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La Rivista vive grazie all’aiuto di persone che apprezzano la cultura.
Alberto Rinaldini
Ferruccio Lombardo
Gian Carlo Giraud
Paola Ruminelli
Salvatore Vento
nr. 12
Redazione:
Pubblicazione a cura del
CGS Il Tempietto
Genova-Sampierdarena
Via Carlo Rolando, 15
www.iltempietto.it
150° di esperienza
presenza dei religiosi nel sociale
€ 8,00
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150° di esperienza
Italia
presenza dei religiosi nel sociale
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Indice
Presentazione
pag.
5
Prima parte – Genova
1. Genova negli ultimi 20 anni – S. Vento
»
13
2. Genova: Cultura e potenzialità – R. Carpi
»
27
3. Intervista a Repetto presidente della Provincia di Genova
»
35
4. Intervista a Luca Borzani – a cura di S. Vento
»
41
5. I quaderni del Tempietto - L. Garbato
»
49
6. “Tempietto” e “Gazzettino Sampierdarenese” - B. Poggio
»
55
7. Dante e Mazzini – L. Beltrami
»
63
»
81
Don Bosco e i Salesiani nei 150 anni di vita unitaria
»
87
Don Bosco e Genova
»
107
3. Don Orione – T. Fognani
»
147
Scolopi e Risorgimento in Liguria – D. Casati
»
153
Padre Canata – L. Cattanei
»
169
1. 10 marzo 2011: presentazione del volume
n° 11 della rivista “Il Tempietto” al Ducale
»
181
2. 17 Marzo 2011: messaggio del Papa – Napolitano – Bagnasco
»
203
Seconda parte – Fare gli Italiani
1. Cattolicità e umanesimo – P. Ruminelli
2. Don Bosco – A. Rinaldini
4. Scolopi
Terza parte – Appendice
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Presentazione
Il “Tempietto” sorprende ancora per la passione con cui segue i 150 anni
dell’Esperienza Italia. Esce un nuovo volume, il quarto, a conclusione di tre
anni di lavoro intenso… un “ricordare per approfondire” in modo “critico e
costruttivo", senza sostare solo sui i soliti eroi dei manuali. Un tentativo di
ricupero anche del “non detto”. Abbiamo voluto “vederci chiaro”.
Il cammino della nostra ricerca.
Abbiamo ritrovato (lo diciamo con le parole di Carlo Cardia) “l’idealità e
l’eroismo profuso ovunque nella penisola dai giovani, dai volontari, da persone
di ogni classe sociale, per raggiungere l’obiettivo unitario”. (1)
Abbiamo ritrovato un Garibaldi – oltre la leggenda – eroe romantico che vuole
davvero liberare l’amata Italia; abbiamo riscoperto Giuseppe Mazzini, il profeta
della nazione Italia; abbiamo incontrato – al di là di ogni uso machiavellico
del potere – il ruolo decisivo di Cavour nella guida del processo unitario.
Abbiamo per altro assodato quanto scrive nel libro citato Carlo Cardia:
“Il Risorgimento non forma una nazione, con relativa cultura, religione,
memoria storica, ma unifica una nazione che esiste da secoli, con una storia
grande di respiro universale, che conosce e celebra imperatori e condottieri,
filosofie scienziati, papi, teologi e santi, che hanno parlato al mondo, agli
uomini di tutta la terra, che il mondo ci riconosce e ammira più di quanto
riusciamo a fare noi stessi”. (…) Il processo unitario è stato breve e nobile,
perché la nazione italiana ha una lunga storia, nessuno po’ negare la sua
identità conosciuta in tutto il mondo, essendo la più universale”. (2)
Ci siamo imbattuti in luci e ombre di un processo complesso, a volte drammatico,
culminato nell’unità politica della penisola, che, se unì gli Italiani in uno Stato,
divise a lungo la nazione. Un processo tutto italiano con caratteri originali, tra i
quali spicca la moderazione. Il confronto con altri processi unitari ne sottolinea
l’unicità: “uno” da millenni, unito politicamente da 150 anni!
Alberto Mario Banti, nei suoi recenti studi, scrive di aver voluto trasmettere al
lettore la visione di un Risorgimento come «un movimento ampio, ricco,
complesso, contraddittorio», che appare «ancora oggi straordinariamente
affascinante e degno di essere attentamente studiato, piuttosto che acriticamente
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Il Tempietto
giudicato, enfaticamente esaltato o liquidato senza appello». È l’orizzonte in cui
rientra la Rivista, ma tanti sentieri restano ancora inesplorati.
Condividiamo quanto scrive Mimmo Muolo nell’articolo “La fede e il
Risorgimento, “capolavoro” dell’800”: “Il Risorgimento era e resta una pagina
luminosa nella storia d’Italia, da approfondire e fare conoscere ai più giovani,
specie in questo anno di celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia. Una
pagina in cui i cattolici hanno avuto un ruolo determinante e i laici non furono
così avversi alla Chiesa come qualcuno crede”. A sostenerlo – aggiunge – è
ancora Carlo Cardia nel suo libro “Risorgimento e religione”. Il 24 ottobre in
occasione della presentazione del libro, davanti al Presidente Napoletano, Carlo
Cardia ha convenuto con Giuliano Amato su un punto che bene esprime il
cammino di ricerca fatto dai curatori della Rivista “Il Tempietto” in questi
ultimi tre anni. “Al di là delle note dispute – ha fatto notare Amato – i
cattolici condivisero profondamente la vicenda unitaria del regno. E, in fondo,
pur con le dovute differenze di stile, da una parte e dall’altra del Tevere
sempre si lavorò per non rendere irreversibile la frattura”. Nel Risorgimento –
commenta Cardia – “l’Italia riscopre le proprie virtù di sempre; l’inclinazione
ad essere moderata, il rifiuto della violenza sistematica, l’ascolto delle ragioni
degli altri, la capacità di vincere senza dominare. E questo perché in Italia
non abbiamo avuto né una Vandea, né un movimento come l’Action
Francaise”. (…) “durante il Risorgimento è nato quel pluralismo cattolico che
è stato garanzia di un cammino senza guerre di religione”. (…) Silvio Pellico
nella sua opera parla poco di politica. Molto di più della forza della fede che
l’ha sostenuto durante la prigionia e così commuove l’Europa. Ciro Menotti,
nell’ultima lettera alla moglie, le dà appuntamento nei luoghi dell’eternità e le
raccomanda di aver fede in Dio. Tra i martiri di Belfiore ci sono anche alcuni
sacerdoti torturati e lo stesso itinerario dei Mille si potrebbe riscrivere
attraverso le visite di Garibaldi ai santuari e alle cattedrali, dove venne
ricevuto da molti vescovi”. In sostanza – è la tesi di Cardia – “i cattolici
parteciparono attivamente al Risorgimento e la Chiesa fu vicina all’Italia in
formazione perché – come ha scritto Benedetto XVI nel messaggio per i 150
anni dell’Unità d’Italia – l’unità nazionale garantita dai valori cristiani è ben
più antica dello Stato unitario”. (3)
Anche dopo il 1870 alcuni ponti – pur nel clima teso – non si interruppero mai.
Il cattolicesimo restò infatti “religione di Stato” – anche se in forma diversa –
fino alla riforma del Concordato del 1984. A conferma riportiamo quanto scrive
di recente Andrea Riccardi: “La Chiesa è a suo agio nell’Italia unita, anzi si
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Il Tempietto
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è ristrutturata nel conflitto con il potere politico. Giovanni Battista Montini è il
principale teorico della ricomposizione nazionale. Paolo VI scrive al
presidente Saragat che il centenario del 1870 “non ci trova né immemori né
indifferenti”. Il 20 settembre (festa nazionale finché il fascismo non l’abolì nel
clima della Conciliazione), il papa afferma che si deve saggiamente
distinguere le due sfere dell’ordine umano, temporale e civile da quella
spirituale e religiosa”. Quel giorno, secondo un programma concordato tra
Vaticano e Quirinale, il cardinal vicario Dell’Acqua celebra la Messa a Porta
Pia, cui assiste Saragat. Il cardinale guarda al 1870 “senza alcun senso di
rimpianto”. Sale al Campidoglio e, di fronte al capo dello Stato, ripete le
parole quarantottesche di Pio IX: “Dal colle Capitolino io dico: Gran Dio,
benedite l’Italia”. (4)
A distanza di tempo, ci si accorge che tutti concorsero al “capolavoro dell’800”:
Fede e Risorgimento": vincitori e vinti, silenziosi e indifferenti. Non si può
parlare di assenza dei cattolici. Nella memoria comune poi non va considerato,
nel mondo cattolico, solo l’apporto istituzionale della Chiesa con le sue diocesi,
parrocchie e movimenti organizzati, ma anche l’opera caritativa, civile e sociale
delle tante congregazioni religiose sorte durante 150 anni di vita unitaria. Nel
silenzio queste forme di vita religiosa fortemente impegnate nel sociale aiutarono
gli Italiani a sentirsi italiani uniti in un solo Stato.
La novità del volume?
“Leggere” l’Esperienza Italia a partire dal popolo, nel quale operano le nuove
congregazioni religiose ed evidenziare il loro apporto specifico nel “fare gli
Italiani”. Una finestra dunque sul mondo del dinamismo caritativo che opera
nel popolo contemporaneamente al processo statuale unitario. Un campo quasi
inesplorato dalla storiografia e scarsamente presente nelle celebrazioni ufficiali
dei 150 anni di Unità d’Italia. “La storiografia liberale risorgimentale – a
parere del prof. Tosti – ha più volte sottolineato il contributo del clero e dei
religiosi alle battaglie risorgimentali; ha, per esempio, riferito in modo
dettagliato dei religiosi che nel Meridione appoggiarono l’impresa di Garibaldi,
oppure di quei preti e frati che si misero alla testa delle insurrezioni contro il
vecchio regime. Senza sottovalutare l’adesione alle idee liberali manifestate
all’interno di alcuni ordini, in particolare Scolopi e Barnabiti, in realtà si tratta
di una posizione che intendeva esaltare il contributo dei singoli, la cui
posizione spesso era piuttosto la conseguenza del disordine dei tempi, per far
emergere e deprecare la posizione della gerarchia, schierata invece in modo
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Il Tempietto
compatto non contro l’Unità ma piuttosto contro la Rivoluzione, erede dello
spirito dell’Ottantanove”. (5)
L’apporto dei religiosi, recentemente, è stato evidenziato non solo da studiosi
delle varie congregazioni religiose.
La Rivista riserva particolare attenzione a don Bosco e ai Salesiani. Il
privilegiare Don Bosco è giustificato dall’appartenenza del “Centro Culturale”
all’Opera don Bosco di Sampierdarena.
Galli Della Loggia ammette che i cattolici italiani non hanno contrastato
l’unificazione ma rigetta l’ipotesi di un cattolicesimo che si sente protagonista
dello Stato unitario. Concede solo che i cattolici non hanno contribuito
all’unificazione del Paese, ma all’amalgama che avvenne dopo la breccia di
porta Pia. Non hanno fatto l’Italia ma hanno fatto gli Italiani: “Ufficialmente
la Chiesa era ostile, ma – aggiunge – il Pellico e Berchet, Manzoni e Rosmini
aiutarono a costruire l’identità civile e spirituale del Paese, erodendo le basi
della stessa opposizione cattolica. Gioberti introdusse il concetto del
rinnovamento: laddove i risorgimentali vedevano nel passato solo catastrofi e
vergogne, lui legò il presente e il futuro alla tradizione”.
D’accordo, ma l’illustre studioso sorvola sull’importanza dell’opera caritativa
sociale iniziata dai “santi sociali” di Torino (Cottolengo – Cafasso e don
Bosco). Non accenna a don Bosco che opera – con l’Oratorio salesiano – in
modo del tutto originale per le giovani generazioni in difficoltà, a partire dal
1841.
Sarebbe interessante rilevare anche la divisione all’interno degli ordini religiosi
tra anti-unitari come i Redentoristi e i Gesuiti (con qualche nobile eccezione
come Luigi Tapparelli d’Azeglio), e altri favorevoli all’unità: Oratoriani di San
Filippo Neri, i Teatini, gli Scolopi e, a livello più popolare, i Francescani.
Evidente il contrasto tra Scolopi e Gesuiti a Genova. Lo insegna la storica
Bianca Montale anche in un articolo del n. 11 di questa Rivista.
Da che parte stanno don Bosco e i Salesiani? A livello operativo sono per
l’Italia: hanno dato un contributo educativo che nei 150 anni ha raggiunto
moltissimi ragazzi e ragazze di tutte le regioni del Paese, offrendo loro una
formazione che prepara alla vita e ne fa “cittadini onesti e cristiani convinti”.
È un operare per l’italianità che risulta ancor più evidente tra i nostri emigranti
nelle due Americhe. Valga per tutte l’esperienza gloriosa della Parrocchia
nazionale italiana di San Francisco, California, ben documentata nel volume
del prof. Francesco Motto “Vita e azione della parrocchia nazionale salesiana
dei SS. Pietro e Paolo a San sancisco (1897-1930). Molto significativo il
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Il Tempietto
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sottotitolo: “Da colonia di paesani a comunità di Italiani”. (Las Roma,
2010). Un volume che allarga il cuore: i Salesiani lungo un trentennio animano
una comunità che si trasforma da “paesani spaesati” in comunità d’Italiani; da
gruppi che si relazionavano solo con chi usa lo stesso dialetto a little Italy,
orgogliosa della propria italianità, sicura delle proprie capacità e genialità. In
breve da paesani – disprezzati, salvo poche eccezioni – a comunità italiana, da
comunità italiana a comunità italo- americana. Attraverso la formazione
cristiana i Salesiani si fecero immigrati tra gli immigrati per conoscerne i
problemi e cercare insieme una qualche risposta: problemi di lavoro, di
conoscenza dell’inglese e voglia di superare lo stato d’inferiorità rispetto alle
altre etnie. Sorsero allora corsi di inglese e corsi di italiano per non dimenticare
(o imparare) la lingua patria. La parrocchia casa degli Italiani coinvolge
tutti… attirandosi la simpatia, nonostante le prime difficoltà, anche dei non
credenti, massoni, garibaldini, anticlericali. Le onde della sofferenza della
Chiesa in Italia lambivano anche gli Italiani sparsi nell’intera città di S.
Francisco. Comparivano le stesse divisioni della madre patria: lo scontro tra
Chiesa e Stato e, nell’ultimo decennio, tra fascismo e antifascismo. I Salesiani
difendevano la Chiesa in tutti i modi e celebravano tutte le ricorrenze patrie, ma
vogavano lontano dai partiti. Sulle orme del fondatore don Bosco la loro opera
educativa e pastorale tendeva a “fare buoni cristiani e onesti cittadini”. In breve,
condividevano con gli emigrati attese e speranze e riscoprivano quell’identità che
nasce dalla comune fede cattolica e dalla millenaria civiltà italiana.
Adesione sincera dei cattolici alle celebrazioni dell’Unità d’Italia
È stato scritto recentemente: “Mentre il mondo politico italiano si spaccava
negli scorsi mesi sull’opportunità e i modi con cui celebrare i 150 anni
dell’Unità nazionale, dando vita a un variegato (e spesso desolante) panorama
di posizioni nei confronti dell’epopea nazionale che ha spaziato dagli scettici
agli entusiasti, dai “tiepidi” e cauti estimatori del Risorgimento ai suoi più
feroci detrattori, la Chiesa cattolica ha palesato fin da subito un
atteggiamento di totale supporto alle celebrazioni e alla causa
dell’Unità italiana. Ha partecipato, ha offerto benedizioni e si è recata in
pellegrinaggio nei luoghi simbolo della religione civile della nazione, nei
momenti e negli spazi nati per celebrare la storia e l’unità d’Italia. Lo ha fatto
per ribadire l’importanza dell’identità cattolica in uno scenario politico e civile
sempre più sgretolato e in cui singole identità antagoniste si contrappongono
le une alle altre. Il cattolicesimo proposto dunque come fondamentale
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Il Tempietto
(ultimo?) elemento unificante della nazione da Bolzano a Siracusa, dai
“movimenti” ai margini della sinistra alle frange più conservatrici della destra.
Un cattolicesimo che stempera gli aspetti dottrinari in un più o meno
evanescente sentimento nazionale rispetto al quale la Chiesa cattolica
continuerebbe a svolgere il ruolo di guida morale, di portatrice di valori
condivisi e di un modello etico avvertito da una parte dell’opinione pubblica
sempre più come necessario”. (5)
Nel nostro studio tutto questo ha trovato conferma. E nella celebrazione del
150° i cattolici sono apparsi strenui difensori dell’unità del Paese, unità
conquistata con il sacrificio di tanti e con le sofferenze dei credenti. E siamo
convinti, seguendo Sant’Agostino, che l’educazione cristiana costruendo “buoni
cristiani” costruisce anche “buoni cittadini” e la ragione e la morale naturale
non riescono, senza il cristianesimo, a costruire la città terrena.
Le tre sezioni della Rivista
La prima è dedicata a Genova le cui dinamiche sociali e culturali hanno una
valenza nazionale e pongono interrogativi che riguardano il futuro delle città
d’antica industrializzazione. Nello sfondo degli ultimi vent’anni della storia di
Genova si innestano tre interventi: l’intervista al Presidente della provincia
Alessandro Repetto che, alla fine del suo secondo mandato, riflette sulle
trasformazioni della nostra città; l’intervista a Luca Borzani, Presidente della
Fondazione Palazzo Ducale, che ricostruisce la storia di questa importante
istituzione culturale e dà indicazioni sul futuro; l’intervento di Renato Carpi,
attento osservatore e protagonista delle vicende culturali della nostra città.
Il contributo di Benito Poggio e Luigi Garbato si concentrano invece sull’attività
culturale più che trentennale a Sampierdarena del Centro Culturale “Il
Tempietto” del don Bosco… un modo di documentare la vivacità culturale ed
educativa dei Salesiani, presenti nella nostra città da 140 anni. Il tema su Don
Bosco e Genova viene trattato nella seconda sezione.
Conclude questa sezione l’interveto di Luca Beltrami con “l’amor patrio di
Dante negli scritti letterari del Mazzini”.
La seconda è dedicata al ruolo svolto dagli ordini religiosi e dalle congregazioni
religiose nel “fare gli Italiani”. Si evidenzia in particolare l’apporto di don Bosco
e i Salesiani nei 150 anni di unità del Bel Paese, nel mondo dell’ emigrazione e
in Genova. Un cenno a don Orione e alla presenza degli Scolopi in Liguria nel
Risorgimento. Avremmo voluto ascoltare tante altre voci…
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Il Tempietto
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La terza, l’appendice, raccoglie la nostra tavola rotonda al Ducale del 10
marzo del 2011, il discorso del Presidente della Repubblica in Campidoglio, il
saluto di Benedetto XVI al nostro Presidente della Repebblica e l’omelia del
cardinale Bagnasco.
Una riflessione conclusiva
Proprio in quest’anniversario due minacce incombono sul Bel Paese. L’Italia,
opera di giovani provenienti da tutte le regioni e sorretta dalla sua forte
religiosità, non può essere menomata da ideologie secessioniste mosse solo
dall’interesse particolare. La voce secessione da fine anni ‘80 carsicamene
riemerge in quel Nord che tanto fece, nell’800, per unire il paese. Bergamo,
come tutti sanno, è la città che ha dato il maggior numero di Garibaldini nel
1860. Allora era l’amor patrio a prevalere, oggi “il particolare utile”, che in
questo inizio di dicembre si modula nel grido forsennato: “Indipendenza”.
Con la Costituzione rispondiamo l’Italia è “una e indivisibile"”!
L’attuale crisi globale, infine, non generata da noi ma subita da noi, mette a
dura prova il Paese: nel chiudersi del 150° dell’unità, l’Italia rischia il più
clamoroso fallimento “economico e politico” che si potesse immaginare.
A martellanti scadenze la minaccia si fa sempre più insistente da metà 2011.
Ci sarà una via d’uscita? Pensiamo a quella seguita dai nostri padri nel 1945,
nel secondo dopo la guerra. Il bene della collettività vide alleate forze politiche
lontanissime tra loro… e l’Italia risorse e fu tra i paesi fondatori dell’Unione
Europea. L’attuale crisi potrebbe portare al collasso l’Italia e insieme anche
l’Unione! Potremo attenderci un colpo di reni dei nostri concittadini e
“rinascere” o “risorgere”? La via del “governo d’impegno nazionale” del prof.
Monti è sulla buona strada…
Alberto Rinaldini
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Il Tempietto
Note
1. Carlo Cardia, Risorgimento e Religione,
G. Giappichelli Editore, 2011, prima
pagina dell’Introduzione, pag. V.
2. ivi pag. V.
3. Avvenire 25/X/ 2011.
4. Andrea Riccardi, I Cattoici e il trauma
dell’Unità, Avvenire, Agorà Idee,
30 ottobre 2011
5. Intervista al prof. MarioTosti del
Dipartimento di Scienze umane e della
Formazione della Università di Perugina,
nella giornata di studio presso il
Convento San Francesco di Firenze
“I Francescani e l’unità d’Italia”.
6. Articolo in Zenit della seconda metà di
ottobre.
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Salvatore Vento
sociologo e pubblicista
Genova è destinata ad essere
relegata a zona residenziale
Secondo il PUC (Piano urbanistico comunale)
che è la nuova denominazione del Piano Regolatore,
il futuro dello sviluppo economico di Genova è
centrato su tre grandi direttrici: l’economia del mare
e del porto, l’economia dell’alta tecnologia
industriale, l’economia della cultura e del turismo.
Ciò presuppone un cambiamento di mentalità che
dovrà sempre di più poggiare sulla capacità di
attrarre risorse esterne, ogni risultato va conquistato
sul campo perché tutte le grandi metropoli si
pongono obiettivi analoghi.
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Il Tempietto
Genova
nell’ultimo
ventennio
Salvatore Vento
Premessa
Il discorso sulle città è ritornato ad
avere una sua centralità economica,
culturale e politica. A partire dal 1993,
l’elezione diretta del sindaco ha dato
nuovo slancio nella formazione
dell’immagine del primo cittadino. I
discorsi degli urbanisti, dopo le tante
teorie sulla fine della città, hanno
raggiunto alcuni livelli di condivisione:
severa critica agli eccessi di
urbanizzazione che provocano disservizi
e caos nella mobilità, centralità della
qualità della vita, spazi pubblici vissuti
e nei quali costruire relazioni e
contribuire alla formazione di elementi
di comunità, estensione del verde
urbano, valorizzazione del contesto
storico ambientale (dalla produzione
alla cultura). In poche parole
l’urbanistica sostenibile. Non mancano,
come sempre accade, evidenti
contraddizioni. Da una parte ha avuto
molto successo il concetto di Marc
Augé sui “non luoghi” identificati nei
grandi centri commerciali o negli
aeroporti frequentati da una folla
anonima e di passaggio; dall’altra,
l’inserimento all’interno di questi non
luoghi di elementi che favoriscono la
socialità (parchi giochi per bambini,
relax per gli anziani nell’inverno per
riscaldarsi, in estate per rinfrescarsi,
cinema, teatri) e addirittura la
costruzione di vere e proprie città
15
intorno ai grandi e moderni aeroporti
(aerotropoli) come a Heathrow. Se prima
le città crescevano lungo i fiumi, oggi
cresceranno lungo gli aeroporti! Vedi
Alain De Botton (Una settimana
all’aeroporto, Guanda Edizioni). Le
città, dice Renzo Piano, devono
implodere e crescere in altezza e non
esplodere ed espandersi a dismisura; il
suo nuovo grattacielo londinese sarà di
310 metri con 87 piani (non soli uffici,
ma abitazioni, teatro, ristoranti). Vi
lavorano già 1200 operai e dovrà essere
il simbolo delle Olimpiade del 2012. Il
dato interessante è che ci saranno
soltanto 42 posti auto perche è
facilmente raggiungibile da diversi
mezzi di trasporto pubblico
(metropolitana, autobus). Il passaggio
delle “città d’antica industrializzazione”
a “città post-industriale” è stato
generalmente contrassegnato dallo
sviluppo di attività definibili di
“terziario avanzato” con una rilevante
centralità delle più svariate espressioni
culturali (cinema, musei, teatri, pittura,
scultura, video installazioni, musica,
spettacoli). La città di NewcastleGateshead sul fiume Tyne nel nord est
dell’Inghilterra, da antico polo
cantieristico e del carbone, si è
trasformata in città d’arte e di musica
frequentata dai giovani. Negli Usa,
Detroit, la città dell’auto per eccellenza,
è passata dai 2 milioni di abitanti negli
anni ‘50 agli 800mila attuali: quasi il
28% di case vuote, ora il sindaco si
propone di abbattere molte di queste
case e raggruppare la popolazione in un
contesto più umano con la presenza di
giardini e di verde.
Jean Nouvel (l’architetto francese che
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Il Tempietto
ha progettato il nuovo padiglione B
della Fiera genovese) nel progetto per il
riuso dell’area Renault dell’Ile Seguin,
chiusa nel 1992 prevede di ospitare
gallerie d’arte, auditorium, residenze
temporanee per artisti.
Il contesto storico del mutamento - A
partire dalla seconda metà degli anni
‘80 si verifica un processo di radicale
mutamento degli assetti produttivi
(concentrazioni, fusioni, acquisizioni
internazionali) e della composizione
sociale. In particolare tale processo
colpisce proprio quei settori economici
– impiantistica, siderurgia,
elettromeccanica, cantieristica,
portualità – che avevano caratterizzato
l’immagine di Genova, città del
triangolo industriale. Ognuna di queste
aree industriali condizionava non solo
la vita del quartiere di appartenenza,
ma dell’intera città. La “classe operaia”
non era un’invenzione ideologica, ma
affondava le sue radici nella realtà
sociale e ne plasmava lo sviluppo
politico e culturale. Erano le aziende a
partecipazione statale, producevano
beni industriali (e non beni di
consumo), occupavano l’80% degli
addetti nell’industria e il 54% lavorava
in imprese con oltre 500 dipendenti
(1960). Un livello di concentrazione
superiore a tutte le altre province
italiane. In tutta la regione gli addetti
dell’IRI occupavano il 25% del totale
nazionale che aumentava ulteriormente
nel comparto siderurgico (26%) e
nell’industria meccanica e cantieristica
(36%). In questo tipo di industrie non
c’era la catena di montaggio taylorfordistica con una massa di “operai
comuni”, come nel classico esempio
della Fiat di Torino, ma operai
(qualificati e specializzati) che si
formavano come apprendisti nella
scuola aziendale e poi continuavano a
lavorare nella stessa fabbrica fino
all’età della pensione. Non era neanche
diffusa l’impresa privata d’origine
familiare dove ad un certo punto del
ciclo di vita dell’azienda si pone il
problema della presenza di un manager
in grado di sostituire l’imprenditorefondatore. Genova, all’interno del
“triangolo industriale”, si presentava
come portatrice di questa precisa
identità. Tale componente del lavoro
industriale aveva le basi in due aziende
particolari: Ansaldo e San Giorgio,
localizzate nel tessuto urbano cittadino
e le loro continue trasformazioni
segnavano i tempi e la cultura della
città stessa. In un’area territoriale
piuttosto ristretta – il ponente genovese,
da Sampierdarena a Cornigliano/Campi
e Sestri ponente – si addensava il cuore
della tradizione industriale (Ansaldo
meccanico, Italsider, Cantiere navale,
Asgen, San Giorgio); in centro una
grande azienda impiantistica,
Italimpianti. L’unica azienda privata di
grandi dimensioni era la Marconi di
Sestri ponente (oltre 2.000 dip.), che
poi, in pieno clima di privatizzazione,
nell’estate del 2002, una parte di essa
(l’elettronica per la difesa della Marconi
Mobile con circa 800 dip.), sarà,
paradossalmente, acquisita proprio da
Finmeccanica.
Come si può constatare si trattava di
una realtà socio culturale forte che nel
decennio successivo, quello degli anni
‘70, sarà determinante nel
raggiungimento di importanti conquiste
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Il Tempietto
a livello nazionale: l’inquadramento
unico operai-impiegati, le “150 ore” di
diritto allo studio, le riforme sociali in
diversi settori (sanità, scuola, casa). E
soprattutto sarà capace di darsi una
rappresentanza sindacale unitaria (la
Flm tra i metalmeccanici e la
Federazione Cgil Cisl Uil). Negli anni
‘80, come affermato all’inizio, comincia
il declino, Genova subisce duri colpi,
ma il simbolo più eloquente è quello
della notte del capodanno 1982
rappresentato dalla visione del porto
deserto quando le navi ormeggiate
sembrano un ricordo del passato, non
emanano nessuna luce, non si leva
nessuna sirena. Una notte di San
Silvestro all’insegna del silenzio.
L’annuncio di pesanti ristrutturazioni,
proprio nei suoi storici punti di forza,
provoca smarrimento; progressivamente
vengono a mancare i riferimenti
tradizionali e all’orizzonte non
emergono alternative in grado di
compensare le perdite. Si diffonde la
conflittualità e, ancora una volta,
scendono ripetutamente in piazza i
lavoratori delle grandi fabbriche. In
genere i lunghi cortei sindacali partono
dal cantiere navale di Sestri Ponente,
arrivano in piazza Montano a
Sampierdarena dove si congiungono con
gli operai dell’Ansaldo, proseguono per
via Cantore e si concludono in piazza
De Ferrari col comizio dei
rappresentanti sindacali. Per le
caratteristiche dell’industria genovese
l’impatto con le politiche governative è
immediato. Si teme la scomparsa
dell’Italcantieri, la fine del ciclo
integrale dell’Italsider con la chiusura
della parte a caldo, il
17
ridimensionamento dell’Ansaldo. Il 29
settembre 1983 lo sciopero generale,
proclamato col motto “Perché Genova
viva”, ottiene l’adesione di tutte le forze
sociali ed economiche cittadine; si
tratta dell’ultima grande manifestazione
della storia sociale genovese, destinata
a segnare un’epoca. Le trattative in
corso tra governo e parti sociali vengono
sovraccaricate di significati politici e
ideologici; i problemi dell’industria
genovese si intrecciano con quelli delle
discussioni nazionali sulle scelte di
politica economica. Il 1983 è l’anno dei
convegni sul futuro di Genova e della
Liguria. Vi partecipano ministri del
governo e manager dell’industria; il
primo, alla fine di febbraio, viene
effettuato dal Psi alla Fiera del Mare:
sia il Presidente della Regione (Rinaldo
Magnani), che il sindaco di Genova
(Fulvio Cerofolini) e il Presidente del
Consorzio del porto (Giuseppe Dagnino)
appartengono al Psi. Il ministro delle
Partecipazioni statali Gianni De
Michelis, anch’egli socialista, prevede
un futuro con meno industria e afferma
che qui, più che altrove, si governa il
cambiamento della società diventata
“post industriale”, un termine
quest’ultimo che nessuno vuol sentire
pronunciare. Conclude il convegno il
segretario nazionale Bettino Craxi che
fra alcuni mesi diventerà Presidente del
Consiglio. In questo contesto
s’inquadrano le decisioni dell’Iri di
apportare radicali tagli ai settori storici
(in particolare la siderurgia) e di
sviluppare l’elettronica. Decisioni che,
per la prima volta, vengono esposte dal
suo Presidente, Romano Prodi, al
convegno del Pci del mese di novembre
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18
Il Tempietto
(Genova: frontiera tra recessione e
sviluppo) svoltosi sempre
all’Auditorium della Fiera del mare. Il
21 gennaio 1984 con una lettera aperta,
apparsa sulla stampa locale, il
presidente dell’IRI rilancia l’appello ai
genovesi:
siderurgia e nel porto, settori questi
dove si concentra oltre il 65% dei
prepensionamenti; tra l’‘81 e l’‘86 in
Liguria ne abbiamo circa 11mila.
Tommaso Giglio, direttore de “Il Secolo
XIX”, dà voce alle diffuse frustrazioni
presenti in città:
“L’IRI non può essere il solo
interlocutore per Genova. La nostra
chiara e pronta disponibilità non
deve distogliere le forze politiche e
sociali locali dal ricercare altri
interlocutori per la risoluzione dei
problemi di Genova”.
“Si vive ancora adagiati sui vecchi
schemi, quando tutto andava bene e
bastava chiedere a Roma per
ottenere. Adesso i legami con il
centro politico del Paese sono molto
più labili, non basta più la
delegazione che si reca a Roma a
chiedere, non è più sufficiente la
politica della protesta. Bisogna
avere la capacità di utilizzare le
grandi doti di specializzazione che
hanno gli operai, i tecnici, gli
intellettuali di questa regione. È
tenendo conto di questa capacità
che Genova è stata scelta come sede
della futura fabbrica automatica.
Abbiamo una tradizione culturale,
tecnica, commerciale, che solo
l’inerzia e una mentalità non
adeguata ai tempi può rendere
sterile. Non possiamo permetterci di
sperperare un patrimonio di questo
genere”. (7/10/84)
In ogni incontro sui temi del futuro
dell’industria emergono accese
discussioni tra chi si schiera
decisamente a favore della nuova era
dell’elettronica e chi sostiene la
necessità di mantenere il nucleo
industriale manifatturiero; i riflessi di
tali ragionamenti, non privi di
contraddizioni e di un certo
manicheismo, significano per Genova
intravvedere un futuro di città del
“terziario avanzato” contrapposto a
quello di città dell’industria matura,
ormai in irreversibile declino. Nei primi
anni ‘80 la proposta di chiudere la parte
più inquinante dell’Italsider (quella a
caldo) viene giudicata un “attacco alla
classe operaia”, mentre nel decennio
successivo saranno gli stessi cittadini di
Cornigliano a volerne la chiusura per
risanare l’ambiente del territorio.
Nonostante le lotte e le mobilitazioni
cittadine i processi di ristrutturazione,
come negli anni ‘50, proseguono il loro
percorso grazie all’uso massiccio degli
ammortizzatori sociali, soprattutto in
Anche all’interno dello schieramento
pro-elettronica vi sono diverse idee sulla
fabbrica automatica. Nel novembre
1983, l’Iri, per attuare una maggior
sinergia nel comparto elettronico, avvia
la costituzione, nell’ambito della Stet,
del “Raggruppamento Selenia Elsag”
(composto anche da Ansaldo Elettronica
Industriale). Un’aggregazione
complessiva di 13mila dipendenti e 18
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Il Tempietto
insediamenti industriali distribuiti in
sette regioni italiane. Responsabile della
gestione operativa è Luigi Stringa,
Amministratore delegato di Selenia
(società capofila) e di Elsag. Ad esso
viene affidata la missione
dell’automazione di fabbrica con la
l’assegnazione ad Elsag della leadership
del settore. Sul versante della
riorganizzazione interna, nel 1984, viene
costituita Esacontrol con la missione di
supervisione e controllo dei processi
industriali continui e in cui
confluiscono, da Ansaldo, la
“Elettronica Industriale” ed il
“Biomedicale” e da Elsag la “Divisione
Sistemi di Regolazione” che portava in
dote la licenza Bailey Controls.
Responsabile di Esacontrol è nominato
Alberto Lina e per il Biomedicale Carlo
Castellano; in seguito verrà scorporata la
Divisione biomedicale che fusa con Ote
Biomedica di Firenze costituirà la nuova
società Esaote Biomedica che ha la
missione di produrre e commercializzare
apparecchiature per la diagnostica per
immagini e la terapia strumentale
medica. Nel 1988 Elsag dalla Stet passa
definitivamente nel gruppo
Finmeccanica e l’anno successivo, con
l’acquisizione della statunitense Bailey
Controls Company (leader mondiale nel
settore dell’automazione dei processi
industriali continui), sarà protagonista
del più grande processo di penetrazione
internazionale mai tentato da un’azienda
italiana.
Dal 1980 al 1985 l’industria perde il
25,4% degli addetti. Dal punto di vista
quantitativo la maggioranza dei
lavoratori (133mila unità) in provincia
di Genova è impiegata in piccole unità
19
produttive con scarsa tutela sindacale,
ma il peso politico della grande
fabbrica (84mila unità) ha sempre
condizionato l’azione del sindacato, dei
partiti politici e delle istituzioni. Dal
punto di vista socio culturale le
caratteristiche della generazione dei
lavoratori genovesi del dopoguerra
possono essere così riassunte:
provenienza famigliare operaia, si
entrava in fabbrica a 14/16 anni e si
usciva all’età della pensione, alto livello
di professionalità, orgoglio del proprio
saper fare, forte identità collettiva, ruolo
autorevole e politicamente significativo
dell’organizzazione sindacale (iscrizioni
ai sindacati intorno al 60%-80%),
stabile orientamento politico (nei
quartieri popolari del Ponente e della
Valpolcevera il PCI, in tutti gli anni ‘70,
otteneva la maggioranza assoluta dei
voti (gli iscritti aderenti alla
Federazione genovese erano circa
40.000), rapporto continuo con il
governo e le politiche industriali,
immediato impatto con la politica;
dimensione-mondo si costruivano
prodotti e impianti industriali venduti
in tutto il mondo (turbine, centrali
elettriche, acciaierie, macchine utensili,
navi, locomotori ferroviari, sistemi di
automazione). La presenza del mare,
storicamente, è stato il luogo
privilegiato di localizzazione industriale
(cantieristica, portualità, siderurgia,
marineria). Ciò non significa che i
lavoratori costituissero una classe
sociale omogenea: le differenze erano
tante (in primo luogo tra operai
dell’industria e portuali) e poi
all’interno della stessa industria tra
operai e tecnici, tra uomini e donne, ma
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20
Il Tempietto
esisteva un quadro valoriale di
riferimento, un contesto che favoriva il
raggiungimento di livelli di mediazione
superiori. Per i metalmeccanici, la
nascita della FLM rappresentò la punta
più dinamica di questo processo. Il dato
paradossale è che proprio Genova,
apparentemente chiusa nelle sue
rigidità ideologiche, sperimenta
processi di privatizzazione da far
invidia a qualsiasi città liberista. Ma
non subito, occorrono anni. Infatti fino a
metà degli anni ‘80 le lotte sono
caratterizzate dalla difesa dell’esistente,
compresa l’area a caldo della
siderurgia. Nel 1972 al momento della
costituzione della FLM gli iscritti ai tre
sindacati dei metalmeccanici sono così
distribuiti
FIOM CGIL:
17.264 pari al 53%
FIM CISL:
11.193 pari al 36%
UILM UIL:
3.324 pari al
11%
Totale iscritti FLM 31.781
Tutti i processi d’innovazione
tecnologica e organizzativa si
sviluppano all’interno del tessuto
produttivo delle partecipazioni statali.
Da Ansaldo, San Giorgio, Italsider sono
nate: elettronica e automazione
industriale (il primo nucleo biomedicale
nasce come Divisione Ansaldo), ICT
(information and communication
technology), impiantistica. Ma la
mondializzazione dell’economia non da
tregua: a fine anni ‘80 nel comparto
elettromeccanico nel quale opera
Ansaldo, il mercato del turbogas è
dominato da tre competitori (General
Electric, Siemens, Alsthom) che si
spartiscono circa il 90% degli ordini
mondiali.
Gli anni ‘90 Nel 1992, secondo una
ricerca sui giovani lavoratori di 18-29
anni di tutti i settori, effettuata da Maria
Teresa Torti e commissionata dalla Cisl,
essi risultavano molto attaccati alla
stabilità del posto di lavoro e al luogo di
residenza. Il 64% degli intervistati pur
essendo iscritti ai sindacati davano più
importanza alla capacità individuale di
contrattare la propria condizione che
non all’azione collettiva perché convinti
che la retribuzione doveva essere
correlata con la professionalità
posseduta e il rendimento. In questo
modo appariva tramontata l’epoca
dell’egualitarismo degli anni ‘70
(ricordo la battaglia sindacale per
l’inquadramento unico e per
l’unificazione del punto di contingenza
nel 1975). Non sorprende l’affermazione
del merito e della professionalità che,
come abbiamo visto, è stata la
caratteristica prevalente dell’operaio
professionalizzato genovese. La
differenza, di vera rottura col passato,
consiste invece nella diffidenza o
sfiducia dell’azione collettiva.
L’iscrizione al sindacato diventa sempre
più una scelta strumentale e sempre
meno una scelta valoriale. Un
atteggiamento che va di pari passo con
l’orientamento strumentale del lavoro
(come opportunità di reddito e di
sopravvivenza, per vivere si deve pur
lavorare). Comunque, il 59% del
campione è abbastanza soddisfatto
(l’8% molto soddisfatto) e il 27%
insoddisfatto. Una situazione di
disincanto assoluto. Il contesto
genovese del periodo era contrassegnato
da un diffuso pessimismo dovuto alle
ristrutturazione dell’apparato
produttivo, al senso di smarrimento
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Il Tempietto
della generazione dei padri, quella dei
cinquantenni protagonisti della storia
sociale genovese. Il giudizio sulla
politica per il 55% era fortemente
negativo. La generazione dei giovani
degli anni ‘90 è la prima a vivere e
lavorare in una città dove sono crollate
le rendite di posizione del passato, ha
ereditato modelli culturali basati sul
posto fisso quale principale componente
di formazione identitaria.
A metà degli anni ‘90 (1994-96) si
porta a compimento l’annunciata
privatizzazione delle acciaierie di
Cornigliano con l’ingresso del gruppo
Riva, la privatizzazione di
Esaotebiomedica (proveniente dal
nucleo di elettronica industriale di
Ansaldo) tramite un originale processo
di management by out diretto da Carlo
Castellano (i manager che acquistano la
maggioranza dell’azienda) e lo
smembramento di Italimpianti in tre
unità. Italimpianti si era distinta per la
costruzione di impianti industriali (in
particolare impianti siderurgici) in tutto
il mondo e per un sistema di relazioni
industriali moderno. Gli anni ‘90 si
concludono con l’ennesima
ristrutturazione delle aziende
Finmeccanica: chiusura sede
direzionale Ansaldo di Piazza
Carignano, vendita di Elsag Bailey e di
altre aziende del gruppo Ansaldo. Sul
versante portuale abbiamo la legge
84/1994 di liberalizzazioni delle attività
portuali, ma già il Piano strategico del
CAP del 1990 aveva avviato il processo
di privatizzazione delle banchine del
porto (i terminalisti). Nello stesso anno
diventa operativo il Nuovo Terminal di
Voltri che successivamente (nel 1998)
21
vedrà l’ingresso di PSA di Singapore.
La multinazionale americana Carnival
acquista il celebre marchio genovese
Costa Crociere e la tedesca Siemens
acquista una delle poche aziende
private, la Orsi automation. Si chiude
così il ventesimo secolo e con esso
l’egemonica presenza delle
partecipazioni statali.
Gli anni 2000 – Negli anni 2000 la
frantumazione del lavoro diventa un
dato strutturale della nuova realtà socio
economica: tanti lavori e tanta
flessibilità che diventa precarietà.
L’altro aspetto, destinato a modificare la
dinamica sociale del futuro, è la
competizione più agguerrita tra i
giovani con partita Iva, e tra i
professional per conquistare i lavori più
gratificanti; devono inventarsi il lavoro,
devono competere per riuscire ad
imporsi. Ma non è una competizione
basata sull’eguaglianza delle
opportunità: la famiglia di provenienza
e il contesto delle relazioni sociali
continua ad avere un peso enorme, anzi
un peso ancora maggiore che nel
passato. Scompare quel processo di
mobilità sociale degli anni ‘70. Chi ha
più risorse cerca altrove: molti studenti
dopo il triennio lasciano Genova per
proseguire la specializzazione in altre
città dove ritengono di trovare maggiori
sbocchi occupazionali.
Ma chi lavora a Genova? Su 100
residenti, lavora una minoranza del
33,5% (nelle città del Nord Ovest è di
circa il 45%).
Il nuovo millennio a Genova si apre,
secondo i dati del censimento del 2001,
con 223.287 persone occupate, di cui
gli operai sono ridotti al 27% e
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22
Il Tempietto
l’industria occupa 34.092 addetti pari al
15%. Il livello di scolarità della gente
che lavora è piuttosto elevato: 19% di
laureati e il 46% di diplomati. Gli
impiegati pubblici sono quasi 75mila
(pari al 34% del totale). Ciò dovrebbe
significare che i servizi pubblici
funzionino alla perfezione e che in
media ogni 25 famiglie c’è a
disposizione un impiegato pubblico.
Oggi, in provincia di Genova, il valore
aggiunto dell’industria in senso stretto si
aggira intorno all’11/12% a fronte
dell’83% dei servizi/ terziario.
Il dibattito politico culturale è stato
dominato dall’attenzione verso il
mutamento degli assetti produttivi e
urbanistici, molto meno verso le
persone, le loro ansie, le loro attese:
un’intera generazione di lavoratori, dopo
l’uscita dalla grande fabbrica è rimasta
distante dalla politica, salvo poche
eccezioni. Nella stragrande maggioranza
(soprattutto in siderurgia e nel porto)
l’uscita è avvenuta tramite il più grande
ammortizzatore sociale di tutti i tempi: il
prepensionamento.
Gli immigrati – A fine 2010 risiedono a
Genova 50.415 stranieri (23.484 maschi
e 26.931 femmine) pari all’8,3% dei
residenti. La comunità più numerosa è
quella ecuadoriana (16.753 unità),
seguita dagli albanesi (5.387, dai
marocchini (3.807), dai rumeni (3.743),
dai peruviani (2.772), dai cinesi (1.637),
dagli ucraini (1.450), dai senegalesi
(1.258), dai cingalesi (1.088). La
distribuzione per zone di residenza,
vede la maggior concentrazione nel
Centro storico (marocchini), a
Sampierdarena (ecuadoriani), a
Cornigliano, a Rivarolo e Bolzaneto
(albanesi) e in Bassa val Bisagno. Gli
immigrati ecuadoriani superano i
marocchini e i senegalesi partire dal
1999-2000. Il principale fattore
d’attrazione dell’immigrazione femminile
è costituto dalla forte domanda di
assistenza domestica e di cura da parte
delle famiglie e soprattutto degli anziani
non autosufficienti. Ormai la
popolazione anziana (65 anni e oltre)
supera il 25% dei residenti e di questi
vivono da soli oltre 51mila persone, in
grande maggioranza donne (76%). Si
tratta di un welfare privato che supplisce
alle carenze dell’intervento pubblico. Il
42,5% delle famiglie è composta da una
sola persona. Senza la presenza dei
circa 13mila badanti i nostri anziani
sarebbero ancora più soli.
Il matrimonio – Negli ultimi anni sono
cambiati anche i comportamenti rispetto
al matrimonio e alla natalità: tra coloro
che decidono di sposarsi, il 59% lo fa
con rito civile (di cui il 48% tra
divorziati) e il 41% con rito religioso. I
matrimoni tra stranieri o misti oscillano
tra il 16 e il 25%. Aumentano anche le
coppie di fatto, come dimostrano i dati
del progressivo aumento dei bambini
nati fuori dal vincolo matrimoniale:
negli ultimi due anni sono stati,
rispettivamente, del 31% e del 26%. In
tutte le inchieste tra i giovani, la
positiva considerazione della famiglia ha
il tasso più elevato, cambia invece il
modo di concepirla, non più vincolato
dall’ufficialità del matrimonio.
Indicatori demografici
Media annua nati
1991-2000: 4.351nati
1999-2008: 4.543 nati
2009-2010: 4.752 nati
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Il Tempietto
In Italia il tasso di natalità è di 9 nati
per 1000 residenti; negli anni ‘50 era il
doppio (18 /1000) e ha raggiunto il
massimo negli anni tra il 1963-66 col
19-20/1000. A Genova siamo al 7,8 per
1000.
Nati da almeno un genitore straniero.
2000:
12,0%
2004:
20,0%
2008:
23,7%
2009/2010:
25,7%
Le famiglie composte da sole donne
sono il 58,3% delle famiglie uni
personali pari a 74.600. Le abitazioni
occupate sono 280.095, di cui 98.372
occupate da una sola persona (35,1%).
Media annua
matrimoni
Media annua
divorzi
1971-80:
1981-90:
1991-2000:
2001-2008:
529
707
776
4.380
3.075
2.551
2.011
Matrimoni civili
nel 2000: il 42,3% del totale
nel 2008: il 61,8% del totale
Circa il 40% dei matrimoni civili
avviene tra divorziati
Persone di 65 anni e oltre
1981: 17,9%
1991: 21,2%
2001: 25,6%
La popolazione nel 2001 superava i
610mila abitanti, nel 2010 scende a
608mila, nonostante gli immigrati siano
aumentati di oltre 33mila unità.
La dimensione culturale – In tutte le
metropoli del mondo risultano vincenti
le città che sanno meglio utilizzare le
proprie peculiarità storico culturali. La
ristrutturazione del Porto antico avviata
nel 1992, grazie ai finanziamenti delle
Colombiane, costituisce a tale riguardo
23
un esempio da manuale. Così come il
2004, anno di Genova capitale europea
della cultura, ha rappresentato il
momento più alto di riappropriazione da
parte dei cittadini del valore storico
culturale della città; rinasce l’orgoglio
di una storia da riscoprire e da mostrare
a parenti e amici. L’hanno dimostrato
gli oltre mille progetti presentati e
l’esplicita e positiva scelta di non
limitarsi all’organizzazione di eventi,
ma anche al rinnovamento dei beni
culturali esistenti, che oggi persistono.
Grazie a questo evento, la presenza dei
turisti è visibile in città. L’azione
successiva di Palazzo Ducale ha
ulteriormente qualificato l’offerta
culturale e possiamo dire che la
cultura, come illustrato dagli interventi
di Borzani e di Carpi in questa sezione,
sta diventando una componente
significativa dello sviluppo della città.
Proprio perché rilevante, occorre
individuare anche i nodi problematici:
nella programmazione delle attività
bisogna tener conto dell’intera città e
non solo del centro, così come avevano
pensato gli amministratori del passato
(epoca di Attilio Sartori assessore alla
cultura del comune di Genova), che
avevano costituito l’Ente del
decentramento culturale; le diverse
zone della città devono poter contare di
servizi di trasporto pubblico adeguati
(la metropolitana chiude alle 21.00!)
altrimenti risulta difficile lo scambio di
iniziative; occorre stimolare la
produzione culturale autonoma; la
discussione pubblica intorno ai temi
fondanti lo sviluppo della città è un
fatto di grande rilevanza culturale e non
può essere relegato a questione locale
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24
Il Tempietto
da discutere soltanto in consiglio
comunale o nei consigli municipali.
L’assenza della ricerca sociale, e delle
analisi sulle trasformazioni produttive e
socio economiche della città, dal
dibattito culturale, indica un limite
culturale di fondo, quasi come se ci si
dovesse pentire del troppo peso
accordato a questi argomenti negli anni
‘70-’80! Allo stesso tempo, e con
maggiore impegno, occorre saper
collocare la dimensione locale nel
contesto del Nord Ovest e
internazionale, così come insegnano i
progetti europei finanziati dall’UE. Per
esempio i temi indicati nel Puc
dovranno trasformarsi in grandi dibattiti
pubblici, per far maturare
consapevolezza e nuova cultura civica.
Passato/presente: una domanda
cruciale – L’etica e la cultura del lavoro
descritte in precedenza che cosa hanno
lasciato sul territorio? Come hanno
trasmesso i propri orientamenti
valoriali? Quale rapporto tra persistenze
e rotture? In termini generali possiamo
affermare che il lascito valoriale più
rilevante sia quello di considerare la
stabilità del lavoro quale fonte
principale di realizzazione personale,
che oggi però entra in profonda crisi a
causa della diffusa frantumazione e
precarietà. Le nuove modalità del
lavoro precario mettono in discussione
un patrimonio di cultura del lavoro
accumulato nel corso di tutto il
Novecento. Ma più grave ancora è il
fatto che questa tradizione non ha
prodotto istituzioni in grado di ripensare
una stagione significativa della storia
sociale di Genova e dell’Italia. Come se
l’innovazione per essere vincente
dovesse fare tabula rasa della storia.
Anziché governare il cambiamento,
come si direbbe con una
semplificazione convegnistica, siamo di
fronte a processi spontanei che si
svolgono davanti ai nostri occhi, ma che
non riusciamo a vedere.
Il futuro – Come abbiamo visto dai
dati, la questione demografica rimane
centrale per discutere di innovazione e
di futuro, senza giovani è difficile
parlare di futuro, tutt’al più si può fare
innovazione in riferimento alla qualità
della vita che sapremo dare agli anziani
o a chi decide di venirci ad abitare.
Senza creazione di opportunità di
lavoro, Genova è destinata ad essere
relegata a zona residenziale. Secondo
il PUC (Piano urbanistico comunale che
è la nuova denominazione del Piano
Regolatore), il futuro dello sviluppo
economico di Genova è centrato su tre
grandi direttrici: l’economia del mare e
del porto, l’economia dell’alta
tecnologia industriale, l’economia della
cultura e del turismo. Ciò presuppone
un cambiamento di mentalità che dovrà
sempre di più poggiare sulla capacità di
attrarre risorse esterne, ogni risultato va
conquistato sul campo perché tutte le
grandi metropoli si pongono obiettivi
analoghi. Si vince sulla capacità di
praticare comportamenti coerenti
rispetto agli obiettivi, dare fiducia ai
cittadini, saper fare coalizione e
concertazione e renderla visibile
all’esterno. La realizzazione del parco
tecnologico degli Erzelli può gettare le
basi di questo nuovo processo
innovativo, a condizione che si proceda
con tempi compatibili alla necessità di
dare forti e tangibili segni di
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 25
Il Tempietto
cambiamento. L’IIT (Istituto Italiano di
Tecnologia), localizzato a Morego
(Bolzaneto), con poco clamore
mediatico, ma con grande
determinazione, ha già raggiunto uno
staff di ricercatori e scienziati composto
da 600 persone di cui il 48%
proveniente da 30 paesi esteri. Siamo
davvero lontani anni luci da quando in
città si discuteva con passione di
“fabbrica automatica”, adesso c’è e
sembra che nessuno se ne accorga.
D’altra parte, il concetto di città
intelligente – Smart city – enunciato dal
PUC, significa che solo attraverso una
gestione integrata, coordinata e
condivisa con il mondo della ricerca,
della produzione e dell’imprenditoria si
può raggiungere uno sviluppo
economico duraturo e rispettoso
dell’ambiente.
Una città smart attrae le imprese e gli
investimenti nelle attività produttive
pulite, nell’alta tecnologia,
nell’industria creativa. In particolare il
Ponente, le aree portuali, la Val
Polcevera (aree ferroviarie) e la
Valbisagno (grandi servizi pubblici da
riconvertire) rappresentano i luoghi
strategici densi di opportunità di
25
trasformazione e riqualificazione.
Complessivamente, in diverse forme e
modalità, si tratta di intervenire su oltre
6 milioni di mq. Rispetto agli attuali
610mila abitanti il Puc è stato
dimensionato su una previsione futura
che non supera i 700mila abitanti,
mentre i posti di lavoro dovrebbero
passare dagli 285mila di oggi ai futuri
300mila. I servizi invece sono
dimensionati per circa 970mila. Un
aspetto innovativo è l’integrazione del
Piano paesistico nel livello locale del
Puc e il rapporto unitario col Piano
regolatore portuale (Genova, città-porto)
attraverso un confronto sulle best
practices esistenti in altre città-porto
europee. L’urbanista inglese Richard
Burdett che collabora nelle strategie del
PUC afferma che Genova si trova ad
una svolta fondamentale della sua lunga
e consolidata storia urbana: in bilico tra
un passato illustre ed un futuro incerto.
Dobbiamo essere comunque
consapevoli che una nuova identità non
nasce dal nulla ma deve affondare le
sue radici nella storia dell’etica del
lavoro genovese. È l’orgoglio di una
città produttiva e solidale che bisogna
proiettare nel futuro.
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Renato Carpi
docente Accademia Ligustica
di Belle Arti
La cultura di una città
e le potenzialità di Genova
“Il sostegno alle iniziative culturali
deve essere visto come condizione
per un diverso sviluppo economico di Genova.
Si deve acquisire pienamente la consapevolezza che
la cultura è una straordinaria risorsa economica
e su questa risorsa si deve incentrare
il nuovo assetto economico della città”.
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Il Tempietto
La cultura
di una città e
le potenzialità
di Genova
Renato Carpi
C
he cos’è la cultura di una città?
Vorrei provare a rispondere a
questo quesito. Una prima
possibile definizione è questa:
“l’insieme delle idee che attraversano
la mente di chi vi vive”. Non mi
convince, forse è meglio: “l’insieme
delle idee e dei comportamenti di chi
vi vive”. Oppure: “l’insieme delle idee,
dei comportamenti e delle potenzialità
di chi vi vive”. Intendo con
potenzialità le capacità di
elaborazione, le competenze
professionali: le capacità di pensare,
di fare, di progettare. Ma queste
definizioni risultano del tutto
inadeguate al cospetto della
dimensione storica. La cultura di una
città è anche l’insieme delle idee, dei
comportamenti, delle potenzialità
sedimentate nel tempo; è anche
struttura urbana, organizzazione degli
spazi, organizzazione dei collegamenti
e delle funzioni. È anche l’insieme
delle relazioni che si vivono al suo
interno e l’insieme delle relazioni che
si creano col mondo esterno. E allora
la cultura di una città è un insieme di
culture diverse a confronto.
Si può provare ad affinare
ulteriormente la definizione di cultura
di una città, ma penso che ogni
tentativo sarebbe comunque
29
accompagnato da un senso di
incompiutezza, di inadeguatezza.
Questi tentativi, però, vale la pena
compierli perché sono utili per
individuare alcune importanti
caratteristiche della cultura di una città.
La cultura di una città è un flusso
continuo di conoscenze, competenze,
esperienze, relazioni, comportamenti
che si sedimentano nelle cose che la
compongono e nelle menti dei suoi
abitanti. È, per sua natura, non
pienamente afferrabile, la sua qualità
dipende dallo scambio culturale fra le
generazioni, fra i ceti, fra i generi, oggi –
più di ieri – possiamo dire anche fra le
diverse culture presenti. È il frutto di un
complesso processo di accumulazione di
cui non si è del tutto consci. Come per
la mente di ciascuno di noi, anche per
la mente di una città esiste una
dimensione inconscia che condiziona
fortemente i comportamenti sociali.
La cultura di una città è un serbatoio
di energie, di pensieri al quale si può
(si deve) attingere per comprendere il
presente, per progettare il futuro e nel
quale bisogna continuamente
introdurre nuovi saperi, nuovi
linguaggi, nuove esperienze.
La cultura di una città è una realtà
inevitabilmente aperta e come tale
interagisce continuamente con i
potenti modelli culturali che
prevalgono oggi nel mondo. Tutti gli
agglomerati urbani sono sottoposti alla
forte spinta all’omologazione in atto
nel mondo (processo al quale è
illusorio pensare di opporsi), ma tale
processo può essere vissuto da ogni
luogo in modo differente, mantenendo
o meno la propria ragion d’essere, ciò
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30
Il Tempietto
dipende dalle radici culturali di ogni
luogo e dalla capacità di creare nuove
radici.
La cultura di una città è la sua identità
e averne cura è un compito
fondamentale del nostro tempo.
Se la cultura di una città è
consapevolezza del presente e capacità
di prefigurare il futuro di essa si ha
ancor più bisogno nei momenti di
transizione, nei momenti in cui su
devono ridefinire i modi di produrre, i
meccanismi di formazione e
ridistribuzione della ricchezza, i
principi fondamentali con cui
innervare una realtà sociale.
In quest’ottica la cultura si rivela in
tutta la sua importanza, non è un
lusso, ma una necessità, non è una
componente ornamentale di un
organismo sociale, ma è qualcosa che
struttura e organizza la società, che
rende viva una città, è la risorsa con
cui affrontare la crisi, il cambiamento.
Eppure, quasi come un riflesso
condizionato, nei momenti di crisi –
come quello che viviamo oggi –
riemerge con forza l’idea che la cultura
sia qualcosa che si può sacrificare, di
cui si può fare a meno, sicuramente
non una priorità. Idea largamente
diffusa nell’opinione pubblica, nelle
diverse forze sociali e politiche, in
quasi tutte le persone che non sono
direttamente coinvolte nella vita
culturale. Penso che questo sia un dato
su cui valga la pena riflettere.
Le riflessioni da cui sono partito
intorno al quesito “che cos’è la cultura
di una città” valgono naturalmente
anche per Genova. Genova è un luogo
che ha subito negli ultimi decenni, in
particolare dagli inizi degli anni ‘ 80
ad oggi, profonde trasformazioni
urbane, sociali, economiche; e proprio
nel vivo di queste trasformazioni è
emerso il ruolo strategico che può
avere la cultura.
I due fondamentali poli culturali della
città (quello tecnico-scientifico e
quello storico-artistico) hanno indicato
due possibili percorsi per la
ridefinizione dell’identità della città:
realtà industriali ad alto contenuto
scientifico e tecnologico e centri di
ricerca avanzata da una parte, piena
valorizzazione del patrimonio storicoartistico della città come componente
essenziale per una più elevata qualità
della vita urbana e come valore
fondamentale per una piena
affermazione della dimensione
turistica della città dall’altra.
La cultura nelle sue due fondamentali
componenti – quella scientifica e quella
cosiddetta umanistica – è al centro dei
cambiamenti in atto nella città, la
capacità di Genova di darsi una nuova
identità, di darsi un futuro, dopo la crisi
irreversibile della grande industria
siderurgica e meccanica, dipende in
larga misura dalla piena valorizzazione
delle potenzialità culturali della
cultura. Per poter valorizzare le
potenzialità culturali della città bisogna
in primo luogo conoscerle. Questo è il
primo problema da affrontare: come
conoscere le intelligenze della città.
Penso siano necessari strumenti
permanenti di comunicazione e di
informazione, una rete di terminazioni
nervose che siano in grado di diffondere
conoscenze e consapevolezza della
qualità del lavoro intellettuale che si
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Il Tempietto
svolge quotidianamente nella nostra
città. Mi sembra ancora del tutto
carente la conoscenza del lavoro di
ricerca e di studio che si svolge a
Genova, mi sembra ancora inadeguato
il rapporto fra Università, centri di
ricerca e città. L’Università è ancora
prevalentemente una realtà separata dal
contesto sociale, culturale ed
economico della città e questo le
impedisce di svolgere un ruolo attivo e
propositivo in questa fase di forte
cambiamento. Come costruire un più
fecondo rapporto fra città e Università è
un quesito che si dovrebbero porre in
tanti: le forze politiche, i docenti
universitari, gli studenti, le imprese,
l’ampio tessuto sociale genovese.
Per pensare Genova in questo nuovo
scenario economico mondiale, per
pensare Genova al cospetto della
crescente presenza di immigrati, per
individuare nuove capacità produttive
e nuove solidarietà è di strategica
importanza il ruolo dell’Università.
Ecco un punto cruciale su cui aprire
un largo confronto in città.
Se invece guardiamo al rapporto fra
cultura e città dal punto di vista delle
istituzioni culturali emerge l’enorme
lavoro condotto negli ultimi decenni
dalle amministrazioni pubbliche, in
particolare – non solo – dal Comune di
Genova.
Per capire come è profondamente
cambiato il rapporto fra cultura e città
dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi credo
sia doveroso partire dall’evento più
emblematico che è, a mio avviso,il
cambiamento di destinazione d’uso di
Palazzo Ducale. Aver pensato il
palazzo più prestigioso della città, il
31
palazzo simbolo della storia di Genova
come palazzo della cultura segna una
svolta storica nel rapporto fra città e
cultura. Nei quasi vent’anni che ci
separano dal 1992, anno in cui il
Ducale assume il ruolo di palazzo
della cultura, l’istituzione culturale
che lo governa ha acquisito una
crescente capacità di produrre eventi
culturali. Oggi, grazie alle indubbie
capacità di chi lo dirige, è uno dei
centri culturali più vivi nell’intero
panorama italiano ed europeo. Nel
formulare questo giudizio penso
sicuramente alle grandi mostre che ha
organizzato e ospitato, alle opportunità
offerte ai giovani artisti, ma soprattutto
penso alla qualità degli incontri che ne
segnano la vita, e all’interesse che ha
saputo suscitare, in un pubblico
sempre più esteso, sui grandi temi
della nostra contemporaneità.
Ma questa significativa realtà culturale
non ha operato in una sorta di desolata
landa culturale, ma in un contesto di
grande vitalità pur in presenza di
crescenti difficoltà finanziarie. Penso,
ad esempio, al complesso e articolato
sistema museale civico, penso
all’Accademia Ligustica come realtà
formativa e museale, penso al nuovo
museo del Mare e al graduale recupero
dello straordinario spazio della
Commenda di Prè.
Nell’esaminare il rapporto fra città e
cultura a Genova una particolare
menzione merita il sistema teatrale
genovese: possiamo dire con certezza
uno dei più importanti a livello
nazionale.
Il Teatro Stabile e la sua scuola di
formazione per giovani attori, il Teatro
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 32
32
Il Tempietto
della Tosse con il suo laboratorio di
scenografia, il Teatro dell’Archivolto
che ha rivitalizzato il più prestigioso
spazio teatrale storico (il Modena di
Sampierdarena), il Teatro Cargo che è
un prezioso presidio culturale
nell’estrema periferia della città
(Voltri), il Teatro Garage che nel suo
piccolo spazio di S.Fruttuoso, ormai da
molti anni, realizza stagioni teatrali di
grande qualità. E poi le moltissime
compagnie teatrali, che pur prive di un
proprio spazio, continuano a dare un
prezioso contributo alla vita culturale
della città, penso ad esempio al Teatro
delle Nuvole.
È difficile se non impossibile trovare
un’altra città come Genova così ricca
di esperienze teatrali. Ciascuna delle
realtà che ho preso in considerazione
ha una sua precisa identità e
costituisce una tessera preziosa di un
ricco mosaico.
Il Teatro Stabile svolge un ruolo
insostituibile nel mantenere viva
l’attenzione del pubblico e in
particolare delle nuove generazioni
intorno al patrimonio storico teatrale
nazionale e internazionale, promuove
la circuitazione di spettacoli teatrali di
giovani compagnie e di giovani autori
e compie un lavoro di particolare
valore culturale con la scuola di
formazione per giovani attori.
Il Teatro della Tosse offre alla città
l’opportunità di conoscere esperienze
teatrali molto originali per la scelta dei
testi e per il tipo di linguaggio teatrale
che viene utilizzato. Inoltre continua a
realizzare rassegne di teatro per
bambini, di spettacoli di marionette, e
– anche nelle attuali difficoltà
economiche – mantiene vive le sue
capacità di produzione di scene e
costumi; infine continua a realizzare
eventi teatrali in grado di valorizzare
spazi urbani e centri storici.
Il Teatro dell’Archivolto che nella sua
multiforme programmazione teatrale ha
in particolare messo a fuoco il rapporto
fra letteratura e teatro
Il Teatro Cargo particolarmente attento
ai temi legati alla memoria storica
della comunità e alle problematiche
sociali più rilevanti.
Un’analisi completa del sistema
teatrale genovese naturalmente
richiederebbe molto più spazio e
tempo; è forse per la nostra città il
settore culturale più importante, più
ricco, più diffuso territorialmente e
probabilmente esprime una particolare
vocazione di Genova. Sarebbe forse
opportuno riprendere in
considerazione la possibilità di
realizzare a Genova un Festival
Internazionale del Teatro.
In ultimo, nell’analizzare la vita
culturale di Genova, penso sia
importante rivolgere l’attenzione su
queste interessanti esperienze:
• il Festival Musicale del
Mediterraneo,
• il Festival Suq,
• il Festival della Scienza,
• il Festival della Poesia.
Il Festival Musicale del Mediterraneo
è una grande esperienza culturale per
Genova, il cui valore non è stato
ancora pienamente compreso. È il
primo significativo progetto culturale
che ha dato centralità alla
multiculturalità. Forse non è casuale
che la prima esperienza di scambio
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Il Tempietto
culturale di livello mediterraneo e
mondiale sia stata un’esperienza
musicale. La musica per la sua
immaterialità si diffonde più
velocemente e riesce più
efficacemente a superare le forti
barriere che separano, a livello
mondiale, le diverse aree culturali e
religiose. Poter riconoscere nelle più
diverse esperienze culturali forti
potenzialità comunicative permette di
vivere pienamente la dimensione
multiculturale del nostro tempo.
Il Festival Suq che si colloca nel solco
della multiculturalità è un’esperienza
che sta facendo scuola in Italia e in
Europa. La multiculturalità, nel suo
ambito, diventa polisensoriale, tutti i
nostri sensi sono coinvolti: la vista,
l’udito, il gusto, l’olfatto, il tatto. È un
grande contenitore di cibi, di cose, di
suoni, di idee, di parole che permette
di vivere una sorta di scambio fra le
culture onnicomprensivo. È come un
microcosmo periodico in cui si vivono
le diversità di colore, di lingua, di
cultura, di cucina con gioia, con
curiosità, con partecipazione e
interesse. È un laboratorio di
sperimentazione sociale in cui si
svolgono delle vere e proprie lezioni di
convivenza, di confronto; questi
caratteri hanno fatto diventare il
Festival Suq un appuntamento
culturale irrinunciabile in una città
come Genova che deve sapersi
confrontare con le grandi
trasformazioni socio-culturali indotte
dalla crescente presenza di immigrati.
Il Festival della Scienza ha molteplici
meriti: in primo luogo è un’occasione
di lavoro per molti giovani, inoltre è un
33
evento che interessa moltissime
persone, in particolare giovani – ma
non solo – e che dimostra
concretamente come la Scienza, questo
insieme di saperi e linguaggi
complessi, può essere diffuso e fatto
conoscere a persone di ogni età e di
ogni livello di istruzione; è necessaria
fantasia, creatività, semplicità,
essenzialità. Il festival della Scienza
ha il merito di aver messo a punto una
formula, dei modelli comunicativi
capaci di far comprendere a tutti
contenuti complessi, conoscenze
scientifiche che devono essere
patrimonio di tutti i cittadini in una
fase storica così profondamente
segnata dalle trasformazioni
tecnologiche.
Il Festival della Poesia che è giunto
alla sua 17° edizione è un’importante
realtà culturale della città che
permette al contempo di conoscere e
valorizzare giovani poeti genovesi e di
collegarsi a significative esperienze
internazionali.
Vorrei concludere questa mia proposta
di riflessione sulla cultura a Genova
proponendo alcuni aspetti
problematici.
Siamo nel vivo di una profonda crisi
economica mondiale che ha riflessi
devastanti sul nostro paese. La
drastica riduzione delle risorse
finanziarie per le autonomie locali sta
mettendo in discussione la
sopravvivenza di fondamentali servizi
per il cittadino, eppure anche in
questo contesto – io credo – bisogna
sostenere con ostinazione l’importanza
della vita culturale della città. Per
raggiungere questi obiettivi si impone
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 34
34
Il Tempietto
l’esigenza di affrontare in modo serio il
tema della sostenibilità economica
della cultura, di individuare nuovi
strumenti gestionali capaci di costruire
un più stretto rapporto fra pubblico e
privato, di sviluppare ulteriormente il
lavoro di rete, di valorizzare
pienamente gli operatori culturali, di
valorizzare le enormi competenze
presenti all’interno della pubblica
amministrazione, di individuare le
realtà culturali che prioritariamente
devono essere sostenute.
Se, come emerge da una ricerca
condotta dalla Bocconi, l’investimento
finanziario in cultura deve essere
moltiplicato per 4,8 (fattore molto
elevato) per coglierne l’impatto
sull’assetto economico del paese, si
rende necessario un più esteso
coinvolgimento dei diversi soggetti
sociali interessati; la difesa e lo
sviluppo della cultura non devono
essere delegati esclusivamente agli
addetti ai lavori, deve emergere uno
schieramento sociale più
rappresentativo dei diversi soggetti in
gioco; inoltre devono essere
individuate le iniziative legislative, i
meccanismi finanziari che possano
permettere di reinvestire parte della
ricchezza creata in attività culturali.
* Le riflessioni proposte in questo articolo sono state precedute da mie conversazioni con Maria
Paola Profumo, Carlo Repetti, Luca Borzani che ringrazio per la disponibilità. È mio augurio che
possano essere uno stimolo alla discussione.
16 settembre 2011
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Alessandro Repetto
Presidente della Provincia
di Genova
Intervista a Alessandro Repetto
“Vi sono molte argomentazioni che potrebbero sostenere le
ragioni di mantenere, dopo le dovute razionalizzazioni,
le competenze provinciali, mentre l’attuale Governo prevede
l’abolizione delle Province tramite una proposta
di Legge Costituzionale, senza tuttavia dimostrare quanto
questa riforma porterà in termini di risparmio
e quando sarà attuata.
Considerando tutto ciò e il fatto che a primavera 2012
bisognerà rieleggere i vertici di Comune e Provincia di
Genova, potrebbe essere una coraggiosa scelta politica quella
di utilizzare il tempo che ci separa dalle prossime
amministrative per far nascere o comunque prefigurare un
nuovo soggetto istituzionale: la Città metropolitana.
Daremmo un segnale di forte rinnovamento,
elevando Genova a luogo di sperimentazione di un processo
riformatore”.
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TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 37
Il Tempietto
Intervista
al Presidente
della Provincia
di Genova,
Alessandro
Repetto
A cura di Salvatore Vento
A partire dalla tua esperienza
personale in qualità di Presidente
della Provincia, negli anni del tuo
mandato quali sono state le
trasformazioni principali di Genova,
sia sotto il profilo socio economico
che culturale?
Genova, in questo ultimo decennio se
non ventennio, ha goduto di un forte
rilancio turistico e culturale che l’ha
riportata sotto i riflettori e agli onori
della cronaca a livello nazionale e
internazionale, penso, per esempio, al
2004 in cui è stata Capitale Europea
della Cultura.
Ma, come la maggior parte delle città
italiane, ha anche dovuto affrontare
radicali cambiamenti e minacce tutt’ora
in atto, conseguenti a un naturale
processo di mutamenti socio-economici
e a un profondo mutamento della cultura
collettiva. Basti pensare, per esempio,
alla rilevanza che –giustamente – viene
riconosciuta oggi all’attenzione
all’ambiente o alla necessità di sicurezza
sempre più sentita dai cittadini.
Tra le difficoltà maggiori è innegabile
quella dell’occupazione, strettamente
collegata all’indebolimento del tessuto
industriale, alle nuove esigenze di
competenze e professionalità, quindi
37
alla formazione, e necessariamente
queste problematiche hanno
comportato una trasformazione
significativa nelle esigenze delle
persone e delle strutture.
Quali di questi cambiamenti hanno
visto la Provincia soggetto
particolarmente decisivo?
Ritengo che la Provincia di Genova sia
stata decisiva in diversi settori, a
cominciare dalle politiche del lavoro:
ora i Centri per l’Impiego coprono tutto
il territorio provinciale e offrono un
servizio capillare di alta qualità sia a
chi cerca lavoro, sia alle imprese e,
oltre ai servizi di orientamento, ai
percorsi formativi e di mediazione al
lavoro, sono fondamentali quelli di
sostegno all’autoimprenditorialità e al
lavoro indipendente. Inoltre, in questi
anni e in particolare negli ultimi,
aggravati dalla crisi generale, la
Provincia, insieme alle altre Istituzioni
locali e alle forze economico-sociali,
ha avuto un ruolo attivo, politico e di
competenza, nella salvaguardia di
diverse realtà industriali come, ne cito
alcune, la Mares, il trasferimento della
Lames, la riconversione dell’Ilva, le
vicende dell’Ansaldo, per non parlare
di Fincantieri.
Abbiamo poi investito molto nella
sicurezza degli edifici scolastici, non
solo rafforzando il patrimonio comune
ma creando nuove aree scolastiche, e,
sempre nell’ottica della sicurezza, tra
gli investimenti più rilevanti c’è la cura
e lo sviluppo della viabilità provinciale,
che rappresenta il collegamento tra
paesi e città, tra costa ed entroterra, la
possibilità di studiare e lavorare.
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 38
38
Il Tempietto
Abbiamo garantito il trasporto pubblico
locale con un servizio, l’ATP, che unisce
tutto il territorio provinciale, e abbiamo
avviato e sostenuto una politica di nuove
forme di sviluppo sostenibile sfruttando
energie alternative, dedicando anche
una struttura a questi temi, il Muvita,
riconosciuto primo Science Center
nazionale dedicato ai cambiamenti
climatici.
Queste alcune iniziative
particolarmente incisive, ma non
certamente le uniche.
In tutta l’area della provincia di
Genova, quali vocazioni produttive
del passato possono dare ancora
prospettive di futuro?
Abbiamo un territorio che, per
vocazione, deve cercare, di valorizzare
le proprie potenzialità turistiche e
quelle industriali con un’attenta e
coerente politica di equilibrio socioeconomico e di compatibilità
ambientale, accompagnata anche da
iniziative e investimenti sulle
infrastrutture. Queste sono una chiave
imprescindibile per qualunque forma
di sviluppo possa avere Genova e la
sua provincia, e queste sono state tra
gli obiettivi prioritari che ci siamo
posti, dal Terzo Valico alla gronda di
ponente, dal tunnel della
Fontanabuona al prolungamento di
Viale Kasman, al nodo ferroviario di
Genova. Attraverso vari strumenti
abbiamo portato avanti un processo di
riconversione del territorio nell’ottica
della tutela e della valorizzazione
ambientale e occupazionale,
rilanciando, per esempio, la vocazione
all’economia marittima, una delle
nostre tradizioni più antiche e
prestigiose.
L’Accademia della Marina Mercantile
può essere considerata una buona
pratica che esplicita il positivo
rapporto tra passato/presente? Puoi
dare qualche dato sul numero e le
caratteristiche degli allievi compresi
gli sbocchi occupazionali?
Far crescere un territorio significa
anche preoccuparsi delle occasioni di
formazione e di aggiornamento
professionale offerte a chi lo abita:
maggiore sarà il livello qualitativo di
tali offerte, migliori saranno le ricadute
sullo sviluppo culturale, sociale ed
economico locale. L’Accademia
Italiana della Marina Mercantile,
sicuramente risponde a questi criteri e
obiettivi. Dal 2005 a oggi, ha diplomato
266 allievi ufficiali: 173 ufficiali di
coperta e 93 ufficiali di macchina, in
collaborazione con le più importanti
compagnie di navigazione nazionali e
internazionali. Uno dei punti di forza
dell’Accademia, per cui è corretto
considerarla una best practice, va
individuato nel recupero di una storica
tradizione come quella degli ufficiali
della Marina Mercantile Italiana, da
sempre considerati tra i migliori al
mondo ma che, a causa della mancanza
di un’istruzione formativa rischiavano
di essere definitivamente sostituiti da
personale straniero.
Recentemente hai rilanciato l’idea
dell’Area Metropolitana, su quali basi
dovrebbe nascere? Essa risponde a
necessità soltanto politiche oppure
deriva da argomentazioni fondate?
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 39
Il Tempietto
Non vi è dubbio che sia necessaria una
razionalizzazione dell’ordinamento
statale, ma in questo momento si fa una
gran demagogia attorno al tema
dell’abolizione delle Province che di
certo non risolverebbe il problema dei
costi della politica e dell’ingorgo dei
livelli istituzionali e non.
Una valida soluzione per offrire ai
cittadini semplificazione e chiarezza
sulle procedure e sulle competenze e
una ottimizzazione delle Province
stesse, sarebbe attraverso l’istituzione
delle Città Metropolitane.
E’ fondamentale, infatti, porsi alcuni
interrogativi, per esempio
domandandosi chi coordinerà e
governerà la dimensione provinciale
(gestione strade, edilizia scolastica,
formazione, politiche del lavoro,
ambiente); chi svolgerà il ruolo
mediatorio e comunque rassicurante
per i medi e piccoli Comuni nei
confronti dello strapotere del Comune
capoluogo; chi avrà il compito di
provvedere alla funzione di
contrappeso istituzionale in alcune
materie dove i Comuni molte volte sono
portatori di conflitti di interesse
(ambiente, gestione discariche, società
di gestione) o per le politiche formative
e del lavoro per le quali la Regione
esercita il ruolo di erogazione e di
garante di fondi pubblici.
Considerato che il personale della
Provincia (per tradizione di ottimo
livello professionale) ha una spesa procapite inferiore a quella di Regione e
Comune, trasferendo a tali enti le
funzioni attualmente esercitate
dall’ente di area vasta, è prevedibile un
incremento dei costi dei servizi
39
erogabili, anziché una sua diminuzione.
Vi sono molte argomentazioni che
potrebbero sostenere le ragioni di
mantenere, dopo le dovute
razionalizzazioni, le competenze
provinciali, mentre l’attuale Governo
prevede l’abolizione delle Province
tramite una proposta di Legge
Costituzionale, senza tuttavia
dimostrare quanto questa riforma
porterà in termini di risparmio e
quando sarà attuata.
Considerando tutto ciò e il fatto che a
primavera 2012 bisognerà rieleggere i
vertici di Comune e Provincia di
Genova, potrebbe essere una
coraggiosa scelta politica quella di
utilizzare il tempo che ci separa dalle
prossime amministrative per far
nascere o comunque prefigurare un
nuovo soggetto istituzionale: la Città
metropolitana.
Daremmo un segnale di forte
rinnovamento, elevando Genova a
luogo di sperimentazione di un
processo riformatore.
Negli ultimi anni è aumentata la
consapevolezza della necessità di
politiche che traguardino la
dimensione del Nord Ovest, in
particolare il Piano strategico di
Torino del 2006 ha posto con forza
questo tema. Quali azioni per
raggiungere questo obiettivo? Quali
coerenze richiede nei comportamenti
quotidiani?
Nel tempo si è affermata l’idea che i
territori non possono più essere
governati in modo asfittico, dentro
angusti confini territoriali e
amministrativi, ma è necessario dotarsi
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 40
40
Il Tempietto
di strumenti strategici per far
convergere le scelte e le priorità dei
diversi soggetti e organizzazioni, siano
esse istituzioni pubbliche o imprese, su
progetti e decisioni comuni al fine di
traguardare obiettivi di crescita e
sviluppo economico. Sono convinto che
per affrontare la sfida di una economia
globalizzata, sia innanzitutto
necessario, per essere competitivi,
puntare sulla realizzazione di reti
organizzate tra i diversi sistemi
territoriali, con l’obiettivo di
raggiungere una progettualità strategica
coordinata su infrastrutture e logistica,
sviluppo locale e marketing territoriale.
L’esperienza della Fondazione SLALA
e della Fondazione delle Province del
Nord-Ovest, nelle quali la Provincia di
Genova è particolarmente impegnata,
ha rappresentato questo tentativo di
superare i localismi e di creare uno
strumento, una cabina di regia per
condividere una programmazione di
area vasta, nel settore della logistica,
del trasporto delle merci, delle reti
infrastrutturali stradali, in modo
coordinato e integrato dei diversi
sistemi territoriali, perseguendo la
valorizzazione delle diverse realtà
territoriali.
Penso che ancora siamo agli inizi di un
lavoro che richiede maggiori sforzi in
tal senso e che la macroarea più
industrializzata del paese, che produce
una parte significativa del P.I.L., debba
continuare a lavorare sviluppando
politiche economiche e sociali sempre
più integrate.
È ovvio che per raggiungere l’obiettivo
tutti i soggetti istituzionali interessati
debbono coerentemente improntare le
proprie azioni pianificatorie e
progettuali nel quadro di riferimento di
una comune, coordinata e condivisa
strategia, senza la quale tutto
resterebbe nell’ambito di una mera
dichiarazione di intenti.
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Luca Borzani
Presidente della Fondazione
Culturale Palazzo Ducale
Intervista a Luca Borzani
“Palazzo Ducale è aperto 365 giorni all’anno
e quasi ogni giorno c’è un appuntamento importante.
Palazzo Ducale non è più il “salotto buono della città”,
ma si rapporta a tanti pubblici diversi.
La scommessa sulla quale siamo impegnati
è che la cultura di qualità
deve essere accessibile a tutti”.
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Il Tempietto
Intervista a Luca
Borzani,
presidente della
Fondazione
culturale Palazzo
Ducale
A cura di Salvatore Vento
Comincerei con una domanda sul tuo
ruolo professionale. Prima di essere
nominato Presidente di Palazzo
Ducale sei stato assessore alla cultura:
quali analogie e differenze?
Sono ruoli profondamente diversi. Un
assessore definisce gli indirizzi,
pianifica le attività dell’intero sistema
culturale della città, ne definisce
priorità. Il presidente della Fondazione
si occupa della gestione e della
programmazione di Palazzo Ducale con
uno specifico ambito di autonomia
all’interno degli indirizzi del Comune.
Sono proprio compiti assai differenti. È
evidente che nella scommessa, fino ad
oggi direi vinta, di fare di Palazzo
Ducale la “casa della cultura” di
Genova l’esperienza di dieci anni di
assessorati diversi è stata importante.
Nel 2004 l’evento “Genova, capitale
europea della cultura” è stato un
momento esaltante e di orgoglio
cittadino, sia per la riscoperta della
propria storia che per la
partecipazione civica. Possiamo
considerare il 2004 un anno di svolta
per la cultura genovese?
Il 2004 è stato punto di arrivo di un
percorso iniziato nel 1992. Larga parte
43
dei progetti realizzati nell’ambito del
2004 erano coerenti con le strategie che
avevano caratterizzato la ricerca di una
nuova fase di sviluppo dopo il processo
accelerato di deindustrializzazione.
L’intreccio tra riqualificazione urbana e
offerta culturale è stata una delle
risposte più importanti al declino
produttivo dei comparti tradizionali
dell’economia della città. La scelta più
importante nell’ambito del 2004 è stata
quella di realizzare non solo una
stagione di eventi ma di utilizzare le
risorse a disposizione perché
producessero effetti lunghi nel tempo.
È questo, io credo, che ha segnato una
vera svolta. Penso ad esempio alla
riorganizzazione del sistema museale
con l’apertura del Museo del Mare (oggi
il museo più visitato della città), alla
GAM di Nervi, al Castello d’Albertis, al
restauro di Palazzo Rosso, di Palazzo
Bianco e l’estensione di Palazzo Tursi al
polo di Via Garibaldi. Oggi i visitatori
dei musei genovesi sono oltre 500 mila.
Un numero impensabile nel 2001/2003.
In questo senso credo che Genova sia la
città che meglio ha utilizzato la
candidatura a capitale europea della
cultura. In sintesi: il senso del 2004 è
da ricercarsi nella rimessa in moto di
alcune precondizioni per il decollo
della città turistica e della cultura in
continuità con quanto realizzato nel
1992 e nel 2001. La svolta non è però
stata solo nella modernizzazione delle
strutture ma anche nella coscienza
collettiva dei genovesi. Si è radicata la
consapevolezza che Genova possa
giocare un ruolo tra le “città d’arte”, sia
capace di misurarsi con una nuova
identità postindustriale.
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44
Il Tempietto
La domanda: “E dopo il 2004?” –
diretta espressione di quell’impasto tra
nostalgia e “maniman” che spesso ci
caratterizza – ha la sua risposta nella
continuità di una produzione culturale
che assegna a Genova un buon livello di
attenzione internazionale e nei dati di
presenza turistica che hanno gli indici
migliori di crescita a livello nazionale. Il
quesito dell’oggi, sia in riferimento al
turismo sia alla produzione culturale, è
se a questo hardware corrisponda un
software adeguato. Per software intendo:
la consapevolezza delle effettive
potenzialità della città, il superamento
di autoreferenzialità di stampo
municipalistico, la definizione di
indicatori di risultato legati a strategie
pubbliche di sviluppo, il superamento
del tipico ossimoro genovese di essere
contemporaneamente “capitale di tutto”
e “ultimi in tutto”. Insomma, il nodo è
se riusciamo a fare un altro passo in
avanti. Se saremo in grado di chiudere
la stagione del provincialismo che segna
ancora pesantemente la città nelle sue
dinamiche culturali, civili e produttive.
A tale proposito sarebbe davvero
interessante riflettere quanto il
provincialismo rappresenti una sorta di
radicata subcultura omogenea di gruppi
e segmenti di potere che tengono da
decenni in mano la città.
Ma nelle nostre industrie, penso ad
Ansaldo, Elsag o Italimpianti,
l’internazionalità si viveva
quotidianamente. Nelle fabbriche si
respirava il mondo, basta farsi
raccontare la storia dei diretti
protagonisti, dall’operaio al manager,
per rendersene conto.
Certamente, ma dobbiamo aggiungere
che a un’alta professionalità sia operaia
che tecnica e talvolta anche del
management, il livello di effettiva
competizione sui mercati era basso. Una
contraddizione che ha radici lontane nel
tempo e le cui conseguenze si sono viste
con le ripetute crisi e il
ridimensionamento finale.
Ripeto, la logica municipalistica che ha
segnato Genova è qualcosa di
profondamente diverso dall’attenzione al
territorio e alle realtà locali. Il “Local”
può e deve coniugarsi con il “Global”. È
in quella relazione che si può resistere
alla globalizzazione senza regole e
operare per la ricomposizione della
comunità frammentata. Il municipalismo
è altra cosa: è un’ideologia della
chiusura e del declino.
Nei settori più accorti della società,
che forse sono minoritari, si comincia
comunque a diffondere la
consapevolezza che la produzione
culturale è parte fondamentale dello
sviluppo economico del paese, ma, a
questo punto, occorre chiarire che
cosa intendiamo per cultura.
Ho spesso la sensazione che quando si
discute di cultura trovino spazio i
peggiori luoghi comuni. C’è sovente un
odore di retorica, una ripetitività di
concetti che non aiuta a misurarsi con le
difficoltà dei tempi che stiamo vivendo.
Talvolta è come se gli stessi operatori
della cultura non riuscissero ad avere
una soglia di consapevolezza capace di
travalicare la loro singola esperienza, di
uscire da una logica, anche legittima,
rivendicativa e di autopromozione.
Personalmente non credo abbia senso
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Il Tempietto
parlare di cultura come un tutto unitario
e omogeneo. Esistono tanti modi di fare
cultura, di rapportarsi con il pubblico,
di gestire i bilanci. Ci sono anche tanti
sprechi e o iniziative di modesta qualità.
Mi riferisco, ad esempio, alla
concezione quasi mitica dell’“evento per
l’evento” che sembra affascinare anche
tante amministrazioni pubbliche. Siamo
insomma davanti a uno scenario
diversificato e talvolta contraddittorio al
suo interno. C’è chi è attento a una
dimensione civile ed educativa nella
propria programmazione e chi no, chi
prova a misurarsi con standard
internazionali e chi no, chi si preoccupa
di avere il bilancio in pareggio e chi no,
chi sviluppa forme di imprenditorialità e
chi aspetta passivamente il contributo
pubblico. E ancora: la scuola, il sistema
formativo, la ricerca, l’hi tech sono o non
sono parte del sistema culturale della
città? Poi una cosa sono i musei, altra
cosa i teatri, altro la tutela del
patrimonio. Potrei proseguire a lungo
ma sarebbe troppo noioso. In sintesi:
una discussione sull’attività culturale
oggi deve concentrarsi su aspetti troppo
spesso trascurati perché non
immediatamente riducibili a uno slogan.
Quanto al rapporto cultura-economia
credo si debbano evitare due concezioni
semplificate. La prima, ampiamente
diffusa pochi anni or sono, era che la
contaminazione cultura/economia
avrebbe comportato un immediato
scadimento della prima e l’accettazione
di una pura logica di mercato. Larga
parte della discussione sul rapporto
pubblico-privato è stata segnata proprio
da questo atteggiamento. All’opposto
oggi la cultura pare avere legittimazione
45
solo se è uno degli strumenti della
crescita economica, se l’investimento
culturale ha immediato ritorno in
termini di fatturato e di indotto turistico.
Penso che la produzione culturale debba
riconoscersi in una logica di sviluppo
delle città e che sia un comparto
occupazionale tutt’altro che irrilevante.
Cosi come credo che la produzione
culturale debba rispondere anche a
bisogni immateriali di conoscenza, di
bellezza, di cittadinanza. È possibile
pensare a un ritorno economico delle
biblioteche? Evidentemente no. E allora
bisogna chiuderle tutte? Di fatto, come
spesso accade nel nostro paese, invece
di concentrarsi su indicatori di ritorno
diretto e indiretto per il territorio delle
attività culturali, di perseguire
sostenibilità ed efficienza nelle gestioni,
di individuare le priorità e le modalità
migliori per perseguirle ci si perde in
inutili dibattiti che mi fanno tornare alla
mente “Lavoro culturale” l’aureo
volumetto di Luciano Bianciardi.
Sempre come consiglio bibliografico
suggerisco la lettura del recente libro di
Paolo Sacco, uno dei più noti economisti
della cultura italiani, “Italia
realroaded”.
Vorrei ritornare alla domanda di
prima. Negli ultimi tempi tra gli
osservatori sociali e gli economisti
studiosi dei processi di globalizzazione
è cresciuta l’idea che le vocazioni
territoriali costituiscono un vantaggio
competitivo. È entrato nel linguaggio
corrente il termine glocal.
Lo sviluppo delle comunità locali, come
l’altra faccia della globalizzazione, non
può non rimandare alla crescita e al
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46
Il Tempietto
consolidamento del comparto culturale
che in questo senso è oggi un vero e
proprio comparto produttivo. Alla
cultura sono assegnati la valorizzazione
di beni materiali e immateriali non delocalizzabili; da questo punto di vista
essa può avere un ruolo strategico. In
realtà, l’ideologia del municipalismo,
insieme all’assenza di una visione
strategica, impedisce di utilizzare al
meglio le intelligenze e le risorse.
Al di là della retorica, è qui che si
misura ancora una bassa soglia di
consapevolezza complessiva. Anche nei
produttori di cultura.
Come possiamo misurare il valore
economico della produzione culturale
di una città?
Gli indicatori per misurare l’attività
culturale sono ancora molto modesti:
dagli studi della Bocconi a quelli di
Federcultura, tutti si soffermano ad
analizzare il ritorno diretto (posti letto
degli alberghi, movimento dei taxi,
ecc.), mentre la dimensione culturale
dovrebbe avere anche degli “indicatori
del ritorno indiretto” sull’evoluzione, nel
medio e lungo periodo, dell’attrattività
della città, della società, della sicurezza
sociale. Occorre non basarsi unicamente
sui pur importanti corrispettivi
immediati. Tra l’altro molti dei
moltiplicatori usati per analizzare
l’effetto generato dalla cultura sono
abbastanza peregrini e talvolta sfiorano
il ridicolo. La produzione culturale deve
certamente avere un risvolto economico,
ma anche una molteplicità di altri effetti
legati alla qualità della vita, al sociale e
alla formazione permanente; purtroppo
questi indicatori non sono ancora
evidenziati. Per quanto ci riguarda negli
ultimi due anni (2009 e 2010) abbiamo
elaborato il bilancio sociale che rende
conto della nostra attività. Non
misuriamo più il costo dell’ignoranza e
come questa condizioni il presente e il
futuro del paese. In Italia, a
centocinquanta anni dall’Unità, esiste il
13% della popolazione analfabeta o
analfabeta funzionale a fronte del 7,5%
di laureati. Il 20% degli italiani non è in
grado di comprendere un testo scritto.
Un esempio di grande attualità: su
67.961 detenuti quasi 32.000 si
collocano in una fascia di istruzione
compresa tra l’analfabetismo e la licenza
media inferiore. Vale la pena di riflettere
su questi costi sociali o no? Perché non
se parla mai?
Arrivando all’oggi non possiamo non
considerare i devastanti effetti della
manovra finanziaria.
C’è una soglia sotto la quale non si può
andare, il budget pubblico per la cultura
di Torino è 40milioni di euro a Genova è
di 20milioni. Anche se ci sono dei
contesti culturali corporativi e poco
attenti, la soglia dello spreco effettivo è
nell’insieme bassa e i tagli rischiano di
portare alla destrutturazione di un
sistema. Sono tagli per fare cassa, senza
un progetto di riorganizzazione e
razionalizzazione, di protezione delle
eccellenze e della virtuosità gestionale.
Mettono tutti sullo stesso piano. Ancora
una volta l’assenza di indicatori
impedisce scelte razionali.
Ma esiste anche un ritardo di
innovazione nello stesso mondo della
cultura. Un’aspirazione a guardare
indietro più che avanti. Non si può
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Il Tempietto
pensare di fare le stesse cose solo con
meno soldi. Bisogna cambiare e
velocemente. Se la cultura non dà
risposte alle domande che la crisi pone
alle persone, se non riesce a ripensare i
propri modelli organizzativi rischia di
moltiplicare gli effetti davvero
drammatici dei tagli. E bisogna
affrontare dei nodi di fondo: c’è chi
ritiene che l’attrattività della città si
debba realizzare attraverso i grandi
eventi, mentre altri (tra i quali mi
colloco anch’io), ritengono che
l’attrattività viene data dalla città stessa,
dalla valorizzazione del mare, dal
grande centro storico… All’interno di
questo scenario la dimensione culturale
costituisce un arricchimento, un valore
aggiunto. Per questo è necessario
indirizzare le poche risorse verso i
soggetti in grado di garantire qualità e
continuità. Insomma, qualità della vita,
riqualificazione urbana e cultura – nei
suoi diversi segmenti: musei, teatro,
mostre, biblioteche, tutela del
patrimonio – non si possono separare.
Come possiamo considerare il livello
raggiunto dall’offerta culturale
genovese?
A partire dal 2004 assistiamo ad una
crescita della capacità culturale (sia in
termini di offerta sia di presenze di
pubblico) della città in un contesto nel
quale venivano ridimensionati i settori
storici della portualità e dell’industria.
Genova ha raggiunto un livello europeo,
impensabile fino a 10 anni fa. La
crescita della qualità è ancora più
importante se pensiamo che essa è
avvenuta senza aumento delle risorse
economiche pubbliche dedicate.
47
Complessivamente abbiamo 4 milioni di
presenze l’anno nelle varie attività
promosse dal sistema culturale
genovese (dall’Acquario al Teatro
stabile, a Palazzo ducale, ai musei).
A Palazzo Ducale, a settembre del
2011, abbiamo superato tutte le
presenze del 2010. Per presentarci in
maniera unitaria nel promuovere la
città ci muoviamo d’intesa con
l’Acquario, il Teatro stabile, il Porto
antico. Oggi occorre ragionare in
termini di “sistema cultura” che però
non può essere promosso soltanto dagli
operatori. La politica appare ancora
indietro.
Storicamente però la produzione
culturale è stata strettamente legata
alle grandi committenze, valga per
tutti lo straordinario esempio della
Chiesa nei rapporti instaurati con i
grandi artisti di ogni epoca. Oppure,
in misura diversa, ma a Genova
comunque significativa, il ruolo svolto
dalle famiglie nobili di cui godiamo i
loro lasciti, di ville, di palazzi, di
giardini e parchi, di strutture sanitarie.
La crisi determina anche una riduzione
delle sponsorizzazioni e il
neomecenatismo langue. Basti pensare
alla crisi dell’arte contemporanea e al
ruolo propulsivo che avevano avuto nel
settore – da “Civiltà delle macchine”,
all’Italsider di Osti, a Olivetti – le
grandi imprese italiane.
Bene, adesso parliamo della struttura
organizzativa di Palazzo Ducale
La struttura organizzativa è la vecchia
struttura di Palazzo Ducale S.p.A. con
una trentina di persone. È invece
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48
Il Tempietto
cambiata l’organizzazione del lavoro, si
sono ridotte le attività legate alle
competenze specialistiche e sono
aumentate le forme di flessibilità
adeguate alle diverse iniziative, siamo
passati da una struttura di servizio a
una struttura di produzione.
In tutta questa imponente rete di
attività e di qualità, riconosciuta da
tutti gli osservatori, possiamo
enucleare dei filoni, dei fili
conduttori?
Il primo obiettivo che ci siamo proposti
è stato quello di dare un’identità a
Palazzo Ducale. Oggi mi pare che ci sia
uno stile riconoscibile. Gli ingredienti
sono stati l’internazionalità e la
convinzione che esiste una domanda
diffusa di conoscenza e a cui bisogna
tentare di dare risposta. Ci siamo
orientati al tema delle interculture, al
legame tra scienze naturali e filosofia
delle scienze, cultura umanistica e
cultura scientifica. La nostra offerta
varia dalle mostre più specialistiche a
mostre rivolte ad un pubblico più vasto,
a cicli di lezioni, incontri, attività
didattica. Palazzo Ducale è aperto 365
giorni all’anno e quasi ogni giorno c’è
un appuntamento importante. Palazzo
Ducale non è più il “salotto buono della
città”, ma si rapporta a tanti pubblici
diversi. La scommessa sulla quale
siamo impegnati è che la cultura di
qualità deve essere accessibile a tutti.
In che modo i temi della città si
riflettono in queste iniziative?
In modi diversi, per esempio quello di
Mediterranea, che facciamo da tre anni,
coincide con una riflessione non retorica
sulle tante voci del e sul mediterraneo.
La “Storia in Piazza” rimanda alla
necessità che il passato non sia
consegnato all’oblio. È possibile parlare
di Genova direttamente e indirettamente
senza odore del pesto (con tutto il
rispetto del pesto e della sua grande
valenza culturale). Cerchiamo di avviare
una riflessione sulla città provando ad
allargare lo sguardo, a intrecciare i temi
della città con quelli del mondo. Perché
cosi è ormai la nostra vita.
Il programma del 2012 lo abbiamo
costruito insieme a 50 realtà culturali:
dal Cep di Prà al Festival dell’economia
di Trento. Abbiamo inoltre rapporti
organici con associazioni quali il Centro
Primo Levi e il Centro studi Antonio
Balletto, la Fondazione Garrone. Nella
scelta delle persone da invitare non
conta l’appartenenza ideologica o la
notorietà televisiva quanto la capacità di
fornire strumenti di interpretazione del
mondo, di dialogare con il grande
pubblico. Il nostro obiettivo è di
permettere a tutti un supplemento di
informazione e di crescita,
un’opportunità per alimentare
liberamente la propria conoscenza della
realtà. E penso che la città questo lo
abbia sentito.
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Luigi Garbato
già Docente di Lettere
al liceo “D’Oria”
I “Quaderni del Tempietto”
“Ma – bisogna dirlo – gli opuscoli “targati” Tempietto,
dalla dignitosissima e semplice veste grafica,
rappresentano una sorta di esperienza,
per certi versi, unica nel bunker culturale della scuola
italiana perché, da un lato, aprono al confronto gli
alunni in prossimità del traguardo finale e dall’altro
sono la testimonianza di un aggiornamento che dovrebbe
essere il “dovere” di chi insegna troppo spesso ancorato a
schemi esegetici e a una comoda routine, mentre, invece,
la scuola dovrebbe essere ricerca e indagine continue
perché – ci si passi l’espressione consunta, ma sempre
attuale – i grandi della letteratura (e non solo) sono
sempre pronti a parlarci, quando la storia sembra essere
muta o – peggio – tragica”.
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TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 51
Il Tempietto
I “Quaderni del
Tempietto”
Luigi Garbato
Premessa
All’interno delle numerose e
poliedriche attività dei Salesiani nella
“cittadella” di Sampierdarena, al
“Tempietto”, assume – almeno per
me – un particolare e singolare ricordo
la lunga serie di incontri letterari,
filosofici e di varia cultura
specificamente mirati agli esami di
maturità: una sorta di autentico scoop
del solito, vulcanico Don Rinaldini che
aveva colto – almeno secondo noi – un
aspetto degli esami di stato che erano
(e forse ancora sono) sì l’atto finale di
un corso di studi, da sempre – però –
circondato da uno strano alone, un
misto di timori (in primo luogo) e di un
malinteso senso della cultura, fatto di
informazioni acriticamente raccolte,
ahimé contrabbandate per profondo e
puntiglioso sapere: ne citiamo una
diventata proverbiale per la sua
stupidità (il colore delle calze di Lucia
ne I Promessi sposi). A parte il fatto che
tali esagerazioni non erano davvero
leggende in una scuola che giocava le
sue chances non di rado su uno sterile
nozionismo fatto passare per “dottrina”
e che qualcuno giustificava come
l’estremo retaggio dell’“era”
positivistica, diafano fantasma ancora
aleggiante in molti ambiti scolastici.
Anzi tale risvolto – almeno ci pare –
non è ancor oggi del tutto estinto nelle
aule liceali e negli esami di stato.
Insomma spesso si andava (o si va?) a
sostenere la maturità con un pesante
51
fardello di inutili, superflue
conoscenze. E se ci è permesso un
paradosso la prova non di rado indossa
ancora panni da tempo culturalmente
dismessi. Invece – almeno nello spirito
di Gentile che, con la sua riforma,
aveva modificato la monumentale
struttura degli esami – le prove
conclusive delle scuole superiori
avrebbero dovuto (il condizionale è
d’obbligo a causa di pervicaci
resistenze vieux type) configurarsi come
autentico confronto, scambio di idee e
punti di vista ideologici.
I “Quaderni del Tempietto”
A tale prospettiva hanno mirato i
Quaderni del Tempietto, nella profonda
convinzione che l’esame di stato
dovesse essere soprattutto un autentico
dialogo tra esaminatore e candidato,sia
l’uno sia l’altro depositari di una
propria cultura. Di qui l’idea di invitare
nel teatro di Sampierdarena docenti
dalla diversa ideologia e formazione
perché il confronto tra culture, talvolta
ideologicamente opposte, generasse
una problematica e una dialettica
capaci di suggerire ai candidati un
“verbo” alternativo in grado di
suscitare dubbi o confermare –
arricchendole – certezze. E, lo dico con
cognizione di causa, gli insegnanti
(universitari e di scuola superiore)
invitati non sono mai stati “censurati”
guardando alla loro silhouette culturale
e ideologica, ma sempre ascoltati senza
preclusioni e riserve di sorta. Insomma
da tale prospettiva si comprende come
gli agili libretti dalla bianca copertina
(almeno così erano nella prima
“edizione”) costituissero l’autentica
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52
Il Tempietto
controvoce proposta (anche se non
sempre poi verificata nell’opportuna
sede) al bagaglio culturale dei
candidati. Insomma le pagine dei
Quaderni erano il pretesto prima di
tutto per una dialettica che dovrebbe (il
condizionale è d’obbligo) essere sempre
alla base degli esami di stato, anzi
meglio di maturità, termine che la dice
lunga sull’intima essenza (almeno nelle
intenzioni) di tale prova. Ma val la
pena di sottolineare altri risvolti di
questa iniziativa del Tempietto. Intanto
i relatori: hanno risposto all’iniziativa
docenti di ogni “livello” e ideologia:
universitari (segno fin troppo evidente
che il loro fare cultura non è stato, in
questa iniziativa davvero salesiana, un
dialogo tra pochi eletti nel chiuso del
proprio orticello, come spesso succede
in ambiti accademici) e professori di
scuola media superiore; ciascuno con
la propria “ideologia” e cultura, ma
tutti con il convincimento che gli
incontri nel teatro di Sampierdarena
sarebbero stati didatticamente fecondi
con proficui apporti e scambi di idee.
Inoltre va sottolinato che nessuno dei
relatori – almeno credo – si è fatto
pagare. Insomma in occasione dei
rendez-vous nella rossa sala del teatro,
si è toccata con mano la gratuità della
cultura che – ci si permetta un secolare
moralistico appunto – quando è
appigionata perde il suo intrinseco e
autentico valore. In questi termini
l’operazione – Tempietto – (ci si passi
la sigla) appare semplice, ma sempre
gli incontri presupponevano una non
facile gestazione: tanti gli incontri
preliminari con Rinaldini in cabina di
regia, suggeritore di proposte e
obiettore attento, nonché doverosa e
severa (si fa per dire) controvoce nel
discutere le proposte e le scelte, ma
sempre pronto a suggerire
un’alternativa, che veniva a sua volta
discussa o meglio “anatomizzata”,
sviscerata e sottoposta al “fuoco di fila”
di eventuali rilievi; ma non si
dimenticava la dimensione “teatrale”
degli incontri alternando al discorso
critico-didattico letture degli autori
(spesso, anzi solo “grandi”) che
sagacemente interrompessero la
“pesantezza” del flusso criticodidattico con la magìa “in diretta” del
“verbo” poetico. E la “bontà” della
formula scelta per parlare di grande
letteratura alle cinco de la tarde è
dimostrata dal fatto che gli incontri
della sala rossa richiamavano anche
“estranei”, o meglio non studenti,
attirati dalla formula, che doveva
essere un’“esclusiva” per chi si stava
preparando agli esami, ma che si
traformava anche in ricupero, o meglio
aggiornamento per chi voleva risentire
grandi voci lontane, sempre
spiritualmente feconde, se non
“attuali” in una società scandita spesso
da disvalori e gretti interessi.
Tematiche
Alla base – e lo si è detto – ogni
relatore aveva come punto di
riferimento i programmi d’esame.
C’era, quindi, una sorta di vincolo
stimolante e impegnativo a un tempo:
gli argomenti erano mirati alla
letteratura dell’‘800 e del ‘900 e,
almeno nelle intenzioni, dovevano
costituire da un lato un aggiornamento
critico, dall’altro un utile “pretesto”
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Il Tempietto
per un’auspicabile dialettica con la
commissione d’esame; si trattava,
almeno nelle intenzioni, di un
messaggio che non intendeva
contrapporsi a quelli della scuola, ma
corroborarli. E difatti la serie dei
volumi del “Tempietto", per certi versi,
costuisce una sorta di Storia della
letteratura parallela alle lezioni e alla
didattica curriculari con l’intento di
creare-proprio in vista dell’esameun’alternativa in grado di allargare e
approfondire gli orizzonti di una
cultura letteraria (quella europea degli
ultimi due secoli) caratterizzata da una
costante e sofferta ricerca di libertà
spesso soffocata dall’ incombere e
affermarsi di odiose dittature e che ha
finalmente sentito la necessità di non
subire passivamente il diktat di turno
(come drammaticamente è stato), ma di
creare spunti culturali in grado di
allargare orizzonti. Ma di là da tale
prospettiva, i pomeriggi al Tempietto
avevano sempre un marchio salesiano:
c’erano, difatti, tanti giovani che si
trovavano lì non solo spinti dalla
voglia di sapere, ma anche (o
soprattutto) dal desiderio di
aggregazione e di confronto nello
spirito di Don Bosco: un atteggiamento
a suo modo ineffabile, uno stare
assieme e trovarsi tutto particolare. Ma
– bisogna dirlo – gli opuscoli “targati”
Tempietto, dalla dignitosissima e
semplice veste grafica, rappresentano
una sorta di esperienza, per certi versi,
unica nel bunker culturale della scuola
italiana perché, da un lato, aprono al
confronto gli alunni in prossimità del
traguardo finale e dall’altro sono la
testimonianza di un aggiornamento che
53
dovrebbe essere il “dovere"di chi
insegna troppo spesso ancorato a
schemi esegetici e a una comoda
routine, mentre, invece, la scuola
dovrebbe essere ricerca e indagine
continue perché – ci si passi
l’espressione consunta, ma sempre
attuale – i grandi della letteratura (e
non solo) sono sempre pronti a
parlarci, quando la storia sembra
essere muta o – peggio – tragica. Ma
l’ultimo quaderno del Tempietto (il
numero 12) intanto si presenta con una
nuova veste tipografica: i bianchi
libretti che hanno percorso con dovizia
di interventi critici e costanti
aggiornamenti la prepotente
espressione letteraria dell’’800 e del
‘900 cedono il posto – si fa per dire –
a nuovi, suggestivi allargamenti: il
discorso che nelle numerose pagine
dei quaderni cercava di sviscerare (e,
secondo noi, c’è riuscito) un
affascinante panorama letterario si
apre (o si allarga) ad altre prospettive.
Ed ecco che accanto alla letteratura
compaiono nuove dimensioni culturali
che “costringono” (l’unico verbo che
può rendere l’idea) a fare i conti
oltreché con la letteratura, anche con
altre prepotenti dimensioni culturali:
in particolare quella politico-filosofica
europea tesa alla ricerca di una
propria identità. Difatti il frontespizio
abbandona la “famosa”, semplicissima
“pagina bianca” per cedere alla
suggestione della facciata neoclassica
dell’edificio (segno evidente dello
spessore della storia) e anche solo
scorrendo l’indice dell’ultimo dei
Quaderni del Tempietto, ci si rende
conto del nobile travaglio culturale del
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54
Il Tempietto
nostro continente, dell’intenso
evolversi-pur tra tanti intoppi e
tragiche “sconfitte” – del pensiero
europeo, senza mai rinunciare, però,
alla propria identità, anzi
arricchendola proprio con la forza
degli errori che hanno costellato la
complessa storia del “vecchio
continente”; e proprio da sconfitte ed
errori (soprattutto quello
dell’eurocentrismo) muove l’idea di
un’Europa vera individuata in un
intenso e continuo filone culturale con
resistentissime radici all’apparenza
estranee. Difatti, se si scorre anche
soltanto l’indice del nuovo quaderno,
si trovano figure e movimenti culturali
che sembrerebbero a “prima vista”
lontani, ma, a detta di Rinaldini, che
presenta I Venerdì Europei al Tempietto
di Sampierdarena -: “attraverso il
registro filosofico, letterario e artistico
ascolteremo voci lontane e vicine nel
tempo che dicono aspetti qualificanti
della nostra identità culturale da
Socrate a San Tommaso, a Kant, da
Orazio a Dante, a Leopardi;
dall’Acropoli alle cattedrali, all’arte del
razionalismo neoclassico; da un
universalismo “chiuso nell’interesse
egoistico all’universalismo umanistico
aperto alle differenze nell’età della
globalizzazione. Altro elemento
essenziale della nostra civiltà è la
rivoluzione scientifico-tecnica, “un
modello culturale autonomo ed
egemone” esteso a tutto il pianeta, ma
pur sempre europeo”. Quest’ultima
affermazione di Gadamer non deve
essere intesa come il segno di una
pericolosa superiorità, ma quale
programma culturale che affonda
proprio nelle radici del “vecchio”
continente la sua linfa perenne.
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Benito Poggio
già Docente di Lingua e
Letteratura Inglese
al Liceo “D’Oria”
“Tempietto” e “Gazzettino
sampierdarenese”:
due vitali polmoni culturali
Il Centro Culturale “Il Tempietto” e
“Gazzettino sampierdarenese”
due polmoni autentici per la vita culturale
di Sampierdarena;
due realtà che danno tanto al territorio
di Sampierdarena e in cambio non chiedono nulla,
se non l’attenzione e la fedeltà al loro impegno.
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Il Tempietto
“Tempietto” e
“Gazzettino
sampierdarenese”:
due vitali polmoni
culturali.
Il 150° dell’Unità d’Italia a
San Pier d’Arena
Benito Poggio
H
o sempre sostenuto (e
ampiamente dimostrato in più
occasioni: sui “Quaderni del
Tempietto” e sul “Gazzettino
sampierdarenese”) che San Pier d’Arena
è, in tutta autonomia, un’autentica e
attiva fucina culturale di prim’ordine e
lo è, a pieno diritto, per due motivi
principali: perché la Cultura (quella con
la “C” maiuscola) è da sempre
congenita e connaturata nel DNA della
cosiddetta “Piccola Città”, autonoma
fino al 1926, e che è, non lo si
dimentichi mai, del Municio II Centro
Ovest, che comprende anche San
Teodoro, il quartiere più popoloso, tra
tutte quelle che un tempo si chiamavano
“Delegazioni”.
Uno sguardo al passato di San Pier
d’Arena, la vede, nel Cinquecento e
oltre, lussureggiante centro di
villeggiatura per i nobili genovesi che,
progettate da grandi architetti, vi
costruirono le loro sontuose ville, come
La Fortezza, La Bellezza, Villa Scassi e
altre ancora, contornate da giardini che
si prolungavano fino al mare, ricchi di
fontane e giochi d’acqua. Adibite a
scuole, se ne sta tentando oggi un lento
recupero: e costituirebbe un ritorno
57
turistico-artistico encomiabile un circuito
che ne preveda e consenta la visita.
Nell’Ottocento, nel secolo dell’Unità
d’Italia e dell’espansione di attività
commerciali e industriali, San Pier
d’Arena si sviluppa come
prolungamento del porto e come centro
industriale di primaria importanza tanto
da meritare l’appellativo di “Manchester
italiana” e di essere annoverata tra i siti
industriali più produttivi… a scapito,
però, della bellissima e lunga spiaggia
che dal Promontorio di San Benigno si
prolungava fino al Polcevera.
Nella nostra epoca, a 150 anni
dall’Unità d’Italia, la sua funzione è
variata ulteriormente: centri
commerciali e negozi di ogni genere,
uffici e cinema hanno preso il posto
delle fabbriche… dissoltesi, purtroppo,
come neve al sole a causa della
globalizzazione del commercio, della
delocalizzazione delle industrie e della
spietata concorrenza (al ribasso) di altri
paesi.
Nonostante tutto San Pier d’Arena non
merita affatto d’essere sminuita e
considerata o, peggio ancora, trattata
come semplice costola della “Grande
Genova”. Ancor oggi, semmai, è in
grado di gareggiare con “La Superba”,
talvolta superandola, poiché sono
davvero varie e numerose le iniziative in
ogni campo e settore della vita
comunitaria che a San Pier d’Arena,
senza soluzione di continuità, sono
messe in atto e portate avanti dalle varie
organizzazioni e associazioni presenti
sul territorio per lunga tradizione:
culturali, musicali, artistiche, sportive e
di volontariato nei settori più
diversificati.
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58
Il Tempietto
Tra le feconde organizzazioni e
dinamiche associazioni
sampierdarenese – punto fermo e
inalienabile – spicca indubbiamente
l’Istituto “Don Bosco”, voluto e fondato
direttamente dal santo fondatore, San
Giovanni Bosco, che, al suo interno, ha
dato vita e opera da lungo tempo il
Centro Culturale “il Tempietto”,
guidato dal salesiano don Alberto
Rinaldini che ne è animatore e
propulsore primario.
“Il Tempietto”, com’è ovunque noto, si
è rivelato e continua ad essere un
autentico polo d’attrazione che calamita
a San Pier d’Arena centinaia di giovani
e meno giovani provenienti da diversi
paesi del mondo, attira studenti e
docenti da tutte le scuole della città,
richiama in gran numero amanti e
simpatizzanti della cultura a tutto
campo, dando vita a convegni e
conferenze, dibattiti e approfondimenti,
spettacoli teatrali e concerti musicali.
Ma l’attività prevalente e senz’altro più
impegnativa del Centro Cultura “il
Tempietto”, il cui lungo cammino si
protrae da oltre trent’anni, è oggi
indubbiamente costituita dalla
molteplice serie, quella vecchia e
quella rinnovata, dei “Quaderni del
Tempietto”.
Nella nuova serie, ciascun “Quaderno”,
seguito e arricchito con particolare
cura, è stato dedicato ad una particolare
tematica, problematica o accadimento
che ha caratterizzato e improntato il
nostro tempo, come il ‘68, la
Resistenza, il Relativismo, gli
Anniversari. Tra gli anniversari, su tutti:
- nel 2004, in occasione dell’anno che
ha visto Genova-Capitale Europea
della Cultura, fu organizzato un ciclo
di lezioni-conferenza tenute al
venerdì e dedicate in special modo
agli studenti delle scuole superiori.
Tali lezioni-conferenza sono state
raccolte e pubblicate in uno speciale
Quaderno detto “Venerdì Europei”;
- anche se nel 2011 cadeva la
ricorrenza del 150° dell’Unità
d’Italia: 1861-2011, il “Centro
Cultura salesiano” s’era già mosso
per tempo e con congruo anticipo,
impegnandosi nel processo di
avvicinamento all’importante
avvenimento. Ha prodotto, a tale
scopo, una serie di ricche, accurate
e preziose pubblicazioni che, con il
più recente, formano una magnifica
quadrilogìa. Il n. 10 e n. 11sono stati
presentati a palazzo Ducale con
pubblico riconoscimento d’un’opera
davvero utile e meritevole d’ogni
encomio.
Ma chi c’è dietro tutto questo
impegno? e di chi sono il frutto i saggi
e gli studi pubblicati? Sono davvero
tanti – tra cattedratici genovesi e non,
esperti nelle varie discipline e docenti
di scuole superiori della città – coloro
che, generosamente e gratuitamente,
hanno profuso la loro intelligenza e le
loro capacità e continuano
nell’impegno di metterle, senza
esclusioni di sorta, al servizio di tutti
gli altri: è così che il centro Cultura “il
Tempietto” illumina e rende grande
San Pier d’Arena.
E tutto ciò lo fa con l’apporto del
“Gazzettino sampierdarenese”, una
voce giornalistica e di informazione
locale importante che del “Tempietto”
e di ogni altra realtà nel territorio (e ce
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Il Tempietto
ne sono tante!) ha da sempre registrato
l’intensa attività e gli avvenimenti più
significativi, dando loro il dovuto e
meritato impulso.
Tutte le iniziative poste in essere a San
Pier d’Arena trovano degna e ampia
risonanza, vengono sempre fatte
proprie e pubblicizzate da un – mi sia
consentito affermarlo – rinnovatissimo
(e “lanciatissimo”) “Gazzettino
sampierdarenese”, da sempre, ma
ancor più oggi, vero polmone e vera
voce dei Sampierdarenesi tutti,
unitamente e in sintonìa col Centro
Cultura “il Tempietto”.
E i Sampierdarenesi – non solo quanti
a San Pier d’Arena vivono e lavorano,
ma anche quanti (e sono in gran
numero), per le ragioni più varie, si
sono trasferiti lontano dal loro “borgo
natìo”, andando a vivere e lavorare in
altre città e perfino all’estero – sono, e
si mostrano, sentimentalmente attenti e
legati ma consapevolmente fedeli e
affezionati a chi con tanta dedizione
opera per loro: “il Tempietto” e il
“Gazzettino Sampierdarenese”.
Abbiamo detto chi è il solerte
promotore e animatore del
“Tempietto”, e chi è oggi l’eccellente
guida del “Gazzettino
sampierdarenese”? È un giornalista
esperto e di lunga navigazione che
59
risponde al nome di Dino Frambati.
Egli attualmente ricopre, con perizia e
con passione, l’incarico di “direttore
responsabile” e, ad avallare la sua
valentìa, è stato eletto con unanime
consenso alla carica di vicepresidente
dell’Ordine dei Giornalisti. Nella
direzione è affiancato da un abile,
instancabile e capace “redattore
capo”, nella persona di Stefano D’Oria;
ma non si può dimenticare che con i
due collabora un validissimo e
impegnatissimo “Comitato di
redazione” formato da Ezio Baglini,
Roberta Barbanera, Pietro Pero, Sara
Gadducci e Orazio G. Messina, e che,
in aggiunta, tutti possono contare su
un agguerrito e tosto manipolo di
“redattori” (sono tanti e non li
nomino), davvero attivi, sempre in
fermento, refrattari al gossip, ma
sempre pronti a stare sulla notizia e
coglierla quando ne vale veramente la
pena per il bene di crescita culturale
di San Pier d’Arena.
Centro Cultura “il Tempietto” e
“Gazzettino sampierdarenese” due
polmoni autentici per la vita culturale
di Sampierdarena; due realtà che
danno tanto al territorio di
Sampierdarena e in cambio non
chiedono nulla, se non l’attenzione e la
fedeltà al loro impegno.
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Il Tempietto
Centro Culturale
“Il Tempietto”
Un’appendice ai due articoli
precedenti
a cura di Alberto Rinaldini
1. Scuola di Formazione
politica
Nel 1991 al Tempietto nasce la Scuola
di Formazione politica. Un biennio
ricco come ben documentano i tre
volumi della serie politica dei
Quaderni. Il primo corso venne aperto
dell’on Leopoldo Elia ex presidente
della Corte Costituzionale, nel secondo
anno da Ennio Pintacuda con la scorta.
Altre presenze Rosi Bindi e Bartolomeo
Sorge. Docenti sono tutti professori
universitari, esperti a vario titolo.
Nel primo anno gli iscritti erano 120.
Frequentavano il corso dalle 16 alle
17,30.
Si voleva dare la Scienza della
politica, non l’ideologia di questo o
quel partito; intendevamo offrire
strumenti per essere capaci di scelte
motivate… e la scelta personale vuole
conoscenza dell’arte, della sua
struttura e della missione della
politica.
L'interesse si esaurì in due anni, ma
riemerse nel 1995 col formarsi di un
gruppo di giovani laureati e
universitari che con Alberto Rinaldini
si confrontavano con passione
sull’attualità politica. Era il tempo dei
“ribaltoni” politici. Frutto delle nostre
discussioni sulla politica in atto sono
tre piccoli volumi ciclostilati . Fu una
breve stagione. Nel 2001, dopo il
crollo delle Torri Gemelle, il corso di
politica per aiutare i giovani “a capire
il nostro tempo” fu condotto dal prof.
Eugenio Torre.
Il discorso della scuola di formazione
politica collima col fine caro a don
Bosco che nell’educazione vede lo
strumento per fare crescere “onesti
cittadini e buoni cristiani”. E si può
essere buoni cristiani se si è onesti
cittadini… e l’onesto cittadino è
cosciente del portato della
cittadinanza, che richiede conoscenza
del fine e degli strumenti per agire
politicamente.
2. Convegni giovanili
- forum dei giovani
Un modo per rendere protagonisti i
giovani attraverso il confronto e il
dialogo tra loro e con gli adulti. Un
andare a fondo su problemi che la
scuola neppure sfiora.
I 9 convegni affrontavano
problematiche della condizione
giovanile: Il fine: maturare una
conoscenza critica e costruttiva del
proprio tempo per essere protagonisti
(anni '80-90). In sintonia con un
umanesimo che sprizza fiducia nei
giovani ed apre orizzonti di speranza…
tanto caro al “fare” di don Bosco.
Nel 2000 tale prospettiva riprendeva
quota aggiungendo un tocco di
internazionalità. Significativo il tema
del 3° forum del 2004: “Genova: mare
che unisce, città che accoglie”.
Affrontava l’esplosione in
Sampierdarena della immigrazione
massiccia dei latino americani.
I 4 Forum sono stati sponsorizzati
dalla Provincia di Genova.
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Il Tempietto
3. Nel 2004 “Genova capitale
europea della Cultura” il
Tempietto ha vissuto un anno
esaltante
Scrive Benito Poggio nella
presentazione del volume “Venerdì
Europei”.
“Nell'ambito del 2004, che vede
Genova fregiarsi del titolo Capitale
europea della cultura, anche il Centro
Culturale “Il Tempietto”, una tra le
più vive e vitali realtà genovesi, non
poteva esimersi dal promuovere
un'iniziativa tale da implementare un
valore aggiunto al complesso di
iniziative promosse dall’Ente, creato
ad hoc, GENOVA 04”.
Il tema: “le radici culturali
dell’Europa” colte attraverso il registro
filosofico, letterario e artistico nei tre
momenti: classicità, medioevo,
modernità.
61
A questo volume si aggiungono gli atti
di tre convegni di studio: Immanuel
Kant, pesatore attuale; Giorgio La Pira;
Edith Stein, donna europea.
4. La Rivista il “Tempietto"
Segna il momento più alto dell’attività
culturale per visibilità e notorietà in
città e fuori città (vedi Sito
www.iltempietto.it voce Rivista).
Gli ultimi 4 volumi sono uno spaccato
sull’“esperienza Italia” nei suoi 150
anni di vita. Il primo “Oltre il mito del
Risorgimento” è stato stampato nel
2009; il secondo “In vista del 150°
dell’Unità d’Italia” e il terzo “150°
dell’Unità d’Italia” nel 2010; il quarto
“150° dell’Unità d’Italia” e “Fare gli
Italiani” nel 2011. L’ultimo numero,
che vede la luce nello scadere dei
festeggiamenti dei 150 anni dell’Italia
Unita, raccoglie l’apporto dei Salesiani
e di alcuni ordini e/o congregazioni
religiose.
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Luca Beltrami
Dottore di Ricerca presso
la Facoltà di Lettere
dell’Università di Genova
L’“amor patrio” di Dante
negli scritti letterari
di Mazzini
“Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco,
che [...] mandano una voce possente e severa,
come di Profeta, che gridi rampogna alle genti”.
G. Mazzini
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Il Tempietto
L’“amor patrio”
di Dante negli
scritti letterari
di Mazzini
Luca Beltrami
1. Dante «Padre
della Nazione»
Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante
Secolo ei grande austero immoto appare.
Da quegli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Or, vecchio esule, al ciel mite e severo
Levato il volto che giammai non rise,
– Tu solo, – pensa – o idëal, sei vero.
Con questo sonetto, composto nel
febbraio 1872, circa un mese prima
della morte di Mazzini, Giosuè
Carducci tributa un sentito omaggio a
uno dei padri della nazione italiana1.
Ma quali sono i grandi esempi del
passato con i quali Mazzini alimenta il
proprio amore per la patria? Uno di
questi è Dante, l’influenza del quale è
così determinante nel suo pensiero, da
essere citato, insieme a Gracco, nella
sezione centrale del sonetto, nell’ultimo
verso della seconda quartina, ovvero al
culmine tensivo del componimento,
sottolineato dall’enjambement tra la fine
del verso e l’esordio della prima
65
terzina. In seguito all’esaltazione civile
della figura mazziniana, colta in un
atteggiamento statuario e monumentale
che si pone in gara con la
rappresentazione plastica di Cristoforo
Colombo, fino ad allora il genovese più
illustre, Carducci individua proprio
nell’opera del Sommo Poeta la radice
ideologica dell’iniziativa mazziniana,
intenta a rivitalizzare, con la promessa
della «terza Italia», ovvero di una
renovatio delle glorie della Roma
antica e rinascimentale, un popolo
oppresso dal dominio straniero e
giacente tra le rovine dei fasti passati.
La formazione “dantesca” di Mazzini
viene del resto testimoniata in molti
degli scritti lasciati dall’esule ai lettori.
La lunga nota introduttiva al primo
volume degli Scritti editi e inediti,
raccolti da Gino Daelli a partire dal
1861, costituisce una delle prove più
autorevoli del suo “culto” per Dante2.
Lì Mazzini ripercorre le tappe più
significative della propria esistenza
soffermandosi a lungo sui momenti
della gioventù. L’ardente passione per
Foscolo, che lo «infanatichisce» tanto
da far temere alla madre la possibilità
di un suicidio, è la chiave di accesso
per l’impegnata lettura del poeta
fiorentino. Oltre alle Ultime lettere di
Jacopo Ortis, che lo convincono a
vestire sempre di nero per il «lutto
della patria» – ma in questo
atteggiamento c’è forse una certa
«affettazione», come più tardi avrebbe
suggerito un amico di quegli anni come
Giovanni Ruffini3 –, il giovane studente
genovese ammira anche l’opera critica
di Foscolo, che nelle lezioni pavesi
indica nell’impegno civile il vero
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66
Il Tempietto
ufficio del letterato, mentre nel celebre
Discorso sul testo della Commedia di
Dante evidenzia l’aspetto “patriottico”
dell’exul immeritus, contribuendo
all’emancipazione della critica dagli
studi prettamente stilistici, retorici e
filologici sulla Divina Commedia e
sulle opere minori4.
A proposito di queste ultime, Mazzini
avverte più di altri la necessità che esse
vengano studiate con il medesimo
impegno dedicato agli scritti maggiori.
Convivio, De vulgari eloquentia e
Monarchia rivelano infatti alcuni
fondamentali aspetti dell’ideologia
politica di Dante, senza la conoscenza
dei quali la stessa esegesi della
Commedia risulterebbe parziale e
incompleta. Al di là della probabile
impuntatura polemica, l’autore
rintraccia principalmente nella
Monarchia alcune importanti
anticipazioni della sua stessa dottrina e
sostiene persino di avere attinto dal
trattato dantesco quella fede nel
progresso «che contiene in sé la
religione dell’avvenire» rilanciata negli
anni della Restaurazione da Cousin e
Guizot, prima che il loro ingegno si
inchinasse al giogo della monarchia di
Luglio5. L’asserzione, che oggi nessun
critico oserebbe sostenere, assume però
un significato profondo se consideriamo
quanto la fiducia nel progresso della
società umana sia un elemento fondante
dell’ideologia democratica mazziniana.
Appare dunque un dato degno
d’attenzione che Mazzini attribuisca
proprio al Sommo Poeta la paternità di
un concetto così determinante nella sua
visione filosofica della storia, e poco
importa se gli studiosi novecenteschi
abbiano invece dimostrato come l’idea
della perfettibilità indefinita degli
uomini risalga piuttosto al pensiero di
Condorcet e ai filosofi del Settecento
mediati dalla cultura francese
postnapoleonica (si considerino
l’interpretazione di Vico fatta da
Michelet, la traduzione di Herder
allestita da Quinet e la mediazione
eclettica tra Herder e Vico nel Cours di
Cousin).
Considerata l’assidua lettura di Dante
negli anni giovanili («dal 1821 al 1827
aveva imparato a venerare Dante non
solamente come poeta, ma come Padre
della Nazione»6), non sorprende che lo
scritto d’esordio di Mazzini sia proprio
dedicato al poeta che più sentiva affine
ai suoi ideali. Il saggio Dell’amor patrio
di Dante viene composto tra il 1826 e
il 1827, all’epoca in cui l’allora
ventiduenne Mazzini è in procinto di
laurearsi in Legge dopo il biennio
propedeutico in Belle Lettere. Il saggio,
che è una vibrante protesta contro la
secolare mancanza di libertà politica in
Italia, viene audacemente spedito
all’«Antologia» di Firenze. La rivista di
Vieusseux, pur aperta al nuovo gusto
romantico e alle istanze risorgimentali,
non può accettare un articolo in cui
l’interesse letterario assume una
finalità politica così tanto evidente, ed
è costretta a rifiutarne la pubblicazione
per non incorrere nelle pesanti sanzioni
della censura. Lo scritto viene però
conservato dai redattori del periodico
e, più tardi, verrà riscoperto da
Tommaseo, che nel 1837 ne agevolerà
la stampa sul «Subalpino», rimediando
in parte al decennale silenzio
sull’articolo7. Tuttavia, tornando sulla
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Il Tempietto
questione nel 1861, Mazzini stesso
sostiene che «molto a ragione»
Tommaseo non aveva inserito quelle
pagine sull’«Antologia» e rivela che le
aveva «interamente dimenticate»,
prima di trovarle pubblicate, con molta
sorpresa, sul giornale «Subalpino»8.
2. Giulio Perticari e
l’«amor patrio» di Dante
Collocandosi nel pieno del dibattito
critico che negli anni Venti
dell’Ottocento si era aperto sul
sentimento di Dante nei confronti di
Firenze e dell’Italia, Mazzini propone
un’interpretazione civile e patriottica
della sua esperienza biografica e
letteraria che trae origine proprio dalla
critica di matrice foscoliana. Il titolo del
saggio rimanda però, più
immediatamente, al trattato Dell’amor
patrio di Dante e del suo libro intorno al
volgare eloquio, attraverso cui un’altro
importante critico, Giulio Perticari,
aveva cercato di dimostrare come la
rampogna dantesca sui mali della sua
patria fosse dettata in realtà da un
sentimento di profonda commozione
verso la terra natìa, tormentata da una
sorte avversa9. Interpretando l’opera di
Dante alla luce delle vicende
esistenziali dell’autore e delle riflessioni
affidate ai trattati minori, le durissime
invettive della Commedia avrebbero
infatti acquistato un significato più
completo e avrebbero trovato
giustificazione nell’analisi del contesto
storico nelle quali furono proferite.
Il saggio di Perticari, in realtà, si
inserisce nel più ampio contesto della
questione sulla lingua e, difendendo
l’idioma letterario toscano, cerca di
67
combattere il purismo cruscante,
favorevole a un rigoroso ritorno
all’eloquio trecentesco. Pur ponendosi
nell’alveo del classicismo e
appellandosi all’auctoritas di Vincenzo
Monti, che non poco aveva contribuito
alla rinascita degli studi danteschi,
Perticari suscita, con le sue opinioni,
un’aspra polemica10. Rigettando
l’accusa di ingratitudine verso la patria
rivolta a Dante da più parti, il genero
di Monti onora l’Alighieri come «il più
grande cittadino d’Italia, e l’ottimo e
certissimo maestro della nobile nostra
favella»11. Ciò basta per innescare la
diatriba. Tra le prime reazioni si
registra quella contenuta nel numero
del marzo 1821 dell’«Antologia», in
cui il recensore, mostrando una forte
perplessità riguardo alla tesi espressa
da Perticari, sostiene che, quand’anche
fosse dimostrato l’amore di Dante per
la patria, il discorso risulterebbe fuori
luogo nel contesto dello studio sulla
lingua. Nelle pagine centrali del saggio
si segnalano dunque alcuni passi
circostanziati del trattato di Perticari
per verificarne la scarsa tenuta12.
Lo stesso procedimento critico viene
adottato anche in un opuscolo
composto nel 1825 da Niccolò
Tommaseo e intitolato Il Perticari
confutato da Dante13. Confermando
l’opposizione dell’ambiente fiorentino
dell’«Antologia» alle tesi espresse da
Perticari, nella prima sezione del
saggio Tommaseo discute
genericamente sulla questione della
lingua appellandosi alle auctoritates
classiche e volgari, mentre nella
seconda parte passa a confutare le
singole argomentazioni del critico
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 68
68
Il Tempietto
ritenute false o erronee. Il discorso non
esce dall’ambito linguistico, tuttavia,
nell’Appendice pubblicata in calce al
pamphlet, Tommaseo accenna anche
alla tematica civile, sostenendo che
«per riguardo poi all’apologia dell’amor
patrio di Dante, e del suo libro intorno
al volgare eloquio, fu egli confutato
nelle lettere di Panfilo a Polifilo con
prove sì evidenti ed incontrastabili, che
il Perticari, dopo tanta fatica e studio,
ammutolì, né ha mai potuto sciogliere
le difficoltà, né difendere le
incongruenze che sono state rilevate
nell’opera sua»14. Se però seguiamo il
consiglio di Tommaseo e sfogliamo le
Lettere di Panfilo a Polifilo scritte da
Giuseppe Biamonti15, troviamo in
sostanza gli stessi rilievi sulla lingua e
poco o nulla sull’interpretazione
patriottica di Dante, che sembra venire
recepita come un aspetto secondario
della polemica.
Un giudizio più temperato da parte
dell’«Antologia» si legge invece in una
lunga recensione sulle diverse novità
editoriali apparsa sulla rivista nel
maggio 182716. Nonostante il critico
fosse morto già nel 1822, lo strascico
polemico innescato dalle sue opere non
si era ancora del tutto esaurito, tanto
che alcuni letterati si erano opposti
all’iniziativa promossa dal conte Cassi
di erigere un monumento in memoria
dello studioso, da lui considerato uno
dei più acuti filologi danteschi.
Intervenendo sulla questione, il
recensore dell’«Antologia» non manca
di prendere le dovute distanze
dall’autore del trattato sull’Amor patrio
e, ad esempio, dubita «assai che la
severa integrità del gran padre Alighieri
(se per integrità s’intende il contrario
dell’ira sua contro la patria) sia stata da
questo suo studioso rivendicata»17.
Tuttavia a Perticari vengono
riconosciuti impegno e serietà negli
studi nonché qualità morali e bontà
d’animo sufficienti a far sì che «quattro
marmi scolpiti» non sembrino affatto
«un pegno di gratitudine eccessiva»18.
Un tempestivo riconoscimento del suo
magistero viene comunque
dall’ambiente classicista genovese
riunito attorno a Gian Carlo Di Negro,
che il 21 agosto 1825 organizza la
cerimonia per l’inaugurazione del busto
di Perticari nel giardino della sua
celebre Villetta, situata a pochi passi
dall’Acquasola19. In questa occasione
l’iniziativa viene apertamente lodata
dall’«Antologia», che fa eco
all’approvazione già espressa qualche
tempo prima dal «Ricoglitore italiano e
straniero»20. Nonostante
l’atteggiamento benevolo da parte dei
classicisti liguri nei confronti del
genero di Vincenzo Monti, il trattato
sull’Amor patrio viene biasimato senza
troppe riserve dal «Giornale ligustico»,
avamposto del conservatorismo
cattolico locale ispirato dal padre
barnabita Giambattista Spotorno21.
Senza nemmeno accennare alla disputa
linguistica, il recensore focalizza la
propria attenzione sul problema
politico e intende confutare l’asserzione
fondamentale del discorso di Perticari,
ovvero l’idea che Dante non abbia mai
provato ira e odio per la patria,
contrariamente a ciò che aveva
sostenuto Cesari nelle Bellezze della
Commedia di Dante Alighieri. Una
lettura capziosa del commento
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Il Tempietto
foscoliano all’opera dantesca è
sufficiente al critico del «Giornale
ligustico» per smontare la tesi
dell’avversario, infatti «se gli studiosi
vedranno consentire in un medesimo
giudizio e il Cesari e il Foscolo cotanto
dissimili e per gli studj e per l’indole,
ed amendue innamorati di Dante,
avverrà forse che non più si contenda
intorno al vero amor patrio
dell’Alighieri»22. Raccogliendo i vari
rilievi che Foscolo muove a Perticari23,
il recensore riesce quindi a rendere
inattaccabili le proprie osservazioni,
perché apparentemente condivise dal
poeta di Zacinto, autorità indiscutibile
della letteratura dell’epoca, ma anche
principale interprete della poesia civile
e patriottica, cosicché, al cospetto di
tale poeta, «tutta l’ingegnosa operetta
del Perticari apparisce inutile prova di
sagace intelletto»24. Sembra quasi
superfluo sottolineare che la lettura
mazziniana dell’opera di Dante e
Foscolo andrà in direzione
diametralmente opposta.
3. Giuseppe Mazzini e
l’«amor patrio» di Dante
All’epoca della composizione dell’Amor
patrio di Dante, Mazzini è poco più che
un ragazzo fresco di studi letterari.
L’avventura nell’«Indicatore
genovese», l’adesione alla carboneria,
l’arresto, la detenzione al Priamar di
Savona, l’esilio e la fondazione della
Giovine Italia, ovvero le tappe che
costituiranno la svolta decisiva della
sua vita, sarebbero arrivate poco tempo
dopo. Già dallo scritto giovanile
emerge tuttavia un nodo centrale della
sua impostazione critica, ovvero
69
l’intrinseco legame tra letteratura e
istituzioni, da cui scaturisce la
convinzione che ogni discorso letterario
sia anche, necessariamente, politico.
Anzi, ricordando nell’edizione Daelli i
tempi della militanza nell’«Indicatore
genovese», Mazzini sostiene che la
questione letteraria sia sempre
subordinata alla lotta politica, infatti
«l’indipendenza in fatto di letteratura
non era se non il primo passo a ben
altra indipendenza: una chiamata ai
giovani perché ispirassero la loro alla
vita segreta che fermentava giù giù
nelle viscere dell’Italia»25. La poesia
dunque non può prescindere
dall’impegno civile e il suo fine ultimo
non può essere altro che offrire
l’«ispirazione individuale» al servizio
delle più importanti «aspirazioni della
vita collettiva italiana», indirizzando
l’evoluzione di una coscienza sociale
ancora «incerta, indefinita, senza
centro, senza unità d’ideale»26.
L’esordio dell’Amor patrio di Dante è
perciò un vagheggiamento dell’epoca
greca antica, quando i poeti
«consecravano il loro genio all’utile
della patria» contrariamente a quanto
avviene nella modernità, in cui
predomina la figura dell’intellettuale
cortigiano che vende la sua libertà alla
tirannide politica27. Venendo poi alla
polemica sul sentimento di Dante verso
la patria, Mazzini si schiera tra coloro
che considerano il poeta come un
prototipo dell’«ottimo cittadino»,
costretto a rimproverare Firenze e
l’Italia a causa delle avverse
contingenze storiche. Non odio o ira
albergherebbero dunque nelle sue
violente invettive, ma un profondo
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70
Il Tempietto
sdegno esprimibile soltanto con un
vibrante tono di rampogna. L’ufficio
della satira è infatti «santo» laddove
non dia licenza a una volgarità fine a
se stessa, ma sia condotto con la
«severità della virtù» sul modello di
Persio o «colla onesta decenza del
nostro Parini»28. Quelle pronunciate da
Dante sono perciò «parole di fuoco»,
«parole d’alto sdegno, d’iracondo
dolore, di amaro scherno, tali insomma,
che colpir valessero quelle menti
indurate»29.
L’ardore con cui il poeta flagella i vizi
dei suoi contemporanei è dunque il
medesimo che alimenta l’amore per la
patria, ma ciò appare evidente solo
collocando l’opera di Dante nei tempi
in cui l’autore ha vissuto30. Il quadro
della società due-trecentesca è dipinto
da Mazzini a tinte fosche e la civiltà
medievale appare lacerata da
insanabili contrasti, tanto che «sublimi
virtù» si mescolano a «grandi delitti» e
«giganteggian gl’opposti del bello, e
dell’orrido»31. Una tale «irrequieta
fecondità» di energia già all’epoca
avrebbe potuto porre le basi
dell’indipendenza dall’oppressione
straniera, ma la discordia «ingenita
nelle menti italiane», le ambizioni, i
particolarismi e gli interessi privati
delle varie signorie hanno impedito lo
sviluppo di un sentimento unitario per
la patria32.
Di fronte a uno spettacolo funesto di
guerre interne, tradimenti, città e
principati che combattono «a danno
della madre comune», Mazzini constata
come «non possiamo, se non gemere su
questa nostra Italia, che diede sì
miserando spettacolo al mondo»33. Non
si può dunque biasimare Dante, che ha
denunciato la tragica situazione
dell’epoca mosso da sdegno per gli
interessi privati dei potenti e
compassione per le sorti della patria.
Memore della celebre apostrofe
all’Italia del canto VI del Purgatorio,
Mazzini descrive la perenne condizione
di guerra civile, depreca lo stato di
anarchia e rammenta il disprezzo della
legge da parte dei cittadini al tempo
dei Comuni34. «Le leggi erano: ma i
governi erano impotenti a serbarne
intatta l’esecuzione»35: manca cioè chi,
tra papa e imperatore, sia in grado di
porre mano «a la predella» e governare
una contrada fatta «indomita e
selvaggia»36. Se infatti la gente che
dovrebbe «esser devota» cerca
costantemente di usurpare il potere
politico, creando confusione tra
funzione religiosa e aspirazioni
temporali, Alberto «tedesco», ovvero
colui che dovrebbe assumere le redini
del comando, lascia che «’l giardin de
lo ‘mperio sia diserto»37.
Ora, sostiene Mazzini, qualsiasi uomo
sensibile alle «sciagure d’una nazione»
che rivolge furiosamente le proprie
forze «contro i suoi figli, e prepara allo
straniero la via», non può provare se
non «dolore» e piangere su sventure
tanto grandi38. Ma solo poche anime
magnanime riescono più di altre a
interpretare il pensiero collettivo di un
epoca. In ogni periodo storico ci sono
infatti alcuni geni che «comprendono
in un’occhiata la situazione» e, invasi
da uno «sdegno santo», sono in grado
di riassumere in sé l’epoca appena
trascorsa e di presentire quella
successiva. Dante è appunto uno di
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Il Tempietto
loro, e Mazzini descrive in questi
termini il suo ardore polemico:
Ma in tutti i secoli v’hanno delle
anime di fuoco, che non possono
acquetarsi all’universal corruttela,
né starsi paghe d’uno steril silenzio.
– Collocate dalla natura ad una
immensa altezza comprendono in
un’occhiata la situazione, e i
bisogni de’ loro simili; straniere a’
vizi de’ loro contemporanei, tanto
più vivamente ne sono affette; uno
sdegno santo le invade; tormentate
da un prepotente desio di far
migliori i loro fratelli, mandano
una voce possente e severa, come di
Profeta, che gridi rampogna alle
genti39.
In questo modo Dante non viene
soltanto assolto dall’accusa di provare
odio per la patria, ma anzi viene
rilanciato come il «profeta»
dell’identità sociale e culturale italiana.
Le dure invettive della Commedia sono
infatti attualizzate alla luce della
situazione politica contemporanea e,
per Mazzini, parlare di Dante significa
porre le basi di un’ideologia
apertamente risorgimentale e
romantica, dove l’aspetto letterario
assume una finalità politica talmente
manifesta da costringere i redattori
dell’«Antologia» a rifiutare la stampa
dell’articolo. Non a caso lo stesso
lessico dantesco e foscoliano sarà
utilizzato da Mazzini anche per
presentare gli autori a lui coevi e, ad
esempio, descriverà con entusiasmo un
altro interprete della lotta contro
l’oppressione politica come Francesco
71
Domenico Guerrazzi, nel quale il
critico intuirà la scintilla del genio,
appassionandosi al romanzo
“democratico” della Battaglia di
Benevento40.
Pur non negando la durezza della
parola dantesca, Mazzini trova
un’ulteriore giustificazione del tono
satirico nel confronto con altri poeti. Lo
sdegno di Petrarca, ad esempio, è stato
altrettanto fiero. Anzi, se Dante si era
spinto a declassare l’Italia da «donna
di provincie» a «bordello»41, i tre
sonetti babilonesi di Petrarca, nei quali
il poeta non esita a definire «putta
sfacciata» la corte avignonese42,
«superano in ira quanto fu detto mai da
Dante, o da alcun altro poeta»43. È però
nella canzone Italia mia che Petrarca
mostra tutto il suo disprezzo per i
«tirannetti, che laceravano la patria»44.
Del resto la canzone 128 pare essere
ben presente nella memoria di Mazzini,
che nel saggio lamenta gli oltraggi
perpetrati a danno delle «belle
contrade, che sembrano create dalla
natura ad una pace tranquilla ed
eterna»45. Se infatti «belle contrade» è
un evidente lessema petrarchesco, il
topos del territorio italiano difeso
naturalmente dalle Alpi ricorre nella
terza lassa di Italia mia. Nonostante la
benevolenza della natura, l’Italia è però
rovinata dalle ambizioni private dei
principi, che mancano della pietas
necessaria alla sua salvezza. Al Giove
«crucifisso» di Dante che rivolge lo
sguardo altrove46, Petrarca sostituisce
quindi il Cristo fons pietatis che,
proprio in virtù della sua misericordia,
muove gli occhi sul suo diletto «almo
paese»47. Ma il «freno» di Giustiniano,
TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 72
72
Il Tempietto
ovvero il potere politico e legislativo,
vacante ai tempi di Dante, è ora in
mano ai signori locali, che si affrontano
in guerre fratricide appoggiandosi agli
eserciti mercenari, secondo una prassi
ormai consolidata che però indebolisce
ulteriormente le forze in campo, come
descriverà acutamente Machiavelli nel
Principe.
In Petrarca, come in Dante, l’Italia e la
sua capitale designata, Roma, vengono
raffigurate come donne sofferenti, che
patiscono e piangono sulle proprie
lacerazioni interne. Il «bel corpo»
dell’Italia è infatti attraversato da
«piaghe mortali»48, le stesse «piaghe»
che, per Dante, «hanno Italia morta»49
e la Roma di Dante, che «piagne /
vedova e sola» per l’assenza
dell’impero50, costituisce il capo dalle
«trecce sparte» di questo corpo, che
attende di essere svegliato per
rinnovare le glorie di un’Italia ormai
«vecchia, otiosa et lenta»51. Urge
dunque una reazione che non può
prescindere dalla terza rinascita di
Roma. La via politica attraverso cui
possa verificarsi questa renovatio
appare invece dettata dalle contingenze
politiche del momento, tanto che per
Dante la soluzione imperiale sembra
essere l’unica percorribile, mentre
Petrarca, già proiettato nel recupero
umanistico delle fonti classiche,
sembra voler credere, almeno prima
della delusione per la vicenda di Cola
di Rienzo, al mito liviano di una nuova
Roma repubblicana.
È un topos, quello della
personificazione dell’Italia lacera e
livida, che può funzionare anche in
epoca risorgimentale e che viene
recuperato da Leopardi nella canzone
All’Italia. Le divisioni tra gli stati
italiani, il dominio straniero, le guerre
combattute per altri popoli e non per la
causa nazionale sono infatti elementi
ricorrenti nella storia della Penisola e,
sebbene cambino i protagonisti e gli
scenari, il desiderio di libertà e
indipendenza rimane costantemente
inesaudito. Leopardi riprende dunque
l’immagine della «formosissima donna»
offesa da profonde «ferite», stretta su
entrambe le braccia da catene «sì che
sparte le chiome e senza velo / siede in
terra negletta e sconsolata, /
nascondendo la faccia / tra le
ginocchia, e piange»52.
L’evidente posa dantesca della domina
provinciarum in lacrime perché fatta
«ancella» delle potenze straniere53 si
sposa dunque con la lunga tradizione
della canzone civile di matrice
petrarchesca e innesca il doloroso
contrasto tra le virtù del passato e le
miserie del presente su cui si regge
l’intero componimento. Il tributo
leopardiano verso la funzione civile
della poesia dell’Alighieri prosegue poi
nella canzone Sopra il monumento di
Dante, in cui il ritratto scultoreo del
poeta ispira la vibrante esortazione
all’amor patrio: «Amor d’Italia, o cari, /
amor di questa misera vi sproni, / ver
cui pietade è morta / in ogni petto
omai, perciò che amari / giorni dopo il
seren dato n’ha il cielo»54. Nonostante
la profonda diversità d’indole, di
temperamento e di interessi, alcuni
elementi sembrano quindi avvicinare
due intellettuali così distanti come
Mazzini e Leopardi. Sebbene non si
possa dimenticare il giudizio
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Il Tempietto
fortemente critico nei confronti del
poeta recanatese che Mazzini aggiunge
un po’ sbrigativamente al saggio sul
Moto letterario in Italia, dove annovera
l’opera di Leopardi tra gli «sforzi d’un
periodo di transizione che il futuro
cancellerà»55, è altrettanto importante
notare come la ricorrente incitazione
mazziniana a non piangere sulle rovine
del passato se non per fondare il
riscatto politico dell’avvenire, trovi
un’involontaria eco nel congedo della
canzone di Leopardi Sopra il
monumento di Dante, in cui il poeta
invita il «guasto legnaggio» italiano a
farsi da parte qualora non riesca ad
appassionarsi alle sorti della patria:
«mira queste ruine / e le carte e le tele
e i marmi e i templi; / pensa qual terra
premi; e se destarti / non può la luce di
cotanti esempli, che stai? levati e
parti»56.
4. «O Italiani! Studiate Dante»
Il saggio sull’Amor patrio di Dante si
conclude con una digressione sulle
opere minori dell’autore e sulle vicende
biografiche dell’esilio per dimostrare
una volta di più l’attaccamento alla
patria del Sommo Poeta.
L’interpretazione civile e
risorgimentale rende quindi Dante un
apostolo della futura nazione italiana.
Di conseguenza l’appello ai giovani a
leggere i suoi scritti suona come una
chiamata alle armi nella contesa
letteraria e sociale: «O Italiani!
Studiate Dante; non su’ commenti, non
sulle glosse; ma nella storia del secolo,
in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle
sue opere»57.
Per comprendere in pieno la posizione
73
ideologica di Mazzini e il suo radicale
distacco dalla critica erudita su Dante
occorre però considerare un ulteriore
passaggio. Un’importante chiave
interpretativa del pensiero mazziniano
è offerta dall’ampio saggio sul Moto
letterario in Italia, pubblicato nel 1837
in inglese sulla «London and
Westminster Review» e tradotto in
italiano dall’autore per la raccolta
Daelli negli anni Sessanta. In questa
sede Mazzini sostiene che il principale
artefice del rinato «fervore dantesco»,
nonché «l’iniziatore del nuovo sviluppo
dell’intelletto italiano» sia Ugo Foscolo,
che nei duri anni dell’esilio inglese,
nonostante la povertà e la salute
inferma, si era impegnato con
dedizione alla critica letteraria
pubblicando, tra l’altro, un commento
alla Divina Commedia rimasto però
incompleto58.
Gli «infiniti volumi» sul tema si sono
infatti impaludati nelle questioni
filologiche e antiquarie, mentre Foscolo
è stato il primo a studiare in Dante «il
patriota e il riformatore»59. Pur
prigioniero di una filosofia «nudrita di
sconforto e di scetticismo», figlia dei
tempi in cui ha vissuto, l’autore
dell’Ortis ha cercato in Dante «il
grande cittadino, il pensatore profondo,
il vate religioso, il profeta della
nazionalità, dell’Italia»60.
Per una curiosa storia di esuli che si
rincorrono e si riconoscono in una
ideologia comune, gli studi londinesi di
Foscolo sull’exul immeritus vengono
riscoperti proprio da Mazzini durante il
suo soggiorno inglese, iniziato tra varie
difficoltà nei primi mesi del 1837 in
compagnia di Angelo Usiglio, Agostino
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74
Il Tempietto
e Giovanni Ruffini. Il ritrovamento dei
manoscritti presso il libraio Pickering e
l’acquisto delle carte con l’aiuto di
Quirina Magiotti Mocenni e dell’editore
Pietro Rolandi permette quindi a
Mazzini di completare il lavoro
foscoliano e pubblicare un’edizione del
commento più ampia ed emendata
dagli errori61. La prefazione composta
dall’esule per l’occasione insiste
dunque sull’esigenza di riproporre un
testo più corretto rispetto alle
precedenti edizioni di Pickering e di
Ruggia e dà merito alla generosità di
Rolandi che si avventura in «forti
spese di stampa, dalle quali egli forse
non ritrarrà che l’onore d’averle
affrontate»62. La pubblicazione del
commento dantesco – come quella
degli Scritti politici inediti, in cui
Foscolo ribadisce «la connessione delle
lettere col viver civile»63 – è tuttavia
un «debito sacro» verso gli Italiani che
non può arrestarsi di fronte alle
difficoltà economiche64. Recuperando
quasi alla lettera quanto aveva già
scritto nel Moto letterario in Italia,
Mazzini ribadisce come Foscolo, per
primo, abbia condotto la critica «sulle
vie della storia» e abbia intravisto in
Dante «l’apostolo religioso» e il
«profeta della nazione»65.
Foscolo, però, non è stato un «sacerdote
di Dante» poiché l’epoca in cui ha
vissuto non gli ha consentito di avere
fede «in una poesia nazionale»66.
Tuttavia il suo merito è indiscutibile,
perché egli ha dato impulso agli studi su
una «grande anima» che, «più di cinque
secoli addietro», «ha presentito
l’Italia»67. Promuovendo il suggerimento
foscoliano a leggere Dante anche alla
luce della sua esperienza biografica e
politica, Mazzini propone di avvicinarsi
al poeta fiorentino cominciando «dalla
vita» e «dall’Opere Minori» per
«conchiudersi» infine «intorno alla
Divina Commedia»68. Del resto già nel
saggio sull’Amor patrio l’autore aveva
incitato la lettura del De vulgari
eloquentia, dove Dante aveva cercato un
fondamento comune per la nascente
lingua italiana, del Convivio, in cui «egli
si pronunzia con entusiasmo campione
della favella italiana volgare», e della
Monarchia, in cui «mirò a congiungere
in un sol corpo l’Italia piena di divisioni,
e sottrarla al servaggio, che allora
minacciavala più che mai»69.
Negli anni successivi alla
pubblicazione dell’esegesi foscoliana,
Mazzini dimostra di seguire con
coerenza questa impostazione critica, e
nel 1844 pubblica sulla «Foreign
Quarterly Review» un lungo articolo
sulle Opere minori di Dante, che prende
spunto dalle principali novità editoriali
della critica ottocentesca sulla biografia
e gli scritti del poeta70. Il saggio,
caratterizzato da una complicata
vicenda compositiva che impegna
l’autore fin dal 184071, ribadisce la
centralità del commento di Foscolo,
purtroppo ancora ignorato da molti
critici, e interpreta la proposta dantesca
dell’accentramento del potere imperiale
a Roma come un’anticipazione dell’idea
di nazione, tanto da spingersi a
dichiarare che «al di là del guelfismo e
del ghibellinismo ei vide l’unità
nazionale italiana; al di là di Clemente
V e d’Arrigo VII ei vide l’unità del
mondo e il governo morale di
quell’unità nelle mani d’Italia. E non
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Il Tempietto
abbandonò mai quell’idea»72. La lettura
mazziniana di Dante è ormai totalmente
politica e tende a far coincidere l’amor
patrio del poeta fiorentino con quello
dei rivoluzionari e dei proscritti del
tempo di Mazzini. Partendo da questi
presupposti, l’autore dell’articolo può
quindi esclamare che «il pensiero che
fremeva in Dante più di cinque secoli
addietro è lo stesso ch’oggi freme
inviscerato nell’epoca»73.
La riabilitazione civile e patriottica di
Dante è ormai funzionale a un preciso
progetto politico e il padre della poesia
italiana diventa davvero il profeta della
nazione di fronte agli occhi dei giovani
mazziniani. Il Dante di Mazzini
propugna infatti una nobile «idea di
grandezza nazionale» che «rifulge da
ogni pagina e da ogni detto». Insomma,
«nessuno amò la patria di più sublime
e fervido amore; nessuno intravvide per
essa fati più solenni e gloriosi»74.
La stessa forzatura ideologica della
figura dantesca emerge anche in uno
scritto rivolto agli operai italiani e
intitolato semplicemente Dante.
Nell’articolo, pubblicato
sull’«Apostolato popolare» nel 184175,
Mazzini individua ancora una volta
nell’amor patrio la principale virtù del
poeta, al quale attribuisce gli stessi
ideali politici che animano la sua
battaglia. Il ritratto di Dante diviene
quindi quello di un intellettuale che usa
la «penna» come se brandisse una
«spada» in difesa del «popolo»,
considerato l’«elemento della nazione
futura»76. Il «pensiero predominante»
75
nella mente del poeta sarebbe stato
addirittura quello dell’«unità italiana»,
sebbene la visione politica dei suoi
contemporanei non andasse «più in là
dell’idea di Comune»77. Il pensiero di
Dante ormai si confonde con quello di
Mazzini, che sembra quasi alludere a se
stesso quando sostiene che la «patria»
per il poeta fiorentino fosse «una
religione»78, mentre la costruzione del
suo profilo civile prosegue con la
celebrazione dell’esilio, che era già stata
abbozzata nell’Amor patrio, prima che il
destino facesse provare anche a Mazzini
«come sa di sale / lo pane altrui»79.
In conclusione è forse il caso di
ricordare i versi con cui Carducci
riconosce il peso di Dante
nell’ideologia politica e letteraria
mazziniana. Il ritratto del pensatore
che scruta le forme della «terza Italia»
nel «ciel crepuscolare» trova infatti
conferma nelle parole con cui Mazzini
descrive Dante morente,
«infelicissimo, ramingo, mendico», ma
confortato dalla «credenza che l’Italia
sarebbe un giorno nazione e direttrice
una terza volta dell’incivilimento
europeo»80. Il congedo dell’articolo è
quindi un grido di speranza affinché in
una Roma finalmente «capitale
dell’Italia» e centro politico
indipendente venga innalzata una
statua dedicata «al Profeta della
Nazione Italiana» dagli «Italiani degni
di lui»81. Il cammino per l’unità e
l’annessione di Roma però sarebbe
stato ancora lungo, e non esattamente
quello vagheggiato da Mazzini.
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Il Tempietto
Note
1 Giosuè Carducci, Giuseppe Mazzini, in
Giambi ed epodi, libro II, sonetto XXIII.
2 Giuseppe Mazzini, Scritti editi e inediti
[d’ora in poi citato SEI], I (Politica I),
Milano, Daelli, 1861, pp. 13-54.
3 Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni. Or
passages in the life of an Italian,
Edimburgo, Constable and Co., 1853, qui
citato in traduzione italiana nell’edizione a
cura di Martino Marazzi, Genova, De
Ferrari, 2005, p. 178.
4 La funzione civilizzatrice della letteratura è
al centro dell’orazione inaugurale al corso
pavese del 1809 di Foscolo, ora raccolta
insieme alle altre lezioni in Ugo Foscolo,
Orazioni e lezioni pavesi, a cura di Andrea
Campana, Roma, Carocci, 2009, pp. 81122. Su Dante: Id., Discorso sul testo della
Commedia di Dante, in La Commedia di
Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo,
Londra, Pickering, 1825.
5 Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 30.
6 Ivi, p. 17.
7 Id., Dell’amor patrio di Dante, in
«Subalpino», a. II, vol. I (1837), pp. 359385, poi in Scritti editi ed inediti [Edizione
Nazionale, d’ora in poi Scritti], I
(Letteratura I), pp. 3-23.
8 Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 17.
9 Giulio Perticari, Dell’amor patrio di Dante
e del suo libro intorno al volgare eloquio,
Lugo, Melandri, 1822 (ma già nel II volume
del 1820 della Proposta di alcune correzioni
ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di
Vincenzo Monti).
10 Si veda a riguardo Pantaleo Palmieri, Il
dantismo di Mazzini (tra Perticari e
Foscolo), in «Italianistica», XXXV, 3,
2006, pp. 87-95. Tra i principali studi
moderni sull’interpretazione mazziniana di
Dante si rimanda Mario Scotti, Dante nel
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
pensiero di Mazzini, in Mazzini e il
mazzinianesimo, Atti del XLVI Congresso
di Storia del Risorgimento italiano, Genova,
24-28 settembre 1972, Roma, Istituto per
la Storia del Risorgimento italiano, 1974,
pp. 563-578; Luigi Russo, La nuova critica
dantesca del Foscolo e del Mazzini, in
«Belfagor», IV (1949), pp. 621-637;
Salvatore Battaglia, L’idea di Dante nel
pensiero di G. Mazzini, Napoli, Centro
napoletano di studi mazziniani, 1966.
Alcuni accenni alla ricezione dantesca in
Monti e Foscolo si trovano invece in
Filippo Bettini, Monti e Foscolo, in
«L’Indicatore genovese», 26-27 e 31, 31
ottobre, 8 novembre e 6 dicembre 1828,
pp. 98-99, 103 e 118-119.
Giulio Perticari, Dell’amor patrio di Dante,
cit., p. 6.
Appendice critica all’opera del Sig. Giulio
Perticari [...], in «Antologia», t. I, n. III,
marzo 1821, pp. 323-384.
Niccolò Tommaseo, Il Perticari confutato da
Dante, Milano, Sonzogno, 1825.
Id., Appendice all’opuscolo Il Perticari
confutato da Dante o sia Risposta di N.
Tommaseo ad un articolo della Biblioteca
Italiana, in Ivi, p. 25.
Giuseppe Biamonti, Lettere di Panfilo a
Polifilo, Firenze, s.n., 1828.
«Antologia», t. XXVI, n. LXXVII, maggio
1827, pp. 75-76.
Ivi, p. 76.
Ibidem.
Per l’occasione Di Negro compone anche
l’opuscolo poetico Per l’inaugurazione del
busto di G. Perticari [...], Genova, s.n., 1825.
«Antologia», t. XXII, n. LXVI, giugno 1826,
pp. 110-111; «Ricoglitore italiano e
straniero», a. II, parte I (1835), pp. 463-465.
Del libro di Giulio Perticari intitolato
L’Amor Patrio di Dante, in «Giornale
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ligustico», a. II, fasc. V, settembre-ottobre
1828, pp. 483-488.
Ivi, p. 483.
La Commedia di Dante Alighieri illustrata
da Ugo Foscolo, cit., pp. 207-219.
Del libro di Giulio Perticari intitolato
L’Amor Patrio di Dante, in «Giornale
ligustico», cit., pp. 485-486.
Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 20.
Ivi, p. 18.
Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I
(Letteratura I), p. 3.
Ivi, p. 12.
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 7: «A’ tempi dunque è d’uopo
guardare per conoscere, se il linguaggio
d’uno scrittore è tale, che possa dirsi
spirato dall’affetto della sua patria,
conveniente cioè alla situazione in che
questa giace».
Ivi, p. 8.
Ibidem.
Ivi, p. 10.
Si vedano Purg., VI, 82-84: «e ora in te
non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un
l’altro si rode / di quei ch’un muro e una
fossa serra» e 88-96, in cui si lamenta il
mancato rispetto delle leggi di Giustiniano,
necessario «freno» all’indomita Italia «fatta
fella / per non esser corretta da li sproni».
Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I
(Letteratura I), p. 10, ma si veda Purg.,
XVI, 97: «le leggi son, ma chi pon mano ad
esse?».
Purg., VI, 94-99.
Purg., VI, 91-105.
Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I
(Letteratura I), p. 11.
Ibidem.
Si veda la recensione di Mazzini alla
Battaglia di Benevento in «L’Indicatore
genovese», 16-17, 23 e 30 agosto 1828, pp.
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59 e 62-63, poi in Scritti, I (Letteratura I),
pp. 75-85.
Purg., VI, 78.
Francesco Petrarca, Rvf, 138, v. 11.
Giuseppe Mazzini, Dell’amor patrio di
Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 16.
Ibidem.
Ivi, p. 10.
Purg., VI, 118-120.
Francesco Petrarca, Rvf, 128, v. 9.
Ivi, vv. 2-3.
Purg., VII, 95.
Purg., VI, 112-113.
Francesco Petrarca, Rvf, 53, vv. 12-21.
Giacomo Leopardi, All’Italia, in Canti, I,
8-20.
Ivi, I, 24, su cui si veda Purg., VI, 78:
«non donna di provincie, ma bordello».
Giacomo Leopardi, Sopra il monumento di
Dante, in Canti, II, 35-39.
Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia,
in Scritti, VIII (Letteratura II), p. 369.
Giacomo Leopardi, Sopra il monumento di
Dante, in Canti, II, 192-196.
Giuseppe Mazzini, Dell’amor patrio di
Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 22.
Id., Moto letterario in Italia, in Scritti, VIII
(Letteratura II), p. 357. Sull’impegno
dantesco di Foscolo si veda la già citata
Commedia di Dante Alighieri illustrata da
Ugo Foscolo.
Id., Moto letterario in Italia, in Scritti, VIII
(Letteratura II), p. 357.
Ibidem.
La Commedia di Dante Alighieri illustrata da
Ugo Foscolo, Londra, Rolandi, 1842-1843.
La prefazione mazziniana si legge ora con il
titolo di Commento foscoliano alla «Divina
Commedia», in Scritti, XXIX (Letteratura
V), pp. 33-47. La citazione ricorre a p. 41.
L’introduzione di Mazzini all’edizione
luganese degli Scritti politici inediti
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Il Tempietto
foscoliani si trova in Scritti, XXIX
(Letteratura V), pp. 159-180. La citazione
ricorre a p. 161.
Giuseppe Mazzini, Commento foscoliano
alla «Divina Commedia», in Ivi, p. 47.
Ivi, p. 46.
Ivi, p. 45.
Ivi, p. 44.
Ivi, p. 43.
Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I
(Letteratura I), pp. 17-18.
L’articolo, uscito sulla «Foreign Quarterly
Review», XXXIII, aprile 1844, pp. 1-30, è
ora raccolto in Scritti, XXIX (Letteratura
V), pp. 183-282.
71 Si veda l’Introduzione a Ivi, pp. LIV-LX.
72 Giuseppe Mazzini, Opere minori di Dante,
in Ivi, p. 258.
73 Ivi, p. 192.
74 Ivi, pp. 234-235.
75 Id., Dante, in «Apostolato popolare», III,
15 settembre 1841, poi in Scritti, XXIX
(Letteratura V), pp. 3-15.
76 Ivi, pp. 5-9.
77 Ivi, p. 9.
78 Ivi, p. 10.
79 Par., XVII, 58.
80 Giuseppe Mazzini, Dante, in Scritti, XXIX
(Letteratura V), p. 4.
81 Ivi, p. 15.
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Seconda Parte
Fare gli Italiani
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Paola Ruminelli
già segretaria
Associazione Filosofica Ligure
Cattolicesimo e Umanesimo
“Furono Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini
a pensare l’Italia come entità morale,
che richiedeva una determinazione politica,
in nome di condivisi valori di civiltà.
Valori cristiani efficacemente vissuti e diffusi
in tutta Europa fin dal Medioevo attraverso l’opera dei
religiosi, dai monaci benedettini ai monaci ortodossi,
ma in Italia anche efficacemente saldati sulla cultura
romana erede di civiltà dal mondo ellenico.
Un intreccio di culture e di pensiero,
che si fonda sull’evidenziazione dell’umano e
che ha trovato la sua radice
nella figura del Salvatore, Uomo divino”.
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Il Tempietto
Cattolicità e
Umanesimo
Paola Ruminelli
e celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia hanno visto la
Chiesa tra i promotori più attenti
al valore della ricorrenza. Il messaggio
del Papa Benedetto XVI, indirizzato al
Presidente della Repubblica italiana e
consegnato dal Segretario di Stato
Cardinale Tarcisio Bertone, indica il
grande interesse del Pontefice alla storia
della nazione italiana che “ha sempre
avvertito l’onere ma nel tempo stesso il
singolare privilegio dato dalla situazione
peculiare per la quale è in Italia, a
Roma la sede del successore di Pietro e
quindi il centro della cattolicità”. Il
Papa sottolinea anche come l’identità
nazionale degli italiani sia sempre stata
radicata nelle tradizioni cattoliche tanto
da costituire “la base più solida della
conquistata unità politica”. Di tale
identità, che è un fattore primariamente
culturale, lo stesso Pontefice ha
sottolineato il carattere cattolico
riferendosi non solo all’opera della
Chiesa con le sue iniziative educative
ed assistenziali, ma anche all’interesse
alla attività artistica nella letteratura,
nella pittura, nella scultura e nelle
esperienze di santità quali quelle di San
Francesco d’Assisi e di Santa Caterina
da Siena. Inoltre i cattolici hanno
partecipato attivamente alla formazione
della coscienza nazionale con il
contributo di molti intellettuali quali
Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini,
Alessandro Manzoni, proprio nel
periodo della unificazione politica.
L
83
Del pari il cardinale Angelo Bagnasco,
invocando la benedizione per l’Italia
nella Messa voluta dalla Chiesa
italiana per celebrare i 150 anni
dell’unità in Santa Maria degli Angeli
alla presenza delle più alte autorità
dello Stato, ha parlato della Patria, che
ha un volto che si è forgiato attraverso
secoli di storia, che ci permette di
conoscerci, di stimarci e di lavorare
per gli stessi obiettivi, costituendo un
popolo, un tesoro da trasmettere alle
nuove generazioni che richiede di
essere continuamente rivissuto e
ricreato.
Purtroppo la storia della nascita dello
Stato unitario italiano è stata costellata
da eventi drammatici e da laceranti
contrasti. Studi recenti hanno
evidenziato la portata della
contrapposizione tra Stato e Chiesa, tra
la sensibilità cattolica molto diffusa a
livello popolare e le correnti laiciste
minoritarie ma sostenute dall’appoggio
delle grandi potenze quali la Francia,
da cui proveniva fin dal tempo di
Napoleone il giacobinismo
rivoluzionario, e dall’Inghilterra. È
noto come il Regno di Sardegna avesse
preso provvedimenti legislativi
anticattolici, confermati ed estesi al
regno d’Italia per volontà del Cavour
quali la soppressione di ordini religiosi
e la confisca dei beni ecclesiastici,
l’espulsione di religiosi e di religiose
dai conventi e sono noti i fatti politici
che segnarono il declino del governo
papale, quali la Repubblica romana, la
sconfitta dei papalini a Castelfidardo,
la Breccia di Porta Pia e la fine del
potere temporale della Chiesa. In
questa situazione si creò una forte
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84
Il Tempietto
tensione tra i cattolici ed il nuovo
Stato, tensione che culminò nel divieto
ai cattolici di partecipare alla vita
politica. In realtà se l’assenza dei
cattolici dal gioco parlamentare finì
con il favorire l’anticlericalismo
politico, i cattolici furono sempre
presenti nel tessuto sociale e, sostenuti
anche dall’enciclica di Leone XIII
Rerum novarum, sempre attenti ai
bisogni dei più deboli. Basti pensare ai
don Bosco, don Guanella, don Orione
e alle suore della Cabrini, che si sono
sempre adoperati con impegno
instancabile ed a titolo del tutto
gratuito là dove mancava
completamente l’iniziativa dello Stato.
È impensabile parlare di unità italiana
senza far riferimento al contributo dei
cattolici al processo di unificazione,
contributo che ha trovato peraltro il
suo riconoscimento con il Concordato
tra Stato e Chiesa del 1929 e con la
revisione dello stesso nel 1984.
D’altra parte se guardiamo alla storia
della penisola italiana non possiamo
fare a meno di ammettere come il
cattolicesimo sia saldamente legato a
tale storia a cominciare dalla Roma
imperiale, in cui morirono martiri della
fede San Pietro e San Paolo e in cui si
succedettero i Papi, a capo della
Chiesa come corpo di Cristo, ora in
buoni rapporti con il potere politico
ora in lotta per le investiture ora in
urto con gli altri stati della penisola.
Una storia quella d’Italia fatta da genti
diverse a partire dai tempi lontani
della colonizzazione greca sulle coste
dell’Italia meridionale e in Sicilia fino
ai tempi del Medioevo con le invasioni
degli ostrogoti, dei longobardi, dei
franchi, dei germani nelle regioni del
nord, dei bizantini, dei saraceni, dei
normanni, degli svevi a Sud. Genti
diverse che tuttavia hanno raggiunto
una unità culturale e non solo perché
insediati in una regione
geograficamente definita nei suoi
confini dalle Alpi e dal mare, ma
perché frutto di una comunanza di
cultura e di condivisi interessi
spirituali. Furono Dante, Petrarca,
Machiavelli, Guicciardini a pensare
l’Italia come entità morale, che
richiedeva una determinazione
politica, in nome di condivisi valori di
civiltà. Valori cristiani efficacemente
vissuti e diffusi in tutta Europa fin dal
Medioevo attraverso l’opera dei
religiosi, dai monaci benedettini ai
monaci ortodossi, ma in Italia anche
efficacemente saldati sulla cultura
romana erede di civiltà dal mondo
ellenico. Un intreccio di culture e di
pensiero, che si fonda
sull’evidenziazione dell’umano e che
ha trovato la sua radice nella figura
del Salvatore, Uomo divino.
Alla base dell’Umanesimo del
Quattrocento, che è stato l’ultima
grande conquista del pensiero latino e
che si è diffuso in tutta Europa, vi è
ancora l’idea giudaica-cristiana che
all’uomo è stata conferita da Dio la
possibilità di agire sulla natura e la
libertà di costruire la sua vita.
Dall’Umanesimo ha avuto l’avvio il
mondo moderno, che ha trovato nella
cultura ereditata dal razionalismo
greco e dallo spirito pratico dei
romani, il supporto per rilanciare il
valore dell’umano ingegno in grado di
produrre scienza e tecnica, di fondare
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Il Tempietto
istituzioni civili e di sviluppare la
storia. L’autonomia dell’umano, avviato
dall’Umanesimo, attraverso
l’esaltazione della ragione e dello
spirito nell’Illuminismo e nel
Romanticismo, ha però avuto come
esito nel post-moderno l’affermarsi di
un relativismo e di un materialismo,
che hanno finito con il contraddire i
presupposti stessi della esaltazione
umanistica. L’uomo è oggi ridotto a
prodotto del processo evolutivo,
negandone ogni eccedenza sulla realtà
biologica e, dopo le scoperte della
genetica, affermandone la possibilità
di manipolazione sin dallo stadio
embrionale. Malgrado la
proclamazione dei diritti umani in
ambito internazionale di fatto all’uomo
del post-moderno non è riconosciuta
alcuna specificità che lo differenzi
dagli altri viventi. L’unica prerogativa
attribuitagli è quella di poter
costituirsi in assoluta libertà senza
limiti valoriali, che ne indirizzino il
comportamento, unicamente motivato
da impulsi sensibili, secondo un
individualismo, che nega la spinta di
superiore razionalità che pur è
intrinseca ad ogni vivente umano. I
fasti dell’Umanesimo che letterati,
filosofi e artisti avevano celebrato nel
Rinascimento, sono stati sostituiti
dalle notizie giornalistiche, che ogni
giorno informano sui progressi della
scienza, capace di cambiare il corso
dei processi naturali, dimenticando
che il progresso è certamente un bene
se riesce ad armonizzarsi con le leggi
della natura, di fronte alla quale anche
la più ardita tecnologia si rivela
impotente.
85
Di qui l’urgenza di un nuovo
Umanesimo, un Umanesimo non più
fiducioso di poter esercitare in maniera
immediata un equilibrato dominio della
realtà, ma consapevole, come gli spiriti
più avvertiti da Pascal a Leopardi ci
hanno insegnato, della grandezza ed
insieme dei limiti dell’umano. Un
Umanesimo provato dalla drammatica
storia di generazioni, che sono cadute
nell’inganno di spietate dittature che
hanno portato rovina e guerra, un
Umanesimo che si renda conto del
significato distruttivo di uno sviluppo,
che prescinde dai valori con il rischio
di portare l’umanità sull’orlo del
baratro dell’autodistruzione. Forse
proprio qui in Italia, la patria di una
cultura che ha saputo confrontare la
grandezza dell’uomo con quella del
cosmo, è ancora avvertibile la
sollecitazione alla ricostruzione di tale
nuovo umanesimo come piena
realizzazione della nostra innata
vocazione al trascendimento del livello
fisico, come universale armonia tra
tutti gli umani e tra gli umani e la
natura. È difficile peraltro pensare che,
a differenza dell’età dell’Umanesimo
quattrocentesco caratterizzata da
sfarzose corti principesche, il nostro
paese, a così alto debito pubblico e
sottoposto a ricorrenti crisi politiche ed
economiche, possa avere ancora
qualcosa da offrire al mondo. Ma
l’unità d’Italia sta sempre ancora
realizzandosi e questo processo ci deve
vedere uniti proprio in nome di quella
cultura, che si è forgiata nei secoli
attraverso la varietà delle genti e delle
vicende storiche e ha maturato frutti di
civiltà e di cultura che arricchiscono il
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86
Il Tempietto
genere umano. Il messaggio di un’alta
umanità, serenamente conciliata con sé
stessa e con la natura, è custodito
ancora qui nella cattolicità, che vede in
Cristo, vero Dio e vero Uomo, la
realizzazione perfetta dell’umanità, di
cui la Chiesa rappresenta la continuità
sulla terra. Tale messaggio può ancora
rivelarsi come la forza capace di
risvegliare l’uomo a sé stesso, di
suscitare anche nel nostro tempo,
attraversato da spinte scettiche e
provato da tentazioni nichiliste, il
coraggio di ritrovare la propria dignità
per un Umanesimo, potenziato dal
progresso scientifico, ma insieme
umilmente cosciente della sua
condizione creaturale.
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Alberto Rinaldini
già docente di Storia e Filosofia
nel liceo Mazzini
Don Bosco e i Salesiani nei 150
anni di vita unitaria del Paese
“Il progetto educativo di don Bosco era (ed è tuttora) quello di formare “buoni
cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo”.
Esso quindi pone esplicitamente la politica al terzo posto, dopo la religione e la
morale. È un progetto che coinvolge nell’opera educativa la scuola, la cultura e il
tempo libero, attraverso una sequenza ben sintetizzata dalla regola dell’oratorio
salesiano (all’epoca il primo approccio con i giovani): amore, lavoro, frequenza dei
sacramenti, rispetto dell’autorità, fuga dalle cattive compagnie.(…)
È una missione che inizia nell’oratorio di Valdocco, dopo l’incontro con i primi
ragazzi raccolti in strada e avviati a pregare, studiare e lavorare,
secondo quello che diventerà il modello salesiano: ottimismo e allegria,
fiducia nella Provvidenza e impegno nella solidarietà e nella formazione civile e
professionale accanto a quella religiosa, educazione al lavoro, all’eguaglianza,
al rispetto della dignità propria e altrui.
La missione assunse il significato di una vera e propria rivoluzione sociale,
quando (dopo la realizzazione di laboratori di calzoleria, sartoria, legatoria,
falegnameria, tipografia e fabbro ferraio) don Bosco predispose e sottoscrisse alcuni
fra i primi contratti di apprendistato in Italia. A introdurre una disciplina e una
tutela del lavoro minorile, sino ad allora vergognosamente sfruttato”.
Giovani Maria Flick
ex allievo di Sampierdarena
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Il Tempietto
Don Bosco e i
Salesiani nei 150
anni di vita
unitaria del Paese
Alberto Rinaldini
1. La Rivista e i 150 anni
dell’Italia.
Alla vigilia del 150° dell’Unità d’Italia la
nostra Rivista si poneva varie domande.
Alcune hanno trovato risposta
confermando quanto avevamo scritto
nella rivisitazione della storia unitaria
del Paese. Molte voci – con e oltre agli
addetti ai lavori – infatti si sono levate
avviando una sana revisione sul
Risorgimento e i “suoi eroi”
ripercorrendo i principali momenti del
percorso unitario.
La nobiltà di intenti dei molti che
hanno portato a termine l’unità politica
dell’Italia ne è uscita più nitida anche
per l’emersione delle ombre sulla
modalità con cui l’Italia è diventata
una politicamente. La strada percorsa
è comunque la nostra e tale la
ricordiamo con le sue luci e le sue
ombre. Anche se non era l’unica.
Il percorso di ricerca per “vederci più
chiaro” paga: con ammirazione e
affetto possiamo guardare ora il nostro
paese a 150 anni dalla sua nascita
politica. Come figli di una madre che
ha qualche ruga antica e non gode
ancora di splendida salute, siamo
orgogliosi di essa. Al di là del mito
appare il travagliato cammino di un
popolo che assurge ad unità, ma da
“liberare” dalla sua rigidità attuando
quel federalismo presente nella
89
Costituzione... un recuperare cioè le
diversità nell’unità…
Oggi il nostro paese è chiamato ad
affrontare l’incertezza di una difficile
navigazione per i guasti di una
globalizzazione senza pilota. Siamo
passati, stando alle immagini usate dal
prof. Stefano Zamagni, da una visione
piramidale (in alto i ricchi e a seguire i
ceti medi e infine la base meno
abbiente) ad una visione a clessidra
(in alto aumentano i pochi, a metà
l’imbuto annulla i ceti medi e la base
dei meno abbienti s’ingrossa). Un
tendenziale che stritola i più a
vantaggio dei pochi che saranno
sempre meno. Solo una economia della
fraternità o di comunione può salvare
il mondo: la parte alta della piramide
tenderebbe, in questo caso, a portare
al livello superiore rinunciando
all’egoismo. La crescita, che vuole
l’altro ad un livello più alto, farebbe
aumentare il benessere di tutti.
Sarebbero scongiurate le losche
speculazioni che fanno soffrire vari
paesi della Comunità europea e non
solo. Qualcuno, in questa torrida estate
2011, ha puntato al crollo anche
dell’Euro, che è debole senza una
“politica comunitaria unica”.
L’economia mondiale, ritenuta scienza
e lasciata a se stessa, è una filosofia
della pazzia e del suicidio.
È un discorso che interessa il globale
come il locale. Il virus di un’economia
ritenuta scienza a sé stante – mentre è
la politica che dovrebbe impegnarsi
per il bene comune – coltiva localismi
esasperati tanto da oscurare i valori
dei padri che hanno regalato a noi
l’Italia… e l’Unione Europea.
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Il Tempietto
Questi padri benemeriti sono poi ben
più numerosi di quelli riportati dai
manuali scolastici.
1.1 Altre vie erano percorribili
È stato rotto anche il silenzio sulla
positività, negli anni ‘40 dell’800,
della primavera risorgimentale che è
cattolica. Il neoguelfismo ipotizzava
infatti una federazione degli stati del
Bel Paese facendo leva sulla religione
cattolica, il collante comune che univa
nel profondo tutti i diversi stati della
penisola. Almeno fino alla primavera
del ‘48 gli ideali di indipendenza e
unità furono un sentire comune, dato il
legame religioso profondo che, insieme
all’arte e alla lingua, caratterizzava la
nazione Italia, non ancora stato
unitario.
I semi di libertà, indipendenza e unità
portati dalle armate napoleoniche
avevano messo robuste radici. La
Restaurazione non riuscì a estirparle e,
dopo i moti del ‘20-’21 e del ‘30-’31,
esplosero possenti nel 1848 in tutto il
paese. I Moti carbonari coinvolsero
élites militari o borghesi, lo stesso dicasi
del mazzinianesimo. Il grande genovese
voleva l’Italia una, indipendente e
repubblicana fatta dal popolo…visione
inattuale per allora. L’Italia sognata si
realizzerà un secolo dopo, quando il
primo e grande referendum popolare
della nostra storia, cui parteciparono
tutti gli italiani maggiorenni, uomini e
donne, si pronunciò per la Repubblica.
Le visioni federaliste repubblicane del
Cattaneo e del Ferrari, pur nobili nelle
mete indicate, ebbero ancora meno
seguito del Mazzini. Il federalismo
repubblicano comunque fermentò la
cultura e animò la spinta unitaria. La
visione federale neoguelfa invece
parlava all’intero popolo italiano,
cattolico nella sua stramaggioranza e
sembrò davvero realizzarsi nei primi
mesi del ‘48. Il fallimento è da iscriversi
all’interesse dei Savoia di allargare il
proprio stato all’intera penisola e al
difficile ruolo di Pio IX: non poteva il
Papa fare guerra ad una potenza
cattolica. Anche la proposta del
Rosmini che con il progetto di
Costituzione federale liberava il
Pontefice dal poter dichiarare guerra
incontrò l’opposizione del Piemonte!
Quando le redini del movimento unitario
passarono nelle mani dei liberali
moderati, le masse cattoliche si
estraniarono fino a trasformarsi in netta
opposizione. Non va però dimenticata la
generosa e intelligente opera dei
cattolici liberali. Le menti più acute di
questi, penso al Rosmini, videro
possibile la sintesi tra la modernità dei
liberali col Cristianesimo.
L’unità si raggiunse con la forza sotto la
regia “palese e occulta” di Cavour, per
il quale il movimento democratico
rivoluzionario viene visto come pericolo
e insieme un’opportunità da sfruttare.
L’incontro di Teano – tra Garibaldi che
ha conquistato il regno borbonico e
Vittorio Emanale II che ha sottratto
buona parte della stato a Pio IX – è
l’icona della sinergìa tra liberalismo
moderato monarchico e rivoluzionarismo
democratico. Garibaldi offrirà ai Savoia
il conquistato regno borbonico, ma si
ritirerà a Caprera sognando la conquista
di Roma. Ci proverà infatti due volte
sotto il governo Rattazzi. Verrà fermato
prima dall’esercito italiano ad
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Il Tempietto
Aspromonte nel ‘62, poi dai Francesi a
Mentana, nel ‘67. Solo la sconfitta di
Napoleone III, nel 1870, lascerà la via
libera alla conquista di Roma da parte
dell’esercito di Vittorio Emanuele II…
ma Garibaldi non ci sarà.
I 150 anni dell’Italia portano i
lineamenti di tutte quelle correnti
risorgimentali a cui abbiamo accennato:
i moti smossero il restaurato vecchio
ordine; il popolo insorse nel ‘48 in tutta
la penisola; il neoguelfismo, che aveva
avviato il cammino risorgimentale,
riemergerà, aggiornato, dopo il secondo
conflitto mondiale; il Mazzini i cui
ideali, pur risultando in gran parte
sconfitti, furono lievito e profezia per il
processo unitario, e, nel 1849,
innervarono la Costituzione democratica
della Repubblica Romana, le cui tracce
le ritroviamo nella nostra Carta
Costituzionale del 1948; i liberali
moderati e democratici rivoluzionari
fecero di fatto l’unità politica del paese.
Una luce più critica illumina le ragioni
dei vinti e dei vincitori: la memoria
comune ricupera il positivo dei primi e
analizza anche le ombre dei secondi. Gli
uni e gli altri sono parte della nostra
memoria comune.
1.2 Un bilancio del conflitto Stato e
Chiesa.
Guardando questi 150 anni potremmo
parlare di eterogenesi dei fini.
Il liberalismo giacobino nostrano,
moderato o radicale, puntava all’unità
del paese con l’inevitabile scontro con
la Chiesa. Di ascendenza francese
s’incontra con il movimento
“democratico-rivoluzionario”, trova
sostegno dal mondo protestante
91
europeo ed americano e subisce
l’egemonia della massoneria, in modo
eclatante, dopo l’avvento della Sinistra
al potere. Un mix di liberalismo
anticlericale e massonico che vuole
non solo eliminare il potere temporale
del Papa quale impedimento
all’unificazione del paese, ma vuole
portare il Protestantesimo anche in
Italia. Lo scontro, come abbiamo
scritto nei precedenti volumi della
Rivista, mirava, a detta degli stessi
protagonisti, ad eliminare la stessa
religione. Ma il popolo italiano è
rimasto cattolico. Il Papa, liberato dal
potere temporale, può svolgere il suo
ministero spirituale universale come
mai era accaduto prima. Questo delude
l’anticlericalismo e rinnova – al dilà
dell’apparente sconfitta – la Chiesa.
Questa ha difeso il potere temporale
ritenuto essenziale alla libertà del
potere spirituale del Papato,
contrastando in tutti i modi il
“cosiddetto liberalismo nostrano” e ci
troviamo in uno Stato la cui laicità
positiva è fuori discussione. Oggi
possiamo rivedere con sollievo che
dallo scontro si arriva alla
conciliazione e alla collaborazione
sincera tra Stato e Chiesa per il ben
comune della patria.
Scrive la prof.ssa Lucetta Scaraffia:
“Se si vuole un bilancio del
conflitto scatenatosi tra Stato e
Chiesa in occasione
dell’unificazione del paese dopo
150 anni, si può concludere che,
nonostante le indubbie violenze e
prevaricazioni nei confronti dei
cattolici, la Chiesa non è stata
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92
Il Tempietto
indebolita da questa battaglia, ma
ne è uscita più forte, purificata e
anche fortemente modernizzata,
processo che era inevitabile e che
trovava però molte difficoltà a
essere accettato al suo interno”. [1]
2. Fatta l’Italia si dovevano
fare gli Italiani
Lo sforzo del nuovo Stato di educare
all’italianità lo diamo per scontato, ma
se fosse rimasto l’unico ad operare,
saremmo diversi da come siamo. Gli
storici rilevano, ora, anche il
significativo apporto dei Cattolici bollati
a torto, fino alla prima guerra mondiale,
come “anti-italiani”. Erano invece
italiani da sempre che avrebbero voluto
uno stato diverso: l’intransigenza non
organizzò sommosse popolari contro lo
Stato. La loro opposizione era l’essere
“l’Italia reale” che rimane ai margini e
sopporta con sofferenza quella “quella
legale”, nel tentativo di modificarla. Le
popolazioni cattoliche erano insorte
contro l’invasione napoleonica che
scosse la religiosità popolare, ma non si
sollevarono contro lo stato liberale
giacobino. La guerra civile – detta
guerra contro i briganti – scoppiata nel
Meridione è l’effetto di un insieme di
cause che esulano dal nostro tema.
La Chiesa rimane nel cuore della
società: le sue 27.000 parrocchie e 300
diocesi sono una rete che avvolge il
paese.
“È a suo agio – scrive Andrea
Riccardi nell’Agorà Idee,
Avvenire 30 ottobre 2011 –
nell’Italia unita anzi si arricchisce
del ruolo unificante dei nuovi
istituti religiosi, come quello
salesiano”.
Dopo il 1870 l’intransigenza dei
Cattolici nei confronti dello stato
liberale “illiberale” si fa impegno nel
sociale e sul finire dell’800 il lento
rientro nella politica attiva fino a
costituire, nel 1919, il Partito Popolare
con don Sturzo. Il non expedit
emargina dalla politica attiva, ma
l’impegno nel sociale movimenta una
riflessione che avvierà la nascita di un
cattolicesimo nuovo e coraggioso che,
dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, guiderà la rinascita del
paese. Si può dire: se i liberali e i
democratici unificarono politicamente
l’Italia, la Democrazia cristiana di
Alcide De Gasperi la fece risorgere. La
democrazia, il miracolo economico e la
nascita della Comunità Europea sono
indubbiamente legati alla personalità
dello statista De Gasperi, il più grande
che l’Italia abbia avuto in questi 150
di storia unitaria.
Merito dei Cattolici liberali – da sempre
oggetto di particolare attenzione da
parte della storiografia – è stato quello
di mantenere viva la possibilità di un
accordo tra liberalismo e cattolicesimo.
E non è un merito da poco!
2. Le nuove congregazioni
religiose
Nel considerare l’apporto della Chiesa
e dei Cattolici alla formazione degli
Italiani è rimasto però disatteso –
anche da parte di cattedratici cattolici
– il ruolo educativo e assistenziale
delle congregazioni e ordini religiosi
maschili e femminili. [2]
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Il Tempietto
Noi ci occuperemo solo di don Bosco e
dei Salesiani.
3. Don Bosco e i suoi
Salesiani
Negli anni ‘70 lo storico Pietro Stella
scriveva:
“È da immaginare che prima o
dopo la ricerca storica non possa
fare a meno dall’indagare più
attentamente anche su ciò che
furono e operarono i Salesiani di
don Bosco”. [3]
Negli anni ‘90 il prof. Francesco
Traniello osservava:
“non è detto che le commemorazioni
civili nazionali del 150°
ricorderanno l’operato dei Salesiani
in Italia e all’estero, dal momento
che le stesse celebrazioni nazionali
previste a Torino a tutt’oggi
sembrano addirittura dimenticare
che don Bosco e i suoi “figli” e
“figlie”, oltre a contribuire a “fare”
in 150 anni qualche milione di
Italiani, hanno esportato con
dignità il nome della città sabauda
(e dell’Italia) in decine di paesi
prima che arrivasse la Fiat”.[4].
La speranza del primo e il dubbio del
secondo chiedono una risposta.
Ora anche storici di professione si
interessano dell’apporto di don Bosco e
dei Salesiani alla formazione degli
italiani. Il motivo del ritardo, forse, va
cercato nel fatto che, anche in ambito
cattolico, la storiografia ha privilegiato
le correnti, le associazioni, i movimenti
93
che hanno avuto rapporto con la politica
ed i partiti, con lo Stato unificato o
“l’Italia legale”, e non tanto con la
società reale, con la gente comune. È
quest’ultimo il terreno ove operano le
nuove Congregazioni religiose sorte
numerose dopo l’“illiberale”
soppressione degli ordini religiosi a
partire dal Piemonte nel 1848 con
l’espulsione dei Gesuiti. Di fatto se il
Piemonte ha guidato il processo di
unificazione politica, è stato insieme
guida anche di un altro Risorgimento:
quello dei santi fondatori di numerose
congregazioni. Alcuni nomi? Giuseppe
Benedetto Cottolengo, la marchesa
Giulia Barolo, Leonardo Murialdo, don
Bosco, Giuseppe Allamano, Francesco
Foà di Bruno… Franco Azzali arriva a
dire:
“è stato accertato che i santi, i beati
e persone in via di beatificazione
nativi o oriundi piemontesi dell’800
sono circa 90; altri sono per così dire
“in lista di attesa”. Non si trova
altro esempio nella storia della
Chiesa di una tale concentrazione in
una regione e, ancor più
precisamente, in una città[5].
Tale rigogliosa fioritura avveniva nel
tempo i cui erano soppressi gli ordini
religiosi e incamerati i beni della
Chiesa da parte dello Stato Sardo prima
e poi dal nuovo Stato Italiano.
Quanto al dubbio di Traniello, la
celebrazione dei 150 anni di vita unitaria
all’opera di don Bosco e dei Salesiani nel
“fare gli italiani”, effettivamente, sembra
non avere dato il dovuto “risalto
ufficiale”.(6) Certo i Salesiani e studiosi
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Il Tempietto
vicini all’orizzonte salesiano ne hanno
parlato. E molti sono gli studi e le
ricerche fatte. In quest’anno, in
particolare, tanto è stato scritto.
3.1 La via di don Bosco.
Nel 150° dell’unità d’Italia occorre
fare memoria non solo di chi ha fatto
l’Italia, ma anche di chi ha fatto gli
italiani. E tra questi sicuramente va
annoverato don Bosco.
La sua vita si estende dal 1815 al 1888.
Nel 1859 fonda la Società Salesiana.
Egli affronta il problema giovanile con
uno stile educativo ancorato alla fede
per promuovere la persona e il
migliorare la società. Il suo progetto:
“fare buoni cristiani e onesti cittadini”.
Ma si può essere buon cristiano solo se
si è onesto cittadino. Per lui c’è un
rapporto stretto tra l’educazione dei
giovani, il “bene della società” e la
salvezza eterna. La politica per don
Bosco veniva al terzo posto, dopo la
religione e la morale. C’era la questione
meridionale, la questione romana, la
questione economica, la questione
politica, don Bosco e altri santi torinesi
hanno affrontato la questione giovanile.
Contrariamente a quanto pensava il
Lombroso, per don Bosco, l’uomo non
nasce criminale. In ogni giovane,
sosteneva, c’è “un punto accessibile al
bene” su cui fare leva per stimolarlo
responsabilmente a crescere e diventare
protagonista di una società migliore. Il
disegno di occuparsi dei giovani maturò
in lui, giovane sacerdote, quando
seguiva don Cafasso nelle carceri
torinesi. Quei giovani, ragazzi e bambini,
non sarebbero dietro le sbarre se solo
avessero incontrato un amico che li
avesse indirizzati al bene, né sarebbero
rientrati in carcere se qualcuno si fosse
preso cura di loro. L’esperienza delle
carceri scatenò nel sacerdote il bisogno
di essere l’Amico che si prende cura di
loro: fa loro catechismo, li indirizza allo
studio, insegna loro un mestiere, e, per i
più poveri, offre il calore di una casa. È
lo stile salesiano, il sistema preventivo,
che si traduce nel celebre trinomio:
ragione, religione, amorevolezza. Oggi
tradurremmo il termine amorevolezza
con ‘empatia’, ma per don Bosco dice
molto di più: “La prima felicità per un
fanciullo – ripete – è quella di sentirsi
amato”.
Il contesto sociale in cui opera don
Bosco è quello dell’inizio dello sviluppo
industriale della Torino di metà ‘800 con
l’invitabile flusso migratorio dalle
vallate verso la città in cerca di più
facili guadagni, col seguito di frotte di
ragazzi anch’essi in cerca di lavoro, in
balìa di se stessi. E le carceri sono
traboccanti di “piccoli delinquenti”.
Scrive don Bosco nelle sue “Memorie”:
“vedere turbe di giovanetti, nell’età
dai 12 ai 18 anni; tutti sani e
robusti, d’ingegno svegliato; ma
vederli là inoperosi, rosicchiati
dagli insetti, stentar di pane
spirituale, fu una cosa che mi fece
inorridire. L’obbrobrio della patria,
il disonore delle famiglie,
l’infamia di se stesso erano
personificati in quegli infelici. Ma
quale non fu la mia sorpresa
quando mi accorsi che molti di
loro uscivano con fermo proposito
di vita migliore ed intanto erano
in breve ricondotti al luogo di
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Il Tempietto
punizione, da cui erano da pochi
giorni usciti” [7].
Sconvolto inizia a cercare un modo per
intervenire:
“mi accorsi come parecchi erano
ricondotti in quel sito perché
abbandonati a se stessi. Chi sa,
diceva tra me, se questi giovani
avessero fuori un amico, che si
prendesse cura di loro, li assistesse
e li istruisse… chissà che non
possano tenersi lontani dalla
rovina? Comunicai la cosa a don
Cafasso, e mi sono messo a studiar
il modo di effettuarlo”.
e poco oltre aggiunge:
“Fu allora che io toccai con mano
che i giovanetti usciti dal luogo di
punizione, se trovano una mano
benevola che di loro si prenda
cura, li assista nei giorni festivi,
studi di collocarli a lavorare presso
qualche onesto padrone e
andandoli qualche volta a visitare
lungo la settimana, questi
giovanetti si davano ad una vita
onorata, dimenticando il passato,
divenivano buoni cristiani ed
onesti cittadini” (8)
Ecco l’Oratorio di don Bosco: Casa che
accoglie, cortile per incontrarsi da
amici e vivere in allegria, scuola che
avvia alla vita, parrocchia che
evangelizza. Luogo ove si possa
assaporare il senso positivo della vita e
la gioia di vivere e fare del bene. È la
via della prevenzione.
95
Che la spinta ad occuparsi dei giovani
nascesse dall’esperienza delle carceri
torinesi lo confermano due biografie, al
di fuori del mondo salesiano, scritte
ancora vivente don Bosco. La prima
del 1881 dal medico nizzardo Charles
d’Espiney, porta il titolo “Don Bosco”.
A spingere don Bosco a consacrarsi ai
fanciulli poveri ed abbandonati, che
pullulavano nei quartieri di Torino,
venne dai piccoli carcerati. Qui nasce
il metodo preventivo: “prevenire le
mancanze in modo da non doverle
punire; amare i fanciulli e farsi amare
in modo da ottenere tutto ciò che
contribuisce al loro bene”. Abilitarli ad
un lavoro qualificato, che garantisca
una personale riuscita nella vita e
“concorrere all’onore e alla prosperità
di una nazione” [9].
Meno originale, ma più ricco anche
agli occhi di don Bosco, risultò nel
1883 il lavoro del francese Albert du
Boys, “Don Bosco e la Pieuse Societé
des Salesiens”. Racconta lo sviluppo
dell’Oratorio con riferimento alle
scuole di “arti e mestieri” e alle
“colonie agricole”, e soprattutto al
sistema preventivo, che risolve “il gran
problema pedagogico” molto più
concretamente delle “chimeriche
utopìe” proclamate dai “più sfegatati
rivoluzionari”[10].
Don Bosco stesso “pare un’enciclopedia
pedagogica personificata”, che si può
chiamare “la guarigione morale dei casi
disperati”. È il sistema “correzionale”
che don Bosco aveva avuto modo di
esporre nel 1854 a Urbano Rattazzi,
dichiarandone l’applicabilità agli
istituti di rieducazione e nelle carceri
e mostrandone un’attuazione pratica
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Il Tempietto
nella famosa escursione con centinaia
di detenuti in una casa di correzione,
La Generala di Torino… “il poema di
don Bosco”. [11]
Egli si prese cura soprattutto dei
giovani apprendisti, collocandoli a
bottega presso artigiani e imprenditori
di fiducia e tutelandoli con contratti di
lavoro. All’Oratorio di Valdocco ragazzi
totalmente abbandonati troveranno il
calore della famiglia. E i Salesiani
proseguirono il cammino del fondatore
in Italia e nei vari Continenti. La stella
polare: la Religione apre al paradiso
che inizia sulla terra se si conduce una
vita di onestà. È quanto ripete don
Bosco ai suoi giovani: “vi voglio felici
sempre” ora e nell’eternità.
3.2 Don Bosco e la politica
Sul piano ideale l’opposizione di don
Bosco allo stato liberale è netta.
Basterebbe leggere il suo scritto “La
Storia d’Italia”. Lo scritto si ferma al
1859 e rimette al giudizio divino quanto
è accaduto dopo… Incuriosisce tuttavia
la carta geografica inclusa nel manuale
che mostra tutta la penisola italica. Sul
piano pratico, osserva Piero Bairati,
“il rapporto con la laicizzazione
complessiva della società e delle
istituzioni non si caratterizza come
rifiuto accidioso e impotente al
nuovo ordine sociale e politico
emergente. […] Al contrario si
trattò di formare una società
parallela ma non separata, diversa
ma non chiusa in sé medesima”.[12]
La vita di don Bosco percorre tutto
l’arco del processo unitario e post
unitario. Non è un cattolico liberale, né
un cattolico intransigente. Fedele al
Papa e rispettoso delle autorità, non è
d’accordo sulle modalità violente con
cui si faceva l’unità del Paese da parte
dei cosiddetti liberali moderati e
rivoluzionari. Ma già prima del
compimento dell’unità aveva compreso
che la politica ecclesiastica liberale era
un processo inarrestabile. Evidente in
lui è l’avversione verso quanti
attaccavano la Chiesa e il suo supremo
pastore. Riteneva infatti lo stato
temporale della Chiesa condizione
necessaria per il libero esercizio del
potere del Papa. Nel medesimo tempo
s’impegna nel campo educativo a
vantaggio dei giovani poveri ed
abbandonati. È la politica del “fare gli
Italiani”, che, se non era quella che
avrebbe voluto il governo liberale
piemontese prima e il nuovo stato
italiano dopo, tuttavia era apprezzata dai
governanti e benemerita agli occhi del
Pontefice. Una politica dunque del
“silenzio eloquente”, senza schierarsi,
impegnata nel campo della educazione
preventiva.
Il confronto con un giovane sacerdote
torinese evidenzia l’atteggiamento di
don Bosco verso la politica. Si tratta di
don Cocchi. Prima di don Bosco aveva
intuito la necessità di fondare un
Oratorio per incontrare i ragazzi che,
stabili o solo di passaggio, occupati o
disoccupati che fossero, gremivano la
periferia di Torino in cerca di
espedienti. Nell’acceso clima patriottico
egli vedeva con piacere i suoi giovani
partecipare agli avvenimenti della causa
nazionale. Arrivò al punto di guidare,
nella primavera del ‘49, una sfortunata
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Il Tempietto
spedizione di un gruppo di allievi in
appoggio alle forze piemontesi
impegnati nella guerra contro l’Austria.
Ma i 200 giovani guidati da don Cocchi
non riuscirono ad andare oltre Vercelli
perché nel frattempo i Piemontesi era
stati sconfitti a Novara il 23 marzo ‘49.
La vicenda fece scalpore in curia, che
decise di chiudere l’Oratorio.
“A Valdocco invece la politica era
bandita. Don Bosco, che se ebbe
qualche entusiasmo neoguelfo
dovette abbandonarlo abbastanza
presto, si faceva un merito di
tenere il suo Oratorio estraneo alle
fazioni politiche, convinto per altro
che, nello strappare dalla strada
abbandonati e nell’istillare in loro
i principi della religione, egli
contribuiva altresì alla formazione
di buoni cittadini e al sicuro
progresso della civiltà”. [13]
La posizione di don Bosco risulta
chiara nel colloquio, da Lui riferito
nelle “Memorie dell’Oratorio”, a
proposito delle pressioni di Roberto
D’Azeglio che lo voleva presente con i
suoi giovani in occasione della
celebrazione dello Statuto del 27
febbraio 1848. Scrive:
“malgrado il mio rifiuto, provvide
quanto ci occorreva perché
potessimo cogli altri fare onorevole
comparsa. Un posto ci stava
preparato in piazza Vittorio accanto
a tutti gli istituti di qualsiasi nome,
scopo e condizione. Che fare?
Rifiutarmi era dichiararmi nemico
dell’Italia; accondiscendere, valeva
l’accettazione dei princìpi che io
giudicavo di funeste conseguenze.
- Signor Marchese, risposi al
prelodato D’Azeglio, questa mia
famiglia, i giovani che dalla città
si raccolgono, non sono ente
morale; io mi farei burlare, se
pretendessi di fare mia
un’istituzione, che è tutta della
carità cittadina.
- Appunto così. Sappia la carità
cittadina, che tale opera nascente
non è contraria alle moderne
istituzioni; ciò vi farà del bene;
aumenteranno le offerte, il
Municipio, io stesso largheggeremo
in vostro favore.
- Sig, Marchese, è mio fermo
sistema tenermi estraneo ad ogni
cosa che si riferisca alla politica.
Non mai pro, non mai contro.
- Che cosa dunque volete fare?
- Fare quel po’ di ben che posso ai
giovanetti abbandonati,
adoperandomi con tutte le forze
affinché diventino buoni cristiani in
faccia alla religione, ed onesti
cittadini in mezzo alla civile
società.
- Capisco tutto: ma voi vi sbagliate,
e se persistete su questo principio voi
sarete abbandonato da tutti, e
l’opera vostra diventa impossibile.
Bisogna studiar il mondo,
conoscerlo e portare le antiche e le
moderne istituzioni all’altezza dei
tempi.
- Vi ringrazio del vostro buon volere
e dei consigli che mi date.
Invitatemi a qualunque cosa dove il
prete esercita la carità, e voi mi
vedrete pronto a sacrificare la vita e
97
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Il Tempietto
le sostanze, ma io voglio essere ora
e sempre estraneo alla politica”.
E conclude:
“Quel rinomato patrizio mi lasciò
con soddisfazione, e d’allora in poi
non ebbesi più relazione di sorta
tra noi. Dopo di lui parecchi altri
laici ed ecclesiastici mi
abbandonarono”. [14]
Negli anni 1882-’83 campagne
giornalistiche lanciano contro don
Bosco l’accusa di “politico” o
“politicante” occulto. “Don Bosco –
scrive Pietro Braido – non respinge del
tutto l’addebito; anzi, non esita a
sottolineare in più occasioni la finalità
e la portata sociale e politica della sua
scelta “educazionistica”. Dopo il
trionfale viaggio a Parigi, nel 1883,
precisava, solo apparentemente
contraddicendosi:
“Lo scopo al quale noi miriamo
torna beneviso a tutti gli uomini,
non esclusi quei medesimi, che in
fatto di religione non la sentono
con noi. Se vi ha qualcuno che ci
osteggia, bisogna dire o che non ci
conosce, oppure che non sa quello
che si faccia. La civile istituzione,
la morale educazione della
gioventù o abbandonata, o
pericolante, per sottrarla all’ozio, al
mal affare, al disonore, e forse
anche alla prigione, ecco a che
mira l’opera nostra. Or quale uomo
assennato, quale autorità civile
potrebbe impedircela? […]
Coll’opera nostra noi non facciamo
della politica; noi rispettiamo le
autorità costituite, osserviamo le
leggi da osservarsi, paghiamo le
imposte e tiriamo avanti,
domandando solo che ci lascino
fare del bene alla povera gioventù e
salvare delle anime. Se vuolsi, noi
facciamo anche politica, ma in
modo affatto innocuo, anzi
vantaggioso ad ogni Governo. […]
L’opera dell’Oratorio in Italia, in
Francia, nella Spagna,
nell’America, in tutti i paesi, dove
già si è stabilita, esercitandosi
specialmente a sollievo della
gioventù più bisognosa, tende a
diminuire i discoli e i vagabondi;
tende a scemare il numero de’
piccoli malfattori e dei ladroncelli;
tende in una parola a formare dei
buoni cittadini, che lungi dal
recare fastidi alle pubbliche
Autorità, saranno loro di appoggio,
per mantenere nella società
l’ordine, la tranquillità e la pace.
Questa è la politica nostra, di
questa ci siamo occupati, di questa
ci occuperemo in avvenire”.[15]
“I Salesiani – scrive Francesco
Motto – sorti a Torino in
concomitanza con l’unità d’Italia,
non hanno lanciato retorici
proclami in favore della causa
nazionale, l’hanno però promossa
con i fatti”. Le istituzioni salesiane
del Nord d’Italia fin dall’inizio
hanno accolto ragazzi del Centro e
del Sud; altrettanto hanno fatto
quelle del Centro, mentre i
Salesiani in gran parte nativi del
Nord hanno sciamato da una
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Il Tempietto
regione all’altra del paese, là dove
venivano chiamati a servire la
gioventù”. È interessante –
aggiunge – ricordare che essi
approdano in Sicilia nel 1879, a
Roma nel 1880, Firenze nel 1881,
a Milano nel 1894. Essi si sono
messi come missionari a servizio
dei nostri emigrati già dal 1875 in
Argentina e in altri paesi del
Sudamerica e più tardi negli Stati
Uniti, mentre l’Italia legale non si
occupava di loro”. [16]
È stato detto che don Bosco divenne
una forza politica a forza di non fare
politica.
È certamente lettura corretta quando
per politica non si intenda solo il
coinvolgimento in un partito, ma
impegnarsi per il ben comune, che può
assumere varie forme, come
interessarsi subito di situazioni sociali
d’emergenza, come quella giovanile
della metà ‘800 a Torino.
3.3 L’azione educativa di don Bosco
L’atteggiamento di don Bosco nei
confronti della politica – noi diremmo
partitica – resta costante come risulta
dai due documenti citati, il primo del
1848, il secondo del 1883. Lungi
dall’accendere conflitti o incrementare
lo scontro tra Stato liberale e Chiesa,
don Bosco e i suoi figli fanno scelte
concrete utili alla gioventù e ai bisogni
delle famiglie popolari. Nello sfondo il
sogno unitario traluce, ma non
s’illumina perché, dopo il fallimento
neoguelfo, l’unità pare raggiungibile
solo se si elimina il potere temporale
della Chiesa. Don Bosco non condivide
99
il modo di fare l’Italia, ma coi suoi figli
contribuisce a fare gli italiani
attraverso le centinaia di opere lungo
la penisola e in altrettante opere fuori
dei confini nazionale.
“Il modello educativo salesiano si
è sviluppato – scrive Francesco
Motto – trovando un proprio stretto
rapporto con la società civile e
inserendosi operativamente nella
vita dell’Italia nuova. Si è trattato
di un apporto o di collaborazione,
di concorrenza attiva ed onesta, di
sforzo generoso, inteso a creare
una società migliore. Nei tempi
difficili della “questione romana”,
in quelli ostili delle violente
campagne anticlericali di inizio
secolo XX, in quelli tragici delle
due guerre mondiali, all’epoca del
totalitarismo fascista e in quella
della sofferta ricostruzione del
secondo dopoguerra, nel momento
felice del miracolo economico e in
quello problematico della
contestazione giovanile, nella fase
della industrializzazione e in
quella della globalizzazione, al
tempo della scolarizzazione di
massa ed in quella della stasi e
ora dell’attesa, i Salesiani con le
risorse umane e finanziarie
disponibili, in dialogo con le
istituzioni o muovendosi in libertà
hanno continuato
“salesianamente” a “fare il bene
che potevano e come potevano”. [17]
In sintesi don Bosco si interessa prima
dei giovani sbandati che circolano per
Torino, poi li tutela con contratti di
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Il Tempietto
lavoro presso padroni affidabili, infine
crea laboratori di arti e mestieri a
Valdocco, che diverranno le future
scuole professionali. Il cuore dell’attività
educativa resterà, per don Bosco e i suoi
Salesiani, l’Oratorio inteso come luogo
per la crescita globale dei ragazzi, in un
clima di famiglia e di gioia. L’Oratorio
come ambiente in grado di dare
adeguate risposte ai bisogni dei giovani.
Nel tempo si parlerà di “cuore
oratoriano” per ricordare che
l’educazione salesiana deve ispirarsi a
questo stile, qualunque sia il campo in
cui il salesiano si trova ad agire.
Riprendiamo a conferma le autorevoli
parole di uno storico laico, Giovanni
Spadolini, nel 1988, l’anno del
centenario della morte di don Bosco.
Parole significative in quanto Spadolini
era allora Presidente del Consiglio dei
ministri.
“Don Bosco, un nome accettato
dalla morale civile italiana per
l’apporto che alla causa del
proletariato, dell’avanzamento del
popolo, aveva dato la grande,
complessa e universale
organizzazione dei Salesiani…Don
Bosco ha fatto parte dell’Italia
civile e minuta. Egli è ricordato
per un complesso di intuizioni nel
campo dell’educazione che
superano i confini fra le due
società, che intreccia in uguale
esperienza il mondo laico e il
mondo cattolico.
Apostolato ambulante, è
nell’amore per i ragazzi, il segreto
della modernità di don Bosco, “La
più grande meraviglia del secolo
XIX”, come lo definiva uno
statista laico, Urbano Rattazzi;
una modernità che don Bosco
traduce soprattutto nel sistema
preventivo.
Una storia della nazione italiana
condotta con obiettività, nel
superamento degli storici steccati
di una volta, non può non tener
conto del peso sociale che l’Opera
salesiana ha esercitato… Don
Bosco seppe condurre a termine
imprese che il mondo di allora
chiamò pazzìe, con la follìa
dell’amore e dell’ottimismo nelle
capacità dell’uomo sentito come
fratello. È vero…che egli fu nel
suo secolo un ardito agente di
affari di Dio. Ma nei santi gli
affari di Dio sono un po’ gli affari
del prossimo, quando il prossimo è
la collettività nel suo insieme, nei
suoi valori, nei bisogni, nelle attese
e nelle utopie”. [18]
Si dovrebbe ancora aggiungere – scrive
Piero Bargellini – che don Bosco:
“aveva come costante e realistico
riferimento la propria esperienza
giovanile in vari ambienti di lavoro
e le sofferenza e disagi di quel
periodo furono una scuola molto
proficua ai fini di un intervento
illuminato in questo settore. Intuì
che il problema sociale era un
problema umano e che, come tale,
non avrebbe potuto essere
fronteggiato e avviato a soluzione se
non operando nel cuore dell’uomo e
con sentimento di amore fra gli
uomini, lievitando di nuovo spirito
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Il Tempietto
il tessuto sociale. Si trattava di
ridestare nei lavoratori il senso
spirituale della dignità, della forza
elevatrice del lavoro, là dove stava
avanzando il materialismo, un
abbassamento livellatore,
mortificatore della personalità; si
trattava di contrapporre la carità al
risentimento, all’odio, la
cooperazione alla lotta, la
solidarietà alla discordia, la
consapevolezza della necessaria
reciproca contribuzione allo sterile
antagonismo, all’ansiosa gara di
prevalenza di una classe sulle
altre”(19)
3.4 Devoto del Papa e amico dei
governanti
Don Bosco resta un personaggio
originale nel conteso risorgimentale e
post risorgimentale. È col Pontefice, ma
collabora con le Istituzioni per il bene
della società e della religione. Critico
sul modo in cui veniva unificata l’Italia,
non si è mai messo contro lo Stato
nazionale. Fu assertore di una convinta
e leale collaborazione con le autorità
costituite. Da queste ritenuto persona
“non sgradita”, nel travaglio di
“coscienza dei Cattolici” si adopera per
rimuovere gli ostacoli perché l’Italia
sorgesse nel segno della pace religiosa,
su basi condivise, richieste dai tempi e
dalle circostanze.[20]
Piero Stella ricorda come don Bosco
nutrisse sentimenti che da secoli
alimentavano la mentalità popolare.
Nel sovrano sentiva “come radicate,
prevalenti e alimentate da una speciale
grazia divina le doti che si
immaginano nel buon padre: pienezza
101
di amore verso i figli, rettitudine e
saggezza nel governo dei sudditi”. [21]
I grandi funerali a corte preannunziati
durante la crisi Calabiana, diventano –
secondo lo storico – più un monito
verso i consiglieri politici che non una
riprovazione della monarchia legittima.
Si comprende allora anche la
distinzione, legata al tradizionale
rispetto per il monarca, tra sovrano
ben intenzionato e i suoi ministri,
dominati dopo il ‘48 da cattive
intenzioni nei confronti della Chiesa.
Ma nel suo impegno educativo della
gioventù tesse rapporti collaborativi
con tutti i governi. E ne è ampiamente
ripagato, al di là degli inevitabili
momenti oscuri.
Lo stesso atteggiamento di
collaborazione lo ritroviamo nei
Salesiani cui don Bosco affidò la
Congregazione. Troviamo conferma nel
Bollettino Salesiano. Come ai tempi del
fondatore componenti di casa Savoia
continuarono a presiedere comitati
d’onore in favore di opere salesiane.
Nel 1910 alla morte di don Rua
inviarono le loro condoglianze la regina
Elena, la regina madre Margherita di
Savoia, le principesse Clotilde e Letizia
e il duca di Genova.[22]
Nel 1918 in occasione di un
imponente omaggio dell’esercito
italiano per il 50° della Basilica di
Maria Ausiliatrice, la casa regnante era
rappresentata dal principe Eugenio,
duca di Ancona che portò, quale dono
della regina Elena, un crocifisso di
argento massiccio. [23]
Il clima politico e sociale è quello del
passaggio dall’intransigentismo cattolico
a tentativi di avvicinamento tra Stato e
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Il Tempietto
Chiesa. E gli interventi di casa Savoia, a
ben vedere, s’inquadrano – osserva
Pietro Stella – nel disegno di
pacificazione degli animi, di
legittimazione dell’avvenuta unificazione
nazionale sotto la corona dei Savoia.
Pacificazione tra Stato e Chiesa si avrà
con la Conciliazione del 1929. Qui
mirava implicitamente col cuore ed
esplicitamente col suo operare don
Bosco. D’altra parte in Lui come nei
suoi Salesiani costante è la cura di
coltivare l’appoggio e il favore delle
pubbliche autorità. È la condizione
realistica per portare avanti la sua opera
educativa. Il carteggio di don Bosco,
conservato presso l’Archivio centrale
salesiano, evidenzia la fitta trama di
richieste inoltrate da don Bosco e la
risposta di enti pubblici.
Il personaggio politico che in epoca
cavouriana fu più generoso in aiuti fu
Urbano Rattazzi. I sussidi elargiti
aumentano nel periodo in cui fu
ministro degli interni. Il motivo? Le
benemerenze filantropiche di don Bosco
a vantaggio della gioventù bisognosa
delle classi popolari. [24]
A Firenze Giovanni Lanza e altri
coinvolsero don Bosco nella nomina dei
vescovi: di lui si fidavano gli uomini di
governo, di lui si fidava il Papa. Ancora
nel 1876, quando la Sinistra storica
andò al potere, don Bosco continuò
forme d’intesa, nonostante la contrarietà
del movimento intransigente, con i
rappresentanti del Governo. Mediatore
tra Stato e Chiesa risolse il problema di
varie diocesi vacanti, senza possibilità
di nominare nuovi vescovi, per
divergenze di interpretazione su diritti
di patronato. Tale disponibilità fu
apprezzata da liberali e conservatori e
anche da uomini della Sinistra. Come
non ricordare poi che, nel 1870, don
Bosco dissuase Pio IX a lasciare Roma
dopo la breccia di Porta Pia? Nel 1878
ottenne poi dal Governo italiano libertà
assoluta per il conclave da cui fu eletto
papa Leone XIII. Non sono questi semi
di Conciliazione?
Per i Salesiani la beatificazione di don
Bosco nel 2 giugno del 1929 e la
canonizzazione nel giorno di Pasqua
del 1934 fu un vero trionfo. Era
superato il clima di screzi tra Salesiani
e fascismo. A proposto dello “screzio”
col fascismo va ricordata la riposta dei
superiori di Torino all’ordine di creare
sezioni di balilla all’interno degli
Oratori salesiani: le nostre opere
educative le gestiamo noi secondo lo
spirito del fondatore;
“accettare chiunque, vestito o no
da balilla, purchè si adatti alla
vita dell’Oratorio; non permettere
che l’Oratorio sia trasformato in
una caserma di balilla. Le scuole
nostre, frequentate da esterni, sono
scuole nostre come quelle
frequentate da interni”. [25]
I grandiosi festeggiamenti per la
beatificazione qualche mese dopo i
Patti Lateranensi, e la santificazione di
don Bosco trovarono un clima molto
più sereno e le feste coinvolsero
autorità religiose e politiche. Certo
nelle seconde non mancò l’elogio
dell’opera del santo in chiave
nazionalistica e patriottica come
appare dal discorso di De Vecchi in
Campidoglio:
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Il Tempietto
“Don Bosco è un santo italiano ed è
il più italiano dei santi! Lo sente suo
tutto il popolo, e tuttavia il grande
spirito è onnipresente nel mondo,
cosicché questa perfezione italiana
diventa per lui romanità”.[26]
Ma il concetto di politica dei salesiani
prescinde dai partiti e collabora con
qualunque governo. Certo l’autonomia,
anche se non assoluta, dal fascismo
chiederà attenzione per non farsi
ingabbiare dalle sue maglie.
Nel secondo dopo guerra mondiale non
si fecero coinvolgere neppure dalla
Democrazia Cristiana.
4. Riflessioni riassuntive:
1. Cittadini di fronte allo Stato e
Religiosi di fronte alla Chiesa.
Quello di don Bosco fu un
atteggiamento coerente ad una sana
concezione liberale? Nell’azione
certamente sì.
Egli ebbe chiaro il ruolo spettante alla
pubblica autorità. Già nell’agosto del
1877 prospetta il suo programma
civile:
“Estranei affatto alla politica noi
ci terremo costantemente lontani
da ogni cosa che possa tornare a
carico di qualche persona
costituita in autorità civile ed
ecclesiastica. Il nostro programma
sarà inalterabilmente questo.
‘Lasciateci la cura dei giovani
poveri ed abbandonati, e noi
faremo tutti i nostri sforzi per fare
loro il maggior bene che possiamo,
ché così crediamo poter giovare al
buon costume ed alla civiltà’”. [27]
2. L’esperienza salesiana e
l’esperienza Italia
“Per 150 anni i Salesiani e per
oltre 130 le Figlie di Maria
Ausiliatrice sono stati costruttori di
oltre 1500 opere educative, sparse
per le province d’Italia, in favore
dei giovani, soprattutto quelli più in
difficoltà, ai quali non tanto
trasmettere la cittadinanza,
soprattutto se intesa nei termini
attuali, quanto educarli, attraverso
la scuola, la cultura, la catechesi e
l’uso intelligente del tempo libero,
ad essere onesti e capaci lavoratori,
disciplinati interpreti e operatori del
bene comune (secondo le circostanze
storiche), cristiani fedeli alla
Chiesa e al Papa. […]
Hanno cercato di integrare giovani
italiani diversi provenienti dai 4
angoli della penisola ed hanno
operato per accrescere il sentimento
di unità di destino tra le
generazioni di un Paese
sostanzialmente privo di cultura
patriottica, dal fragile tessuto
connettivo e da forme di
cittadinanza piuttosto deboli. Non
solo. Le loro riuscite iniziative di
concreta risposta ai bisogni della
comunità, sia in funzione di
supplenza che di collaborazione e
solidarietà con lo Stato e con la
Chiesa, hanno altresì innescato sia
in istituzioni civili che ecclesiastiche
una dinamica favorevole ad una
maggiore attenzione ai giovani,
alla loro educazione e formazione,
alla loro socializzazione e
promozione, ossia al loro futuro e al
futuro della società italiana”. [28]
103
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Il Tempietto
3. Attualità di don Bosco.
Il sistema educativo salesiano opera in
130 Stati del mondo, ove sono presenti
i Salesiani. Essi gestiscono scuole
anche a stramaggioranza islamica,
come nella scuola di Alessandria
d’Egitto e del Cairo. Ce lo conferma la
testimonianza di un illustre ex-allievo,
Magdì Allam, scrittore egiziano da
pochi anni approdato al Cattolicesimo.
Ancora islamico, in un incontro con gli
studenti nel nostro Centro Culturale “il
Tempietto”, ricordava il rispetto,
l’accoglienza, il clima di famiglia, la
serenità della scuola salesiana
frequentata. Sottolineava come la
cultura occidentale della scuola avesse
messo in moto in lui un atteggiamento
di ricerca personale e critica, il
bisogno di vederci chiaro. Dalla scuola
riceveva la spinta ad essere un buon
musulmano. Il cristianesimo lo vedeva
incarnato nei Salesiani suoi insegnanti.
I veri testimoni mettono sempre in
crisi!
Occorre però ponderare alcune
obiezioni che vengono mosse da varie
parti al “sistema preventivo di don
Bosco”. È definito debole in funzione
dell’educazione all’autonomia
decisionale, all’affettività e all’impegno
politico.
In sintesi: don Bosco ha intuito la
netta distinzione tra politica e
religione nell’accezione di “vera
laicità” o, come si dice, di “laicità
positiva”. Ciò si ricava dalla sua nitida
e costante pratica educativa. Don
Bosco però non è un teorico, né un
pedagogista, è un maestro di vita che
con intelligenza coglie le esigenze del
tempo e concretizza “il sogno” di
essere segno dell’amore di Dio verso i
giovani, specialmente poveri e
abbandonati. Naturalmente l’uomo don
Bosco è figlio del suo tempo. Vive
secondo la formazione ricevuta in
seminario. Professandosi fuori della
politica, di fatto di politica ne fa
parecchia e quasi sempre dalla parte
dei “conservatori”, persino degli
austriacanti. E don Bosco guardò molte
volte con simpatia all’Austria. In
seminario era stato formato al
conservatorismo e a ritenere l’Austria
come protettrice del Papa.
La parola “politica”, per don Bosco,
coinvolge anche l’atteggiamento verso
la “questione sociale”. Politica è
quella di Cavour, ma anche dei
rivoluzionari socialisti, del “socialista
mazziniano Pisacane” che sbarca nel
Sud (1857) per sollevare le plebi
oppresse, le cooperative ispirate da
Owen, i sindacati. “Lasciar da parte
ogni politica” significa non farsi tirare
dentro al dibattito sociale. Schierarsi
“per” qualcuno è schierarsi “contro”
qualcun altro. Don Bosco ripete ai suoi
Salesiani:
“Certo nel mondo vi devono essere
anche di quelli che si interessano
delle cose politiche, per dare
consigli, per segnalare pericoli o
per altro; ma questo compito non è
per noi”. [29]
E
“Nella Chiesa non mancano
coloro che sanno trattare
valentemente queste ardue e
pericolose questioni, e in un
esercito vi sono quelli destinati
a combattere, e quelli destinati
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Il Tempietto
ai bagagli e agli altri uffici
ugualmente necessari per
cooperare alla vittoria”.[30]
La novità e l’attualità di don Bosco è
nella “risposta” all’emergenza
giovanile di allora, pur restando nella
visione tradizionale. Il cuore del suo
agire: la carità evangelica.
Il detto “con don Bosco e coi tempi” è
uno slogan indovinato. Don Bosco
oggi, respirerebbe altra cultura,
avrebbe altri problemi da affrontare
nel campo giovanile. Occorre un lavoro
di scavo che porti al carisma del santo
dei giovani. Ed allora si comprende
come in uno stato democratico in cui
la laicità è autentica, don Bosco, o
meglio, i Salesiani istituiscano anche
scuole di formazione politica. Non per
manipolare il consenso partitico, ma
per fornire ai giovani la possibilità
impegnarsi in modo critico e
responsabile nella politica.
Per quanto riguarda l’educazione
affettiva occorre “scrostare” ciò che
appartiene ad “un tempo”, alla
formazione del seminario, da ciò che è
perenne. Senza dimenticare che il
processo di storicizzazione interessa
l’umanità in quanto tale.
Segni del proprio tempo tuttavia sono
meno marcati nel “teorico innovatore”
come nel “pratico innovatore”, basta
pensare a Rosmini e a don Bosco
appunto.
La proposta educativa di don Bosco,
proseguita nel mondo dai Salesiani, si
rivelò vincente rispetto a quella del
nazionalismo e totalitarismo, ed è
vincente sempre nei regimi
democratici, anche se necessita di
105
essere riformulata negli strumenti
educativi e nel linguaggio in sintonia
coi tempi e coi luoghi. Al di là di
fallimenti e ripiegamenti episodici e la
ben nota crisi generale del clero
cattolico nel dopo Vaticano II.
4. Due autorevoli testimonianze.
Umberto Eco scrive nell’Espresso del
15 novembre del 1981: L’Oratorio
“è la grande invenzione di don
Bosco. Don Bosco lo inventa, poi,
lo esporta verso la rete delle
parrocchie e dell’azione cattolica;
ma il nucleo è là, quando questo
geniale riformatore intravede che
la società industriale richiede
nuovi modi di aggregazione,
prima giovanile poi adulta, e
inventa l’oratorio salesiano: una
macchina perfetta in cui ogni
canale di comunicazione, dal
gioco alla musica, dal teatro alla
stampa, è gestito in proprio su basi
minime, e riutilizzato e discusso
quando la comunicazione arriva
da fuori […]. La genialità
dell’Oratorio è che esso prescrive ai
suoi frequentatori un codice
morale e religioso, ma poi accoglie
anche chi non lo segue. In tale
senso il progetto di don Bosco
investe tutta la società dell’età
industriale […]
alla quale (società) è mancato il
suo “progetto don Bosco” e cioè
qualcuno o gruppo con la stessa
immaginazione sociologica, lo
stesso senso del tempo, la stessa
inventiva organizzativa. Al di fuori
di questo quadro nessuna forza
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Il Tempietto
ideologica può elaborare una
politica globale delle comunicazioni
di massa, e dovrà limitarsi alla
occupazione (spesso inutile e sovente
dannosa) dei vertici dei grandi
dinosauri. Che contano meno di
quanto si crede”.[31]
Interessante il commento che fa Piero
Stella. Umberto Eco riflette nell’articolo
la propria competenza di semiologo e vi
riversa la memoria dei giorni trascorsi
da ragazzo nell’Oratorio dei Salesiani di
don Bosco ad Alessandria tra gli anni
della seconda guerra mondiale e il
dopoguerra. Erano tempi in cui
l’Oratorio nella città era l’unico
riferimento preferito. Erano anni in cui i
Salesiani impegnati negli oratori
avevano vivissima l’immagine del
fondatore, canonizzato pochi ani prima.
Sandro Pertini scrive al suo amato
maestro don Borella del collegio
salesiano di Varazze:
“Il ricordo dei giorni trascorsi
vicino a Lei tra codeste mura vive
sempre, nel mio animo. Oggi
comprendo che l’amore senza limiti
che sento per gli oppressi, per tutti i
miseri ha cominciato a sorgere in
me, vivendo in codesto porto di
pace. La mirabile vita del loro
Santo mi ha iniziato a questo
amore… San Giovanni Bosco, come
San Francesco di Assisi, ha amato
come noi amiamo gli oppressi, i
diseredati ed a costoro tutta la sua
nobile esistenza ha generosamente
sacrificata. […] Che nostalgia di
quel tempo spesso io sento!” [32]
Interessane quanto scrive lo storico
Giacomo Martina: i Salesiani della
prima generazione, quando arrivavano
in certe città romagnole rosse e
mangiapreti, sembravano destinati a
sicuro fallimento. E invece attaccavano
con l’oratorio e la banda musicale, e
dopo poco tempo erano amici di tutti.
“Sono preti diversi” dicevano. [33]
5. Conclusione
“Un paese che ignora la propria storia –
scriveva Indro Montanelli – non può
avere un domani”. E la storia, il nostro
cammino nel tempo, è una lettura del
passato mai definitiva. Nuovi
documenti, nuove prospettive
arricchiscono la rivisitazione storica che
non ha capolinea. I Salesiani nei 150
anni dell’Unità d’Italia fanno parte della
storia del nostro Paese: essi portano alla
società una “modalità educativa”
originale, vissuta e trasmessa loro da
don Bosco.
Paolo VI, a proposito del Santo dei
giovani, negli anni ‘70 scriveva:
“Fra le cose grandi, fra le cose
geniali, fra le cose stupende nella
vita di don Bosco, troviamo anche
questo: ha saputo concordare, in
anticipo, l’italianità con la
cattolicità, ha avuto l’antiveggenza
di mettere in atto la pace che deve
esistere fra l’anima di un cattolico e
l’anima di un cittadino”.
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Il Tempietto
Note
[1] Lucetta Scaraffia (a c. di), I Cattolici che
hanno fatto l’Italia, Religiosi e Cattolici
piemontesi di fronte all’Unità d’Italia,
Indau, marzo 2011.
[2] Pietro Stella, I Salesiani e il movimento
cattolico in Italia fino alla prima guerra
mondiale, in Ricerche Storiche
Salesiane/3, 1983, pp. 223-251.
[3] ivi, p. 228.
[4] Soldani S. e G. Turi (a c. di), Fare gli
Italiani. Scuola e cultura nell’Italia
contemporanea. I/La nascita dello stato
nazionale, Il Mulino 1993.
[5] Lucetta Scaraffa,I Cattolici che hanno fatto
l’unità, op. cit. pag. 57 …
(6) Una delle debolezze dell’identità italiana
sta nel fatto che la sua elaborazione si è
fondata su una memoria pubblica ritagliata
a seconda delle finalità politiche e
ideologiche o dei poteri forti. Un solo
esempio recentissimo: l’assenza
dell’editoria cattolica nella mostra “L’Italia
dei libri” di Torino 150°, e questo nella
città di uno dei primi autori di bestseller
come don Bosco (Letture cattoliche e
l’almanacco popolare Il Galantuoomo) e
nella città dell’editoria imprenditoriale
salesiana che per 150 anni ha disseminato
per tutto il Paese centinaia di migliaia di
volumi proprio là dove si cercava di “fare
gli Italiani”, ossia la scuola, gli oratori, le
associazioni giovanili, le parrocchie, i
centri assistenziali, ricreativi, culturali, il
volontariato…”
(Conferenza di Francesco Motto tenuta a
Castelnuovo don Bosco il 20 settembre
2011.
[7] G. Bosco, Memorie, Ellenici, 1985, pp.
102-103.
[8] Francesco Motto (a c. di), Salesiani di don
Bosco in Italia – 150 di educazione, in
[9]
[10]
[11]
(12]
[13]
[14]
[15]
[16]
[17]
[18]
(19)
[20]
[21]
[22]
[23]
[24]
[25]
[26]
107
Saggio di Pietro Braido, “Poveri e
abbandonati, pericolanti e pericolosi;
pedagogia, assistenza, socialità
nell’“esperienza preventiva” di don
Bosco”, p. 139.
ivi.
ivi, p. 140
ivi.
Salesiani di don Bosco in Italia, op. cit., in
Saggio di Pietro Bairati, “Cultura salesiana
e Società industriale”, p.198.
Francesco Traniello (a c. di), Don Bosco
nella storia della cultura popolare, Sei,
Torino 1986, p.17.
Aldo Giraudo, I giovani pericolanti di
Torino e il successo dell’opera educativa di
don Bosco nel decennio preunitario, in
Rivista “il Tempietto”, n. 11, p. 209
Bollettino Salesiano, VII, agosto 1883, pp.
127-128
Salesiani di don Bosco in Italia – 150 di
educazione, op. cit., pp. 10-11.
Salesiani di don Bosco in Italia – 150 anni
di educazione, op. cit., Introduzione, p. 11.
Dossier del 150°, Italia Salesiana, inserto
Notiziaro ispettoriale ICC, Pasqua 2011, p.
22.
Piero Bargellini, Il Santo del lavoro, LDC
1975, pag.8-9
Salesiani di don Bosco in Italia, op. cit., p.
9.
Don Bosco nella storia della cultura
popolare, op. cit., p. 360.
Bollettino Salesiano XXXIV, maggio 1910.
Bollettino Salesiano XLII, giugno-luglio
1918.
Pietro Stella in Don Bosco nella cultura
popolare, op.cit., p. 362.
Pietro Stella, Don Bosco, op, cit., p. 10.
Pietro Stella, in Don Bosco e la cultura
popolare a c. di Francesco Traniello,
p. 363.
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Il Tempietto
[27] Bollettino Salesiano, agosto 1887.
[28] da Comunicato ANSA – Roma 17 marzo
2011.
[29] Memorie Biografiche di don Bosco, vol.
XVI, p. 291: citazione in Teresio Bosco,
Don Bosco, una biografia nuova, Elledici,
2005, p. 197.
[30] Memorie Biografiche, p. 487: citazione in
Teresio Bosco, op. cit., p. 197.
[31] Pietro Stella, Don Bosco, op. cit., p. 7.
[32] Lettere di Pertini a don Borella in Eco di
don Bosco, anno LXXV n. 2, p. 14.
Riportiamo il commento di Rocco
Coladonato ai vari brani di lettere di
Pertini al maestro don Borella, dai quali
abbiamo desunto la citazione.
“A questo punto ci pare importante mettere
in rilievo che “l’ambiente”, “e ore serene
dell’infanzia”, in quel “porto di pace” in
cui si educa all’“amore degli oppressi…”
un adolescente pensoso, vicino ai “maestri
salesiani”, con don Borella, don Viglietti,
don Ruggeri, don Gresino (nominati nelle
lettere), è l’ambiente in cui questi Salesiani
con i loro giovani vissero ore amarissime.
Sandro Pertini era entrato in
quell’ambiente proprio nel settembre di
quel 1907 in cui, dal luglio appena
trascorso, si era scatenata una violenta
campagna diffamatoria e denigratoria
contro il collegio, passata alla storia con il
nome “I fatti di Varazze”, a causa di un
ignobile “diario”, pattumiera zoliana come
lo definisce don Ceria negli Annali,
inventato e strumentalizzato in uno dei
momenti più sfacciati della propaganda
anticlericale italiana. Amarezza di anni
che si protrasse intensamente fino al 1912;
anni in cui veniva maturando l’adolescenza
di Pertini; ed era da poco fiorita quella di
altri celebri ex-allievi del collegio, come
Camillo Sbarbaro, un maestro della poesia
italiana del Novecento, e l’indimenticabile
Mario Mazza, fondatore dello scoutismo
italiano”.
[33] cfr.Teresio Bosco, Don Bosco, una
biografia nuova, Eledici tredicesima
edizione 205, pag. 197.
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Il Tempietto
Don Bosco
e i Salesiani
a Genova
Alberto Rinaldini
Premessa:
“Aprendo la finestra della mia
stanza, in questa mattina di
primavera piena di sole, sono
attratto dal verde dei campi in
erba. Lo sguardo si alza al cielo e
incrocia il vecchio campanile
voluto “alto” da don Bosco… Le
bombe che distrussero la bella
chiesa non osarono toccarlo.
Stringeva al suo seno tre Salesiani.
Passato e presente, unica onda di
un sogno che non finisce di stupire.
La cuspide antica sembra
guardare oltre le colline e le
vallate fino al fiume Bisagno che
accarezza la zona di Marassi e
Corso Sardegna per risalire Corso
Europa e giungere a Quarto… in
un ideale abbraccio della città,
così cara al Santo dei giovani.
Seguendo gli occhi e il cuore di
don Bosco dal bel campanile vedo
il mare che unisce il mondo…e i
primi Salesiani in viaggio verso le
Americhe. Dove sono i giovani, lì
c’è il suo cuore…e il ricordo mi
unisce ai tanti Salesiani che qui
operarono e ancora operano nel
suo stile”. (1)
Parole che dicono l’affetto di don Bosco
per questa città e il profondo legame
della città con “Il Don Bosco”. Verrebbe
quasi da chiedersi: “Quanto
109
mancherebbe al mondo salesiano se si
cancellasse dalla sua storia la casa di
Sampierdarena? Quanto mancherebbe a
Genova se dalla sua storia fossero
eliminati questi 140 anni di presenza
Salesiana?”.
Tra Genova e don Bosco nacque un
legame affettuoso, a prima vista, come
ebbe a scrivere un grande genovese, il
cardinale Giuseppe Siri:
“Non c’è stata tra noi figura di
rilievo che per qualche tempo non
sia entrata nella sua orbita, non
ne abbia subito il fascino. (…)
Genova e don Bosco non ebbero
che a vedersi per comprendersi”.(2)
Un felice incontro che dura da 140
anni, oggi vitale in tre punti strategici
della città: Sampierdarena, Corso
Sardegna e Quarto.
1. don Bosco e la
“questione giovanile”
Alla metà dell’ 800 i giovani, per la
società, non avevano voce. Sui giovani
don Bosco scommise la sua vita e questa
scommessa affidò ai suoi Salesiani.
Diverse sono le povertà delle giovani
generazioni nel cammino del tempo, ma
il loro grido di aiuto è lo stesso. Don
Bosco indica la via della risposta, la
“pedagogia della bontà”, la passione
educativa espressa nello stile salesiano.
La sentiamo ben compresa da Duvallet,
apostolo della rieducazione dei giovani.
Negli ultimi decenni del ‘900 egli così
scrive ai Salesiani:
“Voi avete opere, collegi, oratori,
case per giovani, ma non avete che
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Il Tempietto
un tesoro: la pedagogia di don
Bosco. In un mondo in cui i
giovani sono traditi, disseccati,
triturati, strumentalizzati,
psicanalizzati, il Signore vi ha
affidato una pedagogia in cui
trionfa il rispetto per il ragazzo,
della sua grandezza, della sua
fragilità e della sua dignità di
figlio di Dio. Conservatela,
rinnovatela, rinvigoritela,
arricchitela di tutte le scoperte
moderne, adattatela a queste
creature del ventesimo secolo, ai
loro drammi che don Bosco non ha
potuto conoscere. Ma, per carità,
conservatela. Cambiate tutto;
perdete, se è il caso, le vostre case,
ma conservate questo tesoro,
costruendo in migliaia di cuori la
maniera di amare e di salvare i
giovani che è l’eredità di don
Bosco”.
2. Stima e simpatia dei
genovesi per don Bosco
e i salesiani
La casa di Sampierdarena inizia
l’avventura nel 1872 in compagnia di
“sorella povertà”, ma sorretta
dall’affetto e dalla simpatia della
popolazione. Un’opera per i giovani
richiesta da Genova e sostenuta dalla
generosità dei genovesi, un crescendo
di coraggiose risposte, nell’evolversi
delle situazioni che sembra non finire.
Lo sviluppo dell’opera salesiana nel
tempo è tale che il solo ricordo delle
sue umili origini desta meraviglia.
Raccogliamo le fila di quest’avventura.
Il legame di don Bosco con la città
tuttavia inizia molto prima. Nel 1841
appena ordinato sacerdote era stato
richiesto come precettore da una
nobile famiglia genovese. Non era
questa la via per Genova... Tre illustri
vescovi genovesi, che la Provvidenza
metterà sul cammino del Santo in
tempi diversi, creeranno quel ponte
che finirà per legare definitivamente
Don Bosco alla città: Mons. Luigi
Fransoni, Mons. Salvatore Magnasco
e Mons. Gaetano Alimonda. Mons.
Fransoni fu il suo più valido sostegno
dell’Oratorio a Torino; Mons
Alimonda oltre all’appoggio a Roma,
fatto arcivescovo di Torino, fu l’angelo
che lo consolò negli ultimi anni, dopo
le incomprensioni di Mons. Gastaldi;
Mons. Magnasco, arcivescovo di
Genova, volle e aiutò la fondazione
dell’Opera salesiana di Sampiedarena.
Fu sempre vicino a don Bosco e ai
Salesiani.(3)
Il suo impegno per i giovani più
bisognosi troverà valido sostegno e
conforto in tanti sacerdoti e in
numerose famiglie dell’aristocrazia
genovese. Nella cattedrale di San Siro
poi il popolo incontrava il Santo dei
giovani durante le sue soste a
Sampierdarena e la generosità dei
genovesi era sempre grande.
Ci limitiamo all’elenco delle famiglie
aristocratiche che, per l’opera di don
Bosco, furono il cuore e le mani della
Provvidenza. Attingiamo queste
informazioni ben documentate dal
libro del salesiano Stefano
Sciaccaluga.(4)
Il ricordare la generosità dei genovesi
vuol essere anche un segno di
gratitudine alla città che ha dato una
mano a don Bosco e ai Salesiani in
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Il Tempietto
questi 140 anni a formare, attraverso
l’impegno educativo, uno stuolo di
onesti cittadini e buoni cristiani.
Questa generosità non è mai venuta
meno. Cosicchè tutto quello che, in
nome e nello spirito di don Bosco, i
Salesiani continuano a fare per i
giovani, è reso possibile dalla
Provvidenza che muove il cuore
sensibile di Genova.
L’amore e gli aiuti d’ogni sorta dati a
don Bosco e ai suoi Salesiani pongono
la famiglia Dufour al posto d’onore.
Don Bosco definì Maurizio Dufour “La
Provvidenza dei poveri orfani”. E con
lui i fratelli Lorenzo, Carlo, Luigi e
Amalia. Amore e simpatia trasmessi ai
nipoti continueranno nel tempo: dopo
la morte di don Bosco l’amore divenne
culto al Santo e carità verso i suoi figli
e le sue opere. Alla famiglia Durazzo
Pallavicini è legata la vendita a modico
prezzo della villa – per costruirla
aveva speso un patrimonio – e del
terreno adiacente, oggi Oratorio Don
Bosco di Sampierdarena. Il marchese
Ignazio già dagli anni ‘50 aveva aiutato
don Bosco e tra i due era nata una
profonda amicizia. L’incontro con la
famiglia Cataldi risale al 1869, ben
prima che aiutasse don Bosco a
Genova. La prima “sosta” a Genova è
nella zona di Marassi, a villa Oneto dei
Cataldi. Ma da quando intervennero
per l’acquisto del convento di S.
Gaetano – l’attuale don Bosco di
Sampierdarena – con un’offerta di
30.000 lire, tutta la famiglia entrò a
fare parte della famiglia salesiana. Don
Bosco è amato da tutti: la mamma
Luigia Cataldi Parodi, Giuseppe
Cataldi banchiere genovese e sindaco
111
di Genova. Mamma Luigia, s’ammalò
d’occhi proprio nel 1871. Per 25 anni
sopportò il male fino alla cecità
assoluta. Essa fu una grande
benefattrice e con l’anonimo della
cronaca della casa di Sampierdarena
la diremmo “più che benefattrice,
mamma amorosa”. Ricordiamo la
famiglia Ghiglini, in particolare la
mamma del senatore Lorenzo. Essa fu
grande benefattrice e ad essa facevano
capo molte signore di Genova,
zelantissime cooperatrici.
Mons. Augusto dei marchesi
Negrotto, genovese, operava alla Corte
pontificia e fu di grande aiuto per il
disbrigo di pratiche presso gli uffici
della curia. Questo vescovo aveva
tanta stima di don Bosco che avrebbe
voluto farsi salesiano. Ciò non
avvenne, ma l’amicizia rimase sempre
solida con i Salesiani anche dopo la
morte del Santo. Monsignore si ritirò a
Genova dopo la scomparsa della
madre. Nella cronaca della casa di
Sampierdarena nel 1897, nelle feste
del 25° di fondazione dell’Opera,
accanto a Mons. Negrotto leggiamo ”
“antico cameriere segreto di Pio IX e
intimo amico di don Bosco”.
La Casata Centurione, in particolare il
caritatevole Principe Vittorio facilitò
l’acquisto del convento di San
Gaetano, sede della casa di
Sampierdarena. I Centurione rimasero
in buoni rapporti con i Salesiani.
Della famiglia Spinola si deve
sottolineare i buoni rapporti di don
Bosco con il marchese Spinola,
Ministro Italiano a Buenos Aires che
aiutò i Salesiani arrivati in Argentina
nel 1875. Un altro Spinola, nel 1886,
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Il Tempietto
venne a Sampierdarena per fotografare
don Bosco. Il Santo doveva partire per
Varazze, ma per compiacerlo
accondiscese. È la più bella foto del
Santo. Buona cooperatrice di don
Bosco fu la principessa Elisabetta
Doria-Sols cugina dell’imperatore
Guglielmo II.
Maria De Ferrari Duchessa di Galliera,
nata a Genova, visse a Parigi: profuse in
beneficenza per opere pubbliche milioni
in città. L’ospedale che porta il suo
nome, primeggia su tutte. Due anni
prima di morire costituì il Pio Istituto
Negrone Durazzo Brignole Sale.
Nell’elenco delle fondazioni perpetue a
“beneficio e utilità della città di
Genova2, è compreso l’Ospizio
S.Vincenzo de’ Paoli in Sampierdarena.
Ad esso furono assegnate 500 Lire
annue per due posti gratuiti.
Dei Conti della Chiesa ricordiamo
Giacomo, che fu papa Benedetto XV.
Conobbe indirettamente don Bosco
attraverso i suoi scritti che la piissima
madre faceva leggere a Giacomo e ai
fratelli. Benedetto XV diede un grande
segno di stima a don Bosco e alla
Società Salesiana nel 1915, quando
elevò Mons. Cagliero alla porpora
cardinalizia. Fu un’ora indimenticabile
per i salesiani che videro riconosciuto
da un papa genovese il loro lavoro
missionario.
Quest’elenco esprime l’animo squisito
del patriziato genovese per don Bosco
e i Salesiani. L’elenco dovrebbe
continuare con i numerosissimi amici,
sacerdoti laici. Sarebbe troppo lungo!
Tra gli estimatori compare persino
Giuseppe Garibaldi che mostrò stima e
simpatia per l’opera educativa di don
Bosco. Lo racconta il biografo don
Ceria. Nel 1875 sulle case salesiane di
Varazze, di Alassio e di Sampierdarena
stava addensandosi una tempesta. Il
prefetto di Genova Colucci osteggiava
in tutti i modi le scuole salesiane. Ma
anche dopo il trasferimento del
Colucci l’ostilità continuò. Venne a
cessare per l’interevento di Giuseppe
Garibaldi. Il generale accortosi del
malanimo e saputo il motivo disse:
“Ma lasciatelo un po’ tranquillo don
Bosco. È un vero prete”. Il fatto destò
grande meraviglia. Ma non fu il solo
gesto di simpatia verso il Santo, stando
al biografo... Passando l’estate sulla
spiaggia di Alassio a Villa Gotica, il
generale parlò in modo benevolo con
un alunno di quel collegio salesiano,
condottogli dalla compagna Francesca.
Essendo stata costei la balia del
ragazzo, vedendolo per strada nel
gruppo dei giovani dell’Istituto, lo
chiamò in casa. Garibaldi gli disse:
- Dunque tu sei del collegio di Don
Bosco.
- Sissignore
- E ti vuoi fare prete?
Io non so ancora che cosa farò.
E in collegio si parla male di me?
Io non ho sentito nessuno a parlar
male di lei,
Va’ dunque con i tuoi compagni,
studia e sii obbediente ai tuoi
superiori.
In altra occasione Garibaldi disse di
don Bosco:
“quello sì che è un bravo prete e un
vero sacerdote di Dio, amante
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Il Tempietto
dell’umanità. Fa del bene alla
gioventù, ed è il solo nell’Italia”.
Osserviamo col biografo Ceria:
“Era un po’ troppo veramente…” A
ogni modo è lecito prendere atto
che, una volta tanto, l’implacabile
nemico dei preti seppe anche dire
bene di un prete…” (5)
3. Gli inizi dell’Opera
Nel febbraio del 1871 Don Bosco si
trovava a Genova. Due genovesi, soci
della Conferenza di San Vincenzo de’
Paoli di Borgo Incrociati, Domenico
Prefumo e Giuseppe Varetti, andarono
dal Santo e gli chiesero di aprire una
casa anche a Genova. Don Bosco non
disse di no, ma osservò che ci
volevano mezzi ed essi promisero di
fare quanto potevano. La cosa restò lì
come sospesa. (6)
Era però nel destino della Provvidenza
che quest’opera sorgesse e presto.
Quando la Conferenza di S. Vincenzo
riuscì ad ottenere in affitto per 500 lire
dal barone Cataldi una villa a Marassi
(villa Oneto) sul declivio orientale
della Val Bisagno, Don Bosco accettò.
II 26 ottobre mandò Don Albera con
due giovani salesiani, tre capi
laboratorio ed un cuoco. Don Albera
accettò con animo sereno la direzione
della casa. Al momento di partire Don
Bosco gli raccomandò di non darsi
pensiero di niente e di riporre tutta la
fiducia nel Signore. Gli chiese poi se
avesse bisogno di qualche cosa.
- «No, signor Don Bosco – rispose –
La ringrazio, ho con me 500 lire».
E Don Bosco:
113
- «Non è necessario tanto denaro. Non
ci sarà la Provvidenza a Genova? Va’
tranquillo, la Provvidenza penserà
anche a te».
Ritirò le 500 lire e gli lasciò una
somma molto inferiore. E la
Provvidenza non mancò.
Così inizia la storia di Don Bosco e
della sua opera nel capoluogo ligure.
I vicini della Villa Oneto di Marassi
chiamarono i salesiani «quelli dei
discoli», un nomignolo che non era
indicato... Con meraviglia si accorsero
della famigliarità che esisteva fra
salesiani ed alunni: conversavano,
giocavano insieme e alla sera, nel
cortile, cantavano... Era la pratica del
sistema preventivo che trova il suo
fondamento nell’accoglienza, nel clima
di famiglia e nella pratica gioiosa della
religione.(7)
Se l’inizio fu povero, anzi eroicamente
povero, i buoni genovesi aiutarono i
ragazzi di Don Bosco. La storia dice
che Domenico Prefumo fu per loro un
secondo padre.
4. A Sampierdarena
Don Bosco andò a Marassi due volte,
nel ‘71 e nel ‘72. Nella seconda visita
si rese conto che, essendo cresciuto il
numero dei giovani, ormai oltre 40,
occorreva una sede più ampia. La
scelta cadde su Sampierdarena, che
stava diventando un polo notevole di
sviluppo industriale e punto di
riferimento di un elevato flusso di
immigrazione. Secondo l’intenzione di
Don Bosco e dell’Arcivescovo Mons.
Magnasco l’Opera avrebbe dovuto
animare spiritualmente i
Sampierdarenesi e i nuovi che
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Il Tempietto
affluivano numerosi come operai
dell’Ansaldo e di altre fabbriche. Ma
era necessario salvaguardare la
cattolicità della zona, come d’altra
parte accadeva a Torino.
L’aumento della popolazione di
Sampierdarea (da 14.000 nel 1862 a
22.000 nel 1882, a 58.000 nel 1931)
non è dovuto alla natalità, ma
all’immigrazione: necessità di lavoro,
affari, commercio convogliavano qui
ogni sorta di gente. Dei nuovi arrivati
non pochi erano Anglicani, Luterani,
Calvinisti. La massoneria poi
esercitava tutto il suo impegno ed
all’epoca aveva aperto un ricreatorio
festivo. (8) Un articolo dell’Osservatore
Romano del 2 gennaio 1876 parlando
di Genova scrive:
“Le cose erano a tal punto che
quella città in fatto di religione
era comunemente appellata piccola
Ginevra”.
L’11 novembre 1872 era il giorno del
trasloco da Marassi a Sampierdarena.
Fu ostacolato da un autentico nubifragio
sulla città. Vennero allora mandati
avanti cinque giovani artigiani con un
salesiano. Presero possesso dell’Ospizio,
ma non avevano da mangiare. Se ne
accorse un signore, Stefano Delcanto,
che provvide il necessario. Fu il primo
benefattore. Il tempo finalmente si
rasserenò e il 15 novembre l’intera
brigata partiva per Sampierdarena, a
piedi, ognuno col proprio fagotto. Erano
in 35.
Le difficoltà nella nuova casa furono
tante... Col tempo però tutto si sistemò.
Fu reso agibile l’antico convento. Fu
ampliata e risistemata la chiesa. A
fianco della Chiesa fu innalzata la prima
costruzione su disegno dell’Ing.
Campanella. Intanto anche il numero
dei ragazzi aumentava. Oltre all’ospizio
destinato ai giovani orfani, si aprì, nello
stesso mese di novembre 1872, anche
l’oratorio festivo, dove accorse subito
numerosa la gioventù della città.
5. Le scuole professionali
Genova nella seconda metà dell’800
vive il passaggio dall’artigianato
all’industria, che richiede operai
qualificati e tecnici. Esplode anche la
questione operaia, resa più sensibile
dalla migrazione interna. Come a
Torino, anche a Genova numerosi
giovani bisognosi di accoglienza e di
occupazione vagano senza una casa e
senza protezione. Stessa situazione,
analoga risposta! Se a Torino l’ospizio
per accogliere i giovani orfani e/o
senza casa viene dopo l’Oratorio come
risposta all’emergenza giovanile, a
Genova s’inizia come Ospizio cui
segue subito l’Oratorio.
Per Don Bosco la soluzione ai
problemi dei giovani in difficoltà è la
educazione professionale, vista come
strumento di elevazione della dignità e
della condizione del giovane operaio.
E la storia gli ha dato ragione. A
Sampierdarena, detta la Manchester
d’Italia, sorgerà la scuola di “Arti e
Mestieri”. È l’opera di un uomo che ha
colto i problemi del suo tempo e ne
tenta una originale risposta. La prima
in ordine e di tempo e d’importanza in
Liguria. Nel 1874 oltre ai laboratori
per sarti, falegnami, calzolai, già in
funzione a Marassi, con ritmo veloce
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Il Tempietto
allestisce laboratori per meccanici,
tipografi, stampatori e legatori. La
tipografia di Sampierdarena è la
seconda fondata dal Santo: qui si
stamperanno le Letture Cattoiche e le
prime annate del «Bollettino
Salesiano» dal 1878 in avanti, la
rivista voluta da Don Bosco, oggi
stampata in 19 lingue e diffusa in 45
nazioni, con una tiratura di oltre
10.000.000 di copie annue.
Pur nell’evolversi delle forme nel tempo,
la Scuola di Arti e Mestieri –
un’esperienza ormai forte e maturata a
Torino Valdocco – sarà il filo rosso che
attraversa l’intero arco dei 140 anni:
dalla fase dei laboratori alla scuola
professionale, oggi definita “Centro di
formazione professionale",
dall’apprendere un mestiere a dare
un’istruzione scolastica adeguata, agli
attuali CFP, come risposta al diritto di
ogni giovane di seguire il percorso
scolastico o quello professionale.
Sampierdarena si è dimostrata una
scelta giusta: per la sua vocazione
operaia e industriale ha costretto i
Salesiani a pensare e ripensare le
strutture, in funzione dei nuovi sbocchi
di lavoro. E il problema si pone anche
oggi…
Per capire la vitalità della scuola
professionale di Sampierdarena
dobbiamo tornare alla sorgente, Don
Bosco; si comprende se la vediamo
come il dilatarsi dell’unica onda che
nasce dal suo “modo di rispondere”
alle emergenze del suo tempo.
Intuizioni e patrimonio educativo che
vengono portati con la “sua presenza”
e con quella dei suoi Salesiani a
Genova.
115
L’opera educativa del Santo dei giovani,
nell’aderire alla realtà storica, si carica
di valenza sociale. Non teorizza una
terza via tra liberalismo e marxismo.
Percorre una via di ricupero della
solidarietà smarrita dal liberismo in
nome della libertà e della concorrenza.
Nel medesimo tempo rifugge dallo
scontro di classe teorizzato dal
marxismo. La sua intuizione nasce dal
Vangelo che lo porta ad evitare l’odio di
classe e favorire la solidarietà, ancora
prima della nascita del manifesto di
Marx e nel tempo del liberismo
trionfante. A partire dalla sua
esperienza giovanile in vari ambienti di
lavoro intuì che il problema sociale era
un problema umano non risolvibile se
non col sentimento di amore fra gli
uomini lievitando di nuovo spirito il
tessuto sociale.
“Si trattava – scrive Bargellini –
di ridestare nei lavoratori il senso
spirituale della dignità, della
funzione elevatrice del lavoro, là
dove stava avanzando il
materialismo, un abbassamento
livellatore, mortificatore della
personalità; si trattava di
contrapporre la carità al
risentimento, all’odio, la
cooperazione alla lotta, la
solidarietà alla discordia, la
consapevolezza della necessaria
reciproca contribuzione allo sterile
antagonismo, all’ansiosa gara di
prevalenza di una classe sociale
sulle altre”. E aggiunge: quello che
colpisce le origini e le
caratteristiche delle scuole
professionali, “è l’intimo legame
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Il Tempietto
tra spirituale e materiale,
l’educazione dell’anima e
dell’intelletto con quella della
mano operosa. In questa
armoniosa inquadratura troviamo
l’anticipazione geniale, in tempi
così diversi e oscuri, di quelle
direttrici, di quei criteri, di quel
sistema didattico, che doveva poi
essere universalmente accettato, e
che tutt’oggi informa con singolare
e aderenza l’ordinamento attuale,
dopo tanti studi e dibattiti in
materia”. (9)
Don Bosco non fu tuttavia il
precursore dell’artigianato giovanile.
Altri lo precedettero, basta pensare
alle vite di Calasanzio, di Emiliani e di
La Salle. Anche a metà ‘800 troviamo
tentativi del genere, come gli
Artigianelli di don Cocchi a Torino. Il
proprium di don Bosco sta nella
capacità di armonizzare l’istituzione
coi tempi e imprimerle il proprio
metodo educativo.
Il capitolo generale del 1886 recita:
"Il fine che si propone la Società
Salesiana nell’accogliere ed
educare i giovani artigiani si è di
allevarli in modo che, uscendo
dalle nostre case dopo aver
compiuto il loro tirocinio, abbiamo
appreso un mestiere onde
guadagnarsi il pane della vita,
siano istruiti nella religione ed
abbiano le cognizioni scientifiche
opportune al loro stato”.(10)
L’Opera, su richiesta della popolazione,
si occupò anche delle scuole elementari:
il leggere, lo scrivere e far di conto era
allora un dogma sociale. L’apertura del
Ginnasio poi formò in tanti anni una
schiera di exallievi che portano ancora
nella vita indelebile il ricordo dello
spirito di Don Bosco.
6. Desiderio o profezia?
Un giorno del luglio 1876, durante un
soggiorno di Don Bosco a
Sampierdarena, sedevano attorno al
Santo, a mensa, vari benefattori. Sulla
fine, la piccola banda musicale
dell’Istituto faceva echeggiare l’aria di
una marcia festosa. Espressione della
gioia che provavano d’avere in mezzo a
loro il buon Padre e i cari benefattori.
Uno di questi, un sacerdote che aveva
avuto molta parte nell’arrivo dei figli
di Don Bosco a Sampierdarena, disse:
- Don Bosco chi avrebbe
immaginato che l’Istituto avrebbe
preso tanto incremento! I quaranta
giovani si sono moltiplicati. Ora è
una vita! Saranno ormai
duecento!
- Sono duecento – rispose Don
Bosco – ma cresceranno ancora.
- Mi pare che sia già un numero
rilevante.
- Cresceranno, e un giorno se ne
conteranno trecento e quattrocento
e più ancora. Questa casa per
numero e per importanza non sarà
a meno dell’Oratorio di
Valdocco(11).
Era una profezia oppure soltanto
l’espressione del desiderio di Don
Bosco o un segno del grande affetto
per quest’opera?
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Il Tempietto
Don Michele Rua, il primo successore
di Don Bosco, l’anno dopo, nel lodare
il lavoro dei Salesiani a Sampierdarena
esclamava:
"Io devo parlare con un poco di
invidia di questo Istituto, perché
minaccia di sopraffare l’Oratorio.
Cinque anni fa era una casupola a
Marassi. Qui l’opera non poteva
ingrandirsi. Si trattò di
trasportarla a Sampierdarena,
città famosa per l’irreligione e la
framassoneria. Era impresa
arrischiata. Ma la Divina
Provvidenza…Vi era bisogno di
una fabbrica corrispondente alle
necessità. Don Bosco andò a farvi
visita e sorse come per incanto una
bella e grande fabbrica…In breve
tempo crebbero i giovani ed ora
sono da 260 a 300. Quasi
raggiungono il numero di quelli
dell’Oratorio. I giovani, fra cui
molti già di età, che studiano il
latino sono circa 80, per fornire
alla Chiesa ed alla Congregazione
buoni ministri del Signore.” (11 bis)
Nel brano di don Rua si parla di 80
giovani già in età, sono i Figli di
Maria, fiore all’occhiello per don
Bosco. Un’istituzione che il Santo
avrebbe voluto all’Oratorio di Torino,
ma per i rapporti tesi con l’arcivescovo
Gastaldi, fu consigliato da Roma a
situarla altrove. E Sampierdarena fu la
sede prescelta. Si dice che abbia dato
alla Chiesa 300 sacerdoti, diocesani e
religiosi. Tra i Salesiani ricordiamo
don Filippo Rinaldi, che sarà il terzo
successore di don Bosco, Michele Unia
117
e Raffaele Crippa che si dedicheranno
entrambi ai lebbrosi in Colombia.
L’espandersi dell’Opera di Don Bosco
in Sampierdarena suscita stupore
anche per noi. I 140 anni di vita sono
stati un crescendo di coraggiose
risposte, nell’evolversi delle situazioni
e sembra non finire. Vera casa di don
Bosco. Fresca nella sua identità
salesiana. Cresciuta nel più genuino
spirito di don Bosco, aperta alle
promesse e alle attese quest’opera
continua ad essere una realtà viva nel
tessuto sociale, ecclesiale, educativo
della grande Genova. Oggi centinaia e
migliaia di giovani la sentono casa
loro: città dei giovani ove trovano spazi
per il gioco, sale per la cultura, aule
per studiare e chiesa per pregare.
7. Sampierdarena:
città in costruzione
La città di Sampierdarena dall’‘800 è
una comunità sempre in costruzione:
da “villeggiatura” della nobiltà
genovese fino all’‘800 diviene città
operaia nella seconda metà dell’‘800 e
nel 2000 multietnica. Il flusso
migratorio interno – dalla campagna e
dal Meridione prima, e quello estero
nell’ultimo trentennio fino all’arrivo
dei latino-americani – pone alla città
gravi problemi. Oggi è meta prescelta
di una massiccia immigrazione
ecuadoriana, e la via dell’integrazione
trova forti difficoltà. Ma il flusso
migratorio non è solo problema, è
anche un’opportunità. Come sempre i
Salesiani “sentono” il disagio della
Comunità che si ritrova “diversa” e
con difficoltà gestisce la “novità”.
Il “Don Bosco” apre le porte ai nuovi
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Il Tempietto
arrivati facendo proprio il monito di
don Bosco che raccomandava ai primi
missionari partenti per l’America
Latina nel 1875:
“Vi raccomando poi con insistenza
particolare la dolorosa posizione di
molte famiglie italiane che
numerose vivono disperse in quelle
città ed in quei paesi in mezzo alle
estese campagne…Andate, cercate
questi nostri fratelli, cui la miseria
o la sventura portò in terra
straniera e adoperatevi per fare
loro conoscere quanto grande sia
la misericordia di quel Dio, che ad
essi vi manda per il bene delle
anime loro, per aiutarli a
conoscere e seguire quella strada,
che sicura conduca all’eterna
salvezza”. (12)
Per l’emigrato il sentirsi fuori della
patria d’origine è motivo di particolare
disagio, più marcato negli adolescenti
già in difficoltà nella costruzione della
propria identità.
I giovani, nella casa di Sampierdarena:
erano 42 a Marassi nel 1871, 500 nel
1935, più di 800 attualmente nelle
scuole e varie migliaia nell’Oratorio e
nelle molteplici iniziative sportive
dislocate in diverse filiali in città.
8. Quartiere generale
L’opera di Sampierdarena è stata per
Don Bosco come una stazione, un
quartiere generale per i contatti con
famiglie genovesi benemerite
dell’Opera. Da Genova partì nel 1875
la prima spedizione missionaria e le
altre successive. La Congregazione
Salesiana diveniva mondiale. Da
Sampierdarena Don Bosco, commosso,
accompagnava i suoi al «Savoie», il
piroscafo che salpava per le Americhe.
E da allora lo slancio missionario si è
allargato al mondo e ogni anno, nel
mese di ottobre, il Successore di don
Bosco consegna il crocifisso ai nuovi
missionari. Sono religiosi salesiani,
cooperatori, giovani e adulti che
intendono offrire qualche anno o mese
all’impegno missionario salesiano. Ora
non partono più via mare, ma
raggiungono i vari continenti in aereo.
9. Soste di don Bosco
a Genova
I soggiorni del Santo nella casa furono
frequenti e prolungati. Vi si fermò
anche per cinque o sei giorni di
seguito. Qui passò ben 169 giorni della
sua vita. Sarebbe interessante seguire i
vari incontri di don Bosco con i
Genovesi. In breve possiamo parlare di
una fase precedente la fondazione
dell’Ospizio di S. Vincenzo, prima a
Marassi poi trasferito a Sampierdarena,
e di una fase seguente.
Nel 1857 don Bosco sente il bisogno
di scendere a Genova. Cerca aiuto da
parte di personalità ragguardevoli,
ecclesiastici e nobili: ha bisogno di
farsi conoscere e deve fare la
propaganda per la diffusione delle
Letture Cattoliche. Inizia a tessere la
tela di relazioni, prodromi
provvidenziali di avvenimenti di anni
futuri.(13) Il vescovo di Genova è
Charvaz, grande estimatore di don
Bosco, promosso dalla diocesi di
Pinerolo alla sede del capoluogo ligure
nel 1852 per l’intervento dello stesso
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Cavour. Il nuovo vescovo, genovese,
poteva essere ponte tra la nobiltà
genovese, il clero genovese e il
potentato economico, aristocratico,
sociale e culturale. (14) In questa prima
sosta è ospite del marchese Antonio
Brignole Sale. Ospitalità che apre la
porta a quanti lo vogliono conoscere.
Incontrerà don Montebruno che in
Genova aveva fondato l’Opera
Artigianelli come don Bosco a Torino.
Tra i due nasce stima, amicizia,
volontà di aiutarsi. Addirittura don
Montebruno vorrebbe fondere la
propria opera con quella di don Bosco
e, dopo una permanenza a Valdocco di
quindici giorni, è propenso ad affidarsi
a don Bosco. Conoscerà don
Frassinetti, teologo moralista che gli
sarà di grande aiuto per le Letture
Cattoliche, di cui scriverà cinque
libretti. Volle conoscere le Conferenze
genovesi di San Vincenzo de’ Paoli, da
cui verrà poi la proposta concreta di
fondare un’opera a Genova. Nasceva
forse l’idea di una sua opera a
Genova?
Nel 1864 nella passeggiata autunnale
arriva anche Genova. Coi suoi giovami
sarà ospite del Seminario maggiore,
visterà con la guida di alcuni soci della
San Vincenzo la città e, nella giornata
conclusiva, sul trenino Genova – Pegli
andrà ad incontrare nella sua splendida
dimora l’amico marchese Ignazio
Pallavicini. Tra le donne nobili genovesi
che aiutano don Bosco c’è la figlia Nina
del senatore Ignazio. Ella aveva scritto,
nel 1860, a don Bosco per
raccomandare ragazzi suoi protetti negli
ospizi di Torino. Diverrà una
cooperatrice, una benefattrice. Una
119
quindicina di anni dopo – come
abbiamo accennato – l’Oratorio di
Sampierdarena si allargherà nel terreno
e nella villa Pallavicini confinante con
l’Ospizio stesso.
Il 1871 segna la nascita della prima
opera salesiana a Genova. Sarà
preceduta da visite per definire la
fondazione di un ospizio per giovani in
difficoltà. Due soci della confraternità
di San Vincenzo, Varetti e Prefumo, si
rivolgono al barone Castaldi che si
rende disponibile ad affidare e affittare
ai Salesiani una sua villa a 500 lire
nella zona di Marassi. Don Bosco il 6
settembre è a Genova in visita la
baronessa Cataldi, per ossequiarla e
parlare della nuova fondazione. Il 26
settembre visita la villa a Marassi
destinata all’Ospizio; cerca benefattori
per avere aiuti per la nuova opera. Il
26 ottobre Don Albera con alcuni
salesiani è inviato a dirigere la nuova
opera… che manca di tutto. Il giorno
dopo Don Albera va all’arcivecovado,
ma Mons. Magnasco è a Roma pechè
aveva avuto notizia della sua elezione
ad arcivescovo di Genova. Va ricordato
la parte che ebbe don Bosco nella
mediazione tra governo italiano e curia
romana per tale elezione. L’8
settembre infatti il ministro degli
interni On. Lanza aveva invitato don
Bosco, tramite il prefetto di Torino,
“a recarsi al più presto a Firenze per
conferire sopra affare a lui noto”.
L’affare era la nomina dei vescovi alle
sedi vacanti, affare che da mesi
trattava per incarico di Pio IX. Il nome
suggerito per la diocesi di Genova è
Mons Magnasco e don Bosco può
portare il placet al papa.(15)
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Il 2-3 dicembre visita i suoi figli
nell’Ospizio di Marassi. Nel giugno del
1872, convinto che la sede di Marassi
non sia adatta per un Ospizio, va a
Samperdarean e visita la chiesa e il
convento di San Gaetano. Dopo un
estenuante lavoro per superare gli
ostacoli sorti, in luglio conclude il
contratto di compera dei suddetti
immobili.
Nella prima settimana di dicembre
visita i suoi figli trasferiti a
Sampierdarena, da Marassi.
D’ora in poi i soggiorni di don Bosco
in quella che lui ritiene la “sua
seconda casa” si infittiscono. I biografi
ne formulano un preciso calendario.
Ogni anno, fino alla primavera del ‘87,
è segnato dalla sua presenza: incontra
i Salesiani, i giovani dell’opera, i
benefattori, e sosta per udienze
prolungate al fine di accontentare tutti.
La sua cameretta è testimone delle
meraviglie che la Divina Provvidenza
opera per mezzo del Santo dei giovani.
La cronaca della casa riporta il tutto e
i suoi biografi lo comunicano al
mondo. Sampierdarena spesso diviene
per don Bosco la provvidenza che si fa
visibile, in particolare, in Mons.
Magnasco. Per lui va in porto la bella
e fortunata impresa dei figli di Maria,
col suo appoggio può stampare per un
certo tempo il Bollettino Salesiano e le
Letture Cattoliche. La città di Genova
diviene un punto di riposo e rifugio nei
momenti difficili, punto di passaggio
tra Torino e Roma, porto per inviare i
suoi Salesiani nel mondo.
10. “Il don Bosco” oggi
Nell’Opera di Sampierdarena,
seguendo l’evoluzione della scuola in
Italia, si succedettero il ginnasio,
l’avviamento e la scuola tecnica, la
scuola media e le classi della qualifica
professionale che preparava operai
richiesti dal mondo del lavoro. Nel
1963 nacque l’Istituto Tecnico
Industriale per meccanici,
elettrotecnici, elettronici, informatici.
Fino a non molti anni fa le grandi
industrie genovesi si premuravano di
chiedere al Don Bosco gli elenchi dei
ragazzi ancor prima che finissero i loro
studi, per assumerli subito nel mondo
del lavoro.
Oggi – in un momento di calo
demografico e insufficiente attenzione
al diritto alle scelte educative da parte
dei genitori – sono diminuite le
iscrizioni scolastiche. Però la scuola
resta un punto educativo tipicamente
salesiano. Per questo al Don Bosco,
accanto all’Istituto Tecnico, nel 1991,
nacque anche un Liceo Scientifico e
per breve esperienza anche il Liceo
sportivo. Infine sono sorte altre attività
educative: il “nido”, una scuola
materna e una scuola elementare,
l’“Albero Generoso”. Sempre
nell’alveo della Scuola non possiamo
tacere, per il recente passato il Centro
Linguistico, il Centro di Orientamento
psico-diagnostico, dal primo decennio
del 2000 il Centro di Formazione
Professionale.
Ma il Don Bosco è stato da sempre una
“casa”. Un solo dato: nell’immediato
dopoguerra, al Don Bosco sono stati
ospitati – anche a mangiare e dormire
– fino a 500 ragazzi! Anche
nell’attuale stagione della “rivoluzione
dei giovani” dell’Africa del Nord con
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Il Tempietto
la conseguente emigrazione di massa
in Italia, alla richiesta delle autorità
comunali di alloggio per una
quindicina di ragazzi profughi, “il Don
Bosco” ha dato la sua disponibilità.
L’emergenza è stato poi risolta
diversamente.
Dove trovano i salesiani le risorse per
questi servizi? Noi diciamo: la
Provvidenza. Tutta Genova ha sempre
visto con grande interesse e amore lo
sforzo di quest’opera. E possiamo anche
noi, Salesiani di oggi, testimoniare che
questa Provvidenza continua.
Il manto verde dei cortili, fino ai primi
anni del 2000 polverosi, è l’icona di
questa città dei ragazzi. Don Bosco per
i suoi giovani voleva sempre le cose
più belle! Si può dire che i
Sampierdarenesi sono cresciuti nei
cortili dell’Oratorio. Un giorno è stato
chiesto a un “onorevole” del posto
cosa sarebbe successo se noi salesiani
avessimo – per ipotesi – chiuso il
cancelletto dell’Oratorio. La sua
risposta: “Sampierdarena perderebbe
un polmone”.
Oratorio non è però solo sinonimo di
cortile: dal cortile prendono storia e
vigore le tante iniziative, che poi
rendono adulti i giovani. Di qui sono
nate attività come il Club Amici del
Cinema; il Centro Cultura il Tempietto
con le sue attività teatrali, letterarie e
sociali, musicali e mostre d’arte, i
convegni giovanili e la Rivista “Il
Tempietto”… Di qui sono nati:
l’UNITRE, l’Università della Terza Età,
che oggi conta 2.500 iscritti con più di
cento corsi, il Paladonbosco e l’Unione
Sportiva Don Bosco. Da ultimo “Il
Sogno”, compagnia teatrale giovanile
121
oratoriana e lo “Sportello servizi
integrati”. Davvero un’immagine fedele
dell’Oratorio voluto da don Bosco.
Oratorio che è luogo e uno stile
educativo. Non per nulla, nel 1970, i
Salesiani nelle loro Costituzioni hanno
definito ogni loro opera sul modello del
primo oratorio di don Bosco, “casa che
accoglie, parrocchia che evangelizza,
scuola che avvia alla vita, cortile per
incontrarsi tra amici e vivere in
allegria”.
Possiamo infine solo immaginare
l’altissimo numero di exallievi… E
tanti sono coloro che oggi come ieri
occupano posti significativi nella
società, nelle Istituzioni e nella Chiesa.
Sono onesti cittadini e buoni cristiani.
In Genova trovi ex allievi ovunque!
Quanti sono? Si può calcolare che in
140 anni siano usciti da quest’opera
dai 30 ai 40 mila giovani. Forse sono
molto di più se si calcolano anche chi
ha frequentato solo la scuola Media.
Senza contare chi ha sostato
nell’Oratorio e/o in parrocchia.
11. La prima parrocchia
salesiana in Liguria
Ospizio, Oratorio, parrocchia: sono i
tre pilastri della presenza dei Salesiani
a Sampierdarena. Qui, oltre
all’incontro con Dio, fioriscono il
dialogo con chi è in ricerca, la
solidarietà verso i più poveri, le
proposte per una migliore qualità di
vita, l’attenzione ai malati, ai soli. È
visibile e insostituibile la dimensione
del Volontariato.
Dal 2005 il don Bosco di
Sampierdarena veste i colori del
mondo: ha aperto il cuore e le porte ai
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Il Tempietto
numerosi emigrati in cerca di spazi per
giocare, di una chiesa per pregare e di
aule per studiare. Ritorna anche per i
Salesiani di oggi l’invito del Santo – ai
missionari in partenza per L’America
Latina- a impegnarsi per gli emigrati
italiani. (15 bis) Attualmente ospitiamo
l’Università ecuadoriana della Loja –
Istruzione a distanza – e la Scuola
Superiore Josè Maria Velaz per periti
informatici. Gli studenti – giovani
emigrati lavoratori – vengono a
studiare il sabato pomeriggio e la
domenica mattina. Nella comunità
parrocchiale sta consolidandosi una
comunità latino-americana ben
strutturata e ogni domenica si celebra
una S. Messa in lingua spagnola. I
nuovi arrivati, in gran parte latinoamericani, sono l’ultimo tocco di
novità che corre col tempo.
Il piccolo Oratorio di 140 anni fa è ora
Oratorio del mondo, la parrocchia è
anche è “parrocchia per i latinoamericani” di Sampierdarena.
12. Don Paolo Albera: il
“piccolo don Bosco” di Genova
La casa salesiana di Sampierdarena,
tanto cara a don Bosco, è ritenuta ” la
seconda Valdocco”. Ci si chiede il
perché. Il desiderio o profezia di don
Bosco sul luminoso futuro dell’Opera
riguarda il fatto, non dice il perché.
Credo che la spiegazione più
convincente sia, oltre la predilezione
di don Bosco per l’Opera (qui trova
rifugio nei momenti di sofferenza, qui
istituisce i Figli di Maria, da qui
partono le varie “spedizioni”
missionarie), sia la presenza di don
Paolo Albera, il primo direttore dal
1871 al 1881. È stato il “don Bosco
per Genova”. Egli, avendo assimilato
profondamente lo spirito del fondatore,
lo farà vivere intensamente a Genova.
Ricorda lui stesso nel 1920:
"Cinque anni ho vissuto con il
buon Padre (1858-1863)
respirando quasi la sua stessa
anima, perché si può dirlo senza
esagerazione, da noi giovani di
allora si viveva interamente della
vita di lui, che possedeva in grado
eminente quasi un’atmosfera le
virtù conquistatrici e trasformatrici
dei cuori”.(…) Mi sentivo fatto
prigioniero da una potenza
affettiva che mi alimentava i
pensieri, le parole, le azioni, ma
non saprei descrivere meglio questo
stato e felicità, dell’animo mio, che
era pure quello dei miei compagni
d’allora: sentivo di essere amato in
un modo non mai provato prima”.
(…) “L’amore di don Bosco ci
avvolgeva tutti e interamente quasi
in un’atmosfera di contentezza da
cui erano bandite pene, tristezze, e
malinconie” (16)
“Quel mondo", “quello spirito di
famiglia” don Albera lo impiantò a
Sampiedarena. In lui e con la
comunità salesiana inizia a realizzarsi
la “profezia", per il numero degli
allievi come per l’importanza
dell’Opera. L’oggi affonda in quelle
solidi radici. L’ospizio cresce come
fedele copia dell’ ‘’Oratorio di
Valdocco” e può essere ritenuta a
ragione la “Seconda Valdocco”.
Don Albera edificava tutti per la sua
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Il Tempietto
semplicità di modi e di santità di vita.
A tutti era di esempio di dedizione
totale di sè agli altri. A ragione un
giorno il canonico Gaetano Alimonda,
poi cardinale di Torino, al salesiano
don Domenico Canepa – dopo aver
predicato in San Gaetano una missione
per le Società Operaie Cattoliche –
alludendo alla figura straordinaria di
don Albera, disse: “Voi salesiani siete
fortunati di avere questa autentica
perla di sacerdote”. (17)
Don Albera, seguendo l’esempio e i
consigli di don Bosco, ebbe grande
fiducia nella Provvidenza; fu uno
squisito ed intelligente educatore. Mise
in atto per l’Opera di Sampierdarena le
doti di organizzatore, costruttore e
animatore spirituale e soprattutto la sua
bontà. “I giovani ed i confratelli
sentivano in lui il padre sensibilissimo
alle loro svariate necessità, la pietà che
trascina al bene, la mente colta, aperta
che intuiva le loro disposizioni
psicologiche e ad esse si conformava nel
porgere ad ognuno il suo aiuto”.(18) Don
Bosco gli aveva detto: “A Genova ci
sarà la provvidenza ance per te”. Ed egli
che mai dubitò dell’assicurazione del
buon Padre, ne potè fare la più ampia
esperienza. Tutte le porte dei grandi
signori genovesi, come della gente del
popolo, furono sempre aperte al giovane
sacerdote, così modesto e così amabile.
Se Don Bosco fondò l’Opera, don
Albera, nel decennio seguente, la
costruì. Scrive don Guido Favini:
"Non fu infatti inviato a
continuare imprese da altri poste
in cammino, ma per immettere
nelle opere salesiane un corpo
123
nuovo. Lo guida un’idea potente:
rendere testimonianza all’altro,
grazie al quale si è ciò che si è e si
ha ciò che si ha. L’altro, ossia don
Bosco, sta al sommo di ogni suo
pensiero, di ogni parola, di ogni
desiderio"(19) E aggiunge: “E non
fa stupire che don Bosco gradisse
lui Paolino, in ginocchio in atto di
confessarsi, quando si riuscì a fare
la prima fotografia del Santo. È
incantevole, pur nella semplicità
della lastra fotografica”. (20)
13. Altre presenze salesiane
nella città di Genova.
L’Istituto Don Bosco – Opera
“Pretto” a Quarto dei Mille
A Genova Quarto, l’Istituto Salesiano
Don Bosco, Opera Pretto è nato dal
cuore di Giuseppe Alberto Pretto, che
l’ha voluto a ricordo dei figli Eugenio e
Pierino. Un’altra bella risposta alla
previsione con cui Don Bosco invia
don Albera a Genova: “Non ci sarà la
Provvidenza a Genova?”. E la
Provvidenza è stata grande per il
Ponente non meno che per il Levante
della città.
L’Istituto inizia la sua attività nel 1960
e attraverso varie vicende è diventato
un centro prevalentemente
professionale, particolarmente stimato
dalle Istituzioni come dagli alunni e
dalle famiglie. Nella casa di Don
Bosco i giovani trovano il clima
caratteristico di gioia e di lavoro
proprio del Santo. Negli ultimi anni i
Salesiani gestiscono la Parrocchia dei
Santi Angeli Custodi, hanno aperto
l’Oratorio – Centro Giovanile, curano
l’ospitalità dei giovani universitari e
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Il Tempietto
dei genitori dei bambini in cura presso
l’Ospedale Gaslini. L’Associazionismo,
le recite, la musica e lo sport integrano
l’opera della scuola, notevole per
l’efficienza sul piano culturale come su
quello educativo.
Le Figlie di Maria Ausiliatrice
Fu don Pestarino, parroco di Mornese
e salesiano esterno, a fornire a Don
Bosco il primo nucleo delle Figlie di
Maria Ausiliatrice (FMA). Il fiore più
bello di questo giardino fu Maria
Mazzarello, che con Don Bosco fondò
la nuova Congregazione.
Quel primo nucleo si allargò e nel
1877 cinque suore partirono per
l’America. La santa le presentò a Don
Bosco perché le benedicesse. Don
Bosco fece di più: le ascoltò ad una ad
una dando loro preziosi consigli per il
loro lavoro.
Madre Mazzarello fu ancora a Genova
alla fine del 1878 e accompagnò a
bordo del “Savoie” altre suore e vi
trovò Don Bosco con tre missionari.(21)
Le suore avevano bisogno di una sede
fissa. L’ebbero anch’esse a
Sampierdarena l’8 dicembre del 1881,
quando Don Bosco le invitò a
prendersi cura dell’Ospizio di san
Vincenzo de’ Paoli. Con l’Oratorio
nacquero le altre opere: la scuola
materna e la scuola elementare. Ne
guadagnò la Parrocchia San Gaetano: i
catechismi per i bambini e le varie
associazioni.
La presenza delle FMA punteggiò la
città e l’immediato entroterra. La
prima grande opera delle FMA in
Genova è quella di Corso Sardegna,
nel quartiere di Marassi: l’Oratorio e il
complesso di scuole che comprende,
oltre la materna, le elementari, la
scuola media, il Liceo della
Comunicazione e il CIOFS, Centro di
Formazione Professionale.
Nel 1912 la Signora Angela Picone
offriva in uso alle FMA una sua
palazzina in Corso Magenta. Vi
apersero un Pensionato-convitto per
signorine. Rivelatasi col tempo
insufficiente, nel 1922, si trasferirono
in Corso Mentana. Aggiunsero una
scuola di lavoro e l’Oratorio festivo.
Nel 1927 l’opera si trasferì
definitivamente in Corso Sardegna
nell’antica villa Ruzza ridotta dall’ing.
Giuseppe Massardo a locale scolastico
di comoda semplicità. Nel 1933 si aprì
una scuola magistrale.
Se torniamo al 1871, sappiamo che
don Bosco visitò questa zona della
città e iniziò il suo ospizio a villa
Oneto. Oggi in questa località -Marassi
– le FMA, con l’imponente complesso
di attività nel campo dell’istruzione
come in quello della formazione
professionale, fanno tanto bene nel
nome del Santo. Ma l’opera più bella a
favore dei figli e delle figlie del popolo
è l’oratorio fotografia di quello di
Valdocco nello spirito di Mornese.
Le FMA a Genova, nel primo
Novecento, operarono anche in altre
zone della città e nell’entroterra
genovese. Seguendo le indicazioni di
Sciaccaluga le ricordiamo in ordine di
tempo. L’avv. Conte Luigi Aquarone in
una sua villa di Bolzaneto concretizza
il progetto di fondare le Colonie
Alpine Genovesi. Un’umile suora F. M.
A., provvisoriamente in famiglia per
assistere il padre infermo, non
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Il Tempietto
tralascia la sua missione di catechista.
Raduna all’ospedale i bambini della
parrocchia: parla loro del Signore, li
assiste nei giochi e li intrattiene
benevolmente. Il conte la osserva. Ne
rimane sorpreso. Ha trovato le suore
che rispondono alle sue aspettative di
assistere maternamente le bambine
nelle colonie alpine. Viene in contatto
con le FMA e nel 1903 si apre a
Rigoso la prima colonia. Negli anni
seguenti altre sorgeranno ai Giovi, a
Masone, Prele con sezioni maschile e
femminili. Per più anni le suore
esplicano la loro missione. Soddisfatto
il conte spera di avere le stesse suore
per la fondazione dell’Albergo del
Fanciullo. La prima sede sorge a San
Fruttuoso in un palazzo del Senatore
Erasmo Piaggio, nel 1911 per il
crescente numero dei piccoli ospiti si
trasferirà in Oregina e l’ex
Conservatorio della Provvidenza,
riadattato e ampliato, diviene la sede
definitiva. L’educazione nello stile di
don Bosco è affidata alle suore.
Vengono accolti orfani ed abbandonati.
Ne beneficeranno anche gli orfani di
guerra. Vi è annessa una scuola
materna e un dopo scuola.
Generazioni di fanciulli si susseguono
in questa casa ospitale, che, sorretta
dalla carità genovese e dalla dedizione
delle FMA, darà alla società ed alla
chiesa cittadini onesti e cattolici
sinceri.
Nel 29 novembre del 1919 fu aperto
un orfanotrofio femminile a Pegli. Le
FMA trovarono aiuto nella nobile
famiglia Reggio che cedette loro la
villa Rosata. A rinfrancare le suore in
un’opera che pareva azzardata, perché
125
prive di fondi, concorse la benevolenza
di Benedetto XV pegliese, la Regina
Margherita e molte altre persone.
Dal novembre 1917 alla fine di agosto
del 1919 le FMA operarono per
l’assistenza alle profughe del Veneto,
dopo la disfatta di Caporetto, in un
appartamento di Vico Notturno n. 326,
nei pressi della Chiesa del Carmine.
La proposta del luogo e la finalità
dell’opera era stata proposta dalla
marchesa Viola Cattaneo Adorno,
presidente dell’associazione
“Protezione della giovane”. Sistemate
le profughe, le suore iniziarono
l’oratorio, coinvolgendo le stesse
profughe.
“La bontà accogliente delle
suore – conclude Sciaccaluga – fu
la potente attrattiva a quell’umile
casa, dove la serena gaiezza
trovava modo di effondersi ed
elevarsi, educandosi alla virtù”. (22)
La casa Orfani Gente di Mare a Voltri
sorse nel 1920. La sede per gli
orfanelli di bordo fu una villa dei
fratelli Piccardo, ampliata dalla
generosa beneficenza.
Di queste presenze resta l’Opera
grandiosa di Corso Sardegna. Delle
opere che hanno punteggiato la città
rimane la memoria storica. Vivono ed
operano tuttora nell’entroterra
genovese le opere di Masone e di
Monleone…nello spirito di don Bosco
e di Santa Mazzarello.
Conclusione
A prova del clima salesiano che si
respira nelle case delle FMA raccolgo
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la testimonianza di Mario Magogno,
gà ospite dell’Albergo del Fanciullo.
Ce la racconta Sonia Baronti(23).
“Ho trovato interessante la vicenda
di un piccolo ospite dell’Albergo
che, nonostante la sua infanzia
difficile è riuscito a riscattare la
propria vita, diventando tra l’altro
un famoso marionettista, fondatore
della “Compagnia Teatrale La
Giostra” e del “Teatro Dialettale
Genovese dei Burattini”.
Mario Magonio (1900-2009) ci lascia
una preziosa testimonianza della sua
vita nel libro di Ulderico Munzi Il
romanzo del Rex in cui racconta le
sue esperienze di orfano di guerra,
accolto in quattro diversi istituti per
l’infanzia abbandonata, e poi quelle di
operaio durante la costruzione e il varo
del grande transatlantico nei Cantieri
Ansaldo di Sestri Ponente:
«Sono venuto al mondo il 16
Dicembre 1909. Mio padre
Giovanni Magonio, è morto mentre
andava all’attacco con il
moschetto 91 e la baionetta in
canna assieme a tanta povera
gente in grigioverde. È stato
fulminato a Pangrande sul
Piave[…]. Ci ha lasciati soli, mia
mamma Gemma, mia sorella
Italia e io. Ha avuto una vita
movimentata, la mia mamma, e
non mi è stata mai accanto. È
stata la nonna, la madre della
mia mamma, che era slava, ad
allevarmi. E poi, orfano di guerra,
sono passato da un istituto
all’altro. Vivevamo nel centro di
Genova, a Vico Untoria, e io ogni
sera morivo di paura. […]. Ho
avuto ancora più paura quando
sono arrivate le guardie regie.
Sono scappato saltando dalla
finestra, mi sono fatto male, ma
sono riuscito a dileguarmi, con il
cuore che batteva come un
martello, nel buio di Genova. Non
ho più visto la mia nonna. Sono
finito in un istituto per bambini
abbandonati di Sant’Olcese. Le
suore erano perfide come streghe:
mi chiudevano nella carbonaia per
terrorizzarmi. L’incubo di
Sant’Olcese si è concluso quando
avevo sette anni e sono andato a
scuola all’Albergo dei Fanciulli
Umberto I. Stavolta ho trovato
delle suore buone,le suore salesiane
di Don Bosco, anche se i primi
tempi avevo paura di guardarle in
faccia temendo che potessero
trasformarsi nelle streghe di
Sant’Olcese. All’Albergo dei
Fanciulli ho imparato ad amare
la Madonna, ho trovato in lei una
madre, anche se mi chiedevo
sempre dove fosse la mia vera
mamma, la mamma di carne,
l’essere che mi aveva dato la vita.
Un orfano non conosce frontiere di
affetto: è sempre alla ricerca di un
sorriso, di una carezza, di un gesto
di benevolenza, di labbra che
sfiorino la sua fronte. […]. Ero un
ragazzino che aveva sempre vissuto
in collegio, che aveva appreso il
mestiere di operaio specializzato
all’ Istituto Artigianelli di Don
Montebruno».(24)
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Il Tempietto
Il riconoscente ricordo per le FMA che
lo curarono come un figlio compare
anche nella sua autobiografia:
«Di quell’Istituto conservo un buon
ricordo e anche ricordo la suora
che fu la mia prima
maestra. Pensare che, quando la
Direttrice me la presentò ed io vidi
che era una suora,
abbassai il capo e non ebbi più il
coraggio di alzarlo per la paura e
per i brutti ricordi che le
suore conosciute in precedenza mi
avevano lasciato. Ma questa suora
invece mi parlò molto dolcemente,
passandomi una mano lieve sulla
spalla e accarezzandomi i capelli.
“Caro bambino – mi disse – questa
è la tua nuova casa ed io sarò la
tua nuova mamma”. Alzai
finalmente lo sguardo su di lei e
vidi una donnina minuscola con
due grandi occhi azzurri che la
facevano assomigliare ad una
bambola vestita da suora. La
suorina continuava a sorridermi ed
io, che non avrei mai creduto che
una suora potesse essere così dolce,
ero strabiliato e felice perché non
mi era mai capitato di sentire
tanto affetto in una persona».(25)
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Note
1) Anonimo salesiano anziano di
Sampiedarena
2) Stefano Sciaccaluga, Don Bosco a Genova,
Salesiana Editrice Ge-Sampiedarena, 1946,
presentazione del cardinale Siri pag. VI
3) Da ricordare che dei tre vescovi genovesi,
Alimonda e Magnasco ebbero la sede
tramite la mediazione tra Stato e Chiesa di
don Bosco. Anche l’arcivescovo e Lorenzo
Gastaldi ottenne la sede di Torino
attraverso la mediazione di don Bosco.
4) Stefano Sciaccaluga, op. cit. pag. 46- 103
5) Ceria, Memorie biografiche di Don Bosco,
vol XI, pag. 326-327
6) Lemoyne, Memorie biografiche di Don
Bosco, vol X, pag. 145
7) Stefano Sciaccluga, op. cit, pag.166-170
8) Ceria, op. cit. vol.XVII, pag.
9) Piero Bargellini,Il Santo del lavoro, LDCTorino, pag. 8-9
(10)Deliberazione del III e IV capitolo generale
dela Pia Società Salesiana,
San Benigno Canadese 1887,III, pag. 18
11) Ceria, Memorie Biografiche di don Bosco,
op. cit. XII, pag.411-413
11 bis) Ceria, Memorie Biografiche, op.
cit.XII, pag. 73; XIII, pag. 41
12) Ceria, Annali IV p. 36 ss Prima spedizione
missionaria in America Latina 1875
13) Lemoyne, Memorie Biografiche, op, cit.
pag. 604-605
14) Antonio Miscio, La seconda Valdocco,
2002, vol I. pag. 15
15) Lemoyne – Amadei, op.cit. X, pag. 444
15 bis) “Vi raccomando poi con insistenza
particolare (disse volgendosi ai Missionari)
la dolorosa posizione di molte famiglie
italiane, che numerose vivono disperse in
quelle città e in quei paesi e in mezzo alle
stesse campagne. I genitori, la loro
figliuolanza poco istruita della lingua e dei
costumi dei luoghi, lontani dalle scuole e
dalle chiese, o non vanno alle pratiche
religiose o, se ci vanno, niente capiscono.
Perciò mi scrivono che voi troverete un
numero grandissimo di fanciulli ed anche
di adulti che vivono nella più deplorabile
ignoranza del leggere, dello scrivere, e di
ogni principio religioso. Andate, cercate
questi nostri fratelli, cui la miseria o la
sventura portò in terra straniera, e
adoperatevi per far loro conoscere quanto
sia grande la misericordia di quel Dio, che
ad essi vi manda pel bene delle loro anime,
per aiutarli a conoscere e seguire quella
strada, che sicura li conduca alla eterna
loro salvezza”. MB vol cap- 16 pag.
16) Lettere circolari di Don Albera (18-X1920, pag. 331
17) Citato in “Don Bosco e Genova”, numero
unico a cura degli exallievi nel centenario
dell’arrivo dei Salesiani a Genova (18711971), Scuola Grafica don Bosco –
Sampierdarena, pag. 77
18) Stefano Sciaccaluga, op.cit. pag.190
19) Guido Favini, Don Paolo Albera, Le petit
don Bosco, SEI, 1975, presentazione di
Mons Raffaele Forni, pag. 8
20) Guido Favini, op. cit. pag.17.
21) Stefano Sciaccaluga, op. cit. pag.242-254
22) Ivi pag. 254
23) Sonia Baronti, La presenza delle Figlie di
Maria Asiliatrice a Genova, in Le Figlie di
Maria Ausiliatrice, donne nell’educazione,a
cira di Grazia Lo parco e Maria Teresa
Spiga, Las Roma pag.543-544
24) Munzi Ulderico, Il romanzo del Rex, un
leggendario transatlantico, l’Italia fascista,
l'alta società internazionale, le storie del
mare, Sperling e Kupfer 3003,130.
25) Magonio, Anche i Burattini 3-4
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Appendice
Relazione di Francesco Motto,
direttore dell’Istituto Storico Salesiano di Roma
Relazione di Giovanni Maria Flick,
già presidente della Corte Costituzionale
ex-allievo di Sampierdarena
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Il Tempietto
131
Artefici dell’unità nonostante tutto
Don Bosco, la Famiglia salesiana e i “padri” (o patrigni) della patria:
due facce diverse del Risorgimento e dell’unità d’Italia.*
Francesco Motto - Direttore dell’Istituto Storico Salesiano di Roma
Premessa
Una delle debolezze dell’identità
italiana sta nel fatto che la sua
elaborazione si è fondata su una
memoria pubblica ritagliata a seconda
delle finalità politiche e ideologiche o
dei poteri forti. Un solo esempio
recentissimo: l’assenza dell’editoria
cattolica nella mostra “L’Italia dei libri”
di Torino 150°, e questo nella città di
uno dei primi autori di bestseller come
don Bosco (Letture cattoliche e
l’almanacco popolare Il Galantuoomo) e
nella città dell’editoria imprenditoriale
salesiana che per 150 anni ha
disseminato per tutto il Paese centinaia
di migliaia di volumi proprio là dove si
cercava di “fare gli Italiani”, ossia la
scuola, gli oratori, le associazioni
giovanili, le parrocchie, i centri
assistenziali, ricreativi, culturali, il
volontariato…
Ma nella ricorrenza del 150° dell’unità
d’Italia non si tratta tanto di
promuovere una memoria di parte nei
confronti di una memoria pubblica che
si ritiene piena di forzature e omissioni,
ma di ricomporre le tessere di un
mosaico di diverse memorie che hanno
contribuito alla formazione dell’identità
nazionale e alla crescita del Paese. Fra
di esse occupano un loro dignitoso
posto, anche se scarsamente
riconosciuto i religiosi e le religiose,
ossia quegli uomini e donne di fede,
come recita il titolo generale delle
manifestazioni culturali promosse
dall’“Associazione Vita Consacrata” del
Piemonte che si avviano a conclusione
in questi mesi.
Prima di presentare il tema centrale del
mio intervento – il contributo dato dai
SDB di don bosco all’unità e italianità
del “bel paese” – lasciatemi esprimere
tre sole idee sul titolo un po’ polemico
del titolo.
1. Anzitutto che in generale la storia la
scrivono i vincitori, che, come è logico,
tendono ad enfatizzare il ruolo avuto in
certi momenti significativi da quei
personaggi quali si sentono più affini.
Pensiamo solo come il mito
risorgimentale poggia su molteplici
travisamenti storici, ideali religiosi.
Pensiamo solo a quella di alcune grandi
correnti storiografiche che hanno
avallato e spesso costruito la ormai
traballante vulgata risorgimentale,
nell’esaltazione di alcune
problematiche e occultando tutto
quanto non corrispondeva o si opponeva
alla grandezza del mito. Pensiamo solo
ai giudizi terribilmente negativi dati su
Pio IX da molti studiosi laici che hanno
dedicato la loro attenzione al
Risorgimento italiano, e proprio mentre
dilagava tutta una letteratura che
esaltava oltre ogni dire il ruolo avuto
dai vari Cavour, Mazzini, Garibaldi,
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132
Il Tempietto
Vittorio Emanuele II, pomposamente
definiti i 4 “padri della patria”.
Eterogenesi dei fini: per oltre un secolo
si sono beatificati i padri della patria
contro Pio IX… oggi che almeno in
molti scaffali di librerie ed in molte teste
pensanti essi hanno perso l’aureola, ad
essere beato è invece Pio IX.
A questo riguardo va anzitutto detto che
se l’Unificazione italiana (non tanto
l’Unità direbbe qualcuno) è stata
indubbiamente per buona parte opera
loro, nessuno di loro voleva una Italia
unita così come si è effettivamente
costituita. Per dirla brutalmente con
Bruno Vespa, l’Unità d’Italia è nata per
caso. Tanto più che il modello
“accentrato di unità”, caro a Mazzini e
Garibaldi, con tutti gli errori colossali
da loro fatti ed i mali che ne sono
derivati e ne derivano tuttora, ha
prevalso su quello “regionalista”, caro a
cattolici quali ad es. Vincenzo Gioberti
e Massimo d’Azeglio, modello questo
fra l’altro più aderente alla realtà socioculturale del Paese.
2. A fronte di una storiografia ufficiale
dei manuale di storia che ha
trasformato in grandissimi eroi tali
“padri della patria”, da venerare nelle
mille piazze d’Italia, si è recentemente
contrapposta una lettura del tutto
diversa e spesso ugualmente esasperata
nell’evidenziare gli aspetti meno
brillanti, anzi oscuri del movimento
unitario. Il nostro Risorgimento viene
così ri-letto nell’unica ottica di una
“guerra di religione dimenticata”; i
protagonisti di quegli eventi definiti,
senza mezzi termini, “liberali e
massoni”, “ladri e disonesti”,
doppiogiochisti e anticlericali, vengono
presentati come nemici giurati della
Chiesa cattolica. Tale pubblicistica di
stampo polemico ascrive la costruzione
dell’unità alle manovre appunto di una
minoranza massonica e laicista,
collegata agli interessi statuali della
monarchia sabauda, che avrebbe
consapevolmente condotta una lotta
anticattolica per sradicare l’unica vera
base della identità italiana, ossia la
fede religiosa.
Siamo così di fronte al totale
rovesciamento dei giudizi. A visioni
idilliache del Risorgimento si
contrappongono visioni drammatiche; a
letture apologetiche laiche si
oppongono visioni apologetiche
confessionali, preoccupati entrambi i
fronti di mettere in buona luce la
propria parte e in cattiva luce l’altera
pars, anziché di ricostruire storia.
Tale storia polemica di parte cattolica,
pur ben documentata, racconta solo una
metà dei fatti. La metà trascurata degli
eventi è invece l’analisi dell’approccio
ecclesiastico e pontificio alla questione
dell’unificazione e più ampiamente la
sua reazione all’affermazione del
liberalismo e della modernità politica,
all’ipotesi di costruzione di istituzioni
laiche, che uscissero dalla stagione
della coincidenza tra chiesa e società e
che andassero oltre la centralità
giuridicamente stabilita dalla religione
nel vivere civile. Fra un modello di
rapporti tra chiesa e stato ispirato alla
logica unificante della cristianità storica
e l’evoluzione in senso laico e liberale
delle istituzioni civili jon vi era molta
possibilità di dialogo, si viaggiava in
rotta di collisione.
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Il Tempietto
Onestamente ancora va detto che
l’immagine dello scontro frontale fra
due blocchi monolitici, ossia i cattolici
intransigenti da una parte e il
risorgimento anticlericale e anticattolico
dall’altra, appare largamente fuorviante.
Patrioti e cattolici non erano due mondi
chiusi in loro stessi, ma realtà
pluralistiche e sfrangiate, sovrapposte e
spesso presenti nelle stesse persone e
coscienze. Dunque titoli come “Una
guerra di religione dimenticata” di una
studiosa cattolica (come Angela
Pellicciari) e come “Risorgimento
scomunicato” sul fronte opposto di un
giornalista laico (come Vittorio
Gorresio) lasciano perplessi, pur
portando gli autori serie impressionate e
indiscutibile di documenti a favore
della loro tesi.
3. Rimangono alla fine tre acquisizioni
indiscutibili.
Anzitutto che l’Italia unita è sorta
oggettivamente per iniziativa di una
ristretta aristocrazia illuminata, con
l’appoggio “mediatico” di ceti
intellettuali potenti e prepotenti e di
quello economico del mondo settario e
massonico nonché di paesi stranieri,
senza avere, soprattutto inizialmente,
radici popolari solide e profonde: con
l’evidente conseguenza che la mancata
partecipazione popolare alla rivoluzione
italiana rimane il problema per
eccellenza della storia unitaria.
In secondo luogo che l’unificazione
territoriale si è effettuata contro il
diritto positivo degli altri stati
preunitari, conquistati con violenza ed
inganni da parte di un governo e di un
re privo di scrupoli – cattolico ma
133
indifferente alla scomunica papale-; il
che ha contribuendo notevolmente alla
celebra spaccatura fra paese reale e
paese legale, fra nord e sud del Paese,
tuttora vigente.
In terzo luogo che il Risorgimento è
nato fuori, anzi contro la Chiesa e che
nonostante la presenza, all’interno della
cultura cattolica dell’Ottocento, di
eminenti personalità (a partire da
Manzoni, Gioberti, Rosmini..) che si
ispirano dichiaratamente al
cattolicesimo, nella stagione
risorgimentale il ruolo dei cattolici sia
stata sostanzialmente marginale. E non
poteva forse esserlo diversamente, per
la dura opposizione che, dopo la “svolta
di Pio IX, il pontificato condusse al
processo unitario sia per la linea
anticlericale che si stava infondendo e
sempre più radicalizzando (dalle leggi
eversive di Rattazzi già nel Piemonte
preunitario alle vere e proprie
spogliazioni operate fino al tempo di
Crispi) sia per la violenta soppressione
della Stato della chiesa fino all’esito
finale della breccia di Porta Pia.
Chissà se la vera unità non si sarebbe
potuta raggiungere in altra maniera, per
altre vie, senza la guerra alla chiesa e al
clero, senza le stragi degli Italiani nel
Mezzogiorno, senza la corruzione
dilagante e gli scandali anche bancari a
go go, senza provocare milioni di
emigranti.
La storia però non si fa con i se,
dunque con il né eletti ne elettori del
1861 e con il non expedit del 1868
iniziava la lunga stagione della presa di
distanza dei cattolici dalla vita politica,
ma non dalla esperienza amministrativa
e ancor meno dalle dinamiche sociali.
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134
Il Tempietto
Fatta l’Italia in quel modo che
sappiamo, si trattava di costruire gli
Italiani. Non l’hanno fatta i padri della
patria, bensì altri e fra loro anche gli
uomini e le donne di fede già prima del
1861, che soprattutto dopo, lungo i 150
anni di unità nazionale
1. Don Bosco promotore di
unità e italianità prima della
nascita dell’Italia unita nel 1861
Può essere allora interessante vedere
come don Bosco già nel quindicennio
precedente l’Italia unita abbia dato un
suo apporto ad essa e all’Italianità.
Nel 1845 pubblica un volume di 400
paginette: la Storia ecclesiastica ad uso
delle scuole, utile ad ogni ceto di
persone. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le
persone colte, gli allievi delle (poche)
scuole superiori avevano già a loro
disposizione grossi volumi; non così i
ragazzi delle scuole inferiori, dei
collegi, dei piccoli seminari; non così i
giovanotti semianalfabeti che
frequentavano le scuole festive e serali;
non così la gran massa della
popolazione semianalfabeta dell’epoca.
L’obiettivo che si propone è educativo,
apologetico, catechistico. Il volume
ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913.
Non passano due anni che don Bosco
dà alle stampa una storia analoga, ossia
La storia sacra per uso delle scuole, utile
ad ogni stato di persone, arricchita di
analoghe incisioni. Come sempre, onde
«giovare alla gioventù» l’autore si prone
la «facilità della dicitura e popolarità
dello stile». Un maestro apprezza tanto
l’opera al punto da adottarla e da
consigliarla ai suoi colleghi: «I miei
scolari vanno a ruba per averla nelle
mani, e la leggono con ansietà e non
rifiniscono di presentarla agli altri e di
parlarne, chiaro segno che la
capiscono». La «fortuna» dell’opera è
notevole se alla morte di don Bosco
(1888) le edizioni-ristampe sono
arrivate a 19, e tante altre sarebbero
state immesse sul mercato editoriale e
scolastico fino al 1964.
Alla trilogia mancava ancora una storia,
quella d’Italia, che per altro è richiesta
dall’aria che si respirava. Ed ecco don
Bosco darla alle stampe nel 1855: La
storia d’Italia raccontata alla gioventù
da’ suoi primi abitatori sino ai nostri
giorni, corredata da una carta
geografica d’Italia. Sono sempre pagine
di uno scrittore che si adegua
all’intelligenza dei suoi lettori, di un
educatore di giovani “poveri ed
abbandonati “che non fanno storia, ma
la subiscono dalla prepotenza dei
grandi. Se ne hanno ben 31 edizioni
fino al 1907.
Alla triplice storia si può accostare il
fascicolo Il sistema metrico decimale
ridotto a semplicità, preceduto dalle
quattro prime operazioni dell’aritmetica,
ad uso degli artigiani e della gente di
campagna, rieditato nel dicembre 1849
alla vigilia del definitivo mutamento dei
sistemi di misura in Piemonte (1
gennaio 1850). Se l’’intento è quello di
insegnare a vivere meglio nel proprio
paese, ma sempre in prospettiva
educativa,ciò che più interessa è il fatto
che esso è pure rappresentato come
commedia brillante in tre atti.
Dunque ancor prima del 1861 don
Bosco investe sulla massa dei giovani,
perché il domani della società italiana
sta nelle loro mani; per la loro
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Il Tempietto
formazione investe sulla storia d’Italia,
perché la casa comune italiana ha
radici ben più antichi della Stato
Unitario; investe sulla fede cattolica
perché è convinto che essa sia l’anima
profonda del Paese; investe sull’italiano
semplice, popolare, perché non c’è
cultura nazionale senza lingua che tutti
possano capire; investe sull’arte, anche
se poverissima di mezzi, messa a
servizio dell’educazione e del gusto
estetico dei giovani di cui nessuno o
quasi si interessa.
2. Il contributo dato all’unità
del Paese dalle comunità
educative dei salesiani di
don Bosco
Scriveva Ernesto Galli della Loggia nel
2010:
“L’Italia è l’unico Paese d’Europa
(e non solo dell’area cattolica) la
cui unità nazionale e la cui
liberazione dal dominio straniero
sono avvenuti in aperto, feroce
contrasto, con la propria chiesa
Nazionale […] L’incompatibilità
fra patria e religione, fra stato e
cristianesimo, è in un certo senso un
elemento fondativo della nostra
identità nazionale”.
Paolo VI papa invece una quarantina di
anni prima, scriveva:
“Fra le cose grandi, fra le cose
geniali, fra le cose stupende nella
vita di don Bosco, troviamo anche
questo: ha sputo concordare, in
anticipo, l’italianità con la
cattolicità, ha avuto l’antiveggenza
135
di mettere in atto la pace che deve
esistere fra l’anima di un cattolico
e l’anima di un cittadino”.
Ecco se questo è vero per don Bosco e
lo diamo per scontato per il pubblico
qui in sala, possiamo vederlo messo in
Atto dai suoi salesiani con la sintesi
che tracciamo del contributo da loro
dato all’unità ed italianità del Paese in
cui si sono trovati ad agire dopo il
1861, del loro sforzo di superare in
qualche modo quella che è stata
definita la “tendenziale cesura fra
identità nazionale ed identità italiana”.
Comunità educative sparse su tutto il
territorio nazionale
L’italianità della società salesiana può
essere colta anzitutto nella sua
espansione su tutto il territorio
nazionale. In 150 anni sono state
fondate quasi 400 case di SDB, cui
sono da aggiungere oltre mille case
delle FMA. Ovviamente le richieste di
fondazioni salesiane, avanzate da
autorità religiose e civili, da istituzioni
o singoli cittadini, sono state varie
migliaia. Salvo rarissimi casi di ostilità
ideologico-politica, la presenza
salesiana, fu sempre bene accettata e
apprezzata.
Tutte le 20 regioni italiane risultano
destinatarie di case salesiane, anche se
in misura molto diversa. Se però è
evidente che il loro nucleo più
consistente di case si trovi in Piemonte
(74), desta forse sorpresa il fatto che le
due posizioni immediatamente
successive si trovino in regioni molto
distanti dal Piemonte e fra loro, ossia la
Sicilia (49) e il Lazio (34).
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Il Tempietto
Considerando le attuali 110 province
(alcune ridottissime di popolazione),
solo 11 non hanno mai ospitato una
casa salesiana. Al primo posto per
numero di case figura Torino (34),
seguita da Roma (27) e, più distanziata,
da Catania (14).
Comune cittadinanza di giovani favorita
da convivenze interregionali
Quale apporto all’identità e unità
nazionale va anche considerata
l’amalgama e la convivenza nelle stesse
case salesiane di giovani di diversa
provenienza. Infatti lungo l’intera
penisola la gran parte delle case
(specialmente collegi-convitti e
pensionati) non hanno mai accolto solo
giovani provenienti dal solo bacino
geografico attiguo ad esse. Al loro
interno hanno fatto vita comune con
educatori anche non di origine locale,
spesso 24 ore al giorno, giovani di
diverse province e regioni d’Italia, e
talora anche di origine estera.
Ovviamente è impossibile conoscere il
numero dei ragazzi che i Salesiani in
Italia hanno direttamente educato nelle
loro opere e hanno raggiunto con la loro
azione. Se alla fondazione del Regno
d’Italia nel 1861, essi potevano essere
circa 2.500, alla morte di don Bosco nel
1888 superavano già gli 8.500. Alla
vigilia della grande guerra si aggiravano
sui 33.600, mentre alla vigilia invece
della seconda guerra mondiale
sfioravano i 50.000.
Nel 1970 gli studenti si aggiravano sui
27.000, numero che si è mantenuto
quasi costante fino ad oggi, mentre gli
oratoriani sono costantemente
aumentati, passando dai quasi 50.000
mila nel 1970 ai 60.000 nel 2010. In
continua crescita sono stati anche gli
allievi delle scuole professionali,
raggiungendo il numero di 20.000 nel
2010, sia pure con diverse fisionomie di
accoglienza. Anche i parrocchiani si
sono triplicati fra il 1888 ed il 1915
(15.000-60.000), nuovamente triplicati
nel 1940 (310.000); 960.000 nel 1970
superano attualmente il milione.
Comunità di educatori provenienti da
ogni angolo d’Italia
I giovani italiani che dopo vari anni di
studi preparatori e un anno di
formazione in noviziato si sono fatti
salesiani stati in 150 anni 17 mila, oltre
un quarto del numero totale. Ne risulta
immediatamente la forte italianità della
Società salesiana nei confronti dei tanti
altri Paesi esteri che pure hanno dato ad
essa molto personale.
Ma anche al suo interno ha goduto di
una forte impronta nazionale, dal
momento che ogni regione d’Italia ha
dato i natali o a migliaia di Salesiani
(come il Piemonte, la Lombardia, il
Veneto e la Sicilia), o a centinaia come
tutte le altre regioni, tranne la Valle
d’Aosta e l’Umbria fermatisi alla soglia
del centinaio. Salesiani dunque di tutta
Italia che hanno vissuto per anni sotto lo
stesso tetto, sia nelle case di formazione
che in quelle di educazione, occupando
indistintamente ruoli di autorità o di
subalterni. Non è un caso che a quattro
Rettori maggiori piemontesi ne siano
succeduti di seguito uno veneto, uno
siciliano ed uno lombardo.
Neppure è da sottovalutare il fatto che
la comunità salesiana era composta da
ecclesiastici (chierici e sacerdoti) e da
laici, i cosiddetti “coadiutori”. Questi
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Il Tempietto
ultimi hanno sempre costituito una
minoranza, per quanto significativa (fra
il 17 e il 25%), ma la loro presenza ha
rappresentato una esigenza
indispensabile per l’impegno in alcuni
settori dell’Opera salesiana, come la
Formazione Professionale, attività
“tipica” ed originale di tale componente
laicale salesiana.
3. Il contributo dato
all’italianità del Paese con le
varie forme di attività e servizi
L’identità italiana, l’unità nazionale
invero esisteva da secoli, prima ancora
che assumesse il carattere politico del
Regno d’Italia nel 1861. Essa aveva da
molto tempo un carattere linguistico,
religioso, letterario, artistico,
paesaggistico che ne faceva un “carattere
nazionale”, per cui il Risorgimento non
ha creato una “nazione italiana”, che
appunto esisteva già, ma solo uno “Stato
italiano unitario”.
Secondo questa prospettiva è allora
estremamente interessante notare come
l’Opera salesiana abbia sempre operato
sul fronte di alcune di tali espressioni
proprie dell’Italianità, quali, ad
esempio, la lingua, la storia, la cultura,
le arti, l’accoglienza, la fede cattolica.
Tali caratteristiche ridefiniscono
esattamente le dimensioni del progetto
educativo di qualunque casa salesiana:
un luogo dove con lo studio,
l’apprendimento di un lavoro, il gioco,
l’amicizia ci si prepara alla vita, uno
spazio dove sono coltivati gli “interessi”
giovanili concreti (sport, teatro, cinema,
canto, musica, socialità…),
un’accoglienza incondizionata dei
giovani dove poter toccare con mano di
137
essere “amati” per quello che si è e
come si è, un’esperienza di un modo di
essere uomini e cristiani seri, spesso
alternativo a quello dominante, nella
logica del Vangelo (onestà, solidarietà,
libertà e responsabilità, senso del
mistero…).
Ora l’area che qualifica i Salesiani tanto
nella Società civile che ecclesiale è
quella tipicamente giovanile ed
educativa. Ed è in essa che si sono
collocate la maggior parte delle
presenze salesiane in Italia (e nel
mondo) sia in termini quantitativi
(numero delle opere), che in termini di
modalità di servizio ai giovani.
a.Anzitutto vanno considerati gli
Oratori quotidiani, serali festivi – vale
a dire quegli ambienti aperti a tutti i
ragazzi e giovani, che favoriscono
l’incontro di giovani fra loro e con gli
educatori, a tempo pieno o parziale.
La grande plasticità dell’oratorio –
diventato poi Oratorio-Centro
giovanile – ha portato lungo i
decenni ad una grande versatilità e a
una grande diversità di modi di
organizzarlo. Sarà però sempre
caratterizzato da esistenza di gruppi
di numerosi giovani, per lo più
bisognosi, da diverso grado di
maturità umano-cristiana e di
impegno dei singoli e dei gruppi e da
gradualità del loro inserimento nelle
attività e vita dell’oratorio, da un
insieme variegato di attività
sviluppatesi, tra l’altro, in un impiego
formativo del tempo libero.
L’associazionismo giovanile salesiano
ha fatto la parte del leone. L’oratorio
si estende poi in un certo modo
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Il Tempietto
anche alle famiglie, si dirige anche
ad altri giovani che si trovavano fuori
delle sue mura.
b. In secondo luogo i Salesiani hanno
mirato ad una valida formazione
culturale e professionale dei giovani
italiani, creando ambienti di serio
impegno: sono sorte così le centinaia
di scuole, di ogni ordine e grado
(dalle elementari agli istituti
universitari), in scala crescente per
rispondere alla crescita del livello
culturale richiesto alle nuove
generazioni, alle nuove culture
emergenti, alle richieste della
globalizzazione… Fra i diversi tipi di
scuola, la preferenza è sempre stata
data a quelle più adatte alla
necessità dei giovani più indigenti,
vale a dire alle scuole di “arte e
mestieri”, alle scuole professionali o
tecnico-professionali, in grado di
immettere rapidamente nel mondo
del lavoro e dell’autosufficienza
economica.
La scuola salesiana è però da
intendersi in vario modo: come
formazione umana e cristiana per
aiutare gli allievi ad inserirsi un
domani come cittadini attivi e
coscienti nella società e nella
Chiesa; come trasmissione ai giovani
allievi di un forte senso del dovere e
della disciplina; come insegnamento
della lingua italiana (a chi parlava
solo il dialetto) e della cultura
nazionale che, a loro volta,
trasmettendo il passato, potevano
trasmettere una identità nazionale;
come socializzazione di valori
tradizionali, ma anche incentivazione
di esperienze artistiche proprie del
Paese (musica, canto, teatro…). Ecco
perché i Salesiani hanno sempre
preferito scuole a tempo pieno, che
come tali permettono la promozione
di molte attività parascolastiche ed
extrascolastiche atte a completare la
formazione dei giovani. Le pareti
della scuola si devono dilatare, quasi
dissolvere, e la “scuola”, quella vera
e formativa, deve continuare fuori
dell’aula, in un sereno clima di
famiglia e di allegria, nel quale né
vengono annullati i ruoli diversi né
viene compromessa una
“ragionevole” disciplina
Sempre in un contesto scolastico
vanno annoverate le forme di
accoglienza quali i collegi-convitti,
orfanotrofi, pensionati (per studenti e
lavoratori), collocate in luoghi
strategici del paese, che venivano
incontro ai bisogni di molte famiglie
obbligate a mandare i figli in lontani
centri di studio e di addestramento al
lavoro, oppure che volevano una
educazione cristiana più intensa.
Non si trattava solo di opere di
beneficenza, ma di vera e propria
opera di riscatto, di promozione
sociale degli strati più deboli e meno
protetti della popolazione.
c. Lungo il secolo e mezzo di vita l’area
della povertà giovanile in Italia ha
assunto forme nuove e più gravi, per
cui accanto alle opere tipiche
sopravvissute del passato – la scuola,
l’Oratorio, ma non più il collegioconvitto dopo gli anni settanta – i
Salesiani hanno sviluppato altre
attività più specificatamente rivolte
ai giovani in difficoltà e “a rischio”
ma sempre ispirate alla pedagogia
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Il Tempietto
preventiva: opere nuove, molto
diversificate, che si potrebbero
definire di “promozione sociale”
caratterizzate dal contatto vivo ed
immediato con giovani “border line”
o “drop out”. Dagli anni ottanta si
tratta di case-famiglia, di comunitàalloggio, di comunità di recupero
tossicodipendenti, di servizi
residenziali, tanto diurni e preventivi
quanto residenziali, propri degli
ultimi decenni. In questi ultimi anni
si sta affrontando anche il grave
problema della assistenza ai giovani
immigrati.
d. Ovviamente in opere educative
gestite soprattutto da Salesiani non
poteva certo mancare un elemento
decisamente caratterizzante la storia
del Paese Italia, vale a dire
l’educazione alla fede, e alla fede
cattolica. Ed ecco allora tutte le case
salesiane diventare una sorta di
parrocchia dei giovani, dove si è data
un’attenzione tutta speciale alla loro
formazione religiosa, fatta di
frequenza dei sacramenti, esercizi e
ritiri spirituali, partecipazione alle
associazioni, fuga dai “cattivi
compagni”, lettura della “buona
stampa”, amore alla Chiesa e al
papa. Fra gli allievi o Exallievi
diventati fermento attivo nella società
e nella Chiesa, alcuni hanno
raggiunto vette spirituali altissime,
come l’allievo di Torino-Valdocco
San Domenico Savio, il discepolo
spirituale di don Cojazzi, il torinese
beato Piergiorgio Frassati,
l’ingegnere exallievo dell’oratorio di
Rimini beato Alberto Marvelli, il
carabiniere di Napoli servo di Dio
139
Salvo D’Acquisto, il ferroviere,
cooperatore di Milano, servo di Dio
Attilio Giordani.
e. Come dimenticare l’azione salesiana
in favore delle masse di emigranti
italiani in vari paesi europei, in tutti
i paesi americani, in alcuni di quelli
Africani ed asiatici (Medio Oriente).
Un tema questo facilmente trascurato
nelle celebrazioni ufficiali, anche
perché pagina molto nera della
nostra Italietta nata dal
Risorgimento.
Don Bosco, sognando in grande,
aveva anche guardato all’Italia con
uno sguardo planetario. A mezzo
secolo dalla fondazione i Salesiani
avevano già raggiunto quattro
continenti, con oltre 30 Paesi e 4
mila confratelli. Grazie ai missionari
italiani, moltissimi piemontesi, ivi
compresi vari di Castelnuovo – uno
per tutti, il capo della prima
spedizione in argentina, il futuro
card. Giovanni Cagliero –
l’esperienza educativa piemonteseitaliana – ivi compresa la lingua
italiana, le abitudini, le tradizioni, i
costumi, le forme di vita e di
religiosità della penisola – si è
trasferita con notevolissima fedeltà
alle origini in vari paesi nei quali il
nome di Salesiani equivalse per
alcuni decenni a quello di italiani.
Grazie al lavoro dei missionari
salesiani, molti immigrati provenienti
dai mille campanili nazionali, ma
privi della lingua, della storia, della
cultura, hanno scoperto la loro
identità e unità nazionale.
f. Andrebbe infine ricordato il notevole
supporto morale, economico,
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140
Il Tempietto
logistico, di personale, di protezione
(ebrei, partigiani, antifascisti e
fascisti, CLNAI...) offerto dalle
singole case salesiane d’Italia in
occasione delle emergenze nazionali
(vari terremoti, due guerre mondiali,
Resistenza, immigrazione albanese
di massa ecc.).
g. Un accenno pure alle FMA. La
diffusione delle loro case e la varietà
delle opere ha costituito di fatto una
rete di unificazione del Paese intorno
ad un ideale educativo comune, con
modalità relazionali e mezzi che se
nelle città erano più consoni alla
mentalità, nei piccoli centri sono
stati per diversi decenni
all’avanguardia. Questo è ancora più
evidente per l’educazione delle
ragazze, più a lungo trascurata.
Difatti le FMA, chiamate per una
miriade di giardini d’infanzia, come
maestre comunali o a gestire convitti
per operaie, hanno diffuso
l’istruzione, l’associazionismo, il
senso di responsabilità sociale, la
cultura del tempo libero femminile
come tempo di crescita nella qualità
degli interessi, mentre educavano
donne cristiane per le famiglie.
L’impegno risoluto per la formazione
delle maestre in tutta Italia da una
parte ha consentito una preparazione
culturale a molte ragazze delle fasce
popolari, dall’altra ha esteso il
modello educativo preventivo e la
concezione cristiana della persona e
della vita. Con il grande cambio
relativo al lavoro delle donne, anche
le antiche scuole di lavoro si sono
trasformate in una proposta di
formazione professionale sempre più
qualificata e culturalmente rilevante.
La difesa della dignità femminile,
nella famiglia come nelle professioni,
attraverso il senso del dovere e
dell’apostolato, più che la
rivendicazione, ha intercettato la
trasformazione del ruolo delle donne.
4. Salesiani educatori del
popolo italiano
Nulla ha forse segnato più
profondamente e definitivamente
l’identità italiana come la presenza
della chiesa cattolica, che ha
incomparabilmente unificato la penisola
per secoli, rendendola unica rispetto ad
altri paesi. C’è chi ha scritto che “la
ferita più lancinante inflitta alla identità
degli Italiani del XIX secolo, la causa
prima della spaccatura civile e morale
del nostro popolo, tutt’oggi
evidentissima dinanzi ai ostri occhi [è]
la guerra alla Chiesa e alla fede degli
italiani”
Un cristianesimo ed un cattolicesimo a
vocazione decisamente popolare, fatto
di fede, devozioni, processioni,
pellegrinaggi, generosità, religiosità
vissuta che ha effettivamente raggiunto
gli strati più umili della società.
Dopo quella giovanile, una seconda
area di impegni dei Salesiani
comprende opere che possono
considerarsi più immediatamente di
carattere popolare, dirette anche a fasce
più ampie di giovani: parrocchie,
santuari, chiese pubbliche e
semipubbliche, centri catechisti e
pastorali, case di spiritualità e
numerosissime altre attività di carattere
popolare – sempre con finalità di
formare “onesti cittadini (italiani) e
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Il Tempietto
buoni cristiani” – che sono
difficilmente classificabili.
La precedenza è stata ovviamente data
alle “parrocchie popolari”, solitamente
di periferia di città, che hanno offerto
opportunità religiose per famiglie
operaie ricche di figli; ovvero alle
“parrocchie giovanili” con apprendisti
non residenti, studenti universitari,
militari, emigranti di altre regioni, ossia
giovani sradicati da ogni struttura
familiare, civile e religiosa che in
qualche modo avrebbero potuto mettere
a rischio la loro fede.
Per aggiungere grandi masse di giovani
e di popolazione i Salesiani sono ricorsi
alla comunicazione ne sociale. Don
Bosco per altro, avendone
precocemente intuito la portata, era
stato all’avanguardia in tale settore,
allora limitato alla carta stampata. Ecco
allora numerosissime tipografie
salesiane all’avanguardia, ecco le
biblioteche circolanti, ecco una serie
impressionanti di riviste per giovani e
per docenti, educatori, catechisti,
animatori di giovani.. Si affermano
numerose editrici specializzate per
educatori adulti (LAS), ma soprattutto
per la gioventù e per l’educazione
popolare (LDC, LES), con produzione
anche di filmine, audiovisivi, video
cassette, CD, DVD, strumenti
tecnologici sempre cangianti
5. Metodo educativo
A questo punto si dovrebbe anche
trattare del metodo educativo. Non c’è
tempo per farlo. diciamo solo che i
Salesiani hanno tradotto la “salvezza”
dei giovani in termini di formazione
integrale dei giovani stessi coniugando
141
“sanità, studio, santità” con lo sviluppo
personale e sociale, mettendo cioè
insieme “pietà, moralità, cultura,
civiltà”. Si sono dedicati a “fare gli
italiani” mediante una educazione che,
tramite “ragione, religione e
amorevolezza”, mirasse alla formazione
di persone istruite, competenti nel loro
mestiere, solidali con la società,
religiosamente ben formate. L’anima
dell’educazione salesiana è una fede
viva tesa a far maturare persone forti e
coraggiose, che diventino fermento di
comunità cristiane e germe di una
società civile rinnovata a partire dalle
energie spirituali morali e culturali
delle singole persone
Ovviamente non sono mancati i punti
deboli della pedagogia salesiana tanto
del “buon cristiano” che dell’“onesto
cittadino”: ne ricordiamo alcuni. Per il
primo obiettivo in particolare una forte
dose di conservatorismo, dovuta ad una
antropologia e teologia in larga misura
tradizionalistica e dogmatica ed una
educazione religiosa fatta più di
pratiche che di autentica formazione di
coscienze, di accentuazione
dell’obbedienza religiosa che di
assunzione di responsabilità nella
comunità ecclesiale. Per il secondo
obiettivo, ossia l’educazione ad essere
“onesto cittadino”. ha potuto tradire un
profilo di cittadino onesto, esecutivo,
ma poco attento alla partecipazione
civile e sociale per la mancanza di un
vero quadro teorico di riferimento.
Va anche detto che il sistema preventivo
ha necessariamente risentito dei contesti
dominanti in ciascuna epoca, per cui la
ragionevolezza e l’amorevolezza hanno
potuto scadere o in forme di
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142
Il Tempietto
paternalistico o in una disciplina “di
collegio” troppo severa. Se l’’impegno
per una robusta istruzione ha portato a
solide competenze professionali e
culturali, non sempre ha avuto il
corrispondente di una pratica educativa
aperta, rispettosa della libertà e fautrice
di formazione di personalità dalla
grande capacità di scelte autonome e
responsabili.
Conclusione
Il modello educativo salesiano si è
sviluppato trovando un proprio stretto
rapporto con la società civile e si è
inserito operativamente nella vita
dell’Italia nuova, “senza oneri per lo
Stato”, con generalmente apprezzate
funzioni di supplenza, collaborazione e
sussidiarietà, soprattutto in settori per
i quali lo Stato liberale non aveva
sufficienti risorse da spendere e forse
anche poco interesse. Con le risorse
umane e finanziarie disponibili, in
dialogo con le istituzioni o muovendosi
in libertà, hanno cercato di trasmettere
alle giovani generazioni insegnamenti
e esperienze di morale (cattolica) e di
civismo (educazione, cultura, senso del
dovere, responsabilità, convivenza
pacifica, solidarietà, rispetto
dell’autorità e delle leggi, apertura agli
altri popoli).
Si è trattato di un apporto di
concorrenza attiva ed onesta, di sforzo
generoso, inteso a creare una società
migliore, attraverso l’educazione
“integrale” della gioventù, lo sviluppo
della istruzione professionale, la
diffusione e la crescita della cultura di
base, l’assistenza religiosa alle
popolazioni. In tutti i momenti della
storia centocinquantenaria, ha sempre
cercato, in dialogo con le istituzioni o
muovendosi in libertà, di costruire di
ogni italiano “dei piani bassi”
dell’edificio nazionale, un uomo, un
lavoratore, un cittadino, un cristiano,
all’interno del Paese Italia dal fragile
tessuto connettivo e da forme di
cittadinanza piuttosto deboli.
A fronte di una comunità nazionale
storicamente sorta con forti
incongruenze e inclinata per storia e
definizione a frantumarsi, i Salesiani (e
con loro le Figlie di Maria Ausiliatrice,
di cui non si è trattato in questa sede)
con la loro straordinaria struttura di
rete, così tipica dell’identità italiana,
hanno per un secolo e mezzo affiancato
la società civile e cercato di integrare
giovani italiani dei quattro angoli della
penisola, operando per accrescere il
sentimento di unità di destino tra le
generazioni di un Paese. L’Italia era
stata fatta senza di loro, ma loro hanno
dato un valido contributo “per fare gli
Italiani”. È questa una faccia della
storia della nostra Italia unita che va
meglio conosciuta.
* Conferenza tenuta il 23 Settembre 2011 a Castelnuovo Don Bosco
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Il Tempietto
143
Centocinquanta anni di presenza
salesiana in Italia
Doppia fedeltà attraverso l’educazione
Giovanni Maria Flick
C
entocinquanta anni fa a Torino,
quando Vittorio Emanuele II
venne proclamato Re d’Italia, a
poca distanza dal Parlamento Subalpino
operava la Società salesiana fondata, da
poco più di un anno (18 dicembre 1859),
da don Giovanni Bosco. Il percorso
unitario dell’Italia in qualche modo si
intreccia con quello dei salesiani. È
giusto ricordare quanto sia stato
importante il contributo salesiano alla
unità e alla vita della nazione, sin
dall’origine. Anche per superare (ove ve
ne fosse ancora bisogno) il mito della
frattura insanabile fra anticlericalismo
risorgimentale e presenza cattolica nel
primo Risorgimento. Da questo punto di
vista, l’avventura salesiana nei suoi
centocinquanta anni di vita rappresenta
un test particolarmente significativo di
come si possa, secondo l’insegnamento
evangelico richiamato da don bosco, dare
a Cesare e a Dio quanto loro
rispettivamente spetta, in una prospettiva
di doppia fedeltà, che mi sembra un
segno peculiare del modello
dell’educazione salesiana.
Sono fra i tanti ad aver sperimentato
personalmente il modello salesiano, al
quale devo molto nella mia formazione.
A me sembra potersi ricondurre
agevolmente al significato più attuale del
percorso nazionale unitario: la centralità
della Costituzione come espressione
fondamentale del nostro vivere insieme,
come testimonianza di continuità fra il
primo e il secondo Risorgimento.
Nel primo Risorgimento la nazione si è
fatta Stato e si è unita attraverso la
condivisione (faticosa, in parte elitaria,
ma sentita) di una serie di valori che
esprimevano una comunità
dell’appartenenza. Nel secondo
Risorgimento – dopo l’esperienza
totalitaria, la guerra e la disfatta, la
nuova frattura fra nord e sud – il Paese è
tornato a riunirsi attraverso la
Resistenza, la scelta repubblicana, la
Costituzione. In quest’ultima, la
centralità della persona – già presente
nel primo Risorgimento (penso alla
Costituzione romana del 1849) – propone
una serie di valori (eguaglianza,
solidarietà, lavoro, pluralismo,
personalismo, sinergia fra diritti
inviolabili e doveri inderogabili,
sussidiarietà) che mi sembra si possano
riassumere nella pari dignità e nella
laicità. Essi si aggiungono ai valori del
primo Risorgimento in termini più
attuali, rendendo la nostra una comunità
della partecipazione, più che della
appartenenza.
In questo quadro, il contributo di don
Bosco e dei salesiani mi sembra rilevante
per il nostro percorso unitario e per
l’identità nazionale. Nel primo come nel
secondo Risorgimento, la nostra storia è
segnata da alcune costanti e da alcune
questioni nazionali. Tra le prime, i meriti
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144
Il Tempietto
e gli eroismi ma anche i difetti e le
contraddizioni del nostro vivere insieme;
tra le seconde, la questione meridionale
e quella romana. L’esperienza salesiana
si identifica poi con la non meno
significativa questione giovanile. La
consapevolezza del problema e la ricerca
della soluzione devono molto al
contributo di don Bosco e della Società
salesiana, al loro impegno nella
educazione, istruzione e formazione
professionale e civile. Quasi a
controbilanciare, nel primo
Risorgimento, gli effetti del non expedit,
la tradizionale laicità della vita politica e
l’anticlericalismo allora prevalente; quasi
a compensare con l’impegno sociale e
civile l’astensione, quando non la
contrarietà di don Bosco verso il moto
risorgimentale nelle sue varie
manifestazioni e il modo con cui vennero
realizzate l’unità d’Italia e la fine del
potere temporale, nonché la sua fedeltà
totale e assoluta al Papa.
Il progetto educativo di don Bosco era
(ed è tuttora) quello di formare “buoni
cittadini in questa terra, perché fossero
poi un giorno degni abitatori del cielo”.
Esso quindi pone esplicitamente la
politica al terzo posto, dopo la religione e
la morale. È un progetto che coinvolge
nell’opera educativa la scuola, la cultura
e il tempo libero, attraverso una
sequenza ben sintetizzata dalla regola
dell’oratorio salesiano (all’epoca il primo
approccio con i giovani): amore, lavoro,
frequenza dei sacramenti, rispetto
dell’autorità, fuga dalle cattive
compagnie.
È un progetto che, inevitabilmente, nel
contesto del primo Risorgimento,
comportava un rischio di anti-modernità,
tradizionalismo, paternalismo e rigidità,
disinteresse verso la maturazione politica
e le novità culturali: rischi che hanno
suscitato critiche ricorrenti nei confronti
del modello educativo salesiano. Sono,
tuttavia, altrettanto noti l’impegno
concreto e fattivo nell’assistenza ai
giovani, soprattutto emarginati o
socialmente più deboli, e la sua
diffusione su scala nazionale. Un
impegno articolato sul piano sociale,
culturale, scolastico, educativo,
religioso, assistenziale, popolare e
massmediatico, che ha certamente
contribuito a fare l’Italia e gli italiani,
compensando largamente l’astensione
e, anzi, la contrarietà di don Bosco ai
moti risorgimentali.
Quanto al rapporto con le istituzioni e
autorità civili, è emblematico il feeling
che egli ebbe con il ministro della
giustizia piemontese Rattazzi, noto
anticlericale. La legge Rattazzi del 1855,
che decretò la soppressione degli ordini
religiosi, fu decisamente contrastata da
don Bosco, con l’avvertimento al Re
(attraverso un “sogno-profezia") di
“grandi funerali a Corte”. Eppure
Rattazzi comprese l’importanza
dell’opera del santo, indirizzandovi aiuti
anche economici e suggerendo di
organizzarsi non come una
congregazione, ma come “una società
religiosa che davanti allo Stato fosse una
società civile”.
È noto l’impegno sociale di don Bosco
nella Capitale preunitaria, dove lo
sviluppo industriale si confrontava con
ingiustizie sociali, alienazione,
immigrazione, sfruttamento e abbandono
dei ragazzi, spesso destinati al carcere e,
nel migliore dei casi, alla strada. Un
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Il Tempietto
contesto di moti, restaurazioni e
rivalutazioni in cui la Chiesa era sì
considerata raramente alleata e spesso
nemica, ma in cui destava rispetto in
tutti la santità degli “evangelizzatori dei
poveri”. Uno dei più importanti fu don
Bosco con la sua missione a favore della
gioventù “povera e abbandonata", in
condizioni di minorità (non di inferiorità),
nella stessa linea dei suoi contemporanei
Giuseppe Cafasso (assistenza ai
carcerati) e Giuseppe Cottolengo
(assistenza ai portatori di gravissimi
handicap), ma con sviluppi che la
Provvidenza ha voluto fossero ben più
ampi.
È una missione che inizia nell’oratorio di
Valdocco, dopo l’incontro con i primi
ragazzi raccolti in strada e avviati a
pregare, studiare e lavorare, secondo
quello che diventerà il modello salesiano:
ottimismo e allegria, fiducia nella
Provvidenza e impegno nella solidarietà
e nella formazione civile e professionale
accanto a quella religiosa, educazione al
lavoro, all’eguaglianza, al rispetto della
dignità propria e altrui. Una missione
vista con sospetto, quando non con
incredulità, sia dalla gerarchia
ecclesiastica locale, sia dalle istituzioni e
dalla società civile. Tanto da indurre
alcuni benpensanti ad architettare il
ricovero di don Bosco in manicomio, che
non riuscì perché il santo aveva mangiato
la foglia. Una missione che cominciò a
stupire e a rivelare la sua importanza,
quando don Bosco riuscì a farsi affidare
più di trecento giovani detenuti,
portandoli fuori dal carcere sulla parola e
senza sorveglianza, per una giornata di
svago, per poi ricondurveli tutti a sera,
senza alcuna defezione.
145
Una missione che nell’estate 1854,
durante un’epidemia di colera che
investì Torino, indusse il santo a
chiedere ai suoi ragazzi un forte
impegno nell’assistenza e nel trasporto
dei malati: un impegno in cui l’aspetto
sociale era strettamente connesso a
quello religioso, poiché don Bosco
promise ai ragazzi che non sarebbero
stati contagiati se fossero rimasti in
grazia di Dio. In effetti nessuno di loro
(sembra) si ammalò.
La missione assunse il significato di una
vera e propria rivoluzione sociale,
quando (dopo la realizzazione di
laboratori di calzoleria, sartoria,
legatoria, falegnameria, tipografia e
fabbro ferraio) don Bosco predispose e
sottoscrisse alcuni fra i primi contratti di
apprendistato in Italia. A introdurre una
disciplina e una tutela del lavoro
minorile, sino ad allora vergognosamente
sfruttato.
Mi sembra perciò agevole cogliere il
contributo importante della presenza e
dell’opera salesiana all’identità e
all’unità italiana. Non soltanto sotto il
profilo della sua espansione quantitativa
e qualitativa, nei centocinquanta anni di
vita nazionale e di vita salesiana, ma,
prima ancora, per l’anticipazione e
l’attuazione concreta (nel primo
Risorgimento) di alcuni fra i valori
fondanti della Costituzione e del secondo
Risorgimento.
Quanto all’espansione, si pensi da un
lato alla diffusione delle opere salesiane
su tutto il territorio nazionale, e non solo
(dal 1875 iniziò la vocazione missionaria,
con l’assistenza sociale ed educativa
all’emigrazione italiana a partire
dall’Argentina); e, dall’altro, a come si
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146
Il Tempietto
sono sviluppate e diversificate sul
territorio le attività salesiane, a seconda
delle esigenze. Dall’oratorio al centro
giovanile e alla parrocchia, alla scuola e
al collegio; alla azione culturale e
massmediatica; alle opere di prevenzione
sociale e, ora, di assistenza per
l’immigrazione; all’associazionismo e al
volontariato.
Quanto all’anticipazione e all’attuazione
dei valori costituzionali, la formazione
umana e cristiana che costituisce
l’obiettivo della scuola salesiana, accanto
alla dimensione religiosa, si radica in
una serie di valori profondamente laici
ed espressivi della centralità della
persona, nei termini in cui essa è
proposta dalla nostra Costituzione: il
principio lavorista, quello personalista,
quello di eguaglianza e di pari dignità,
quello di solidarietà, quello di
sussidiarietà. Non si tratta solo,
riduttivamente, di dare a Cesare ciò che
gli spetta. Si tratta, piuttosto, di saper
riconoscere e valorizzare
concretamente la dignità del minore.
Don Bosco ha saputo fare questo
attraverso un’intuizione (da lui tradotta in
pratica) che ha trovato piena conferma
sia nelle indicazioni proposte cento anni
più tardi dalla Costituzione, sia in quelle
poi riaffermate dalla Carta europea dei
diritti fondamentali, in coerenza con le
indicazioni della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo e della
Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti dell’infanzia. Il diritto del minore
al benessere e la preminenza del suo
interesse su tutti gli altri (art. 24 della
Carta europea) riassumono ed esprimono
la sua pari dignità sociale (art. 3 della
Costituzione), e cioè il suo diritto
fondamentale a essere riconosciuto come
persona, la sua identità non sacrificabile
nel confronto con altri interessi,
l’impegno alla sua tutela di per sé, non in
subordine alla tutela di altri diritti e
interessi (come ad esempio quelli della
famiglia), o in chiave paternalistica e
assistenziale.
A me sembra che il messaggio ed il
modello educativo di don Bosco abbiano
saputo sin dall’inizio mirare alla
prospettiva di realizzare concretamente
ed effettivamente la dignità del minore.
E ciò, credo, vale a superare le
perplessità avanzate da chi in passato
temeva che la componente religiosa
dell’educazione salesiana potesse
risolversi in termini di autoreferenzialità,
paternalismo, rigidità dottrinale, distacco
dall’impegno politico e sociale,
insufficiente autonomia decisionale.
Insomma, dei due valori-chiave della
Costituzione (dignità e laicità) il modello
salesiano ha perseguito e realizzato il
primo, nei centocinquanta anni del
percorso unitario: in un modo e con
risultati tali da compensare largamente la
“disattenzione” (o la minore sensibilità)
verso il secondo. Lo ricordava anni
addietro un ex-allievo salesiano, illustre
e laico, Sandro Pertini, il quale
riconosceva di aver “imparato nella
scuola salesiana un amore senza limiti
per tutti gli oppressi e i miseri", al quale
lo aveva iniziato “la vita mirabile del
Santo”. Una testimonianza significativa
dell’efficacia del messaggio educativo di
don Bosco. Credo sia giusto ricordarla, in
occasione dei centocinquanta anni
dell’unità italiana e della presenza
salesiana nel Paese.
(©L’Osservatore Romano 14 aprile 2011)
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Tullio Fognani
docente di Lettere,
ex allievo di Don Orione
San Luigi Orione
patriota nell’Italia unita
“San Luigi Orione è un patriota,
un modello di italianità vera perché,
seguendo l’esempio di suo padre Vittorio e
di San Giovanni Bosco, non si è risparmiato,
agendo mediante la parola,
l’esempio e le opere di carità,
nella formazione di “onesti cittadini e buoni cristiani”;
anche lui ha fatto gli italiani”.
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Il Tempietto
San Luigi Orione
patriota
nell’Italia unita
Tullio Fognani
Il
comitato interministeriale per le
celebrazioni e quello dei garanti
hanno lavorato duramente, per far
sì che il 150° anniversario
dell’unificazione dell’Italia rappresenti
un’ulteriore tappa di aggregazione del
popolo italiano.
Il presidente Ciampi ha chiesto e
ottenuto che il 17 marzo venga
proclamato festa nazionale col seguente
messaggio:”Dalla coscienza e
dall’orgoglio della nostra storia dobbiamo
trarre l’energia per ritrovare slancio e
fiducia in noi stessi. Lo spirito delle
celebrazioni sarà animato dall’unità della
Patria, dalla libertà dei cittadini e dagli
ideali che hanno ispirato le lotte degli
uomini del Risorgimento”.
Il D’Azeglio diceva che, fatta l’Italia,
bisognava fare gli italiani.
L’unificazione si è potuta realizzare così
in fretta perché la popolazione si sentiva
già italiana, fin dai tempi dell’Impero
Romano.
Successivamente il Cristianesimo ha dato
il suo contributo culturale facendo
sentire l’appartenenza di tutti i fedeli ad
un’unica famiglia: la “Città di Dio“, di
cui parlava S. Agostino.
Anche nel Medio-Evo, S. Francesco, S.
Caterina da Siena, Dante Alighieri e tanti
altri, si sentivano italiani. Chi ha fatto
gli italiani nel periodo dell’unificazione
sono stati soprattutto 130 fondatori di
istituzioni cattoliche (Montonati Stefano,
149
“Famiglia Cristiana“); mentre molti di
quei personaggi che hanno unito l’Italia
diplomaticamente e militarmente
faticavano ad avere il consenso popolare.
Traggo le presenti informazioni dal I°
volume della serie intitolata: “Don
Orione e la Piccola Opera della Divina
Provvidenza”, stampata a Roma nel
1958, a cura delle scuole professionali
“D. Orione”.
Che molti si sentissero patrioti anche
durante le guerre del Risorgimento lo
testimonia un santo sacerdote (ex-allievo
di Don Bosco), nato undici anni dopo
l’unificazione: San Luigi Orione.
Egli, che potrebbe essere riconosciuto
come l’eroe dei due mondi nel segno
della Carità (perché, dopo aver aperto
numerose istituzioni caritative in Italia, è
andato a fondarne tante anche in
America), ha parlato di suo padre
Vittorio, che fu garibaldino e combattente
nelle guerre del Risorgimento, e di sua
madre Carolina Feltri, che ha avuto a
che fare con Urbano Rattazzi, ministro
del Regno d’Italia.
È risaputo che Garibaldi, condottiero
abilissimo e audace, tornato
appositamente dall’America, partecipò
alle vicende militari della prima guerra
d’indipendenza del 1848 e che, anche
dopo la sconfitta dell’esercito di Re Carlo
Alberto a Custoza e il successivo
armistizio di Salasco, continuò la
guerriglia e, al comando di un corpo di
volontari, fu vittorioso a Varese e a
Morazzone, prima di rifugiarsi in
Svizzera.
Garibaldi riusciva quasi sempre nelle
sue imprese perché ammirato e aiutato
dal popolo e da volontari che
combattevano per l’Italia. In quegli anni
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150
Il Tempietto
l’Eroe dei due mondi appariva come il
simbolo dell’insofferenza alla schiavitù
politica, il paladino dell’azione
patriottica decisa che, senza incertezze e
pentimenti, puntava all’ideale dell’Italia
una, libera, indipendente.
Anche tra i soldati del Regio Esercito
Sardo c’erano dei garibaldini: uno di
questi era Vittorio, il padre di San Luigi
Orione.
Questi diede tutto se stesso nel periodo
glorioso del primo risorgimento, dal 1845
al 1854 e portò a casa idee
liberaleggianti e un acceso entusiasmo
per Garibaldi, allora aureolato di
un’ammirazione popolare specialmente a
Pontecurone, dove il ministro
democratico Rattazzi aveva una villa. I
garibaldini di quel paese erano degli
anticlericali che non frequentavano la
chiesa; essi associavano l’ostentazione di
una certa freddezza religiosa che
consideravano di moda, agli ideali
patriottici di indipendenza e libertà
nazionale.
Nel famoso 1848, anno delle rivoluzioni
e della prima Guerra d’Indipendenza, in
un momento di pausa di quel conflitto,
accadde un fatto curioso: in un’osteria,
insieme ad altri garibaldini, tra
ammiccamenti vari, Vittorio allungò una
mano verso Carolina Feltri, una ragazza
quindicenne che lavorava come
cameriera; costei reagì “appioppandogli”
un sonoro ceffone.
Quel soldato, dopo gli otto anni di
servizio militare, andò a cercare quella
ragazza per chiederle la mano, perché
pensava: “Una ragazza che si difende
così è seria ”.
Ad assaggiare le mani robuste di
Carolina fu anche il ministro Rattazzi,
che forse voleva trattarla come qualche
“escort” di oggi; lo scrive Don Orione
stesso: “Noi eravamo portinai del
ministro Rattazzi, che allora aveva la
villa a Pontecurone: un giorno mia madre
aveva in braccio un mio fratellino; sua
Eccellenza, passando, così…, le fece una
carezza… Essa cambiò di braccio il
bambino e diede uno schiaffo al ministro;
poi se ne andò a casa di sua madre e ci
dovette andare mio padre a persuaderla a
ritornare con lui”. Magari fossero tutte
così le ragazze di oggi.
Fu il medesimo Rattazzi a spiegare a
Vittorio Orione che era stato un gesto
innocente e a pregarlo che non se ne
facesse rumore (O.2, III; M.3 XIII; Par.
1.10.30.); oggi se ne farebbe anche
troppo. Il ministro, le cui preferenze per
la famiglia Orione erano dovute
senz’altro al servizio militare di Vittorio,
non piaceva a Carolina, perché non
faceva mai l’elemosina ai poveri; lei gli
attribuì il nomignolo di “Pulon”, il ricco
Epulone, di cui Gesù parla nel Vangelo,
che finì all’inferno. Egli comunque aveva
aiutato Don Bosco a far in modo che i
suoi istituti potessero sfuggire alle
soppressioni e alle leggi, allora vigenti
contro le istituzioni della chiesa,
approvate dai parlamentari liberalmassoni.
Quando il ministro morì (1873) ella narrò
di averlo visto in sogno che le diceva: “Io
sono in eterno (sono morto?) e questo
palazzo è affittato”; erano veri entrambi i
fatti.
Del patriottismo di Vittorio si trova un
segno nel fatto che egli ha dato il nome
del Re Carlo Alberto al suo
secondogenito.
Don Orione stesso, di fronte a un
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Il Tempietto
gruppo di suoi religiosi, dichiarò di
essere patriota:
“La prima volta che mi presentai
all’On. Parini, dissi franco che io
sono papista dalle unghie dei piedi
fino alla punta dei capelli; ma che
nello stesso tempo, sentivo di avere
sangue italiano al cento per cento. E
dissi:
- Sono figlio di padre che si battè
nelle Guerre d’Indipendenza; non
sono diventato patriota (solo) da che
Mussolini è al potere; ma lo ero
prima che egli nascesse.”(P.13)
Vive e sente quello che dice all’inizio
della II guerra mondiale:
“…; che sarà domani del mondo,
dell’Italia, della Congregazione, di
noi?… Opponiamo ai cannoni i
rosari…”
(D.A. Campagna, Dare la vita
cantando l’amore, ed. Shalom,
Camerata Picena, 05/02/’06).
Don Orione aveva ereditato dal padre:
“Un acceso patriottismo, un
appassionato amore per il popolo
italiano e la comprensione per certi
stati d’animo in conflitto, che erano
alla radice del nostro Risorgimento”.
(Gallarati scotti, Corriere della sera,
20/11/1955).
In una foto scattata a Tortona si vede Don
Orione che, in data 03/06/1939 davanti a
centinaia di alunni delle scuole, bacia la
151
bandiera italiana, al cui amore ne ha
educati tanti.
Il nostro santo, ex-allievo di Don Bosco
a Valdocco di Torino, agli alunni delle
sue scuole insegnava a diventare onesti
cittadini e buoni cristiani, come era lui
stesso; non si occupava di partiti e
diceva:
“La nostra politica è la carità
grande e divina che fa del bene a
tutti. Sia la nostra politica quella
del Pater Noster. Noi non
guardiamo ad altro che alle anime
da salvare, …”
(Peloso Flavio: Don Orione, p.17 –
18 ed. San Paolo,1997, Cinisello
Balsamo – MI).
Ma salvando le anime si formano anche
cittadini onesti, impegnati ad operare
per il bene di tutti, come promettono
coloro che svolgono il servizio militare:
“Giuro di essere fedele alla
Repubblica Italiana e al suo capo,
di osservare lealmente le sue leggi e
di adempiere ai doveri del mio stato,
al solo scopo del bene della Patria”.
San Luigi Orione è un patriota, un
modello di italianità vera perché,
seguendo l’esempio di suo padre Vittorio
e di San Giovanni Bosco, non si è
risparmiato, agendo mediante la parola,
l’esempio e le opere di carità, nella
formazione di “onesti cittadini e buoni
cristiani “; anche lui ha fatto gli italiani.
Certamente festeggerà il 150° dell’Unità
d’Italia dal cielo.
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Damiano Casati
docente di Storia e Filosofia nel
liceo Giuseppe Calasanzio
Gli Scolopi e il Risorgimento
in Liguria
“La rivolta scoppiata a Genova dopo la sconfitta di
Novara, turbò profondamente P. Canata,
che riuscì a stento a calmare i giovani divisi tra
Piemontesi e Liguri. Di tutto ciò, testimonia l’Abba
“di lì a dieci anni, molti di quei genovesi e
monferrini, fattisi soldati volontari per le guerre del
‘59-‘60, ne parlarono ancora esultandosi a ricordare
il gran Maestro, e si confidavano di essersi messi a
servire la Patria per merito di Lui”.
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Il Tempietto
Gli Scolopi e il
Risorgimento in
Liguria
Damiano Casati
Il
settecento è stato, specie nella
sua seconda parte, il secolo di
maggiore splendore delle Scuole
Pie in Liguria. Gli Scolopi erano
presenti con le loro scuole in Oneglia,
Carcare, Savona, Genova, Finalborgo,
Albenga, Toirano e in altri piccoli
centri poi abbandonati tra settecento e
ottocento, istituti di cultura che
godevano di grande successo, per
questo molto richiesti.
Il fatto non meraviglia se pensiamo:
a) al numero piuttosto copioso di
Religiosi vari geniali e capaci e di
fama non solo italiana. Basti
pensare a P. Gian Maria Picone
(1772- 1832), europeo per
formazione, cultura e attività, al
centro di un ampio dibattito, in
Liguria, sui problemi agricoli: saggi
sull’economia olearia, sulla
viticultura, sulla cultura della
barbabietola, sulla cultura del
guado o pastello e sull’estrazione
dell’indaco dalle foglie di questa
pianta. P. Beccaria, insegnante di
fisica a Torino in rapporto
epistolare con A. Volta e con altri
studiosi della medesima disciplina
sia italiani che stranieri. P.
Assarotti, studioso e pedagogo degli
audiolesi (la biblioteca del suo
istituto contava più di diciottomila
volumi sull’argomento), P.
Molinelli, il teologo della
155
Repubblica genovese, il formatore
di tanti di questi religiosi; P.
Domenico Buccelli, il primo a
volere l’italiano nella scuola
primaria; P. Michele Alberto
Bancalari (1805-1864), a lui si
deve la scoperta del diamagnetismo
dei gas, insegnante di fisica
all’Università di Genova e decorato
per i suoi studi della croce dei
Santi Maurizio e Lazzaro. P.
Isnardi, precettore dei Principi di
casa Savoia. P. Carlo Barletti,
precursore di A. Volta a lui
succeduto all’Università di Pavia,
P. Giuseppe Solari. Scienziati, eredi
della tradizione galileiana dei Padri
Scolopi, letterati, pedagogisti,
innovatori in più campi del sapere,
animatori di comunità con le più
avanzate tecniche di insegnamento
(frequentatori degli Svizzeri
Pestalozzi e P. Girard.).
b) Al fatto che la casa di Oneglia era
la più vicina al confine francese e
quindi rendeva agevole lo scambio
culturale con l’Europa.
c) Ma un altro avvenimento spiega la
richiesta della presenza dei Padri
con le loro scuole in vari paesi
della regione e fuori: la
soppressione della Compagnia di
Gesù (1773) e la tendenza dei
governi a privilegiare Ordini più
vicini al popolo minuto (p. es. a
Milano).
L’attenzione più a riforme
(illuminismo) che alla vita religiosa,
l’attenuarsi della vita di comunità,
la sicurezza economica che gli stati
sembravano garantire al futuro
delle loro scuole, l’avversione ai
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Il Tempietto
Gesuiti e le loro simpatie per i
Portorealisti, crearono all’interno
della Provincia religiosa un clima
che non li predispose a prevedere
ciò che tra breve sarebbe successo:
la rivoluzione francese e il regime
napoleonico. Non fa stupore che
molti di questi Padri, scoppiata la
rivoluzione, ne sposassero le idee e,
formatesi le repubbliche sorelle, i
medesimi siano stati preposti a
cariche di prestigio, che svolsero
con entusiasmo, non intravedendo
le insidie possibili di tale scelta.
Ecco come ce li presenta il
Codignola: “Li caratterizzavano di
fronte alla generazione precedente
una maggiore indifferenza verso i
problemi, diremo così, tecnici della
teologia tradizionale, un più acceso
giacobinismo evangelico, in politica
avversione profonda e irriducibile a
qualsiasi governo assolutistico e
paterno”(i). Erano in politica
ferventi repubblicani.
Nelle comunità le idee
rivoluzionarie crearono divisioni; chi
le condivideva, chi le avversava.
Vari religiosi uscirono dall’Ordine e,
fatto più grave, nel 1810 Napoleone,
che già aveva facilitato tale
fuoriuscita con l’assicurarli
economicamente, soppresse tutti gli
Ordini Religiosi, obbligando gli
adepti a dismettere l’abito religioso,
a non vivere in comunità, a
sottomettere ad una amministrazione
laica e governativa le scuole.
Furono momenti terribili per le
comunità religiose. I Padri in
Liguria si ridussero a poco più di
14. Bisognerà aspettare il
Congresso di Vienna per vedere le
cose cambiare. La Liguria venne
annessa al Piemonte che permise
tacitamente ai Religiosi e di riavere
le loro Scuole e di vivere in
comunità e di rivestire l’abito
religioso proprio.
d) C’è ancora un altro elemento che ci
aiuta a comporre il clima culturale
di quel periodo. I Padri Scolopi
avevano da tempo forti simpatie per
i Giansenisti tant’è vero che ne
sposavano in campo politico le idee
repubblicane, in campo morale il
forte rigorismo (erano scolari di P.
Molinelli, teologo della
Repubblica). Costoro avevano
oramai dismesso l’ansia per i
problemi teologici e in parte per
quelli politici, ma auspicavano un
rinnovamento sociale e religioso
attraverso la cultura diffusa nelle
scuole con metodi pedagogici molto
avanzati. Il romanticismo che allora
si diffondeva nella regione insieme
al portorealismo (ogni nazione, ogni
uomo ha una missione da svolgere)
li avvicinò al problema nazionale
che per loro era innanzitutto
culturale (farsi una coscienza
nazionale, sentire il bisogno della
libertà, prima di agire).
A questo punto è necessaria una
precisazione: i centri maggiori
erano Genova, Savona, Carcare,
Chiavari, ma pure tutte le case
della regione beneficiarono e
vissero le problematiche di quelle
case. Mi soffermo su alcune:
1. Genova: momento democratico
(Bancalari, Cereseto, Mameli):
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Il Tempietto
siamo fra gli anni 20 e 30
dell’ottocento. Michele Alberto
Bancalari (chiavarese e alunno degli
Scolopi) terminati gli studi entra nelle
Scuole Pie nel 1825 e ne veste l’abito
religioso. Nel 1830 è ad Oneglia dove
insegna retorica. Il perché a maggio
fosse a Genova non è dato sapere, ma
è certo questo: Mazzini lo incontra e
gli dice “non hai soddisfatto il debito
come altri…. devo però confessare che
Bancalari mi promise di adempiere il
suo dovere”. Come? si conoscevano? e
che dovere doveva il Bancalari
adempiere?” Domande che richiedono
una chiarificazione. I due si erano
conosciuti all’Università di Genova
durante i loro studi e ne era nata una
profonda amicizia che coinvolse pure
la madre di Mazzini. Costui, soppresso
dal Governo nel 1828 l’Indicatore
Genovese, aveva dato vita, con l’aiuto
di amici, ad un’Associazione letteraria
con lo scopo di promuovere e
diffondere la cultura tra i giovani. Gli
iscritti dovevano pagare una quota (ciò
che chiede il Mazzini al Bancalari,
moroso nel pagamento). Anche la
madre di Mazzini conosceva il
Bancalari (nel 1832 è ordinato
sacerdote). Lo rilevano queste due
lettere. Per meglio intenderle è
necessario premettere quanto segue: a
Mazzini, esule in Svizzera, viene
recapitata nell’ottobre del 1834 una
lettera del francese Lamennais,
elogiativa del pensiero e dell’opera del
patriota italiano, lettera riportata da
molti giornali. Il Bancalari viene in
essa qualificato come “giovane frate”.
Ecco la lettera di Mazzini alla madre e
di seguito la di lei risposta:
Lettera di Mazzini alla madre:
“Soleure 18 nov. 1834. Vedo della
visita fattavi da quel giovane frate,
che io ricordo benissimo, e al quale
ho pensato più volte, come all’altro
suo compagno che forse, come
d’intelletto più applicato a cose
meno gravi, sarà più lieto e più
felice di questo. Cosa mai
intendeva egli dire con quel timore
che la lettera di quel sant’uomo
(Lamennais) ed altre simili cose
potessero recarmi aggravio
all’anima, perch’io peccassi
d’orgoglio e di vanità?.... Ma, è
necessario aver sentita e decisa la
vita dell’esule per intender forse
siffatte cose…. e però io lo scuso
per il suo timore. Bensì non
intendo, come le noie che i suoi
superiori gli danno, valgano ad
affrangerlo. Ditegli che io vivo da
tempo lungo, e ditegli ch’ei pensi a
come molt’altri vivono, pure
sorridono incontro alla fortuna, e
alla persecuzione. La vita è una
missione…. ed ei non deve temer
d’altro, se non che del giudizio di
Dio, quand’ei gli chiederà: cosa
hai fatto della vita a pro’ della
mia creatura? Si crei una missione
sulla terra, si prefigga un nobile
intento, e vi consacri tutte le sue
potenze: si sentirà rinfrancato e
indifferente a tutte vicende. Io gli
desidero questo, perché è dolore per
me, quando ricevo lettere di quel
sant’uomo, che la terra ove il
giovane di cui parlo è nato, sia
sola vuota e fredda ad ogni
fiamma generosa. Non so se voi lo
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Il Tempietto
farete, ma io non vi nego che, non
potendo altro bramerei gli
mandaste codeste mie linee, in
segno di memoria che io ne ho,
benché nol conosca
personalmente…. e vi sarei grato
assai dove il faceste”.
In data 27 nov. 1834 così rispondeva
la madre:
“Ieri ebbi la tua 18…. ove mi
parli circa alla terra di quel
sacerdote che io ti esprimeva. Non
è già in lui cotale pensiero, volgare
timore di una giusta vanagloria
che tu abbia a ritrarre dalle lodi
altrui; no certo, dappoiché l’idea
sublime che nutre di tutto lo stesso
sa concepire il valore dell’anima
tua per crederti immune da quelle
impressioni connaturali a tutti
fuorché a te. Egli temeva soltanto
che appunto i tratti di stima e di
ammirazione che ti si
tributavano…. potessero vieppiù
accendere l’ira e l’invidia altrui
onde averne maggiori
dispiaceri…. Mi duole molto di
non potere per ora fargli leggere
(la tua risposta) non consentendole
le sue circostanze…. critiche ed
assai delicate, essendo che gli si
suscitarono calunnie, fra le quali il
crederesti? quella di mantenere
teco una intelligenza di amore e di
affetto. Or comprendi il grave
delitto, trattandosi di far credere
questo da’ suoi nemici a’ propri
suoi religiosi superiori. Però venne
tosto sventata simile calunnia….
dei nemici che per invidia
cercarono di perderlo or sotto un
aspetto or sotto l’altro…. È tenuto
e guardato con somma
vigilanza…. dunque comprendi
quanto sia necessario ad esso come
a chi l’ami l’essere prudente….”.(ii)
Queste due lettere ci fanno capire
quanto segue: la profonda amicizia tra
il sacerdote e un suo confratello e il
Mazzini, la premurosa preoccupazione
del primo per i guai recenti e possibili
per l’amico esule, l’opera
chiarificatrice della madre al figlio per
alcune espressioni del sacerdote, la
preoccupazione di lei di salvaguardare
il religioso dentro e fuori l’Ordine (un
filo mazziniano creava sospetti). C’è da
pensare che all’interno non tutti i
religiosi condividessero le idee
religiose dell’esule e all’esterno dato il
clima politico, essere repubblicani
significava, almeno essere sorvegliati
dalla polizia.
Il Bancalari, in seguito, insegnerà a
Finalborgo, a Carcare, a Chiavari
per ritornare poi a Genova. È
all’Università della città dove insegnerà
fisica sperimentale, per questo avrà
incarichi di prestigio: 1846, presente e
operante al Congresso scientifico di
Genova, nel 1847 in quello di Venezia.
A lui si deve la scoperta del
diamagnetismo dei gas. Nel periodo
difficile della Provincia (1851- 1853)
sarà nominato Superiore provinciale di
Liguria e si darà da fare a riportare la
pace fra i religiosi divisi politicamente e
non solo.
A Genova in quegli anni era pure
presente P. G. B. Cereseto di Ovada,
uomo di vasta cultura, con le sue
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Il Tempietto
traduzioni dal tedesco e dall’inglese,
preparerà il diffondersi del
romanticismo in Liguria. Con la sua
rivista “Il giovinetto italiano” veicolerà
i giovani al problema nazionale
formandone lo spirito sui concetti di
libertà e di democrazia, ideali tipici
del risorgimento nel nostro paese. A
Genova, nell’istituto scolopico della
città si formerà e studierà Goffredo
Mameli del quale si parlerà più avanti.
Momento liberale a Savona e
Carcare, in modo particolare:
uscita malconcia dalla tempesta
rivoluzionaria e napoleonica, la
Provincia Ligure dei PP. Scolopi,
riprese rapidamente a crescere grazie
all’opera indefessa di alcuni religiosi:
P. Carosio, P. Buccelli, P. Canata, P.
Muraglia, P. Garassini, questi i più
rappresentativi. Da Genova il
baricentro della Provincia si spostò
sull’asse Carcare e Savona. È da
Carcare che P. Carosio, ricostruì
l’istituto (disastrato dalle armate
napoleoniche) e vi formò vari giovani
aspiranti alla vita religiosa, tanto che
all’accorrere di studenti dalla Liguria,
dal Piemonte e pure dalla Lombardia,
fu necessario ampliare l’istituto, tra
difficoltà economiche enormi. In più
mancavano insegnanti religiosi. Per
questo motivo nelle case di Carcare e
Savona il Padre si servì di insigni laici
e di preti secolari inoltre accolse
giovani aspiranti ad essere scolopi, che
furono formati in sede (non essendoci
una apposita casa di formazione). Il
fatto fece sì che venissero istruiti
secondo le idee dei loro superiori, che
in vario modo provavano simpatie
159
portorealiste, e quindi ricevevano
un’educazione teologico-dogmatica,
spesso non conforme a quanto
avrebbero gradito i Vescovi della
diocesi. Poi, facendo vita comunitaria
con i Padri già sacerdoti,
partecipavano ai loro problemi, alle
loro discussioni, vivevano a contatto
con il mondo esterno, questo, certo,
non facilitava la loro formazione anche
se avevano una coscienza civile
maggiore rispetto a coloro che
venivano formati nei noviziati e nei
seminari. Di questo i Superiori ne
erano consapevoli. Il Provinciale P.
Isnardi (Precettore, prima, a Torino dei
principi Ferdinando e Vittorio: del
primo rilevò la non comune attitudine
allo studio della matematica, del
secondo negli esami del 1832 dice:
non ha saputo niente di niente): scrive:
“soprattutto i chierici si applichino
agli studi teologici poiché è
vergogna che nelle Scuole Pie
questi siano da loro così trascurati
che molti dei secolari ne
arrossirebbero”.(iii)
Mentre P. Carosio era interessato
all’ampliamento della casa e alla
formazione saltuaria di questi giovani
aspiranti, la mente delle innovazioni
scolastiche era P. Domenico Buccelli
di Varazze (1778-1842). Studiò a
Genova dove strinse amicizia con
Eustachio Degola e studiò teologia
sotto la guida del teologo giansenista
G. B. Molinelli e di P. Assarotti. È a
Carcare dal 1804. Studiò
appassionatamente, aperto a problemi
didattici (F. Cherubini, Pestalozzi,
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160
Il Tempietto
Girard), innovò in campo scolastico;
nel 1817 inserì, difatti, tra le classi del
“leggere e dello scrivere” e il ginnasio,
un corso di lingua italiana e ne indicò
i principi nel “Quaderno del Metodo di
questa scuola primaria”. Solo sei anni
dopo (1822), lo Stato piemontese
introdurrà un insegnamento del genere
nei suoi territori: era l’inizio della
scuola comunale. Lusingato da questi
successi pubblicò a Torino la “Ragion
della Lingua” proibita nel 1826 dal
Ministro Brignole Sale che soppresse
la “scuola intermedia”. Ma l’opera
trionfò e nel 1833 fu ripubblicata con
lettera di introduzione dello Charvaz.
Significative le sue parole introduttive
a questa 2ª edizione:
“Un metodo d’insegnamento per le
prime scuole che introduce
l’analisi minuta nelle cose della
lingua, tanto per riguardo alle
parole, quanto particolarmente per
riguardo ai pensieri, che alla nuda
e inintelleggibile autorità
sostituisce il ragionamento,
proporzionato ai Giovanetti, e
quindi l’intelligenza di essi, che
abbraccia la parte morale e civile
dell’educazione….”.(iv)
Tra i consensi che ebbe, oltre a quello
dello Charvaz, è da sottolineare che il
Lambruschini lesse e apprezzò l’opera
e la citò nella sua “Guida
dell’Educatore” tra le grammatiche
“pedagogiche e socratiche”, opposte a
quelle “dogmatiche espositive”.(v)
Ritiratosi, la sua eredità culturale nel
1840, passò a P. Atanasio Canata che
in precedenza aveva conosciuto sia il
P. Carosio che il P. Buccelli. Nel 1830
era entrato negli Scolopi. Fu
insegnante a Chiavari, nel 1835 a
Savona, dove conobbe P. Manara e P.
Scotti e poté entrare in relazione con i
Padri Cereseto, Garassini, Solari,
Berlingeri. Furono, quelli savonesi,
anni pieni di attività: insegnamento,
catechismo, confessioni, buon
predicatore, studioso di filosofia e
letteratura, disorganica la sua
preparazione teologica. L’adesione al
Romanticismo ebbe certamente
influsso nella sua produzione
letteraria, ma, probabilmente, lo
avvicinò anche alla politica.
Questi Padri, rispetto alla precedente
generazione, avevano ricevuto una
mentalità più aperta; il loro spirito
antigesuita, anticonservatore, li aveva
preparati a considerare i fermenti
risorgimentali, e gli aneliti alla libertà
non come fenomeni sovversivi da
soffocare, ma problemi concreti da
risolvere. Questo era il clima che P.
Canata respirava nella comunità
savonese e nell’ambiente stesso della
città, nella quale, dopo il 1815, si
erano formati movimenti di eterogenee
tendenze che avevano tenuti vivi i
fermenti politici nel clima repressivo
della restaurazione, e avevano
contribuito a diffondere, specie negli
ambienti culturalmente più preparati,
nuovi problemi e nuove esigenze.
C’erano infatti gruppi aderenti alla
Massoneria e Carboneria, altri erano
gruppi d’opinione che diffondevano le
nuove idee. Fra questi, il “partito
napoleonico” e quello indipendentista
che si ispiravano agli ideali della
Rivoluzione francese, erano portavoci
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Il Tempietto
di nuove istanze e avevano molti
aderenti fra il clero, specie con quello
di venature portorealiste, ansioso di
realizzare l’idea di una democrazia
cristiana giacobina che rimandava al
Degola e alla sua aspirazione di vedere
coniugati i principi di libertà e di
uguaglianza con la dottrina cristiana.
L’interesse per il movimento
d’opinione liberale moderato era
abbastanza diffuso e si andava sempre
più affermando tra gli Scolopi, i quali
in particolare modo, si interessavano a
quella produzione letteraria, filosofica,
storiografica che si rifaceva, in molti
scrittori moderati, ad un’ideologia
cattolico liberale.
“In questi scrittori e nella
maggiore parte dei loro imitatori e
seguaci, la tendenza tipica del
liberalismo moderato a conciliare
tradizione e progresso, autorità e
libertà, e a combattere la
democrazia da un lato e la
nazione dall’altro, si unisce alla
tendenza a conciliare la fede
cattolica con il pensiero filosofico
moderno, la morale cattolica con
alcune esigenze pratiche proprie
della società borghese,
l’universalismo ecclesiastico con il
sentimento nazionale”.(vi)
Un importante contributo alla
propagazione tra gli Scolopi delle
aspirazioni nazionali che venivano via
via manifestandosi nell’ambiente
culturale moderato, lo diedero i Saggi
Accademici (vii) i quali agirono anche
come strumento di propaganda nei
riguardi di un folto pubblico che vi
161
partecipava. I saggi letterari di fine
anno favorirono la lettura, la
conoscenza di autori romantici allora
in voga: Manzoni, Pellico, Prati,
Berchet, Grossi nonché di alcuni non
solo propriamente romantici Alfieri,
Foscolo, Leopardi, ma esponenti
anch’essi di una cultura “militante” e
suscitatori di ideali. Il patriottismo la
faceva da padrone tanto che P. Isnardi,
provinciale, scriveva al P. Muraglia nel
luglio del 1843:
“Una cosa debbo poi
raccomandare, è che nei
componimenti non si parli d’Italia
con quelle passioni e con quei
termini di cui il governo è
sospettosissimo, si allontani tutto
ciò che da un nemico nostro e da
un calunniatore potrebbe essere
riferito a principii liberali…. Se
mai c’è qualcosa di simile, la
prego di sopprimerlo, a non
permetterlo, meglio che sentirlo
bramo stare lontano perché soffro
troppo; né i timori sono per me, ma
per la religione….”(viii).
2. Momento neoguelfo: Negli anni
quaranta il cattolicesimo liberale
prima elitario e timoroso, ora
dimostrava una forza di espansione e
una indiscussa capacità di
organizzazione, con la pubblicazione
del Primato di Gioberti, sfociò in un
movimento politico vasto e complesso.
Gli Scolopi furono in prima fila, specie
a Chiavari, a Savona “Poche città
d’Italia, come ha acutamente osservato
Pietro Sbarbaro, erano preparate e
disposte tanto quanto la piccola
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162
Il Tempietto
Savona, a ricevere, abbracciare con
fede ed entusiasmo il Vangelo
giobertiano, quando un Papa parve se
ne facesse banditore dell’altezza di
Roma”(ix) poi a Carcare, a Genova, ma
per coglierne i sintomi nei saggi
accademici bisognerà attendere il
1847 per vedere esposte alla luce del
sole e propagandate nelle accademie
di fine anno idee patriottiche e
cattolico-liberali. Il P. Canata si sentì
in piena sintonia con le idee
Giobertiane. Lo illustra una lettera al
P. Muraglia del 9-5-1845 in cui a
commento del libro del Gesuita P. C.
Curci, dal titolo: “Fatti e argomenti in
risposta alle molte parole di V.
Gioberti intorno ai Gesuiti” così si
esprimeva:
“Mi pare quel Gesuita troppo
capzioso, anzi, talora, pur vile,
intendendo a fare comparire il
gran filosofo, al di sotto di uno
scolaretto di logica, un utopista
instricabile e inintelleggibile a se
stesso, in parte malvagio e tristo.
Cose indegnissime e stomachevoli,
vestite di quei freddi motti e talora
scipiti, lo che non so come
s’accordi con quel guardare che fa
il malizioso gesuita il Crocifisso
che si tiene davanti nello
studiolo”(x).
Stando così le cose, particolarmente
infausta fu l’elezione a P. Provinciale
di A. Dasso. Uomo dinamico, carattere
forte, di indubbie capacità, ma
rigidamente conservatore, legato ad
ambienti reazionari e filogesuiti,
avversario di ogni novità che non fosse
la dottrina cattolica. Consapevole del
serpeggiare fra i Padri di idee
gianseniste e liberali, e certo di una
disorganica formazione teologica in
loro, la addebitò alla mancanza di
unità nell’insegnamento teologico
impartito nelle singole case ai chierici;
avvertì, perciò, la necessità di un
apposito studentato per essi, per cui
diede inizio ad una riforma dell’ordine
condotta in maniera autoritaria e
invadente. Dalla sua, aveva l’apporto
del P. Generale, P. G. Inghirami. Iniziò
con una serie di provvedimenti che
miravano ad accentuare la direzione
delle singole case, ad interferire nella
vita dei Padri, regolandone le attività,
le vacanze, le letture, gli
atteggiamenti; con questo si attirò
l’antipatia di molti. Ma ciò che li
indispettiva era il suo filogesuitismo
che molti Padri non potevano
accettare, sia per antiche
incomprensioni iniziate già al tempo
del Calasanzio e sempre riemergenti,
sia per il momento storico in cui
tentava di imporlo. P. Canata, in una
lettera al P. Muraglia, esprime tutto il
suo rammarico per tale situazione:
“Tacere, studiare, scrivere e più
pregare, soffrire sarà d’or innanzi
l’occupazione mia: tanto la
riforma bisogna cominciarla dagli
anziani e per l’esempio…. Mi pare
una gesuitata e delle meno
concludenti, checché ne dica V. R.
e mi scomunichi; per bene nostro io
lascerei stare i Gesuiti lontani
mille miglia per non sostituire
disgusto e disgusto negli animi, i
quali si querelano per sembrar loro
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Il Tempietto
che il presente governo o ministero
scolopio (il tempo del regresso
vuole che io usi questi termini) si
voglia porre sulle tracce di quei
RR. PP.-Povero Scolopismo”.(xi)
Ma ben presto P. Dasso nel tentativo di
imporre norme della tradizione
gesuitica, subì un duro colpo. Infatti,
allorché uscì il Gesuita moderno di
Gioberti, la polemica contro i Padri
della Compagnia esplose con la gioia
di tanti Padri, specie P. Canata, che
mal sopportava quel clima repressivo e
autoritario. L’elezione a Pontefice di
Pio IX contribuì ad alimentare il clima
di speranza nel rinnovamento proprio
negli istituti soprattutto di Savona e
Carcare nonostante le proteste del P.
Dasso. Era allora rettore di Carcare P.
Garassini molto amico di P. Canata sin
dai tempi in cui erano stati chierici a
Savona, ambedue liberali convinti. In
un articolo pubblicato sulla Stampa
nel 1910 così li ricorda Cesare Abba,
loro scolaro:
“Verso il 1846 in quel Collegio
c’era un gruppo di Padri di mezza
età, alcuni dei quali, se fossero
rimasti da giovani nel così detto
“Secolo” si sarebbero incontrati in
Mazzini o in qualche suo seguace,
che li avrebbe fatti della Giovane
Italia…. Di questo era l’anima un
P. Canata da Lerici, poeta focoso
in tutto, sin nel fare penitenza;
uomo da dipingere con la spada in
pugno come S. Paolo. Quello poi
sì! non solo sarebbe divenuto della
Giovane Italia, ma se fosse rimasto
nel mondo, fra il 1830 e 1848,
163
avrebbe trovato la via di andare a
morire in qualcuna delle sfide di
pochi al “potere onnipotente”, qua
e là dove che gli fosse capitato di
vedere un po’ di tricolore. Nel
1846, all’avvento di Pio IX salì
sulle più alte cime dell’ideale a
cantare l’inno alla vita, alla
Patria, alla fede; Romantico
nutrito di classicismo, svegliò gli
alunni suoi ad amare la gran cosa
vietata: l’Italia. Allora nella sua
scuola suonarono temi tali che gli
spiriti si inebriarono di idealità
nuove. Egli poi leggeva nella
scuola pagine della “Battaglia di
Benevento” e dell’”Assedio di
Firenze”, “Lettere dell’Ortis”, passi
del “Colletta”, né il rettore del
collegio P. Garassini glielo
vietava. Anzi questo metteva a
nuovo qualcosa nella giovinezza
dei suoi convittori, dava (cioè) il
bando all’abito a coda, all’alta
cravatta, alla feluca, e vi sostituiva
la divisa dei bersaglieri e il
cappello piumato nero e azzurro i
colori. Da tutto ciò una bell’aria
di rinascita che spirava da tutto e
che aveva lasciato pensare che gli
Scolopi fossero stati sempre un po’
in guerra contro i Gesuiti…. !(xii)
Proprio in quegli anni, nel settembre del
1846, giungeva a Carcare Goffredo
Mameli (vedere articolo a parte).
Nel marzo del 1848 ci fu in Genova una
violenta polemica contro i Gesuiti, con
saccheggio della loro casa. Qui furono
trovate lettere che rovinarono il P.
Dasso. Da Albenga P. Guardone,
ammalato di vaiolo, scrive al P. Canata:
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164
Il Tempietto
“…Un esempio, mio caro, per chi
si mette sotto i piedi, Costituzioni,
Vangelo, onestà, tutto per fini
ambiziosi! Una caduta
ignominiosa di quest’Uomo, che
Iddio ci mandava nell’ira sua, io lo
prevedevo, ma dico il vero non lo
credevo così terribile…. i suoi
maneggi per conseguire il
vescovado di Bobbio, mi riescono
bensì nuovi…. Gliel’han messa i
Genovesi la Mittera e proprio
secondo i meriti. La protesta che
avete fatta costì, e quella di Savona
mi piacquero assai, e più la vostra
perché mi pare più religiosa…. Ho
saputo che ad Oneglia volevano
seguire l’esempio e penso che a
quest’ora l’avranno fatto. Ma
sarebbe bene che il seguissero
anche le altre case, perché
altrimenti si porrebbe dare appiglio
a qualche malevolo da spargere che
non è che una sola parte degli
Scolopi che ha protestato, e che
forse la maggioranza teneva mano
al traditore”.(xiii)
Le proteste degli Scolopi furono lodate
dal Ministro della pubblica istruzione
C. Boncompagni e dallo stesso
Gioberti in una lettera al P. Garassini
in cui si complimentava “co’ lui e i
suoi colleghi” per la funzione che
svolgevano in seno al clero “cioè
quello di servir da modello ai chiostri
cattolici del nostro secolo e
dell’avvenire, e di scuola universale a
chi vuol apprendere l’accordo della
vita monastica con la cultura”.(xiv) I
due attestati di stima, l’esultanza dei
Padri per la presa di posizione del
Papa Pio IX, l’avversione ai Gesuiti,
dimostrano che la più parte degli
Scolopi erano in sintonia con il sentire
popolare, anche se alcune nubi
parevano sorgere all’orizzonte (la
ventilata riforma scolastica, la guerra
vicina) e prontamente rilevata dal P.
Giriodi e P. Canata. Ma la passione
politica a favore dello Statuto e
dell’indipendenza italiana non frenava.
Lo stesso P. Giriodi conferma al P.
Canata:
“…. Avrei desiderato alcune copie
della lettera di Gioberti stampata,
che avrei distribuite ai miei
conoscenti prossimi e lontani: ma
spero che il P. Rettore manterrà la
promessa di venirci a trovare prima
di pigliare la volta di Roma e
quindi ne porterà qualcuna con
sé…. Sentii da mio fratello che
Gonnella produsse nuovi canti
sull’Italia, che vennero accolti sui
giornali con infiniti applausi. Gli
inviai il mio Canto per la
Costituzione, e mi rispose che
fattolo leggere a molti, tutti lo
volevano musicato, e stampato, a
preferenza di tanti altri che
n’ebbero la sorte più avventurosa
che meritata. Avrei invece
desiderato di comunicare il Suo
Inno che avea promesso di
trascrivermi; e che ancora attendo
al presente….”.(xv)
La guerra andò male, C. Abba, allievo
allora nel Collegio così commentò:
“Quando scoppiò la guerra del
1848, il Collegio fu un faro per
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Il Tempietto
tutte le Langhe. Non v’era notizia
che aggiungesse luce là dentro gli
spiriti”.(xvi)
Il ritiro del Papa, la sconfitta di
Custoza furono duri colpi per i P.P.
Garassini e Canata; continua C. Abba:
“triste fu l’autunno del ‘48, triste fu
l’inverno appresso, sopravvenute le
notizie di Roma e della fuga del Papa,
nel convento entrò la malinconia”,
causata pure dall’approvazione della
legge “Boncompagni” sul riordino
dell’Istruzione pubblica del 4 ottobre
1848. Erano paure dei Padri per la
sopravvivenza dell’Istituto, e per
l’ingerenza del governo nel campo
dell’insegnamento, con l’obbligo di
dare esami per i Religiosi presso lo
stato, per verificare se fossero idonei
all’insegnamento (Decreto Reale 4
ottobre art 55-56), a meno che
avessero dato saggio di distinta abilità.
Il Collegio non aveva a temere niente
al riguardo. Ne era prova la stima dei
governanti, rafforzata dal fatto che il
Prof. Troya, ispettore delle scuole
religiose a nome del Governo, arrivato
a Carcare “Stimò grandemente l’opera
educativa dei padri in beneficio degli
alunni”(xvii) Ma da altre case le leggi
di Boncompagni e i progetti di
accorpamenti di scuole del Troya
ebbero dure critiche. In più, la rivolta
scoppiata a Genova dopo la sconfitta
di Novara, turbò profondamente P.
Canata, che riuscì a stento a calmare i
giovani divisi tra Piemontesi e Liguri.
Di tutto ciò, testimonia l’Abba
“di lì a dieci anni, molti di quei
genovesi e monferrini, fattisi
165
soldati volontari per le guerre del
‘59-60, ne parlarono ancora
esultandosi a ricordare il gran
Maestro, e si confidavano di essersi
messi a servire la Patria per merito
di Lui”.(xviii)
Dopo il 1848 le Accademie di fine
anno a Carcare e Savona, per il loro
contenuto patriottico, non furono
gradite alle autorità religiose, e gli
Scolopi ne subirono la reazione. P.
Pizzorno fu allontanato da Savona per
Genova e P. Solari fu espulso
dall’Ordine degli Scolopi per ordine
della Congregazione dei Vescovi e
Regolari; era un sintomo di una più
vasta reazione da parte della Chiesa.
Nonostante questo P. Canata intraprese
a scrivere il Saggio del 1852, vera
espressione del suo liberalismo
moderato, avverso ad ogni estremismo.
Ma gli attacchi non mancarono. Prima
L’Eco della Provincia, poi l’Armonia
manifestarono sulle loro pagine il
proprio dissenso, spesso non bene
informato. A nulla servirono le
rettifiche esplicative di P. Canata. La
lettera di questi all’amico don Luigi
Daneri dà la dimensione della
polemica suscitata dal Saggio e
l’amarezza che essa provocò in P.
Canata. Smise di scrivere poesie e
introduzioni ai Saggi Accademici e
non si interessò più, come prima alle
tematiche del suo tempo. Ne sono
testimonianza i titoli delle Accademie:
Giovani santi (1854), Genio e fede
(‘55), la Famiglia (‘56), la gioventù
(‘57), Fede e poesia (‘58), Gioventù e
sentimento (‘59), Virtù e dolore (‘60).
In essi solo qualche accenno a temi
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Il Tempietto
patriottici quali: Rossini, Silvio
Pellico, Manzoni, Eugenio di Savoia, il
ritorno dell’esule, il Coscritto di
Crimea, che così terminava “chi
s’aggiunge allo stuolo dei codardi, vero
figlio d’Italia non è”. Non sono però
che accenni sbiaditi, altro tono
avevano i saggi dal ‘47 al ‘52.
Nel ‘59 sembrarono riemergere le
antiche passioni nazionali. Molti dei
suoi giovani erano al fronte. Al P.
Leoncini con la lettera del 26 maggio
1859 scrive:
“…. In Savona sento poi che i
convittori de’ Missionari e nostri
spiegarono un vero furore
d’entusiasmo nell’accogliere i
Francesi, acclamarli, abbracciarli,
regalarli di mazzi di fiori e di
monete (se non fossi frate mi farei
soldato)….(xix)
Il risultato della guerra non gli
piacque; lo rileviamo da una lettera di
un suo ex-alunno del 22 sett 1859:
“Povero Canata! E sempre
disinganni ovunque? Speravamo
nel 1859 ed eccoli di nuovo, mi
perdoni, con le brache in mano! È
un po’ cruda in verità! Io ho
pensato subito a Lei appena lessi
l’annuncio della pace conclusa….
Lei forse avrà già formata
l’Accademia sopra soggetti
contemporanei, recenti, sopra quei
magnifici soggetti, e poi….
succedendo i fatti in ben altra
guisa da quelli che
immaginavamo, che speravamo….
per scansare di essere vilipeso da
certi giornalacci avrà mutato
idea”.(xx)
Pure la spedizione di Garibaldi suscitò
in lui apprensioni e paure che i più
giovani Padri, Leoncini, Gherzi, Scotti
gli rimproveravano scherzosamente.
Dal 1861 in poi attese totalmente al
buon andamento della scuola,
brillando come sempre. Subentrò in lui
un profondo ripensamento della sua
vita, guardò il suo passato, visitandolo
criticamente mentre pensava che
avrebbe dovuto rivivere più
profondamente la sua vocazione
religiosa e sacerdotale; anche la
defezione di alcuni suoi confratelli a
cui era legato da profonda amicizia lo
rattristò grandemente, gli diede un po’
di sollievo la presa di posizione
governativa di esentare il Collegio di
Carcare dalla confisca dei beni delle
Congregazioni religiose (1866), così
poté vivere nel suo amato istituto per
tutto l’ultimo anno di vita. Il 5 aprile
1867, colpito da febbre gastro-tifoidea,
terminava la sua ricca e complessa
avventura umana. Con lui terminava
anche la passione risorgimentale di
questi frati scolopi anche se il loro
insegnamento continuava.
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Il Tempietto
Annotazioni
i
E. Codignola, Carteggi di Giansenisti
liguri, Le Monnier, Firenze, vol I pag.
CLVII.
ii Appendice all’Epistolario di Giuseppe
Mazzini, vol I, Imola, 1938.
iii ASPL, cart. Circolari dei Provinciali, ms,
lettere del 1° nov. 1836
iv La ragione della lingua per le prime
scuole, esposta da un Individuo delle
Scuole Pie, IIª ediz, Torino, 1833.
v V. S. Derapalino, Un collegio nelle
Langhe, storia del Collegio di Carcare,
Savona, 1972, pag. 38.
vi G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna,
vol II, Dalla Restaurazione alla
Rivoluzione nazionale, 1958, pag. 348.
vii Saggi Accademici: produzioni letterarie
dei giovani a mo’ d’esame di fine anno.
viii A.P.S.P.G., Cart. Muraglia, lettera del
luglio 1843.
ix Citato nell’Opuscolo di C. Russo, Il
contributo degli Scolopi liguri al
Risorgimento italiano, Savona, pp. 7-8.
x
167
A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 9
maggio 1845.
xi A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 15
ottobre, 1845.
xii G. C. Abba, Un Collegio nelle Langhe, in
“La Stampa”, 27-28 ottobre 1910
xiii A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 10
marzo
xiv V. S. Derapalino, Un Collegio nelle
Langhe, op. cit. pag. 49.
xv A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 22
marzo 1848.
xvi G. C. Abba, Un collegio nelle Langhe, in
“La Stampa” 27-28 ottobre 1910.
xvii P. D. Casati, Storia del Collegio di Carcare
1815-1848, cit. p. 152
xviii G. C. Abba, La Stampa, 28 ottobre 1910,
Torino
xix A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 26
maggio 1859.
xx A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 21
sett. 1859.
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Il Tempietto
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Luigi Cattanei
già preside del
Liceo Classico Colombo
Spirito di Patria
in Padre Canata delle Scuole Pie
“Maestro scolopio …frate raro,
svegliatore d’ingegni e di cuori...
O frate calasanziano, maestro mio,
cosa fai in questo momento nella tua cella,
donde in quello scoppio del ‘48
…l’anima tua di trovatore
si lanciò ebra di patria…”
Cesare Abba
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Il Tempietto
Spirito di patria
in padre Canata
delle Scuole Pie
Luigi Cattanei
sentimenti e le espressioni che
G.C. Abba, l’allievo più illustre
degli Scolopi, rivolge al suo antico
maestro, Padre Canata (1), si leggono
nelle sue pagine garibaldine(2), ove la
sua personale vicenda scolastica e
patriottica torna sui luoghi natii e sulle
figure di maggior rilievo(3) incontrate
prima e durante l’Impresa dei Mille.
Se per il ‘ 48 Canata annotava
(“meraviglia del ‘48 espresso in
parole…crescenti, vuol dire più sacro.
Non dissidi, ma dubbi forse del
governo”), già per la guerra del ‘59
partivano alcuni ex alunni e il Canata
poté fondar speranze sui Cacciatori
delle Alpi (“credo che quei di
Garibaldi faranno la loro parte”).
Quando poi il generale muove da
Quarto, otto ex-alunni (4) del Canata lo
seguono e il loro professore li nomina
in note e lettere, anche se non riesce a
“vedere di buon grado l’impresa di
Garibaldi”: scrive infatti l’Abba a un
amico:
I
“sono anche in rotta col
professore…credo che i miei amici
di lassù (Cairo) ballino”.
Certo il sacerdote patriota era più
attento alle mosse della Corona e del
Cavour, tosto scomparso, fra i disparati
commenti degli Scolopi alla sua
“morte cristiana”.
Del resto l’Abba, in affettuose lettere
successive al P. Leoncini – in
171
settembre – avverte con piacere che il
suo ex-maestro ” si era ravveduto
dell’“errore” in cui l’avevano “avvolto”
calunnie di nemici personali del
garibaldino. Questi, del resto, lodava
entusiasticamente il Canata nel diario.
della spedizione elaborato al ritorno, (5)
rivivendone le lezioni di patriottismo –
tenute dalla cattedra.
I Padri Scolopi erano passati in
Liguria attraverso ventate
giansenistiche, venute specialmente
dal P. Mulinelli(6), vicino ad alcune
personalità dell’Ordine; altre erano più
vicine al rigorismo dei Gesuiti. Ne
erano venute poche diserzioni e un
rafforzamento degli Scolopi nella loro
rocca di Carcare, fondata dal
Calasanzio. Aperti alla vita pubblica,
politica e patriottica battevano sentieri
pedagogici inconsueti per i tempi; data
la presenza fra i convittori di giovani
d’età diverse: per i più piccoli studenti
il P. Domenico Buccelli (7) aveva tratto
dall’esperienza magistrale un sistema
che li guidasse dalle lettere e dalle
cose alla scrittura delle parole in uso,
fino a distinguere le regole mercè confronti lessicali, grammaticali e fin
sintattici (non opprimenti perché
venute dall’esperienza delle prime
osservazioni ragionate… Il metodo era
maturato a Genova, ove il P. Assarotti
studiava metodi didattici pei
sordomuti; ma il ministro Brignole Sale
non gradiva liberi sensi e pose ostacoli
al Buccelli.
Puntando sull’affiatamento maestroalunno, il P. Canata insegnava
“umanità” suscitando curiosità
(parallelamente al P. Ighina,(8) direttore
di un ricco museo scientifico
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172
Il Tempietto
),affiancando ai profili storici e
letterari considerazioni di vita morale
e religiosa/ non risparmiando uomini
di Chiesa:
“il Card. Bembo...«gustando
troppo le delizie, perché la Laura
che s’era scelto... e creata in
Lucrezia Borgia non era tale da
armarlo alla spiritualità... Paolo
III creò Bembo e Sadoleto cardinali, ma egli riuscì gelido e, che
è peggio, pietra di scandalo a
ritardar lo slancio della lirica...
iniziatori della prosa italiana,
mancavano di profondità... frati
allegroni e più che non si
permettesse a un laico... Ferrara
vide chierici e prelati che
chiudevano in sonetti affetti che
non avevano…«e donne travianti
(ipocrisia l’arte)”.
Con la dura fatica dei lavoratori locali
il Maestro proponeva ai giovani
l’equazione seme – prodotto, studio –
sacrificio:
“È la vita espiazione. E la
gioventù è una porzione di questa?
Dunque pure la gioventù deve
soffrire. Se si educa nella parola si
perde dell’azione? Come il seme se
seminiamo dirittamente senza
scegliere la vista del sole...con
altri, poveri, se non vi ha pietà,
come per gioco, che piacere dà?”
Premio per gli alunni erano le parti in
rappresentazioni teatrali su temi
storici, religiosi, patrii; le accademie
di fine-anno (9) e il conferimento del
titolo di”Principe dell’Accademia”al
migliore alunno (con ritratto!!), che
consacrava l’impegno d’un anno di
studio e offriva alla società garanzia di
valore e segno d’interesse…(10) Sono
rimaste alcune sinossi epistolari del
Canata, che citiamo a mo’ d’esempio:
“Studio della stazione/ l lavori
della ferrovia avanzano/ il
vantaggio che ne preparano a
questi paesi. /Anni sopra la
ferrovia/ Sosta mattutina delle
migrazioni in Carcare”.
Ma il religioso meditava sui precetti di
S. Francesco de Sales, richiamato più
volte secondo occasioni e opportunità:
“Non devesi impastoiare il nostro
spirito in tele di ragno, ma
comunicare alla buona, in mezzo
alle due belle virtù, 1’ umiltà e la
semplicità e non più gli estremi di
tante sottigliezze. La forza è più
forte quando già è tranquilla, anch’ essa nasce dalla ragione senza
mescolanza di passione”.
Il contatto con la realtà, mai venuto
meno, giovava alla confidenza dei
convittori coi loro maestri e superiori,
finalizzato ad una penetrazione
psicoaffettiva negli animi dei giovani,
onde portarli su un piano di parità e
liberi giudizi che suscitava più facile
confidenza... “Farsi giovani coi giovani
“era precetto – base dei padri, non
dimentichi delle pressioni autoritarie
dei giorni napoleonici – Stabilir
confidenza agevolava la Confessione,
suscitava amicizie che duravano nel
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Il Tempietto
tempo e riportavano spésso gli exalunni a visite e colloqui… Se i padri
avevano manifestato e suscitato dalla
cattedra entusiasmi, critiche, elogi, gli
alunni ne ricevevano impressioni per
cui si chiedevano più tardi la ragion di
gesti, parole e slanci. Il metodo
scolopico trovava il P. Canata
appassionato alla letteratura; questa
prevaleva sulle lingue classiche
(incentrate su Virgilio) per un continuo
riferimento ai dati storici. Però il
Canata... prendeva appunti... anche in
latino!
La tematica letteraria (una vera “storia”,
quella del P.Canata, vicino a quel
P.Cereseto, lodato dal De Sanctis)
obbediva al dettato Dio- PatriaFamiglia, al culto dell’ eroeprotagonista, mentre i Padri, in versi o
per lettera, s’allineavano in didattica, si
scambiavano pareri, testi e calde
(taciute, segrete nei taccuini) le passioni
Risorgimentali. Apertamente enunciate
però erano le posizioni assunte circa i
moti mazziniani genovesi del 1853(11),
col ricorso all’inno patriottico del Padre
Pizzorno (stranamente fra le pagine del
Canata non v’é cenno alcuno a quello
del Mameli).
Giovava alla stima confidente dei
collegiali per i loro maestri il contatto
che parecchi di loro intrattenevano con
personalità del mondo scientifico,
letterario e politico; è difficile
quantificare il peso delle simpatie
mazziniane dei Padri Dasso e
Bancalari (12) e quello dei massimi
pedagogisti col P.Buccelli; dalla
cattedra i nomi del Mariani, del
Lambruschìni passavan odi bocca in
bocca: Tommaseo e Canata erano in
173
corrispondenza per un lavoro su S.
Caterina da Siena; senza contare
accessi alle cattedre universitari,
partecipazioni a convegni scientifici
(Solo il bizzarro ex-alunno Pietro
Sbarbaro aveva polemicamente usato
l’appellativo di “Beozia della Liguria”
per Carcare... Ma era uomo da
prendersela pure coi regnanti...)
Salda e intatta restava l’orgogliosa
appartenenza alla”piccola patria
locale”, ormai inseparabile dal moto
risorgimentale. Torino faceva sentire la
sua voce con visite di principi e
ispettori illustri (Vincenzo Troya)
nonché di Vescovoi. Fra gli alunni e
gli Scolopi passati pel collegio
s’annoveravano nomi illustri nella
storia patria: i fratelli Mameli, l’Abba,
il Barrili, i Padri Stella e Sapeto (13),
fattisi missionari in Eritrea e cari al
Leoncini e al Garassini che
ritrovavamo antichi entusiasmi,
curiosità, sensi religiosi.
I Padri insegnanti in classi superiori
sostenevano i profili storici e letterari
con letture di testi; proponevano
analisi di versi e prose, lasciando
conclusioni e giudizi ai giovani, in
un’osmosi attenta ai fondamentali
parametri della religione e della
morale. Tali offerte culturali aprivano
vie diverse; orgoglio dell’Ordine erano
gli ex-alunni deputati (Emanuele
Cèlesia, Bartolomeo Borelli, Giuseppe
Elia Benza, intimo amico di Mazzini e
dei fratelli Ruffini), mentre ministro
era Domenico Buffa, ed un altro Buffa,
Francesco, agiva da missionario in
Cina...
A questo punto par legittimata – oltre
che da una personalità robusta e
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174
Il Tempietto
accesa, attenta al sacro come al
politico-patriottico- la gagliarda voce
cristiana del P. Canata. E no n si può
ascrivere la lode a debito sentito da
Abba verso il suo maestro; poiché egli
si rivolgeva al P. Leoncini in termini
d’amicizia e d’affetto, lodando la regola
scolopica della “santità e della cultura”
e perfino i suoi eccessi... i ceffoni (ben
29 ne ebbe dal P.. Giriodi, rammentava
bonariamente Abba anche nelle lettere
più tarde ai Padri Cigliuti, Carosio,
Escrìu, Damezzano). D’altra parte l’exgaribaldino non avrebbe vergato le
paterne lettere rivolte molti anni dopo
ai parenti Luigi e Alessandro Tasca, (14)
intenzionati ad entrare nelle Scuole Pie:
non l’accende più il sacro fuoco, ma
maturo consiglio, memoria di scuola e
di collegio, coll’orgoglio di quel ritratto
di “Principe dell’Accademia”, sfregiato
al tempo dei Mille da qualcuno in
dissenso politico...
Del resto il Convento stesso aveva a
lamentare perdite di Scolopi orientatisi
verso altri Ordini, se il P. Guardione
scriveva al Canata deplorando
l’emorragia di Padri e d’insegnanti,
anche se l’epidemia colerica aveva
visto prodigarsi i rimasti, tra cui il
Canata, che pure aveva qualche ragion
di lagnanza (sentiva “come un camauro
di dolore addosso” la proibizione di
confessarsi presso sacerdoti “esterni”al
convento ). Ma egli restava fedele
all’Ordine e, nel taccuino, celebrava
per sé, in versi, le grandi ore del
Cristianesimo, ispirandosi, per La
resurrezione, agli Inni manzoniani:
“Il rinnovar del secolo / noveIle
grandi porge / con Cristo resu-
scitato/ ogni essere consorte.
/L’adora ogni elemento / e spirito
contento / vedo del suo Fattor.
/Vedo la fiamma mobile / e la
volubil aura / fluisce l’acqua labile
/ la terra par più varia. / Si fa
seren pur l’etere / il mar più si
tranquilla / sopra più lieve zefiro /
la vai di fior s’immilla..”
Gli scambi epistolari fra i Padri
promuovevano discussioni e devozione
percepita dagli allievi, che si
cimentavano non di rado, nelle stesse
prove poetiche dei loro maestri. Nel
suo “diario spirituale “Canata
confidava ai versi
“Zelo caldo ad affrettar ne punge
che coi pargoli si rende
eppur di raso la sua seta
aggiunge.
Tal sacrificio chi di noi
comprende?
È il sacrificio dei pii figli tuoi;
Tu sostienci ogni dì,Padre diletto,
e d’amarezze l’aspergiamo noi.
Dio! Ti rinfranchi il Protettor tuo
santo,
fatto vittima ei pure d’ogni affetto.
Or benedica alle fatiche e al
pianto”.
Della linea letteraria il maestro
proponeva ai giovani due capitoletti
sul Savonarola (16); ma le lezioni di
“morale” s’arrischiavano a temi ardui
(la verginità e lo scandalo) di cui
davano cenno (approvato) al
Lambruschini che aggiungeva: “il
momento pericoloso s’ha quando il
giovane teme di ritrovarsi, lasciato il
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Il Tempietto
collegio o il corso, in sola balia di se
stesso”.
E il Padre Canata fissava il suo tema:
“Disinganni della gioventù. /
Missione dell’uomo facoltoso. / Se i
giovani debbano difendere la
religione e come. /Amarezze di chi
usa male i primi anni.”
Ma i versi, soprattutto, legavano gli
Scolopi ed entusiasmavano gli alunni,
che perfino “tentavano”il verso, dopo
le lezioni preparate specie sull’onda
patria, corredate...di rimari, con
attenzione ai metri, alle rime, alle
coppie fino ai...palindromi, che i
giovani ritrovavano nelle
rappresentazioni drammatiche cui
assistevano, insieme al pubblico del
borgo. Ciò era presente al Canata, che
annotava, lasciando intuire riserve e…
campanilismi:
“Ho sdegnato, nel passare da noi,
nel teatro, la tragedia, per sollievo
degli altaresi che vi si
esercitano.Gli italiani non hanno
motivo né di stoltamente avvilirsi:
il passato sia stimolo del presente,
il presente
preparazione/dell’avvenire”. (17)
Si spiegan così la frequenza e
preferenza con cui i Padri schizzavano
su fogli e taccuini icastici volti (18) e
figure; nella confidenza con quelle
175
nacquero o maturarono gli entusiasmi
figurativi di Abba. Ma concludeva
degnamente la vita carcarese del
Canata la dedica al confratello e
superiore P. Garassini:
A G.B. GARASSINI
MODERATORE DEL
CARCARESE COLLEGIO
DOVE ORA VOLGE IL QUARTO
LUSTRO
CON CARITÀ’ D’AMICO E
PROFFERTE D’AIUTO
CONFORTAVI IL MIO
TIROCINIO NELLE LETTERE
A QUESTO PRIMO TENTATIVO
DRAMMATICO
IL TUO ATANASIO CANATA
IN GRATO RICAMBIO DI
CONSOLAZIONE E SPERANZA
INTITOLA, OFFRE, CONSACRA
DESIDEROSO CHE IL CIELO
S’EDUCHI FRA TUOI FIGLI
CHE SI RITRAGGA IN SE’
L’IMMAGINE DEL SUO
CIRILLO.
La lunga confidenza con le pagine del
più illustre alunno di Carcere permette
di riconoscere uno stile e un calore
umano, di partecipazione, di studio e
di formazione raramente avvertibile fra
scuola ed allievo, per rimandare ai
sensi patriottici, affettivi, poetici, in
cattedra come in comunità che l’Abba
ereditò dai suoi Maestri. Maestri, direi,
ispiratori.
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176
Il Tempietto
Note
1) Atanasio Canata da Lerici (I811-I867) fu
guidato negli studi dal fratello, Rettore del
Collegio dei Fratelli della Missione, in
Sarzana;lì l’ottimo docente Dameri lo iniziò
alle lettere. La scelta religiosa di Canata
andò tuttavia all’abito delle Scuole Pie, cui
pare fosse chiamato da un Gerolamo
Mongiardini, d’Ovada. Dopo un breve
periodo a Carcare, passò al Collegio di
Chiavari, cittadina assai vivace, ove gli
Scolopi avevano contribuito alle sorti della
“Società Economica, “impegnata da
problemi agricoli” “L’Accademia Entelli
ca”, poi, avrebbe accolto, fra gli altri
mazziniani, il Mameli. L’ardente sacerdote
insegnò lettere a Savona, tornò a Carcare
nel ‘40, stringendovi amicizia col rettore P.
Garassini. Maestro nato, si preparava
diligentemente le lezioni per schemi e
sinossi, obbedendo alle voci del suo famoso
dialogo. Lo si legge in D. C AS ATI, Il Co
11 e gio di Cascare, Carcare,GRIFL, 2007,
p.132. Altre norme si diede nei suoi
taccuini.
2) “Maestro scolopio... frate raro, svegliatore
d’ingegni e di cuori... 0 frate calasanziano,
maestro mio, cosa fai in questo momento
nella tua cella, donde in quello scoppio del
‘ 48... l’anima tua di trovatore si lanciò ebra
di patria…” (Cesare Abba, Da Quarto al
Vliturno. Noterelle d’uno dei Mille,
Bologna, Zanichelli, 1880. Per P. Canata
cfr. 0.BARDELLINI, A. C. gran prete
scolopico, oratore, pedagogista, L a Spezia,
1922; L.CATTANEI, Il maestro di G. C.
Abba, in LA SPEZIA, Riv.del
Comune,1965.
3) “Ci narravano i più grandi che il Maestro
mio dicendo così (fummo vinti a Novara)
era caduto sfinito... e noi mirandolo per i
corridoi del Collegio, rapido, sempre
agitato, fronte alta, capelli bianchi all’aria e
l’occhio in un mondo che lui solo vedeva...”
4) Abba, Benedetti, Borello, Broglia, Caranti,
Dapino D., Dapino S., Pochintesta. Cfr.
P.CASATI, op.ci t., pag.150 sg.
5) Da appunti presi durante l’Impresa dei
Mille, Abba aveva tratto poi il il testo delle
Noterelle “edite dopo vent’anni”).
6) Padre G.BB.Mulinelli (1730 -1799) studiò
a Roma presso gli Scolopi, sempre ostile ai
Gesuiti, dallo studio di S. Agostino passò ai
testi giansenisti di Gregoire, Mesenguy,
Quesnel.
7) Padre Domenico Buccelli(1778-1842),
pubblicò Le ragioni della lingua; Gf r. Un
pedagogista insigne: P. Dom. Buccelli.,
Roma, 1943; G. FARRIS, P.D.B. precursore
della scuola elementare e anticipatore della
linguistica, in Miscellanea 2000, pp.44 e
seg.; L. CATTANEI, Un pedagogista
insigne, in STUDI DI STORIA 0VADESS,
0vada, 2005, pp.345 sg.
8) P. Flippino Ighina fu complimentato e
premiato dal Ministero dell’Istruzione per
le sue ricerche scientifiche, che permisero
di dotare il Collegio di Carcare d’un Museo
Scientifico, inaugurato nel 1876, trasferito
poi al Collegio Calasanzio di Genova
Cornigliano.
9) Nel corso dell’anno i giovani dovevano
fornire risposte scritte a domande e temi
d’attualità che i Padri preparavano per loro;
su di essi si sarebbe impostata la recita di
fine anno. Erano sottintesi una stesura e; la
memorizzazione delle parti, 1’abitudine alla
loro recita; i Padri si improvvisavano
suggeritori, registi, direttori di scena,
nonché autori, secondo gli spunti offerti dal
clima Risorgimentale.
10) Cfr. Saggio del Collegio delle Scuole Pie,
Miscellanea, Savona, 1832-38.
11) La lettera d’un Padre, da Genova Sestri, si
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Il Tempietto
legge in B. CASATI, op.cit. pag.145: “I moti
di Genova non ebbero effetto, è vero....
Genova sarebbe stata un mucchio di rovine...
nella sera del 29 che precedeva la notte
fatale vi fu una radunanza dei capi
cospiratori, e grande divisione corse fra
loro... ed il Mazzini, di 60.000 uomini che gli
erano stati promessi, restò con sei morti,
onde s’involò; questa fu la salute di Genova.”
12) P. Michele Bancalari, romano, insegnò
filosofia a Firenze, fu provinciale a Genova,
docente all’Università, presente al
Convegno di Venezia per gli studi sul
magnetismo e gli atomi composti. P.
Agostino Basso, lasciò il Collegio di
Carcare e, filogesuita riparò presso la
Compagnia di Gesù, finendo peraltro in un
vivere dirodinato. Mazzini li conobbe e ne
scrisse alla propria madre: “Avete risaputo
poi più nulla dei due frati delle Missioni B.
D.?; vedo dalle visite fattevi da quel gran
frate; lo ricordo benissimo, perché è
doloroso per me quando ricevo lettere di
quel sant’uomo”. G.MAZZINI, Epistolario,
Ed. Naz. App.XVI / 9 e Lib / X /212.
13) Da allievi di Carcare, divennero Padri delle
Missioni, esplorarono l’Africa Orientale; lo
Stella fu al Cairo, toccò Massaia (fra
Musulmani non teneri); puntò sull’Etiopia e
vi conobbe il viceré dei Galla. Sapeto
esplorò il delta del Nilo, visitando
monasteri fra gli israeliti; toccò Massaua,
incontrando un altro sacerdote famoso: il
Padre Massaia.
14) G.C. Abba, Epistolario. Ed. Nazionale,
1999, II. Cfr le lettere del 4.9.1899’ e sg.
fino al 30.4.1909.
177
15) Non sempre dovuta a “rientri” nel secolo,
ma alla preferenza accordata – restando
Scolopi – ad impegni e occupazioni che li
tenevano lontani da Carcare. È il caso di P.
Isnardi, subentrato al futuro arcivescovo
Charvaz quale precettore di corte per i
Principi sabaudi, benché eletto Provinciale
nel 1836 e confemato tre anni dopo.
L’ambita sede torinese ridusse la sua
autorità a Carcare all’insolito titolo di
“Rettore”.
16) Con note gravi, che sottolineavano però la
valutazione e le linee di giudizio (per gli
allievi ): “Savonarola e la letteratura
pagana. Suo sistema fu introdotto “in bella
vita, antiscandalosa, scostumatezze civili.
Volle annientamento di Firenze pagana”
(taccuino).
17) La notazione è ancora di pagine
manoscritte del taccuino, forse in un
momento di perplessità, che il P. Canata
aveva pur scritto tragedie, stampate a
Torino: Giornata, Giaccardo martire di
Cocincina.
18) Si trovano, in inchiostro, in parecchie
pagine d’appunti, ove rappresentano un
Cristo velato, religiosi, demoni, prove di
penna, profili di militari! Abba dovette
conoscerle, forse attingervi la sua passione
per le arti figurative (rimpianse sempre il
forzato abbandono dell’Accademia di Belle
Arti di Genova). Cfr. L.CATTANEI, “Le
prove figurative di G.C.Abba, in SCRITTI
IN ONORE DI GAETANO PANAZZA,
Brescia, Ateneo, 1994, pag.49-494.
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Terza Parte
Appendice
10 Marzo 2011:
presentazione del volume n° 11 della rivista
al Palazzo Ducale
17 Marzo 2011: nasce lo stato nazionale
messaggio del Santo Padre
al Presidente della Repubblica
intervento del Presidente Napolitano in occasione
dell’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia
omelia del cardinale Bagnasco
nella messa di ringraziamento per l’Italia
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Il Tempietto
La presenza dei cattolici
nel Risorgimento
ruolo dei cattolici nei 150 anni di vita unitaria è rimasto per la storiografia
argomento di scarso interesse. Si parla dei cattolici liberali o dei cattolici
intransigenti, si sosta sullo scontro tra Piemonte prima e Stato Italiano dopo
con la Chiesa cattolica, ma si sorvola sull'orizzonte della presenza cattolica che ha
ben altra consistenza. La natura stessa del conflitto rischia di rimanere in superficie
se non si coglie la sua specificità moderata. Per cui anticlericalismo e clericalismo
vanno ridimensionati, anche se il cammino è segnato da conflittualità specie con la
Sinistra storica liberale al potere. Tuttavia lo Stato sente di aver bisogno della
Chiesa e la Chiesa non contesta l'aspirazione all'unità politica dell'Italia e non si
ribella allo Stato: voleva altra via per la conquista dell’unità politica, aspira ad
avere uno Stato diverso. Possiamo parlare di primavera risorgimentale cattolica,
finita nella lunga opposizione di fronte alla scelta piemontese che non poteva che
essere conflittuale col potere temporale del papa.
Sono prevalsi tra i consiglieri di Pio IX quelli non all’altezza di indicare soluzioni
coraggiose, è mancata, nell'altra parte, la coscienza delle ragioni del pontefice e
della radicata cattolicità della nazione Italia. Anche dopo la conquista di Roma il
popolo è rimasto cattolico con delusione di quanti sognavano di “protestantizzare”
anche l’Italia o dei pochi che avrebbero voluto eliminare la religione stessa.
Abbiamo voluto riportare la discussione fatta a Palazzo Ducale quale avvio ad
esplorare il più vasto orizzonte del ruolo dei cattolici nella esperienza Italia.
Nel nuovo volume abbiamo tentato alcune piste partendo dal popolo evidenziando
l'opera educativa delle nuove congregazioni religiose nel “fare gli Italiani”.
Il
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Il Tempietto
181
Cattolici e unità d’Italia
tra storia e attualità
Salvatore Vento
Il
10 marzo scorso a Genova, presso la
sala Camino di Palazzo Ducale, si è
svolto l’incontro su “cattolici e unità
d’Italia tra storia e attualità”. Promosso da
Palazzo Ducale Fondazione per la cultura
in collaborazione col Centro culturale “Il
Tempietto” del Don Bosco di
Sampierdarena, il dibattito è stato animato
dagli interventi di Salvatore Vento
(sociologo e studioso del movimento
cattolico), Giovanni Battista Varnier
(preside della facoltà di scienze politiche
dell’Università di Genova), Sandro
Capitanio (esponente del Movimento
Federalista Europeo), don Alberto
Rinaldini (direttore della rivista “Il
Tempietto” che ha dedicato gli ultimi tre
numeri al Risorgimento), Mons. Luigi
Palletti (Vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi
di Genova). L’incontro è stato accolto con
favore da diverse associazioni che da
tempo in città lavorano insieme intorno ai
temi del Concilio; la presenza di un
pubblico numeroso e attento dimostra,
ancora una volta, il bisogno di confrontarsi
in maniera libera e serena, nonostante il
frastuono dilagante. Permangono diverse
interpretazioni storiche sul ruolo dei
cattolici nel Risorgimento. C’è chi ritiene
ancora valida la tesi secondo la quale
l’opposizione della Chiesa fu chiara ed
esplicita; altri invece ritengono che è
sempre esistita una pluralità di posizioni
fino a considerare i cattolici come “soci
fondatori” dell’unità d’Italia. Le differenze,
ancora oggi, dipendono da una non chiara
definizione di Chiesa. Se identifichiamo la
Chiesa unicamente col Papa e con lo Stato
del Vaticano è indubbio che si trattò di uno
scontro frontale (Pio IX scomunicò il
Risorgimento). Se invece, come insegna il
Concilio Vaticano II, intendiamo per
Chiesa la comunità dei fedeli (il popolo di
Dio) allora dobbiamo tener presente la
pluralità delle sue componenti e le
differenti opzioni; tra queste ultime c’era
chi considerava l’abbattimento del potere
temporale del Papa come una sorta di
purificazione spirituale ed evangelica della
Chiesa stessa. Non solo, un’altra
importante distinzione è quella tra Stato e
Nazione: mentre vi fu un’indubbia
opposizione al modo con il quale si formò
il Regno d’Italia, vi fu un’altrettanta
convinta adesione all’unità nazionale, anzi,
secondo questa visione, lo “Stato legale”
sabaudo non coincideva affatto col “Paese
reale” in cui i cattolici erano
profondamente radicati e si consideravano
la vera espressione dell’unità nazionale. È
perciò importante sottolineare con forza
che il “mondo cattolico” non è un blocco
omogeneo e non può essere identificato
con la Chiesa-istituzione; la caratteristica
fondativa dell’esperienza storica dei
cattolici è il pluralismo: tra congregazioni
religiose, tra movimenti ecclesiali, tra
movimenti sociali e politici, tra parrocchie
di una stessa città. Proprio perché i
cattolici sono radicati nel paese, ne
esprimono anche le diversità e le
contraddizioni. Nella pubblicistica
corrente – dove si addensano personaggi
che per avere notorietà estremizzano i loro
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Il Tempietto
ragionamenti come in qualsiasi talk show
televisivo – la mancata comprensione di
questa complessità porta a conclusioni
storicamente parziali perché si riferiscono
soltanto ad un aspetto, quello della ChiesaIstituzione. Un momento d’unificazione
nazionale a livello popolare fu certamente
quello della prima guerra mondiale dove
s’incontrarono fisicamente e per la prima
volta soldati provenienti da ogni regione.
Anche in questa circostanza, tra i cattolici,
assistiamo ad una pluralità di componenti:
da una parte i cappellani militari inseriti
nelle Forze armate, dall’altra il grido di
dolore di Papa Benedetto XV che definì la
guerra un’inutile strage. Venendo
all’attualità, com’era nello spirito
dell’incontro, la presenza del segretario di
Stato vaticano, Card. Tarcisio Bertone, alle
celebrazioni per l’anniversario della
breccia di Porta Pia (20 settembre 2010)
rappresenta, anche simbolicamente, la
presa d’atto di un conflitto storico (tra Stato
e Chiesa) che appartiene appunto alla
storia. Così come, in maniera più analitica,
è avvenuto al Forum del progetto culturale
della Chiesa dedicato ai 150 anni
dell’unità d’Italia. Durante il Forum, il
card. Bagnasco ha esortato ad un
ripensamento sereno della nostra vicenda
nazionale al fine di ritrovare in essa una
memoria condivisa e una prospettiva futura
in grado di suscitare un nuovo
innamoramento dell’essere italiani, in
un’Europa unita. Il cardinale inoltre ci ha
esortato a rileggere il contributo dei
cattolici che, a giusto titolo, si sentono
‘soci fondatori’ di questo Paese, alla luce
delle sfide che siamo chiamati ad
affrontare. Ancora più recenti sono gli
orientamenti pastorali dell’Episcopato
italiano per il decennio 2010-2020
(Educare alla vita buona del Vangelo) che
costituiscono punti di riferimento
fondamentali perché vengono offerti come
patrimonio per tutti, finalizzato al bene
comune. Le virtù umane e quelle cristiane,
infatti, prosegue i documento della CEI,
non appartengono ad ambiti separati. Di
conseguenza nell’opera educativa della
Chiesa emerge con evidenza il ruolo
primario della testimonianza, perché
l’uomo contemporaneo ascolta più
volentieri i testimoni che i maestri, e se
ascolta i maestri lo fa perché sono anche
testimoni credibili e coerenti della Parola
che annunciano e vivono. Se il
cattolicesimo vuol dire universalità, non ci
possono essere valori cattolici che non
siano valori dell’uomo in quanto tale.
Emerge invece la necessità di approfondire
il discorso della mediazione storico
antropologica che è il compito dei cristiani
impegnati in politica. La Costituzione
rappresenta a tale riguardo l’esempio più
alto di questa mediazione dove il
personalismo d’ispirazione cristiana (vedi
in particolare gli articoli 2 e 3) si è
positivamente confrontato con altre
tradizioni culturali (comunista, socialista e
liberale). Oggi la CEI, e lo stesso Papa
Benedetto XVI, invita a sostenere la
crescita di una nuova generazione di laici
cristiani, capaci di impegnarsi a livello
politico con competenza e rigore morale.
Un punto, quest’ultimo, in palese contrasto
con l’attuale clima politico provocato dai
comportamenti indecenti di una
maggioranza parlamentare che difende il
proprio leader a prescindere dalla
questione morale e dalle più elementari
norme del buon senso e del buon gusto.
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Il Tempietto
183
Cattolici
“soci costruttori del paese”
Alberto Rinaldini
1. Premessa
Quando usiamo il termine “cattolici” nel
processo unitario del nostro paese è
d’obbligo rilevare che usiamo un
termine dalle molte articolazioni: ci sono
liberali cattolici, cattolici liberali,
cattolici intransigenti e transigenti,
cattolici moderati, cattolici
democratici… c’è la popolazione
italiana che, nell’800, nella stragrande
maggioranza è cattolica, c’è la Chiesa
cattolica con la sua gerarchia: una rete
di 300 diocesi e 27 mila parrocchie
collegata col Papa. Non si può tacere
poi tutta la ricca fioritura di movimenti
religiosi che pullulano nella Chiesa
dopo la soppressione degli ordini
religiosi contemplativi… Questi
movimenti religiosi nuovi, conformi alle
nuove leggi, sono il “sacro operare” tra
la gente del popolo, un forte collante
che sgorga dalla comune appartenenza
alla fede.
Infine come non vedere l’anima cattolica
di un Vittorio Emanuele II?
Scomunicato dal papa, nel 1859 prima
di entrare in guerra con Napoleone III
contro l’Austria, chiede al Pontefice la
riammissione in seno alla Chiesa. Dopo
l’erosione di parte del potere temporale
nelle Legazioni fu nuovamente
scomunicato. Sul letto di morte ha
voluto l’assistenza spirituale e ha chiesto
perdono a Pio IX per il dolore che gli
aveva recato. Cavour volle confessarsi
prima di morire. Segni di vicinanza al
cristianesimo li troviamo anche in
Garibaldi. A San Marino – in fuga da
Roma nel ‘49 dopo la sconfitta subita ad
opera dei Francesi – mentre con un
gruppo di fedelissimi sosta presso un
convento, raccontano documenti che
donasse ai frati una somma per fare
celebrare tre Sante Messe per Anita che
stava male. Pensiamo ai tanti giovani
che sull’ali dell’entusiasmo patriottico
diedero la vita per l’Unità della Patria.
Sul Gianicolo tra le altre erme, 90 in
tutto, che ricordano i giovani martiri che
morirono combattendo per la
Repubblica Romana del 1848, con
quella eretta a Mameli ce n’è una che
ricorda un francescano, fra Pantaleo.
Troviamo sacerdoti anche con i Mille di
Garibaldi.
Anche a proposito di “unità politica ”
d’Italia si deve parlare di un concetto
complesso e dinamico: un processo in
cui confluiscono varie visioni ed un
cammino non ancora finito.
Il mio intervento intende avviare in
questa sede la riflessione su Cattolici e
Unità d’Italia”, tema portante della
Rivista “Il Tempietto”.
2. I cattolici “soci costruttori
dell’unità d’Italia”?
Mi lascio provocare da una
considerazione del cardinale Biffi su
Avvenire del 1990 nell’articolo
“Pinocchio e la questione italiana”:
“Anche se non percepita o
addirittura censurata, dalla cultura
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Il Tempietto
ufficiale, la tragedia di un popolo,
che all’atto di connettersi
politicamente, spiritualmente si
lacera e s’immiserisce, non è passata
del tutto inosservata negli animi in
cui si andava consumando”.
L’unità esige questa lacerazione?
Sarebbe meglio dire che un certo modo
di portare avanti il processo unitario
avviene a costo della lacerazione
dell’anima del popolo. Lacerazione tra
l’essere cattolici e l’appartenenza al
nuovo stato… il caso di coscienza del
nostro risorgimento. Non tradurrei
lacerazione tra cattolico e italiano: i
cattolici sono e si sentono italiani. Non
accettano il modo con cui l’Italia viene
politicamente unita. Ed hanno le loro
buone ragioni! Ma certo si deve parlare
di grave lacerazione conclusa solo nel
1929 con Patti Lateranensi.
E cattolici sono anche in gran parte
quelli che “lacerano” l’anima del popolo
cattolico… e le loro ragioni sono fuori
dubbio alte e meritano tutto il nostro
rispetto. Si poteva scegliere un’altra
modalità? Questo era il prezzo da pagare
per unificare politicamente un popolo
credente che già esisteva? Si doveva
“immiserire spiritualmente” per unirlo
politicamente? Questa è stata la strada
percorsa dai nostri padri ed è parte della
nostra memoria comune.
Ci aiutano a capire “questa lacerazione”
le parole del segretario della
del Regno d’Italia; ma
l’unificazione italiana è un
processo che viene da lontano e
presenta, senza interruzione, un
dato strategico di fondo: la
connessione strettissima con la
presenza e l’impegno della Chiesa
e dei cattolici italiani.
Conferenza episcopale italiana Mons.
Crociata:
Questa emerge con grande evidenza a
metà degli anni quaranta dell’Ottocento,
tra l’opera Del primato morale e civile
degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti
e l’elezione di Pio IX (16 giugno 1846),
anni in cui confluisce un movimento di
iniziativa cattolica, di clero e di laici, che
mostrava con tutta evidenza la fede
cattolica come collante ed elemento di
fusione per una unità nazionale da
realizzare in armonia con questa identità
religiosamente plasmata.(1)
Da questa primavera risorgimentale
poteva nascere un’Italia confederale. Il
Rosmini redasse persino un Progetto di
Costituzione federale, come
plenipotenziario del governo Casati
(Gioberti era ministro senza portafoglio).
Siamo nei mesi di agosto e settembre, tra
la prima e seconda fase della prima
guerra d’indipendenza (quella federale e
quella sabauda). Dopo la sconfitta
piemontese a Custoza (luglio 1848) cadde
il governo Casati e diventò primo ministro
Perrone. Il progetto di Costituzione del
Rosmini, approvato da Pio IX a
condizione che fosse firmato anche dal
Piemonte, resterà lettera morta. La
risposta del nuovo governo piemontese:
L’unità ha una data
convenzionale, è cioè il 17 marzo
1861, giorno della proclamazione
“Non è tempo di parlare, ma di
combattere: cacciato lo straniero
parleremo della Legge e della Dieta”.
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Il Tempietto
Tale progetto viene riportato a pag.
120-22 del n. 11 della Rivista “Il
Tempietto”.
Fallita la fase federale seguirà la fase
unitaria sabauda, poi quella
democratico rivoluzionaria. Nel 1849
col fallimento dei democratici il
processo unitario è ripreso dai liberali
moderati e dai democratici
rivoluzionari. Con l’inevitabile conflitto
tra Pio IX e il mondo cattolico e le
forze che guidano il processo di
unificazione.
Il Conflitto raggiunge il punto più alto
con la conquista di Roma e la fine del
potere temporale dei papi ad opera del
nuovo Regno d’Italia. Inizia il tempo
del non expedit che emargina i
cattolici dalla vita politica, ma li vede
impegnati nel sociale e nel campo
amministrativo; poi la conflittualità
lentamente si stempera e nel 1919
nascerà il partito popolare di Sturzo.
Dopo la tragica esperienza del
fascismo e della seconda guerra
mondiale, cento anni dopo la
“primavera cattolica”, i cattolici
assurgeranno a guida politica
dell’Italia con la DC. Infine, con il
crollo del muro di Berlino e la fine
della DC, i cattolici sono in tutti i
partiti: uniti nei valori, separati dalle
strategie politiche.
Per cogliere le coordinate della
“lacerazione” occorre distinguere tra
“questione cattolica” e “questione
romana”, alla quale venne imputata la
dolorosa scissione. Tra le due
questioni dopo il 1870 c’è evidente
sovrapposizione.
La questione romana nasce tuttavia con
185
la presa di Roma nel 1870 e si chiude
con i Patti Lateranensi del 1929.
La questione cattolica nasce prima,
nasce con l’invasione delle truppe
napoleoniche, con le reazioni popolari,
le insorgenze, contro una cultura
estranea che voleva imporre stili di
vita diversi rispetto alla storia
nazionale. Una questione che diventa
culturale e che ancora, come tale, non
si è conclusa. La storiografia poi, fin
dall’inizio del ‘900, individua due
tendenze nella politica del Piemonte
dal ‘48 al ‘61:
• una separatista volta ad eliminare
privilegi ed esenzioni, secondo le
esigenze degli stati liberali
(soppressione del Foro ecclesiastico
e del diritto d’asilo).
• una seconda neo-giurisdizionalista
che era di fatto un’ingerenza dello
Stato nella Chiesa… nettamente
anticlericale. Tra le due questa
seconda prevalse.
Nel ‘48 la legge della soppressone dei
Gesuiti e loro espulsione dal Piemonte.
Più rilevante la legge del 1855 con la
quale unilateralmente venivano
soppressi gli ordini religiosi giudicati
non socialmente utili: 21 maschili e 13
femminili, per un complesso 335 sedi
e 5489 persone.
Anche il Cavour, in questo caso,
ammise che il Piemonte liberale, per
ridurre il potere della Chiesa, aveva
dovuto negare se stesso.
Per lo storico Rosario Romeo la legge
del 1855 rappresentò lo scostamento
più sensibile dalla politica liberale e
separatista della “formula libera
Chiesa in libero stato”.
La strada aperta fu continuata nella
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Il Tempietto
legislazione 59-61… E si giunse alle
due grandi leggi del 1866 e 1867 con
le quali veniva negato agli Istituti
ecclesiastici, regolari e secolari, il
diritto di possedere beni.
Estesa, dopo il 1870, a Roma, la
legislazione piemontese rimase alla
base della legislazione ecclesiastica
italiana fino al 1929.
Lo scontro tra Nuovo Stato italiano e
Chiesa cattolica nel 1870 vede ben 89
diocesi senza vescovo: 43 esiliati; 16
espulsi; una ventina processati e
incarcerati soprattutto al Sud.
2. Il senso del dramma
“unione politica e lacerazione
spirituale” è messo in luce da
due illustri protagonisti, non
sospetti di simpatie clericali.
Ferdinando Martini (2) (1841- 1928)
scriveva a Carducci nel 1894:
“Le rivoluzioni politiche le quali
non accompagnino un
rinnovamento religioso perdono di
vista l’origine loro, e i primi intenti
finiscono a scatenare ogni istinto
nelle plebi: di ciò io sono convinto
da un pezzo. Ma dopo rimane il
male che, tutti noi, tutti noi, caro
Giosuè, abbiamo fatto, siamo in
grado di provvedere a rimedi? A
chi predichiamo? Noi borghesia
volterriana, siamo noi che
abbiamo fatto i miscredenti,
intanto che il papa custodisce i
male credenti: ora anche le plebi
chiedono le parole cui affidarsi,
perché non credono più nell’ al di
là, torneremo fuori a parlare di
Dio, che ieri abbiamo negato!
Non ci prestano fede: parlo delle
plebi di città e dei borghi; le rurali
di un Dio senza riti, senza preti,
non sanno che farsi.
A tutto il male che noi (non tu od
io, noi certo) abbiamo fatto per
spensierata superbia, le bombe
sono troppo scarso compenso:
abbiamo voluto distruggere e non
abbiamo saputo edificare.
La scuola doveva, nelle chiacchiere
dei pedagoghi, sostituire la
Chiesa. Una bella sostituzione ! Te
la raccomando…(3)”
Nei pensieri di Francesco Crispi a un
certo punto si legge:
“Il cattolicesimo, oltre la potente e
mirabile gerarchia, che tiene
stretto i fedeli attorno al capo, ha,
nei fini della sua missione,
l’educazione, l’insegnamento,
l’apostolato.
Che ne abbiamo noi fatto in 34 anni,
nel Regno d’Italia per fare cittadini e
soldati, uomini e patrioti?”(4) Siamo nel
1895!
3. Il Natale dell’Unità d’Italia
ci porta in dono, al di là delle
ombre e dei limiti, tre
conquiste principali:
La prima: definitiva liberazione da
ogni dominazione non italiana. La
seconda: tutti gli italiani sono riuniti
nella realtà politica di uno stato
“Laico, democratico, sociale”.
Aggiungiamo: l’unità di una nazione
può essere gestita in diverso modo, ma
non può essere rinnegata o rimessa in
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Il Tempietto
discussione. Il separatismo sarebbe poi
irragionevole e indecoroso, se fosse
incentivato dal dissolvesi di ogni
spirito di solidarietà.
La terza conquista: fine del potere
temporale.
Paolo VI, ancora arcivescovo di Milano
pochi mesi prima di essere eletto papa,
sosteneva che il 20 settembre del 1870
la “Provvidenza” aveva ingannato tutti,
credenti e non credenti.
“Aveva ingannato i credenti, che
dalla fine del “potere temporale”
temevano il crollo dell’Istituzione
ecclesiastica, e aveva ingannato i
non credenti, che dopo la presa di
Roma quel crollo desideravano e
attendevano. Accadde infatti che
perduta “l’autorità temporale”, ma
acquistata “la suprema autorità
nella Chiesa”, il papato riprese
“con inusitato vigore le sue
funzioni di maestro di vita e di
testimone del Vangelo”.
4. Il Presidente Napolitano.
Il contributo dei cattolici all’unità del
Paese è ben noto e non si limita al
periodo pre-unitario, ma si allarga
anche alla fase successiva del suo
sviluppo, come è stato di recente
autorevolmente sottolineato dal
Presidente della Repubblica, nel
telegramma inviato al cardinale
Bagnasco il 3 maggio 2010:
“Anche dopo la formazione dello
Stato unitario l’intero mondo
cattolico, sia pure non senza
momenti di attrito e di difficile
confronto, è stato protagonista di
187
rilievo della vita pubblica, fino ad
influenzare profondamente il
processo di formazione ed
approvazione della costituzione
repubblicana”.
5. Il Cardinale Bagnasco.
Nella prolusione all’Assemblea
generale della Cei del 24 maggio 2010:
“Ben prima del 1861 la nostra
realtà italiana, per quanto
frammentata in mille rivoli
feudali, poi comunali, quindi
statali, aveva conosciuto una
profonda sintonia in virtù
dell’eredità cristiana. Affermare
questa origine dell’Italia non
significa ingenuamente rimarcare
diritti di primogenitura, ma solo
cogliere la segreta attrazione tra
l’identità profonda di un popolo e
quella che sarebbe diventata la sua
forma storica unitaria, per altro
non senza gravi turbamenti di
coscienza e, per lungo tempo,
irrisolti conflitti istituzionali. È qui
sufficiente accennare che al fondo
di tali vicende vi era anche la
principale preoccupazione della
Chiesa di garantire la piena
libertà e l’indipendenza del
Pontefice, necessarie per l’esercizio
del suo supremo ministero
apostolico, e più in generale di
scongiurare un “assoggettamento”
della Chiesa allo Stato.
L’anniversario che ci apprestiamo
a celebrare è, dunque, rilevante
non tanto “perché l’Italia sia
un’invenzione di quel momento,
ossia del 1861, ma perché in quel
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188
Il Tempietto
momento, per una serie di
combinazioni, veniva a compiersi
anche politicamente una nazione
che da un punto di vista
geografico, linguistico, religioso,
culturale e artistico era già da
secoli in cammino”.
Il 3 maggio nell’intervento al forum di
Genova:
“Nei 150 anni dell’unità d’Italia.
Tradizione e progetto”- il cardinale
vede nel Forum un invito a fare di
questo importante anniversario non
una circostanza retorica, ma
“l’occasione per un ripensamento
sereno della nostra vicenda
nazionale, così da ritrovare in essa
una memoria condivisa e una
prospettiva futura in grado di
suscitare un “nuovo innamoramento
dell’essere italiani, in una Europa
saggiamente unita e in un mondo
equilibratamente globale”.
• ripensamento sereno… “il tempo
tutto svela e tutto vela”!
• da cui può sgorgare un nuovo
innamoramento dell’essere italiani…
• e insieme una spinta a risollevarsi
dall’attuale grigiore ricuperando il
“sostrato religioso”, senza il quale,
anche se non se ne parla, l’Italia non
sarebbe tale.
6. In che modo i cattolici sono
“soci costruttori del Paese”?
Dovremmo dire “costruttori dell’identità
del Paese”. Il processo di unificazione
politica, dopo la primavera degli anni
quaranta, vede infatti i cattolici
all’opposizione. Essi volevano l’unione
politica, ma non come allargamento del
Piemonte. L’alternativa confederale era
possibile, anzi come suggerisce
Rosmini, l’unica rispettosa
dell’autentica libertà. (5)
Con il non expedit i cattolici nella quasi
totalità rimasero fuori del processo
unitario dopo il 1870. Ma il
quarantennio di opposizione non sfociò
in ribellione. Le 27.000 parrocchie con
le 300 diocesi collegate al romano
pontefice salvarono la fede cristiana nel
popolo, arginarono il tentativo di
sostituire la religione cattolica del
popolo con la religione della patria.
L’impegno “politico” si tradusse in
impegno sociale e partecipazione a
livello amministravo. La soppressioni
degli Ordini religiosi, l’incameramento
dei beni della Chiesa e la soppressione
del potere temprale, divennero un
terreno fertile per una fioritura di nuove
congregazioni religiose che
collaborarono al “risorgere” della
Chiesa: divenuta Chiesa italiana,
mostrerà nuova energia e, stretta al
papato e ai vescovi, centinerà ad essere
il “sostrato profondo” dell’italianità.
7. Osservazioni
1. L’appunto più grave che si può
muovere al movimento risorgimentale
è di aver sottovalutato il radicamento
nell’animo italiano della fede cattolica
e la sua quasi consustanzialità con
l’identità nazionale.
2. Pio IX in un primo tempo si mostrò
aperto alle novità del liberalismo, poi
spaventato dalla deriva anticlericale, nei
fatti, per lui liberalismo e
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Il Tempietto
anticlericalismo coincidevano. Ma
nell’uso della termine “il cosiddetto
liberalismo” intendeva dire che un
liberalismo che toglie la libertà non era
vero liberalismo. E quello risorgimentale
fu un liberalismo di tipo giacobino!
La sua battaglia è stata una battaglia
di difesa, senza proposta alternativa,
mentre la libertà è il DNA del
Cristianesimo e nella sua articolazione
politica apre alla democrazia. Alcuni
grandi cattolici lo compresero, ma non
i consiglieri del papa.
3. L’identità di un popolo si
costruisce: quella italiana è stata
curata, educata, maturata dalla Chiesa.
La Chiesa – scrive Luigi Negri – ha
contribuito a questa identità attraverso
l’educazione come inculturazione della
fede e questa identità si è cercato di
sostituirla forzosamente con
un’ideologia che senza scrupoli voleva
imporsi a dispetto della maggioranza.
4. Hanno difeso la fede cristiana e
“fatto gli italiani” soprattutto 130
fondatori di istituzioni cattoliche,
come scrive Montonari Stefano in
“Famiglia Cristiana”; mentre molti di
quei personaggi che hanno unito
l’Italia diplomaticamente e
militarmente faticavano ad avere il
consenso popolare.
189
5. Perché in questa celebrazione dei
150 si parla così poco dell’apporto
dei cattolici nella costruzione del
paese? Il tema è stato affrontato da
parte di specialisti, ma non è entrato
nei libri di scuola e per la gente i
cattolici sono rimasti coloro che si
sono apposti all’Unità d’Italia.
Segno del clima cambiato è la
constatazione che se c’è
un’Istituzione che si prende a cuore
questo importante anniversario è
proprio la Chiesa Cattolica. Non a
caso l’affermazione “Cattolici
fondatori del paese”, usata in
documenti ufficiali dalla Chiesa
italiana, conferma ciò che la Rivista
“Il Tempietto” intende quando scrive
su “Cattolici soci costruttori
dell’Unità d’Italia”.
Si potrebbe, a riguardo del rapporto
dialettico tra Chiesa Italiana e Stato,
usare la similitudine della madre:
essa genera il figlio, ma questo
raggiunta l’adolescenza esige la sua
autonomia fino scontrarsi con essa,
per ritrovarsi nelle braccia del suo
amore nei momenti di smarrimento.
Potremmo, però, aggiungere: anche la
madre, nella sua vicinanza, matura
con tempo insieme al figlio: nella
distinzione, non separazione, Stato e
Chiesa collaborano al bene comune
del Paese in libertà e in verità.
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Il Tempietto
Note
1) Mons. Crociata, Prolusione all’anno
accademico 2010-2011 Facoltà Teologica
dell’Emilia e Romagna, Bologna 15
dicembre 2010
2) Ferdinando Martini (1841-1928)
Accetta infatti la candidatura che la Sinistra gli
offre a Pescia per le elezioni del novembre di
quell’anno e dopo intricate vicissitudini
elettorali nel 1876, sotto il primo ministero
Depretis entra in Parlamento e ci siederà per
più di quarant’anni!
Nel 1884 diviene sottosegretario alla Pubblica
Istruzione di cui sarà Ministro nel 1892/93
durante il Governo Giolitti. Fu poi dal 1897 al
1907 Governatore dell’Eritrea. Alla vigilia della
prima guerra mondiale torna alla politica
avvicinandosi decisamente allo schieramento
conservatore: Ministro delle Colonie nel
Governo Salandra fu risoluto interventista. Una
scelta forse dettata da spirito irredentista
risorgimentale, dalla predilezione per la cultura
francese, ma, concretamente motivata da mire
egemonistiche verso l’area balcanica e
centroeuropea.
Il suo Diario 1914-1918 ci rivela, tra l’altro,
che in pratica furono Martini e Salandra a
decidere (a Frascati il 17 settembre 1914)
l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria.
Allarmato per la svolgersi degli avvenimenti
durante il “biennio-rosso”, preso anche
fisicamente di mira come “guerrafondaio”
Martini, come del resto altri esponenti della
classe politica liberale del tempo, finì per
vedere nell’affermarsi del fascismo l’unico
argine al “disordine” montante. Non risulta che
aderisse al movimento, come il Regime dopo la
sua morte volle far apparire, ma ne fu un
autorevole fiancheggiatore ed il fascismo gli fu
riconoscente nominandolo Senatore nel marzo
1923 e Ministro di Stato nel 1927.
3) Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia,
Centocinquant’anni 1861-2011,
Cnatagalli 2011, pag. 39-40
4) ivi, citazione riportata a pag. 40
5) Rosmini, Sull’Unità d’Italia (1848) scrive:
“L’unità d’Italia! È un grido universale, e a questo
grido non v’ha un solo italiano dal Faro alle Alpi
a cui non palpiti il cuore. (…) Ma non tutti sono
d’accordo sul modo di ottenere quest’unità: alcuni
pensano al modo più facile di giungervi, altri
all’unità più perfetta, altri sarebbero contenti di
trovare un modo possibile qualunque, scorgendo in
tutti gravi difficoltà.
Quello che deve essere posto fuori controversia,
quello che è al di sopra della politica, è che
qualunque via si prenda, deve essere giusta ed
onesta: gli Italiani non ne possono volere un’altra.
(…) L’Italia l’ hanno fatta i suoi quattordici secoli
d’invasioni straniere, di dissoluzione, d’individuale
azione, di parziale organizzazione e d’intestina
divisone.
Non trattasi di organizzare un’Italia immaginaria,
ma l’Italia reale colla sua schiena dell’Appennino
nel mezzo, colle sue maremme, con la sua figura di
stivale, con la varietà delle sue stirpi non fuse
ancora in una sola, colle differenze dei suoi climi,
delle sue consuetudini, delle sue educazioni, dei
suoi governi, dei suoi cento dialetti, fedeli
rappresentanti della sociale nostra condizione.(…)
Ad ottenere così desiderabile effetto, il mezzo più
efficace di tutti, il primo, è indubbiamente
l’unità politica della intera penisola. (…)
La questione adunque dell’unità italiana, la
questione pratica e del momento si riduce, come
dicevamo, a trovare il modo di fabbricare
l’edificio dell’unità italiana coi materiali che
abbiamo, e sono tutte quelle parti, quegli Stati
d’Italia che non si possono fare scomparire senza
violenza o senza ingiustizia”.
(Citazione desunta da Dialoghi dicembre 2010
pag.58-61)
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Il Tempietto
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I cattolici
e l’unità
Luca Rolandi - Giornalista e ricercatore di storia sociale e religiosa
L
a ricorrenza dei 150 anni
dell’Unità d’Italia rappresenta
una preziosa occasione di
riflessione in ordine ai rapporti,
periodicamente conflittuali, tra Stato e
Chiesa: infatti a partire dal detto
evangelico “Date a Cesare quel che è di
Cesare e a Dio quel che è di Dio” i due
sistemi – quello politico e quello
religioso – si sono fronteggiati in tutte
le società occidentali, dapprima
(nell’età medievale) con la supremazia
della Chiesa, e successivamente con la
progressiva affermazione dello Stato.
Il rapporto tra Stato e Chiesa nel
Risorgimento è un aspetto del tutto
peculiare di questa permanente
dialettica, essendo condizionato dalla
presenza dello Stato della Chiesa: non
si trattava dunque solo di conciliare
coscienza religiosa e coscienza civile,
diritti della Chiesa e laicità dello Stato,
ma di conciliare due sovranità o di
convincere una delle due (la Chiesa
come struttura temporale) a rinunziare a
questa sovranità. Fu questa la grande
fatica dei cattolici del Risorgimento,
fatica che solo dopo quasi 100 anni,
con la Costituzione repubblicana, si
sarebbe conclusa con l’accoglimento
del principio della separazione dei
poteri (“Stato e Chiesa cattolica sono,
ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani”) ma a prezzo di
un duro e prolungato conflitto.
Il processo dell’unificazione politica
dell’Italia – iniziato nel 1859 con
quella che fu chiamata la “seconda
guerra d’indipendenza” e con
l’annessione della Lombardia al Regno
sabaudo, e concluso nel 1918 con
“grande guerra” e l’annessione del
Trentino e della Venezia Giulia – ha
trovato nel Cattolicesimo italiano
contemporaneamente un grande
ostacolo politico (l’esistenza del
millenario “Stato pontificio” a Roma e
nel centro della penisola) ed un vitale
apporto di principi e di valori. A
cominciare dai valori fondanti del
processo risorgimentale stesso: la
libertà (ispiratrice e promotrice dei
primi “moti” del 1821 e ‘31 e della
“prima guerra d’indipendenza” nel
‘48), l’unità (condizione e obbiettivo
dell’indipendenza) e la nazionalità.
Tutti e tre questi valori certamente di
ispirazione cristiana, sono stati adottati
dall’Illuminismo e dal Positivismo, ma
deformandone la concezione e
deviandone l’attuazione. Infatti
secondo l’antropologia cristiana l’uomo
è persona razionale e perciò libera, e
non soltanto individuo materiale
fisicamente determinato; l’uomo non è
individuo isolato ma naturalmente
“sociale“, con essenziale bisogno di
unità nell’ organizzazione della sua
società, della “polis”; l’uomo nasce e
vive in una comunità culturale, di
tradizioni e di costumi lungamente
elaborati da molte generazioni, che
costituiscono e identificano – in
diverse condizioni geografiche e
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Il Tempietto
storiche – la più vasta comunità: la
nazione. Questi valori, derivati dalla
concezione tipicamente cristiana di
“persona“, hanno formato
culturalmente e politicamente la
società europea attraverso una lunga,
travagliata esperienza storica. E sono
giunti al nostro tempo attraverso varie
interpretazioni, sostanziali
deformazioni e, spesso, contraddittorie
attuazioni. Anche perché, avulsi alla
loro radice – la concezione cristiana
della persona umana – hanno subito la
contaminazione e la deformazione sotto
l’influenza delle antropologie
individualistiche ha trovato la sua
giustificazione teorica nella filosofia
dell’empirismo materialistico
contrapposto al razionalismo spirituale.
Nell’Ottocento, durante il periodo
risorgimentale, questa filosofia – e la
conseguente antropologia – si è
affermata largamente: non solo negli
ambienti accademici e dei più alti
livelli culturali, ma si è diffusa anche
nei più vasti strati – anche mediobassi – dalla società contemporanea
europea e, specificamente, italiana; ed
ha fornito la giustificazione teorica
dell’egoismo in morale e
dell’utilitarismo in economia. Principi,
questi, che – applicati coerentemente
e spregiudicatamente non solo nei
rapporti fra individui ma anche in
quelli fra gli Stati – hanno prodotto
inevitabili conflitti, con reciproci
gravissimi danni agli uni e agli altri.
Come l’antropologia personalista e il
razionalismo spirituale fondano la
“polis” sulla cooperazione e la
solidarietà fra i suoi membri, e
mettono le basi teoriche per il
riconoscimento dei “diritti umani”
universali – propri della natura umana
e non di questa o quella cultura o
religione – così l’antropologia
individualista e l’empirismo
materialista aprono la strada della
conflittualità naturale, permanente, fra
gli individui (“homo homini lupus”) e
fra gli Stati (“bellum omnium contra
omnes”) in cui ha sempre ragione
quello che è il più forte
economicamente, militarmente,
demograficamente.
Su questi principi e con queste idee è
stato costruito, si è affermato e
sviluppato lo Stato moderno in tutta
l’Europa, sia nelle forme liberali che
in quelle autoritarie, dittatoriali.
Su questi principi e valori è stata
costruito anche lo Stato italiano del
Risorgimento: elitario, centralista, in
bilico fra il liberalismo politico e
l’autoritarismo, fra il liberismo
economico e l’interventismo statale. E,
fin dalle origini, non solo anticlericale
(spiegabile per la “questione romana”),
ma anche anticristiano, anzi
antireligioso. Ed è solo dalla radicata e
largamente diffusa tradizione culturale
e sociale del Cattolicesimo che è
venuta la capacità di attenuare gli
effetti perversi di quelle concezioni
dell’uomo e dello Stato, sostenendo e
divulgando forme più razionali e
umane di convivenza civile fondata
sulla solidarietà e sulla cooperazione
fra le persone e le loro organizzazioni
sociali, Stato compreso. È dalla
illuminata presenza di alcuni suoi
esponenti ecclesiastici e laici, dal
costante impegno religioso e civile del
“Magistero” papale e dal non meno
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Il Tempietto
impegnato magistero filosofico, storico
e letterario di tanti laici cattolici, che
sono stati tramandati nella loro
integralità e nel loro autentico
significato i tre fondamentali principi
cristiani della libertà, dell’unità e della
nazionalità, come “anima” e base
concettuale del Risorgimento. È con le
loro proposte programmatiche e con la
loro concreta realizzazione – non solo
con la critica razionale, ma anche con
sempre più vasto impegno operativo
sociale – che è stata dimostrata la
erronea e deviante interpretazione che
di quegli stessi principi stava dando lo
Stato moderno, sedicente liberale,
unitario e nazionale.
Dunque lo Stato doveva essere
unitario, ma non uniforme;
coordinatore di diversità ma non
verticisticamente impositore di un
sistema accentratore, mutuato
dall’esperienza illuministico-giacobina
della Repubblica francese. Doveva
essere uno Stato armonizzatore e
sintetizzatore di molte diversità – come
avevano saputo fare i coloni inglesi in
America del secolo precedente. Come
stava facendo – pur con l’autoritarismo
di Bismark – la Germania, dopo la
fine, anche formale, del Sacro Romano
Impero e della supremazia asburgica.
Cioè la possibilità di costituire uno
stato federale. E così avevano proposto
alcuni grandi intellettuali cattolici già
nel 1848-’49: alquanto utopisticamente
il piemontese Vincenzo Gioberti col
suo “neoguelfismo” monarchico, e
(meno utopisticamente e con diretto
impegno personale nelle rivolta di
Venezia del ‘49) il dalmata Nicolò
Tommaseo col suo federalismo
193
fieramente repubblicano (tanto da
rifiutare il seggio senatoriale di
nomina regia).
Cinquant’anni dopo, nella seconda fase
del Risorgimento, quando si
cominciarono a constatare gli effetti
negativi del liberalismo elitario e dello
statalismo accentratore, il
cattolicesimo italiano trovò più efficaci
argomenti per criticarli e contestarli,
ed una meno ostile atmosfera per
cominciare a dar vita a concreti
interventi sul terreno amministrativo e
sociale. Tra gli antesignani il vescovo
cremonese Geremia Bonomelli.
Nonostante le ombre che continuavano
a calare sui rapporti fra Stato e Chiesa,
nei primi anni del ‘900 non
mancarono, soprattutto negli anni di
Giolitti, i negoziati riservati ed i
tentativi, dall’una e dell’altra parte,
volti a porre su nuove basi i rapporti
fra Chiesa e Stato. Fra questi segnali,
di particolare importanza la parziale
abrogazione del decreto (noto sotto il
nome di Non expedit) con il quale era
stato fatto divieto ai cattolici di
partecipare alla vita pubblica a livello
nazionale, all’insegna del motto “né
eletti né elettori”. Cominciarono così,
nei primi anni del Novecento, ad
entrare nell’unica Camera elettiva di
allora, quella dei Deputati, alcuni
“cattolici deputati”, così chiamati per
evitare che essi fossero considerati
“deputati cattolici”, in quanto tali in
qualche modo espressivi del “mondo
cattolico”, se non propriamente della
chiesa italiana (Giuseppe Micheli e
Filippo Meda furono i due primi
“cattolici deputati”).
La ricerca storica ha messo ormai in
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194
Il Tempietto
chiara evidenza quanto fossero a più
riprese condotte trattative fra Stato e
Chiesa: ma esse furono periodicamente
interrotte, qualche volta per
l’intransigenza del Vaticano, più
spesso per la persistenza di una
mentalità anticlericale che non si
rassegnava all’idea di riconoscere una
pur simbolica sovranità al Pontefice
(conditio sine qua non, questa, posta
dalla S. Sede per la prosecuzione delle
trattativa, in vista della garanzia che
da una pur minuscola sovranità
territoriale sarebbe derivata alla sua
indipendenza). Così quell’accordo che,
nella maggioranza degli spiriti, era già
maturo nei primi anni del ‘900, fu
rinviato – a causa della prima guerra
mondiale e dei successivi
sommovimenti sociali – al 1929,
consentendo così a Mussolini di
appropriarsi dei frutti di un lungo
lavoro preparatorio svolto dalle
componenti conciliatoristiche dell’una
e dell’altra parte. Non stupisce, in
questo contesto, il pressochè corale
consenso dato dai cattolici ai Patti
Lateranensi; se non mancarono le
riserve (particolarmente autorevoli
quelle di Luigi Sturzo e di Alcide De
Gasperi) esse riguardarono non la
sostanza degli accordi ma alcuni
aspetti di essi, soprattutto quelli che
potevano essere interpretati come un
avallo al regime fascista e sembravano
aprire la strada ad una sorta di “Stato
cattolico” accentratore ed autoritario,
apparentemente rispettoso dei diritti
della Chiesa ma in realtà orientato ad
un uso strumentale del cattolicesimo a
sostegno di uno Stato autoritario.
Era acuta, in questi due grandi
esponenti del cattolicesimo
democratico, la percezione dei rischi
che la Chiesa avrebbe potuto correre
se i Patti Lateranensi si fossero
trasformati, da patto per la soluzione
dell’antico contrasto fra Stato e Chiesa,
in una sorta di legittimazione dello
Stato fascista: di uno Stato che già nel
1929 rivendicava un totale dominio
sulla società, a partire dall’educazione
dei giovani. Su questo terreno si
consumò, come noto, già nel 1931 un
distacco, mai più sanato, tra il regime
e la coscienza cattolica. Così, ad
appena due anni dal Concordato – e
dopo il duro conflitto fra regime e
Azione cattolica apertosi nel 1931 –
cadevano le illusioni circa la possibile
“cristianizzazione”del fascismo e si
ponevano le basi del progressivo
distacco della Chiesa dal fascismo che
si sarebbe consumato con le leggi
razziali e la fatale alleanza con Hitler.
Caduto il regime fascista fu comune,
fra le forze politiche più responsabili,
la convinzione che non si dovesse
riaprire la ferita della “questione
romana”: poche furono, in effetti, le
voci che pur si levarono dopo il 1945 a
favore della pura e semplice
abrogazione dei Patti Lateranensi. Si
comprese, da parte dei cattolici – ma
anche da parte di consistenti
componenti tanto della cultura
socialista e comunista quanto di quella
liberale – che era preferibile non
rimettere in discussione i Patti e
procedere semmai ad una loro
revisione e reinterpretazione, anche
alla luce dei principi ispiratori della
nuova Costituzione, che collocava gli
stessi Patti Lateranensi all’interno di
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Il Tempietto
una ben diversa e più vasta cornice.
Per questa via le parti caduche dei
Patti lateranensi sono state
progressivamente erose dalla sentenze
della Corte Costituzionale, dalla grande
dichiarazione conciliare Dignitatis
Humanae (1965), dagli Accordi di
revisione del 1984. Riemergeranno,
inevitabilmente, diverse forme di
potenziale conflittualità fra Stato e
Chiesa – perché le “diarchie”, secondo
la citata espressione di Sturzo, non
sono mai facili. Come ricorda lo storico
delle dottrine politiche Giorgio
Campanini non si possono negare
alcune benemerenze dello Stato
unitario uscito dal processo
195
risorgimentale, né ha senso domandarsi
quale sarebbe stato il corso delle storia
d’Italia se fosse stato accettato – sia dal
Pontefice sia dagli Stati pre-unitari – il
programma “neoguelfo” di Gioberti.
Quella di oggi è, irrevocabilmente,
l’Italia che ha preso corpo a partire da
quel complesso processo storico che ha
preso l’avvio 150 anni fa con l’impresa
dei Mille; né si può tornare indietro;
ma il passato non può essere
considerato una prigione dalla quale
sia impossibile uscire, bensì una
sollecitazione ad una nuova
progettualità di una Nazione-Italia
nella quale anche i cattolici possano
recitare degnamente la loro parte.
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196
Il Tempietto
Il Risorgimento
e l’unità europea
Sandro Capitanio - Movimento Federalista Europeo
C
on la ricorrenza dei 150 dalla
nascita dello Stato italiano,
nascono occasioni per riflettere
su alcuni aspetti della storia
risorgimentale che la mitologia
nazionalista aveva parzialmente
nascosto o travisato.
Tra gli aspetti importanti vi è senza
dubbio anche quello che stiamo
trattando in questo convegno e che è
stato oggetto degli ultimi numeri della
rivista Il Tempietto, vale a dire il ruolo
dei cattolici nel processo di unificazione
italiana. A ben vedere sembra strano
che questo sia stato un aspetto
sostanzialmente trascurato nel passato;
sembra impossibile ritenere infatti che
in un paese a stragrande maggioranza
cattolica, prima e dopo l’unità d’Italia, i
cattolici non abbiano svolto un ruolo
decisivo nel processo unitario.
Un altro tema che è stato trascurato è
l’idea di Europa nel Risorgimento.
La rivista Il Tempietto ha dedicato
numerosi articoli all’Europa e
nell’ultimo numero in particolare a
Mazzini e l’Europa.
È opportuno precisare che il tema
dell’Europa non fu di esclusivo
interesse di Mazzini ma fu presente in
tutte le componenti del Risorgimento
italiano.
Questo è spiegabile se si pensa che
l’Europa della prima parte dell’800 era
quella uscita dal Congresso di Vienna
(1815), quella del “concerto europeo”
che garantiva una forte stabilità tra gli
Stati; e dove il ricorso alla guerra
aveva un carattere eccezionale. Questa
condizione di equilibrio
sostanzialmente pacifico, favoriva la
convinzione che l’unità europea fosse
sicuramente destinata a rafforzarsi e
che la nascita dell’Europa delle
Nazioni avrebbe inevitabilmente
aumentato il liberismo internazionale e
la collaborazione pacifica tra gli Stati.
In questo contesto trovavano spazio
anche gli interessi e gli ideali della
Chiesa, per loro natura eminentemente
sovranazionali.
Era quindi diffusa tra gli intellettuali
promotori dell’unità italiana, sia i
moderati, sia i più rivoluzionari
mazziniani, sia i liberali-radicali,
l’idea che l’Europa, pur articolata in
Stati sovrani, avrebbe in qualche modo
assicurato un sistema politico unitario.
E l’idea nazionale, che pure era
presente nel mondo letterario (Foscolo,
Leopardi, Manzoni), non era poi così
diffusa a livello di coscienza politica,
se si escludono i mazziniani, e anche
per loro occorrerà fare alcune
precisazioni.
Quello che mancò, salvo in Cattaneo,
fu però l’idea di creare istituzioni
statuali sovranazionali.
Ciò unificava i protagonisti del
Risorgimento era soprattutto l’idea
della democrazia, dei valori liberali,
delle Costituzioni. Valori e idee che
non erano solo italiani, bensì appunto
europei.
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Il Tempietto
È proprio ai modelli europei che si
ispiravano i patrioti, agli esempi che,
anche con alterne fortune, accadevano
in Francia, Inghilterra, Spagna.
Erano gli stessi ideali che mobilitavano
i patrioti tedeschi, polacchi, ungheresi
ecc che infatti si sentirono uniti agli
italiani; ideali che coinvolgevano anche
gran parte della società europea che
guardava con simpatia e sostegno
all’Italia.
Tra i protagonisti del Risorgimento che
parlarono d’Europa,Vincenzo Gioberti
(1801-1852) è uno degli autori più
importanti del partito dei moderati. Tra
le correnti che, dopo il 1831 ed il 1848,
guidarono gli italiani dalle vecchie
nazionalità regionali all’idea italiana
mentre i mazziniani erano una
minoranza rivoluzionaria, mossa
soprattutto da incentivi ideologici, i
moderati appartenevano alla classe
politica al potere o vicina al potere e
pensavano quindi all’unità italiana in
funzione dei bisogni economici e sociali
dei ceti più attivi della popolazione, la
vedevano come una graduale evoluzione
e non come un processo di totale rottura
rispetto al sistema degli Stati regionali.
Il loro cosiddetto programma federale,
in realtà mirava ad una confederazione
di Stati sovrani con però l’importante
aggiunta della modernizzazione in senso
costituzionale e liberista degli Stati
regionali.
Il Gioberti del “Primato morale e civile
degli italiani”, non si limita al progetto
di unire l’Italia attraverso una
“Federazione” (in realtà una
confederazione) basata sugli Stati
regionali nella pienezza della loro
sovranità e su una dieta confederale
197
presieduta dal Papa. Con un mezzo
quasi uguale a quello proposto per
l’Italia, il Gioberti vuole unire anche
l’Europa. A suo parere l’Europa, a
differenza dagli altri continenti,
possedeva un’unità etnografica, morale,
religiosa, civile; unità messa in crisi
dalla Riforma, che avrebbe potuto
essere ristabilita per mezzo del diritto
ecclesiastico, lasciando gli Stati così
come erano ma subordinandoli al potere
unificativo e pacifico del Pontefice.
Il pensiero di una sostanziale unità
dell’Europa era diffuso tra i moderati,
indipendentemente dalla visione
religiosa o meno, come ad esempio in
D’Azeglio ed in Cavour. I moderati
quindi concepirono l’unità nazionale
come mezzo per rinvigorire l’Italia e
unirla più attivamente all’Europa, e
quindi anche per loro i valori
supernazionali ebbero grande
importanza nel processo che portò
all’unità dell’Italia.
Naturalmente essi non tenevano conto
del fatto che la nascita delle nazioni
avrebbe sconvolto la situazione di
potere sulla quale si reggevano
l’equilibrio europeo ed il liberismo
internazionale usciti dal Congresso di
Vienna, questione che fu invece ben
compresa da Cattaneo.
Carlo Cattaneo (1801-1869) nell’800
fu l’unico pensatore italiano federalista:
comprese i limiti dello Stato nazionale e
capì la necessità degli Stati Uniti
d’Europa. Nelle sue Memorie
sull’insurrezione di Milano del 1848
affermò:
“Avremo pace vera quando avremo
gli Stati Uniti d’Europa”.
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198
Il Tempietto
Aveva visto, come altri pensatori
europei (Constantin Frantz in
Germania e Pierre-Joseph Proudhon in
Francia), gli aspetti negativi della
formula politica dello Stato nazionale
unitario. Aveva intuito il rapporto
profondo che esiste tra la guerra e la
sovranità assoluta degli Stati, tra
l’anarchia internazionale e il prevalere
all’interno degli Stati di tendenze
accentratrici, militariste ed autoritarie.
Di conseguenza aveva contestato la
pretesa dello Stato unitario di
presentarsi come la formula più
elevata di organizzazione politica.
Egli aveva un’idea precisa delle
innovazioni istituzionali contenute
nelle Costituzioni degli Stati Uniti e
della Confederazione Elvetica e
contribuì a diffonderne la conoscenza.
La concezione dell’Europa di
Giuseppe Mazzini (1805-1872) è
diversa da quella di Cattaneo, è più di
tipo confederale che federale, anche se
Mazzini critica proprio il
confederalismo del Gioberti.
Si può considerare Mazzini un
precursore del processo di unificazione
europea di oggi?
A questa domanda hanno risposto
alcuni studiosi del pensatore genovese
e, pur con alcune differenze, mi
sembra che abbiano concluso che
Mazzini non può essere definito un
propugnatore della costruzione di uno
Stato Federale Europeo, ciononostante
deve essere considerato tra i
precursori dell’unità europea perché
nel suo pensiero si trovano tutti gli
elementi che stanno alla base dell’idea
e delle ragioni che conducono alla
costruzione dell’Europa.
Anche se Mazzini fu dominato da una
sola decisiva passione, quella della
lotta per l’Italia, la sua figura ha
comunque diritto ad un posto di rilievo
nella storia dell’idea federalistica per la
forte componente supernazionale del
suo pensiero politico. Non c’è in lui
contraddizione tra il dedicare ogni sua
energia alla lotta per l’unificazione
italiana e la sua costante fedeltà all’idea
dell’unità dell’Europa e del genere
umano. Nazione e umanità per lui sono
termini complementari, l’egoismo
nazionale per lui era il tradimento del
principio di unità del genere umano.
Mazzini afferma “la Nazione è il mezzo,
l’Umanità è il fine”.
Egli ha lasciato germi fecondi che ne
fanno un precursore dell’Europa e per
questo merita quindi di essere più
conosciuto e studiato.
Infatti continua ad essere di attualità la
concezione religiosa che egli aveva della
“solidarietà tra i popoli”, per la difesa
della democrazia e della giustizia,
contro la conservazione e contro il culto
della ragion di Stato ed il disprezzo dei
diritti dell’individuo.
Questa concezione della solidarietà
implica l’idea della obbligatorietà
morale dell’intervento internazionale
contro la pretesa della assoluta sovranità
degli Stati. Ne discende che tale
obbligatorietà si deve basare su un
fondamento giuridico, grazie ad una
Costituzione che riconosca un ordine
statale sopra gli Stati: ciò vuol dire
creare un nuovo diritto internazionale e
creare un sistema federale.
Il valore e la grandezza
dell’insegnamento di Mazzini stanno
nella sua convinzione che “la
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Il Tempietto
democrazia, la libertà, la difesa della
dignità dell’uomo o sono solidali a
livello europeo o sono destinati a
perire”.
Perché questo spirito europeo non si
realizzò?
Raggiunta l’unità italiana – anche se,
come sappiamo, attraverso un processo
che vide Mazzini emarginato – il
nuovo Stato si trovò in un contesto
europeo modificato, dove altri Stati
operavano per un loro rafforzamento,
anche militare, Germania e Francia in
particolare: per l’Italia fu necessario
seguirne l’esempio, farsi potenza tra le
potenze.
Inoltre si verificarono anche situazioni
interne all’Italia che spinsero ad una
scelta accentratrice del nuovo Stato
(dalla guerra civile detta del
brigantaggio, alla necessità di tentare
di superare le forti differenze
economiche e strutturali, alla necessità
di costruire una scuola e quindi una
cultura “italiana”, ai problemi causati
dal contrasto del nuovo Stato con la
Chiesa). Come disse D’Azeglio, fatta
l’Italia bisognava fare gli italiani;
199
progetto non certo facile se si pensa
che alle elezioni del primo Parlamento
italiano poté partecipare solo il due
per cento della popolazione.
Secondo Mario Albertini, un
importante autore e studioso
federalista, è a partire da questo
momento che si passa da un diffuso
sentimento sovranazionale europeo alla
concezione “nazionalistica”,
all’abbandono cioè dell’idea, specie
mazziniana, della Nazione portatrice di
valori di pace e di fratellanza: è la
Nazione stessa che diventerà un valore
a se stante, che soffocherà e
sottometterà gli stessi valori
democratici, liberali e socialisti ed
anche religiosi.
Fu così che non nacque l’Europa
sognata da Mazzini, ma quella che
portò all’esasperazione del
nazionalismo e successivamente anche
alla tragedia delle due guerre del ‘900.
Solo alla fine della seconda guerra
mondiale, a partire da tutta la
Resistenza europea, si recuperarono
gli ideali sovranazionali e si riaprì il
processo unitario dell’Europa, che
tuttavia deve ancora essere completato.
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200
Il Tempietto
A propostio della partecipazione
dei cattolici italiani
alla formazione dello stato unitario
Giovanni B. Varnier - Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Genova
Il
150° anniversario dell’Unità
d’Italia rappresenta l’occasione per
concretare una serie di
manifestazioni celebrative, considerando
le quali, chi come me di questo secolo e
mezzo ne ha vissuto ben più di un terzo e
ricorda gli eventi del 1961, è colpito
dall’abbandono della lettura della storia
del Risorgimento compiuta
prevalentemente come storia del
patriottismo italiano il quale, attraverso
una serie di lotte, realizza l’indipendenza
e l’unità nazionale.
Un passaggio che, per il mondo cattolico,
si è manifestato nel superamento dei
residui di un antico distacco dal moto
unitario per giungere al trionfalismo
identitario di oggi. Fenomeno che, in
ultima analisi, – partendo
dall’osservazione retrospettiva della
supplenza istituzionale esercitata dalla
Chiesa nell’odierna crisi dell’Italia – ci
conduce all’esagerazione opposta di
cadere in una lettura che vorrebbe i
cattolici italiani quali soci fondatori dello
Stato unitario.
In tutto questo dimenticando il non
expedit e quel dibattito, di cui è ricca la
manualistica di teologia morale del
secondo Ottocento, incentrato sulla liceità
o meno del voto politico dei cattolici
italiani.
Ovviamente del presente anniversario è
ancora presto per valutare gli esiti, ma si
può cercare di tracciare qualche nota,
partendo proprio dalle odierne
manifestazioni celebrative, non poche
delle quali appaiono di dubbio valore
culturale e tali da essere collocate nella
categoria del più effimero revisionismo.
Nel bilancio rientra certamente la lettura
della partecipazione dei cattolici italiani
alla formazione dello Stato unitario; un
capitolo che oggi è più che mai aperto
nella prospettiva di superare vecchie e
superficiali polemiche, che
periodicamente vengono a ripresentarsi.
In tale quadro è da porre la
pubblicazione, da parte dell’Istituto della
Enciclopedia Italiana, di un’opera, la cui
direzione scientifica è affidata ad Alberto
Melloni, che ha come titolo: Cristiani
d’Italia. Chiese, società, Stato 1861-2011.
Si tratta di un prodotto culturale di
pregio, a cui però si può imputare il fatto
che l’alto costo editoriale non può certo
facilitare la diffusione di quello che –
negli intenti dei promotori – intente
essere un contributo per l’analisi
scientifica e per un quadro storiografico.
Ma qui si innesta un tratto negativo
dell’opera sopra richiamata, che è
rappresentato dal taglio editoriale che ha
condotto alla scelta, tra gli autori, di nomi
di qualificati studiosi accanto ad altri di
giovani esordienti in larga maggioranza
esponenti di un mondo culturale vicino
agli orientamenti ideologici dei soggetti
proponenti. Proprio alla luce di questo
risulta ormai indiscutibile la fortuna
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Il Tempietto
politica del cattolicesimo di sinistra
rispetto a quello moderato o di destra ed
è chiaro che a partire dagli anni ‘70 del
secolo scorso la cultura cattolica italiana
finisce con l’essere rappresentata da
esponenti appartenenti all’area cosiddetta
progressista; come, con parti invertite,
successe nel primo Novecento quando fu
egemone il pensiero cattolico di
orientamento nazionalista.
Orbene, senza lasciarsi travolgere da
quelle che potrebbero apparire soltanto
delle recriminazioni, aggiungo subito che,
nonostante quello che si sostiene – più
per moda che per reale indirizzo
storiografico – io non credo che il
contributo dei cattolici all’unificazione
italiana sia stato particolarmente
rilevante. Integrando questa opinione con
il fatto che per una valutazione
complessiva di tale contributo è
opportuno allargare la riflessione agli
interi 150 anni di vita unitaria. Una
valutazione che deve essere diversa dalle
posizioni, ancor più negative, assunte
dalla Chiesa cattolica di fronte all’unità
d’Italia. Ricordo, solo come esempio, che
nel 1867 La Civiltà Cattolica,
all’indomani delle leggi eversive del
patrimonio ecclesiastico, si riferì al regno
d’Italia, definendolo “così detto” e che
“nato col latrocinio e col sacrilegio, non
per altre vie, che per questa cerca di
conservarsi”.
Tornando all’apporto dei cattolici italiani
alla formazione dello Stato unitario, si
tratta in primo luogo di ricondurre ad una
lettura meno totalizzante il contributo di
Vincenzo Gioberti (che, sebbene
sacerdote, fu esclusivamente un politico
senza alcuna impronta di fede) e di
Antonio Rosmini. Questo senza negare il
201
peso delle istanze federalistiche, che
segnarono un contrasto deciso del
giacobinismo illuminista e che si fecero
portavoce delle richieste di autonomia
provenienti dal contesto locale della
società italiana.
Si ricordi poi che il federalismo sembrò
la sola soluzione possibile per il fatto che
lo Stato della Chiesa si estendeva dal
mare Tirreno all’Adriatico e chiaramente
rappresentava un ostacolo a ogni progetto
unitario tra Nord e Sud della Penisola,
specialmente allorché la difesa del potere
temporale del pontefice venne elevata
quasi a dogma religioso. Inoltre non si
deve dimenticare che l’istanza federale
restò presente nel pensiero cattolico e
trovò poi spazio nel terreno delle
autonomie, sfociando nel riconoscimento
contenuto nella Costituzione italiana.
Con questi presupposti all’infatuazione
giobertiana di intendere il cattolicesimo
italiano come forza politica vantaggiosa
per la realizzazione del disegno di unità
nazionale, si sommò l’entusiasmo per il
programma neo-guelfo, che proponeva di
mettere il papa a capo di una federazione
che riunisse tutti i sovrani italiani e che
vide clero e fedeli di varie regioni recare
alla causa nazionale un appoggio, se non
totale almeno molto vasto.
A questo si oppose l’errore degli
anticlericali, che – specialmente dopo
l’unificazione – sottovalutarono il
radicamento della fede cattolica
nell’animo degli italiani, separando in
modo netto la Chiesa dallo Stato e dando
il via a quel periodo storico che Arturo
Carlo Jemolo definì gli anni del
dilaceramento. Per alcuni decenni nelle
pubbliche istituzioni si annidò un deciso
anticlericalismo che ebbe una duplice
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Il Tempietto
matrice: filosofica (di stampo
illuministico) e politica (con
caratteristiche prettamente italiana). La
prima intendeva lottare contro l’ingerenza
della Chiesa cattolica nella sfera
pubblica per liberare la società dai
vincoli e dai privilegi confessionali,
mentre la seconda combatteva il potere
temporale dei papi per realizzare l’unità
nazionale e poi per mantenere le
posizioni di governo del Paese.
A ciò si sommi che più tardi, in età
umbertina, oltre a forti momenti di
anticlericalismo politico, il Risorgimento
fu areligioso e cercò di sostituire il
cattolicesimo – reso privato – con il culto
pubblico della religione della Patria.
Accanto a ciò si deve aggiungere che,
alla luce dell’analisi della politica
ecclesiastica italiana, l’affermazione
libera Chiesa in libero Stato si rivela una
mera formula retorica, dettata da ragioni
politiche e diplomatiche. Resta invece la
sincerità della passione di tanta parte
della classe dirigente risorgimentale la
quale – pur dovendosi piegare alle
esigenze del contingente – coltivò nel
proprio animo la fedeltà all’appartenenza
nazionale, senza venire a compromesso
con la coscienza religiosa e trovando
l’appoggio di una parte del clero e in
schiere di fedeli.
Quello che ebbero ben chiaro i cattolici
liberali nel Risorgimento è l’importanza
del cattolicesimo nella formazione storica
e culturale della nazione italiana, proprio
ciò che oggi da un lato viene
sopravalutato e da altri rimesso in
discussione. Vi fu una larga parte della
cultura dei cattolici, espressa dal
pensiero intransigente, che non accettò il
processo verso l’unità e le cui linee di
orientamento non risultarono valutate in
modo equilibrato per una sorta di giudizio
previo.
Riandando al primo congresso cattolico
italiano, svoltosi a Venezia dal 12 al 19
giugno 1874, osserviamo come nella
generale incertezza diffusa in quegli anni
tra le schiere del campo cattolico e di
fronte agli eventi politico-militari che
avevano radicalmente trasformato la
Penisola e che avevano visto i cattolici
divisi tra intransigenti e liberali, venne a
delinearsi il deciso predominio dei primi,
con il tramonto del cattolicesimo liberale
e con l’affermarsi di quella che Giovanni
Spadolini definì: l’opposizione cattolica.
Bisognerà attendere con il Patto Gentiloni
l’apertura al cattolicesimo politico e poi –
durante il pontificato di Benedetto XV –
l’esperienza del Partito Popolare Italiano,
che si concretò avendo quale base un
programma politico differente dall’antica
affermazione dei conciliatoristi: cattolici
con il Papa e liberali con lo Statuto.
Analogamente i seguaci del separatismo
non dovrebbero considerare le fedi come
un retaggio del passato e, quindi,
continuare a perseguire lo sradicamento
dei sentimenti religiosi dalla società,
riconoscendone, invece,
l’indispensabilità, specialmente se si
vogliono conservare salde le tradizioni
culturali del mondo occidentale ed
evitare che i credenti si sentano
perseguitati.
Sarà un contributo costruttivo a questo
150° anniversario se con discernimento
staremo lontani dall’effimero di cui si è
detto e, inoltre, cercheremo di indirizzare
lo sguardo oltre il mito, ma senza
costruire nuovi miti.
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17 Marzo 2011
Benedetto XVI
Giorgio Napolitano
Angelo Bagnasco
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Il Tempietto
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Messaggio del Santo Padre al
Presidente della Repubblica italiana
in occasione dei 150 anni dell’unità politica d’Italia, 16/03/2011
Illustrissimo Signore,
On. GIORGIO NAPOLITANO,
Presidente della Repubblica Italiana.
Il 150° anniversario dell’unificazione
politica dell’Italia mi offre la felice
occasione per riflettere sulla storia di
questo amato Paese, la cui Capitale è
Roma, città in cui la divina
Provvidenza ha posto la Sede del
Successore dell’Apostolo Pietro.
Pertanto, nel formulare a Lei e
all’intera Nazione i miei più fervidi
voti augurali, sono lieto di
parteciparLe, in segno dei profondi
vincoli di amicizia e di collaborazione
che legano l’Italia e la Santa Sede,
queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in
Italia nel corso del XIX secolo e
passato alla storia con il nome di
Risorgimento, costituì il naturale
sbocco di uno sviluppo identitario
nazionale iniziato molto tempo prima.
In effetti, la nazione italiana, come
comunità di persone unite dalla lingua,
dalla cultura, dai sentimenti di una
medesima appartenenza, seppure nella
pluralità di comunità politiche
articolate sulla penisola, comincia a
formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in
maniera fondamentale alla costruzione
dell’identità italiana attraverso l’opera
della Chiesa, delle sue istituzioni
educative ed assistenziali, fissando
modelli di comportamento,
configurazioni istituzionali, rapporti
sociali; ma anche mediante una
ricchissima attività artistica: la
letteratura, la pittura, la scultura,
l’architettura, la musica. Dante, Giotto,
Petrarca, Michelangelo, Raffaello,
Pierluigi da Palestrina, Caravaggio,
Scarlatti, Bernini e Borromini sono
solo alcuni nomi di una filiera di
grandi artisti che, nei secoli, hanno
dato un apporto fondamentale alla
formazione dell’identità italiana.
Anche le esperienze di santità, che
numerose hanno costellato la storia
dell’Italia, contribuirono fortemente a
costruire tale identità, non solo sotto lo
specifico profilo di una peculiare
realizzazione del messaggio
evangelico, che ha marcato nel tempo
l’esperienza religiosa e la spiritualità
degli italiani (si pensi alle grandi e
molteplici espressioni della pietà
popolare), ma pure sotto il profilo
culturale e persino politico. San
Francesco di Assisi, ad esempio, si
segnala anche per il contributo a
forgiare la lingua nazionale; santa
Caterina da Siena offre, seppure
semplice popolana, uno stimolo
formidabile alla elaborazione di un
pensiero politico e giuridico italiano.
L’apporto della Chiesa e dei credenti
al processo di formazione e di
consolidamento dell’identità nazionale
continua nell’età moderna e
contemporanea. Anche quando parti
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206
Il Tempietto
della penisola furono assoggettate alla
sovranità di potenze straniere, fu
proprio grazie a tale identità ormai
netta e forte che, nonostante il
perdurare nel tempo della
frammentazione geopolitica, la nazione
italiana poté continuare a sussistere e
ad essere consapevole di sé. Perciò,
l’unità d’Italia, realizzatasi nella
seconda metà dell’Ottocento, ha potuto
aver luogo non come artificiosa
costruzione politica di identità diverse,
ma come naturale sbocco politico di
una identità nazionale forte e radicata,
sussistente da tempo. La comunità
politica unitaria nascente a
conclusione del ciclo risorgimentale ha
avuto, in definitiva, come collante che
teneva unite le pur sussistenti
diversità locali, proprio la preesistente
identità nazionale, al cui
modellamento il Cristianesimo e la
Chiesa hanno dato un contributo
fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e
politiche complesse, il Risorgimento è
passato come un moto contrario alla
Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche
alla religione in generale. Senza
negare il ruolo di tradizioni di pensiero
diverse, alcune marcate da venature
giurisdizionaliste o laiciste, non si può
sottacere l’apporto di pensiero – e
talora di azione – dei cattolici alla
formazione dello Stato unitario. Dal
punto di vista del pensiero politico
basterebbe ricordare tutta la vicenda
del neoguelfismo che conobbe in
Vincenzo Gioberti un illustre
rappresentante; ovvero pensare agli
orientamenti cattolico-liberali di
Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio,
Raffaele Lambruschini. Per il pensiero
filosofico, politico ed anche giuridico
risalta la grande figura di Antonio
Rosmini, la cui influenza si è
dispiegata nel tempo, fino ad informare
punti significativi della vigente
Costituzione italiana. E per quella
letteratura che tanto ha contribuito a
“fare gli italiani”, cioè a dare loro il
senso dell’appartenenza alla nuova
comunità politica che il processo
risorgimentale veniva plasmando,
come non ricordare Alessandro
Manzoni, fedele interprete della fede e
della morale cattolica; o Silvio Pellico,
che con la sua opera autobiografica
sulle dolorose vicissitudini di un
patriota seppe testimoniare la
conciliabilità dell’amor di Patria con
una fede adamantina. E di nuovo
figure di santi, come san Giovanni
Bosco, spinto dalla preoccupazione
pedagogica a comporre manuali di
storia Patria, che modellò
l’appartenenza all’istituto da lui
fondato su un paradigma coerente con
una sana concezione liberale:
“cittadini di fronte allo Stato e religiosi
di fronte alla Chiesa”.
La costruzione politico-istituzionale
dello Stato unitario coinvolse diverse
personalità del mondo politico,
diplomatico e militare, tra cui anche
esponenti del mondo cattolico. Questo
processo, in quanto dovette
inevitabilmente misurarsi col problema
della sovranità temporale dei Papi (ma
anche perché portava ad estendere ai
territori via via acquisiti una
legislazione in materia ecclesiastica di
orientamento fortemente laicista), ebbe
effetti dilaceranti nella coscienza
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Il Tempietto
individuale e collettiva dei cattolici
italiani, divisi tra gli opposti
sentimenti di fedeltà nascenti dalla
cittadinanza da un lato e
dall’appartenenza ecclesiale dall’altro.
Ma si deve riconoscere che, se fu il
processo di unificazione politicoistituzionale a produrre quel conflitto
tra Stato e Chiesa che è passato alla
storia col nome di “Questione
Romana”, suscitando di conseguenza
l’aspettativa di una formale
“Conciliazione”, nessun conflitto si
verificò nel corpo sociale, segnato da
una profonda amicizia tra comunità
civile e comunità ecclesiale. L’identità
nazionale degli italiani, così
fortemente radicata nelle tradizioni
cattoliche, costituì in verità la base più
solida della conquistata unità politica.
In definitiva, la Conciliazione doveva
avvenire fra le Istituzioni, non nel
corpo sociale, dove fede e cittadinanza
non erano in conflitto. Anche negli
anni della dilacerazione i cattolici
hanno lavorato all’unità del Paese.
L’astensione dalla vita politica,
seguente il “non expedit”, rivolse le
realtà del mondo cattolico verso una
grande assunzione di responsabilità
nel sociale: educazione, istruzione,
assistenza, sanità, cooperazione,
economia sociale, furono ambiti di
impegno che fecero crescere una
società solidale e fortemente coesa. La
vertenza apertasi tra Stato e Chiesa
con la proclamazione di Roma capitale
d’Italia e con la fine dello Stato
Pontificio, era particolarmente
complessa. Si trattava indubbiamente
di un caso tutto italiano, nella misura
in cui solo l’Italia ha la singolarità di
207
ospitare la sede del Papato. D’altra
parte, la questione aveva una indubbia
rilevanza anche internazionale. Si deve
notare che, finito il potere temporale,
la Santa Sede, pur reclamando la più
piena libertà e la sovranità che le
spetta nell’ordine suo, ha sempre
rifiutato la possibilità di una soluzione
della “Questione Romana” attraverso
imposizioni dall’esterno, confidando
nei sentimenti del popolo italiano e nel
senso di responsabilità e giustizia
dello Stato italiano. La firma dei Patti
lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò
la definitiva soluzione del problema. A
proposito della fine degli Stati
pontifici, nel ricordo del beato Papa
Pio IX e dei Successori, riprendo le
parole del Cardinale Giovanni Battista
Montini, nel suo discorso tenuto in
Campidoglio il 10 ottobre 1962: “Il
papato riprese con inusitato vigore le
sue funzioni di maestro di vita e di
testimonio del Vangelo, così da salire a
tanta altezza nel governo spirituale
della Chiesa e nell’irradiazione sul
mondo, come prima non mai”.
L’apporto fondamentale dei cattolici
italiani alla elaborazione della
Costituzione repubblicana del 1947 è
ben noto. Se il testo costituzionale fu il
positivo frutto di un incontro e di una
collaborazione tra diverse tradizioni di
pensiero, non c’è alcun dubbio che
solo i costituenti cattolici si
presentarono allo storico
appuntamento con un preciso progetto
sulla legge fondamentale del nuovo
Stato italiano; un progetto maturato
all’interno dell’Azione Cattolica, in
particolare della FUCI e del
Movimento Laureati, e dell’Università
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208
Il Tempietto
Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto
di riflessione e di elaborazione nel
Codice di Camaldoli del 1945 e nella
XIX Settimana Sociale dei Cattolici
Italiani dello stesso anno, dedicata al
tema “Costituzione e Costituente”. Da
lì prese l’avvio un impegno molto
significativo dei cattolici italiani nella
politica, nell’attività sindacale, nelle
istituzioni pubbliche, nelle realtà
economiche, nelle espressioni della
società civile, offrendo così un
contributo assai rilevante alla crescita
del Paese, con dimostrazione di
assoluta fedeltà allo Stato e di
dedizione al bene comune e
collocando l’Italia in proiezione
europea. Negli anni dolorosi ed oscuri
del terrorismo, poi, i cattolici hanno
dato la loro testimonianza di sangue:
come non ricordare, tra le varie figure,
quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof.
Vittorio Bachelet? Dal canto suo la
Chiesa, grazie anche alla larga libertà
assicuratale dal Concordato
lateranense del 1929, ha continuato,
con le proprie istituzioni ed attività, a
fornire un fattivo contributo al bene
comune, intervenendo in particolare a
sostegno delle persone più emarginate
e sofferenti, e soprattutto proseguendo
ad alimentare il corpo sociale di quei
valori morali che sono essenziali per la
vita di una società democratica, giusta,
ordinata. Il bene del Paese,
integralmente inteso, è stato sempre
perseguito e particolarmente espresso
in momenti di alto significato, come
nella “grande preghiera per l’Italia”
indetta dal Venerabile Giovanni Paolo
II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di
revisione del Concordato lateranense,
firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato
il passaggio ad una nuova fase dei
rapporti tra Chiesa e Stato in Italia.
Tale passaggio fu chiaramente
avvertito dal mio Predecessore, il
quale, nel discorso pronunciato il 3
giugno 1985, all’atto dello scambio
degli strumenti di ratifica
dell’Accordo, notava che, come
“strumento di concordia e
collaborazione, il Concordato si situa
ora in una società caratterizzata dalla
libera competizione delle idee e dalla
pluralistica articolazione delle diverse
componenti sociali: esso può e deve
costituire un fattore di promozione e di
crescita, favorendo la profonda unità di
ideali e di sentimenti, per la quale
tutti gli italiani si sentono fratelli in
una stessa Patria”. Ed aggiungeva che
nell’esercizio della sua diaconia per
l’uomo “la Chiesa intende operare nel
pieno rispetto dell’autonomia
dell’ordine politico e della sovranità
dello Stato. Parimenti, essa è attenta
alla salvaguardia della libertà di tutti,
condizione indispensabile alla
costruzione di un mondo degno
dell’uomo, che solo nella libertà può
ricercare con pienezza la verità e
aderirvi sinceramente, trovandovi
motivo ed ispirazione per l’impegno
solidale ed unitario al bene comune”.
L’Accordo, che ha contribuito
largamente alla delineazione di quella
sana laicità che denota lo Stato
italiano ed il suo ordinamento
giuridico, ha evidenziato i due principi
supremi che sono chiamati a
presiedere alle relazioni fra Chiesa e
comunità politica: quello della
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Il Tempietto
distinzione di ambiti e quello della
collaborazione. Una collaborazione
motivata dal fatto che, come ha
insegnato il Concilio Vaticano Il,
entrambe, cioè la Chiesa e la comunità
politica, “anche se a titolo diverso,
sono a servizio della vocazione
personale e sociale delle stesse
persone umane” (Cost. Gaudium et
spes, 76). L’esperienza maturata negli
anni di vigenza delle nuove
disposizioni pattizie ha visto, ancora
una volta, la Chiesa ed i cattolici
impegnati in vario modo a favore di
quella “promozione dell’uomo e del
bene del Paese” che, nel rispetto della
reciproca indipendenza e sovranità,
costituisce principio ispiratore ed
orientante del Concordato in vigore
(art. 1). La Chiesa è consapevole non
solo del contributo che essa offre alla
società civile per il bene comune, ma
anche di ciò che riceve dalla società
civile, come afferma il Concilio
Vaticano II: “chiunque promuove la
comunità umana nel campo della
famiglia, della cultura, della vita
economica e sociale, come pure della
politica, sia nazionale che
internazionale, porta anche un non
piccolo aiuto, secondo la volontà di
Dio, alla comunità ecclesiale, nelle
cose in cui essa dipende da fattori
esterni” (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della
209
storia, bisogna riconoscere che la
nazione italiana ha sempre avvertito
l’onere ma al tempo stesso il singolare
privilegio dato dalla situazione
peculiare per la quale è in Italia, a
Roma, la sede del successore di Pietro
e quindi il centro della cattolicità. E la
comunità nazionale ha sempre risposto
a questa consapevolezza esprimendo
vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto
alla Sede Apostolica per la sua libertà
e per assecondare la realizzazione
delle condizioni favorevoli all’esercizio
del ministero spirituale nel mondo da
parte del successore di Pietro, che è
Vescovo di Roma e Primate d’Italia.
Passate le turbolenze causate dalla
“questione romana”, giunti
all’auspicata Conciliazione, anche lo
Stato Italiano ha offerto e continua ad
offrire una collaborazione preziosa, di
cui la Santa Sede fruisce e di cui è
consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor
Presidente, queste riflessioni, invoco
di cuore sul popolo italiano
l’abbondanza dei doni celesti, affinché
sia sempre guidato dalla luce della
fede, sorgente di speranza e di
perseverante impegno per la libertà, la
giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
BENEDICTUS PP. XVI
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210
Il Tempietto
Intervento del Presidente Napolitano
alla seduta del Parlamento in occasione
dell’apertura delle celebrazioni del
150° anniversario dell’Unità d’Italia
Montecitorio, 17/03/2011
S
ento di dover rivolgere un
riconoscente saluto ai tanti che
hanno raccolto l’appello a
festeggiare e a celebrare i 150 anni
dell’Italia unita: ai tanti cittadini che
ho incontrato o che mi hanno
indirizzato messaggi, esprimendo
sentimenti e pensieri sinceri, e a tutti i
soggetti pubblici e privati che hanno
promosso iniziative sempre più
numerose in tutto il Paese. Istituzioni
rappresentative e Amministrazioni
pubbliche: Regioni e Provincie, e
innanzitutto municipalità, Sindaci
anche e in particolare di piccoli
Comuni, a conferma che quella è la
nostra istituzione di più antica e
radicata tradizione storica, il fulcro
dell’autogoverno democratico e di ogni
assetto autonomistico. Scuole, i cui
insegnanti e dirigenti hanno espresso
la loro sensibilità per i valori dell’unità
nazionale, stimolando e raccogliendo
un’attenzione e disponibilità diffusa tra
gli studenti. Istituzioni culturali di alto
prestigio nazionale, Università,
Associazioni locali legate alla memoria
della nostra storia nei mille luoghi in
cui essa si è svolta. E ancora, case
editrici, giornali, radiotelevisioni, in
primo luogo quella pubblica. Grazie a
tutti. Grazie a quanti hanno dato il loro
apporto nel Comitato interministeriale
e nel Comitato dei garanti, a
cominciare dal suo Presidente.
Comune può essere la soddisfazione
per questo dispiegamento di iniziative
e contributi, che continuerà ben oltre
la ricorrenza di oggi. E anche,
aggiungo, per un rilancio, mai così
vasto e diffuso, dei nostri simboli,
della bandiera tricolore, dell’Inno di
Mameli, delle melodie risorgimentali.
Si è dunque largamente compresa e
condivisa la convinzione che ci
muoveva e che così formulerò: la
memoria degli eventi che condussero
alla nascita dello Stato nazionale
unitario e la riflessione sul lungo
percorso successivamente compiuto,
possono risultare preziose nella
difficile fase che l’Italia sta
attraversando, in un’epoca di profondo
e incessante cambiamento della realtà
mondiale. Possono risultare preziose
per suscitare le risposte collettive di
cui c’è più bisogno: orgoglio e fiducia;
coscienza critica dei problemi rimasti
irrisolti e delle nuove sfide da
affrontare; senso della missione e
dell’unità nazionale. È in questo
spirito che abbiamo concepito le
celebrazioni del Centocinquantenario.
Orgoglio e fiducia, innanzitutto. Non
temiamo di trarre questa lezione
dalle vicende risorgimentali! Non
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Il Tempietto
lasciamoci paralizzare dall’orrore
della retorica: per evitarla è
sufficiente affidarsi alla luminosa
evidenza dei fatti. L’unificazione
italiana ha rappresentato un’impresa
storica straordinaria, per le condizioni
in cui si svolse, per i caratteri e la
portata che assunse, per il successo
che la coronò superando le previsioni
di molti e premiando le speranze più
audaci.
Come si presentò agli occhi del mondo
quel risultato? Rileggiamo la lettera
che quello stesso giorno, il 17 marzo
1861, il Presidente del Consiglio
indirizzò a Emanuele Tapparelli
D’Azeglio, che reggeva la Legazione
d’Italia a Londra:
“Il Parlamento Nazionale ha
appena votato e il Re ha
sanzionato la legge in virtù della
quale Sua Maestà Vittorio
Emanuele II assume, per sé e per i
suoi successori, il titolo di Re
d’Italia. La legalità costituzionale
ha così consacrato l’opera di
giustizia e di riparazione che ha
restituito l’Italia a se stessa.
A partire da questo giorno, l’Italia
afferma a voce alta di fronte al
mondo la propria esistenza. Il
diritto che le apparteneva di essere
indipendente e libera, e che essa
ha sostenuto sui campi di
battaglia e nei Consigli, l’Italia lo
proclama solennemente oggi”.
Così Cavour, con parole che
rispecchiavano l’emozione e la fierezza
per il traguardo raggiunto: sentimenti,
questi, con cui possiamo ancor oggi
211
identificarci. Il plurisecolare cammino
dell’idea d’Italia si era concluso:
quell’idea-guida, per lungo tempo
irradiatasi grazie all’impulso di
altissimi messaggi di lingua,
letteratura e cultura, si era fatta strada
sempre più largamente, nell’età della
rivoluzione francese e napoleonica e
nei decenni successivi, raccogliendo
adesioni e forze combattenti, ispirando
rivendicazioni di libertà e moti
rivoluzionari, e infine imponendosi
negli anni decisivi per lo sviluppo del
movimento unitario, fino al suo
compimento nel 1861. Non c’è
discussione, pur lecita e feconda, sulle
ombre, sulle contraddizioni e tensioni
di quel movimento che possa oscurare
il dato fondamentale dello storico
balzo in avanti che la nascita del
nostro Stato nazionale rappresentò
per l’insieme degli italiani, per le
popolazioni di ogni parte, Nord e
Sud, che in esso si unirono.
Entrammo, così, insieme, nella
modernità, rimuovendo le barriere
che ci precludevano quell’ingresso.
Occorre ricordare qual era la
condizione degli italiani prima
dell’unificazione? Facciamolo con le
parole di Giuseppe Mazzini – 1845:
“Noi non abbiamo bandiera
nostra, non nome politico, non
voce tra le nazioni d’Europa; non
abbiamo centro comune, né patto
comune, né comune mercato.
Siamo smembrati in otto Stati,
indipendenti l’uno dall’altro...
Otto linee doganali.... dividono i
nostri interessi materiali,
inceppano il nostro progresso....
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212
Il Tempietto
otto sistemi diversi di monetazione,
di pesi e di misure, di legislazione
civile, commerciale e penale, di
ordinamento amministrativo, ci
fanno come stranieri gli uni agli
altri”.
E ancora, proseguiva Mazzini, Stati
governati dispoticamente,
“uno dei quali – contenente quasi
il quarto della popolazione
italiana – appartiene allo
straniero, all’Austria”. Eppure, per
Mazzini era indubitabile che una
nazione italiana esistesse, e che
non vi fossero “cinque, quattro, tre
Italie” ma “una Italia”.
Fu dunque la consapevolezza di
basilari interessi e pressanti esigenze
comuni, e fu, insieme, una possente
aspirazione alla libertà e
all’indipendenza, che condussero
all’impegno di schiere di patrioti –
aristocratici, borghesi, operai e
popolani, persone colte e incolte,
monarchici e repubblicani – nelle
battaglie per l’unificazione nazionale.
Battaglie dure, sanguinose, affrontate
con magnifico slancio ideale ed eroica
predisposizione al sacrificio da giovani
e giovanissimi, protagonisti talvolta
delle imprese più audaci anche
condannate alla sconfitta. È giusto che
oggi si torni ad onorarne la memoria,
rievocando episodi e figure come
stiamo facendo a partire, nel maggio
scorso, dall’anniversario della
Spedizione dei Mille, fino all’omaggio,
questa mattina, ai luoghi e ai
prodigiosi protagonisti della gloriosa
Repubblica romana del 1849.
Sono fonte di orgoglio vivo e attuale
per l’Italia e per gli italiani le vicende
risorgimentali da molteplici punti di
vista, ed è sufficiente sottolinearne
alcuni. In primo luogo, la suprema
sapienza della guida politica
cavouriana, che rese possibile la
convergenza verso un unico, concreto e
decisivo traguardo, di componenti
soggettive e oggettive diverse, non
facilmente componibili e anche
apertamente confliggenti. In secondo
luogo, l’emergere, in seno alla società
e nettamente tra i ceti urbani, nelle
città italiane, di ricche, forse
imprevedibili riserve – sensibilità
ideali e politiche, e risorse umane –
che si espressero nello slancio dei
volontari come componente attiva
essenziale al successo del moto
unitario, e in un’adesione crescente a
tale moto da parte non solo di ristrette
élite intellettuali ma di strati sociali
non marginali, anche grazie al
diffondersi di nuovi strumenti
comunicativi e narrativi.
E in terzo luogo vorrei sottolineare
l’eccezionale levatura dei protagonisti
del Risorgimento, degli ispiratori e
degli attori del moto unitario. Una
formidabile galleria di ingegni e di
personalità – quelle femminili fino a
ieri non abbastanza studiate e
ricordate – di uomini di pensiero e
d’azione. A cominciare, s’intende, dai
maggiori: si pensi, non solo a quale
impronta fissata nella storia, ma a
quale lascito cui attingere ancora con
rinnovato fervore di studi e generale
interesse, rappresentino il mito
mondiale, senza eguali – che non era
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Il Tempietto
artificiosa leggenda – di Giuseppe
Garibaldi, e le diverse, egualmente
grandi eredità di Cavour, di Mazzini e
di Cattaneo. Quei maggiori, lo
sappiamo, tra loro dissentirono e si
combatterono: ma ciascuno di essi
sapeva quanto l’apporto degli altri
concorresse al raggiungimento
dell’obbiettivo considerato comune,
anche se ciò non valse a cancellare
contrasti di fondo e poi tenaci
risentimenti. Ho detto dei principali
protagonisti, ma molti altri nomi – del
campo moderato, dell’area cattolicoliberale, e del campo democratico –
potrebbero essere richiamati a
testimonianza di una straordinaria
fioritura di personalità di spicco
nell’azione politica, nella società
civile, nell’amministrazione pubblica.
Questi fortificanti motivi di orgoglio
italiano trovano d’altronde riscontro
nei riconoscimenti che vennero in
quello stesso periodo e
successivamente, dall’esterno del
nostro paese, da esponenti della
politica e della cultura storica d’altre
nazioni; riconoscimenti della portata
europea della nascita dell’Italia unita,
dell’impatto che essa ebbe su altre
vicende di nazionalità in movimento
nell’Europa degli ultimi decenni
dell’Ottocento e oltre. Né si può
dimenticare l’orizzonte europeo della
visione e dell’azione politica di
Cavour, e la significativa presenza,
nel bagaglio ideale risorgimentale,
della generosa utopia degli Stati
Uniti d’Europa.
Nell’avvicinarsi del Centocinquantenario
si è riacceso in Italia il dibattito sia
attorno ai limiti e ai condizionamenti che
213
pesarono sul processo unitario sia attorno
alle più controverse scelte successive al
conseguimento dell’Unità. Sorvolare su
tali questioni, rimuovere le criticità e
negatività del percorso seguito prima e
dopo al 1860-61, sarebbe davvero un
cedere alla tentazione di racconti storici
edulcorati e alle insidie della retorica.
Sono però fuorvianti certi clamorosi
semplicismi: come quello
dell’immaginare un possibile arrestarsi
del movimento per l’Unità poco oltre il
limite di un Regno dell’Alta Italia: di
contro a quella visione più ampiamente
inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva
all’ideale del movimento nazionale (come
Cavour ben comprese, ci ha insegnato
Rosario Romeo) – visione e scelta che
l’impresa garibaldina, la Spedizione dei
Mille rese irresistibile.
L’Unità non poté compiersi che
scontando limiti di fondo come
l’assenza delle masse contadine, cioè
della grande maggioranza, allora, della
popolazione, dalla vita pubblica, e
dunque scontando il peso di una
questione sociale potenzialmente
esplosiva. L’Unità non poté compiersi
che sotto l’egida dello Stato più
avanzato, già caratterizzato in senso
liberale, più aperto e accogliente verso
la causa italiana e i suoi combattenti
che vi fosse nella penisola, e cioè sotto
l’egida della dinastia sabauda e della
classe politica moderata del Piemonte,
impersonata da Cavour. Fu quella la
condizione obbiettiva riconosciuta con
generoso realismo da Garibaldi, pur
democratico e repubblicano, col suo
“Italia e Vittorio Emanuele”. E se lo
scontro tra garibaldini ed Esercito
Regio sull’Aspromonte è rimasto traccia
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214
Il Tempietto
dolorosa dell’aspra dialettica di
posizioni che s’intrecciò col percorso
unitario, appare singolare ogni tendenza
a “scoprire” oggi con scandalo come le
battaglie sul campo per l’Unità furono
ovviamente anche battaglie tra italiani,
similmente a quanto accadde dovunque
vi furono movimenti nazionali per la
libertà e l’indipendenza.
Ma al di là di semplicismi e polemiche
strumentali, vale piuttosto la pena di
considerare i termini della riflessione e
del dibattito più recente sulle scelte
che vennero adottate subito dopo
l’unificazione dalle forze dirigenti del
nuovo Stato. E a questo proposito si
sono registrati seri approfondimenti
critici: che non possono tuttavia non
collocarsi nel quadro di una obbiettiva
valutazione storica del quadro dell’Italia
pre-unitaria quale era stato ereditato
dal nuovo governo e Parlamento
nazionale. Questi si trovarono dinanzi a
ferree necessità di sopravvivenza e
sviluppo dello Stato appena nato, che
non potevano non prevalere su un
pacato e lungimirante esame delle
opzioni in campo, specie quella tra
accentramento, nel segno della
continuità e dell’uniformità rispetto allo
Stato piemontese da un lato, e – se non
federalismo – decentramento, con forme
di autonomia e autogoverno anche al
livello regionale, dall’altro lato.
E a questo proposito vale ancor oggi la
vigorosa sintesi tracciata da un grande
storico, che pure fu spirito
eminentemente critico, Gaetano
Salvemini.
“I governanti italiani, fra il 1860
e il 1870, si trovavano” – egli
scrisse – “alle prese con
formidabili difficoltà”.
Quello che s’impose era allora – a
giudizio di Salvemini –
“il solo ordinamento politico e
amministrativo, con cui potesse
essere soddisfatto in Italia il
bisogno di indipendenza e di
coesione nazionale”.
E così, attraverso errori non meno
gravi delle difficoltà da superare,
“fu compiuta” – sono ancora
parole dello storico – “un’opera
ciclopica. Fu fatto di sette eserciti
un esercito solo... Furono tracciate
le prime linee della rete ferroviaria
nazionale. Fu creato un sistema
spietato di imposte per sostenere
spese pubbliche crescenti e per
pagare l’interesse dei debiti...
Furono rinnovati da cima a fondo
i rapporti tra lo Stato e la Chiesa”.
E fu debellato il brigantaggio
nell’Italia meridionale, anche se
pagando la necessità vitale di
sconfiggere quel pericolo di reazione
legittimista e di disgregazione
nazionale col prezzo di una
repressione talvolta feroce in risposta
alla ferocia del brigantaggio e, nel
lungo periodo, col prezzo di una
tendenziale estraneità e ostilità allo
Stato che si sarebbe ancor più radicata
nel Mezzogiorno.
Da un quadro storico così
drammaticamente condizionato, e da
un’“opera ciclopica” di unificazione,
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Il Tempietto
che gettò le basi di un mercato
nazionale e di un moderno sviluppo
economico e civile, possiamo trarre
oggi motivi di comprensione del nostro
modo di costituirci come Stato, motivi
di orgoglio per quel che 150 anni fa
nacque e si iniziò a costruire, motivi di
fiducia nella tradizione di cui in
quanto italiani siamo portatori; e
possiamo in pari tempo trarre piena
consapevolezza critica dei problemi
con cui l’Italia dové fare e continua a
fare i conti.
Problemi e debolezze di ordine
istituzionale e politico, che – nei
decenni successivi all’Unità – hanno
inciso in modo determinante sulle
travagliate vicende dello Stato e della
società nazionale, sfociate dopo la
prima guerra mondiale in una crisi
radicale risolta con la violenza in
chiave autoritaria dal fascismo. Ed
egualmente problemi e debolezze di
ordine strutturale, sociale e civile.
Sono i primi problemi quelli che oggi ci
appaiono aver trovato – nello scorso
secolo – più valide risposte. Mi riferisco
a quel grande fatto di rinnovamento
dello Stato in senso democratico che ha
coronato il riscatto dell’Italia dalla
dittatura totalitaria e dal nuovo
servaggio in cui la nazione venne
ridotta dalla guerra fascista e dalla
disfatta che la concluse. Un riscatto
reso possibile dall’emergere delle forze
tempratesi nell’antifascismo, e dalla
mobilitazione partigiana, cui si
affiancarono nella Resistenza le schiere
dei militari rimasti fedeli al giuramento.
Un riscatto che culminò nella
eccezionale temperie ideale e culturale
e nel forte clima unitario – più forte
215
delle diversità storiche e delle fratture
ideologiche – dell’Assemblea
Costituente.
Con la Costituzione approvata nel
dicembre 1947 prese finalmente corpo
un nuovo disegno statuale, fondato su
un sistema di principi e di garanzie da
cui l’ordinamento della Repubblica,
pur nella sua prevedibile e praticabile
evoluzione, non potesse prescindere.
Come venne esplicitamente indicato
nella relazione Ruini sul progetto di
Costituzione, “l’innovazione più
profonda” consisteva nel poggiare
l’ordinamento dello Stato su basi di
autonomia, secondo il principio
fondamentale dell’articolo 5 che legò
l’unità e indivisibilità della
Repubblica al riconoscimento e alla
promozione delle autonomie locali,
riferite, nella seconda parte della
Carta, a Regioni, Provincie e Comuni.
E altrettanto esplicitamente, nella
relazione Ruini, si presentò tale
innovazione come correttiva
dell’accentramento prevalso all’atto
dell’unificazione nazionale.
La successiva pluridecennale
esperienza delle lentezze, insufficienze
e distorsioni registratesi nell’attuazione
di quel principio e di quelle norme
costituzionali, ha condotto dieci anni
fa alla revisione del Titolo V della
Carta. E non è un caso che sia quella
l’unica rilevante riforma della
Costituzione che finora il Parlamento
abbia approvato, il corpo elettorale
abbia confermato e governi di diverso
orientamento politico si siano
impegnati ad applicare concretamente.
È stata in definitiva recuperata
l’ispirazione federalista che si presentò
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216
Il Tempietto
in varie forme ma non ebbe fortuna
nello sviluppo e a conclusione del
moto unitario. All’indomani
dell’unificazione, anche i progetti
moderatamente autonomistici che
erano stati predisposti in seno al
governo, cedettero il passo ai timori e
agli imperativi dominanti, già nel
breve tempo che a Cavour fu ancora
dato di vivere e nonostante la sua
ribadita posizione di principio ostile
all’accentramento benché non
favorevole al federalismo.
E oggi dell’unificazione celebriamo
l’anniversario vedendo l’attenzione
pubblica rivolta a verificare le
condizioni alle quali un’evoluzione in
senso federalistico – e non solo nel
campo finanziario – potrà garantire
maggiore autonomia e responsabilità
alle istituzioni regionali e locali
rinnovando e rafforzando le basi
dell’unità nazionale. È tale
rafforzamento, e non il suo contrario,
l’autentico fine da perseguire.
D’altronde, nella nostra storia e nella
nostra visione, la parola unità si sposa
con altre: pluralità, diversità,
solidarietà, sussidiarietà.
In quanto ai problemi e alle debolezze
di ordine strutturale, sociale e civile
cui ho poc’anzi fatto cenno e che
abbiamo ereditato tra le incompiutezze
dell’unificazione perpetuatesi fino ai
nostri giorni, è il divario tra Nord e
Sud, è la condizione del Mezzogiorno
che si colloca al centro delle nostre
preoccupazioni e responsabilità
nazionali. Ed è rispetto a questa
questione che più tardano a venire
risposte adeguate. Pesa certamente
l’esperienza dei tentativi e degli sforzi
portati avanti a più riprese nei decenni
dell’Italia repubblicana e rimasti non
senza frutti ma senza risultati
risolutivi; pesa altresì l’oscurarsi della
consapevolezza delle potenzialità che
il Mezzogiorno offre per un nuovo
sviluppo complessivo del paese e che
sarebbe fatale per tutti non saper
valorizzare.
Proprio guardando a questa cruciale
questione, vale il richiamo a fare del
Centocinquantenario dell’Unità d’Italia
l’occasione per una profonda
riflessione critica, per quello che ho
chiamato “un esame di coscienza
collettivo”. Un esame cui in nessuna
parte del paese ci si può sottrarre, e a
cui è essenziale il contributo di una
severa riflessione sui propri
comportamenti da parte delle classi
dirigenti e dei cittadini dello stesso
Mezzogiorno.
È da riferire per molti aspetti e in non
lieve misura al Mezzogiorno, ma va
vista nella sua complessiva
caratterizzazione e valenza nazionale,
la questione sociale, delle
disuguaglianze, delle ingiustizie –
delle pesanti penalizzazioni per una
parte della società – quale oggi si
presenta in Italia. Anche qui ci sono
eredità storiche, debolezze antiche con
cui fare i conti, a cominciare da quella
di una cronica insufficienza di
possibilità di occupazione, che nel
passato, e ancora dopo l’avvento della
Repubblica, fece dell’Italia un paese
di massiccia emigrazione e oggi
convive con il complesso fenomeno del
flusso immigratorio, del lavoro degli
immigrati e della loro necessaria
integrazione. Senza temere di eccedere
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Il Tempietto
217
nella sommarietà di questo mio
riferimento alla questione sociale, dico
che la si deve vedere innanzitutto
come drammatica carenza di
prospettive di occupazione e di
valorizzazione delle proprie
potenzialità per una parte rilevante
delle giovani generazioni.
E non c’è dubbio che la risposta vada
in generale trovata in una nuova
qualità e in un accresciuto dinamismo
del nostro sviluppo economico,
facendo leva sul ruolo di protagonisti
che in ogni fase di costruzione,
ricostruzione e crescita dell’economia
nazionale hanno assolto e sono oggi
egualmente chiamati ad assolvere il
mondo dell’impresa e il mondo del
lavoro, passati entrambi, in oltre un
secolo, attraverso profonde, decisive
trasformazioni.
Ma non è certo mia intenzione passare
qui in rassegna l’insieme delle prove
che ci attendono. Vorrei solo
condividessimo la convinzione che
esse costituiscono delle autentiche
sfide, quanto mai impegnative e per
molti aspetti assai dure, tali da
richiedere grande spirito di sacrificio e
slancio innovativo, in una rinnovata e
realistica visione dell’interesse
generale. La carica di fiducia che ci è
indispensabile dobbiamo ricavarla
dalla esperienza del superamento di
molte ardue prove nel corso della
nostra storia nazionale e dal
consolidamento di punti di riferimento
fondamentali per il nostro futuro.
cattolica. Dopo il 1861 l’obbiettivo
Una prova di straordinaria difficoltà
e importanza l’Italia unita ha
superato affrontando e via via
sciogliendo il conflitto con la Chiesa
si manifesta oggi come uno dei punti
di forza su cui possiamo far leva per il
consolidamento della coesione e unità
nazionale. Ce ne ha dato la più alta
della piena unificazione nazionale fu
perseguito e raggiunto anche con la
terza guerra d’indipendenza nel 1866 e
a conclusione della guerra 1915-18:
ma irrinunciabile era l’obbiettivo di
dare in tempi non lunghi al nascente
Stato italiano Roma come capitale, la
cui conquista per via militare – fallito
ogni tentativo negoziale – fece
precipitare inevitabilmente il
conflitto con il Papato e la Chiesa.
Ma esso fu avviato a soluzione con
un’intelligenza, moderazione e
capacità di mediazione di cui già lo
Stato liberale diede il segno con la
Legge delle guarentigie nel 1871 e che
– sottoscritti nel 1929 e infine recepiti
in Costituzione i Patti Lateranensi –
sfociò in tempi recenti nella revisione
del Concordato. Si ebbe di mira, da
parte italiana, il fine della laicità dello
Stato e della libertà religiosa e insieme
il graduale superamento di ogni
separazione e contrapposizione tra
laici e cattolici nella vita sociale e
nella vita pubblica.
Un fine, e un traguardo, perseguiti e
pienamente garantiti dalla Costituzione
repubblicana e proiettatisi sempre di
più in un rapporto altamente
costruttivo e in una “collaborazione
per la promozione dell’uomo e il
bene del paese” – anche attraverso il
riconoscimento del ruolo sociale e
pubblico della Chiesa cattolica e,
insieme, nella garanzia del
pluralismo religioso. Questo rapporto
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Il Tempietto
testimonianza il messaggio augurale
indirizzatomi per l’odierno
anniversario – e lo ringrazio – dal
Papa Benedetto XVI. Un messaggio
che sapientemente richiama il
contributo fondamentale del
Cristianesimo alla formazione, nei
secoli, dell’identità italiana, così come
il coinvolgimento di esponenti del
mondo cattolico nella costruzione
dello Stato unitario, fino
all’incancellabile apporto dei cattolici
e della loro scuola di pensiero alla
elaborazione della Costituzione
repubblicana, e al loro successivo
affermarsi nella vita politica, sociale
e civile nazionale.
Ma quante prove superate e quanti
momenti alti vissuti nel corso della
nostra storia potremmo richiamare a
sostegno della fiducia che deve
guidarci di fronte alle sfide di oggi e
del futuro! Anche a voler solo
considerare il periodo successivo alla
sconfitta e al crollo del 1943 e poi alla
Resistenza e alla nascita della
Repubblica, è ancora incancellabile
nell’animo di quanti come me,
giovanissimi, attraversarono quel
passaggio cruciale, la memoria di un
abisso di distruzione e generale
arretramento da cui potevamo temere
di non riuscire a risollevarci.
Eppure l’Italia unita, dopo aver
scongiurato con sapienza politica
rischi di separatismo e di amputazione
del territorio nazionale, riuscì a
rimettersi in piedi. Il primo, e forse
più autentico “miracolo”, fu la
ricostruzione, e quindi – nonostante
aspri conflitti ideologici, politici e
sociali – il balzo in avanti, oltre ogni
previsione, dell’economia italiana, le
cui basi erano state gettate nel primo
cinquantennio di vita dello Stato
nazionale. L’Italia entrò allora a far
parte dell’area dei paesi più
industrializzati e progrediti, nella
quale poté fare ingresso e oggi resta
collocata grazie alla più grande
invenzione storica di cui essa ha
saputo farsi protagonista a partire dagli
anni ‘50 dello scorso secolo:
l’integrazione europea. Quella divenne
ed è anche l’essenziale cerniera di una
sempre più attiva proiezione dell’Italia
nella più vasta comunità transatlantica
e internazionale. La nostra
collocazione convinta, senza riserve,
assertiva e propulsiva nell’Europa
unita, resta la chance più grande di
cui disponiamo per portarci all’altezza
delle sfide, delle opportunità e delle
problematicità della globalizzazione.
Prove egualmente rischiose e difficili
abbiamo dovuto superare, nell’Italia
repubblicana, sul terreno della difesa e
del consolidamento delle istituzioni
democratiche. Mi riferisco a insidie
subdole e penetranti, così come ad
attacchi violenti e diffusi – stragismo e
terrorismo – che non fu facile sventare
e che si riuscì a debellare grazie al
solido ancoraggio della Costituzione e
grazie alla forza di molteplici forme di
partecipazione sociale e politica
democratica; risorse sulle quali sempre
fa affidamento la lotta contro l’ancora
devastante fenomeno della criminalità
organizzata.
In tutte quelle circostanze, ha operato,
e ha deciso a favore del successo, un
forte cemento unitario, impensabile
senza identità nazionale condivisa.
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Il Tempietto
Fattori determinanti di questa nostra
identità italiana sono la lingua e la
cultura, il patrimonio storico-artistico
e storico-naturale: bisognerebbe non
dimenticarsene mai, è lì forse il
principale segreto dell’attrazione e
simpatia che l’Italia suscita nel
mondo. E parlo di espressioni della
cultura e dell’arte italiana anche in
tempi recenti: basti citare il rilancio
nei diversi continenti della nostra
grande, peculiare tradizione musicale,
o il contributo del migliore cinema
italiano nel rappresentare la realtà e
trasmettere l’immagine, ovunque, del
nostro paese.
Ma dell’identità nazionale è
innanzitutto componente primaria il
senso di patria, l’amor di patria emerso
e riemerso tra gli italiani attraverso
vicende anche laceranti e fuorvianti.
Aver riscoperto – dopo il fascismo –
quel valore e farsene banditori non
può esser confuso con qualsiasi
cedimento al nazionalismo. Abbiamo
conosciuto i guasti e pagato i costi
della boria nazionalistica, delle pretese
aggressive verso altri popoli e delle
degenerazioni razzistiche. Ma ce ne
siamo liberati, così come se ne sono
liberati tutti i paesi e i popoli unitisi in
un’Europa senza frontiere, in
un’Europa di pace e cooperazione. E
dunque nessun impaccio è
giustificabile, nessun impaccio può
trattenerci dal manifestare – lo
dobbiamo anche a quanti con la
bandiera tricolore operano e rischiano
la vita nelle missioni internazionali –
la nostra fierezza nazionale, il nostro
attaccamento alla patria italiana, per
tutto quel che di nobile e vitale la
219
nostra nazione ha espresso nel corso
della sua lunga storia. E potremo tanto
meglio manifestare la nostra fierezza
nazionale, quanto più ciascuno di noi
saprà mostrare umiltà nell’assolvere i
propri doveri pubblici, nel servire ad
ogni livello lo Stato e i cittadini.
Infine, non ha nulla di riduttivo il
legare patriottismo e Costituzione,
come feci in quest’Aula in occasione
del 60° anniversario della Carta del
1948. Una Carta che rappresenta
tuttora la valida base del nostro vivere
comune, offrendo – insieme con un
ordinamento riformabile attraverso
sforzi condivisi – un corpo di principii
e di valori in cui tutti possono
riconoscersi perché essi rendono
tangibile e feconda, aprendola al
futuro, l’idea di patria e segnano il
grande quadro regolatore delle libere
battaglie e competizioni politiche,
sociali e civili.
Valgano dunque le celebrazioni del
Centocinquantenario a diffondere e
approfondire tra gli italiani il senso
della missione e dell’unità nazionale:
come appare tanto più necessario
quanto più lucidamente guardiamo al
mondo che ci circonda, con le sue
promesse di futuro migliore e più
giusto e con le sue tante incognite,
anche quelle misteriose e terribili che
ci riserva la natura. Reggeremo – in
questo gran mare aperto – alle prove
che ci attendono, come abbiamo fatto
in momenti cruciali del passato,
perché disponiamo anche oggi di
grandi riserve di risorse umane e
morali. Ma ci riusciremo ad una
condizione: che operi nuovamente un
forte cemento nazionale unitario, non
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Il Tempietto
eroso e dissolto da cieche
partigianerie, da perdite diffuse del
senso del limite e della responsabilità.
Non so quando e come ciò accadrà;
confido che accada; convinciamoci
tutti, nel profondo, che questa è ormai
la condizione della salvezza comune,
del comune progresso.
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Il Tempietto
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“Nella Patria paternità e maternità.
Una storia e un destino comune”
Testo integrale dell’omelia pronunciata il 17 marzo 2011 dal cardinale Angelo Bagnasco,
presidente della Cei, alla Messa celebrata nella Basilica di Santa Maria degli Angeli
S
iamo qui oggi – insieme ai
presidenti delle conferenze
episcopali regionali per elevare a
Dio l’inno di ringraziamento per
l’Italia. Non è retorica, né tantomeno
nostalgia quella che ci muove, ma la
consapevolezza che la Patria che ci ha
generato è una preziosa eredità e
insieme una esigente responsabilità.
L’Eucaristia che stiamo celebrando in
questa Basilica di S. Maria degli
Angeli – uno degli innumerevoli
scrigni di bellezza custoditi dal nostro
Paese – ci invita ad oltrepassare le
contingenze del momento presente e
ad allargare lo sguardo a quella singolare ‘Provvidenza’ che ha condotto
gli italiani a diventare sempre più
consapevoli dell’Italia. Ben prima
dell’Italia in senso stretto, infatti, è
esistita una sotterranea tensione morale e spirituale in cui si sono forgiate la
lingua e progressivamente la
sensibilità e la cultura e che ha
condotto, per vie non sempre
rettilinee, a dar vita all’Italia. Di essa
tutti ci sentiamo oggi orgogliosamente
figli perché a lei tutti dobbiamo gran
parte della nostra identità umana e
religiosa.
‘Signore, la tua bontà dura per sempre’
La Liturgia ci ha posto sulle labbra
queste parole e ancor più nel nostro
cuore: sentimento di lode e di
gratitudine per i doni di Dio, e, tra
questi, la grazia di appartenere ad un
popolo, di avere una storia e un
destino comune, di avere un volto: di
non essere civilmente orfani. La
Patria, nello stesso linguaggio comune,
esprime una paternità, così come la
Madrepatria esprime una maternità: il
popolo che nasce da ideali alti e
comuni, che vive secondo valori nobili
di giustizia e solidarietà, che sviluppa
uno stile di relazioni virtuose, respira
un anima spirituale capace di toccare
le menti e i cuori, è un popolo vivo,
prende volto, assapora e si riconosce
uno, diventa Nazione e Patria, offre
sostanza allo Stato. L’unificazione, come ha scritto il santo Padre, Benedetto
XVI, al Presidente della Repubblica,
‘è il naturale sbocco di una identità
nazionale forte e radicata, sussistente
da tempo’. È questa la vera forza della
società e dello Stato, il tesoro più
grande da custodire con amore e da
trasmettere alle giovani generazioni. Si
è parlato di volto: senza volto infatti
non ci si incontra, non si riesce a
conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a
camminare insieme, a lavorare per gli
stessi obiettivi, ad essere ‘popolo’.
Tale volto rivela l’identità plurale e
variegata della nostra Patria, in cui
convivono peculiarità e tradizioni che
si sviluppano in modo armonico e
solidale, secondo quello che don Luigi
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Il Tempietto
Sturzo chiamava il ‘sano agonismo
della libertà’. E potremmo aggiungere
della operosità.
La religione, in genere, e in Italia, le
comunità cristiane in particolare, sono
state e sono lievito accanto alla gente:
sono prossimità di condivisione e di
speranza evangelica, sorgente
generatrice del senso della vita,
memoria permanente di valori morali. I
100.000 campanili della nostra Italia,
ispirano un sentire comune diffuso che
identifica senza escludere, che fa
riconoscere, avvicina, sollecita il senso
di cordiale appartenenza e di generosa
partecipazione alla comunità cristiana,
alla vita del borgo e del paese, delle
città e delle regioni, dello Stato.
Come non esprimere, poi, affetto ed
ammirazione per Roma, capitale
d’Italia, memoria vivente della nostra
storia plurimillenaria e provvidenziale
sede del Successore di Pietro, centro
della Cattolicità! Significative al
riguardo le parole del cardinale
Giovanni Battista Montini all’indomani
del I centenario dell’Unità:
‘Il nome di Roma appare nelle
intenzioni divine’ (Campidoglio,
10 ottobre 1962).
‘Tutto quanto volete che gli uomini
facciano a voi, anche voi fatelo a loro’
Il Vangelo di oggi evidenzia una delle
grandi regole di ogni comunità, la
legge della relazione. La nostra vera
identità infatti sta nel legame. La beatitudine della vita si pesa nel dare e
nel ricevere amore. A partire da dove?
A partire dalla regola evangelica che
gli esegeti chiamano la regola d’oro:
‘Tutto quello che volete che gli uomini
facciano a voi, questo anche voi fate a
loro’.
Prodigiosa semplificazione della legge
etica. Tutta la legge la imparerò a
partire da ciò che desidero per me: fate
agli altri quello che desiderate per voi.
‘Come agire allora? A partire da me,
ma non per me’ (Martin Buber, Il
cammino dell’uomo). Nessuno è
l’obiettivo di se stesso!
Solo uscendo dalla trappola mortale di
un individualismo che ha mostrato
chiaramente le sue falle e i suoi
inganni, sarà possibile ritrovare un bene più ampio e a misura umana, che
tutti desideriamo.
L’uomo non è una monade gettata per
caso nel caos, un caos abitato da
innumerevoli altre che vagano come
scintille nella notte, ma è relazione,
come Dio-Creatore è relazione di
persone nell’ intimità del suo essere.
Da questa origine deriva nell’uomo un
indirizzo di marcia che, prima che
essere un imperativo morale, è
un’esigenza ontologica, scritta cioè
nelle fibre del suo essere uomo.
Seguire questa direzione profonda
significa per la persona raggiungere se
stessa, compiersi, creare una società
ricca di relazioni positive. Viceversa,
allontanarsi vuol dire negarsi a se
stessa, e perdersi in una libertà innamorata di sé: l’individuo è destinato a
trovarsi solo con se stesso, e la società
che ne consegue sarà tendenzialmente
frammentata e insicura, diventerà
progressivamente paurosa e aggressiva,
ripiegata e autoreferenziale.
Il prendersi in carico gli uni gli altri,
nella quotidianità dei giorni e degli
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Il Tempietto
anni, sarà visto come un insopportabile
attentato alla libertà individuale e alla
felicità, o come un peso insostenibile
per la collettività.
Da questo altare, da dove eleviamo
un’intesa preghiera per il nostro Pese,
la Chiesa rinnova il suo amore per
l’Italia e la gioia di servire il popolo
italiano secondo il Vangelo. Come
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Pastori, al nostro Paese auguriamo di
far proprie le parole del salmo:
‘Rendo grazie al tuo nome,
Signore, per la tua fedeltà e la tua
misericordia. Nel giorno in cui t’ho
invocato, mi hai risposto, hai
accresciuto in me la forza.
Amen’.
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finito di stampare nel mese di dicembre 2011 presso arti grafiche bicidi
via san felice, 37 d – 16138 genova
COPERTINA 12_Layout 1 16/12/11 12.30 Pagina 1
La Rivista vive grazie all’aiuto di persone che apprezzano la cultura.
Alberto Rinaldini
Ferruccio Lombardo
Gian Carlo Giraud
Paola Ruminelli
Salvatore Vento
nr. 12
Redazione:
Pubblicazione a cura del
CGS Il Tempietto
Genova-Sampierdarena
Via Carlo Rolando, 15
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presenza dei religiosi nel sociale
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