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Dello stesso autore
L’amante proibita
Prima edizione: febbraio 2009
© 2009 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-541-1333-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di ’ verso
Stampato nel febbraio 2009 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
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Massimiliano Palmese
Pop Life
Newton Compton editori
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A Chiara, e a tutte le Holly
passate e future
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PARTE PRIMA
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uando sei moroso l’Azienda Elettrica ti lascia poche
settimane di scampo prima di staccarti l’utenza, in
genere. Stavolta invece mi stava dimostrando un po’ di
cuore? Erano mesi che non pagavo le bollette ma i tecnici niente, non si facevano vivi. Me li aspettavo da un
giorno all’altro, da un momento all’altro, con un’ansia
che peggiorava la mia colite nervosa. Rientrando in casa
premevo l’interruttore pregando che ci fosse ancora luce e, quando ero dentro, a ogni squillo di telefono balzavo su terrorizzato, nemmeno fossi la più piccola di
Piccole donne. E di notte, di notte vedevo un orco aggirarsi dietro le mie finestre, pronto a tranciare i cavi di
luce, gas e telefono, e qualsiasi altro filo che mi tenesse
ancora attaccato alla vita.
Anche l’amministratore condominiale era in cerca di
me, e citofonava ogni giorno, diverse volte al giorno.
Non rispondevo, figuriamoci. Mi limitavo a sgattaiolare
in cucina e a spiare dalle persiane quella sua faccia di je9
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na. Avevo qualche arretrato, e va bene. Molta acqua e
moltissimo riscaldamento da pagare, d’accordo. Ma rispetto a quelle della corrente elettrica o del gas, le bollette condominiali potevano – dovevano – aspettare.
La jena sbraitava:
– Crede di prendermi in giro? Lei sta approfittando
della mia pazienza. Cos’è, si crede più furbo degli altri?
Non mi credevo più furbo degli altri, anzi, ma vai a
spiegarlo a una jena. E poi in quei giorni avevo anche altro a cui pensare: il caldo di un’estate infernale e nessuna vacanza da tempi immemorabili, il frigorifero vuoto
eppure un fastidioso inizio di pancetta, l’estrema urgenza di un’attività aerobica ma un malleolo fratturato e
dolorante, e la solita colite nervosa. E colpi di sonno
frequenti e innaturali. E nessuna idea di come iniziare il
mio romanzo.
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n quegli anni, trovandomi nell’età in cui si è studenti
I
universitari, abitavo anch’io in un appartamento per
studenti universitari. Ma io non ero un universitario, tutt’altro. Ero fuggito dall’università dopo uno scioccante
esame di letteratura italiana. Lo ricordo come fosse oggi,
portavo una brillante tesina sulle liriche del Tasso.
…ne la notte bruna / alto silenzio fa la bianca luna: / e
noi tegnamo ascose / le dolcezze amorose: / amor non
parli o spiri, / sien muti i baci e muti i miei sospiri.
Ma l’anonimo assistente, che mi esaminava al posto
del professore, l’aveva letta con disappunto e, sicuro
che intorno al Tasso ne sapessi abbastanza, pensò di punirmi con una domanda indisponente.
– La data di nascita di Andrea De Carlo?
– Prego?
Il mio cervello era andato così in tilt, che alle insistenze di quello («Come mai, non si aggiorna sulla letteratura contemporanea? Perché, non lo trova fondamentale
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il minimalismo italiano? Su su, non me ne sa dire nemmeno un titolo?») risposi che no, non conoscevo la data
di nascita del signore in questione.
– Come mai, non le piace De Carlo?
– Sì certo, è un bel ragazzo.
Allora quello prese il mio libretto d’esame, io gli dissi
che non accettavo il suo voto, lui si mise a ghignare, io
gli chiesi perché ridesse, lui rispose che non erano fatti
miei, io gli domandai se fosse idiota tutti i giorni o a
giorni alterni, lui mi chiese come mi permettessi, io risposi che glielo facevo vedere: allungai una mano, presi
il libretto d’esame e lo strappai in mille pezzi. Salutai e
uscii. E chiusi per sempre con la vita universitaria e con
le speranze che una povera madre vedova ripone nel
suo unico figlio maschio. Me ne andai di casa e venni a
Roma.
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’appartamento romano dove venni a leccarmi le ferite
L
non era malvagio. Consisteva in due stanze da letto
ampie e luminose, una con balcone e l’altra senza (e io
mi sistemai in quella senza balcone, così per mettere in
chiaro la mia inclinazione al masochismo), una cucina
passabile, un bagno addirittura decente. All’entrata dovetti fare qualche fastidioso lavoretto come sistemare le
migliaia di libri che avevo deciso di portarmi dietro
(erano solo le migliaia inseparabili, con le altre mi sarei
ricongiunto più avanti); o, più divertente, colorare le
pareti. Ma senza eliminare il vecchio parato, che fatica,
semplicemente ridipingendoci sopra.
Impiegai mesi ad ammobiliarmi la vita, e ciò nonostante ancora si notava una certa casualità in fatto di
estetica: la mia camera faceva sfoggio di qualsiasi cosa
tranne che di un po’ di stile. Sommava un letto terribilmente anni Ottanta, una libreria agghiacciante, una scrivania orrenda, e sedie e sediole nessuna intonata con
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l’altra e non una in accordo col resto. Sembrava una
stanza arredata da un cieco.
Passarono un paio di anni e poi una primavera la camera da letto con balcone rimase sfitta. A dire il vero la
proprietaria aveva deciso di sfrattarci tutti quanti, noi
giovanotti fuori sede. E così il mio ultimo coinquilino,
un universitario aspirante attore, ne aveva approfittato
squagliandosela senza pagare la sua parte di acqua, luce
e riscaldamento. Tre mesi di casa tutta per me erano stati riposanti, ma adesso che le mie finanze languivano era
da idioti non approfittare dell’occasione: avrei potuto
subaffittare la camera da letto con balcone all’insaputa
della proprietaria, giustificando in qualche modo la presenza di un ospite (visita di un parente o fidanzamento
con ragazza oppressiva), e avrei intascato una discreta
sommetta mensile. Somma che comunque, ogni mese,
avrei dovuto tirare fuori dalle medesime tasche per bollette, arretrati, conguagli e versamenti su conti scoperti.
Capivo chi si gettava da un ponte dopo un crack finanziario, io in pratica facevo un crack al mese.
Non ero ancora del tutto convinto di andare contro la
legge, ma a convincermi fu il pensiero, sfiorato con orrore, di dover mangiare pasta al burro per anni. Grassi
e carboidrati, e la linea? E la proprietaria non si sarebbe
accorta del mio piccolo inganno in meno di cinque mi14
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nuti, incollata com’era alla mia porta dalla mattina alla
sera? Quando non ne poteva più veniva a bussare, ma
non per parlare, per insultarmi. E quando aveva la sfortuna di incrociarmi in ascensore, abbassava lo sguardo
per resistere contando fino a dieci, ma in genere non
riusciva, e già al tre o al quattro schizzava in alto come
un fuoco d’artificio. Anche io dovevo lasciare la sua casa. Subito. Immediatamente. Ero un ladro. Un abusivo.
Un usurpatore. Che non mi azzardassi a subaffittare.
Aveva avvisato i vigili. Avrebbe chiamato i carabinieri.
E così, se il trillo del citofono mi dava già i brividi, lo
squillo della porta mi faceva addirittura sbiancare. Potevano essere: a) la proprietaria venuta ad assicurarsi
che non stessi subaffittando a qualcuno, b) la jena salita
a minacciarmi di togliermi l’acqua, c) i tecnici della luce
che mi stavano tagliando la luce, d) i tecnici del gas che
avevano appena staccato il gas. Ma potevano anche essere: e) i vigili mandati dall’avvocato, su mandato della
proprietaria o f) i carabinieri mandati dai vigili mandati
dall’avvocato, su mandato della proprietaria.
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uando mi sforzo di tornare indietro a cercare nella
memoria qualche immagine di me bambino, cosa
che faccio di rado e malvolentieri, mi vedo sempre con
una penna in mano, o con la testa china su un libro, o lì
accanito a temperare una matita. I fogli bianchi, i colori
erano per me la possibilità di una rappresentazione del
mondo, e in copia favolosa.
Alla scuola elementare ero la gioia delle maestre, ma
nonostante i complimenti, i baci e le carezze, non avevo
nessuna considerazione di me stesso. Guardavo gli altri
e trovavo sempre chi tracciasse asticelle più dritte delle
mie, chi disegnasse disegni più sorprendenti, chi avesse
persino il dono della simpatia (il più misterioso dei doni, distribuito da Gesù Bambino con generosità ma parecchio a casaccio, come se l’avesse gettato dal cielo a
occhi chiusi e fossero riusciti ad acchiapparselo solo i
più veloci e i più furbi, categorie di bimbi nelle quali io
non rientravo). C’erano sempre un bimbo più bello,
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uno più biondo e uno più amabile di me. Io ero solo
dolce, molto dolce, e tranquillo, troppo tranquillo.
Proprio i tanti complessi (di Edipo, di colpa, di inferiorità) erano il motore del mio eroico sforzo di perfezionamento. Tutto quello che agli altri riusciva naturale
volevo che riuscisse anche a me. Tutto ciò di spontaneo
che loro producevano, tribolavo perché potessi farlo
anch’io. Agli inizi non c’è altro metodo che questo accanimento e così, di conseguenza, per molto tempo la mia
foga fu tutta mal placé. Alle elementari assemblavo versi dei simbolisti francesi e ne facevo poesie postmoderne. Alle medie componevo odissee e canzoni oscene. Al
liceo testi teatrali, raccolte di aforismi, inni sacri; riscrivevo le tragedie scespiriane che mi sembravano poco
riuscite; producevo vere elegie di finti poeti ellenistici, e
biografie, cronologie, genealogie.
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un certo punto mia madre, in preda all’ansia per il
mio disinteresse riguardo alle cose del mondo vivo,
approfittò della mia deficienza nelle materie scientifiche per affidarmi a una certa signorina Pamela che mi
desse ripetizioni. Chi andava a immaginare quale particolare tipo di doposcuola avesse in mente mia madre?
La signorina Pamela portava delle gran pettinature
ricciolute, orecchini in plastica gialla e rossetti di fuoco,
e facendomi ripetere le mie odiate lezioni di scienze,
aveva in realtà una missione segreta. Ma io ero lontanissimo dai suoi propositi, e molto presto la signorina Pamela dovette capire che sedurmi era un obiettivo impossibile, a meno di non gettarmi in terra e stuprarmi lì
per lì, sul tappeto.
Le indicazioni di mia madre non si spingevano di certo alla violenza carnale: la signorina Pamela avrebbe solo dovuto suggestionarmi con un po’ di grazia e tutto il
suo sex appeal. Peccato che la disgraziata signorina Pa18
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mela ai miei occhi fosse più ridicola che eccitante e che,
obiettivamente, avesse il sex appeal di una lucertola su
un sasso. Avrà avuto mille e una dote (s’interessava di
psicoanalisi freudiana, di teatro sperimentale, di danza
contemporanea, di occultismo, di uomini, di donne, di
gatti) ma con me fece fiasco. E del resto le mie esperienze erotiche fin lì si riducevano a pochi e sparsi fatti:
guardarsi l’un l’altro coi colleghi dell’asilo mentre nei
bagni si faceva pipì; farselo scrollare dalle maestre anche quando avevi passato l’età; giocare al dottore, alla
lotta, ai vampiri.
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celto il liceo artistico, vi approdai pieno di coraggio e
S
voglia di fare. Ma il primo giorno di lezione vi fu una
manifestazione, il secondo un comizio, il terzo si fece
sciopero, e dopo due mesi non avevo ancora conosciuto
uno solo dei miei insegnanti.
Noi studenti eravamo lasciati da soli, in grandi aule, a
riprodurre capitelli e profili di statue di gesso. Fu durante una di queste ore di ornato che, giusto accanto a
me, qualcuno si mise a schizzare una testa di donna di
una tale bellezza, con una cura dei particolari così naturale e perfetta, che tutti i miei complessi scoppiarono in
acide lacrime d’odio. Tornai a casa, comunicai a mia
madre che avevo sbagliato scuola, e mi feci portare di
corsa al più vicino liceo classico.
Qui i figli di avvocati, medici e bancari avrebbero desiderato ben altro che studi classici: la migliore era un
genio matematico, il peggiore un fuoriclasse della pallavolo; chi avrebbe preferito un liceo scientifico, chi le
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magistrali, chi una pausa di riflessione. E in effetti,
quando fui presentato alla classe, profugo da un liceo
dove «non si studiava abbastanza», nessuno lo disse ma
mi presero tutti per fesso.
Fu al liceo che mi scontrai con il tipico metodo d’insegnamento che tra mille facoltà ti chiede di usare per lo
più la memoria (nascite, morti e battaglie), che io possiedo in modica quantità. Dunque perfino al liceo classico non era previsto l’otium creativo? Anche qui bisognava correre, ingerire il programma e passare avanti?
E poi inghiottire altro ancora, anche a digestione incompiuta? Così, quando lo scoprii, Carlo Michelstaedter divenne il mio idolo. Uno che dopo un brillante ciclo di studi (e anche lui prima pensa a Giurisprudenza,
poi s’iscrive a Matematica, che infine lascia per Lettere), dà tutti gli esami, termina di scrivere la tesi e, senza
disturbarsi ad andare a discuterla, si spara un colpo di
rivoltella.
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otresti prima finire l’università, e poi decidere che
–P
cosa fare –, diceva mia madre, mentre mettevo in
valigia i pigiami, le pantofole, la giacca da camera, tutto
in grigio antracite.
Ho sempre amato il grigio antracite. In quelli che nella moda sono stati gli anni dai colori più violenti del secolo, io vestivo solo di nero e di grigio antracite.
Chiusi la valigia e la trascinai fino alla porta. Detti un
calcio al cane, poi mi avvicinai per salutare anche mia
madre. Le posai un bacio sulla guancia, era gelida.
– Torna –, disse mia madre.
Uscii sul pianerottolo ed entrai nell’ascensore.
– Prima di morire di fame e di sete, torna –, ripeté mia
madre.
Scendendo vidi allontanarsi prima il suo viso, e gli dissi addio. Poi dissi addio alla sua figura, scossa dalle lacrime che finalmente poteva smettere di trattenere. Per
ultimi vidi i suoi piedi nelle pantofole, e dissi addio an22
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che a loro. Quei piccoli piedi che non avevano mai
smesso di correre avanti e indietro per me, per farmi
mangiare, farmi studiare, farmi crescere felice. Era stata
comunque un’ottima madre, era riuscita bene in due
cose su tre.
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n paio di anni dopo, la mia giornata romana tipo era
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così strutturata:
sveglia all’una, per far colazione all’ora di pranzo e
saltare un pasto, risparmiando soldi e grassi;
al bar per la lettura dei quotidiani, che in genere mi
procurava un attacco di colite e uno di panico, poco distanziati l’uno dall’altro;
dopodiché decidevo che fare del pomeriggio: passeggiata archeologica? (no, dai, che tristezza i Fori Imperiali); visita guidata in qualche galleria? (divertente, ma
conoscevo i musei romani come casa mia); due passi all’Isola Tiberina?; ma in genere all’ora dell’aperitivo avevo già speso tutte le energie fisiche e i pochi denari, e
me ne tornavo a casa a rileggere Henry James o a dedicarmi a un assoluto relax, che in stati d’ansia è proprio
consigliato dal medico;
qualche sera mi accanivo a vedere per intero un telegiornale senza farmi venire una tachicardia, ma di solito
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non riuscivo, e quando calava il buio iniziavano le mie
sedute di scrittura dalle quali per settimane – per mesi,
per anni – sono uscite pagine pronte per il cestino dell’immondizia.
Eppure non avevo altre occupazioni che lettura e
scrittura, e non volevo distrazioni: non ero iscritto a
nessun club, non avevo quasi amici, non facevo ancora
sesso.
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a settimana prima di subaffittare l’altra camera mi ero
L
piuttosto afflitto. C’erano state due ribellioni, una giù
al bar dei cinesi e un’altra in salumeria. Entrambi i miei
debiti in quegli esercizi erano cresciuti a dismisura, ragion per cui all’ultima colazione la barista cinese mi aveva chiesto di passare a saldare tutto il conto alla cassa, e
poco dopo il salumiere aveva espresso più o meno il medesimo concetto con un duro sguardo da salumiere.
Il lunedì dunque ebbi tutto il giorno lo stomaco chiuso dalla rabbia.
Il martedì, oltre a risparmiare sul pranzo, risparmiai
sulla merenda.
Il mercoledì la pasta era finita e rimanevano solo una
lattina di pomodori pelati, mezzo sacchetto di pangrattato, sale, farina e un tocco di burro.
Il giovedì mi avvicinai ai pomodori pelati. Mi armai di
forchetta e ne inghiottii uno crudo. Meno peggio di
quel che temessi.
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Il venerdì feci fuori tutti gli altri.
Il sabato, dovendo scegliere tra sale e farina, mi avventai sul pangrattato. Nemmeno questo era troppo
male, così ebbi pangrattato per due giorni di seguito.
E domenica, domenica misi la testa sotto il cuscino e
mi feci un bel pianto.
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