Domenica
La
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011/Numero 315
di
Repubblica
cultura
L’infinito gioco delle ombre
ANTONIO GNOLI e AMBRA SOMASCHINI
spettacoli
Canta Napoli a New York e Tel Aviv
CARLO MORETTI e JOHN TURTURRO
Jonathan Franzen
Le ambizioni
Lui pensa ai soldi,
lei al botox
Un tranquillo
matrimonio
di paura
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
Il racconto inedito
dell’autore
de “Le correzioni”
JONATHAN FRANZEN
a bellissima sorella minore di Antonia, Betsy, sapeva di non potersi aspettare neppure un briciolo di
tatto o sensibilità da parte di Jim, suo marito — dopo tutto l’aveva chiesta in moglie dicendo «Se vuoi
che ti sposi lo farò», e lei, dopo tutto, aveva accettato la proposta — quindi onestamente non poteva
sentirsi offesa nel momento in cui lui prese a farle cenno dell’opportunità di ricorrere a qualche ritocco estetico. Far cenno
per Jim era osservare, mentre Betsy si truccava davanti allo specchio della camera da letto, «Non è buffo che il naso e le orecchie
continuino a crescere quando il resto del corpo si blocca?». Oppure, mentre festeggiavano loro due soli il ventesimo anniversario di matrimonio in una bisteccheria di Midtown dove tutti i
camerieri lo conoscevano, annunciare di punto in bianco che se
L
una volta si faceva dei problemi morali riguardo alla chirurgia
plastica ora «l’idea mi sta proprio conquistando». O, a cena fuori a mangiare aragoste con il suo partner di arbitraggio in borsa,
Phil Hagstrom, e la giovane seconda moglie di lui, Jessica, sporgersi al di là del tavolo e poggiare il pollice che odorava di burro
tra le sopracciglia di Betsy per poi dire, tendendo la pelle, con un
largo sorriso didattico, «Non aggrottare la fronte, piccola».
Betsy andava fiera delle sue doti fisiche naturali, fiera che fossero naturali — a quarantatré anni riusciva ancora a dimostrarne trentasei o trentasette — ma la eccitava, in qualche modo
oscenamente, immaginare di mietere i frutti dell’aumento di
volumi, di capitalizzare i vantaggi innati, incrementare il suo già
imponente portafoglio estetico, potendo imputare tutta la responsabilità della trafila a Jim e alle richieste indelicate di Jim invece che alla propria vanità.
(segue nelle pagine successive)
le tendenze
Borsello & hi-tech, ritorno al futuro
LAURA ASNAGHI e IRENE MARIA SCALISE
i sapori
In principio fu il mais, poi venne l’Ogm
CORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO
l’incontro
Riccardo Muti, “Il mio cuore allegro”
LEONETTA BENTIVOGLIO
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
la copertina
Franzen inedito
JONATHAN FRANZEN
(segue dalla copertina)
Q
uasi ogni anno il giorno delle elezioni
Betsy faceva in modo di “scordare” di
andare a votare, oppure solo dopo aver
dato la cena ai figli e aver riempito di acqua bollente e schiuma profumata la
vasca da bagno realizzata su misura in
travertino con profondità extra “si ricordava” che i
seggi erano ancora aperti e lo sarebbero rimasti per
un’altra ora. Invece di rivestirsi, trascinarsi nella
pioggia o nel nevischio e partecipare alla democrazia americana, si immergeva nella vasca e assaporava il piacere impuro di non aver votato contro la
propria coscienza (che era stata democratica fin
dall’infanzia a Cleveland) mentre Jim era andato e
aveva premuto tutte le levette repubblicane disponibili sulla macchina per il voto, azionando poi brutalmente la leva grande quasi a enfatizzare l’odio
sempre più profondo per i democratici progressisti,
così che l’unico voto conteggiato del nucleo familiare andasse senza problemi a candidati che volevano sgravi fiscali per le famiglie ad alto reddito perché potessero spendere più soldi in articoli di lusso
come la vasca da bagno di Betsy, fatta installare da
Jim a suon di trentamila dollari sganciati sottobanco alla cooperativa per l’autorizzazione e in cui, come Betsy ammetteva disinvoltamente a se stessa,
era piacevolissimo sprofondare in una umida e
fredda serata di novembre.
Betsy e Jim, un matrimonio
come tanti, benessere senza
aspirazioni, ricchezza senza
soddisfazioni, scosse senza
crepe. Il tempo che passa,
le rughe che aumentano,
la depressione che incombe,
ciascun coniuge che diventa
“depositario del segreto
dell’inadeguatezza
e della mancata ambizione
dell’altro”. In un racconto
mai pubblicato in Italia
uno dei più grandi scrittori
americani descrive
come abbiamo dimenticato
la cura per l’amore
Bisturi e Prozac
le correzioni
per coppie felici
Gli altri avevano sempre sovrastimato l’ambizione di Betsy e Jim. All’inizio i genitori di lei avevano
immaginato che in segreto fosse addolorata per essersi sposata con rito civile, una cerimonia frettolosa e scialba, così diversa dal matrimonio in California, sulla spiaggia, di Antonia, la sorella. I genitori di
Jim, a loro volta, avevano immaginato che il figlio si
fosse infuriato quando Betsy, messo l’anello al dito,
aveva smesso di lasciar intendere di voler diventare
cattolica per lui. Sebbene Jim fosse schietto riguardo alla sua mancanza di interesse per qualunque
cosa che non fosse far soldi e Betsy poco meno
schietta sulle motivazioni che l’avevano spinta a
sposarlo, nessuno aveva voluto credere loro. Jim
aveva diligentemente speso una somma di pessimo
gusto per la luna di miele a Parigi, e là, per due giorni, Betsy si impegnò strenuamente a seguire il programma turistico romantico da sposini, ma lei era
incinta di cinque mesi, Jim pativa chiaramente l’impossibilità di accedere ogni ora ai mercati e la loro
guida riccamente illustrata per yuppie danarosi agli
autentici piaceri parigini per yuppie danarosi era
come una guida dell’inferno. Lei non si era mai sentita più brutta e raramente aveva provato una più intensa antipatia per un’altra persona.
La loro terza mattina in Francia, arrivati a metà del
Pont Neuf sotto il cielo bianco di canicola Jim prese
a strapazzarla urlandole brutalmente negli occhi:
«Che cosa cazzo vuoi fare? Non mi hai detto una sola cazzo di cosa che vuoi fare!» e Betsy gli urlò in risposta: «Non voglio fare un cazzo di niente! Odio
questa città e i piedi mi fanno male da morire e voglio andare a casa!». Al che Jim, a voce più bassa e aggrottando la fronte come sconcertato da qualche
strana coincidenza, disse: «Ma è quello che voglio
fare io». E all’improvviso tutti e due ridevano, si tastavano le braccia e le spalle e poco mancò che fosse il momento più romantico della vita di Betsy, lì,
cotti dal sole e sudati nel bel mezzo di Pont Neuf, circondati dall’atroce bagliore della Senna, tutti e due
d’accordo a gettare la spugna e a smettere di fingere. Andarono dritti al McDonald’s più vicino e poi
tornarono nella loro stanza d’albergo extralusso per
yuppie danarosi per una serie di giochi erotici da far
rizzare i capelli inframmezzati da languide ore di tv
in lingua inglese (Betsy) e di telefonate super tecniche all’ufficio di New York (Jim).
Fare assieme i turisti terribili si rivelò così sconcio
e stuzzicante. La resa congiunta alla noia, il rigetto
dell’ambizione divenne il loro piccolo eccitante segreto. Alcuni, decise Betsy, semplicemente non erano bravi a vivere come altri: bravi per la cultura e l’avventura, bravi ad essere autentici e interessanti. «Io
sono una persona di questo genere», pensò sollevata, «non dell’altro». Seduta agli Champs-Elysées
mangiando un Bic Mac d’addio prima di tornare a
casa con tre giorni di anticipo, provò uno slancio di
gratitudine per Jim tanto forte da sembrare amore.
E forse, pensò, era amore. Forse l’amore che dura
non era altro che quello. Infischiarsene se tuo marito apostrofa in inglese i camerieri francesi chiedendo qualcosa dal sapore «più americano». Infischiarsene se tua moglie non ha la pazienza di fare la fila
alla torre Eiffel. Compatire tuo marito perché la sua
coscienza di cattolico lo aveva obbligato a sposare la
prima ragazza che aveva messo casualmente incinta. Compatire tua moglie perché ha un approccio
troppo femminile alla matematica e ai soldi per
condividere il tuo interesse a seguire fino al quarto
decimale i tassi di cambio franco/dollaro offerti da
varie banche e agenzie parigine, contrapponendo il
tasso migliore a quello ben più favorevole che un
amico bancario di New York ti aveva fatto ottenere
prima di partire, calcolando quante centinaia di
franchi in più avevi avuto in cambio dei tuoi dollari
rispetto a tutti questi yuppie americani che sapevano il francese e amavano il formaggio atteggiandosi a competenti e superiori. Ciascun coniuge depositario del segreto dell’inadeguatezza e della mancata ambizione dell’altro. Come due pessimi golfisti che a vicenda si incoraggiano a risparmiare colpi, migliorare il lie della palla, ottenere tanti mulligan, tante seconde opportunità. Ciascuno grato
all’altro per la gran tolleranza: poteva essere amore?
Apparentemente sì. Una dopo l’altra le coppie
che inizialmente sembravano più felici di Betsy e
Jim, più comunicative e espansive, presero a separarsi e divorziare e le mogli i cui matrimoni erano rimasti intatti confidavano a Betsy che la loro vita sessuale, ahimè, non lo era più, mentre Betsy, tra tutte
la vecchia pigra Betsy, continuava a godere a intermittenza di rapporti dinamici con il suo compagno.
Mentre altri genitori newyorchesi si organizzavano
e si prostravano per far entrare i loro figli in speciali
incubatrici di geni, Betsy e Jim si accontentavano
per i loro, Lisa e Jake, di scuole meno esclusive, lasciavano che guardassero la tv e avessero libero accesso alle bibite, e non erano mica Betsy e Jim poi a
ricorrere agli psicologi infantili e alle terapie familiari. O no?
Il paragone con la sorella di Betsy era particolarmente gratificante. Antonia aveva sposato un dirigente della Silicon Valley con la faccia da coniglio
che deliziava i genitori di Betsy raccontando di serate in compagnia di Bill Clinton e George Soros, e
che, assieme ad Antonia aveva tirato su tre figli terribilmente interessanti. Uno aveva la testa rasata e
una treccina di trenta centimetri e i suoi cortometraggi digitali erano stati in mostra al Sundance e a
Toronto; l’altro aveva lasciato il liceo per leggere
classici a Oxford su invito speciale. La figlia una volta aveva incollato assieme ottomila lattine di soda a
formare una cella dentro la quale aveva inscenato
uno sciopero della fame di tre giorni sul prato davanti alla Palo Alto High School, per protestare contro la strage di tartarughe marine ad opera degli imballaggi a sei anelli delle confezioni di lattine. Quando la madre le telefonava per aggiornarla su queste
imprese, Betsy portava il cordless sulla terrazza all’ultimo piano, quella che spaziava sui cumuli smeraldini di Central Park, e rifletteva su quanto i suoi figli fossero piacevolmente normali e su come il marito di Antonia somigliasse a un coniglio spellato
confronto a Jim. Jim, torreggiante, con la testa grande, era il suo protettore, il suo pitbull in completo
gessato, il suo alano con i gemelli da polso. Nelle rare occasioni nuziali o funebri in cui tutta la famiglia
era costretta a ritrovarsi, i suoi parenti di Cleveland
fuggivano all’apparire di Jim. («Ci mancava questa
rogna»). Solo Antonia era tanto temeraria da sfidarlo. Se li si lasciava soli per più di qualche minuto
esplodevano in risse verbali sulla politica, villane e
tristi.
Bugie no stop sulla Fox —
Sono antiamericani!
Bugie no stop
Jane fonda e il suo….
Ignobile! Corrotto! Incompetente!
Ti pugnalano alle spalle…
… e fu sull’onda di uno di questi litigi che Antonia
prese da parte Betsy e le chiese con una smorfia:
«Come hai fatto a sposare quello stronzo? Che cosa
avevi in testa?». Betsy non aveva risposto, limitandosi a seppellire in silenzio la parola stronzo nel suo
cuore, lasciandola imputridire finché sua madre
non iniziò a telefonarle raccontandole episodi della infelice vita domestica di Antonia a Palo Alto e, in
seguito, dell’esistenza da eremita che Antonia conduceva a Manhattan, dove si era trasferita per stare
più vicino ai figli. «Abita a tre chilometri da te», diceva la loro madre, «È incredibile che tu neppure parli con lei». Betsy, seduta sulla sua terrazza, guardando al di là del parco, rispose allegra «In realtà sono
meno di tre chilometri. Vedo casa sua da qui». Poi
uscì e spese migliaia di dollari in gonne e vestiti aderenti, del genere che Jim amava vederle indosso.
Un giorno d’inverno, non molto tempo prima
che Jim iniziasse a menzionare la chirurgia cosmetica, Betsy ricevette una telefonata dalla figlia di Antonia, che viveva a Brooklyn. La figlia e la sua compagna davano una festa l’ultima sera di Hanukkah e
speravano che Betsy e Jim andassero. Era uno strano invito, data la famosa antipatia di Jim per le festività ebraiche e la famosa antipatia di Antonia per Jim
— Betsy sospettava che la figlia, invitandoli, volesse
irritare Antonia — ma non c’era pericolo che Jim acconsentisse a partecipare. Almeno così pensava.
Quella sera, tornato a casa dal lavoro, lui scoppiò a
ridere e disse: «Una festa di Hanukkah versione lesbica? Senti senti. Meglio non dirlo a Hagstrom,
sennò vorrà venire con noi a curiosare».
La festa si teneva in una brownstone di Park Slo-
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
L’AUTORE
Nato nel 1959 e cresciuto in Missouri,
Jonathan Franzen ha esordito
nel 1988 con La ventisettesima città
(Einaudi 2002) ed è stato consacrato
dalla critica nel 2002 con Le correzioni
(Einaudi 2002). È considerato
uno dei grandi scrittori americani
del Ventunesimo secolo. Pubblica
racconti sul New Yorker e su Harper’s
pe. Jim magari era andato con intenti maliziosi e offensivi ma nella casa in mattoni rossi lui e Betsy trovarono una trentina di ragazze e ragazzi con il viso
pulito, posati, dall’aria sveglia, che bevevano vino,
mangiavano cibo mediorientale e discutevano di
argomenti che a Betsy erano, lo avvertì subito, nelle
ossa, totalmente ignoti. Persino Jim, che normalmente non si faceva intimidire da nulla, esitò nell’ingresso finché la nipote di Betsy, una ragazza dai
capelli corti, eccitata dal ruolo di padrona di casa,
giunse in loro soccorso e li traghettò in acque tranquille, adatte a parenti più anziani invisibili. Lì trovarono ciotole di hummus e baba ghanoush. E anche Antonia, sola su un divano. Antonia era ingrassata dall’ultima volta che Betsy l’aveva vista, due anni prima. Sembrava una strega con i capelli mezzi
grigi e stopposi e aveva l’aria torpida e assente, come fosse sotto farmaci, quando li salutò. «Ciao fascista», disse. «Ciao moglie del fascista». Rivolta a
Betsy aggiunse: «Mi sembra di ricordare che tu ed io
un tempo eravamo sorelle».
«Era prima che mi sposassi», disse Betsy.
«Giusto». Antonia si voltò verso Jim. «È ancora arrabbiata con me perché penso che tu sia uno stronzo».
«Beh, anche tu sei una stronza», rispose Jim affabile.
«Ecco. Vedi? Siamo sulla stessa linea». Antonia si
mangiava un po’ le parole. «Non ha senso, giusto?».
Betsy andò in cerca del bagno e controllò il trucco. Uscì e si mise a chiacchierare con una ragazza
che poteva avere una trentina d’anni e sembrava
sbalordita dalle risposte di Betsy alle sue domande
cortesi su come impiegasse le giornate. «Ma non è
una noia?», esclamò la giovane. Betsy si defilò in un
angolo e si mise a osservare le altre ragazze briose
che parlavano dei sindacati in Venezuela e del successo della Soft Skull Press e della fine della scena
bhangra a South London e le veniva da piangere. Alle feste più normali c’erano sempre uomini che la
guardavano e sentirsi così invisibile era sconfortante. Scolò un bicchiere di vino e se ne versò un altro
abbondante. Lisa, sua figlia, aveva iniziato il college
a settembre. Jake, suo figlio, quindici anni appena
compiuti, era monosillabico e riservato. Sentiva la
mancanza di entrambi e pativa la perdita di due dei
suoi passatempi preferiti: far tardi con Jake a guardare le repliche su Nickelodeon e seguire religiosamente ogni partita di hockey su prato, ogni gara di
nuoto e incontro di tennis di Lisa, accoccolata tra le
altre mamme sentendosi parte di qualcosa. Varie
volte in ottobre e in novembre Jim le aveva detto di
prendere del Prozac, santo cielo, era stanco dei suoi
musi.
Finì il secondo bicchiere di vino e tornò al divano
dove ora suo marito e sua sorella erano seduti fianco a fianco e litigavano come sempre, ma con uno
spirito diverso. Da quando in qua, si chiese Betsy, fascista è un’espressione affettuosa? Era come se, nel
tempo, grazie alle loro sfuriate, Antonia e Jim avessero guadagnato un’intimità e una confidenza che
Betsy non aveva con nessuno dei due.
«Quanto gli hai scucito poi a quel fallito?», chiese
Jim. «Cinque milioni? Otto milioni?».
«C’è un limite alla tua indelicatezza?».
«Spero che tu non abbia toccato le sue patetiche
stock options».
«Dovresti venire da me una volta e valutare l’accordo», disse Antonia. «Ti lascerò solo con un metro
e una calcolatrice e l’estratto conto. Pensa che bello. Potrai pensare solo ai soldi tutto il pomeriggio.
Soldi e rabbia».
«Voglio andare a casa», disse Betsy.
Jim alzò gli occhi su di lei come sorpreso che fosse ancora alla festa. «Restiamo per il gioco della candela», disse. «Siediti, rilassati».
Fu il gioco della candela a portare Betsy, qualche
giorno dopo, da uno psichiatra di Park Avenue di nome Frank Clasper. Molte sue amiche e vicine di casa le avevano dipinto il Dr. Clasper come facile da
raggirare, un distributore automatico umano caricato con gli psicofarmaci più in voga, e quando infine ebbe accesso al suo sancta santorum, dopo aver
ascoltato la sua white noise machinee aver letto sulla maternità di Britney Spears più di quanto le interessasse sapere, scoprì con irritazione che Clasper si
aspettava che lei parlasse di sé, che non bastava dirgli che era «un po’ depressa». Il medico portava occhiali con la montatura in corno, da collegiale, e aveva il modo di fare di chi è passato direttamente da
un’adolescenza precoce alla tarda mezza età, poteva avere quarant’anni portati malissimo o sessantacinque portati benissimo. Le chiese cosa intendesse per «un po’ depressa».
Betsy menzionò tristezza, scarsa energia, insonnia, perdita dell’appetito. Poi si interruppe e rivolse
a Clasper uno sguardo incerto, sperando di aver detto abbastanza. Ma Clasper voleva sapere cosa di
preciso l’avesse spinta a chiamarlo e ben presto si ritrovò a raccontargli tutto di Antonia, e della feste del
gioco della candela. Conosceva il gioco della candela?
«Me lo descriva».
Era una tradizione della sua infanzia. Lei l’aveva
del tutto dimenticato, ma Antonia doveva aver continuato a farlo con i suoi figli quando erano piccoli.
L’ultima sera di Hanukkah, quando le candele della menorah si stavano consumando, ogni membro
della famiglia diceva quale candela secondo lui si sarebbe spenta per ultima e tutti si riunivano attorno
alla menorah e facevano il tifo per la prescelta.
«Ho sempre odiato quel gioco», disse Betsy. «Va
avanti all’infinito. Perché la fiamma può ridursi incredibilmente, diventare fievole, fievole, fievole, e
ardere più a lungo di tutte. E poi, se la tua candela si
spegne, devi comunque restare seduta mentre gli
altri tifano per le loro. Ed è così stupido. Sono solo
candele. Così in ogni caso, venerdì, non so perché
mi ha irritato tanto, ma io ho scelto a caso una candela e mia sorella ne ha scelto un’altra e poi toccava
a Jim scegliere. E lui ha scelto la candela di mia sorella».
Clasper scriveva su un blocco note con una penna che agiva senza fare il minimo rumore.
«Non lo capisco», disse Betsy. «Poteva prendere
un’altra candela. La mia ad esempio. Avrebbe potuto scegliere la mia. O una terza candela. E stare lì seduta per mezz’ora con tutti quei giovani interessanti tanto più intelligenti di me, con mia sorella e mio
marito che tifavano per la loro candela anche se si
odiano, in teoria non si sopportano. In teoria. Ho
dovuto restare seduta più a lungo di tutti, a guardare tutte le altre candele spegnersi, una cosa così deprimente. Una dopo l’altra».
«Che cosa le hanno ricordato?»
«Non so. La gente che muore?»
«Sì. Che altro?»
Scosse la testa e abbassò gli occhi. All’improvviso
ebbe la sensazione di aver parlato troppo.
«Le hanno ricordato la fine dei matrimoni?», disse Clasper.
«Comunque... «, disse lei.
«Si è sentita tradita da suo marito».
«Mi ha detto lei di parlare».
«E ha scelto di parlare di questo. Di sua sorella e
delle candele. Perché?»
«Perché dovevo dire qualcosa prima che lei mi facesse una ricetta».
(segue nelle pagine successive)
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
la copertina
Franzen inedito
(segue dalle pagine precedenti)
uole una ricetta? Gliela faccio», il Dr. Clasper prese un ricettario e le lanciò una lunga
occhiata severa.
«Mia sorella vinceva sempre»,
disse Betsy, distogliendo lo
sguardo. «Quando eravamo piccole. Non so come
faceva ma, tutte le sante volte, sceglieva la candela
giusta. E per loro questo era Tutto. Giuro su dio, adoravano vederla vincere contro di me. Anche se lei era
quella intelligente e io morivo di imbarazzo, e presumibilmente ne facevano una questione di giustizia».
«Sì», disse Clasper. «Ma meglio interrompere
ora». Posò la penna. «Ha intenzione di tornare da
me?».
«Dov’era l’ingiustizia?»
«Potrei riceverla alle dieci venerdì».
«Mi dica solo una cosa. Dov’era l’ingiustizia? Poi
vado».
«Davvero dobbiamo interrompere», disse Clasper. «Possiamo riparlarne venerdì se vuole».
«Quella cosa sola», ripeté ostinata Betsy. Le era
venuto in mente che se Clasper aveva quarant’anni
portati male probabilmente non avrebbe avuto interesse per una quarantatreenne, ma se aveva sessantacinque anni portati bene era facilmente influenzabile. Chinò la testa e attese di verificare che
valore avessero per lui le sue grazie.
«Esiste il pregiudizio», disse lui infine, «che il bell’aspetto sia questione di fortuna. Un dono di nascita. Mentre l’intelligenza la sviluppi e la conquisti con
fatica».
Betsy sedeva immobile, respirando appena,
emozionata.
«Così per certe persone la ragazza bella è simbolo di ingiustizia sociale. Di immeritato privilegio. A
volte è la ragazza stessa a sentirsi così. Ma ora davvero dobbiamo interrompere».
«È così interessante parlare con lei», mormorò
Betsy.
«Signora Hanlon. Ora deve alzarsi e andare via.
Vuol tornare venerdì?».
Gli rispose di sì.
Una volta fuori di nuovo però, e circondata da immobili straordinariamente costosi, dal mogano e
dagli ascensori della vita di Park Avenue, ci ripensò.
Immaginò di parlare di Jim con Clasper e di capire
cose su Jim alle sue spalle e di lasciare Jim solo nella
sua mancanza di ambizione, e il cuore le si gonfiò di
compassione per lui.
Sarà anche stato sgarbato con lei alla festa di Hanukkah, l’aveva ferita, ma non sapeva essere diverso. Era questo che lei amava in lui, era questo il loro
accordo: non voler essere diversi. Nella situazione
opposta — se Jim all’improvviso avesse avuto la pretesa di capirla e si fosse messo fare discorsi approfonditi con uno psichiatra arrivando a comprendere cose importanti sulla propria personalità
— lei si sarebbe sentita abbandonata e tradita al
punto da non poter sopravvivere.
Le allusioni iniziarono sei settimane dopo, il giorno di San Valentino. Quella mattina, prima di andare al lavoro Jim sollevò gli occhi dal giornale e disse:
«Vuoi sentirne una bella? Il primo ministro italiano
si è appena fatto un altro lifting. È a capo di uno dei
grandi paesi industrializzati e ha le palle di farsi un
lifting. Ma ci pensi?».
«Interessante», rispose Betsy.
La sera tardi, prima di dormire, dopo il sesso, le
chiese se secondo lei il seno di Jessica Hagstrom era
naturale.
«Beh in parte naturale», rispose Betsy con una risatina «e in parte no».
La domenica dopo, prima ancora che lei si alzasse dal letto le portò un reggiseno e le consigliò di indossarlo non appena alzata invece di aspettare dopo colazione e lasciare che la gravità agisse per un’ora e più.
«Okay», disse Betsy.
Portò con sé il reggiseno nel suo spogliatoio e
chiuse la porta. Un altro psichiatra, meno interessante di Clasper, le aveva dato delle pillole e ora ne
prendeva una tutte le mattine. Le pillole avevano un
forte odore sulfureo, di inferno, e la mandavano un
po’ su di giri. Decise di prenderne due, per raddoppiare i giri. Aveva rifiutato unilateralmente di entrare in terapia con Clasper, aveva rinunciato per amore a quell’opportunità di essere diversa, e ora avrebbe dovuto ascoltare i consigli di Jim su come migliorarsi? Ingoiando la seconda pillola, oppose la mascella all’ambizione.
Quella notte, mentre parlavano di un possibile
viaggio alle Bahamas, Jim suggerì che forse, invece,
potevano prendersi una vacanza chirurgica. «Un ritocchino per lui e per lei», disse. «Tu e io. Dai, scherzo».
«Ci penserò su», disse Betsy.
«V
“Io ero rassegnata al fatto che sei uno stronzo,
ma tu non ti sei rassegnato al fatto che non ho più
venticinque anni. Hai violato il nostro accordo”
E ci pensò su. Più che un pensiero: diede per scontato che si sarebbe fatta ritoccare lei per prima, presto, perché era la via più semplice per fare quello che
facevan tutti, e poi avrebbe addossato la responsabilità a Jim, senza sentirsi in colpa e godendosi il risultato. Ma prima Jim doveva smetterla di rompere
il loro accordo. Basta con le allusioni quotidiane. Era
un punto preso da parte di Betsy, un comportamento assurdo, negarsi qualcosa che entrambi volevano, ma sapeva come si sentiva: lui doveva smettere di toccarla e tirarle la pelle con l’intento di migliorarla.
Per tutto aprile e maggio le allusioni continuarono e Betsy, oltre alle pillole che puzzavano d’inferno
iniziò a prendere un cocktail di tranquillanti e sonniferi che le dava quella zoccola del suo psichiatra.
Ne assaporava gli effetti e apprezzava ancor di più la
spensieratezza della resa, la pigrizia: giù la pillola e
via! Era la sua personale forma di ribellione farmacologica. I giorni assolati di maggio le sembravano
nuvolosi, finivano in poche ore. Le arrivavano zaffate di spinello dall’ala dell’appartamento riservata
a Jake, talvolta anche di mattina, ma pazienza. Spesso ritrovandosi di fronte allo specchio non ricordava da quanto tempo era lì. Per l’ansia che le dava vedere la sua pelle diversa, all’improvviso molle come
cera, non c’era niente di meglio che un altro calmante. E poi Jim smise di fare allusioni. Così. Di botto, come aveva iniziato. Ora che il decadimento di
Betsy era certificabile lui perse interesse a migliorarla. Una settimana intera passò senza un solo accenno. Betsy ridusse le pillole e i giorni ripresero luce e infine una mattina, dopo essersi guardata allo
specchio si sentì incoraggiata a stringersi a Jim e, con
la bocca sull’orecchio, sussurrargli: «Sai quella vacanza chirurgica…».
«Scherzavo», rispose lui.
«Non per te. Ma io pensavo…».
Jim si voltò dall’altra parte e allungando la mano
le diede una pacca sul sedere. «Non preoccuparti.
Stai bene così».
Betsy portò i figli a Easthampton per due mesi. Tra
una visita e l’altra di Jim nel suo letto il fine settima-
na mangiava molta insalata, si ricopriva di crema
solare, faceva strenuamente esercizio fisico ogni
giorno con Lisa, corrompeva Jake con la birra per
fargli guardare la tv con lei e osservava con crescente interesse i volumi aumentati che facevano mostra
di sé ad ogni cocktail, su ogni spiaggia e in ogni ristorante. I volti scolpiti e rigidi. Quelli abbronzati e
belli. Nel fresco climatizzato dell’alloggio in acciaio
e vetro preso in affitto, con cuoca e giardiniere a tempo pieno, si sentiva come un faraone bambino infinitamente viziato, come la sorella di Re Tut o qualcosa del genere, in attesa di essere rinchiusa nella
Valle dei Re. Di ascendere alla seducente immortalità, di essere laccata, dorata e sorridente all’esterno
e chirurgicamente sterile all’interno, per poi, satura
di ricchezza, completare l’opera trasformandosi in
legno di cipresso e metallo prezioso e restando bella per sempre: questo sarebbe stato l’ultimo atto di
deliziosa pigrizia della bimba faraone.
Sopra la cassettiera di Jim tra il contenuto delle
sue tasche — il ferma soldi, le chiavi della BMW e un
tee da golf portafortuna — una domenica mattina
Betsy notò una clip di metallo con sopra il logo del
Metropolitan Museum.
«Sei stato al Met?» gli chiese quando emerse dalla doccia.
«Sì», rispose asciugandosi.
«Come mai?»
«Mi interessa l’arte, voglio imparare».
Betsy aggrottò la fronte. «Vuoi dire come investimento?».
«Sì, forse. Ma anche così, in generale».
«E che cosa vuoi imparare sull’arte?».
«Le varie scuole, gli stili. Impressionismo. Cubismo. Quelle cose lì».
«Cose che dovrei imparare anch’io?».
Jim alzò le spalle. «Non mi starei a preoccupare».
Lui tornò in città e lei fu presa da un nuovo timore, un presentimento che si acuì quando tornò e
trovò dei peli bianchi di cane, una bella quantità,
sulla guida persiana davanti alla camera da letto padronale.
«Chi è che ha un cane bianco?», chiese.
«Non so», rispose Jim. «Un sacco di gente».
«Sì ma chi è che è stato nell’appartamento ultimamente e ha un cane bianco?».
«Sono rimasto in ufficio tutte le sere fino alle dieci o alle undici».
Jim continuò a lavorare fino a tardi per tutto settembre, eccetto nei weekend quando, stranamente, rimaneva a casa e vagava da una stanza all’altra,
passando il tempo con Jake, guardando la televisione e chiedendo a Betsy ripetutamente che programmi avesse. Se lei rispondeva che non ne aveva,
annuiva e spariva. Se lei ne aveva, le chiedeva dove
andava e a che ora sarebbe tornata.
Un sabato Betsy andò a pranzo a Carnegie Hill
con Jessica Hagstrom che, per qualche motivo, aveva voluto vederla da sola. Betsy incontrava spesso
Jessica in compagnia, ma non avevano mai avuto
una conversazione privata vera e propria e si chiedeva se il matrimonio di Phil e Jessica non fosse per
caso in crisi. Quello che Jessica aveva da dirle, però,
senza preamboli, non appena ebbero in mano il bicchiere di prosecco, era che Betsy doveva badare più
a se stessa.
Il timore che ultimamente era sempre latente in
lei venne improvvisamente in superficie.
«Come scusa?».
Jessica sfregò lo stelo del bicchiere tra i palmi delle mani meravigliosamente giovani. «Pensavo solo
che qualcuno dovesse dirtelo», rispose senza guardare Betsy, «Che magari potresti stare un po’ più attenta».
Betsy incassò senza batter ciglio il commento che
pensava riferito al suo aspetto fisico; la prese da uomo, come si suol dire.
«Okay», disse. «Anche se vorrei dire in mia difesa
che ho riflettuto molto sulla cosa. In realtà visto che
stiamo parlando con molta franchezza forse tu sai
darmi delle risposte a certe domande che mi faccio
su questa esperienza».
«Esperienza?».
«Stavo pensando di farmi qualche ritocco».
«Oh mio dio. È un’idea di Jim?».
«Beh, inizialmente sì ma ora è più una mia
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
IL LIBRO
Il nuovo libro di Jonathan Franzen,
Libertà, uscirà per Einaudi il 15 marzo
È la storia di un matrimonio americano
contemporaneo, lo stesso tema
affrontato nel racconto inedito
che pubblichiamo in esclusiva
in queste pagine
idea…».
«Ma è proprio quello che sto dicendo!»
«Mi sono un po’ lasciata andare la primavera
scorsa», disse Betsy, «ma ora ho ripreso a fare attività
fisica, e sto più attenta a mangiare sano e…».
«Quello che sto dicendo», la interruppe Jessica, «è
che dovresti fare attenzione a quanto ami Jim».
Betsy sgranò gli occhi.
Jessica scosse energicamente la testa come a
smentire le sue stesse parole. «Non so come dirlo diversamente. Mi preoccupa credo il fatto che tu non
stia attenta come noialtre».
«Noialtre?»
«Come tutte. Come le altre donne. Ma sai, mi rendo conto che forse non è… che probabilmente non
dovrei…».
«Vuoi dire», esclamò Betsy alzando la voce, «tutte quelle che rubano i mariti? Intendi loro? Che non
sono attenta come loro?».
Scuotendo la testa Jessica aprì la borsa. Scivolò sul
bordo della sedia e depositò due banconote da venti sul tavolo. «Mi spiace davvero», disse. «Mi sono appena ricordata che devo essere da un’altra parte tra
dieci minuti».
«Jessica…».
«È stato un grosso, grosso errore».
«Aspetta!»
«Mi spiace» disse Jessica alzandosi. «Pensavo di
doverti mettere in guardia perché ti ho sempre considerato una persona carina. Tutte quelle che erano
state amiche di Christine mi trattavano male. Tu invece non sembravi farci caso, come se io non fossi
l’ultima arrivata e pensavo che tu fossi più gentile
delle altre. Ecco perché volevo fare qualcosa per te,
tentare di metterti in guardia».
«In guardia per cosa?».
Ma Jessica non c’era più. Betsy bevve il suo prosecco e finì quello di Jessica. Mentre scendeva per
Madison Avenue sotto l’effetto del vino le ombre
lunghe già a metà giornata, l’improvvisa realtà dell’autunno, la disorientarono. Nella luce bassa che
sdoppiava la visione vide come agli occhi delle amiche lei potesse sembrare narcisista e insopportabi-
le, per via di Jim, vide che le amiche le sembravano
unite tra loro più di quanto lei si sentisse vicina a
qualcuna in particolare e che non se ne era mai fatta un problema perché non aveva mai avuto bisogno di loro, per via di Jim. Aveva gli occhi fissi sul
marciapiede, ancora in lotta contro la luce mutata,
quando passò accanto a un Jack Russell davanti al
Corner Bookshop. Aveva il guinzaglio allacciato a
un parchimetro e guardava fisso una persona all’interno della libreria. La persona somigliava molto a
Betsy quando aveva venticinque anni. La persona
teneva sottobraccio il marito di Betsy, che teneva in
mano un libro aperto. Dava la schiena alla vetrina
ma le spalle larghe, la dimensione della testa erano
inconfondibili. Non leggeva narrativa ma era nel reparto narrativa. La persona aggrappata a lui aveva le
dita sotto la sua ascella.
Betsy sputò sul cane.
Il cane ebbe un fremito. E Betsy sputò ancora. Il
cane girò la testa per vedere la saliva che aveva sulla
schiena e sul collo e prese a dimenarsi. Betsy inorridita di sé, corse via sul marciapiede, spintonando le
persone, inciampando, sul punto di cadere.
Quando Jim tornò a casa, un’ora dopo, Betsy era
seduta nel grande salone di rappresentanza, quello
che usavano per ricevere. Stava seduta come un faraone sul trono, eretta, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Restò immobile quando Jim le si avvicinò. Disse: «Ti ho appena visto in libreria».
Subito lui prese ad annuire con un sorriso nervoso come se lei gli stesse facendo una sfuriata invece
di stare seduta in perfetto silenzio. Era una scena interessante.
«Okay», disse lui. «Mi hai beccato». E poi, rabbioso: «Sei stata tu a sputare al cane? Qualche sociopatico schifoso ha sputato sul cane. Sei stata tu?».
Restare seduta perfettamente composta, fare la
bella statuina. La voce le frullò via da dentro come
un uccello che emerge da un sepolcro. «Significa che
ci lasciamo?».
«Non lo so». Jim misurava la stanza a passi pesanti quasi a contrastare l’immobilità di lei. «Ma ora che
la cosa è venuta fuori, ho intenzione di passare qual-
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
“Non fare la stupida. Forse oggi ti do qualcosa
in meno rispetto a ciò che ti davo un anno fa?
Non saprei dire cosa ti manca. Quindi calmati”
che notte e qualche fine settimana altrove».
Un altro uccello frullò fuori dal sepolcro: «Non ti
preoccupare di tornare».
«Cosa? Non fare la stupida», disse Jim. «Forse ti do
qualcosa in meno oggi rispetto a quello che ti davo
un anno fa? Eh? Così su due piedi non saprei dire cosa ti può mancare. Quindi calmati».
Suonava strano quel suo invito, dato che Betsy
non ricordava di essere mai stata più calma di così.
«Se stasera te ne vai», disse, «non voglio vederti mai
più».
Jim rise come rideva dei democratici.
Uscì a grandi passi dalla stanza, si chiuse rumorosamente la porta di casa alle spalle e quando, un
giorno dopo, ancora non era rientrato, Betsy mandò
Jake da un amico e prese un taxi fino all’altro capo
del parco, dove Antonia la strinse tra le braccia e le
diede dei kleenex e cibo cinese e la fece pensare agli
avvocati.
«Andar via da casa?» disse Jim tre sere dopo, quando finalmente riemerse. «La stai facendo troppo,
troppo grossa».
Betsy era sveglia sdraiata al buio quando lui entrò
in camera da letto. Senza alzare la testa né allungare la mano in cerca di un interruttore iniziò a urlare
i misfatti di Jim. Lui andò a chiudere la porta del corridoio, caso mai Jake fosse ancora in piedi.
«Okay, okay mi dichiaro colpevole», disse. «Vorrà
dire che tu ora puoi tradire me, e poi siamo pari».
Al che Betsy si alzo a sedere e accese la luce, per esser certa che lui vedesse il suo sguardo incredulo.
«Quanto meno prendilo in considerazione», disse Jim. «Prima che le cose ci sfuggano di mano».
«Sfuggire di mano? Sfuggire di mano? Tu ti scopi
una — bambina — e vai per musei, in libreria…».
«Puoi andare anche tu per musei. Nessuno te lo
impedisce».
«Ma tu odi i musei».
«Sono un po’ noiosi, sì», ammise Jim. «Ma una
volta che inizi a sapere un minimo di storia, dei Medici e che so io, lo sono meno».
«Se tu fossi venuto da me e mi avessi detto “Facciamo assieme un corso al museo, impariamo
qualcosa sull’arte assieme…».
Jim fece un gesto di esasperazione.
«Ma no. Invece “Vai a rifarti le tette”, “Vai a tirarti
la faccia”. Da quando in qua a te piacciono i musei?.
Non ho bisogno di ritocchi io! Sono ancora in splendida forma!».
«Giusto. Per la tua età. Lo so. È solo che in questa
fase sono interessato ai giovani. A stare con i giovani e scoprire come vedono le cose».
«I tuoi figli sono giovani. Tuo figlio in fondo al corridoio è una persona giovane».
«Quello che sto cercando di dirti è che non bisogna fare di questa cosa un problema così enorme. La
supereremo, tu fai quello che hai bisogno di fare, io
faccio quello che ho bisogno di fare e possiamo ancora invecchiare assieme».
«Peccato che, a quanto sembra, io sia già vecchia».
«Bets. Ci sono milioni di uomini che vorrebbero
avere una relazione con te. Credimi. Oppure puoi
iscriverti a un corso al museo. Puoi fare quello che
vuoi. Pensavo che fondamentalmente fosse il nostro accordo. Essere un po’ tolleranti».
Betsy sgranò gli occhi.
Lui le rivolse un gran sorriso. «Giusto?».
«Sì» rispose pacata lei. «Era il nostro accordo. Io
ero disposta a rassegnarmi al fatto che tu sia un’incredibile stronzo. Ma tu non sei stato disposto a rassegnarti al fatto che non ho più venticinque anni. Sei
stato tu a rompere l’accordo, e ora devi andartene».
«Oddio. Mi sembra di sentire tua sorella».
«Non sono io l’ambiziosa», disse Betsy.
«Ah sì?».
«Pensi che ti avrei sposato se…»
«Non c’è motivo perché tu abbia questo atteggiamento nazista. Potresti solo rilassarti, come abbiamo sempre fatto».
«Voglio che tu te ne vada».
«E dove vado?».
«Vai a vivere con la tua giovincella».
«Non è esattamente una buona idea».
«Allora vattene in albergo».
«Senti, vado nelle stanze degli ospiti. Nemmeno
mi vedrai».
«Puoi restare una notte e fare le valigie. Ma poi
via».
«Piccola io scherzavo sui ritocchi. Te l’ho sempre
detto no? Era per scherzo».
«Mi fai schifo».
Jim arretrò ondeggiando.
«Meglio che tu ti calmi», disse. «Prenditi un po’ di
tempo e calmati».
Il giorno dopo Jim affittò una garçonniere al Mondrian, ma ci volle quasi un mese, oltre a una telefonata molto dura da parte dell’avvocato di Betsy perché lasciasse la stanza degli ospiti in cui si era accampato, riempisse qualche valigia e andasse via
sul serio. Poco tempo dopo lui e la proprietaria del
cane smisero di frequentarsi, a detta di Jake, che riferì anche come nella cucina della garçonniere non
ci fosse nulla da mangiare, neppure noccioline e olive per il martini, e che Jim aveva preso ad utilizzare
un servizio di incontri on line. Betsy doveva sforzarsi di non pensare a lui con una sconosciuta. Non c’era cosa che la avvilisse di più che sentirsi tenuta a
compatirlo per la sua goffaggine e cafoneria.
Quando la donna delle pulizie le disse che qualcuno passava di nuovo la notte nella stanza degli
ospiti, Betsy non perse tempo a dire al suo avvocato
di dire all’avvocato di Jim di dire a Jim di stare alla larga. Jim la chiamò sul cellulare il pomeriggio stesso.
Disse che gli mancava casa sua e che non vedeva cosa ci fosse di male nel sistemarsi lì per la notte se arrivava molto tardi e andava via molto presto. Betsy
gli attaccò il telefono. Lui richiamò e disse che anche
se divorziavano non vedeva il motivo per cui non
potessero continuare a vivere nella stessa casa, invecchiare insieme e prendersi cura l’uno dell’altra.
Betsy spense il cellulare. Quella sera, non riuscendo
a dormire, vagando per l’appartamento notò la luce accesa nella stanza degli ospiti, dietro la porta
chiusa. Rimase lì a fissare la porta, raffigurandosi
l’uomo rimpicciolito dall’altra parte. Di tutti i tradimenti di Jim, la debolezza nel suo tornare strisciando da lei era quella che le faceva più male.
Betsy aveva sempre mentito a se stessa sul fatto di
essersi accontentata di una vita in tono minore. La
verità era che lei aveva idealizzato Jim. Solo ora, che
non lo provava più, comprese l’immenso piacere
che le aveva dato il rendersi stupida, capì che straordinaria fortuna avesse avuto Jim a trovare una moglie così candidamente indulgente come lei e quanto dolorosa fosse quindi anche la perdita che lui aveva subito. Se andava via era uno stronzo e se tornava era una mammoletta. L’ambizione di lei li aveva
distrutti. Quindi toccava a Betsy andar via.
Traduzione di Emilia Benghi
(© 2011 Jonathan Franzen/Agenzia
Luigi Bernabò Associates Srl)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
CULTURA*
Dal mito della caverna di Platone fino agli abbagli della Modernità,
che conquistando la luce elettrica si era illusa di aver vinto per sempre
il mondo degli spettri e degli incubi. In una mostra
che a breve si aprirà a Modena, ecco rappresentata in oggetti, disegni e forme,
la storia della compagna più antica che l’essere umano abbia mai avuto
Fonte d’ogni paura, ma anche di arte, gioco e spettacolo
La
nostra
Ombra
La sottile linea scura
tra noi e il corpo dell’anima
ANTONIO GNOLI
ra i tanti significati che l’ombra riveste ce n’è uno che li sovrasta tutti: la metamorfosi dal
visibile all’invisibile. Oliver
Sacks ne L’isola dei senza colore ci racconta gli effetti di una
malattia misteriosa che affligge una popolazione della Micronesia, ne ottenebra l’intelligenza, rendendo progressivamente
ciechi o monocromi i suoi abitanti. Possiamo immaginare quest’isola come una terra di mezzo, sovrastata da ombre, alla stregua della Terra di Mordor nel Signore degli
anelli in cui le tenebre hanno la meglio sulla luce; o Gotham City dove la vita si svolge
all’insegna dell’oscurità. Lo sappiamo, le
ombre appartengono alla nostra esperienza e alla nostra mente, alla nostra storia e alle nostre paure.
Ci sono secoli più bui di altri; capolavori
— come il Don Giovanni — che dell’ombra
si nutrono; ci sono quadri di Caravaggio, di
Turner, di De Chirico che dell’ombra hanno fatto la sostanza più intima. L’ombra
misura il tempo della meridiana. Ma può
darci la misura ben più allarmante del no-
T
stro declino. Per le sue caratteristiche sfuggenti è più prossima alla notte che al giorno, alla morte che alla vita, alla vecchiaia
che alla giovinezza, alla malinconia che alla gioia. Ma essa, al tempo stesso, può diventare fonte di ristoro. Nel suo elogio,
Borges la paragona alla propria cieca vecchiaia: è un’ombra mite che non fa male e
somiglia all’eterno, egli dice. Duemilacinquecento anni prima, Platone — il primo e
convinto ombrofobo — coglie negli effetti
dell’ombra l’illusione che essa possa
conformarsi al vero. Da cosa gli deriva tanta acredine? Platone ragiona in termini sottrattivi: l’ombra, per le sue caratteristiche,
pregiudica il più eletto tra gli organi: la vista. È un allontanamento o una mancanza
di luce. O meglio, della luce ne dà una fioca
rappresentazione. Però quelle statue — di
cui i prigionieri della caverna colgono le sagome, come proiettate da un sole esterno
— richiamano per singolare analogia
quanto la tecnica realizzerà col cinema alla fine dell’Ottocento.
Il cinema è figlio della lanterna magica e
della fotografia: della meraviglia e della
realtà; dell’ombra e del vero. È come se Platone lasciasse il posto a una nuova forma di
conoscenza (e di divertimento) nata da un
diverso modo di percepire l’immagine. Nel
cinema trionfano l’ombra della sala e le dissolvenze dello schermo. È la prima grande
industria dell’immateriale. Non a caso Joseph Roth, ne L’Anticristo, definisce Hollywood «il paese delle ombre». L’ombra cinematografica sviluppa significati puntualmente inquietanti. Quella minacciosa
del mostro di Dusseldorf o adunca e ingobbita di Nosferatu, ci avvertono di un disagio
prossimo al terrore: nulla di buono si annuncia. Torna — sotto una forma diversa —
la condanna dell’ombra: le si attribuisce il
presagio di una morte prossima. Nel regno
delle ombre sono in agguato i vampiri, lontanissimi antenati di figure che l’antichità
aveva confinato nell’Ade. Dal regno dei
morti — racconta il mito di Euridice — Orfeo tenta di strappare l’ombra dell’amata.
Ma girando lo sguardo verso lei, la condanna all’invisibile.
Col tempo l’ombra diventerà una presenza familiare, una convivenza necessaria
con il corpo e gli oggetti. L’illuminazione
elettrica — segno eloquente di un progresso scientifico — placherà quel senso di turbamento che le ombre (soprattutto nottur-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Teatro, cinema e pubblicità
l’invisibile non si nasconde
AMBRA SOMASCHINI
agomainquieta, seconda natura. Fuggevole, illusoria e mutevole, il lato oscuro di noi. L’ombra ci accompagna e ci divide, attrae e spaventa, dissolve l’io dal suo centro e lo ricompone
come in uno specchio dalla consistenza volatile e nera. Le trame d’ombra sono state cucite
insieme dall’antichità al Novecento, ora raccontate da una mostra e un catalogo al Museo della
Figurina di Modena (curati da Roberto Alessandrini e Paola Basile, 4 marzo-7 luglio). Un mosaico di filosofia, teatro, cinema e pubblicità in una sequenza che porta dal mito della caverna di Platone fino al moderno che dissolve il soggetto e mette in crisi la centralità dell’uomo nell’universo.
La figlia del vasaio di Corinto, in Plinio il Vecchio, traccia sul muro il disegno del suo amore partito per un viaggio seguendo il segno di un’ombra proiettata da una lampada a olio. Il padre ne fa
un modello d’argilla, scolpisce il suo pensiero. Le ombre platoniche sono sulla soglia che separa
la luce dalle tenebre e le prime lanterne magiche sono le radici del cinema. Le ombre cinesi sono
le antenate dei cartoni animati e le macchine per la silhouette costruiscono un universo mobile
che si anima dietro i teli degli spettacoli popolari e diventa teatro. Il Settecento alle ombre si appassiona: le cineserie suscitano curiosità e il carattere delle persone si legge nelle sagome, mentre nell’Ottocento stampe e bolli chiudilettera svelano le forme dell’invisibile e le figurine semoventi rappresentano il lato oscuro del reale. Quello che Jung definirà la prima raffigurazione archetipa incontrata lungo il cammino della via interiore che porta a galla la coscienza e il nostro sé.
L’ombra diventa la seconda natura degli esseri, un’appendice che si vende e si confeziona,
come quella cucita da Wendy per Peter Pan. Si separa dal corpo e ne riproduce la sagoma fatta
come un sacco vuoto. Siamo nella modernità e le ombre diventano cinema con l’espressionismo tedesco e il noir americano e finiscono sui Notgeld, i biglietti-denaro di emergenza usati in
Germania per fronteggiare la crisi economica. E conquistano vita autonoma nelle fiabe e nei romanzi. Scrive Oscar Wilde: «Ciò che gli uomini definiscono l’ombra del corpo non è l’ombra del
corpo ma il corpo dell’anima. Mettiti sulla sponda del mare con la schiena rivolta alla luna e taglia via l’ombra dai tuoi piedi che è il corpo della tua anima, e dì alla tua anima di abbandonarti, e questa lo farà».
S
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LE IMMAGINI
Figurine e silhouette, pubblicità
di diete e cioccolate, bolli
chiudilettera. Materiale che verrà
presentato dal 4 marzo al Museo
della Figurina di Modena
ne) avevano scatenato. Non si può fare a
meno della propria ombra. Come non si
può fare a meno del denaro. Ne sa qualcosa
Peter Schlemihl — protagonista del racconto di von Chamisso — che la vende al
diavolo in cambio di una borsa piena d’oro.
Se l’ombra è barattabile vuol dire che possiede le stesse caratteristiche della merce:
ha un valore di scambio. E d’altro canto, la
stessa merce — con i suoi geroglifici — custodisce un’ombra enigmatica che la allontana dal valore d’uso per esaltarne il segreto che custodisce. Le ombre circolano indisturbate. Si tratta di dar loro una patente di
innocua rispettabilità. Per un verso le leggi
dell’ottica ne spiegano il fenomeno: le osservazioni attorno alle eclissi attenuano lo
sgomento che gli antichi provavano davanti all’oscuramento del sole.
Dall’altro, è la pubblicità a suggerire in
che modo l’ombra allude al vero senza esserlo. Appartenendo alla categoria del somigliante, l’ombra può essere e non essere.
Equivoca come un’immagine pubblicitaria, si concretizza nelle figurine e nei manifesti che reclamizzano — grazie alla tecnica delle ombre cinesi — cioccolata e formaggi. Un mondo di bambini — nelle fog-
ge di adulti in miniatura — dispiegano
con le loro manine ricomposte ombre di
animali. Per invogliare al consumo, la
merce — è quanto già accade negli expo
universali — deve suscitare meraviglia e
sogno. È distante la tersa e drammatica
consapevolezza che Joseph Conrad esprime con La linea d’ombra. Nel romanzo si
scorge il passaggio dall’età giovane all’adulta. E si tratta pur sempre di una linea invisibile e inafferrabile come un’ombra che
inghiotte i nostri sogni, le nostre illusioni,
nella bonaccia di un mare immobile.
La stessa evoluzione che conduce alla
conquista della luce elettrica, la stessa idea
di progresso che spinge la ragione a cercare regole e chiarezza, la stessa convinzione
che le passioni debbano essere messe a tacere per quel tanto di ombroso e di torbido
che esse rivelano, mostrano a quale smania
di pulizia si lascia andare il Moderno. Ma la
battaglia per distogliere il mondo dagli
spettri, dagli incubi, dalle follie non è affatto vinta.
Occorrono pensatori forti e sospettosi
per richiamare l’ombra alle sue complicazioni notturne, alle sue profondità ancestrali. La psicoanalisi riflette sugli incante-
NOTEGELD
Qui sopra le ombre
che sostituivano
il denaro in Germania
e in Austria nel 1920
simi interiori, su ciò che l’inconscio continua a smarrire della
propria identità. Prima Freud — con il lavoro sul perturbante — e poi Jung con l’archetipo dell’ombra scompaginano il quadro rassicurante di un individuo felice e
conciliato. L’ombra estende nuovamente
il proprio potere destabilizzante. Assume
forme e toni che non ci aspettavamo. Torna sotto forma di simulacro (televisivo) e di
segreto (politico). Quel tratto machiavellico dell’agire nell’ombra — perché il potere
ama il nascondimento — sembra scontrarsi con le nostre coscienze. E se da noi oggi
vigesse l’ombra di un governo, vorremmo
che tutto tornasse alla luce del sole, senza
ambiguità né resistenze, con la giusta trasparenza che si richiede a chi pretende di
guidare il paese fuori dalle ombre.
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Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
SPETTACOLI
In principio furono Frank Sinatra, Dean Martin e Presley
Da allora il filo rosso che lega molti artisti stranieri
alla città di Murolo e Carosone non si è mai spezzato
Ora tocca alla cantante israeliana, che domani presenta il suo disco intitolato “Noapolis”,
immergersi in quella lingua e in quelle sonorità. Mentre il regista di “Passione”
racconta perché i vicoli di questa metropoli sono una fonte inesauribile di ispirazione
Song’e
Napule
Da Elvis a Turturro e Noa
l’eterno fascino del Golfo
CARLO MORETTI
l bello delle canzoni»
amava dire Renato Carosone «è che quando
funzionano hanno una
vita indipendente dal loro autore, dai dischi, dagli interpreti». Una volta scritte, appartengono a tutti. Una frase che l’israeliana Noa, mezzo secolo dopo, sottoscrive
e completa con parole quasi identiche:
«Io sono quelle canzoni, cantandole divento quelle storie e i sentimenti che le
hanno fatte nascere». Israeliana dalla
voce mediterranea, interprete della colonna sonora da Oscar de La vita è bella
di Benigni, Noa è l’ultimo filo rosso che
lega Napoli al mondo. L’ultima artista
conquistata dal nobile repertorio delle
canzoni napoletane che hanno fatto
scuola. L’ultima in ordine di tempo a farsi stregare. Dopo Boris Vian, per esempio, che tradusse proprio il capolavoro
di Carosone Tu vuo’ fa’ l’americano, alla
fine degli anni Cinquanta, ironizzando
sull’invasione della canzone italiana in
Francia e sui francesi che imitavano i napoletani. Dopo il rapper francese Akhenathon, per il quale negli anni Novanta
la stessa canzone di Carosone è servita a
ironizzare su quanti in Francia imitava-
«I
no il rap di Harlem.
E prima ancora, la grande melodia ha
affascinato le voci della lirica ma anche
artisti pop e rock: Elvis Presley rese appetibile ’O sole mio per il mercato americano cantando It’s Now Or Never, Dean
Martin riprese in napoletano Dicitencello vuiee Guaglione, Frank Sinatra ’O marenariello e Luna rossa, interpretata decenni più tardi anche da Caetano Veloso. Tutti segnali di una vitalità che il tempo non riesce ad arrestare.
E questo filo rosso che unisce Napoli
al mondo passa ora anche per Tel Aviv:
due porti di mare, di dolorose partenze e
di agognati ritorni, di struggenti malinconie ma anche due città ricche di ironia
e vitalità. Noa viene da lì, e le due città le
considera facce di una stessa medaglia.
Lì ritorna sempre, conosce alla perfezione quel filo e lo riannoda continuamente. Ha dedicato gli ultimi anni a far viaggiare tra le due sponde del Mediterraneo
le canzoni della tradizione napoletana:
Torna a Surriento, I’ te vurria vasà e Santa Lucia luntana sono così dapprima diventate melodie cantate in ebraico in un
album intitolato, appunto, Napoli-Tel
Aviv e ora, per il viaggio di ritorno verso
casa, l’album in napoletano che esce domani e che si intitola Noapolis. Un disco
che Noa ha fortissimamente voluto con-
tro ogni remora che in
principio la tratteneva.
«Mi dicevo: ma cosa sto
facendo? Come mi permetto? Io sono israeliana,
americana, yemenita, come posso entrare nello
spirito di quelle canzoni se
accetto di cantarle nel dialetto in cui sono nate? Volevo rispettare la tradizione
senza fare errori, sapevo che
c’erano stati interpreti poco
apprezzati perché avevano
tradito lo spirito di quelle canzoni, rendendole più popolari,
cantandole in un mix di dialetto
e italiano. Ma ho lavorato tanto a
lungo che oggi questi brani sono
diventati parte di me».
Sul perché poi Napoli e Tel Aviv
siano così intimamente unite, Noa
ha le idee chiare: «Sento che esiste
una forte relazione tra la tradizione napoletana e la tradizione ebraica: c’è una
somiglianza tra i due popoli, hanno sofferto le conseguenze della guerra, hanno
patito conquiste, epidemie, povertà e
come conseguenza di questa vita hanno
dovuto lasciare spesso le loro case, viaggiare in cerca di fortuna intorno al mondo. Oggi trovi ebrei ovunque, proprio co-
“Ormai io sono
quelle canzoni,
divento quelle storie
e i sentimenti
da cui sono nate”
me trovi napoletani
dappertutto». Dalla
sofferenza possono
sgorgare frutti pieni
di sapori e colori:
«Certo, c’è la cultura
che nasce dalla sofferenza, c’è la malinconia ma anche
il sense of humor:
io credo che
chiunque abbia
sofferto nella vita ne produca
tanto per poter
resistere alle
avversità». I
suoi modelli sono stati
soprattutto Roberto Murolo e Gilda
Mignonette, la cantante degli anni Trenta, ma è impossibile per lei dire quale sia,
tra tante canzoni tradizionali, la sua preferita: «La verità è che canto solo canzoni che amo, altrimenti proprio non ci riesco. Per questo nell’album non c’è ’O sole mio: non riesce ad emozionarmi, e
non so perché».
Napoli, dove Noa canterà il 3 marzo
per presentare l’album, sta attraversando un momento molto difficile: «Mi
sembra che i napoletani si stiano arrendendo rispetto a quanto accade, e inve-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
1
2
3
4
Tammurriata nera
a New York
JOHN TURTURRO
I
LE CANZONI
1. ’O sole mio
10
12
LE IMMAGINI
Qui sopra, una cartolina
del 1890: il golfo di Napoli
con il Vesuvio sullo sfondo
A sinistra, John Turturro
a Napoli in occasione
dell’inaugurazione
della festa di Piedigrotta e,
sotto, la cantante
israeliana Noa
11
13
ce dovrebbero uscire per le strade, manifestare, arrabbiarsi per quanto accade
alla loro città. E lottare. Per questo sono
felice di contribuire con un disco a mostrare a tutti la grandezza della cultura
napoletana. Dietro la spazzatura io vedo
la bellezza, e voglio mostrarla ai napoletani e al mondo. Uno specchio di fronte
ai vostri occhi per potervi far vedere
quanto siete belli. Non bisogna permettere a nessuno di portarsi via la nostra
bellezza».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Elvis Presley
contenuta nell’album
It’s Now Or Never
2. Funiculì, funiculà
di Connie Francis
3. Guaglione
di Dean Martin
4. Dicitencello vuie
di Dean Martin
nel disco Dino
5. Torna a Surriento
di Demis Roussos
contenuto
in Serenade
6. Ciribiribin
di Frank Sinatra
7. Luna rossa
interpretata
da Caetano Veloso
8. Torna a Surriento
di Elvis Presley
in Surrender
9. Tu vuo’ fa’
l’americano
nel film
La baia di Napoli
con Sophia Loren
e Clark Gable
10. Tu vuo’ fa’
l’americano
di Boris Vian
11. L’americano
nella versione
di Akhenaton
12. ‘O marenariello
di Frank Sinatra
nel disco I Have
But One Heart
13. Luna rossa
di Caetano Veloso
l mio primo incontro con la musica napoletana avvenne che ero ancora un ragazzo, a casa,
in famiglia, ascoltando alcuni dischi della
grande tradizione. Da adulto, quando iniziai a lavorare all’adattamento del capolavoro di Eduardo de Filippo, Questi fantasmi, conobbi meglio
Napoli e mi innamorai subito di Tammurriata nera, una canzone meravigliosa, con una storia ancora oggi di grande attualità. Più in là decisi di inserire nella colonna sonora di Romance and Cigarettes il brano Do You Love Me Like I Kiss You, versione inglese di Scapricciatiello. Il film fu un successo, e dall’Italia i produttori Alessandra Acciai e
Carlo Macchitella mi contattarono proponendomi un progetto che poi sarebbe diventato, negli
anni, Passione. Fu in quell’occasione che conobbi
il critico e sceneggiatore Federico Vacalebre. Fu
lui a farmi ascoltare migliaia di canzoni. E fu così
che venni letteralmente e definitivamente travolto dalla musica napoletana.
James Senese è stato invece uno dei primi artisti che ho incontrato per la preparazione del film:
la sua storia e la sua musica mi sembravano un giusto punto di partenza per un’opera che non voleva essere semplicemente una cartolina di Napoli
e della sua musica, ma uno sguardo di uno straniero su una città complessa e ricca di contaminazioni culturali. Come Noa, anch’io sono sempre stato affascinato dagli incontri tra le culture. E
Napoli, a modo suo, mi ricorda molto la New York
degli anni Settanta in cui sono cresciuto: un luogo
in cui i popoli si sono incontrati, si sono scontrati
e hanno dato vita a un’identità assolutamente
unica. Napoli è una città di forti contraddizioni,
una città splendida, conquistata da popoli diversi, massacrata e ricostruita, una città con ferite
aperte ma che sa ancora cantare e raccontarsi attraverso la sua musica e i suoi artisti.
Fare una scelta delle canzoni e degli interpreti di
Passione ovviamente non è stato facile: c’è un repertorio di canzoni troppo ampio e tantissimi artisti strepitosi, una sovrabbondanza di talenti.
Quindi, quello che ho fatto nel mio film è stato cercare un equilibrio senza eccedere da un lato o da
un altro, tentando di offrire allo spettatore un’ora
e mezza di intrattenimento passando dalla rabbia
all’amore, dallo scherzo alla pura passione. Per chi
non conosce la musica napoletana, Passione è come una grande introduzione, una finestra che si
apre su un paesaggio dall’orizzonte sconfinato.
Chi ha visto il film negli Stati Uniti ha ritrovato alcune canzoni e alcune melodie che già conosceva,
e allo stesso tempo è rimasto colpito dai nuovi arrangiamenti, dalla mescolanza con la musica araba e dal talento sorprendente degli interpreti. E per
chi già conosce la tradizione partenopea Passione
è allo stesso tempo una celebrazione del passato e
un punto di vista nuovo sull’identità napoletana.
Ho avuto la fortuna di incontrare nuovi talenti
della scena musicale che hanno saputo confrontarsi con quelle che sono considerate delle vere
icone. Da loro ho capito che la musica napoletana è viva e può ancora raccontare molto di sé, con
uno sguardo consapevole alla propria storia passata e con uno slancio energico e passionale verso il futuro.
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Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
le tendenze
Utili & dilettevoli
Non c’è solo il ritorno del borsello anni Settanta. Tracolle,
cartelle, zaini e perfino shoppers sbarcano nel mondo maschile
come accessori tanto indispensabili quanto trendy
In pelle, tela o plastica hanno un unico obbiettivo:
sollevare l’uomo contemporaneo dal peso dell’hi-tech
IRENE MARIA SCALISE
omini con le borse. Quello
che sino a qualche tempo fa
sembrava impensabile oggi
è normale. La borsa maschile del 2011 più che ambigua
è pratica. Più che glamour è
utile. Una rivoluzione imposta anche dall’aumento del peso delle tecnologie. Già negli anni Settanta un illustre predecessore, il
borsello, aveva clamorosamente spalancato una porta sull’universo della borsa al maschile. Poi la questione era stata archiviata
per motivi di gusto: “il borsello fa tristezza”,
era il comune pensiero. Nessuno, allora,
avrebbe supposto il grande ritorno del borsello. E non solo. Via libera anche a cartelle, sacche, bauletti. Il tutto soprattutto per
una giustificazione high tech: iPad, computer, iPhone e tablet, ormai diventati
un’appendice inseparabile del maschio,
U
DARK SENZA ETÀ
Tracolla in pelle e canavas in total black
di Peuterey bags collection. È interamente
prodotta in Italia ed è adatta per il giorno
e la sera. Piacerà agli uomini di ogni età
CAPIENZA TECNOLOGICA
Messenger porta pc con patta frontale
realizzata con due pellami diversi di Piquadro
Ha anche un porta badge esterno, un porta
bottiglie estraibile e una bustina interna
Menbag
in
Se lui gioca con la borsa
INFORMALE
Tracolla
in canavas
e pelle
di Louis
Vuitton
Per un look
informale
con sandali,
giacca aperta
e shirt
in cotone giallo
dopo aver vagato in cerca di asilo nelle piccole tasche di giubbotti e pantaloni, hanno
richiesto una collocazione stabile. Messe
così le cose, con circa un chilogrammo di
tecnologia da trascinarsi tra un appuntamento di lavoro e l’altro, le soluzioni d’emergenza sono risultate decisamente insufficienti. Ed è tramontato il ricorso ad alternative improvvisate come la borsa della
fidanzata (già notoriamente congestionata) o la sacca dello sport.
L’uomo ha cominciato così ad autogestire il proprio bagaglio quotidiano sdoganando, ufficialmente, la specie “borsa per lui”.
In pelle, in tela, in cuoio, colorata o neutra ha
conquistato anche i più scettici. Secondo la
British Chiropractic Association la vendita
delle borse maschili, nell’ultimo anno, è
cresciuta del ventuno per cento. A fare da
apripista, in realtà, sono stati quelli che gli
americani definiscono pomposamente celebrity. Infiniti blog e siti internet, dedicati a
questa upper class trasversale che comprende attori, cantanti e calciatori, hanno
immortalato il fenomeno. David Beckam,
Jude Law e Tom Cruise sono stati fotografati con almeno una macho bagtra le mani. Ed
è stato il boom. Niente a che spartire con
quelle borse in stile metrosexual che, negli
anni passati, avevano trionfato in passerella. Corredata di mille tasche e contenitori, la
nuova icona protegge con la giusta cura le
tecnologie più avanzate. Piace soprattutto
ai manager di ultima generazione che viaggiano con il loro piccolo mondo business tra
le mani. Si lavora ovunque e dovunque e
avere l’ufficio a tracolla diventa d’obbligo. E
anche i motociclisti esultano: è finalmente
risolta l’annosa questione di dove collocare
i propri beni sulle due ruote. Ma attenzione
a non esagerare, avvertono gli esperti. Sempre l’associazione britannica dei chiropratici ha stimato che il peso medio delle borse
supera i sei chilogrammi visto che, a quanto pare, un uomo su cinque porta sempre
con sé il laptop o il tablet, uno su tre ha almeno un libro e più del cinquanta per cento almeno un cellulare. Con l’aggiunta, ovvia, di chiavi, occhiali, guanti e sciarpa. Tanto vale organizzarsi con modelli ben strutturati in grado di soddisfare tutte le esigenze. E gli stilisti hanno dato il meglio unendo
estetica a funzionalità.
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CHIC
Per Canali la borsa
ideale è in morbido
vitello nero
Adatta al look
più elegante è anche
molto funzionale
CASUAL
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la shopping bag
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DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
EFFETTO VINTAGE
Tracolla canavas water resistant cento per cento
cotone organico e pelle griffata Timberland
Ha una fodera interna in cotone
I dettagli sono in metallo anticato
Il creativo Giacomo Guidi
“A misura di iPad ”
LAURA ASNAGHI
èchi lo ama e chi lo odia. Sul borsello, la borsa per maschi lanciata negli anni Settanta,
il pubblico si divide tra favorevoli e contrari. Non ci sono mezze misure. Piace oppure no. E tra
i grandi sostenitori c’è la griffe Piero Guidi che da
trentotto anni, in pratica da quando è nata l’azienda, lo propone e lo commercializza nel mondo intero. A Giacomo Guidi, il creativo della maison, figlio
di Piero e Nadia, i fondatori del marchio, abbiamo
chiesto da cosa nasce questa passione per il borsello.
La vostra azienda è, da sempre, pro-borsello. Cosa vi lega a questo accessorio?
«Noi lo consideriamo un vero feticcio che non
può mancare nel guardaroba maschile. È come la
borsa per le donne, solo che il borsello deve avere caratteristiche precise».
E quali sono?
«Il nostro pezzo forte ha i puntali in metallo e la
targhetta che può essere personalizzata con il proprio nome. E in più le dimensioni non possono superare quelle di un iPad, perché altrimenti si sconfina in altri tipi di borse da uomo».
Quando pensa a un uomo con il borsello a chi
pensa?
«Penso a un grande drammaturgo come Samuel
Beckett. Un intellettuale, capace di portare questo
accessorio con molta naturalezza. L’approccio al
borsello deve essere giusto e corretto, altrimenti è
meglio lasciare perdere».
Negli anni Settanta, il borsello aveva un suo coté
mondano e c’era chi se lo portava anche in discoteca. Oggi è ancora così?
«No, oggi prevale più un uso pratico, quotidiano,
perché gli uomini, come le donne, vanno in giro con
parte del loro ufficio addosso. L’iPad, per esempio,
ci segue ovunque e occorre avere un contenitore comodo e poco ingombrante. Esigenze che il borsello
soddisfa pienamente».
Ma il borsello a chi è destinato?
«Il nostro cliente tipo è un giovane che viaggia
molto per lavoro e ha bisogno del suo borsello per
superare rapidamente i controlli all’aeroporto e
correre da un appuntamento all’altro con tutto quel
che serve, senza avere borsoni al seguito».
A cosa può essere paragonato?
«Secondo me è il nuovo zainetto dei giovani, pratico, elegante e di grande utilità. Sta bene sia con i
completi classici che con un bel paio di jeans. E il
borsello passepartout deve essere in pelle nera o
blu, oppure in nylon superleggero».
Cosa risponde a chi considera il borsello la massima espressione della “cafoneria”?
«Innanzitutto di non usarlo: il borsello richiede
una allure particolare per essere indossato bene. E
chi ha dei pregiudizi è meglio che lasci perdere. Il
borsello è una scelta che va fatta con convinzione.
Se uno si sente ridicolo, usi altre borse».
E quali sono le alternative per un uomo?
«Sono parecchie ma molto differenziate tra loro.
Faccio un esempio: il modello shopping bag, non è
da tutti, perché è un genere modaiolo. E chi lo adotta sa che viene etichettato così».
Altre borse maschili?
«Visto che nelle città il traffico è proibitivo e la gente tende a muoversi in moto o in bici, la tracolla da
messenger va moltissimo. Mentre per avvocati, medici, ricercatori, il modello più ricercato resta la classica cartella professionale».
C’
DINAMICO
Borsa in nappa antique
in originale blu Prada
Ricorda i sacchi degli sportivi:
perfetta per l’uomo dinamico
che vuole portare con sé ogni
cosa dal computer alla felpa
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SPORTIVO
Borsa maxi monocolore
in lino delavè. Ha dettagli
in vitello lucido e si può
abbinare a un look
sportivo e informale
Proposta da Trussardi
UOMINI D’ORDINE
Cartella a due scomparti
in canavas cerato e pelle
con manici in cuoio
a contrasto di La Martina
Per riporre le cose con ordine
e non creare confusione
WEEKEND
Il borsone Tod’s è realizzato
in morbida vacchetta
con impunture a vista. Ideale
per le giornate con molti
impegni: può trasformarsi
in mini valigia per il weekend
CENTAURO
Borsello nero multitasche
chiuse da zip in cotone
spalmato con tracolla a nastro
di Piero Guidi. Perfetto anche
per la moto perché lascia
le mani libere per guidare
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
i sapori
Attraversando i secoli ha nutrito e nutre buona parte dell’umanità
Da noi, arrivando dai Balcani, si guadagnò il nomignolo di grano
dei turchi. Oggi, essendo quasi azzerate le qualità autoctone
e assediato com’è dagli Ogm, la scelta migliore cade
Antichi
sul biologico. Per arrivare sulle nostre tavole sotto forma
di polenta, biscotti, zuppe e insalate
Sciroppo
Olio
Amido
Conservato
È l’ingrediente base
della polenta: colore giallo
(grazie alla zeaxantina)
Fine ed elegante la varietà
biancoperla, trevigiana
Negli States il corn syrup
sostituisce lo zucchero
nei cibi gelatinosi, perché
non cristallizza. Si usa
anche per i gelati
Estratto dal germe,
l’anima nobile del chicco,
ha sapore delicato
ma un punto di fumo
basso: inadatto alla frittura
Conosciuto come Maizena
va scaldato sopra i 70 gradi
per addensare creme
e vellutate. Con la farina,
rende gli impasti fragranti
I chicchi voluminosi
distinguono la graminacea
zea mays dal frumento
Bolliti e inscatolati,
si aggiungono alle insalate
LA RICETTA
Farina
Sigrid Verbert
è un’apprezzata scrittrice
e fotografa di cibo
Nel blog “Cavoletto
di Bruxelles”, racconta
le sue esperienze
di cuoca curiosa,
abile nel miscelare ricette
della memoria e nuove
tendenze gastronomiche
Zuppa di mais e paprika
Ingredienti per 4 persone
••
••
••
•
2 panocchie
½ litro di latte
1 scalogno 1
1 cucchiaino di paprika affumicata
in polvere
1 cucchiaio di farina di riso
1 cucchiaio di burro
Lessare le pannocchie. Tritare la cipolla sbucciata
e cuocerla nel burro senza che prenda colore
Aggiungere le panocchie bollite e sgranate,
la paprika e la farina di riso,
mescolando.Versare
il latte e cuocere
a fuoco basso per 20’
Frullare e passare al setaccio,
prima di servire caldo
Mais
‘‘
LICIA GRANELLO
ranone, frumentone, formentazzo,
grano d’India, granoturco, meliga.
Cento nomi diversi battezzano il cereale scoperto nelle campagne di
Cuba dagli uomini di Cristoforo Colombo pochi giorni dopo aver messo piede per la prima volta sul continente americano. Nutre una buona parte dell’umanità da così
tanto tempo, il maìz (nella dizione latino-americana), da meritare l’emozionante nome di radice greca che lo identifica nel glossario scientifico: Zea
maya, da zao, vita, e mayze, pane.
Più di cinquemila anni di pratica agricola dedicata non ne hanno scalfito l’importanza. Alimento
imprescindibile nella storia culinaria della civiltà
G
Groucho Marx
Mentre succhiava le ossa
di pollo e le pannocchie
di mais lo hanno sentito
in un raggio di chilometri
Molti, pensando
a un’incursione aerea,
hanno schermato le finestre
da “LE LETTERE DI GROUCHO MARX”
Il pane della vita
atzeca, si è confermato secolo dopo secolo egualmente povero e necessario alla sopravvivenza di
uomini e animali in tutti i Paesi che nel tempo — Sedicesimo secolo, per quanto riguarda l’Europa —
hanno preso a coltivarlo. Compresa l’Italia, dove —
arrivando dalle regioni balcaniche — si è verosimilmente guadagnato il nomignolo di grano dei turchi.
Clima favorevole, rese importanti, facilità di produzione: le regioni del Po e la fascia centrale sono
state a lungo la nostra culla del mais. Peccato che per
incrementare la quantità abbiamo dimenticato la
qualità, quasi azzerando le varietà autoctone, meno redditizie ma più robuste e valide, in favore degli
ibridi. Un aumento di produzione che oggi ci consente di esser autonomi all’85 per cento.
Ma il vero guaio riguarda il dilagare delle produzioni ogm, se è vero che il fabbisogno mondiale di
mais viene coperto per la metà dagli Stati Uniti, dove gli organismi geneticamente modificati imperano (quasi) indisturbati. Da una parte all’altra del
pianeta, la guerra di numeri e ricerche vede contrapposti i giganti degli Ogm — Monsanto in primis
— e i ricercatori indipendenti. Tra le ultime analisi
della Commission Française du Génie Biomoléculaire («Non è possibile concludere che il mais ogm
Mon 863 sia un prodotto sicuro») e le rassicurazioni dell’industria, qualche settimana fa la Cina ha re-
spinto al mittente una spedizione di mais contaminato da Ogm (Mon
89034) non approvato
dal ministero dell’Agricoltura, in arrivo dagli Usa, malgrado il paese asiatico sia in deficit
di produzione. Una decisione che rallegra Greenpeace e la Coldiretti, uniti nella
convinzione che il principio di precauzione debba
prevalere sugli interessi economici.
Per questo, mai come nel caso dei chicchi d’oro
da trasformare in polenta, biscotti o insalate, la scelta del biologico riesce particolarmente felice. A
maggior ragione quando il mais arriva sulle tavole
dei bambini e su quelle dei celiaci, dove l’assenza di
glutine è requisito fondamentale.
Se farina e maizena abitano qualche angolo della vostra dispensa, impastatele con un po’ d’acqua,
un cucchiaio di extravergine, poco lievito e un pizzico di sale. Poi tirate la sfoglia, tagliatela a listarelle,
rifinite con una spennellata d’olio, grani di fleur de
sel e piazzate la teglia per dieci minuti in forno caldissimo. Sistemata la prima metà dell’happy hour,
vi resterà solo da scegliere una buona bottiglia.
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DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
itinerari
Mondovì (Cn)
Marano (Vi)
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DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
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LO STUDIÒ DI PIAZZA
Via delle Scuole 2
Tel. 0174-330887
Camera doppia da 80 euro
PARCO DEGLI ANGELI
Via Schio 77, località Malo
Tel. 0445-602511
Camera doppia da 100 euro
RELAIS LA TORRE
Località Chiassa Superiore
Tel. 0575-040067
Camera doppia da 70 euro
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
IL BALUARDO
Piazza d’Armi 2
Tel. 0174-330244
Chiuso lunedì a pranzo e mart.
menù da 40 euro
DUE MORI (con camere)
Via Rigobello 39
Località S. Vito di Leguzzano
Tel. 0445-511611
Chiuso lunedì, menù 30 euro
LA TORRE DI GNICCHE
Piaggia di San Martino 8
Tel. 0575-352035
Chiuso mercoledì,
menù da 25 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
ERBA MATTA
Piazza Maggiore 6
Tel. 0174-42583
CONFRATERNITA CEREALI
Via IV Novembre 98
Tel. 0445-621677
FORNO PANE E SALUTE
Corso Italia 11
Tel. 0575-20657
Dalla pellagra
alla biodiversità
CORRADO BARBERIS
utto cominciò da Udine, da quel libretto Polenta di
qualità in Friuli edito nel 1987 dalla locale Camera di
Commercio e divenuto poi bibbia della Confraternita
della Polenta Friulana e del suo Gran Priore Silvano Bertozzi.
Quel libretto partiva infatti dalla constatazione che le varietà autoctone di mais erano ormai confinate su una manciata di ettari, soppiantate com’erano dagli ibridi americani
cui era riuscito di innalzare il rendimento unitario dai 16,5
quintali del 1940 a oltre settanta. Enorme successo economico, con una riserva, però. I settanta quintali erano concepiti in funzione dei maiali da allevare, non dei cristiani da nutrire e soprattutto da deliziare, perché — rilevava il libretto
protestatario — «la selezione per la produttività punta sull’accumulo di amido, il quale non favorisce gli aspetti che
rendono gradevole la polenta».
Sconvolti dal benessere del secondo dopoguerra, i friulani avevano con gioia mutato abitudini alimentari. Da generazioni erano stati, per così dire, martiri del mais, dal cui
esclusivo ricorso avevano
contratto la pellagra, la terribile malattia che, disseccando l’epidermide, provocava
demenza e morte. Gli ibridi erano
arrivati in un momento in cui si era
fin troppo lieti di dimenticare il cibo
ancestrale. Nel 1987 era però già cominciata la revisione critica. Una minoranza illuminata si domandava
perché rinunciare a un prodotto simbolo della civiltà regionale. Cambiava il
pubblico, da contadino a intellettuale, secondo quell’eterno avantindietro storico
che Clemente Biondi, nel poemetto Giornata
villereccia, aveva già cantato nel 1773: «cibo fu sol
di rozza gente umìle / ma poi nelle città meglio condita / ammessa fu tra il popolo civile / e giunse alfin le delicate brame / a stuzzicar di cavalieri e dame».
Furono cavalieri e dame a suscitare nel 1987 il movimento
pro-polenta? Certo, sotto il profilo culturale che nobilita le
minoranze audaci. Al Friuli rispondeva la Fiera bresciana di
Castegnato, Franciacorta in Bianco, con largo spazio fatto
negli stand alle vecchie varietà da cristiani Marano e Belgrano. In Garfagnana si rivendicavano i pregi delle pannocchie
dalle otto file, tendenti ora al giallo, ora all’arancione. Dovunque la biodiversità diventava il nuovo credo alimentare.
Si tornava ad ammirare le tradizioni, purché antiche, come
quella del cucchiaio forato (sculièr col buso) servito ai braccianti insieme a una ciotola di polenta e latte, perché non
esaurissero il liquido prima dell’impasto. Come racconta Ulderico Bernardi nelle Reverenti memorie del signor Pan e della Illustrissima signora Polenta. Gli umori cambiavano e va
dato atto all’Istat di averli prontamente captati. L’Annuario
Inea distingue con giusto puntiglio e qualche probabile sottostima le 7,2 migliaia di tonnellate di granoturco nostrano e
le 10.357,2 di mais ibrido prodotte nel 2008, a prezzi alquanto superiori, di circa un quarto, a favore delle vecchie varietà.
Ai cristiani va dunque nemmeno uno per ogni mille ai maiali. Poco, ma pur sempre qualcosa nel nome della tipicità.
T
7
sono le varietà botaniche
del mais
1894
l’anno in cui nascono
i corn flakes
90
le calorie per 100 grammi
di mais in scatola
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Paste ‘d melia
Pannocchia
Pop corn
Corn flakes
Tortilla
Farina di mais ottofile
macinata a pietra, burro,
zucchero e uova
nei biscotti di meliga (mais)
della tradizione cuneese
Due ricette semplici:
arrosto, sulla brace,
o bollita, spennellata
di burro fuso, aromatizzata
con pepe e sale
Chicchi soffiati o scoppiati,
nella preparazione
casalinga, salati e resi
appetitosi con il burro,
per lo snack da cinema
I fiocchi che arricchiscono
il latte vengono prodotti
impastando, spianando
e tostando la farina di mais,
acqua, zucchero e malto
Il pane messicano (arepa
in Sud America): una cialda
di masa harina, farina
di mais, cotta sulla piastra,
da farcire a piacere
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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 27 FEBBRAIO 2011
l’incontro
Il 3 febbraio scorso sviene e cade
dal podio. Il mondo della musica trema
“È il mio cuore che invece di essere
un allegro maestoso diventa un allegro
capriccioso”, scherza
il maestro, “ma ora sto
benissimo”. Ed è pronto
a tornare al lavoro
con la Chicago Symphony
e a Roma con l’amato
Verdi simbolo dell’Unità
d’Italia. A luglio compirà settant’anni,
“ma non li sento, continuo il mio viaggio
entusiasmante come in un sogno”
Classici
Riccardo Muti
H
no!” lanciato con spiccata inflessione
toscana».
Fu sempre Nabucco, nell’86, la sua
prima opera come direttore musicale
della Scala, con la regia di Roberto De Simone: trionfale apertura di un viaggio
conclusosi quasi vent’anni dopo in modo burrascoso, «come un temporale che
arriva in fretta. Ciò che mi resta è la memoria di un periodo bellissimo in cui la
mia vita si è veramente saldata con la
Scala». Con quel Nabuccoruppe una tradizione scaligera instaurata niente meno che da Toscanini, che proibiva il bis di
qualsiasi brano di un’opera. «Ma era così calda e persistente la richiesta del pubblico che decisi di ripetere il Va pensiero.
E la mattina dopo, sui giornali, intervennero sul tema i massimi personaggi dell’industria, della finanza, della cultura e
della politica: giusto o sbagliato eseguire
il bis? Pareva un affare di Stato, in un’Italia dove l’amore per il melodramma pulsava ancora spinto fino alle forme smaccate del tifo. Oggi, nella deriva culturale
Se l’arte viene
penalizzata il paese
crolla, divorato
dalla bruttura
di manifestazioni
televisive
che per i ragazzi
stanno diventando
pane quotidiano
FOTO © SILVIA LELLI
a un cuore ricco di musica, Riccardo Muti. Ma è
anche un cuore bizzarro,
che può sorprendere per
stranezze ritmiche, «e
invece d’essere un Allegro Maestoso diventa un Allegro Capriccioso», dice al telefono da Chicago il direttore d’orchestra. Sembra di ottimo
umore, ben disposto e loquace. Pronto
a volare presto sulla rotta dell’Italia. Eppure di recente il suo grande pubblico
ha tremato: il 3 febbraio, durante una
prova a Chicago, Muti perde i sensi, e la
caduta dal podio gli provoca lesioni al
volto. Ricovero, apprensione, fratture
plurime alla faccia e inserimento di un
pace-maker. Tutti i media internazionali ne parlano: Muti è un campione
della musica tra i più acclamati e ammirati del pianeta. «In realtà sto benissimo,
e il mio cuore è in condizioni che il bollettino medico dell’Università di Chicago ha definito superbe», dice tranquillo.
«Però è soggetto a brachicardie: a causare lo svenimento è stato un improvviso ritmo troppo basso, e ora il pacemaker ha risolto il problema».
Non ha alcun ricordo del malore e
non si è spaventato, passando direttamente «dal movimento lento della
Quinta Sinfonia di Sciostakovich alla
visione di un gruppo di infermiere intorno al mio letto d’ospedale». Erano
invece atterriti gli orchestrali «che mi
hanno visto crollare a terra con un tonfo
repentino e sordo», e lo spettacolo deve
aver tolto il fiato a Domenico, il più giovane dei suoi tre figli, presente in sala. I
musicisti con cui stava provando sono
quelli della Chicago Symphony, orchestra che il maestro giudica «meravigliosa», segnalandola come «la prima degli
Stati Uniti e una delle tre migliori al
mondo» (sottintendendo, si suppone,
che le altre siano la Filarmonica di Vienna, con cui collabora intensamente da
quarant’anni, e i Berliner Philharmoniker). Con la compagine americana,
della quale è music director, ha un’intesa così speciale «da sentire Chicago come una seconda casa», e l’inizio del suo
incarico, nel settembre scorso, venne
festeggiato con un concertone da rock
star, che accolse nel Millennium Park
venticinquemila spettatori plaudenti.
L’abbraccio tra la fascinosa metropoli di Obama e il più mediterraneo tra
i grandi musicisti odierni si è rinnovato
nella situazione d’emergenza, come ci
riferisce: «Qui, nel Northwestern Memorial Hospital di Chicago, mi hanno
curato in modo straordinario, ed è
profonda la mia gratitudine verso medici come il cardiologo Bradley Knight e
il chirurgo maxillofacciale Alexis Olsson, che ha sistemato le fratture del
mento e degli zigomi dall’interno non
intaccando il mio viso rimasto uguale a
prima, senza cicatrici». E quasi si commuove raccontando che «i musicisti
dell’orchestra hanno appena voluto fare due concerti in ospedale per ringraziare dottori e infermieri della maniera
attenta e generosa in cui si sono presi
cura di me».
Tra poco sarà a Roma per dirigere al
Teatro dell’Opera, dal 12 al 24 marzo (e
il 17, in sala, ci sarà anche il presidente
della Repubblica), uno dei capolavori
dell’amato Verdi, Nabucco, vessillo
ideale dell’Unità d’Italia soprattutto
grazie al coro del Va pensiero, intonato
dagli ebrei banditi dalla propria terra e
possente nell’esprimere l’universalità
del sentimento patrio. Questo Nabucco
è per Muti «irrinunciabile non solo per
la felicità di ogni nuovo approccio a
un’opera magnifica, ma per l’impegno
preso con il teatro della capitale, con cui
ho un rapporto privilegiato in Italia.
Nelle ultime stagioni vi ho diretto Otello, Ifigenia in Aulide e Moïse et Pharaon
con esiti di alta qualità. L’orchestra e il
coro mostrano di aver intrapreso un
cammino costruttivo, e già stiamo facendo nuovi progetti per il futuro». Regia e scenografia sono di Jean-Paul
Scarpitta, i costumi li firma Maurizio
Millenotti, il protagonista è Leo Nucci e
l’allestimento sarà «poetico e semplice,
come richiede un’opera che è quasi un
grande oratorio messo sulla scena». In
passato, oltre ad averlo inciso per la Emi
nel ’77 (disco memorabile, con la
Philharmonia di Londra), ha affrontato
più volte questo titolo verdiano, a partire da un’edizione anni Settanta realizzata con Luca Ronconi per il Maggio
musicale fiorentino, che «giocava sul
duplice elemento biblico e risorgimentale, e terminava con Nabucco abbigliato secondo la classica iconografia
del sabaudo Vittorio Emanuele II. Sovrapposizione interpretativa innocente, se paragonata ai sovvertimenti delle
regie odierne. Ma all’epoca protestò il
loggione, al grido di un “Ronconi in Ar-
a cui assistiamo, un dibattito del genere
sarebbe impensabile».
Piace a Muti, citando il messaggio
implicito in Nabucco, evocare il proprio
amore patrio. Non ha mai temuto di dichiararlo, «anche a fine anni Sessanta,
quando essere patriottici voleva dire
farsi additare come individui sospetti di
ideologie politiche che non mi sono
mai appartenute. Ho sentito sempre
come una benedizione l’essere nato
nella terra di Dante, Leonardo, Raffaello e Caravaggio, piena di bellezze naturali e di splendore artistico, e ricordo
che quando, nel ’71, cominciai a dirigere a Salisburgo, nel passare la frontiera
tra Italia e Austria soffrivo molto nel vedere le bandiere italiane piccole e stracciate dal vento, mentre le austriache,
lunghe e larghe, sventolavano con
gioia». Oggi cittadino del mondo, Muti
guarda all’Italia come a un paese «unito da una storia millenaria, dalla lingua
e da un sentimento che nonostante tutto batte forte, al di là degli aspetti più superficiali e squallidi della nazione attuale». E insiste sul declino che ha investito i nostri teatri: «In Italia ci sono tanti bravi musicisti che vogliono competere col mondo e bisogna metterli in
condizione di farlo. Non potrà mai accadere se non si sovvenzionano le istituzioni musicali. Se l’arte viene penalizzata il paese crolla, divorato dalla
bruttura di manifestazioni televisive
che per le nuove generazioni stanno
purtroppo diventando il pane quotidiano. Capitali musicali come Roma,
Napoli, Milano, Firenze, Venezia, Bologna e Palermo sono in gravi difficoltà, e
questo è un delitto che non ci sarà perdonato, non solo dalle nostre generazioni future, ma dal mondo intero».
Pochi giorni fa, dagli Stati Uniti, è
giunta la notizia che Muti ha vinto due
Grammy, gli Oscar della musica, col Requiem di Verdi inciso con i complessi di
Chicago: uno per il migliore album classico dell’anno, l’altro per il migliore disco sinfonico-corale. E lui avverte che
«bisogna riflettere su riconoscimenti
tanto prestigiosi dati sì a Verdi e a un direttore d’orchestra italiano, ma anche a
un coro e a un’orchestra americani. Triste constatare quanto sia scemato l’interesse internazionale nei confronti
dell’apporto dell’Italia sul versante musicale».
In prossimità di un compleanno tondo (compie settant’anni in luglio, «ma
non li sento addosso per niente»), Muti
ha pubblicato un’autobiografia, Prima
la musica, poi le parole (Rizzoli), «molto
voluta dai miei figli, che mi stimolavano
a dare testimonianza dei miei incontri,
delle mie esperienze, del mio entusia-
smante itinerario nella musica vissuta
sempre un po’ come in un sogno». È il ritratto appagante e privo di presunzione
«di un uomo nato in una normale famiglia del Sud che tramite lo studio, la disciplina e una serie di bravissimi insegnanti, sia al liceo classico che ai conservatori di Bari, Napoli e Milano, si è ritrovato giovanissimo alla guida del Maggio
musicale fiorentino, per poi dirigere la
Scala lungo quasi un ventennio e raggiungere i podi delle massime istituzioni musicali europee e americane, incluso quello del concerto di Capodanno a
Vienna, che ho diretto quattro volte».
C’è un Muti malinconico, severo e fosco. E ce n’è un altro irruente, estroverso e pieno di genuino senso dell’umorismo. È questo Muti più solare a emergere da un libro colmo di aneddoti e di
umanità, e aperto da un travolgente
amarcord sui tempi dell’infanzia e della scuola a Molfetta in Puglia: «Però sono nato a Napoli: così volle mia madre,
napoletana, per tutti e cinque i suoi figli
maschi. Se un giorno girerete il mondo,
ci diceva, quando vi chiederanno dove
siete nati e risponderete Napoli vi rispetteranno, mentre con Molfetta perdereste tempo a spiegare dove sta». Napoli è radicata in lui anche musicalmente, come dimostra il bel progetto
sulla scuola settecentesca partenopea
che dirige da cinque anni a Salisburgo,
e che ha valorizzato su una ribalta internazionale una dimensione «rilevantissima per tutto il teatro musicale europeo e innanzitutto per Mozart». È uno
dei risultati ai quali oggi tiene di più, insieme ai Viaggi dell’amicizia del Ravenna festival presieduto da sua moglie
Cristina, fervida organizzatrice di questi appuntamenti in forma di concerti
nelle città più difficili e ferite, da Sarajevo a Gerusalemme e alla New York post-11 settembre, «quando diressi Va
pensiero nel silenzio sinistro di Ground
Zero. Luoghi in cui ho avuto davvero la
sensazione che la musica fosse un
profondo tessuto connettivo per tutti
gli esseri umani, un atto d’amore capace di stabilire un autentico legame spirituale tra la gente».
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LEONETTA BENTIVOGLIO
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Repubblica Nazionale
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27 febbraio 2011 - La Repubblica.it