quante volte le hai raccontato mille bugie pur di stare con me: ma questa città infame ha sussurrato
nelle sue orecchie voci di una tua probabile storia…bastarda città che non si è fatta i cazzi suoi,
chiusa nel pettegolezzo di chi non ha vita propria e sporca quella degli altri per esistere. Vipere
malelingue.
“Dobbiamo preservare il nostro amore dalle cattiverie…”
Ma tu sai quanto sto male ora? Non so dove sbattere la testa e non posso neanche chiamare al tuo
fottuto cellulare.
“Sparami adesso bersaglio mancato
provaci ancora è un campo minato
quello che resta del nostro passato
non cancellarlo è tempo sprecato…”
Canto a squarciagola con Giuliano, voglio spezzare il silenzio di una città che non merita il sonno
tranquillo perché non è abitata da giusti.
E corro, corro, corro.
Servo del mio amore a 360°…ma purtroppo sono un uomo come te. Te, che per salvare la tua faccia
perbenista, davanti a tutti mi hai deriso per poi scoparmi di nascosto.
Solo lei sapeva, mamma mia, ma ha accettato e taciuto: tu mi hai rinnegato.
“Dobbiamo restare nascosti, non conviene a nessuno dei due…”
Non conveniva a te, a lei, al tuo portafogli gonfio dei soldi di famiglia.
I fari di un tir mi accecano: nel silenzio della notte, rumore di lamiera contro lamiera. Una sterzata a
360° come il mio amore, a 180 km/h, veloce come la mia sofferenza.
Giuliano ancora canta: “…scagliala tu perché ho tutto sbagliato…”
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Bitch Volley
“Ma dai?”
“Sì, davvero!”
“Più di una volta?”
“Direi! Che facevo lì? Con Dario che continuava a fare tutti i tornei, con Andrea che,
fortunatamente, non si staccava dagli amichetti del baby club, io che potevo fare?”
“Certo, scoparti il bagnino!”
“Ovvio! A trentotto anni farsene uno di quindici di meno mica è da tutte no?”
“E com‟era?”
“Màh, insomma, di sicuro gli ho insegnato un sacco di cose. Non posso dire di averlo fatto solo per
il sesso, direi piuttosto per divertirmi un po‟. Un gioco e niente più. Comunque, diciamo che
fisicamente non era proprio messo male. Ovunque!” e fa una risata, seguita dalla sua amica
d‟infanzia.
Quindi Marisa accende un‟altra sigaretta, una di quelle fine e lunghe che si fumano quasi solo per il
gesto che per il vero e proprio contenuto.
E Claudia, l‟amica fedele, continua a guardarla.
“Che c‟è?” dice Marisa soffiando annoiata una boccata di fumo trasparente.
“Niente, pensavo a Dario che sudava a giocare e a te che sudavi a fare altro”.
Ridono.
“Sì, in effetti, i tornei di pallavolo dovrebbero farli di notte, staremmo tutti più freschi” e le risate
diventano ancora più larghe.
Claudia si avvicina per evitare che gli altri avventori del bar in cui sono sentano i loro discorsi. “Ma
dove siete andati?”
“Dove c‟era meno gente. Certo, di giorno non era facile ma lui conosceva posti nascosti. Una volta
nel deposito delle canoe. Si stava di uno scomodo!” con un gesto della mano sembra voler
allontanare il ricordo.
“Ma Dario non s‟è accorto mai di niente?”
“No, figurati, come se ne poteva accorgere? Fra una schiacciata e un muro?” alza il sopracciglio e
guarda la sua amica da sopra gli occhiali D & G.
“Certo che sei proprio una stronza…” le dà uno schiaffetto su un braccio “Ma perché non lo lasci?”
“Lasciarlo? E perché? Sai quanto costava quell‟albergo?” fa un‟altra tirata di sigaretta “meglio che
non te lo dico” sembra fermarsi a riflettere un secondo “Chi me lo fa fare? Lui si diverte con il suo
sport…”
“Già” la interruppe Claudia “e tu ti diverti col tuo” e giù con un‟altra fragorosa risata.
“E il bagnino?”
“Bèh, voleva il mio numero. Ha detto che voleva venirmi a trovare. Poverino, aveva gli occhi lucidi
quando me ne sono andata.”
“Ci credo! E tu, gliel‟hai dato?”
“Figurati! A quel ragazzino. Mi sono divertita. Punto e basta. A casa ho distrazioni ben più serie.”
“Che tipo che sei!”
“Sai come si dice no? – Le brave ragazze vanno in paradiso, quelle cattive….. ovunque! -”
“Ah bèh, su questo sono d‟accordo anch‟io ma non so se riuscirei a fare quello che fai tu.
Specialmente con Andrea.”
“Lascia stare Andrea per favore, lui è l‟amore della mamma. Di certo non vorrebbe avere una madre
sempre arrabbiata e col muso lungo dalla mattina alla sera.”
“Sì ma forse c‟è una via di mezzo.”
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“Ognuno si diverte come può, lui gioca, io gioco. Lui paga, io spendo. I ruoli sono questi” poi
spegne la sigaretta facendo attenzione a non rovinarsi le unghie bicolore artisticamente disegnate.
“Eccolo che arriva,” Marisa alza il mento per indicarlo “oggi era giorno di tennis”.
Il bell‟uomo sui quaranta si avvicina alle due donne con due racchette su una spalla e un borsone
arancione sull‟altra.
“Sono in semifinale, amore” dice con aria gioconda “domenica pomeriggio vieni a vedermi?”
“Non lo so tesoro, Claudia mi ha appena chiesto di accompagnarla in centro”
“Come vuoi, non preoccuparti, divertitevi. Io intanto vado, ci vediamo a casa. A dopo. Ciao
Claudia!”
“Amore?” dice Marisa con una faccia imbronciata. Lui si volta, “E un bacio non me lo dai?”
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Catania on my mind
Era strano svegliarmi in una stanza d‟albergo nella mia città. Fuori le strade erano già animate. Non
mi andava di alzarmi per affrontare la luce del giorno. Mi aspettava un incontro. Forse con il
passato o con l‟imminente futuro.
“Da qualche parte dovrai pur ricominciare?” mi aveva detto Giulia o Adele. Non ricordo più il suo
nome.
Ricordo solo che era l‟ennesima notte piena di alcol e di paure. Lei era stata gentile. Le avevo
offerto da bere e mi aveva ascoltato. Attenta e partecipe.
La prima bottiglia di champagne l‟avevamo già fatta fuori. Ci demmo da fare con la seconda. Mi
accarezzò sul viso. Le fermai la mano perché volevo che quella carezza continuasse a lungo.
“Sì. Da qualche parte dovrò ricominciare” mi uscì dalla bocca.
Ho un ricordo sfocato di quella notte. Vedo che entriamo nella mia auto, saliamo in un
appartamento, ci spogliamo e facciamo l‟amore.
Le cercai la bocca. Le puttane non si fanno mai baciare là, ma lei lo fece. Forse aveva respirato la
mia disperazione. Gliene fui grato.
Al mattino la lasciai che ancora dormiva. Le misi sul tavolo della cucina il doppio di quello che mi
aveva chiesto, l‟accarezzai con tenerezza e me ne andai.
Fra poco dovrò affrontare il giorno, le strade che un tempo furono mie, ricordi che potrebbero farmi
male.
Prima d‟addormentarsi Giulia o Adele mi aveva detto: “Se ti manca il rumore del mare, se ti manca
il profumo della zagara, ricomincia da là”.
Sono in strada. La piazza dell‟università si è ingrandita. La vista verso il vulcano è perfetta. Sembra
che l‟Etna voglia fermarsi là.
Il sole non mi è nemico. Respiro l‟aria primaverile, me ne riempio i polmoni.
“Bisogna ripensare l‟idea di città” mi diceva Marta.
“Io voglio costruire tante piazze dove la gente s‟incontri, dove i bimbi possano giocare felici”.
Io volevo abbattere il ponte nero per restituire il mare alla città perché tornasse a essere una città di
mare. Se mai lo era stata.
Mi dirigo verso villa Bellini. Il posto del mio appuntamento. Ho l‟impressione che la gente mi
guardi. Mi rimproverano d‟esser tornato. Non è più qua il mio posto. Non devo dare retta a queste
paranoie e proseguire.
Sono in anticipo. E‟ una mia abitudine. Entro nella villa. Meccanicamente i miei passi mi portano
verso il grande ficus. Lui, testimone di piogge e di addii, è sempre là.
Tra pochi minuti arriverà. Ho scelto io di incontrarci a villa Bellini. Lei avrebbe preferito altrove,
ma accettò.
Quando me la vedo davanti, la guardo negli occhi. Sostiene il mio sguardo e mi saluta con un bacio
sulla guancia.
Come per tacita intesa, ci dirigiamo verso viale XX Settembre e poi percorriamo corso Italia. Il
rumore mi blocca.
Arriviamo a piazza Europa. Poso lo sguardo sugli scogli di pietra lavica. Il loro nero mi stringe il
cuore. Spazio con gli occhi verso Ognina e oltre.
“Se ti manca il rumore del mare…”.
“Eccoti il mare” interrompe il filo delle mie fragili sensazioni.
Mi giro verso di lei. I suoi occhi sono sempre di un verde intenso, però le guance sono scavate. E‟
lei la ragazza che era accanto a me quando la vita era pieni di slogan che volevamo far diventare
realtà.
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Entriamo in bar. Mi guarda incredula quando ordino un whisky con una minerale.
“Ogni bicchiere d‟alcol ti ruba un po‟ del tuo futuro”.
“Il futuro?”
“Eh già. Tu sei qua per il passato”.
Nella sua voce c‟è tanta delusione.
“Non solo per il passato…”.
Lei si alza e guadagna l‟uscita. Io resto con il bicchiere in mano e con gli occhi protesi verso il
mare.
Da qualche parte dovrò ricominciare, ma non qui.
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Che cosa c’è?
Mi stava aspettando davanti alla fontana illuminata. Erano le 20.40: “Dieci minuti di ritardo, il
giusto”, pensai. Lui era un ragazzo magro e più basso di quel che avevo immaginato, camicia
bianca, carnagione olivastra, piercing al naso e un brillantino all‟orecchio. Portava pure due collane
al collo, di cui una d‟oro: nella semioscurità era tutto un luccichio.
Era tutto sbagliato, me ne rendevo conto, ma ormai mi trovavo lì, stretta nel mio cappotto nero, gli
stivali con il tacco.
Dopo i preamboli di rito, seduto al tavolino iniziò a parlarmi degli episodi di violenza cui assisteva
quotidianamente, con toni lievi, come se mi stesse riportando notizie lette sul giornale: un detenuto
si era impiccato quel sabato, fortuna che lui non era di turno. Mentre raccontava non mi staccavo da
quegli occhi d‟un azzurro strano alla luce artificiale del bar, e vigilavo sull‟uso appropriato dei
congiuntivi: deformazione professionale, lo facevo con tutti.
A bruciapelo gli chiesi se aveva gli occhi blu; dopo qualche farfugliamento mi confessò che lo
sguardo blu cobalto era falso: portava le lenti a contatto colorate. “Ecco, ci mancava pure questa: il
ragazzo è vanitoso”. E quello che c‟era dietro, le parole malinconiche nel raccontare del suo lavoro
da schifo (“Ma ti ci abitui”, mi disse), del paese lontano, anche quello era falso? Non potevo capirlo
così, di primo acchito, malgrado l‟esperienza e lo spirito d‟osservazione; eppure sembrava sincero
e non potevo fare a meno di trovarlo eccitante, con la camicia bianca aperta sul petto glabro
(ceretta?) e abbronzato (lampade?); trovavo eccitante la nostra distanza in ogni particolare.
L‟intuito mi suggeriva di fuggire prima di farmi commuovere dalla sua giovinezza,
dalle sue storielle tristi e quella passione ereditata dalla mamma per la musica anni Settanta: Franco
Simone, Gianni Bella, Marcella…
Non sapevo se dare la colpa alla grappa che stavo bevendo, al suo essere così strampalato o alla mia
stupida curiosità, ma me ne stavo inchiodata alla sedia, fasciata nell‟abito elegante, inebetita ad
ascoltare le sue parole, a guardare il profilo aggraziato mentre ripercorreva con dovizia di
particolari l‟ultimo viaggio nella terra natale di Padre Pio e a San Giovanni Rotondo; io lì a
domandarmi se gli piacevo. Ad un tratto mi chiese se uscivamo dal bar, annuii, si accese una
sigaretta senza offrirmene una. Lo osservavo e trovavo affascinante il modo in cui teneva la
sigaretta tra le belle mani curate; io detestavo il fumo, anche perché mi faceva arrossare gli occhi
(indossavo le lenti a contatto a causa di una forte miopia).
Il parcheggio del centro commerciale così illuminato sembrava l‟ospedale, mi disse verso
mezzanotte, seduti in macchina… sembrava Las Vegas. Lui fumava e taceva.
“Che cosa c‟è?”
“C‟è che mi sono….”.
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Buongiorno, mi scusi fino a che ora siete aperti?
Fino alle 20.
E quando chiudete?
Scusi non è che per caso avete il phon a forma di telefono.
Non lo so signora, ma non credo. Comunque può provare a chiedere al reparto.
Sa, è per un regalo. Mi serve una cosa spiritosa. Phon, Telephon. Ha capito?
Buongiorno, dovrei pagare la rata.
Quale rata signora?
Questa. E mostra un bollettino di conto corrente.
Signora questo è un bollettino di conto corrente che va pagato alle Poste.
Si, ma è del televisore che ho comprato da voi.
Ho capito, signora, ma noi non possiamo accettare i soldi. Quei soldi vanno alla finanziaria.
Dove vanno? Alla finanza?
Alla finanziaria, alla società che ha anticipato i soldi per il suo acquisto. Noi come negozio i soldi li
abbiamo già avuti.
Ah. Li avete avuti? Allora non devo pagare più niente?
Adesso non mi prenda per matto. Ma il digitale terrestre perché si chiama così?
Aspetti non mi risponda. Le dico perché glielo chiedo.
Mio figlio a Natale mi ha regalato una macchina fotografica e mi ha detto che si chiama digitale.
Ora, per vedermi le partite in televisione, mi hanno detto che mi devo comprare il digitale terrestre.
E mi è venuto il dubbio che magari ce l'avevo già.
Quanto può costare un apparecchio di aria condizionata?
Ce ne sono di tanti prezzi signore.
Quello che costa di meno?
Partiamo da un modello a 7000 Btu che costa 350 euro.
Aria condizionata.
Si.
Ed aria incondizionata?
Scusi ma il tagliabarba elettrico lo posso usare col cane?
Lo deve chiedere al suo veterinario signora.
Si ho provato a chiamarlo, ma non risponde. Lei che pensa?
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Senta, ma il condizionatore d'aria si può mettere nel bagno?
Un condizionatore si può installare dovunque serve. Però il bagno è un ambiente piccolo per un
condizionatore.
No, il mio no. Ho un bagno enorme.
Come crede signora.
Che condizionatore mi consiglia?
Quant'è grande il suo bagno?
Non lo so adesso, ma è grande. Sarà 20 metri cubici se non di più.
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Io non saprei cosa dirle signora.
E' che lo devo tosare e mi hanno chiesto un sacco di soldi. Ed allora mi sono detta: tanto vale che
compro un taglia barba e ci penso io.
Ottima idea signora.
Buongiorno. Quando è il mio turno dovrei chiederle di uno stereo.
Ecco mi dica.
Dovrei comprare uno stereo.
Ha già qualche idea?
Mi serve potente. Molto potente.
Questo è dotato di un amplificatore che diffonde un suono di 100 decibel.
Non c'è qualcosa di più potente. Magari che funziona con i ventibel?
Buongiorno, posso chiederle una notizia?
Una notizia? Mi dica.
Devo acquistare un televisore piatto a rate. Siccome c'è il turno..., sa... neanche per aspettare a
vuoto..., che devo portare?
Intende dire quali documenti deve portare per ottenere il finanziamento?
Si.
Un documento di identità, una bolletta pagata, tipo Enel o Telecom... ed una busta paga.
Ma io non ho la busta paga.
Fa la dichiarazione dei redditi?
No, sono disoccupato.
Ha qualcuno che può garantire per lei. Suo padre, sua madre, sua moglie?
Non sono sposato. E mio padre e mia madre non abitano qui.
E non c'è nessun altro che può garantire per lei?
Silenzio.
Forse lei.
Lei chi? Io?
Si lei.
Ma noi non ci conosciamo.
E' da mezz'ora che parliamo. Ci stiamo conoscendo...
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Scusi che fate a pranzo?
Mangiamo.
Molto spiritoso. Intendevo dire se restate aperti.
No signora. A pranzo siamo chiusi. Il negozio chiude dalle 13 alle 15,30.
Sa se ce n'è qualcun'altro aperto in zona?
Negozi di elettrodomestici intende?
No, dico in genere, anche altri.
Scusi, ma non ho capito. Non è per non farmi i fatti miei. Lei di cosa ha bisogno?
Di niente. E' che ho la pausa pranzo pure io e volevo passare un po' di tempo.
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De natura deorum
Sono pronto a scommetterci. Se non ve lo dicessi, non indovinereste mai chi sono.
Io sono un‟entità unica. Esisto da tanto tempo. Sempre qui, nei secoli dei secoli.
Anche se oggi è diverso. Intorno a me è tutto cambiato. Irriconoscibile, sudicio, caotico.
Gli uomini si rivolgono a me irriverenti. Secondo loro, io posso soddisfare i loro desideri. E allora
mi chiedono di risolvere i loro problemi terreni, di realizzare i loro sogni materiali.
Mi consegnano richieste di tutti i tipi. Loro li considerano desideri nobili e romantici. Io invece li
trovo assurdi, folli, malvagi, perniciosi.
Non si rendono conto delle cose irragionevoli che mi chiedono. Voi non potete immaginare quanto
inganno si nasconda, nei risvolti di richieste apparentemente magnanime.
Gente che desidera che il vicino cambi casa, o che gli muoia il cane. Chi vuole moltiplicare il
proprio patrimonio, chi me ne chiede quanto basta per poter esibire una nuova auto, chi mi elegge
giudice tra due contendenti che si consumano di odio, chi ha paura di non riuscire a dimagrire in
tempo per l‟estate, chi non riesce a confidarsi col coniuge.
Qualcuno arriva addirittura ai ricatti. Proprio così, amici miei, non stupitevi! C‟è anche chi mi
guarda dall‟alto.
“Allora adesso vediamo, se è vero che sei quello che sei, entro tre giorni devi farlo tornare da me”
mi sento rivolgere, con aria di sfida.
Ogni giorno, secondo questi uomini stolti e dissennati, io dovrei aggiustare una vita, cagionando la
rovina di almeno altre due.
Ebbene benedetti figliuoli, sono tante le disgrazie che gli uomini si augurano tra di loro che, se
decidessi di realizzarle tutte insieme, allora il mondo si autodistruggerebbe in un solo secondo!
Sarà un difetto di fabbrica dell‟essere umano. Un errore di creazione originario.
Certo, lo ammetto, mi capitano anche episodi divertenti. I bambini, per esempio, mi chiedono
spesso di cambiare mamma e papà. Non nel senso di migliorarli! No, vogliono proprio sostituirli
con due nuovi!
Ma gli uomini sono davvero strani. Affidano i loro desideri a me, e poi credono sia merito mio, se si
realizzano.
Io, per carità, glielo lascio credere, mi fa comodo. Ma non faccio niente. Sono loro stessi a far
accadere le cose, oppure a impedirle.
Pensate a due innamorati, che mi rivolgono entrambi il segreto desiderio, senza confessarselo l‟un
l‟altro. Mi pare ovvio che se poi il loro amore si realizzerà, sarà nella natura delle cose. Sarete
d‟accordo anche voi, immagino. E‟ chiaro che entrambi faranno il possibile perché il loro destino si
compia.
Non vi sembra pazzesco che poi attribuiscano a me il merito? Io non faccio niente. Sto solo a
guardare. Cos‟altro dovrei fare?
I desideri non sono altro che propositi.
Gli uomini realizzano i propri progetti da soli, con sacrificio, coraggio, pazienza e determinazione.
Al contrario, senza tutte queste cose, falliscono.
Il vero problema dell‟essere umano è che ha bisogno di cercare le ragioni dei successi e degli
insuccessi all‟infuori di se stesso. Ha bisogno della fede. L‟uomo è credente.
E se non gli basta la fede, allora crede alla magia, alla fortuna, alla scaramanzia.
L‟uomo crede addirittura in me!
Ma signori miei, ormai l‟avrete capito anche da soli. Non sono mica Dio, io!
Io sono solo un‟antica e logora fontana dei desideri.
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Dicono io sia il più bel monumento della città eterna, ma son fatta di rancida roccia senza candore e
di travertino corroso dal tempo. La mia pancia è una vasca piena d‟acqua torbida e putrescente.
Non ho nessun potere speciale, io.
Come possono credere che, lanciandomi una insulsa monetina, io possa soddisfare le loro sciocche
richieste?
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Dieta
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In un lontano palazzo dal gotico stile.
All'interno di una grande sala dagli alti soffitti a volta.
Una scheletrica figura cammina avanti indietro completamente assorta nei propri pensieri.
Una tremolante luce di torce a petrolio riflette un ombra dal terrificante profilo.
Tante tele arredano le pareti del tenebroso ambiente con immagini di cruente battaglie e ritratti di
sinistri personaggi.
Tende scure impediscono alla luce di entrare dalle finestre.
“Niente carne rossa, al sangue.”
“Niente vino rosso rubino.”
“Niente grassi e dolci bocconi.”
Mugugna quasi scocciato con un filo di voce l'inquieto uomo nella stanza.
“Mangiare solo surrogati, e non bere nulla che possa danneggiare il prossimo.”
Borbotta alzando il tono in segno di evidente protesta.
Sulla lunga tavola in mogano nero che occupa il centro del cupo ambiente, ci sono due antichi
candelabri e un vassoio d‟argento pieno solamente di una sottile patina di polvere, assenza totale di
vivande.
“Dissociare gli elementi della stessa specie, recitano le nuove tendenze, le evoluzioni della ricerca,
ma cosa vorrà dire poi?” Continua gesticolando freneticamente.
“Ci manca solo l'astensione dal sesso e magari che i lupi mannari si trasformino in docili
cagnolini, e siamo a posto.” Impreca visibilmente alterato il magro soggetto del castello.
Da un remoto maniero della transilvania nel cuore della Romania domande convulse, pensieri
preoccupati sembrano non trovare soluzione.
“Chi sono questi nuovi vampiri che aborrano il sangue umano e placano la propria sete con vile
selvaggina, forse vampiri vegetariani?”
“Chi sono questi nuovi signori della notte che seguono questa particolare dieta e rifiutano il
sesso?” sibila con tono sinistro Dracula e poi, alzando ulteriormente la voce:
“Twilight, i Cullen, i licantropi della riserva di La Push, ma stiamo scherzando?” “Chi è questa tal
Stefany M. che racconta queste vicende?”
“Dove sono finiti i vampiri di Bram Stoker che rappresentavano crudeli, terrificanti, camaleontici
succhia sangue non morti esaltati tra lussuriose orge e famelici banchetti?” conclude Vlad urlando
con le mani affusolate protese verso il cielo.
Dal tenebroso castello alle pendici dei monti Carpazi, una sinuosa ombra vola via dalla torre più
alta scomparendo nel buio della notte.
“Questa scrittrice si merita una lezione, ora vado da lei, gli azzanno il collo e la trasformo in una
creatura del diavolo, dopo vediamo se si accontenterà di qualche coniglio” pensa sghignazzando il
conte.
Raggiunta la casa della S.M. Dracula entra da una finestra aperta, s'intrufola nella camera da letto,
si avvicina silenzioso alla vittima, scosta i lunghi capelli rossi dal collo, spalanca le fauci e morde
con tutta la forza, ma... uno sferragliare metallico risuona nella stanza, una pelle dura come il
marmo respinge l'attacco... “E’ veramente una vampira della saga di Twiligh!”, esclama sorpreso il
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“Mi chiamo Vladimir Draculea e non ce la faccio più!”
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conte.
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Il sole sta per sorgere nuovamente Vlad sotto le mentite spoglie di un pipistrello riprende
mestamente la via di casa consapevole di una triste verità, questa notte anche lui starà
rigorosamente a dieta.
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Festa a tema
In una stanza già buia, il raggio di luce emanato dalla piccola lampada da tavolo era ostacolato da
una pila di roba. Metà della mia tastiera era in penombra, così anche i miei pensieri. Bevevo latte e
fumavo qualcosa. E in quel momento qualcuno bussò alla mia porta.
Ebbi un tuffo al cuore, come se fossi stato beccato a farmi una sega. Cercai di ricompormi, non
aspettavo visite, chi poteva essere? Lo spioncino mi mostrava la figura di una giovane donna,
bionda, tinta. Non l'avevo mai vista, conosco quasi tutte le facce dei miei vicini...
"Salve... sono la nuova inquilina, volevo presentarmi...". Qualcosa puzzava, nessuna bionda mi era
mai venuta così incontro. Così risposi:
"Piacere di conoscerti, il mio nome sta sul campanello", e mi voltai per tornare a farmi seghe.
"Non andartene! Senti, davvero, io sto qui al quattro!".
Fui tentato un istante poi risposi:
"Ok, io rimango qui al sei per un altro po‟, magari ci becchiamo".
La sentii ammutolire, poi borbottare qualcosa.
Guardai di nuovo dallo spioncino, aveva un bel culo, piccolo e stretto nei jeans.
Tornai a sedere e a scrivere nella penombra di quella pila di roba distribuita come in una discarica.
Fui tentato per un istante, poi ripresi a scrivere. Bevvi altro latte e accesi altro da fumare. Finito il
pezzo, mi tolsi la camicia e mi misi a letto con ancora i pantaloni addosso, avevo un gran sonno.
Ma...
Faccia in aria. Su un fianco. Sulla pancia. Niente, non riuscivo a dormire. Prurito.
Ripensai con un pizzico di sospetto alla mia amica del quattro, ero curioso, era davvero la mia
nuova vicina? D'altra parte di dormire non se ne parlava. Così saltai giù dal letto, mi infilai la
camicia in gran fretta e mi apprestai alla porta. Buttai l'occhio nello spioncino per assicurarmi che
non ci fosse nessuno nel ballatoio, aprii e lo notai immediatamente. Il campanello del quattro era
nuovo! Su stava scritto: Vera Matta.
No, davvero questa si chiamava proprio così.
Ma pensa un po‟! sul cognome ci avrei scommesso, ma il nome... dai! Vera! Mozzava le gambe a
qualsiasi altro sospetto, così convinto mi buttai. E suonò, il campanello della mia nuova vicina
suonò.
Lei arrivò con la voce molto meno allegra di prima, era notte, forse avevo esagerato.
Guardò dallo spioncino e vide un uomo stanco, con le palpebre gonfie, con la barba incolta da
giorni, con i capelli arruffati e la camicia abbottonata di traverso.
Qualcosa gli puzzava. E rispose: "Chi é?"
"Sono Snelli... ehm... V.Snelli, il sei, il tuo nuovo vicino!"
Fu tentata un attimo poi rispose: "Bene, piacere. Adesso anche tu conosci il mio nome".
Si voltò definitivamente.
Chissà se il suo culo era stretto ancora da qualcosa? Ma brontolava sicuramente più di prima.
Mi voltai, deluso, ma consapevole di essermelo meritato. Infilai la chiave nella porta, fissai il mio
spioncino dall'esterno, avrei dovuto pulirlo, la polvere non permetteva alcun riflesso con effetto
fish-eye. Per questo non vidi arrivare quel coltello che invece notai, appoggiato, poco
comodamente, sulla mia gola, qualche istante dopo.
Non era Vera. Ma stava accadendo! La bionda, tinta, accompagnata da qualcuno di cui sentivo solo
le ansie, mi chiese di farla entrare. Stavolta non mi rifiutai. Pochi centimetri al di la o al di qua della
porta fanno una gran bella differenza! Il potere è una questione di posizione. Ero impotente ma
preferii non smettere di essere simpatico.
"Prego..."
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"Fai meno lo stronzo!" Lo serrò fra le labbra come un ringhio. Non riusciva a vederci l‟ironia.
Deturparono la mia casa. Poi me.
Almeno avevo la camicia a tema.
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Figlio d'arte
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Quando Jack Hibbets, capo della „Agenzia per Affari Eroici‟ gli annunciò che il governo non
avrebbe più investito nemmeno un centesimo nei super-eroi e che il suo gruppo “Nemici del
Crimine” era stato sciolto per via della crisi economica, Elwood entrò in depressione. Ripose il suo
super-costume nell‟armadio e per tirare avanti accettò il lavoro in quello stupidissimo Aqua-Park
gestito da Billy il cugino di Betty. Il suo potere “Empatia Marina” sarebbe servito adesso solo per
comunicare ai delfini le coreografie da eseguire.
Elwood era nato solo, voleva vivere da solo ma soprattutto non voleva mostrare quella sua
mancanza interna data dalla attanagliante solitudine, quella sua debolezza fatale. Betty spezzò
questa situazione conflittuale di Elwood e sempre la cara, leggera, svampita ma adorabile Betty
aveva nella sua mente, anzi nel suo ventre, qualcosa che avrebbe modificato per sempre la loro vita.
Dopo la sfuriata con Billy, il padrone dell‟Aqua Dreams e dopo aver litigato con il delfino
“Wonkie” la star dell‟acquario per avergli scombinato il gran finale dello show, Elwood aprì la
porta del suo squallido villino a due piani di legno nella zona più scalcinata del Queens.
Elwood era molto avvilito ma lo erano da sempre anche i cartelloni arrugginiti, le pubblicità cadenti
e le casupole grigie che componevano ormai da anni la schifosa scenografia della sua vita.
“Betty, tesoro, sono tornato!” grugnì Elwood chiudendo la porta di ingresso e sfilandosi il giubbotto
di tela azzurra con al scritta "Aqua-Dreams. Siete a corto di liquido? Ve lo offriamo noi!". Mentre
Elwood stava rimuginando questa accozzaglia di pensieri si accorse che l‟ingresso era addobbato
con palloncini rosa e celesti. Betty era vestita con un costume rosa da coniglietto e sorridente stava
fingendo di cullare un bambolotto in peluche raffigurante una pupazzo di un super-eroe.
“Betty hai comprato ancora l‟erba da Fatty?” chiese alterato Elwood.
“Nahhh!” rispose Betty avvicinandosi ad Elwood al centro del minuscolo ingresso e porgendogli il
bambolotto.
“Betty non mi incazzo se mi dici che hai comprato l‟erba da Fatty, ma mi incazzo se l‟hai pagata
come la volta scorsa!” Elwood strappò stizzosamente il bambolotto dalle mani di Betty.
“Amore.” disse Betty sorridendo toccandosi con tenerezza il ventre “Aspettiamo un bambino … ho
qui le ecografie …” Betty porse una busta beige a Elwood che arrossendo estrasse delle foto ed
iniziò ad osservarle.
“E‟ un maschio o una femmina?” chiese Elwood con la voce strozzata dall‟emozione guardando
Betty con gli occhi che distillavano lacrime di gioia.
“Guarda amore, guarda bene!” rispose con tono soave Betty.
Elwood osservò attentamente la sequenza delle immagini dell‟ecografia e vide migliaia di
ippocampi, delfini e stelle marine che roteavano nei turbini del liquido amniotico creati dalla
piccola creatura che pareva divertirsi.
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La vita tra Elwood e Betty non era stata tutta rose e fiori, la parte colorata di rosa della loro vita si
era presentata sempre dal lato del gambo: quella con le spine.
Elwood aveva conosciuto Betty in circostanze ben più eroiche che far saltare degli stupidi delfini
all‟Aqua-Dreams di Coney Island.
Elwood Mirsh, in arte „Aquo‟ il super-eroe mascherato maestro nel dominio dell‟acqua e delle
creature acquatiche, aveva conosciuto Betty mentre stava per essere carbonizzata da „Hotto
Fiammo‟, uno psicopatico che si era messo in testa di bruciare Manhattan.
Aquo salvò la sinuosa Betty dalla morte annegando i diabolici piani di Hotto Fiammo sotto migliaia
di metri cubi d‟acqua. Da quel giorno i due si innamorarono.
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Il corpo sei tu
Un cerchio di pietre, al centro un fuoco che arde.
E‟ notte, ed io sono immersa in un sogno.
Una vecchia dai lunghi capelli bianchi canta: le sue parole danzano nel fuoco come scintille, e
volano in cielo. Nella stessa notte stelle cadenti e stelle volanti s‟incontrano, si fondono e
confondono a mezz‟aria, pagliuzze d‟oro nei miei occhi incantati.
“Ora ti rivelerò un grande segreto”, canta la vecchia.
“Un segreto, un grande segreto… Il corpo. Il corpo, sei tu: sei tu il corpo”, dice: e canta, serena,
canta, la voce melodiosa ma sussurrante - canta.
“La vertigine che si è addensata improvvisa nel grembo di tua madre e nuotava nell‟infinito,
dapprima: tu.
Poi il contenimento, sempre più stretto fino a diventare massaggio morbido e poi contrazione,
pressione affinché tu scivolassi fuori dolcemente ma con decisione. Tu.
Tu anche quel sentirsi perduta nel vuoto, di nuovo, e cercar di riempirlo di te, e riempirlo solo a
patto di essere abbracciata, avvolta, contenuta: contenta, con-fusa.
Tu, che nuotavi finché non hai imparato a camminare, e poi nuotavi ancora, ma solo nei sogni.
Tu, che cercavi di spingerti lontano, sempre più lontano, alla ricerca di un orizzonte irraggiungibile.
Tu che cercavi di fuggire la con-fusione, e poi che ti ci ritrovavi immersa, nell‟amore.
Tu, il corpo che conteneva e generava per questo, riempiendosi di vuoto e di pieno e poi ancora di
vuoto e di pieno, senza tregua.
Tu, il corpo che ti dava la possibilità di generare anche con l‟Anima, o con la Mente.
Tu che cercavi un senso in ogni cosa e ti facevi mille domande per tutto.
Il corpo sei tu: tu che ora sei al limitare di un‟altra terra, forse la Terra di Mezzo.
Tu che senti come nel declino incombente c‟è tutta la storia mai narrata di un sole che scivola tra i
monti per spuntare da un‟altra parte in un‟alba mai vista, fiammeggiante.
Tu che vivi il presente, finalmente, e scopri segreti mai prima neppure sussurrati, e sai assaporarli, e
aspirarne il profumo, e sentirli, con le orecchie, nel cuore, nel grembo, nelle viscere e con tutta la
pelle, e parlarli, quei segreti, nella loro lingua muta, finalmente nota.
Il corpo. Sei tu.”
Danza, la vecchia ossuta, danza e sorride, e mai ho visto un‟immagine così sensuale.
Danza, e prende per mano un uomo, lo trascina con sé, lo anima di se stessa – un uomo ossuto
anche lui, severo, antico, mite, che le restituisce pienezza.
Mi sveglio, e il fuoco è ormai spento.
Smuovo la cenere, e mille piccole scintille prigioniere volano in alto, libere verso un‟alba
imminente, profumata di nuovo.
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Il desiderio sognato
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Corrono, ridono, gridano i bimbi nel parco fiorito. Volano felici sulle altalene, rincorrono un
pallone colorato.
Due fratellini in disparte si tengono per mano, si guardano intorno timidi, quasi spaventati, parlano
poco, non capiscono gli altri bimbi.
Nel Kossovo la loro casa è stata bruciata: devono ricominciare a vivere in un posto nuovo.
Accennano un gioco, non staccano le mani corrono. Insieme. Si strappano a vicenda un sorriso,
sembrano per un attimo due bimbi spensierati. Sporchi, stanchi e affamati, mentre arriva
l'imbrunire. È tardi, tempo di tornare a casa.
Mamma e papà si apprestano a radunare i giochi, a richiamare i figli. Da lì a poco il parco si svuota,
i bimbi tornano nelle loro case felici stanchi, sereni.
Nessuno si cura di loro, è tardi, è l'ora di cena. I fratellini rimangono a guardare, il parco ha
cambiato il suo colore, nei loro occhi smarriti, la tristezza prende posto.
Da bravi, come due ometti, vanno verso una panchina coperta da un cespuglio: si abbracciano si
tengono per mano, aspettano. Aspettano la madre, hanno solo lei, va in giro in cerca di un lavoro: da
tempo, non trova niente. È molto tardi quando la vedono in lontananza. Triste e disperata, cambia
espressione alla vista dei bimbi.
Sorride, li abbraccia, li rassicura. Sulla panchina stende un tovagliolo candido, tre pezzi di pane, tre
mele profumate un poco d'acqua. I bimbi sono felici, la mamma è tornata, la cena è pronta.
Finalmente si accendono i lampioni, fioca è la luce del parco, tutto è silenzio, di notte non gioca
nessuno. La madre con la morte nel cuore ancora una volta sceglie un cespuglio più grande, stende
sull'erba una coperta, due maglie di lana, mette i bimbi a letto, racconta loro una bellissima storia, la
storia di due bimbi meravigliosi e buoni.
Loro sono sereni adesso, si addormentano sognando di giocare. La madre piange mentre veglia sui
due cuori innocenti, aspetta l'alba con la speranza nel cuore.
Speranza che un sogno desiderato si avveri anche per loro.
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La bambina
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La bambina era in piedi davanti a lui. Nuda. Troppo giovane per sentirsi pienamente consapevole,
ma non così giovane da volersi tirare indietro.
La fiducia era ciò che l‟aveva condotta in quella stanza. La fiducia in quegli occhi che l‟avevano
tanto implorata. Lui la prese per mano e la baciò. Lei si lasciò guidare fino al bordo del letto, senza
abbandonare le sue labbra.
Un brivido le percorse la schiena, facendola sussultare. Lui lo avvertì e la strinse forte a sé. Sapeva,
nel profondo del suo cuore, che sarebbe stato difficile rinunciare a lei.
Le goccioline di sudore sulla fronte della bambina brillavano nella penombra come un filo di perle
preziose. Lui le asciugò una ad una con le labbra mentre delicatamente le sollevava il mento.
Lei non era in grado di comprendere il suo desiderio, ma lo accettava con serenità. Immaginava di
desiderarlo anche lei. Lo aveva pensato nell‟istante in cui lui le disse che l‟amava sopra ogni cosa.
Lei non era sicura di cosa fosse l‟amore, ma lo accolse con la purezza del suo sospiro nel caldo di
una giornata estiva.
C‟era silenzio nella stanza, solo il loro respiro. Lui l‟aveva sollevata come se non avesse avuto
peso, come se avesse avuto paura di romperla. L‟aveva adagiata nel letto con la delicatezza che si
ha nel cogliere un fiore.
Le sue mani scorrevano a fatica lungo i fianchi, frenate dal sudore che s‟impadroniva della pelle
liscia. L‟esplorava lentamente. La bambina si faceva scoprire senza opporsi, reclinando la testa
all‟indietro.
Lui la guardava in viso. Lei teneva gli occhi chiusi e la lingua a guardia delle labbra. Restava
immobile, sdraiata supina ad attendere un bacio. Paziente nella sua innocenza.
Lui la lasciò aspettare e affondò il viso tra i suoi capelli. La sua lingua tracciò il contorno
dell‟orecchio. Lei trasalì, ma non si scompose.
Con piccoli baci costeggiò il collo, sorpassando i morbidi seni appena accennati e l‟ombelico a
coppa arrivò a scoprire il suo respiro nel ventre. Un percorso in discesa volto a cogliere la voglia
immortale schiusa per ricevere il suo tocco.
Lui avrebbe voluto fermare il tempo nel momento preciso che entrò in lei.
Si aprì, la bambina, per accoglierlo meglio nell‟impeto del suo piacere. Un gemito umido per il suo
cuore che esplodeva dal petto.
La bambina cresciuta rideva con le amiche. Ogni tanto si girava di lato e gli offriva la freschezza
del suo profilo. Lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalle sue piccole mani che portavano il
bicchiere di Coca Cola alle labbra.
Le tre ragazze, si alzarono per andare alla cassa. Lei pagò e mentre riponeva il portafoglio nella
borsa si girò verso di lui.
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Seduto al tavolo di un bar di periferia lui la osservava da lontano. Non poteva vedere il suo viso, ma
era sicuro. Era lei, la bambina cresciuta.
Non l‟aveva più rivista da quel lontano pomeriggio di vent‟anni fa. Lei era partita il giorno dopo per
le vacanze. Lui l‟aveva cercata tanto nei mesi successivi, ma sembrava sparita nel nulla. Non ebbe
più alcuna notizia, mai più.
Lui la vedeva di schiena con i lunghi capelli corvini che le accarezzavano la curva del collo, quel
dolce raccordo tra orecchio e spalla in cui lui aveva raccolto il suo profumo. Ora era lì, la sua
bambina, seduta a pochi metri da lui. Tenera vergine maturata in una giovane donna.
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“È proprio lei” pensò.
Lei sembrò notare l‟espressione turbata sul suo viso e gli donò un dolce sorriso.
Poi si voltò ed uscì per sempre dalla sua vita.
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La dolce inquietudine degli elementi
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Un vigneto inselvatichito ed un melograno abbandonato a se stesso celarono per poco la vista di un
piccolo casolare, anch‟esso in disuso chissà da quanto.
Pietre di tufo e di arenaria rabberciate l‟una con l‟altra con sola calce e fango essiccato, l‟odore di
muschio e paglia ammuffita, non potevano lasciare dubbi sulla vetustà dell‟immobile, per altro con
l‟unica porta d‟ingresso divelta e ridotta quasi in trucioli.
La pioggia praticamente cessata e l‟imbrunire del pomeriggio schiarito dalla luna crescente che ora
squarciava le nubi, indussero il viandante a trovarvi dimora più accogliente di quanto l‟infausta
giornata trascorsa lasciava presagire; si adagiò nell‟angolo più asciutto del pavimento ed estrasse
dal fedele tascapane una radio portatile nuova di zecca, ma il brusio confuso di un notiziario, per
giunta in una lingua a lui sconosciuta, lo convinsero a riporla.
Allora con la luce fioca di una torcia cercò consolazione sfogliando le pagine di un libro che
conservava da anni come un feticcio: una vecchia edizione di un‟opera di Ennio Flaiano, autore per
il quale nutriva tale venerazione, da non riuscire che a leggerne di tanto in tanto qualche frase, e
persino a distanza di mesi.
L‟aurora nebbiosa lo colse rintronato e legnoso nei movimenti; stropicciandosi gli occhi arrancò
verso la strada provinciale più vicina, resa visibile dalla pallida luce mattutina, mentre i rumori di
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Il quintuplice codice alfanumerico delle notizie mal trasmesse e rattoppate nel palinsesto di una
emittente cortocircuitata, implodendo esplose.
Dai boccaporti delle impotenti casse di risonanza lettere, cifre e note, tra loro oramai sconnesse,
fuoriuscirono all‟impazzata con l‟impeto travolgente, imprevedibile, paralizzante, dell‟estremo
azzardo.
Non era ravvisabile una logica del tutto per tutto: forse del tutto per Qualcosa o per Qualcuno.
Naturalmente per chi una superstite logica si ostinava faticosamente a ricercare.
Cadde una fitta e gelida pioggia che perdurò.
Le ciglia e le sopracciglia dell‟occasionale viandante non potevano e non volevano arginare l‟acqua
in piena.
La fissità dello sguardo, abituato ed imperterrito di fronte alla tempesta che nessuno avrebbe saputo
identificare o collocare nella casella delle stagioni, cedette all‟incertezza e alla titubanza solo
quando il padiglione auricolare colse un suono articolato, ignoto eppure vagamente familiare.
Una allodola, sfidando il disagio, con decisione spiccò il volo dal ramo che la ospitava e la riparava.
Le labbra del viandante, fino a quel momento orgogliosamente serrate, si dischiusero appena ed
accolsero con stupore non curante i rigagnoli di pioggia che levigavano il volto, seguendo i percorsi
irregolari delle pieghe della pelle scabra, attraverso il promontorio del naso adunco.
Per qualche incomprensibile ragione gli parve il caso di rassettarsi con due colpi di mano i capelli
inzuppati e resi oramai incolori dal tempo.
Abbandonò il sentiero campestre ed inconsultamente allungò il passo, addentrandosi privo di
orientamento nella pianura terra di nessuno, lasciando che il senso della territorialità diventasse
l‟ultima delle sue preoccupazioni.
Uno sparo di fucile in lontananza lo scosse per alcuni secondi richiamando la sua mente in stato di
levitazione, alla corporeità assopita e quasi anestetizzata.
Il fagiano per questa volta l‟aveva scampata bella, ed una lepre nascosta nell‟erba alta, anziché
fuggire si accovacciò ancor di più, come se la lontananza del pericolo e la vicinanza del malaccorto
viandante la avessero rassicurata.
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alcune macchine agricole annunciavano il risveglio della società circostante.
Meditava confusamente ancora su alcune massime di Flaiano, quando inciampò in una radice
dissepolta di gelso e stramazzò goffamente. Per la prima volta dopo giorni, riuscì a sorridere e poi a
ridere in maniera quasi ebbra: pensò a quanto serie e profonde siano le persone che riescono in
questa impresa.
Forse per la prima volta si sentì degno di cotanto autore ed alleggerito nella propria incapacità di
leggerlo.
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La favola delle prugne secche
bene
30
Giallo nella Perugia
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volte l'accompagna. Si sono conosciuti Alessandra e Rinaldo in una sala di posa, lei posava nuda e
lui provava a dipingere. Provava, Rinaldo non è un artista. E mentre dipingeva, passava il suo
pennello sulle curve dipinte di Alessandra. E dipingendo, l'amava. Prima di allora non l'aveva mai
toccata.
Eppur toccandola, non l'aveva amata. Non ce l'aveva fatta, ma l'avrebbe sposata. L'avrebbe.
Alessandra si veste di nero, è d'obbligo in casi di lutto. Rinaldo è stato trovato morto, riverso nel
fiume in fondo alla città. La città piange, Rinaldo era molto amato. Come Alessandra. Anche lei era
molto amata. Da Tersicore e da tanto tempo. Veniva dalla Grecia Tersicore ed era professore di
filosofia. L'amava senza dipingerla, ma l'amava con tutto se stesso. Chi ha ucciso Rinaldo?
Qualcuno dice si sia lanciato nell'acqua torbida, qualcuno dice che il torbido della sua vita l'abbia
ucciso. Rinaldo, Alessandra e Tersicore.
E la favola delle prugne secche. Un detto popolare delle nostre parti racconta che le prugne secche
siano lo sterco degli dei. Frutti preziosi e dolci, ma che nascondono insidie e tranelli. Alessandra e
quel cappello nero. Tersicore che guarda da lontano. Rinaldo che, una manciata dopo l'altra,
scompare sotto la terra che l'ha tanto amato. Rinaldo e il suo segreto. Rinaldo e quell'amore mai
amato. E quella donna che suonava l'arpa e posava nuda. Per Rinaldo che la dipingeva e per
Tersicore che l'amava. Rinaldo e Tersicore. Tersicore e Rinaldo. Chi ha ucciso Rinaldo? Alessandra
o Tersicore. Tersicore dov'era quella sera? E perché nelle tasche di Rinaldo c'era un fazzoletto con
le iniziali di Tersicore. Alessandra ha visto ma non parla. Ma se è stato Tersicore, perché lasciare
quel maledetto fazzoletto sul cadavere? Alessandra difende Tersicore, in fondo lo ama. Anche
Tersicore la ama,l'ha vista posare nuda tante volte. Ma Tersicore amava anche Rinaldo. E dunque?
La polizia indaga.
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Alessandra non è una bellezza e Rinaldo è nobile ma non è un artista.
Alessandra suona l'arpa ma non fa la musicista e Rinaldo è brizzolato ma non è vecchio. Si amano,
stanno insieme e forse presto si sposeranno. Le prugne secche sono dolci e piene di polpa, perché
spesso le apparenze ingannano, come inganna l'apparenza di Alessandra e Rinaldo. Alessandra
spesso posa nuda e a volte ha posato anche per Rinaldo. Ma lo fa anche per gli altri, e Rinaldo a
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La fine è senza attese
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Jeremy lo sai che non dovevamo cacciarci in quella situazione di merda.
Dove ce ne andremo adesso?
Vedo le foglie calpestate dai tacchi a spillo di quella donna di malaffare che col gonnellino
spiegazzato osava anche giocare in borsa infilandoci dita, mani ed altro. In quel suo maledetto
portagioie e dolori dove nello specchietto si rifletteva tutta l‟assurda malinconia che ci ha portato ad
essere qui, soli, nell‟immenso universo dove crediamo ancora di vivere.
Ma dove viviamo, dove stiamo vivendo?
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Renditi conto, e dico conto per non dire calcolo, dobbiamo enumerare tutte le enormi sfide a cui
quella donna ci ha sottoposto Jeremy. Domani andremo al mare, sfideremo le onde, fionderemo
palline di caucciù ai gabbiani, colpiremo il sole con la nostra pelle riflessa, ci riempiremo di sabbia
e rancore. Dobbiamo andar via. Questo non è il nostro vero territorio, dobbiamo combattere contro
le tempeste, contro le finte feste, contro l‟atmosfera che ci soffoca e l‟acqua che ci fa annaspare in
un fetido buco nero di bollicine avvelenate.
Dobbiamo lottare contro quella donna.
La nostra Madre Natura è impazzita Jeremy, noi non ne facciamo parte, dobbiamo abbatterla.
Partirono i battelli oltre le coste d‟avorio e quelle di smeraldo, oltre il lontano lido che andava al di
là di ogni orizzonte. La casa era lì vicino al faro. Un faro spento da anni.
Ti ricordi quando giocavamo intorno a quel faro? Ricordi, ricordi quando ci tenevamo per mano
contando i nostri passi sulla sabbia?
Ogni chicco di sabbia era il nostro Dio. Adesso, cosa ci resta?
Il canto del gabbiano morì come le sue ali, cadde lì in quel punto del mare, un altro buco nell‟acqua.
Le città di notte si erano spente tutte ed era giunta l‟ora di evadere e vedere altre forme di vita
simile alla nostra. Forse lassù in alto, vicino ad una stella lontana, sì, vicina e lontana. Mai erano
state così a corta distanza tra loro.
Era la fine del mondo Jeremy.
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La mosca
Ho tre lauree, una in medicina, una in biologia, una in scienze naturali e sono ora una mosca.
Avevo, prima, delle ambizioni , dei sogni, ma le mie fantasticherie morirono istantaneamente
quando accettai una proposta di lavoro a due passi da casa.
E‟ un piccolo laboratorio di analisi mediche nascosto in un triste anfratto cittadino, che in teoria,
come recita la carta dei servizi, dovrebbe fare dei prelievi di sangue, studiare le intolleranze
alimentari, fare ogni sorta di esame microbiologico, citologico, batteriologico, ed estendere le
proprie attività alla medicina del lavoro. La sorte canaglia volle che si specializzasse in analisi di
campioni biologici e cioè di orine e di feci, involontaria vocazione che fu all‟origine della mia
metamorfosi.
Quando misi piede per la prima volta nel laboratorio, avvertii un odore così forte, così acre che,
scorgendo un pozzetto d‟ispezione fognaria nel centro della sala d‟attesa, messo lì a dispetto delle
norme igieniche, pensai a qualche problema allo scarico che solo l‟autospurgo poteva risolvere. Ben
presto mi resi conto che la causa delle esalazioni mefitiche erano i campioni che vi ho detto i quali
affluivano in enorme quantità creando, oltre al problema delle analisi, che inevitabilmente
procedevano a rilento, quello dello stoccaggio e dello smaltimento. Ce n‟erano dappertutto, su tutti i
ripiani, per terra, sulle scrivanie, sotto, nei cassetti. I campioni provocavano questi inconvenienti
logistici, tormentavano l‟olfatto dei presenti e attiravano centinaia di mosche e mosconi. Ma non vi
è nulla a cui non si possa abituare l‟essere umano, specialmente quando è costretto a convivere con
la causa dei propri mali. Già dopo alcuni giorni il mio naso non sentiva più i cattivi odori e, alla
lunga, gli insetti volanti divennero dei compagni di viaggio oltre che dei commensali, quando il
carico di lavoro mi costringeva a consumare i miei pasti in sede.
Questa promiscuità forzata, la mia specializzazione in entomologia, la mia curiosità naturale mi
portarono ad approfondire i comportamenti delle mosche e credo di avere appreso da loro più di
quanto un essere umano possa mai apprendere in una sola vita. Ammetto che la nostra convivenza
fu inizialmente difficile, sofferta, specialmente in quei momenti di incomprensione reciproca tipica
delle fasi di studio dei rispettivi linguaggi e delle rispettive identità. Ma una volta stabilito un
minimo di comunicazione i nostri rapporti diventarono molto più collaborativi e, oserei dire,
simbiotici.
L‟avventura cominciò alla mia insaputa, in un momento imprecisato e per delle ragioni che ancora
ignoro. Me ne resi conto quando mi erano già spuntate le ali, che ovviamente tenni nascoste sotto i
vestiti. Quando anche la testa e il resto del corpo iniziarono la loro trasformazione, decisi di non
togliermi più né cappello né mascherina né occhiali da sole né guanti e, per sottrarmi alla vista dei
miei colleghi, di confinarmi nella mia porzione di laboratorio, in pratica uno sgabuzzino, in un
esilio volontario che durò molto meno di quanto pensassi. Fui mosca in soli tre giorni e soli tre
giorni mi rimangono da vivere.
Ma ho appreso ad accettare la morte, l‟ineluttabile, orrenda morte, e a gioire pienamente della vita,
con tutte le mie forze, per quel che mi dà, ogni giorno, in abbondanza. Come me altri, sette in tutto,
che hanno subìto la mia stessa metamorfosi: siamo ormai in otto a fonderci in un rombare allegro,
felice, in un vibrante, inebriante inno alla vita, e a sfregarci le zampette quando lo “chef” sorridente
apre la porta e ci consegna la "Nutella".
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33
La notte dell’artista
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Io sono il creatore, il pensiero, il volto.
Anni fa, ad esempio, scelsi il nero manto notturno. Lo presi tra le mani e cominciai ad attorcigliarlo,
ammatassai le nuvole e i grumi luminosi, aggrovigliando fra loro gas cosmici, pianeti e satelliti,
finché da quel continuo arrotolare ottenni una sfera. Decisi poi di segare in due la luna e mi accorsi
con gaudente ilarità che il suo dentro era cavo; d‟impulso lo riempii con quanto ammasso stellare
potei, quindi richiusi il tutto, e abbracciata la palla lunare, la portai con me dentro al buco.
Aspiranti compratori e curiosi e pellegrini arrivarono da ogni dove, sovraffollando il buco,
stringendomi la mano.
Di mio, regalai sorrisi e visioni notturne, distribuii salatini e calici di vino, permisi a tutti di contare
le stelle, ma solo contarle sia ben chiaro.
Il resto del manto notturno, scartato, rimase fuori in mano al rigattiere. L'orsa maggiore era
diventata un gabbiano, il grande carro una pala, Venere si era scissa con Nettuno e Marte, come un
salame, era stato affettato da anelli girovaghi; le comete avevano preso a girare in tondo, portandosi
dietro altre stelle e cozzando contro pianeti e satelliti.
Di lì a qualche minuto vi fu un'esplosione che per poco non ferì a morte il rigattiere.
La notte aveva smesso di funzionare…
E io mi beccai una denuncia per tentato omicidio.
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La pazza del piano di sotto
La vedo uscire, la sciura, con il suo solito cappello di lana grigio e il cappotto beige. Al braccio una
bella borsa di pelle. Ha quasi novant‟anni, ma il fisico ne dimostra venti in meno. E‟ magra, alta
quanto basta per guardare negli occhi gli uomini che ancora cerca in giro per la città. E‟ single, una
novantenne single anche se, come si diceva un tempo, lei preferisce definirsi “zitella”. Cammina
ancora come una persona giovane, senza alcun acciacco dovuto all‟età. Però, come tanti anziani, la
vecchiaia le ha colpito il cervello che ha cacciato, non sentendo più sua, la ragione (anche se credo
che i campanelli di allarme ci siano stati già in giovane età).
Dalla finestra del quarto piano di casa mia, ogni giorno alla stessa ora, appare alla vista e, uscendo
di casa, urla la sua pelliccia, quella che secondo lei non può indossare perché gliel'abbiamo
rovinata. Delira, come sempre. Da più di quindici anni è convinta che le "buttiamo giù gli acidi e gli
odori". Urla in casa, di giorno e di notte. Urla la sua disperazione, grida la sua pazzia, nel silenzio
della propria solitudine. Ha una estrema convinzione che le abbiamo rovinato la vita, con acidi che
le scendono dai muri, nell'acqua, che le hanno sciupato i suoi bei quadri, i suoi mobili antichi. Ha
una casa che non può usare, rovinata e costretta a coprire con carta di giornale.
Un giorno, un muratore che doveva tinteggiare la facciata della palazzina, è entrato in casa sua per
verificare alcune anomalie strutturali e ha trovato una tipica abitazione occupata da un malato di
mente: carte di giornali ovunque, sulle credenze, in cucina, sul letto, in bagno, ma soprattutto fogli
che avvolgevano le lampadine accese. La puzza di bruciato riempiva tutto l‟appartamento. E‟ stato
costretto a metterla in allarme per evitare che potesse prendere fuoco, ma lei, come nulla fosse, ha
continuato a professare la sua convinzione, pazza convinzione, che questo potesse servirle per
proteggere se stessa e la sua casa dalla nostra cattiveria. Avete mai visto “Spider” di David
Cronemberg? E‟ un film che narra la storia di uno psicotico affetto da manie e deliri persecutori.
Egli , per evitare che il male trapassi ogni parte del suo corpo, si avvolge con la carta dei giornali,
soprattutto nella zona ombelicale, che crede essere la porta aperta al demonio. Ecco, la mia pazza
della porta accanto è così. La differenza è che il demonio per lei siamo noi.
Vive tappata in casa e anche d'estate tapparelle e finestre sono chiuse per le esalazioni, della sua
testa. Per lei, di giorno e di notte, noi lavoriamo per rovinarle la vita. “Di giorno e di notte”.
Per coloro che la conoscono poco, che la incontrano per strada, che la vedono con gli occhi
distaccati di chi continua a condurre la propria vita, lei è solo una povera signora anziana, sola, ma
in casa si trasforma ne…”la pazza del piano di sotto” e chi la deve sopportare siamo sempre noi.
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35
La principessa Ana
Mia madre è una vacca grassa e stanca, che tira avanti come può. La vita è dura, a volte. Credo che
mi abbia sempre voluto bene, a modo suo; come quando da bambina mi preparava la merenda:
pane, burro e zucchero. O in alternativa pane, olio e sale. O come quando mi portava sulle giostre, e
mi comprava lo zucchero filato. Appiccicoso, dolciastro, vomitevole. Mi piaceva. Ho avuto
un‟infanzia a base di carboidrati, zuccheri, e soprattutto grassi. Ma ora basta.
Ho quindici anni e sono io a decidere della mia vita. Che è cominciata dopo aver letto Destroy:
mi sono innamorata di Labelle, davvero.
Poi è arrivato internet. Per gente come me è vita. Intendo: per gente che decide coscientemente
di smettere di mangiare per riappropriarsi della propria fisicità.
E‟ una questione di controllo, all‟inizio. Poi la fame scompare, i succhi gastrici smettono di
tormentarti, sei libera di gestire un corpo finalmente tuo. Il mio corpo mi somiglia, è esattamente
come lo voglio.
Parlavo di internet: è facile sentirsi soli quando si prendono certe decisioni. Le mie compagne di
scuola non fanno che ingurgitare patatine. E va ancora bene finché non è ora di ricreazione,
quando immancabile e puntuale come la morte si presenta a scuola lenta, pesante,
abominevolmente grassa, la merendaia.
Porta con sé panini, pizzette, schiacciatine ripiene di prosciutto maionese insalata e non so che
altro, su cui tutti i miei compagni si gettano famelici, spintonandosi.
Non riesco a guardarli mentre masticano. Neanche dopo, perché sui loro denti rimane una patina
giallastra. Per non parlare di chi ha l‟apparecchio: tra i cavetti metallici si infiltrano pezzi di pane
che marciscono nelle loro bocche.
Io assaporo il mio caffè senza zucchero e li guardo schifata. La merendaia mi scruta con occhi
bovini e sembra disapprovarmi, il che mi dà una certa soddisfazione. Le sfilo davanti fissandola:
sono pallida, diafana, lunare, evanescente. Non riesce a staccare gli occhi dal mio corpo. Sono
sicura che in quel momento si vergogna di starsene dietro quel bancone, sciatta e untuosa, col
grembiule celeste macchiato di maionese e le ciabatte del dr. Sholl‟s.
Mi sentirei sola, molto sola, senza le amiche in rete. Ma ci sono, mi capiscono, mi ascoltano. Ci
scambiamo foto e consigli.
Ci chiamano anoressiche, con disprezzo.
E‟ l‟invidia che parla, la rabbia di chi è ancora schiavo. Noi siamo ANA, ne siamo fiere.
Il mio nick è “Principessa Ana”, e ormai nella community sono una specie di mito. Le altre mi
chiedono consigli, mi confessano di sbavare davanti alle mie foto. Non hanno tutti i torti.
In fondo le mie amiche sono ragazze come tante che hanno deciso di trasformarsi finalmente in
ciò che vogliono. Esseri quasi incorporei, icone, modelli per chi il mese prima le disprezzava.
Kate Moss, bella oltre ogni dire, incarna i nostri ideali. Al di sopra delle mode e delle
chiacchiere, se la ride delle vamp che gonfiandosi tette e labbra vanno a far leva sugli istinti più
bassi del maschio.
Mi dicono che sono malata, mi portano dallo psicologo, mi accompagnano in ospedale. Ma io sto
bene così, davvero. Somiglio davvero a Kate. Per le ana sono una leggenda.
Dicono che potrei morire.
Sorrido. Che morte gloriosa, sarebbe.
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36
La storia di Ricky
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Una volta maturandi cominciammo a pensare all'università, al nostro futuro. Ricky decise per
Roma ed io per un altra città.
Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la lontananza non sarebbe stata un problema per noi.
Ricky sarebbe diventato dottore…. mentre io avvocato. Forse erano sogni … ma potevano essere
anche realtà.
Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente ritrovato se stesso e la voglia di vivere di sorridere
alla vita…….. Sono qui per dire che regalare amicizia è la cosa più bella di questa vita, perché ci
rendiamo conto di essere capaci di amare.
Ricky, dal giorno del nostro primo incontro, prese vitalità e trovò in me una persona che gli voleva
bene, che gli dava sicurezza e voglia di vivere, forse nel suo cuore…….. mi amava……….
Seppi che nel giorno del nostro incontro Lui aveva pianificato di suicidarsi, di farla finita………
perché stanco di lottare con le sue speranze, odiava la vita, negava l‟amicizia……. aveva vissuto
momenti terribili, momenti di senza amore…….. perse il padre a cinque anni, più tardi la mamma
per una malattia fatta di sola sofferenza. Fu affidato ad una casa famiglia, cresciuto sempre da solo
senza affetti, schernito dal prossimo perché trattenuto di poter dimostrare a tutti che anche lui era un
essere umano……. che poteva amare ed essere amato.
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Un giorno……
… Ero una ragazza delle superiori, vidi un ragazzo..frequentavamo la stessa scuola, lo
conoscevo… di vista, so che si chiamava Ricky, mentre stava camminando, un gruppo di ragazzi
gli corsero incontro e lo urtarono facendolo cadere nel fango. I suoi occhiali volarono via, e li vidi
cadere nell' erba un paio di metri più in là……Mi rapì il cuore!
Così mi avvicinai a lui, mentre penosamente stava cercando i suoi occhiali, vidi una lacrima nei
suoi occhi.
Raccolsi gli occhiali e glieli diedi dicendogli:
"quei ragazzi sono proprio dei barbari, dovrebbero imparare a vivere."
Ricky mi guardò e disse: "grazie!"
C'era un forzato sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che però mostrano
vera gratitudine.
Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove viveva.
Scoprii che abitava vicino da me così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima,
lui mi spiegò che prima andava in una scuola privata, ma lo disse in un modo strano e non
convincente.
Parlammo per tutta la strada,mi sembrò un ragazzo molto carino e sensibile, capace di ascoltare,
così gli chiesi se gli andava di venire in gita al mare con me, rimanemmo in giro tutto il week end
e……. più lo conoscevo più mi piaceva..era così simpatico e poi mi faceva tenerezza……….sentivo
qualcosa….non so……
Arrivò il lunedì mattina ed ecco Ricky con la sua solita andatura,lo fermai e ci avviammo verso
scuola, fu cosi ogni giorno fino alla maturità.
Io e Ricky diventammo amici per la pelle. Ogni giorno era il nostro giorno. Dividevamo tutto quello
che ci interessava…….un giorno anche un bacio……..fu bellissimo………
Ricky cominciò a lottare, conquistò energie voglia di misurarsi…di competere……..diventò il
primo della classe e io lo stuzzicavo sempre……. prendendolo in giro perchè era uno sgobbone, ma
non era vero…era solo molto intelligente.
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Ho imparato da questa storia di vita, che non bisogna mai sottovalutare il potere delle nostre azioni,
che con un piccolo gesto si può cambiare il futuro e l‟esistenza di una persona, in meglio o in
peggio.
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38
La testa di Gioele nella fucina dell’orrore
Il buio è giunto lentamente; la coltre di tenebre ha infine unificato ogni cosa e in pochi minuti si è
fatta impenetrabile. Gioele ha lanciato uno sguardo dalla finestra verso il buio. Costernato senza
conoscerne la ragione, ha sbarrato porte e finestre. Si è seduto sulla sponda del letto, nel buio totale,
sperando di riuscire a scacciare la paura che l‟avvinceva. Accortosi di non essere riuscito a
conseguire il risultato voluto, assalito da brividi lungo la schiena, ha ceduto all‟istinto d‟infilarsi
anzitempo nel letto. Quando la paura si è amplificata, con un improvviso colpo di reni ha cambiato
posizione cosicché, da prono, con le mani tremanti ha potuto afferrare il lembo di una coperta e
coprire anche la testa. I brividi hanno invaso ogni porzione della sua pelle, è saltato dal letto.
Madido, tremante, arso dal rimestio di pensieri inesplicabili, incespicando, è riuscito a trovare due
candele. Recuperati i pantaloni ha ritrovato la tasca giusta ed estratto i fiammiferi. Al quarto
tentativo è il chiarore si è propagato allo stoppino e il suo volto sofferente si è rischiarato. Si è visto
nello specchio del comò, trasecolando per l‟immagine dominata dall‟aria discinta, dai capelli
arruffati, dalle labbra strette nel dolore, come fosse stato appena morsicato da una vipera. Ha gettato
uno sguardo alle spalle: l‟ambiente gli è sembrato nuovamente familiare. Ha letto la data sul
calendario: tredici novembre venerdì! La paura si è fatta terrore. Certo che le due ore mancanti
all‟alba sarebbero sembrate eterne, ha desiderato che il vento fosse riuscito a sgombrare il cielo
consentendo alla luce della luna, certamente brillante dato il gelo, di dilagare sugli ulivi dai rami e
tronchi nodosi. Avvicinatosi alla finestra, l‟ha aperta senza riflettere. Ciò che ha visto lo ha
raggelato: una fila di esseri indefinibili, totalmente bianchi, procedeva allineata. Tremante, ha
sentito un cigolio allarmante. Si è girato vedendo la porta della stanza ruotare sui cardini arrugginiti,
ha osservato il materializzarsi di una testa nel buio, illuminata di rosso, senza collo, senza un corpo
che la sostenesse, con la bocca spalancata e i denti aguzzi. Di istinto ha mosso un passo all‟indietro;
ha compreso che l‟unica via di salvezza fosse al di là della finestra. Si è lanciato nel vuoto. Superata
la soglia con quasi tutto il corpo, ha avvertito una forza sovrumana agganciarlo alle caviglie.
Dapprima ha avvertito solo una energia irruente, infine ha realizzato che era bloccato da qualcosa di
incandescente. Ha sentito la puzza della propria carne bruciata. Ha ruotato il corpo verso la finestra:
c‟era la morte, ferma, con la falce. L‟attrezzo ha lanciato un sinistro bagliore e gli ha reciso il collo
di netto. Ha avvertito il rumore del taglio, lo “zac” inequivocabile, ha visto la propria testa grondare
sangue, cadere nel vuoto, ruzzolare sul terreno accidentato; ne ha sentito i rumori; l‟ha vista sbattere
e saltare contro una pietra, senza provare dolore; ha visto la sua lingua leccare l‟erba maleodorante;
ha visto una mano schifosa, fatta solo di ossa e vene gonfie di liquido rossastro, che l‟ha afferrata
per i capelli e scaraventata in un gorgo di fiamme improvvisamente apparso in una ferita apertasi
nella terra rossastra. Ha percorso sfrigolante uno spazio e un tempo incalcolabile tra fiamme
tormentose; l‟inarrestabile viaggio è durato sino a che non è giunta al centro della fucina, il luogo
più cocente che si possa immaginare. E l‟ha vista liquefare. Non ha visto altro.
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La vicina
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Esce con un mazzo variopinto e colmo abbastanza, raggiante e donando sorrisi alla vita.
Un vigile si aggira attorno alla sua 500. Nuvole cominciano ad apparire.
"Guardi che sono qua, ero solo un attimo.."
"E‟ qua? E dove sono qui e quo?"
Nick David, perplesso:
"Prego?"
"Le domande le faccio io, chiaro. Per esempio dove sono i tergicristallo ? E‟ un reato andare in giro
senza, sa?"
"Cazzo…me li avranno rubati mentr'ero dentro"
"Dentro eh? Quindi è pure stato in galera, ma bravo. Per cosa, sentiamo, detenzione illegale di
orribili pantaloni? Noto che non ha imparato la lezione!"
"Io…ero a comprare questi...", dice mostrando i fiori.
"Non penserà mica di corrompermi con dei fiori? Ma per chi mi ha preso?"
"No, senta, c'è un equivoco, dannazione.."
Il vigile indicò un cartello alle spalle di Nick.
"Divieto d'imprecare. Non sa neanche leggere? Bene.", dice prendendo il taccuino e scrivendo
ancora.
"Cosa fa?"
"La multo per scarsa alfabetizzazione e discreta ignoranza, ovvio"
"Eh, sì, che domanda stupida.."
Cominciò a piovere.
"Vede, ora scoprirà a cosa servono i tergicristalli"
"Oh no"
"Ma dove stava andando? Potrei multarla per vagabondaggio, attento a come risponde
Casa di bree. Ore 19, 30.
Nick David si stava rivestendo, pensando che chi ha inventato i lacci dev‟essere stato un uomo
molto solo. Lei in bagno a lavarsi, pensando che quel demente non si era tolto i calzini mentre
facevano sesso.
"Amore, non mi hai parlato di che lavoro fa tuo marito"
"Il cornuto, fa"
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Nick David, passeggiando sulle nuvole, accese la sua Fiat del'97.
Il parabrezza ghiacciato da mille pensieri del cielo, il motore in illusione costante d'accendersi, un
faro che si dimentica di funzionare, l'arbre magique emana stanco vago sentore di vaniglia e lo
sportello del passeggero non si chiude bene.
Ma lui è felice. Non riesce a pensare che la batteria - 'batteria? e io che pensavo andasse a benzina,
mah' - sia da cambiare, come le gomme - che non sono da masticare - e il cambio. Che, nonostante
il nome, non cambia mica. Come il volante. Mai termine fu meno appropriato: volante.
Lui è innamorato. Sta andando dalla sua amata.
Dopo tentativi vani di accensione, parte. Si sente il padrone del mondo.
Si ferma al
fioraio.
'A lei piaceranno le rose', s'interroga.
Parcheggia, agilmente come non mai. Scende.
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Casa di bree. Ore 20,30.
"Sono a casa tesoro. Sapessi che giornata.."
Si toglie il cappello.
"Un tale, voleva corrompermi con dei fiori e andava in giro senza tergicristalli"
"C'è gente strana, in giro", dice lei.
"Si'. E pensa, mi ha detto dove andava"
"Dove, caro?"
Lui sorride, prende la pistola dal cassetto e, sempre sorridendo, dice:
"Da quella sgualdrina della nostra vicina".
Pulisce la pistola e la mette a posto. E continua:
"Pensa…é pure sposata!"
"Certe donne non si accontentano, ma io ho te!", dice abbracciandolo forte.
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La vita in dieci frammenti.
Racconto in dieci episodi.
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I.
Apro le gambe, come al solito.
Il tempo passa più in fretta, se non penso.
Maledetti pensieri: mi allungano la vita.
Mi rendono più lungo il lavoro, distesa sulla schiena, in attesa sul marciapiede.
Non ho molto a cui pensare, però sarebbe meglio niente.
Come morire, con le gambe aperte, mentre mi guadagno i soldi di un cliente necrofilo.
In anticipo.
Per il mio angelo custode, affinché li custodisca.
Affinché non spariscano nel solco della mia femminilità.
II.
Quando sono partita ero ragazza dell‟est.
Anche ora sono ragazza dell‟est, però in più batto.
Lola mi ha detto che non sarà sempre così.
Per questo ho paura.
IV.
Ieri sono andata a letto tardi.
Alle sei del mattino, che albeggiava.
Ho visto il sole e mi sembrava un lampione: che stupida, mi dice Lola.
Il sole è il sole, il lampione è il lampione.
E‟ come confondere il fiume con il mare.
Ma il fiume porta sempre al mare.
E la luce del lampione si spegne quando si accende il sole.
V.
Ho dato poco, questa volta.
Sergei mi ha dato molto invece, sono tutta un dolore.
Me le ha date come un dovere, ma le botte mi hanno fatto male lo stesso.
VI.
Alex mi amava veramente, però mi ha lasciato.
Mio padre ha parlato con lui e lui ha capito.
Ha sposato mia sorella e i miei hanno pianto al matrimonio.
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III.
Sergei mi ha stuprato come fosse un dovere, per accertarsi che non fossi vergine.
Ma non lo ero: se no mio padre non mi avrebbe venduta.
Magari sarei sposata ora. Magari.
Qualcuno deve portare i soldi alla famiglia, ha detto mio padre.
Tanto vale che non sia vergine, ha detto mia madre.
Perché i soldi sono maschi, e cercano il sesso delle donne.
E mia sorella vergine non ha detto niente.
VolanZine n°9: tutti i racconti in concorso
42
Anche io ho pianto, stesa sulla branda con Lola.
E lei mi ha baciato in bocca, per consolarmi.
Solo i baci non possono toglierci, o non vogliono.
In fondo non hanno molto valore.
VII.
Un cliente non mi ha pagata.
Mi ha frugato addosso e si è ripreso i soldi.
E‟ stato furbo, molto furbo.
Ma il giorno dopo Sergei lo ha steso con un pugno, come un dovere.
Poi ha detto: chi non paga non scopa.
Solo chi è innamorato non paga per scopare, ha detto.
Forse il cliente è innamorato, e si è fatto pestare per me.
Forse.
VIII.
Il mio innamorato è tornato, si chiama Mario.
Dice che vuole sposarmi, che vuole portarmi via.
Però non mi paga, e le botte le prendo io.
X.
Oppure sono morta, e Sergei assassino.
Col coltello sporco, sporco per dovere.
Perché non guadagnavo abbastanza e bisognava dare l‟esempio.
Un esempio da un orecchio all‟altro.
Però ora non penso più, e il tempo passa più in fretta.
Chissà se Mario si ricorderà di me.
O se andrà con Lola, senza pagare.
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IX.
Oggi sono libera, Sergei invece è dentro.
Hai avuto coraggio, mi ha detto Lola, però adesso scappa.
Col mio innamorato posso scappare, sì.
Dove non ci sono lampioni, ma solo il sole, solo il mare.
Posso prendere il traghetto e attraversare il mondo.
Con Mario, sperando di non vedere più mio padre.
Con Mario, sperando di non vedere più la strada.
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43
Le due vecchiette
All'inizio di un pomeriggio che sembra già sera due vecchiette varcano il cancello del cimitero con
ostentata naturalezza.
La festa dei morti è passata da un paio di settimane e il camposanto ha ripreso l'aspetto di sempre
dopo l'assalto stagionale. Molti fiori sono appassiti e tutti i che riempivano l'aria hanno raggiunto la
loro destinazione.
Il grigio denso e le goccioline di pioggia sottile che si nebulizzano sul viso accompagnano le due
anziane signore mentre s'inoltrano nel viale principale facendo scricchiolare la ghiaia che scappa via
sotto le suole rigide. I loro sguardi si muovono rapidi oltre le tombe, finché una dà di gomito
all'altra e spinge il mento aguzzo in direzione del campo C, sulla destra, dove un inserviente avvolto
in una mantella di plastica verde spinge con flemma una carriola.
A quel punto, senza consultarsi, le due vecchiette imboccano in perfetta sincronia il vialetto dalla
parte opposta.
La più alta, quella con l'occhio fino, è specializzata nell'avvistamento, mentre la compagna, più
attenta e accurata, è addetta alla cernita.
La giornata sembra favorevole perché ci sono tanti begli scarti. Fin troppi, a voler guardare, perché
impongono una scelta spesso sofferta.
Nel cestino dei rifiuti accanto alla fontanella, fra i fiori appassiti di un enorme mazzo di crisantemi,
si intravede la chioma verde scuro di una piccola tuia, mentre nel contenitore più grande vicino alla
Cappella Bazzi una piantina di ciclamini rosa piena di boccioli e un pitosforo dalle foglie lustre
boccheggiano speranzosi in mezzo a cartacce e a piccoli cilindri rossi che non illuminano più nulla.
Ogni anno, passato il periodo della commemorazione dei defunti, molte di quelle piante sono
destinate a condividere la sorte dei morti di cui hanno ornato le tombe. Altre, invece, riescono a
sfuggire all'olocausto grazie alle due anziane signore che, facendo scudo col proprio corpo a sguardi
indiscreti, estraggono dai cestini dei rifiuti le prescelte, quelle che hanno buone possibilità di
sopravvivenza su un balconcino esposto a nord e in un giardinetto benedetto dalla luce del sole.
Le due donne non hanno braccia robuste, ma col tempo si sono fatte furbe e hanno imparato che
scrollando via la terra dalle radici si riduce drasticamente il peso e si riesce a contenere in modo
accettabile il volume.
Così, superato il trattamento di ripulitura, il pitosforo, la tuia e il ciclamino trovano ricovero in due
sacchetti gialli dell'EsseLunga appena cavati dalle borse, in attesa di affondare le loro radichette in
un nuovo, soffice terriccio.
Il cielo si incupisce e la pioggia novembrina si fa più insistente. E' tempo di avviarsi verso casa.
Le due vecchiette escono dal cancello del cimitero con passo spedito, con la naturalezza di chi ha
fatto una visita al cimitero dopo la spesa al supermercato.
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44
Little black mess
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Si alzò veloce prima di ripensarci. Si lasciò il letto alle spalle. Lasciò lui a letto. Chiaro che lasciava
lì con loro anche un pezzo di sé, ma non le importava. Chi non ha problemi alzi la mano. Presente.
Si vestì veloce prima di ripensarci. Non si dimenticò nulla di quello che aveva prima e si mise
addosso qualcosa che prima non era suo. Chi non vuole avere più problemi alzi la mano. Ripresente. Avrebbe volentieri urlato. Niente di particolare, così solo per accertarsi che la voce ce
l'aveva ancora. Curiosità. Si mise la mano in tasca per un altro accertamento. Ancora lì. Già,
nessuna sorpresa. Chi vorrebbe che i problemi non la seguissero come cani affamati pronti
all'azzanno alzi la mano. Si, va bene, va bene, ormai l'abbiamo capito. Si diresse veloce alla porta,
alzò la mano come se un saluto ci fosse già stato e quello fosse solo un post-it (ricordati del saluto
di prima). Si chiuse veloce la porta e poi si appoggiò con la schiena per trenta secondi. Contando
appunto fino a trenta. Era un bel numero il trenta. Vabbé, niente di speciale si disse mentre
scendeva veloce le scale, ma un numero carino dai. Guardò all'altro lato della strada. Problemi? No.
Non più. Andata. Si premette la mano nella tasca dei jeans. Ancora lì. Nessuna sorpresa. Attraversò
con calma la strada, scese le scale e prese la linea verde. Dieci minuti e sarebbe stata a casa. Dieci
minuti ancora e sarebbe stata pronta per uscire di nuovo, ripulita e decente. Quindici minuti per
raggiungere la facoltà di medicina. Cos'era la vita se non sincronia armoniosa di tempi binari che si
schiudono al tuo volere? La risposta era affatto scontata. Mentre contava e ricontava le diverse
opzioni (si, no, forse, ma anche no, ma anche si, forse ma non del tutto...) entrava in casa,
spogliandosi in fretta fino a raggiungere la doccia. L'acqua toglie tutto. L'acqua aggiusta. L'acqua
risana. L'acqua spazza. L'acqua se la lasci fare ti trasforma in acqua. L'acqua non ha problemi.
L'acqua ti fa cantare...
Si asciugò in fretta e si rimise i jeans, biancheria pulita ovviamente. Si passò le mani a pettine sui
capelli corti e morbidi e chiari. Si guardò attorno, la stanza era la sua, si. Tutto sotto controllo. Si
infilò gli stivali. Mise la mano dentro alla tasca e tirò fuori un paio di banconote da 50. Le rimise
ancora dentro. Dritta alla porta, infilandosi il cappotto, sulla porta il cartello.
"MAI PIU' STRONZA!"
Si morse il labbro con rabbia. Si, si, questa è stata l'ultima volta. L'ultima. Si.
Chi ha problemi alzi la mano. Presente. Sempre presente.
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I should try to be good/Forever and ever, amen
So I'll touch wood/And hope I don't get caught again…
It's true I'm sure to die out here unless/You come help me out of
This little black mess... (“Little black mess” by Shivaree)
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45
Luce fredda
La bambina si addormentò cullata nelle braccia affettuose dell‟uomo.
Lui attese che il respiro diventasse regolare, poi la distese delicatamente sul letto; le rimboccò le
coperte con cura e si allontanò in punta di piedi.
Restò sulla porta a contemplarla nella sua dolcezza innocente, il viso sereno e disteso; aveva le
palpebre già in subbuglio, rapite, ne era certo, dal turbine dei personaggi della fiaba che le aveva
appena raccontato.
Spense la luce e tornò in soggiorno, sorridendo.
Dalla finestra aperta giungeva forte il richiamo odoroso dell‟erba, inzuppata dal temporale appena
concluso.
La luna si affacciava timida oltre le nubi, seminando gocce di luce fredda sul giardino ubriaco di
pioggia.
Chiuse con cura le grate di protezione e i vetri, facendo attenzione a non fare rumore.
La sveglia da muro segnava le dieci. Doveva fare presto.
Si tolse la vestaglia e si spogliò con cura, poi, nudo, uscì sul patio e ripose la biancheria e la
vestaglia sul dondolo.
Rientrò e si diresse in camera da letto. Sua moglie si era addormentata con la tv accesa.
Spinse il tasto “off” del telecomando e posò un bacio sulle labbra della bella addormentata, che
rispose con un sospiro.
Lui sospirò a sua volta, ammirando le fattezze ancora perfette del suo volto, quel volto che aveva
amato dal primo giorno, che riempiva i suoi sogni ogni notte, da anni.
Buonanotte amore mio, sussurrò.
Fuori, le nubi stavano fuggendo davanti all‟avanzare imperioso dell‟astro notturno.
Controllò che il sistema d‟allarme fosse in funzione, chiuse la serratura della porta blindata e infilò
le chiavi nella fessura della posta.
Diede un‟ultima occhiata intorno alla casa per verificare che tutte le imposte fossero serrate, poi,
soddisfatto, si voltò addentrandosi nel bosco.
Quando la luna lo sorprese, bucando le fronde degli alberi secolari, lui stava correndo.
Correva veloce, e ringraziava a gran voce il cielo di aver avuto in dono l‟amore di una donna
fantastica, la dolcezza di una bambina bellissima: una famiglia perfetta.
Le lacrime gli rigavano il volto.
Prese a correre più forte, poi le ossa iniziarono a rompersi, i muscoli a strapparsi.
Cadde a terra di peso.
Ansimando, implorò la dea dell‟aurora di giungere presto.
Poi si rialzò, avanzando a quattro zampe, ululando alla fredda lampada sospesa nel cielo.
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46
L’ultima sigaretta
La stanza dell‟ospedale era avvolta dalla semioscurità. Le tendine chiuse impedivano alla luce del
pomeriggio di filtrare nell‟ambiente chiuso.
Il fumo grigiastro uscì con un getto sottile ma intenso dalle labbra semichiuse di Daniel che
rovesciando la testa dolcemente all‟indietro e appoggiandola sullo schienale della sedia, si stava
godendo l‟ultima sigaretta della giornata.
Il sapore denso della nicotina gli scese velocemente giù per la gola fino ai polmoni, provocandogli
la solita piacevole sensazione. “Appagamento momentaneo: è così che lo chiamano” pensò Daniel
dondolando lentamente la testa, facendola rimbalzare da una spalla all‟altra. “Momentaneo”
sussurrò, gettando un‟altra boccata di fumo nella stanza.
“Dannazione, quanto hanno ragione. Ma di sicuro non posso farne a meno. O forse sì? Domani
potrebbe essere la volta buona per spegnere definitivamente la mia momentanea dipendenza”
ragionò. Era combattuto.
“Temo solo che la vita non abbia più lo stesso sapore senza questo dolcificante naturale. O forse il
contrario”. Aveva le idee confuse. Fece un altro, lungo tiro dalla cicca ormai quasi finita. La luce
incandescente della sigaretta accese un minuscolo puntino rossastro nella semioscurità della stanza,
illuminando i tratti del suo giovane viso, lasciando intravedere per qualche istante il colore castano
dei capelli.
“ E poi, in fondo, cosa avrò fatto mai di male per meritarmi questo? Tutti hanno fatto qualche tiro
alla mia età, e anche se forse ne ho fatto più di uno non vedo quale sia il problema. E poi come ti
guardano i non fumatori non ti guarda nessuno: sempre lì con la loro espressione a metà fra la
compassione e l‟indifferenza. Vadano a farsi fottere. Almeno io so da cosa sono dipendente.”
Non aveva mai avuto remore sul suo vizio fino a quel giorno. Non che fosse troppo tardi per
pentirsene ma, ormai, notava, non aveva più grande importanza quell‟eventuale pentimento formale
senza aver reciso i legami con il vizio.
“Smettila Daniel o ti ucciderà! Fumi ormai tre pacchetti al giorno: ti rendi conto alla tua età cosa
vuol dire? Fatti questo favore …” lo aveva sempre pregato sua madre.
“Vuoi farmi davvero un favore tu? Lasciami in pace”. Classica risposta.
Troppi brutti ricordi di una vita che non aveva voglia di cambiare e di un vizio cui certo ora non
voleva rinunciare. E poi che importava pensarci adesso.
Aveva le idee confuse. Cercò a tastoni, con le mani tremanti, un‟altra sigaretta nel pacchetto che
portava sempre con sé, nella tasca sinistra della sua giacca marrone. La estrasse, ma il tremore
gliela fece cadere dalle mani. “Meno male che ce n‟è un‟altra” pensò con un sospiro di sollievo
estraendone un‟altra, questa volta con maggior attenzione.
“Dannazione, è l‟ultima” imprecò accendendola.
Si sentì un sonoro “Click” e la stanza s‟illuminò di colpo. Daniel dovette mettersi la mano davanti
agli occhi per non rimanere abbagliato, abituato alla precedente oscurità.
Un‟infermiera col camice bianco condusse una donna tremante, sulla cinquantina, che si teneva
sulle spalle uno scialle rosso quasi a volersi proteggere da un incredibile gelo. Le lacrime le
rigavano il viso stanco.
Ovviamente non lo notarono, seduto lì nell‟angolo, ma si diressero verso il suo cadavere, al centro
della stanza.
Daniel guardò sua madre con aria sofferente, sembrava invecchiata di anni dall‟ultima volta che
l‟aveva vista. “Si è spento stanotte signora. Una brutta complicazione respiratoria gli è risultata
fatale. Fumava troppo: il suo corpo non ha retto.”
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47
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La donna si levò di dosso lo scialle e si avvicinò al lettino d‟ospedale nel quale giaceva inerme un
ragazzo con gli occhi chiusi, quasi stesse dormendo. Gli passò piangendo una mano fra i capelli
castani. Le mani le tremavano e subito dovette ritrarle.
“ Il mio Daniel …” fu tutto quello che riuscì a dire. Poi uscì di corsa dalla stanza illuminata, fra le
lacrime.
Daniel gettò un‟occhiata distratta al suo corpo vuoto, nel lettino di fronte a lui, versò un‟ultima
lacrima, forse la prima per sé stesso, e poi gettò fuori dalla bocca l‟ultimo sbuffo grigiastro, prima
di sparire, dissolvendosi con il fumo della sua ultima sigaretta.
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48
M.A.R.E.
Quand‟ero piccolo andavo sempre al mare di acqua chimica con la mia famiglia ed altri amici.
Poi ci fu quell‟increscioso incidente della suora intossicata.
Poveretta.
Nuotando ha bevuto un po‟ d‟acqua e si è beccò una brutta malattia; le analisi hanno dimostrato che
l‟inquinamento aveva oltrepassato ogni limite di tolleranza. L'hanno fatta Santa.
Poi ci si misero anche gli ambientalisti e quelli di Grinpis: ogni tanto se ne ammalava qualcuno e lo
Stato doveva pagare risarcimenti miliardari.
Dopo l‟ennesimo monito di Strasburgo, finalmente il Governo è corso ai ripari e ha elaborato un
preciso piano di intervento strutturato in tre fasi: prosciugamento – per un tratto di 2 km –
dell‟intera fascia costiera dello Stivale, isole comprese, previa apposizione di una barriera
denominata “Bastioni Statali”; bonifica delle spiagge e dei terreni lasciati liberi delle acque (a
seguito della quale sono stati rinvenuti oggetti di inestimabile valore, che sono stati venduti ed i
proventi hanno coperto quasi per intero l‟intervento); sostituzione dell‟ormai obsoleto mare chimico
con un flusso di energia subatomica denominata M.A.R.E. (Movimento Atomizzato di Risonanza
Elettronica).
La soluzione è apparsa geniale fin da subito.
Il flusso di energia M.A.R.E. è generato da una serie di induttori installati lungo la costa, dai quali si
propagano ad intermittenza raggi di particelle subatomiche che - intersecandosi secondo precise
equazioni - danno vita ad un campo di materia neoindotta.
Le sensazioni e le emozioni che dà il M.A.R.E. sono del tutto simili a quelle che dava l‟acqua
chimica, almeno così dicono gli anziani, con il vantaggio che la temperatura è regolabile, non vi è
alcun odore, non vi sono più meduse ed il colore è sempre splendido: dal verde smeraldo al blu
cobalto. “Meglio che ai tropici!”, dicono sempre gli anziani. E poi si esce completamente asciutti.
Molto più igienico e salutare.
La sabbia è sempre quella di una volta, pare. È stata solo rimescolata e bonificata con delle sostanze
purificanti. Adesso si stacca più facilmente, dicono gli anziani. Ma non vi è ragione alcuna per
dubitarne.
Il prosciugamento del tratto costiero ha anche posto finalmente termine al problema degli sbarchi di
clandestini, i quali vengono bloccati ai Bastioni Statali sui quali vigilano potenti proiettori di raggi
positronici che inceneriscono tutto ciò che passa loro davanti se privo del prescritto pass; con essi
sono anche scomparse le meduse: pericolosissimi esseri viventi che nuotavano nell'acqua chimica.
Pungevano a tradimento e spesso mortalmente i bagnanti. Adesso sono relegate negli acquari degli
istituti e nelle acque chiniche extra bastioni. Per non parlare delle peggiori malattie: tutte debellate
con la cessazione del flusso dei clandestini.
Questa mattina al M.A.R.E. è morto un bambino, l‟ennesimo. Ma lo Stato da anni si è tutelato
contro le morti di chi, infischiandosene delle regole, si ostina a fare la pipì durante il bagno: chi
vuole accedere alle spiagge deve prima apporre la propria impronta digitale sul regolamento, il
quale oltretutto esclude ogni responsabilità in capo alla Società che lo gestisce ed allo Stato. I
minorenni sono ammessi solo se accompagnati da un adulto, che garantisce con la propria impronta
digitale."
Finita la lezione il maestro uscì dall‟aula. Si appartò per rispondere ad una chiamata pineale:
“No, domani vado con i bambini da un mio amico, che ha riempito una piscina con acqua chimica
extra bastioni di contrabbando. Spero così di ricordarmi come era il mare di quando ero piccolo. Se
ci beccano ci multano, ma chi se ne frega.”
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Mistica ed eros del Loto
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No, no! Non si tratta del fior di loto con i suoi mille miti e simboli, da Buddha agli egizi: no! Parlo
proprio del Loto del Giappone, il cachi quindi, il frutto di cui ogni anno attendo impaziente il
ritorno, sin da piccolo: faceva da dolce consolazione all‟apparire delle caldarroste che decretavano
l‟inesorabile inizio della scuola.
All'anagrafe botanica il suo nome è DIOSPYROS KAKI
Già il nome non è affascinante? Forse per l'assonanza con Zefiro, 'Diospyros' a me richiama la
brezza e la carezza d'un vento.. E che forse la breve allitterazione di 'Kaki' non ha, concentrato in sé,
un'essenza d'esotico mistero d'oriente, terra dove è nato?
Ma eccovi i consigli per un perfetto incontro d‟amore.
SECONDO, sbucciarlo.
Di sicuro questa è la parte più avventurosa ed eccitante. Tolto il cappello verde, con un coltello
dalla lama ben affilata con molta delicatezza - quasi dovessi tirar via pelle inutile, residuo
d'un'eccessiva abbronzatura - cogli la punta d'un angolo di buccia, e sfila. Piano. Non si deve
lacerare, né devi ferirlo: non deve mai accadere che la pelle porti via la polpa sottostante, ne
strapperesti le carni e tutto sarebbe finito.
Ancor oggi riuscire a terminare questa operazione senza alcuno strappo mi carica di buon umore: lo
considero un segno di buon augurio per il resto della giornata.
Quindi i puntini neri, da asportare con la punta del coltello così come la minuscola codina nera, nel
culetto in basso. Infine il colletto sotto il cappello, dove hai iniziato a tirare le pellicine (capita che
vi si trovi un minuscolo vermetto bianco: buon segno, il frutto è più dolce) con un attento taglio
minuzioso tutt'intorno. E' un'arte
TERZO, contemplarlo
a questo punto il cachi va guardato, ammirato, contemplato:
va apprezzata la sua tonda perfezione, integra e ora „nuda‟: la più delicata pelle sottostante, così
esposta e senza rivestimento, pare senta freddo, sembra quasi pelle d'oca. Abbi uno sguardo
caloroso e compassionevole.
QUARTO, incorporarlo
Beh, come è ovvio è la parte più scontata, in fondo. Con piccoli morsi, gustalo pian piano,
possibilmente senza mai posarlo. Che la lingua senta dapprima la consistenza appena rugosa della
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PRIMO, sceglierlo.
Ovviamente parliamo della varietà con frutti piccoli di colore arancione, non di quelli
pacchioni/pacchiani con macchie d‟un bruno insignificante! E‟ una questione di linea e di stile
soprattutto!
Poi è ovvio: il frutto deve essere integro, intatto. Quindi lo devi esaminare, far girare fra le mani e
osservarlo bene: colore e maturazione omogenei e nessuna fenditura nella buccia, non una
spaccatura nella pelle, che, sottile e tesa, deve avvolgerlo per intero con grazia.. suvvia, qualche
raro puntino nero -come un neo- è ammesso.
E se quelle quattro foglioline-sepali che gli fanno da cappellino sono ancora verdi e teneramente
vellutate è un tocco d‟incanto in più!
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50
pelle e poi s'abbandoni alla morbidezza della polpa, talvolta quasi fluida, talaltra con un che di
compattezza e resistenza sublimi. Soprattutto non avvenga mai che tu sia così maldestro e frettoloso
da far sì che il frutto si spappoli all'improvviso!
Come ultimo consiglio, scegli una parte -se c'è- dove vi sia un seme e lasciala per ultima. Alla fine
dedicati ad essa. Con calma, senza fretta. Ti puoi perfino alzare dal tavolo per prolungare
l'esperienza. Con piccoli colpi di denti e spinte con la lingua ben assestate riuscirai a sfilare l'osso
dalla polpa circostante. Lo sentirai liscio sgusciar via e potrai finalmente inghiottire l‟ultimo
boccone.
Praticamente un trionfo.
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Te ne sbuccio uno?
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Nel tempo di un respiro
Qualcuno già dorme. Andreas depone la ventiquattrore e siede sulla poltrona azzurrognola. Abbassa
il poggiabraccio e accomoda il corpo spigoloso; con le mani magrissime, dalla pelle rinsecchita,
sfoglia il quotidiano che gli hanno donato in cima alla scaletta; tenta di concentrarsi sulla pagina
culturale. Chiude gli occhi e rivede la sagoma rotonda di Ileana, la giovane moglie. Lo ha
accompagnato con la propria auto; fermatisi al bar, mentre lui beveva il caffè senza zucchero,
impiegando lo stesso tempo, ha ingurgitato quattro cornetti, un bicchiere di latte bianco con tre
cucchiaini di zucchero, un gelato al cioccolato. Gli ha poi sorriso mostrando i denti impiastricciati
di poltiglia dorata con striature marrone. Mancano quarantacinque minuti alla partenza, quando
Andreas si alza, prende la valigetta, si allontana nel corridoio. Giunto al bagno estrae dalla valigetta
una bottiglia di vino, la stappa e tracanna a garganella il liquido rosso, fino a che non è
completamente svuotata, nel tempo di un solo respiro. Attende che scenda l‟ultima goccia tenendola
verticale sulla bocca, con la testa riversa all‟indietro. Intanto la moglie e l‟amica siedono sui sedili
posteriori del taxi, con la scorta di ben otto panini al prosciutto, pomodori e camembert. Il Cilento è
lontano; entro le ventidue saranno al ristorante “La stella del Calore”. Hanno prenotato per gustare
il pesce del Tirreno, ma Ileana non vuole rinunciare al loro antipasto ricco di sapori antichi, ormai
introvabili altrove e alla compagna dice: -Ho esagerato nell’ultima settimana, assaggiando tutte le
specialità emiliane e non solo: i salumi di Felino, pizze di ogni tipo, gorgonzola dolce e piccante,
formaggi erborinati e maturati nel vino, nell’aceto, tra erbe pregiate, nelle fossa, tutti accoppiati a
composte e mieli speciali; però l’ex vicesindaco di Bologna mi ha parlato della sua terra di origine,
del capicollo, del pecorino, del caprino, del caciocavallo podolico di quelle montagne. Prima di
morire devo assolutamente assaggiarli. L‟ultima pesata l‟ha allertata: la lancetta della bilancia è
schizzata sul numero centoquaranta, quello della precedente pesata, per poi superarlo fermandosi
sul centosessanta. In attesa dei fusilli, mangiano mozzarella di bufala, melanzane sott‟olio,
prosciutto tagliato al coltello, pancetta tesa, capicollo, accompagnati dal “viccio”, una specie di ufo
fatto di pasta della pizza, farcito di mozzarella, pomodori, broccoli, salsiccia. I fusilli, invece, sono
una pasta di bellezza diabolica: è il risultato dell‟impasto di farina e uova arrotolato da mani antiche
e sapienti intorno a un ferro o a un sottile virgulto di erbe acquatiche. Trattengono il sugo come
fossero dotati di poteri magnetici. Le servono alici di menaica marinate, sauté di capesante, cozze,
vongole, cannolicchi con accanto un assaggio di risotto allo zafferano, un enorme vassoio di
carciofi bianchi arrostiti. Arrivano pure due piatti di paccheri conditi con gamberetti, frutti di mare e
una salsetta di pomodori datterino appena appassiti, dal colore rosa tenue e dall‟odore delicato.
Ileana ammira i piatti e nota che il cameriere si irrigidisce, lascia cadere i piatti dalle mani, corre
verso il suo tavolo. Sposta lo sguardo su Sandra: è riversa con la testa sul tavolo, muove a scatti le
mani e strabuzza gli occhi. La solleva e raccoglie il suo ultimo respiro. Ileana osserva l‟amica per
una trentina di secondi, alza lo sguardo al cielo, respira per l‟ultima volta e le crolla addosso
facendola sparire alla vista degli altri avventori.
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Niente
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Niente era stato il motivo che lo aveva convinto a partire. “Niente” si era detto, non sapendo
nemmeno lui il perché. Da quel niente si era ritrovato su di un‟isola di cui non aveva mai saputo
nulla. Aveva trascorso tutta la vita senza chiedersi niente. Abituato a vivere, senza mai chiedersi
cosa ci facesse in quel momento, in un posto qualunque, si guardò intorno e si convinse subito di
un'idea: anche ora non c‟era niente che gli potesse far cambiare idea. Il poliziotto al controllo
passaporti gli chiese il motivo che lo aveva portato all‟Avana. “Nessun motivo”, rispose come se
fosse normale volare da una parte all‟altra dell‟Oceano Atlantico per un niente. Si ritrovò lungo il
Malecon nell‟ora del tramonto inondato di luce. Sul molo antistante il mare un giovane uomo
bagnava la pietra porosa con l‟acqua per poi prendere la rincorsa e far scivolare il suo corpo lucido
rivestito di gocce, così trasparenti da brillare di luce dipinta. Una due tre, cento volte di seguito,
senza fermarsi mai, abituato a farlo tutti i giorni dell‟anno. Osservava quel corpo ricoperto di gocce
sempre meno trasparenti, in un tramonto di luce asettica che si lasciava sprofondare nel mare
pastoso dell‟Avana. “Chissà quanto tempo ci vorrà perché diventi buio?”, ma subito dopo pensò che
a lui del tempo non gli importava niente. Tutto scorreva lentamente a ritroso, rivedeva la sua vita
scorrere al rallentatore, mentre il buio della sera avanzava inesorabilmente. Un sibilo suadente si
diffuse per le strade deserte. Il buio rubava la luce. Rumori di passi sempre più lontani lasciavano il
posto a gocce d‟acqua salata, il tramonto stava per catapultarsi di là dal vuoto. Era in un posto dove
il tempo non importava a nessuno. Forse non esisteva, e lui non voleva pensarci. Era lì in quel
momento, ma poteva essere da un‟altra parte e non provare niente di diverso, ma subito dopo si
ricordò che era lì e non poteva farci niente. Una città dove le strade erano larghe quanto le piste di
un aeroporto dove non atterrava mai nessuno. Un posto dove tutto si muoveva lentamente e non
aveva mai fine. Il giorno dalla notte, la luce dal buio, il silenzio dal rumore. Come la musica. Tutto
era musica all‟Avana. Un suono che ti avvolgeva come un respiro affannoso di vivere. Era tutto e
niente. Se la volevi possedere lei sfuggiva. Sempre. Era intorno a te. Tutto all‟Avana stava intorno a
te. Si guardò intorno. C‟era solo la luce in un tramonto che sprofondava dietro l‟orizzonte. C‟era il
vuoto, mentre diventava buio. Era così e nessuno poteva farci niente. Non riusciva più a distinguere
il cielo dal mare, l'acqua dalla terra, il giovane uomo da sé stesso. Tutto era diventato l‟uno e l‟altro
e non poteva essere altrimenti. Fu allora che scomparve dentro il buio e di lui non si disse più
niente.
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53
Otinoil Goknir
«Ora parleremo dei monoscopi e delle ombre. Di certe forme di oscurità. Di un angolino di
ventunesimo secolo.»
«Ho tutte le risposte.»
Giornata luminosa, inizi di maggio, sole come oggetto esplicito spalmato in cielo a colare
incandescenza. Il tecnico del suono, uno studente lavoratore laureato in scienze di qualcosa, prende
posto dietro alla console e si infila in testa un sistema insettoide di cuffie auricolari e microfono. Un
separé a tre ante di chiffon color crema e un groviglio arboreo di cavi che sparisce nella penombra.
Odore di segatura e resina.
«Thomas O. Goknir, universalmente noto come il „Non Visto‟, o„Il Folle‟, o semplicemente „Dio‟.
Zero interviste rilasciate in trentasei anni di carriera, diciotto film girati, di cui nove mai proiettati e
mai visti, diciotto pellicole illegali e pubblicamente contestate e bandite dai governi di ben diciotto
nazioni, vincitore di tutti i premi esistenti a livello di film d‟essai, candidato a trentasei premi
internazionali per il suo “Anhal Talking”, di cui nove oscar, nove golden globe, nove orsi d‟oro, un
film in prossima uscita della durata di trentasei minuti girato, a tratti, in tutti ventisette anni di
carriera del regista. L‟uomo che è stato definito da Wenders un Ozu dell‟occidente moderno. Lui
Thomas O. Goknir ha deciso di rilasciare quest‟oggi un‟intervista della durata di nove minuti presso
la nostra emittente Agord Law radio.»
La penna dello speaker è a forma di siringa .
Da dietro il separé un rumore, come di esplosione di fiammifero e un rigagnolo ortogonale di fumo
che si alza verso il soffitto.
«Anhal Talking è una storia triste. Racconta la vita di un militare mutilato, reduce dalla Guerra del
Golfo, che dopo l‟esplosione di una mina durante una normale perlustrazione, si ritrova ad aver
perso oltre alle gambe e le braccia, anche la testa, e una volta ritornato in patria riesce a comunicare
soltanto attraverso eruttazioni aerofagiche in linguaggio morse. Qual è invece la storia del nuovo
film, che, ricordiamolo, si chiamerà “Il Dio Severo”, quali saranno gli argomenti trattati?»
«La terza persona universale. Un solo argomento. La verità.»
«Cioè?»
«La nostra mente non può cavarsela da sola senza di noi. Ho divorato centinaia di migliaia di
pagine. Sono uno di quelli che alzano la cornetta del telefono per chiamare un taxi e al tassista
dicono “A tutto gas, presto, in biblioteca.” Penso che si dovrebbe discutere di più in merito
all‟influenza di Shlegel su Kierkegaard, penso che Wozniak potrebbe essere l‟anticristo e che
Wallace non sia altro che uno Shakespeare pessimista in uno specchio deformante. Penso che chi
utilizza il termine tremendo per definire qualcosa di assolutamente meraviglioso abbia dei seri
problemi di socializzazione, che le persone di cui avere paura sono quelle che hanno più paura di
noi, che è possibile imparare cose preziose da una persona stupida, che chiunque sia stato in
prigione non ritorna più quello di una volta, che il concetto di accettare sia in sé un concetto
difficile da accettare, che per qualche perverso motivo legato alla propria soggettività è più
divertente desiderare qualcosa che averla, che si può abusare della propria generosità, che se vi
sentite soli dopo aver fatto sesso con qualcuno significa che non è vero amore quello che intercorre
tra voi e il qualcuno, che in una repubblica democratica deve essere consentito volere, ma non
necessariamente in una religione, che gli angeli possono anche non esistere ma esistono persone che
potrebbero essere angeli.»
Il mondo visto da questa stanza sembra solo un casino gentile. I banchieri spolpa ossa sono solo
lumaconi da biberon. Le alogene tingono il volto dello speaker del colore delle mele acerbe. Una
goccia di sudore corre giù lungo tutta la fronte lasciando una scia rettilinea.
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«Una curiosità. Qual è il significato della “o” puntata dopo il suo nome di battesimo.»
«È il nome di mio padre, Otinoil.»
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Piccola storia
Il guerriero finì il suo giro di perlustrazione e tornò verso il portale di accesso.
Tranne qualche gigante di passaggio, che normalmente si teneva alla larga, non c'era niente che
facesse pensare a un imminente pericolo.
Si guardò attorno osservando la pianura, le lavoratrici si davano da fare nei campi protette da altri
guerrieri, tutto sembrava tranquillo.
“Tranquillità”, che strana parola per uno come lui, un guerriero che aveva fatto parte dell'orda.
Per un attimo rivide i suoi compagni, migliaia di guerrieri che sciamavano per la valle distruggendo
tutto quello che trovavano sul loro cammino, senza rimorsi, senza pietà. Poi un giorno, come se Dio
avesse voluto punirli, il diluvio calò su di loro, l'orda che lui aveva sempre considerato come un
fiume in piena fu spazzata via da un fiume ancora più grande e reale. Erano morti a centinaia, a
migliaia forse, lui era stato trascinato a valle per molti chilometri, lì stordito e ferito era stato trovato
e condotto al cospetto della regina di quella terra.
Quello era un regno piccolo e felice, un regno che forse la sua orda un tempo avrebbe spazzato via
senza nemmeno uno scrupolo, era la stessa cosa che pensava la regina, glielo lesse negli occhi, e lui
sentì di essere in debito con i suoi abitanti.
Lo nutrirono e lo curarono, alla fine si era guadagnato la loro fiducia o forse no? Era perché
conoscevano la sua forza che gli avevano concesso di custodire da solo l'entrata boschiva della
colonia? O era perché non si fidavano abbastanza di lui per affiancargli altri guerrieri? Se ci
pensava era frustrante, ma d'altra parte adesso era in pace con se stesso e nient'altro importava.
Si spostò per mettersi all'ombra delle grandi piante che custodivano l'entrata e salì su una roccia in
modo da avere la visuale sgombra. Ancora una volta si trovò ad ammirare quel piccolo regno,
ripensò alle immense strutture della colonia, al buon cibo, alla compagnia e al lavoro ben
organizzato.
Ormai erano due anni che viveva in quel luogo, e si era sempre sentito in debito con coloro che gli
avevano salvato la vita. Adesso quella sensazione non esisteva più, adesso si sentiva parte di quel
regno, adesso era sicuro di voler difendere la colonia perché era il suo posto e non perché vi era
costretto dal suo codice d'onore. Era insomma contento della sua nuova vita.
Il filo dei suoi pensieri fu spezzato all'improvviso, una forte vibrazione giungeva dal terreno
facendo tremare la roccia sulla quale si era appostato.
In lontananza vide le lavoratrici che venivano condotte verso i portali del regno dai guerrieri,
l'attività era frenetica perché tutti sapevano a cosa corrispondeva quella vibrazione: giganti, forse
una decina e per giunta in piena corsa.
Un'ombra sferica sul terreno attirò la sua attenzione, possibile che i giganti fossero giunti così
vicini? Possibile che... Il guerriero non terminò mai la sua riflessione, il pallone da calcio lo
schiacciò violentemente al suolo uccidendolo all'istante, i bambini continuarono la loro gioiosa
corsa senza badare al piccolo corpo della formica che avevano appena superato.
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56
Piselli freschi
Estate. Le foglioline pigre ai piedi del pioppo che dopo il temporale profumano di biondo. Le
espadrilles sensibili all‟umidità della sera vibrano note di corda colorata. La zanzara ronza la sua
proposta indecente alla pelle profumata di calendula. La cannuccia rumorosamente protesta con il
bicchiere in secca di cedrata. Il golfino rosa accoccolato sulle spalle assorbe ingordo gli aromi delle
sagre.
Tempo di vacanze e di piselli freschi. Un accostamento bizzarro, ma meno surreale di quanto si
possa pensare A quasi tutti sarà capitato di sgranare i piselli in quell‟ora vuota della mattina, quando
il tempo è troppo poco per fare qualsiasi altra cosa. Si passa davanti alla cucina per andare in
giardino a controllare se è arrivata posta e lo scenario allestito ci suggerisce di chiedere «Posso
darti una mano?». Certo che possiamo: è un‟attività democratica che non ammette nessun tipo di
discriminazione, tanto meno di età o di sesso. Tutti possono dare una mano a sgranare i piselli sulla
tavola della cucina ancora innamorata delle briciole della colazione e non ancora corteggiata dai
profumi della cottura del pranzo.
Sulla tovaglia di plastica, un foglio di giornale, il colino di smalto bianco, cimelio eredito dalla
nonna, e un mucchio di piselli chiusi nei loro baccelli come bimbi in fasce.
È facile sgranare i piselli e al contrario di altre mansioni ripetitive non è poi così noioso, forse
perché ogni baccello è diverso dall‟altro e bisogna calibrare la pressione del pollice sulla costola.
Certe volte è necessario fare una piccola incisione; ma questo imprevisto viene compensato dal
piacere di sentire l‟umido della polpa densa sfilacciarsi e irrorare di sangue verde il sorriso bianco
delle nostre unghie.
Poi si fanno scivolare giù le palline con un dito, in una sorta di flipper. L‟ultima è piccolissima e ti
viene voglia di metterla in bocca; il suo sapore è amarognolo ma fresco come l‟acqua della pasta
che ancora non brontola sul fornello.
I piselli cadono nel colino in un ritmo scandito da un metronomo interno e prima di tuffarsi, quelli
più grossi, sembrano strizzare l‟occhio alle carote sul lavello che maliziosamente mostrano le loro
nudità semicoperte dallo strofinaccio.
Nel colino cadono anche le parole, serenamente centellinate, e l‟anima setaccia i pensieri per
trattenere solo quelli che hanno il suono più dolce. Tutto rigorosamente a testa china. Quasi con
devozione come quando si sgrana il rosario.
Passiamo la mano nelle palline sgranate che riempiono il passino, sono lisce e fresche; tutte quelle
rotondità formano un laghetto verde e quasi ci meravigliamo di non ritrovarci la mano bagnata.
Accartocciamo il giornale con le bucce vuote come vestiti di amanti impazienti, disseminati lungo il
percorso che dal soggiorno porta alla camera da letto.
Sgranare i piselli, sgranare un po‟ di pace familiare e poi uscire a prendere il pane. Rigorosamente
con la mollica per fare “scarpetta” e raccogliere fino all‟ultima goccia di quei piccoli piaceri
quotidiani che aiutano non perdere mai l‟appetito di vivere.
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57
Polvere
La casa è immersa nel silenzio. E‟ il mio giorno libero, voglio nutrirmi di quel silenzio, crogiolarmi
in un sano otium e invece mi aggiro inquieta, consapevole che da lì a poco accadrà una lotta con la
polvere, quella dannata bestia. Ci sono momenti in cui prende il sopravvento e mi sento come un
animale senza scampo, ma non le ho mai permesso di arrivare al mio cuore. Indugio prima di
prendere il panno; il pensiero di rispondere alla mail di Federica si fa strada nella mente, non
incontra ostacoli, è come un viaggio libero. Punto dritta alla mia postazione internet, non
trascurando un dettaglio importante: la casella di posta è stracolma, occorre far pulizia!
Mi compiaccio dell‟acuta osservazione che mette a tacere la mia coscienza: per il momento non mi
occorre il panno, ma solo un colpo d‟occhio per eliminare le centinaia di comunicazioni obsolete.
Shift + Canc, Shift + Canc…ma …che diavolo… E questa da dove salta fuori? Un brivido percorre
la schiena, nonostante i 25°. Un dubbio atroce mi assale: cancello o leggo? Prevale la curiosità
morbosa di riandare a quel contenuto ormai dimenticato e che, per uno strano gioco del destino, è
invece ancora lì, pronto per essere fagocitato e poi spezzettato in mille frammenti che andranno in
circolo tra le mie sinapsi, creando chissà quali seghe mentali…
”Ho trascorso un pò di tempo guardando le foto che sul tuo sito hai messo di recente e leggendo i
commenti mi accorgo di quanto poco io conosca di te, di quello che ti piace fare, guardare, ma
soprattutto non conosco la tua prospettiva sull'osservarti il mondo attorno....
Lo ammetto, ho l'impressione di non conoscerti affatto o meglio di avere scoperto solo una delle
sfaccettature della (sicuramente!!) preziosa pietra, della tua poliedrica vita.
Mi ritrovo un pò spiazzato, quasi fossi un intruso nella tua vita, anzi credo di esserlo proprio.
E' molto bello quello che siamo riusciti a creare insieme dal nulla, da un incontro del caso, ma le
distanze rendono tutto complicato, mentre io ho una capacità eccezzzzionale di rendere complesse
anche le cose più semplici. Ho paura di rovinare tutto, la nostra amicizia, la nostra
corrispondenza.... Voglio riuscire a stare buono buonino qui in un angolo ad osservare quello che
succede, cercando di tornare a cogliere le più profonde sfumature ed i particolari del nostro
vagare, trattenendo le nostre mail come delle istantanee di un viaggio insieme.
Ciao signorina
Sempre vicino Renato”.
Resto a fissare lo schermo, immobile, ma tale non è la mia mente.
Rivedo quel mio muovermi pericolosamente lungo la frontiera tra il perdersi e il trovarsi, con
provocazioni, malintesi, bugie, reticenze, da cui sono esplose sensazioni sopite. In tutto questo caos
percepisco che il tempo ha la parte del grande corruttore: avvelena e trasforma le vicende, o le
spegne anno dopo anno e si perde sempre qualcosa.
La luce che entra dalla finestra riesce a trovare un‟eco solamente nell‟aritmia del mio respiro, come
un battito d‟ali di farfalle agonizzanti. Mi stringo nelle spalle. Dopo anni provo una sensazione di
delusione, credevo fosse già anestetizzata. Mi sbagliavo, ma curiosamente cominciavo a sentirmi
più leggera. Avvicino la mano alla tastiera e decisa premo Shift + Canc.
Mi alzo, con la sensazione di aver pulito a fondo.
Ho voglia di respirare alla luce del sole, di correre contro il vento, di vedere il mare; mi occorrono
pochi minuti: pantaloncini, scarpette, canotta. Raccolgo i capelli con un fermaglio, preparo il mio
fido lettore mp3, una bottiglietta d‟acqua.
Nelle mie corse lungo il litorale non c‟è mai polvere.
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58
Preghiera di una madre
(la notte che sono nato io)
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«Assomigli a…», ma non ti venne.
Non assomigliavo a nessuno, ero io e basta, tuo figlio.
Non hai chiamato papà, gli avevi promesso un figlio all‟alba ed era ancora notte. Fino alla prima
luce ero solamente tuo. Mi hai cominciato a parlare, piano, per non svegliarmi del tutto. Fuori c‟era
il mondo, c‟era una vita intera per conoscerlo.
«Ma fino all‟alba siamo soli al mondo, siamo io e te.»
Hai cominciato a pregare.
Ricordo bene quella preghiera, non ne dimentico mai una.
«Sarai diverso, ma senza esagerare, diverso com‟è un fiocco di neve dall‟altro, un‟oliva dall‟altra.
Fa solo, o mio Signore, che sia un nessuno nella storia del mondo, fa che sia un uomo semplice,
contento di esserlo e che si arrabbi soltanto con le mosche. Fa che non sia bello, e se lo fosse, che
non susciti invidie per questo. Fa che sia rispettoso di tutti, ma soprattutto di chi non ottiene rispetto
dagli altri.
Fa che sia intelligente, senza imporlo mai a nessuno.
E che sorrida sempre. Ascolta questa mia preghiera alla rovescia. Che sia nessuno, questo figlio
mio, un progetto accantonato, una ricorrenza sfumata nei labirinti della memoria. Già ti pregano
tanto di ricordarti di questo e di quello. Dimenticati di lui, ma ricordati di non scordartene mai.»
«Tocco il tuo corpo liscio e rosa, e mi sembra di vederti.
Hai quasi quarant‟anni, sei un uomo. Ti accompagno lungo una navata ricolma di fiori.
È una festa di nozze, tu sei lo sposo, noi siamo gli invitati. Ti chiedo qualcosa, tu mi guardi ed
arrossisci. Te lo consegno quel giorno. Non dico, così sia, dico, non sia prima di così. Lo consegno
a te. A te che esistevi in lui molto prima di conoscerlo, a te che lo hai salvato.
Goditelo, e siate felici. È anche un po‟ tuo.»
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La clinica è una clinica di Roma, precisamente ubicata dove la via Flaminia comincia a liberarsi dal
traffico, allontanandosi dal centro città.
Nevica incessantemente da due giorni, ma non è una neve da città, è neve d‟alta montagna, è una
neve da Cervinia. Sento che oramai manca poco, mia mamma parlava e soffiava, e poi un altro
colpo, ed un'altra soffiata.
"Brava mamma, continua così, un altro colpo e sono fuori!!"
Faceva mosse esperte, senza conoscerle.
Il suo corpo eseguiva senza ordini, nessuno lo aveva istruito.
Le hanno tagliato il cordone ombelicale, un solo taglio, ma netto, era un taglio di alta sartoria.
«Eccoti, finalmente!», esclamò mia madre, poi mi palpò da tutte le parti, fino ai piedi.
In quel preciso istante la luna passò davanti al sole, oscurandolo.
Fuori dalle finestre si fa una pace schiacciante, si fermano pure le formiche.
In quel momento nessuno ruba, nessuno ammazza, nessuno muore.
Per un minuto il mondo è costretto a comportarsi bene, parlando a bassa voce.
Mi ha annusato, ero proprio io. Sapevo di me.
Ha messo l‟orecchio sul mio cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifiato.
Al lume delle stelle mi hai guardato, brutto come un neonato, impastato del tuo sangue ma perfetto.
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59
Ed io che continuo a dormire.
«Dormi» - mi dici – «domani vedrai la prima luce della tua vita. Dormi, e sogna che sei ancora lì,
che la tua vita ha ancora il mio indirizzo. Ma poi dovrai andare per la tua strada. Ma in sogno potrai
tornarci sempre. Ogni volta che vuoi.»
Sbiadisce l‟ultima fioca luce di una timida stella, il giorno striscia felpato scardinando la notte. Mio
padre sta sulla porta.
«Maurizio, bambino mio, ti presento il mondo.»
«Entra Aldo, questo adesso è anche figlio tuo.»
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Cara Mamma, te la ricordi quella notte? È stata una notte stupenda.
Una notte solo nostra.
Provo ogni giorno a dimostrarti il mio amore, se a volte non lo senti è perché spesso lo faccio senza
fare rumore.
Ma oggi ti ho fatto un regalo.
Ti ho regalato un vaso di parole.
Questo ho fatto, perché non so fare altro.
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60
Raptus
L'uomo è anziano, ha calcata in testa una coppola infeltrita e porta a mano la bicicletta, spingendola
lungo le strisce pedonali.
Cammina lentamente, penso che si è no arrivi alla fine del mese con la pensione minima: ha fatto la
spesa al discount alimentare, nel cestino c'è un sacchetto con i manici annodati a cocca.
Giungendo in auto, anche se viaggio a velocità sostenuta ho tutto il tempo di vederlo, fare le mie
considerazioni e schiacciare il pedale del freno. Sento l'abs entrare docilmente in funzione.
Dietro di me, il rombo arrogante di un motore di grossa cilindrata, uno stridore di freni. Sudo freddo
aspettandomi il colpo della strega, lo sguardo al retrovisore, ma per fortuna il suv s'arresta a pochi
millimetri dalla targa posteriore della mia vettura.
Il conducente smonta di macchina, inveisce contro il vecchietto che si dilegua con lo sguardo basso:
non vuole essere coinvolto in un litigio, ha già lottato abbastanza in vita sua, adesso è stanco e vuole
stare in pace.
Così il tizio del suv mi bussa al finestrino, tengo la musica alta e vedo solo la sua bocca che si
muove e qualche gocciolina di saliva m'ipnotizza partendo dal fondo delle sue fauci per
insudiciarmi il vetro. Ma che cazzo vuole, questo strafottente di vent'anni col macchinone?
L'attraversamento pedonale era ben segnalato, come l'ho visto io dovrebbe averlo visto anche lui.
Perché se la prende con me per la sua disattenzione? Immagino che pensi che avrei dovuto investire
il nonnino, d'altronde la sua macchina è nuova e adesso vuol dare la colpa a me per aver corso il
rischio di tamponarmi.
Stiamo intasando il traffico, dietro c'è già qualcuno che suona il clacson. Penseranno che ci sia stato
un incidente e in effetti c'è mancato poco. Peccato deluderli e non dargli niente da raccontare a casa.
Nel mezzo della strada, spengo con calma la sigaretta nel posacenere, soffio fuori il fumo dal naso,
e mentre con la mano sinistra abbasso il finestrino elettrico - lasciando che gli strepiti insensati del
tizio m'investano - con la destra frugo nel cruscotto per trovare la pistola, gliela pianto in mezzo agli
occhi e faccio fuoco.
Poi prendo il cellulare, chiamo il 112 e, mentre aspetto che mi vengano a prendere, mi accendo
un'altra sigaretta.
Non credo che starò dentro molto, s'è trattato di un raptus, di un momentaneo stato
d'infermità mentale dovuto a un eccesso di stress.
Quindi, quando siete in macchina e vi viene in mente di fare qualche cazzata, fate attenzione: potrei
essere già fuori.
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Sferzata d’amore
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Isabelle, una donna con i suoi anni, ma lo spirito giovane, immersa nel silenzio della natura, assorta
in una musica Mozartiana e riscaldata dal tiepido sole, ricorda lui, Robert, un ragazzo appena
trentenne, quando, pochissimi anni fa la amava.
Nei suoi occhi, nella sua bocca, nei suoi seni di donna matura, nei suoi orecchi sono rimaste
imprigionate le frasi che lui le sussurrava delicatamente, gli euforici battiti di cuore e il rossore sulle
gote di lui che mettevano in evidenza la sua celata timidezza.
Ricorda con emozione alcuni versi che lui era solito dedicarle:
“..Ti amo ..sei ineluttabilmente bellissima…
Mani di magica virtù…
… leggiadria del tuo cammino mi investe…
sorriso lucente come diamante…
armoniosa figura tra le onde…”.
Queste ed altre frasi le ritornano come sospiri e respiri accecanti…
Si, lui era accecato d‟amore e le chiedeva di abbracciare il suo mare…
Isabelle era sposata e respingeva a fatica l‟ardore di quel ragazzo che ogni giorno era solito cercarla
per sprofondare il suo cocente sguardo in quello armonioso di lei, composto di luccicanti smeraldi.
Lì, lui si perdeva, veniva abbagliato, incantato dalle movenze della sua sirena, dalle sue mani che
dipingevano perle che, come aliti incandescenti, vibravano nel cielo.
Ma, a questa infinita passione, il più delle volte, prendeva il sopravvento la ragione..
No, non posso continuare ad amarti! Devo ritornare sul mio cammino!
E lui:
Per Isabelle fu uno squarcio di vita vissuta intensamente con i tenui bagliori di una serena alba, con
il fuoco prepotente di una passione travolgente, con le emozioni svolazzanti come leggiadre farfalle
nei meriggi primaverili.
Ricorda la prima volta quando, incantato, lui le si accostò timidamente per donarle una rosa
rossa…Le disse:
“ Questo il preludio del mio amore per te…
Il preludio di un amore
tenero e vellutato
come questi petali…
rossi ed infuocati di passione…
Vivrò i miei giorni accanto a te,
scoprirò petalo dopo pelato
la tua armonia celata,
la tua essenza,
il tuo candore,
mi immergerò in essi
e ne assaporerò le infinite bellezze.
Insieme supereremo gli ostacoli,
ci stringeremo
per non perderci.
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Non tormentarti con tanti perché del mio amore
ne conosco il vibrare, la potenza e li vivo in te!
Nel tuo sorriso scopro la mia essenza.
Se non ti amassi scivolerei nell’apatia
e senza i tuoi incantevoli sguardi
e le tue affettuose carezze,
sarebbe vana la mia vita!
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62
Amami…!”.
E‟ proprio in estasi Isabelle mentre ricorda il suo passato amore…
Continuano i ricordi… quando, dopo un inverno, una primavera, un‟estate ed un autunno fatti di
sconvolgente passione, di armonie, di incanti, di silenzi, di perdono, di scuse, di baci, di infiniti
abbracci, di gelosie e di eloquenti parole d‟amore, lui, il suo tenero ragazzo partì.
Doveva seguire la sua giovane strada.
Le diceva che la lontananza non avrebbe permesso di cancellare la loro infinita passione. L‟avrebbe
cercata sempre… avrebbe continuato ad amarla, avrebbe continuato a circondarla di immense
poesie…
Ma una sera Isabelle, decise di parlargli per donargli l‟ultimo canto d‟amore, l‟ultima emozione, gli
ultimi attimi paradisiaci, lo avrebbe stretto a sé come per imprimere in quell‟abbraccio un marchio
indelebile che sarebbe rimasto tale anche quando tutto sarebbe finito..
E fu così:
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”In quell’ultimo incontro
paradiso d’amore
mi strinsi a te
celai il mio dolore
mi feci forza
mi abbandonai
per l’ultima volta
nel tuo cielo
che mi aveva donato
una sazietà d’infinito
mai provato.
Sarai sempre dentro di me
Tenero mio amore”.
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63
Tassonomia Cosmica di Apuleio e delle statue
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Sussurra ai Cordati, di come, in un tempo lontano, dal ventre è esploso in un bagliore tostato e di
come mentre esplodeva, il suo addome era accompagnato da una carica di Scorpioni blu, di come,
quella carica le ha dettato il caustico veleno. Per poter vedere come mille Pedipalpi diversi e opposti
tra loro, l‟hanno stabilizzato in quello che oggi è il Palaeophonus.
E‟stato chiesto all‟Ente Nazionale di spiegare l‟impatto delle Traversine sul „Idrovolante.
Non succede spesso che un locomotore abbia la possibilità di sperimentare le reazione delle
Travature Crociate da due punti di vista diversi ed estremi. Sono Kit di costruzioni amatoriali che
avvertono gli effetti negativi della Fusoliera a Semi-Monoscocca. Avverto i piccoli galleggianti
come treno "Monoscocco" e come Plano "Semi-Monoscocco". Prima del completo cambiamento
della corda alare media, sono stato preso nella direzione normale del flusso d'aria, a causa della
cornice d'uscita di un profilo dell'ala centrale. Ora concepisco le ali tozze, a causa della mia
ipertrofia d‟aeromobile. Con il cambiamento del Libeccio senza scambi di calore, la torre vede
come una Mongolfiera a spicchi .
Imparentato per ore ad orecchiare un Espresso raccontare la propria esistenza da Gotha Circondario,
quella di parecchi anni fa, proprio come quando ero imberbe Pantografo. Lui non aveva teoretici
opinabili: “La perequazione chiara rispetto ai miei tempi è che ognuno oggi pensa esclusivamente
alle doglie del Pendolino. Avviene persino dentro l‟araldica dei binari, gli “altri” sono
inesorabilmente una complessione di piccoli bordi ottusi.
La colpa è del benessere che negli anni del manrovescio ha montato l‟arguire plebeo. Un tempo la
Carrozza ristorante era la pastiglia di paragone. Ha fatto soppesare, la cara locomotiva è in effetti
caratterizzata dall‟individuo che rotata non filiformis.
La notte è assai profonda e grazie all‟alimentazione di piccoli gessetti, e all‟abbondanza di polveri
colorate, la statua di Hermes diventa leggera come un palloncino rosso. Forse è vicino il giorno in
cui deciderà di liberarsi dalle costrizioni della villa.
Cucita come stemma sulla bandiera delle piante rigate, un accordo di violini bianchi.
Il mio orecchio sente il parassitismo di Hermes. Il cloro serpeggia a tratti per i segreti della piscina,
correndo lungo il bastimento acqueo.
Bagnata e puntinata di mosche e calabroni.
Intanto, quelle valorosissime colonne da giardino, cadono come piccoli scacchi. Ma la statua di
Afrodite,
la più geometrica certamente di tutte le altre,
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Sulla sua enorme fiera mobile, cullava dolcemente lo sgorgo del vento.
Rivelava che appena morta, lei era cosciente di esserlo perché il cadavere, talmente era robusto e
possente che le permetteva una satiresca tropologia.
Come fosse una placenta turchese, che viaggia per enormi letti a castello, e giunge a noi
impollinandoci di burocrati.
Tamburelli con i quali emettono rapaci timbri,
dopo il marchio e il miasma. Una delle collezioni del ciclo dinastico. Un buco nero. Portone a
cassoni, Locusta veloce e vorticosa. Caduta ultrarapida in un carosello rotondo.
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stava allerta già da un pezzo a spiare ogni minimo rumore; lei, immobile trattiene il respiro, s‟è
avvicinata al bordo dei cespugli, inchioda la sua tunica con una grossa punta di marmo; poi denuda
completamente la statua di Orfeo, riprende la tunica dal cespuglio e di lì a squarciagola dà l‟allarme
ai vicini, chiamando per nome ciascuno di loro, li esorta a badare al pericolo comune e afferma che
in casa c‟è un grande scorpione blu.
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Tempo debito
Rincorro la luce che fugge, la perdo poco dopo l‟ultimo autogrill. E‟ quello che rimane ad
accompagnarmi fino a casa tua. Non è buio, non è colore. E‟ quella via di mezzo che mi ha sempre
infastidito. Il compromesso non ha molto scopo per quel che mi riguarda, eppure la trovo
dappertutto. Non avrei voluto arrivare a tanto, a litigare con te intendo, ma a quanto pare ogni cosa
sembra volgersi contro di me, ringhiare, mostrare i denti. E dire che avevamo promesso di stare
assieme e picchiare sodo contro chiunque avesse tentato di metterci i bastoni tra le ruote. Faccio il
giro largo del piazzale, voglio vedere la casa illuminata dall‟esterno, con le vostre forme che si
muovono fuori e dentro le stanze mentre ancora non ci sono. E‟ questione di equilibri, il mio
ingresso ridurrebbe i vostri percorsi, sareste mosche inseguite dalla mia mano. Tu, mia figlia, certi
momenti perduti di cui non ho memoria, tutto è là, ma siete talmente indecifrabili. Busso cercando
di fare più rumore possibile, per annunciare il mio arrivo, che non fosse un sobbalzo al cuore per la
bambina. Invece la trovo felice, un cappellino a punta da fata, una bacchetta di plastica e due dita di
rossetto sulla bocca. Cosa mi sto perdendo. Nemmeno venti giorni fa eravamo ancora una famiglia,
protetti dalle mura di questa casa. Poi, devo aver rotto qualche meccanismo, mettendoci mano.
Come quando sei curioso di vedere come funziona un apparecchio elettronico. Lo smonti, ci guardi
dentro senza capire, lo rimonti e ti avanza sempre un pezzo. L‟apparecchio non funziona più, ogni
ingranaggio cigola, è ballerino. Hai rovinato qualche cosa e non sai nemmeno come.
“Sì, più o meno hai fatto questo. Non capisco come tu non riesca a sentirti in colpa”
“Volevo solo capire cosa ci legava”
“Invece, toccando, hai sciolto”
“Avresti potuto raccontarmi bugie”
“Avrei potuto tradirti, questo intendi. Così mi hai tolto la fiducia. Mi hai ipotecata, come una delle
tue case”
“Non è questo. Le cose ti sarebbero sfuggite di mano e mi avresti potuto lasciare indietro. Ho solo
calcolato il nostro futuro”
“Tu valuti gli imprevisti, mentre io soppeso le possibilità. Presumi un futuro, quando io interpreto
un passato. Non eri così, lo sei diventato. Te lo dico io come stanno le cose. Sei un banchiere della
malora, hai contratto un debito con il tempo e adesso non puoi più ripagarlo”
Il cane raspa sulla porta, vuole entrare, approfitti per aprire la porta e invitarmi ad uscire.
L‟amore è una cosa orribile. Dice il saggio che si tratta di uno strumento che trascende, che diventa
incomprensibile nel momento stesso in cui si crede di averlo compreso. Un pesce guizzante,
sfuggente. L‟amore disarma, non è così? Ti rende vulnerabile, in qualche maniera solubile. Perché
tutto in te si scioglie, a cominciare dal cervello, che scende gocciolante in lacrime profumate. Dice
il saggio che si tratta di una reazione normale per noi primati. A parte l‟essere cosmopolita, è questa
la nuova, grande, diversità tra gli umani le scimmie e i lemuri. Le bestie non s‟innamorano, se lo
fanno non lo ostentano e ostentare è la forma di comunicazione più immediata. L‟amore è
invincibile, per questo va evitato. Se vuoi possedere una cosa, la devi controllare, guidare.
L‟imprevedibile non è programmabile, l‟incomprensibile non è spiegabile. Raccontare dell‟amore
rende bugiardi. Non voglio mentire. Dice il saggio che mentire per amore è giustificato da ogni
codice e religione. Potrai servirti alla mensa degli dei anche se hai farfugliato alla domanda: hai mai
amato?Però adesso sono solo, non c‟è niente davanti a me. Sono primo e sono ultimo.
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Tre giorni a cavallo
La vampata di calore la colpì in pieno volto; sentì il mascara sciogliersi sulle ciglia e raggrumarsi
pastoso alla base delle palpebre. Dal forno spalancato usciva una densa colonna di fumo grigio,
eloquente: il gratin di pasta al forno carbonizzato.
Luciana richiuse stizzosamente lo sportello, strizzando gli occhi impastatati di trucco e lacrime e
girando nervosamente all‟insù tutte le manopole del forno.
Finì seduta per terra, con la testa fra i guanti imbottiti da cucina a soffocare singhiozzi sincopati.
Che stupida era stata! Una specie di domino dell‟ingenuità: la cena era bruciata perché lei si era
distratta nei suoi pensieri, pensieri a spirale che l‟avvolgevano stringendola nell‟epicentro di quella
sconvolgente scoperta: Gabriele era un uomo, un maschio per giunta, con tutte le esigenze dei
maschi.
Scostò i guantoni chiazzati di mascara dal viso e cercò di calmarsi. In fondo non era una tragedia:
avere un figlio maschio che a 13 anni scarica film porno da internet è certo meglio di avere un figlio
malato.
Inorridì di fronte a quel pensiero. Ora stava davvero esagerando! Non solo aveva mandato a fuoco
la cena, imbambolata dalle sue paranoie, ora stava pure invitando malattie alla sua porta. Era
troppo.
Si rialzò rassettandosi i vestiti, spalancò la finestra per fare uscire il fumo che invadeva la stanza e
andò in bagno per lavarsi il viso. L‟acqua fresca le restituì un barlume di coscienza: sorrise
amaramente di sé stessa e della sua ingenuità.
Il suo bambino se n‟era andato, quel pomeriggio, o forse qualche tempo prima, masterizzando su un
DVD “Tre giorni a cavallo”. Poi Gabriele era uscito di fretta, in ritardo per l‟allenamento in piscina
e aveva lasciato il disco inserito nel portatile.
Che ingenua era stata; ottusa per giunta, nell‟ostinarsi a trattare quel figlio maschio ancora come un
bambino. Lo aveva nutrito, curato, accudito per 13 anni da sola, senza nessun altro con cui dividere
l‟ansia della febbre, o le preoccupazioni per la scuola ed era dovuta arrivare a quel mercoledì
pomeriggio, davanti alla visione di un film soft-core per ricordarsi il motivo di tanta fatica. Stava
crescendo un uomo, non un bambolotto.
Stava crescendo un uomo e l‟aveva scordato. Era sempre preoccupata per la sua salute, per i
bisogni materiali, gli orari da rispettare e tutto quell‟affanno le aveva anestetizzato la
consapevolezza che quel bambino doveva morire per diventare uomo, doveva avere voglia e
bisogno di altre donne, doveva soffrire e sbagliare, doveva fare milioni di altre esperienze e molta
strada lontano da lei.
Ricominciò a piangere di nuovo. La vita è davvero un posto strano dove stare, qualche volta.
Beffardo.
Scosse la testa. Era passato così tanto tempo; e quei soldi, allora, le servivano disperatamente.
Chissà, forse Gabriele non l‟aveva nemmeno riconosciuta, in quel filmetto da quattro soldi. Era così
giovane, una ragazza madre senza lavoro e con un bambino di un anno da tirare grande.
Tolse il dvd dal portatile, il computer segnava le 18.50, fra poco Gabriele sarebbe rientrato dalla
piscina, affamato come sempre. Forse era meglio ordinare due pizze.
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Un’inutile sera di mezza estate
Quel che mi sgomenta è che non riesco ad abbracciarla.
Non mi preoccupano i violenti singhiozzi che scuotono il suo corpo raggomitolato, o le frasi
sconnesse che balbetta tra le lacrime: a noi donne piangere fa bene, e se biascicare qualche
sproposito può aiutarla a sentirsi meglio, che urli e pianga e dica tutte le idiozie che vuole, io starò
qui ad ascoltarla.
Ma sono i gesti con cui inconsapevolmente mi chiude fuori dal suo dolore, la serrata rigidità del suo
corpo a spaventarmi: arroccata all‟estremità del divano, stringe le ginocchia al petto, si asciuga
convulsamente gli occhi con dei kleenex che poi appallottola e getta con rabbia a terra, come
proiettili lanciati dalle mura di una fortezza.
“Te la ricordi la casa sull‟albero? Quella nel giardino dei tuoi nonni?” chiede poi all‟improvviso,
guardandomi finalmente negli occhi. “Se potessimo tornare a rifugiarci là…”.
Eravamo già grandine, quando mio nonno ce l‟aveva costruita: due ragazzine sugli undici anni,
eppure l‟avevamo fortemente voluta. Il motivo credo di averlo compreso molto dopo, quando
l‟epoca delle ginocchia sbucciate e delle arrampicate sugli alberi era definitivamente tramontata da
un pezzo: era il nostro rifugio dal mondo adulto, le cui regole ci parevano incomprensibili e nel
quale volevamo entrare, se proprio era necessario, a modo nostro. Le compagne ci dissero che la
casa sull‟albero era “una cosa da maschi” e anche le nostre famiglie trovavano bizzarra l‟idea, ma
per noi era il luogo dove in qualsiasi momento potevamo evadere da una quotidianità noiosa e
opprimente per ricreare una realtà nuova, con i propri punti cardinali, dove in un istante potevamo
diventare quello che volevamo essere.
“Perché non si può avere per sempre una casa sull‟albero?” chiede lei, china a raccattare i fazzoletti,
gli occhi asciutti ma ancora rossi.
“Forse perché siamo diventate grandi”.
“Avevamo giurato di non diventarlo mai”.
“Ci eravamo sbagliate” le rispondo con dolcezza.
“No. E‟ adesso che siamo sbagliate. Che io sono sbagliata” mi risponde con una sorta di astio nella
voce.
Non ce l‟ha con me –mi dico- e tranquilla mi risiedo.
Lei getta i cleenex nel cestino e riprende la sua postazione sul divano, le labbra strette, lo sguardo
nel vuoto. Questa sua durezza, che la trattiene al di là di ogni consolazione, m‟inquieta più della
disperazione di prima.
Lei accende una sigaretta e s‟illude di nascondersi dietro le fugaci volute di fumo. Siamo, nella
stessa stanza, infinitamente lontane.
Stavolta non l‟aiuterò: non ne sono capace.
Il silenzio è sempre più rovente, in questa inutile sera di mezza estate.
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Va tutto bene. Grazie.
“Va bene. Alle sette.”
Le sette sono di domani mattina. Ovviamente. Che palle, penso, visto che sono le 20.05 di oggi.
Le sette vuol dire fare il check in alle 6. Vuol dire alzarsi alle cinque, vuol dire parlare col tassinaro
di fine turno. Stanco. Speriamo almeno non depresso.
L‟ultimo tassinaro che ho incontrato per prendere il volo delle sette, aveva deciso di farla finita con
me sul suo taxi. Insieme. Dopo averne parlato in maniera molto poco diplomatica lo convinsi a farla
finita da solo, anche se lui ribatteva che morire da soli è proprio triste. Ne convenni anche io, in un
certo senso, ma preferii scendere e se proprio doveva morire, che morisse da solo. Gli feci anche le
condoglianze anticipate.
Fu così che mi scaricò, piangendo, sulla corsia di emergenza della Roma Fiumicino, ma non prima
di avermi fatto pagare la corsa fino a quel punto.
Tassa per la sopravvivenza che pagai volentieri.
Fu così che venni recuperata da un camion della Bartolini proprio come se fossi un pacco. In
tailleur. Ma un pacco.
Rilevo inoltre che prima di essere “salvata” dalla Bartolini che ringrazio, si fermò una pattuglia che
non mi diede un passaggio in aeroporto dove era diretta, ma mi fece la multa perché ero in corsia di
emergenza senza giubbotto arancione. Ovviamente la pattuglia rilevò solo la mancanza del
giubbotto catadriottico e arancione e non la mancanza di una macchina in panne.
Mi dissero anche, “Ringrazi che non le facciamo la multa anche per divieto di autostop”. Stante la
giornata, ringraziai.
Io neanche ci volevo andare a Milano a quella riunione.
Si era già configurata una serie di eventi terribili e non era neanche propriamente giorno.
Offrii un caffè all‟autista della Bartolini. Bello, simpatico, in divisa anche lui e bulgaro. “Siamo un
popolo di nomadi ecco perché faccio il camionista” disse mangiando un cornetto caldo caldo.
Il volo partì puntuale. Bevvi il terzo caffè in aereo. Mentre lo bevevo arrivò la turbolenza: ci si può
scommettere che la turbolenza arriva sempre mentre stai bevendo una cosa scura che macchia.
Il caffè finì sulla camicia bianca. La mia. La volta precedente andò meglio: il caffè finì sui pantaloni
del mio vicino di posto.
Scoprivo che c‟era sempre un‟ultima volta, purtroppo molto simile a quella presente.
Detto ciò, a prescindere dalle ultime volte, domani partirò alle 7 da Roma alla volta di Milano, a
fare una riunione alla quale, come sempre, non ho voglia di partecipare, e nella quale dovrò
comunicare il numero e i nomi delle teste da eliminare a breve.
Sono l‟annunciatrice delle ristrutturazioni aziendali che altro non sono se non tagli.
I colleghi di Milano, quando mi vedono arrivare, si toccano. E non perché sia bella.
Va bene. Va tutto bene.
Ammesso che arrivi a Milano, attese le ultime volte, comunicherò i nomi, qualcuno si incazzerà, il
sindacalista mi darà della iena, qualcuno farà del pietismo, qualcuno si indignerà con dignità. I
meglio. Dico io.
Sono un capro espiatorio. Per quello mi pagano bene. Non ho responsabilità nei tagli. Nessuna
responsabilità nell‟andamento dell‟azienda, ma ho un gran bel modo per comunicare le brutte
novità. Ecco perché come centro di costo sono alto e non mi licenzieranno mai atteso che me lo
dovrei comunicare da sola, in un bel modo.
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Ok. Sono le 5. Radio solo musica italiana. Caffè. Metà sul fornello. Doccia. Biscotti al frumento da
inzuppare. Leggo la lista dei nomi tra il secondo e il terzo biscotto in accappatoio. Come sempre. È
un rito.
È un bel momento per comunicare a se stessi di essere stati licenziati.
Posso tornare a letto. Nel mio prossimo lavoro annuncerò i terremoti?
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Vite parallele
Era una tiepida giornata di settembre,l‟estate si preparava a volgere a termine. I bagnanti nella riva
del mare erano illuminati dagli ultimi deboli raggi di sole. I bambini si divertivano con un sorriso
sulle labbra destinato a scomparire dinanzi il cancello di scuola. Questa malinconica atmosfera
avvolgeva anche lui. Seduto su uno scoglio rimembrava vicende ormai trascorse. Avrebbe voluto
riavvolgere la pellicola, ma ormai era tardi. La brezza del mare gli scompigliava la chioma,i suoi
biondi capelli sembravano sconvolgere le leggi della fisica come d‟altronde il suo estro sconvolgeva
le regole. Le onde del mare si infrangevano sullo scoglio a pochi cm dalle sue all stars. Il suo nome
era Riccardo Rossi ma seppur la sua persona corrispondesse a quel nome, a breve si sarebbe sentito
come un ospite inquietante all‟interno di quel corpo. Sarebbe stato un vagabondo in quel mondo di
silenzi, di parole mai dette e di verità celate.
Erano le sette di un mattino dal cielo limpido e sebbene non fosse ancora suonata la campanella, in
casa Matera era già arrivata l‟ora di mettere il naso tra i libri. Disorientato nell‟universo
matematico,materia nella quale era stato rimandato,decise di fare altro. Un‟abbondante colazione
era quello che ci voleva! Mentre mangiucchiava il suo panino con la mortadella strimpellava un
paio di confuse note con la sua chitarra. Non aveva la concentrazione per studiare ma aveva voglia
di passato,piuttosto. Aprì i vecchi album di famiglia e la polvere invase la sua faccia lentigginosa.
Egli non poteva sapere che proprio sfogliando quelle innocue foto qualcosa di grande avrebbe
invece invaso la sua vita.
Il sole era tramontato e per il biondo Riccardo era giunta l‟ora di percorrere i passi verso casa. Nella
via verso casa, alcuni grigi passanti gli lanciarono delle malevoli occhiate:sarà stato il suo modo di
vestire. Alternativo, lo definirei.
Ecco lì, proprio dinanzi ai suoi occhi di diciassettenne, una sbiadita foto,che lo ritraeva ai tempi
dell‟asilo. Riccardo Matera 1995: vi era su scritto… Scorse ancora indietro nel tempo,vide sua
madre in particolare con un pancione più abbondante del normale. In mezzo a mille ricordi scorse
una foto. Vi era lui appena nato con un tenero viso ornato da lentiggini abbozzate. Accanto a lui
nella nursery vi era un altro bimbo che apriva gli occhi per la prima volta. In entrambe culle vi era
su scritto “E‟ nato Riccardo”. Chissà che destino avrà avuto in sorte quel Riccardo… Guardò dalla
finestra e si lasciò cullare dalla fantasia.
Dopo aver citofonato,salì velocemente le scale. La madre lo accolse con un tenero abbraccio.
Ad un tratto mentre stava contemplando il proprio passato,un fulmine al ciel sereno lo colpì. Sul
retro della foto lesse “Clinica felice 1991”. Ma diamine lui era nato alla clinica serena. Smarrendosi
nel proprio io,mille dubbi lo avvolsero. Cercò alla rinfusa nel cassetto dove i suoi genitori
riponevano i documenti importanti. Trovato! Certificato di nascita. Tutto sembrava regolare,
quando si accorse che vi era un altro certificato di nascita:Nome Riccardo nato il 17 novembre 1991
e in mezzo a questo documento vi era una pratica di adozione “Famiglia Rossi”. Egli,con il sudore
che gli grondava sulla fronte,fece le sue dovute ricerche e nella rubrica della madre trovò
l‟indirizzo. Seguì le proprie emozioni e senza riflettere corse via da casa… Verso quel gemello
misterioso che aveva scoperto di avere un attimo fa.
<<Riccardo rispondi tu al citofono!!! >> <<Si chi parla?>> <<Riccardo!Parlo con Riccardo?>>
<<Bè si!>> <<Ho qualcosa da dirti…>>
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