COPERTINA 12_Layout 1 16/12/11 12.30 Pagina 1 La Rivista vive grazie all’aiuto di persone che apprezzano la cultura. Alberto Rinaldini Ferruccio Lombardo Gian Carlo Giraud Paola Ruminelli Salvatore Vento nr. 12 Redazione: Pubblicazione a cura del CGS Il Tempietto Genova-Sampierdarena Via Carlo Rolando, 15 www.iltempietto.it 150° di esperienza presenza dei religiosi nel sociale € 8,00 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 1 150° di esperienza Italia presenza dei religiosi nel sociale TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 2 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 3 Indice Presentazione pag. 5 Prima parte – Genova 1. Genova negli ultimi 20 anni – S. Vento » 13 2. Genova: Cultura e potenzialità – R. Carpi » 27 3. Intervista a Repetto presidente della Provincia di Genova » 35 4. Intervista a Luca Borzani – a cura di S. Vento » 41 5. I quaderni del Tempietto - L. Garbato » 49 6. “Tempietto” e “Gazzettino Sampierdarenese” - B. Poggio » 55 7. Dante e Mazzini – L. Beltrami » 63 » 81 Don Bosco e i Salesiani nei 150 anni di vita unitaria » 87 Don Bosco e Genova » 107 3. Don Orione – T. Fognani » 147 Scolopi e Risorgimento in Liguria – D. Casati » 153 Padre Canata – L. Cattanei » 169 1. 10 marzo 2011: presentazione del volume n° 11 della rivista “Il Tempietto” al Ducale » 181 2. 17 Marzo 2011: messaggio del Papa – Napolitano – Bagnasco » 203 Seconda parte – Fare gli Italiani 1. Cattolicità e umanesimo – P. Ruminelli 2. Don Bosco – A. Rinaldini 4. Scolopi Terza parte – Appendice TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 4 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 5 Presentazione Il “Tempietto” sorprende ancora per la passione con cui segue i 150 anni dell’Esperienza Italia. Esce un nuovo volume, il quarto, a conclusione di tre anni di lavoro intenso… un “ricordare per approfondire” in modo “critico e costruttivo", senza sostare solo sui i soliti eroi dei manuali. Un tentativo di ricupero anche del “non detto”. Abbiamo voluto “vederci chiaro”. Il cammino della nostra ricerca. Abbiamo ritrovato (lo diciamo con le parole di Carlo Cardia) “l’idealità e l’eroismo profuso ovunque nella penisola dai giovani, dai volontari, da persone di ogni classe sociale, per raggiungere l’obiettivo unitario”. (1) Abbiamo ritrovato un Garibaldi – oltre la leggenda – eroe romantico che vuole davvero liberare l’amata Italia; abbiamo riscoperto Giuseppe Mazzini, il profeta della nazione Italia; abbiamo incontrato – al di là di ogni uso machiavellico del potere – il ruolo decisivo di Cavour nella guida del processo unitario. Abbiamo per altro assodato quanto scrive nel libro citato Carlo Cardia: “Il Risorgimento non forma una nazione, con relativa cultura, religione, memoria storica, ma unifica una nazione che esiste da secoli, con una storia grande di respiro universale, che conosce e celebra imperatori e condottieri, filosofie scienziati, papi, teologi e santi, che hanno parlato al mondo, agli uomini di tutta la terra, che il mondo ci riconosce e ammira più di quanto riusciamo a fare noi stessi”. (…) Il processo unitario è stato breve e nobile, perché la nazione italiana ha una lunga storia, nessuno po’ negare la sua identità conosciuta in tutto il mondo, essendo la più universale”. (2) Ci siamo imbattuti in luci e ombre di un processo complesso, a volte drammatico, culminato nell’unità politica della penisola, che, se unì gli Italiani in uno Stato, divise a lungo la nazione. Un processo tutto italiano con caratteri originali, tra i quali spicca la moderazione. Il confronto con altri processi unitari ne sottolinea l’unicità: “uno” da millenni, unito politicamente da 150 anni! Alberto Mario Banti, nei suoi recenti studi, scrive di aver voluto trasmettere al lettore la visione di un Risorgimento come «un movimento ampio, ricco, complesso, contraddittorio», che appare «ancora oggi straordinariamente affascinante e degno di essere attentamente studiato, piuttosto che acriticamente TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 6 6 Il Tempietto giudicato, enfaticamente esaltato o liquidato senza appello». È l’orizzonte in cui rientra la Rivista, ma tanti sentieri restano ancora inesplorati. Condividiamo quanto scrive Mimmo Muolo nell’articolo “La fede e il Risorgimento, “capolavoro” dell’800”: “Il Risorgimento era e resta una pagina luminosa nella storia d’Italia, da approfondire e fare conoscere ai più giovani, specie in questo anno di celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia. Una pagina in cui i cattolici hanno avuto un ruolo determinante e i laici non furono così avversi alla Chiesa come qualcuno crede”. A sostenerlo – aggiunge – è ancora Carlo Cardia nel suo libro “Risorgimento e religione”. Il 24 ottobre in occasione della presentazione del libro, davanti al Presidente Napoletano, Carlo Cardia ha convenuto con Giuliano Amato su un punto che bene esprime il cammino di ricerca fatto dai curatori della Rivista “Il Tempietto” in questi ultimi tre anni. “Al di là delle note dispute – ha fatto notare Amato – i cattolici condivisero profondamente la vicenda unitaria del regno. E, in fondo, pur con le dovute differenze di stile, da una parte e dall’altra del Tevere sempre si lavorò per non rendere irreversibile la frattura”. Nel Risorgimento – commenta Cardia – “l’Italia riscopre le proprie virtù di sempre; l’inclinazione ad essere moderata, il rifiuto della violenza sistematica, l’ascolto delle ragioni degli altri, la capacità di vincere senza dominare. E questo perché in Italia non abbiamo avuto né una Vandea, né un movimento come l’Action Francaise”. (…) “durante il Risorgimento è nato quel pluralismo cattolico che è stato garanzia di un cammino senza guerre di religione”. (…) Silvio Pellico nella sua opera parla poco di politica. Molto di più della forza della fede che l’ha sostenuto durante la prigionia e così commuove l’Europa. Ciro Menotti, nell’ultima lettera alla moglie, le dà appuntamento nei luoghi dell’eternità e le raccomanda di aver fede in Dio. Tra i martiri di Belfiore ci sono anche alcuni sacerdoti torturati e lo stesso itinerario dei Mille si potrebbe riscrivere attraverso le visite di Garibaldi ai santuari e alle cattedrali, dove venne ricevuto da molti vescovi”. In sostanza – è la tesi di Cardia – “i cattolici parteciparono attivamente al Risorgimento e la Chiesa fu vicina all’Italia in formazione perché – come ha scritto Benedetto XVI nel messaggio per i 150 anni dell’Unità d’Italia – l’unità nazionale garantita dai valori cristiani è ben più antica dello Stato unitario”. (3) Anche dopo il 1870 alcuni ponti – pur nel clima teso – non si interruppero mai. Il cattolicesimo restò infatti “religione di Stato” – anche se in forma diversa – fino alla riforma del Concordato del 1984. A conferma riportiamo quanto scrive di recente Andrea Riccardi: “La Chiesa è a suo agio nell’Italia unita, anzi si TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 7 Il Tempietto 7 è ristrutturata nel conflitto con il potere politico. Giovanni Battista Montini è il principale teorico della ricomposizione nazionale. Paolo VI scrive al presidente Saragat che il centenario del 1870 “non ci trova né immemori né indifferenti”. Il 20 settembre (festa nazionale finché il fascismo non l’abolì nel clima della Conciliazione), il papa afferma che si deve saggiamente distinguere le due sfere dell’ordine umano, temporale e civile da quella spirituale e religiosa”. Quel giorno, secondo un programma concordato tra Vaticano e Quirinale, il cardinal vicario Dell’Acqua celebra la Messa a Porta Pia, cui assiste Saragat. Il cardinale guarda al 1870 “senza alcun senso di rimpianto”. Sale al Campidoglio e, di fronte al capo dello Stato, ripete le parole quarantottesche di Pio IX: “Dal colle Capitolino io dico: Gran Dio, benedite l’Italia”. (4) A distanza di tempo, ci si accorge che tutti concorsero al “capolavoro dell’800”: Fede e Risorgimento": vincitori e vinti, silenziosi e indifferenti. Non si può parlare di assenza dei cattolici. Nella memoria comune poi non va considerato, nel mondo cattolico, solo l’apporto istituzionale della Chiesa con le sue diocesi, parrocchie e movimenti organizzati, ma anche l’opera caritativa, civile e sociale delle tante congregazioni religiose sorte durante 150 anni di vita unitaria. Nel silenzio queste forme di vita religiosa fortemente impegnate nel sociale aiutarono gli Italiani a sentirsi italiani uniti in un solo Stato. La novità del volume? “Leggere” l’Esperienza Italia a partire dal popolo, nel quale operano le nuove congregazioni religiose ed evidenziare il loro apporto specifico nel “fare gli Italiani”. Una finestra dunque sul mondo del dinamismo caritativo che opera nel popolo contemporaneamente al processo statuale unitario. Un campo quasi inesplorato dalla storiografia e scarsamente presente nelle celebrazioni ufficiali dei 150 anni di Unità d’Italia. “La storiografia liberale risorgimentale – a parere del prof. Tosti – ha più volte sottolineato il contributo del clero e dei religiosi alle battaglie risorgimentali; ha, per esempio, riferito in modo dettagliato dei religiosi che nel Meridione appoggiarono l’impresa di Garibaldi, oppure di quei preti e frati che si misero alla testa delle insurrezioni contro il vecchio regime. Senza sottovalutare l’adesione alle idee liberali manifestate all’interno di alcuni ordini, in particolare Scolopi e Barnabiti, in realtà si tratta di una posizione che intendeva esaltare il contributo dei singoli, la cui posizione spesso era piuttosto la conseguenza del disordine dei tempi, per far emergere e deprecare la posizione della gerarchia, schierata invece in modo TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 8 8 Il Tempietto compatto non contro l’Unità ma piuttosto contro la Rivoluzione, erede dello spirito dell’Ottantanove”. (5) L’apporto dei religiosi, recentemente, è stato evidenziato non solo da studiosi delle varie congregazioni religiose. La Rivista riserva particolare attenzione a don Bosco e ai Salesiani. Il privilegiare Don Bosco è giustificato dall’appartenenza del “Centro Culturale” all’Opera don Bosco di Sampierdarena. Galli Della Loggia ammette che i cattolici italiani non hanno contrastato l’unificazione ma rigetta l’ipotesi di un cattolicesimo che si sente protagonista dello Stato unitario. Concede solo che i cattolici non hanno contribuito all’unificazione del Paese, ma all’amalgama che avvenne dopo la breccia di porta Pia. Non hanno fatto l’Italia ma hanno fatto gli Italiani: “Ufficialmente la Chiesa era ostile, ma – aggiunge – il Pellico e Berchet, Manzoni e Rosmini aiutarono a costruire l’identità civile e spirituale del Paese, erodendo le basi della stessa opposizione cattolica. Gioberti introdusse il concetto del rinnovamento: laddove i risorgimentali vedevano nel passato solo catastrofi e vergogne, lui legò il presente e il futuro alla tradizione”. D’accordo, ma l’illustre studioso sorvola sull’importanza dell’opera caritativa sociale iniziata dai “santi sociali” di Torino (Cottolengo – Cafasso e don Bosco). Non accenna a don Bosco che opera – con l’Oratorio salesiano – in modo del tutto originale per le giovani generazioni in difficoltà, a partire dal 1841. Sarebbe interessante rilevare anche la divisione all’interno degli ordini religiosi tra anti-unitari come i Redentoristi e i Gesuiti (con qualche nobile eccezione come Luigi Tapparelli d’Azeglio), e altri favorevoli all’unità: Oratoriani di San Filippo Neri, i Teatini, gli Scolopi e, a livello più popolare, i Francescani. Evidente il contrasto tra Scolopi e Gesuiti a Genova. Lo insegna la storica Bianca Montale anche in un articolo del n. 11 di questa Rivista. Da che parte stanno don Bosco e i Salesiani? A livello operativo sono per l’Italia: hanno dato un contributo educativo che nei 150 anni ha raggiunto moltissimi ragazzi e ragazze di tutte le regioni del Paese, offrendo loro una formazione che prepara alla vita e ne fa “cittadini onesti e cristiani convinti”. È un operare per l’italianità che risulta ancor più evidente tra i nostri emigranti nelle due Americhe. Valga per tutte l’esperienza gloriosa della Parrocchia nazionale italiana di San Francisco, California, ben documentata nel volume del prof. Francesco Motto “Vita e azione della parrocchia nazionale salesiana dei SS. Pietro e Paolo a San sancisco (1897-1930). Molto significativo il TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 9 Il Tempietto 9 sottotitolo: “Da colonia di paesani a comunità di Italiani”. (Las Roma, 2010). Un volume che allarga il cuore: i Salesiani lungo un trentennio animano una comunità che si trasforma da “paesani spaesati” in comunità d’Italiani; da gruppi che si relazionavano solo con chi usa lo stesso dialetto a little Italy, orgogliosa della propria italianità, sicura delle proprie capacità e genialità. In breve da paesani – disprezzati, salvo poche eccezioni – a comunità italiana, da comunità italiana a comunità italo- americana. Attraverso la formazione cristiana i Salesiani si fecero immigrati tra gli immigrati per conoscerne i problemi e cercare insieme una qualche risposta: problemi di lavoro, di conoscenza dell’inglese e voglia di superare lo stato d’inferiorità rispetto alle altre etnie. Sorsero allora corsi di inglese e corsi di italiano per non dimenticare (o imparare) la lingua patria. La parrocchia casa degli Italiani coinvolge tutti… attirandosi la simpatia, nonostante le prime difficoltà, anche dei non credenti, massoni, garibaldini, anticlericali. Le onde della sofferenza della Chiesa in Italia lambivano anche gli Italiani sparsi nell’intera città di S. Francisco. Comparivano le stesse divisioni della madre patria: lo scontro tra Chiesa e Stato e, nell’ultimo decennio, tra fascismo e antifascismo. I Salesiani difendevano la Chiesa in tutti i modi e celebravano tutte le ricorrenze patrie, ma vogavano lontano dai partiti. Sulle orme del fondatore don Bosco la loro opera educativa e pastorale tendeva a “fare buoni cristiani e onesti cittadini”. In breve, condividevano con gli emigrati attese e speranze e riscoprivano quell’identità che nasce dalla comune fede cattolica e dalla millenaria civiltà italiana. Adesione sincera dei cattolici alle celebrazioni dell’Unità d’Italia È stato scritto recentemente: “Mentre il mondo politico italiano si spaccava negli scorsi mesi sull’opportunità e i modi con cui celebrare i 150 anni dell’Unità nazionale, dando vita a un variegato (e spesso desolante) panorama di posizioni nei confronti dell’epopea nazionale che ha spaziato dagli scettici agli entusiasti, dai “tiepidi” e cauti estimatori del Risorgimento ai suoi più feroci detrattori, la Chiesa cattolica ha palesato fin da subito un atteggiamento di totale supporto alle celebrazioni e alla causa dell’Unità italiana. Ha partecipato, ha offerto benedizioni e si è recata in pellegrinaggio nei luoghi simbolo della religione civile della nazione, nei momenti e negli spazi nati per celebrare la storia e l’unità d’Italia. Lo ha fatto per ribadire l’importanza dell’identità cattolica in uno scenario politico e civile sempre più sgretolato e in cui singole identità antagoniste si contrappongono le une alle altre. Il cattolicesimo proposto dunque come fondamentale TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 10 10 Il Tempietto (ultimo?) elemento unificante della nazione da Bolzano a Siracusa, dai “movimenti” ai margini della sinistra alle frange più conservatrici della destra. Un cattolicesimo che stempera gli aspetti dottrinari in un più o meno evanescente sentimento nazionale rispetto al quale la Chiesa cattolica continuerebbe a svolgere il ruolo di guida morale, di portatrice di valori condivisi e di un modello etico avvertito da una parte dell’opinione pubblica sempre più come necessario”. (5) Nel nostro studio tutto questo ha trovato conferma. E nella celebrazione del 150° i cattolici sono apparsi strenui difensori dell’unità del Paese, unità conquistata con il sacrificio di tanti e con le sofferenze dei credenti. E siamo convinti, seguendo Sant’Agostino, che l’educazione cristiana costruendo “buoni cristiani” costruisce anche “buoni cittadini” e la ragione e la morale naturale non riescono, senza il cristianesimo, a costruire la città terrena. Le tre sezioni della Rivista La prima è dedicata a Genova le cui dinamiche sociali e culturali hanno una valenza nazionale e pongono interrogativi che riguardano il futuro delle città d’antica industrializzazione. Nello sfondo degli ultimi vent’anni della storia di Genova si innestano tre interventi: l’intervista al Presidente della provincia Alessandro Repetto che, alla fine del suo secondo mandato, riflette sulle trasformazioni della nostra città; l’intervista a Luca Borzani, Presidente della Fondazione Palazzo Ducale, che ricostruisce la storia di questa importante istituzione culturale e dà indicazioni sul futuro; l’intervento di Renato Carpi, attento osservatore e protagonista delle vicende culturali della nostra città. Il contributo di Benito Poggio e Luigi Garbato si concentrano invece sull’attività culturale più che trentennale a Sampierdarena del Centro Culturale “Il Tempietto” del don Bosco… un modo di documentare la vivacità culturale ed educativa dei Salesiani, presenti nella nostra città da 140 anni. Il tema su Don Bosco e Genova viene trattato nella seconda sezione. Conclude questa sezione l’interveto di Luca Beltrami con “l’amor patrio di Dante negli scritti letterari del Mazzini”. La seconda è dedicata al ruolo svolto dagli ordini religiosi e dalle congregazioni religiose nel “fare gli Italiani”. Si evidenzia in particolare l’apporto di don Bosco e i Salesiani nei 150 anni di unità del Bel Paese, nel mondo dell’ emigrazione e in Genova. Un cenno a don Orione e alla presenza degli Scolopi in Liguria nel Risorgimento. Avremmo voluto ascoltare tante altre voci… TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 11 Il Tempietto 11 La terza, l’appendice, raccoglie la nostra tavola rotonda al Ducale del 10 marzo del 2011, il discorso del Presidente della Repubblica in Campidoglio, il saluto di Benedetto XVI al nostro Presidente della Repebblica e l’omelia del cardinale Bagnasco. Una riflessione conclusiva Proprio in quest’anniversario due minacce incombono sul Bel Paese. L’Italia, opera di giovani provenienti da tutte le regioni e sorretta dalla sua forte religiosità, non può essere menomata da ideologie secessioniste mosse solo dall’interesse particolare. La voce secessione da fine anni ‘80 carsicamene riemerge in quel Nord che tanto fece, nell’800, per unire il paese. Bergamo, come tutti sanno, è la città che ha dato il maggior numero di Garibaldini nel 1860. Allora era l’amor patrio a prevalere, oggi “il particolare utile”, che in questo inizio di dicembre si modula nel grido forsennato: “Indipendenza”. Con la Costituzione rispondiamo l’Italia è “una e indivisibile"”! L’attuale crisi globale, infine, non generata da noi ma subita da noi, mette a dura prova il Paese: nel chiudersi del 150° dell’unità, l’Italia rischia il più clamoroso fallimento “economico e politico” che si potesse immaginare. A martellanti scadenze la minaccia si fa sempre più insistente da metà 2011. Ci sarà una via d’uscita? Pensiamo a quella seguita dai nostri padri nel 1945, nel secondo dopo la guerra. Il bene della collettività vide alleate forze politiche lontanissime tra loro… e l’Italia risorse e fu tra i paesi fondatori dell’Unione Europea. L’attuale crisi potrebbe portare al collasso l’Italia e insieme anche l’Unione! Potremo attenderci un colpo di reni dei nostri concittadini e “rinascere” o “risorgere”? La via del “governo d’impegno nazionale” del prof. Monti è sulla buona strada… Alberto Rinaldini TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 12 12 Il Tempietto Note 1. Carlo Cardia, Risorgimento e Religione, G. Giappichelli Editore, 2011, prima pagina dell’Introduzione, pag. V. 2. ivi pag. V. 3. Avvenire 25/X/ 2011. 4. Andrea Riccardi, I Cattoici e il trauma dell’Unità, Avvenire, Agorà Idee, 30 ottobre 2011 5. Intervista al prof. MarioTosti del Dipartimento di Scienze umane e della Formazione della Università di Perugina, nella giornata di studio presso il Convento San Francesco di Firenze “I Francescani e l’unità d’Italia”. 6. Articolo in Zenit della seconda metà di ottobre. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 13 Salvatore Vento sociologo e pubblicista Genova è destinata ad essere relegata a zona residenziale Secondo il PUC (Piano urbanistico comunale) che è la nuova denominazione del Piano Regolatore, il futuro dello sviluppo economico di Genova è centrato su tre grandi direttrici: l’economia del mare e del porto, l’economia dell’alta tecnologia industriale, l’economia della cultura e del turismo. Ciò presuppone un cambiamento di mentalità che dovrà sempre di più poggiare sulla capacità di attrarre risorse esterne, ogni risultato va conquistato sul campo perché tutte le grandi metropoli si pongono obiettivi analoghi. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 14 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 15 Il Tempietto Genova nell’ultimo ventennio Salvatore Vento Premessa Il discorso sulle città è ritornato ad avere una sua centralità economica, culturale e politica. A partire dal 1993, l’elezione diretta del sindaco ha dato nuovo slancio nella formazione dell’immagine del primo cittadino. I discorsi degli urbanisti, dopo le tante teorie sulla fine della città, hanno raggiunto alcuni livelli di condivisione: severa critica agli eccessi di urbanizzazione che provocano disservizi e caos nella mobilità, centralità della qualità della vita, spazi pubblici vissuti e nei quali costruire relazioni e contribuire alla formazione di elementi di comunità, estensione del verde urbano, valorizzazione del contesto storico ambientale (dalla produzione alla cultura). In poche parole l’urbanistica sostenibile. Non mancano, come sempre accade, evidenti contraddizioni. Da una parte ha avuto molto successo il concetto di Marc Augé sui “non luoghi” identificati nei grandi centri commerciali o negli aeroporti frequentati da una folla anonima e di passaggio; dall’altra, l’inserimento all’interno di questi non luoghi di elementi che favoriscono la socialità (parchi giochi per bambini, relax per gli anziani nell’inverno per riscaldarsi, in estate per rinfrescarsi, cinema, teatri) e addirittura la costruzione di vere e proprie città 15 intorno ai grandi e moderni aeroporti (aerotropoli) come a Heathrow. Se prima le città crescevano lungo i fiumi, oggi cresceranno lungo gli aeroporti! Vedi Alain De Botton (Una settimana all’aeroporto, Guanda Edizioni). Le città, dice Renzo Piano, devono implodere e crescere in altezza e non esplodere ed espandersi a dismisura; il suo nuovo grattacielo londinese sarà di 310 metri con 87 piani (non soli uffici, ma abitazioni, teatro, ristoranti). Vi lavorano già 1200 operai e dovrà essere il simbolo delle Olimpiade del 2012. Il dato interessante è che ci saranno soltanto 42 posti auto perche è facilmente raggiungibile da diversi mezzi di trasporto pubblico (metropolitana, autobus). Il passaggio delle “città d’antica industrializzazione” a “città post-industriale” è stato generalmente contrassegnato dallo sviluppo di attività definibili di “terziario avanzato” con una rilevante centralità delle più svariate espressioni culturali (cinema, musei, teatri, pittura, scultura, video installazioni, musica, spettacoli). La città di NewcastleGateshead sul fiume Tyne nel nord est dell’Inghilterra, da antico polo cantieristico e del carbone, si è trasformata in città d’arte e di musica frequentata dai giovani. Negli Usa, Detroit, la città dell’auto per eccellenza, è passata dai 2 milioni di abitanti negli anni ‘50 agli 800mila attuali: quasi il 28% di case vuote, ora il sindaco si propone di abbattere molte di queste case e raggruppare la popolazione in un contesto più umano con la presenza di giardini e di verde. Jean Nouvel (l’architetto francese che TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 16 16 Il Tempietto ha progettato il nuovo padiglione B della Fiera genovese) nel progetto per il riuso dell’area Renault dell’Ile Seguin, chiusa nel 1992 prevede di ospitare gallerie d’arte, auditorium, residenze temporanee per artisti. Il contesto storico del mutamento - A partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si verifica un processo di radicale mutamento degli assetti produttivi (concentrazioni, fusioni, acquisizioni internazionali) e della composizione sociale. In particolare tale processo colpisce proprio quei settori economici – impiantistica, siderurgia, elettromeccanica, cantieristica, portualità – che avevano caratterizzato l’immagine di Genova, città del triangolo industriale. Ognuna di queste aree industriali condizionava non solo la vita del quartiere di appartenenza, ma dell’intera città. La “classe operaia” non era un’invenzione ideologica, ma affondava le sue radici nella realtà sociale e ne plasmava lo sviluppo politico e culturale. Erano le aziende a partecipazione statale, producevano beni industriali (e non beni di consumo), occupavano l’80% degli addetti nell’industria e il 54% lavorava in imprese con oltre 500 dipendenti (1960). Un livello di concentrazione superiore a tutte le altre province italiane. In tutta la regione gli addetti dell’IRI occupavano il 25% del totale nazionale che aumentava ulteriormente nel comparto siderurgico (26%) e nell’industria meccanica e cantieristica (36%). In questo tipo di industrie non c’era la catena di montaggio taylorfordistica con una massa di “operai comuni”, come nel classico esempio della Fiat di Torino, ma operai (qualificati e specializzati) che si formavano come apprendisti nella scuola aziendale e poi continuavano a lavorare nella stessa fabbrica fino all’età della pensione. Non era neanche diffusa l’impresa privata d’origine familiare dove ad un certo punto del ciclo di vita dell’azienda si pone il problema della presenza di un manager in grado di sostituire l’imprenditorefondatore. Genova, all’interno del “triangolo industriale”, si presentava come portatrice di questa precisa identità. Tale componente del lavoro industriale aveva le basi in due aziende particolari: Ansaldo e San Giorgio, localizzate nel tessuto urbano cittadino e le loro continue trasformazioni segnavano i tempi e la cultura della città stessa. In un’area territoriale piuttosto ristretta – il ponente genovese, da Sampierdarena a Cornigliano/Campi e Sestri ponente – si addensava il cuore della tradizione industriale (Ansaldo meccanico, Italsider, Cantiere navale, Asgen, San Giorgio); in centro una grande azienda impiantistica, Italimpianti. L’unica azienda privata di grandi dimensioni era la Marconi di Sestri ponente (oltre 2.000 dip.), che poi, in pieno clima di privatizzazione, nell’estate del 2002, una parte di essa (l’elettronica per la difesa della Marconi Mobile con circa 800 dip.), sarà, paradossalmente, acquisita proprio da Finmeccanica. Come si può constatare si trattava di una realtà socio culturale forte che nel decennio successivo, quello degli anni ‘70, sarà determinante nel raggiungimento di importanti conquiste TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 17 Il Tempietto a livello nazionale: l’inquadramento unico operai-impiegati, le “150 ore” di diritto allo studio, le riforme sociali in diversi settori (sanità, scuola, casa). E soprattutto sarà capace di darsi una rappresentanza sindacale unitaria (la Flm tra i metalmeccanici e la Federazione Cgil Cisl Uil). Negli anni ‘80, come affermato all’inizio, comincia il declino, Genova subisce duri colpi, ma il simbolo più eloquente è quello della notte del capodanno 1982 rappresentato dalla visione del porto deserto quando le navi ormeggiate sembrano un ricordo del passato, non emanano nessuna luce, non si leva nessuna sirena. Una notte di San Silvestro all’insegna del silenzio. L’annuncio di pesanti ristrutturazioni, proprio nei suoi storici punti di forza, provoca smarrimento; progressivamente vengono a mancare i riferimenti tradizionali e all’orizzonte non emergono alternative in grado di compensare le perdite. Si diffonde la conflittualità e, ancora una volta, scendono ripetutamente in piazza i lavoratori delle grandi fabbriche. In genere i lunghi cortei sindacali partono dal cantiere navale di Sestri Ponente, arrivano in piazza Montano a Sampierdarena dove si congiungono con gli operai dell’Ansaldo, proseguono per via Cantore e si concludono in piazza De Ferrari col comizio dei rappresentanti sindacali. Per le caratteristiche dell’industria genovese l’impatto con le politiche governative è immediato. Si teme la scomparsa dell’Italcantieri, la fine del ciclo integrale dell’Italsider con la chiusura della parte a caldo, il 17 ridimensionamento dell’Ansaldo. Il 29 settembre 1983 lo sciopero generale, proclamato col motto “Perché Genova viva”, ottiene l’adesione di tutte le forze sociali ed economiche cittadine; si tratta dell’ultima grande manifestazione della storia sociale genovese, destinata a segnare un’epoca. Le trattative in corso tra governo e parti sociali vengono sovraccaricate di significati politici e ideologici; i problemi dell’industria genovese si intrecciano con quelli delle discussioni nazionali sulle scelte di politica economica. Il 1983 è l’anno dei convegni sul futuro di Genova e della Liguria. Vi partecipano ministri del governo e manager dell’industria; il primo, alla fine di febbraio, viene effettuato dal Psi alla Fiera del Mare: sia il Presidente della Regione (Rinaldo Magnani), che il sindaco di Genova (Fulvio Cerofolini) e il Presidente del Consorzio del porto (Giuseppe Dagnino) appartengono al Psi. Il ministro delle Partecipazioni statali Gianni De Michelis, anch’egli socialista, prevede un futuro con meno industria e afferma che qui, più che altrove, si governa il cambiamento della società diventata “post industriale”, un termine quest’ultimo che nessuno vuol sentire pronunciare. Conclude il convegno il segretario nazionale Bettino Craxi che fra alcuni mesi diventerà Presidente del Consiglio. In questo contesto s’inquadrano le decisioni dell’Iri di apportare radicali tagli ai settori storici (in particolare la siderurgia) e di sviluppare l’elettronica. Decisioni che, per la prima volta, vengono esposte dal suo Presidente, Romano Prodi, al convegno del Pci del mese di novembre TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 18 18 Il Tempietto (Genova: frontiera tra recessione e sviluppo) svoltosi sempre all’Auditorium della Fiera del mare. Il 21 gennaio 1984 con una lettera aperta, apparsa sulla stampa locale, il presidente dell’IRI rilancia l’appello ai genovesi: siderurgia e nel porto, settori questi dove si concentra oltre il 65% dei prepensionamenti; tra l’‘81 e l’‘86 in Liguria ne abbiamo circa 11mila. Tommaso Giglio, direttore de “Il Secolo XIX”, dà voce alle diffuse frustrazioni presenti in città: “L’IRI non può essere il solo interlocutore per Genova. La nostra chiara e pronta disponibilità non deve distogliere le forze politiche e sociali locali dal ricercare altri interlocutori per la risoluzione dei problemi di Genova”. “Si vive ancora adagiati sui vecchi schemi, quando tutto andava bene e bastava chiedere a Roma per ottenere. Adesso i legami con il centro politico del Paese sono molto più labili, non basta più la delegazione che si reca a Roma a chiedere, non è più sufficiente la politica della protesta. Bisogna avere la capacità di utilizzare le grandi doti di specializzazione che hanno gli operai, i tecnici, gli intellettuali di questa regione. È tenendo conto di questa capacità che Genova è stata scelta come sede della futura fabbrica automatica. Abbiamo una tradizione culturale, tecnica, commerciale, che solo l’inerzia e una mentalità non adeguata ai tempi può rendere sterile. Non possiamo permetterci di sperperare un patrimonio di questo genere”. (7/10/84) In ogni incontro sui temi del futuro dell’industria emergono accese discussioni tra chi si schiera decisamente a favore della nuova era dell’elettronica e chi sostiene la necessità di mantenere il nucleo industriale manifatturiero; i riflessi di tali ragionamenti, non privi di contraddizioni e di un certo manicheismo, significano per Genova intravvedere un futuro di città del “terziario avanzato” contrapposto a quello di città dell’industria matura, ormai in irreversibile declino. Nei primi anni ‘80 la proposta di chiudere la parte più inquinante dell’Italsider (quella a caldo) viene giudicata un “attacco alla classe operaia”, mentre nel decennio successivo saranno gli stessi cittadini di Cornigliano a volerne la chiusura per risanare l’ambiente del territorio. Nonostante le lotte e le mobilitazioni cittadine i processi di ristrutturazione, come negli anni ‘50, proseguono il loro percorso grazie all’uso massiccio degli ammortizzatori sociali, soprattutto in Anche all’interno dello schieramento pro-elettronica vi sono diverse idee sulla fabbrica automatica. Nel novembre 1983, l’Iri, per attuare una maggior sinergia nel comparto elettronico, avvia la costituzione, nell’ambito della Stet, del “Raggruppamento Selenia Elsag” (composto anche da Ansaldo Elettronica Industriale). Un’aggregazione complessiva di 13mila dipendenti e 18 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 19 Il Tempietto insediamenti industriali distribuiti in sette regioni italiane. Responsabile della gestione operativa è Luigi Stringa, Amministratore delegato di Selenia (società capofila) e di Elsag. Ad esso viene affidata la missione dell’automazione di fabbrica con la l’assegnazione ad Elsag della leadership del settore. Sul versante della riorganizzazione interna, nel 1984, viene costituita Esacontrol con la missione di supervisione e controllo dei processi industriali continui e in cui confluiscono, da Ansaldo, la “Elettronica Industriale” ed il “Biomedicale” e da Elsag la “Divisione Sistemi di Regolazione” che portava in dote la licenza Bailey Controls. Responsabile di Esacontrol è nominato Alberto Lina e per il Biomedicale Carlo Castellano; in seguito verrà scorporata la Divisione biomedicale che fusa con Ote Biomedica di Firenze costituirà la nuova società Esaote Biomedica che ha la missione di produrre e commercializzare apparecchiature per la diagnostica per immagini e la terapia strumentale medica. Nel 1988 Elsag dalla Stet passa definitivamente nel gruppo Finmeccanica e l’anno successivo, con l’acquisizione della statunitense Bailey Controls Company (leader mondiale nel settore dell’automazione dei processi industriali continui), sarà protagonista del più grande processo di penetrazione internazionale mai tentato da un’azienda italiana. Dal 1980 al 1985 l’industria perde il 25,4% degli addetti. Dal punto di vista quantitativo la maggioranza dei lavoratori (133mila unità) in provincia di Genova è impiegata in piccole unità 19 produttive con scarsa tutela sindacale, ma il peso politico della grande fabbrica (84mila unità) ha sempre condizionato l’azione del sindacato, dei partiti politici e delle istituzioni. Dal punto di vista socio culturale le caratteristiche della generazione dei lavoratori genovesi del dopoguerra possono essere così riassunte: provenienza famigliare operaia, si entrava in fabbrica a 14/16 anni e si usciva all’età della pensione, alto livello di professionalità, orgoglio del proprio saper fare, forte identità collettiva, ruolo autorevole e politicamente significativo dell’organizzazione sindacale (iscrizioni ai sindacati intorno al 60%-80%), stabile orientamento politico (nei quartieri popolari del Ponente e della Valpolcevera il PCI, in tutti gli anni ‘70, otteneva la maggioranza assoluta dei voti (gli iscritti aderenti alla Federazione genovese erano circa 40.000), rapporto continuo con il governo e le politiche industriali, immediato impatto con la politica; dimensione-mondo si costruivano prodotti e impianti industriali venduti in tutto il mondo (turbine, centrali elettriche, acciaierie, macchine utensili, navi, locomotori ferroviari, sistemi di automazione). La presenza del mare, storicamente, è stato il luogo privilegiato di localizzazione industriale (cantieristica, portualità, siderurgia, marineria). Ciò non significa che i lavoratori costituissero una classe sociale omogenea: le differenze erano tante (in primo luogo tra operai dell’industria e portuali) e poi all’interno della stessa industria tra operai e tecnici, tra uomini e donne, ma TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 20 20 Il Tempietto esisteva un quadro valoriale di riferimento, un contesto che favoriva il raggiungimento di livelli di mediazione superiori. Per i metalmeccanici, la nascita della FLM rappresentò la punta più dinamica di questo processo. Il dato paradossale è che proprio Genova, apparentemente chiusa nelle sue rigidità ideologiche, sperimenta processi di privatizzazione da far invidia a qualsiasi città liberista. Ma non subito, occorrono anni. Infatti fino a metà degli anni ‘80 le lotte sono caratterizzate dalla difesa dell’esistente, compresa l’area a caldo della siderurgia. Nel 1972 al momento della costituzione della FLM gli iscritti ai tre sindacati dei metalmeccanici sono così distribuiti FIOM CGIL: 17.264 pari al 53% FIM CISL: 11.193 pari al 36% UILM UIL: 3.324 pari al 11% Totale iscritti FLM 31.781 Tutti i processi d’innovazione tecnologica e organizzativa si sviluppano all’interno del tessuto produttivo delle partecipazioni statali. Da Ansaldo, San Giorgio, Italsider sono nate: elettronica e automazione industriale (il primo nucleo biomedicale nasce come Divisione Ansaldo), ICT (information and communication technology), impiantistica. Ma la mondializzazione dell’economia non da tregua: a fine anni ‘80 nel comparto elettromeccanico nel quale opera Ansaldo, il mercato del turbogas è dominato da tre competitori (General Electric, Siemens, Alsthom) che si spartiscono circa il 90% degli ordini mondiali. Gli anni ‘90 Nel 1992, secondo una ricerca sui giovani lavoratori di 18-29 anni di tutti i settori, effettuata da Maria Teresa Torti e commissionata dalla Cisl, essi risultavano molto attaccati alla stabilità del posto di lavoro e al luogo di residenza. Il 64% degli intervistati pur essendo iscritti ai sindacati davano più importanza alla capacità individuale di contrattare la propria condizione che non all’azione collettiva perché convinti che la retribuzione doveva essere correlata con la professionalità posseduta e il rendimento. In questo modo appariva tramontata l’epoca dell’egualitarismo degli anni ‘70 (ricordo la battaglia sindacale per l’inquadramento unico e per l’unificazione del punto di contingenza nel 1975). Non sorprende l’affermazione del merito e della professionalità che, come abbiamo visto, è stata la caratteristica prevalente dell’operaio professionalizzato genovese. La differenza, di vera rottura col passato, consiste invece nella diffidenza o sfiducia dell’azione collettiva. L’iscrizione al sindacato diventa sempre più una scelta strumentale e sempre meno una scelta valoriale. Un atteggiamento che va di pari passo con l’orientamento strumentale del lavoro (come opportunità di reddito e di sopravvivenza, per vivere si deve pur lavorare). Comunque, il 59% del campione è abbastanza soddisfatto (l’8% molto soddisfatto) e il 27% insoddisfatto. Una situazione di disincanto assoluto. Il contesto genovese del periodo era contrassegnato da un diffuso pessimismo dovuto alle ristrutturazione dell’apparato produttivo, al senso di smarrimento TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 21 Il Tempietto della generazione dei padri, quella dei cinquantenni protagonisti della storia sociale genovese. Il giudizio sulla politica per il 55% era fortemente negativo. La generazione dei giovani degli anni ‘90 è la prima a vivere e lavorare in una città dove sono crollate le rendite di posizione del passato, ha ereditato modelli culturali basati sul posto fisso quale principale componente di formazione identitaria. A metà degli anni ‘90 (1994-96) si porta a compimento l’annunciata privatizzazione delle acciaierie di Cornigliano con l’ingresso del gruppo Riva, la privatizzazione di Esaotebiomedica (proveniente dal nucleo di elettronica industriale di Ansaldo) tramite un originale processo di management by out diretto da Carlo Castellano (i manager che acquistano la maggioranza dell’azienda) e lo smembramento di Italimpianti in tre unità. Italimpianti si era distinta per la costruzione di impianti industriali (in particolare impianti siderurgici) in tutto il mondo e per un sistema di relazioni industriali moderno. Gli anni ‘90 si concludono con l’ennesima ristrutturazione delle aziende Finmeccanica: chiusura sede direzionale Ansaldo di Piazza Carignano, vendita di Elsag Bailey e di altre aziende del gruppo Ansaldo. Sul versante portuale abbiamo la legge 84/1994 di liberalizzazioni delle attività portuali, ma già il Piano strategico del CAP del 1990 aveva avviato il processo di privatizzazione delle banchine del porto (i terminalisti). Nello stesso anno diventa operativo il Nuovo Terminal di Voltri che successivamente (nel 1998) 21 vedrà l’ingresso di PSA di Singapore. La multinazionale americana Carnival acquista il celebre marchio genovese Costa Crociere e la tedesca Siemens acquista una delle poche aziende private, la Orsi automation. Si chiude così il ventesimo secolo e con esso l’egemonica presenza delle partecipazioni statali. Gli anni 2000 – Negli anni 2000 la frantumazione del lavoro diventa un dato strutturale della nuova realtà socio economica: tanti lavori e tanta flessibilità che diventa precarietà. L’altro aspetto, destinato a modificare la dinamica sociale del futuro, è la competizione più agguerrita tra i giovani con partita Iva, e tra i professional per conquistare i lavori più gratificanti; devono inventarsi il lavoro, devono competere per riuscire ad imporsi. Ma non è una competizione basata sull’eguaglianza delle opportunità: la famiglia di provenienza e il contesto delle relazioni sociali continua ad avere un peso enorme, anzi un peso ancora maggiore che nel passato. Scompare quel processo di mobilità sociale degli anni ‘70. Chi ha più risorse cerca altrove: molti studenti dopo il triennio lasciano Genova per proseguire la specializzazione in altre città dove ritengono di trovare maggiori sbocchi occupazionali. Ma chi lavora a Genova? Su 100 residenti, lavora una minoranza del 33,5% (nelle città del Nord Ovest è di circa il 45%). Il nuovo millennio a Genova si apre, secondo i dati del censimento del 2001, con 223.287 persone occupate, di cui gli operai sono ridotti al 27% e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 22 22 Il Tempietto l’industria occupa 34.092 addetti pari al 15%. Il livello di scolarità della gente che lavora è piuttosto elevato: 19% di laureati e il 46% di diplomati. Gli impiegati pubblici sono quasi 75mila (pari al 34% del totale). Ciò dovrebbe significare che i servizi pubblici funzionino alla perfezione e che in media ogni 25 famiglie c’è a disposizione un impiegato pubblico. Oggi, in provincia di Genova, il valore aggiunto dell’industria in senso stretto si aggira intorno all’11/12% a fronte dell’83% dei servizi/ terziario. Il dibattito politico culturale è stato dominato dall’attenzione verso il mutamento degli assetti produttivi e urbanistici, molto meno verso le persone, le loro ansie, le loro attese: un’intera generazione di lavoratori, dopo l’uscita dalla grande fabbrica è rimasta distante dalla politica, salvo poche eccezioni. Nella stragrande maggioranza (soprattutto in siderurgia e nel porto) l’uscita è avvenuta tramite il più grande ammortizzatore sociale di tutti i tempi: il prepensionamento. Gli immigrati – A fine 2010 risiedono a Genova 50.415 stranieri (23.484 maschi e 26.931 femmine) pari all’8,3% dei residenti. La comunità più numerosa è quella ecuadoriana (16.753 unità), seguita dagli albanesi (5.387, dai marocchini (3.807), dai rumeni (3.743), dai peruviani (2.772), dai cinesi (1.637), dagli ucraini (1.450), dai senegalesi (1.258), dai cingalesi (1.088). La distribuzione per zone di residenza, vede la maggior concentrazione nel Centro storico (marocchini), a Sampierdarena (ecuadoriani), a Cornigliano, a Rivarolo e Bolzaneto (albanesi) e in Bassa val Bisagno. Gli immigrati ecuadoriani superano i marocchini e i senegalesi partire dal 1999-2000. Il principale fattore d’attrazione dell’immigrazione femminile è costituto dalla forte domanda di assistenza domestica e di cura da parte delle famiglie e soprattutto degli anziani non autosufficienti. Ormai la popolazione anziana (65 anni e oltre) supera il 25% dei residenti e di questi vivono da soli oltre 51mila persone, in grande maggioranza donne (76%). Si tratta di un welfare privato che supplisce alle carenze dell’intervento pubblico. Il 42,5% delle famiglie è composta da una sola persona. Senza la presenza dei circa 13mila badanti i nostri anziani sarebbero ancora più soli. Il matrimonio – Negli ultimi anni sono cambiati anche i comportamenti rispetto al matrimonio e alla natalità: tra coloro che decidono di sposarsi, il 59% lo fa con rito civile (di cui il 48% tra divorziati) e il 41% con rito religioso. I matrimoni tra stranieri o misti oscillano tra il 16 e il 25%. Aumentano anche le coppie di fatto, come dimostrano i dati del progressivo aumento dei bambini nati fuori dal vincolo matrimoniale: negli ultimi due anni sono stati, rispettivamente, del 31% e del 26%. In tutte le inchieste tra i giovani, la positiva considerazione della famiglia ha il tasso più elevato, cambia invece il modo di concepirla, non più vincolato dall’ufficialità del matrimonio. Indicatori demografici Media annua nati 1991-2000: 4.351nati 1999-2008: 4.543 nati 2009-2010: 4.752 nati TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 23 Il Tempietto In Italia il tasso di natalità è di 9 nati per 1000 residenti; negli anni ‘50 era il doppio (18 /1000) e ha raggiunto il massimo negli anni tra il 1963-66 col 19-20/1000. A Genova siamo al 7,8 per 1000. Nati da almeno un genitore straniero. 2000: 12,0% 2004: 20,0% 2008: 23,7% 2009/2010: 25,7% Le famiglie composte da sole donne sono il 58,3% delle famiglie uni personali pari a 74.600. Le abitazioni occupate sono 280.095, di cui 98.372 occupate da una sola persona (35,1%). Media annua matrimoni Media annua divorzi 1971-80: 1981-90: 1991-2000: 2001-2008: 529 707 776 4.380 3.075 2.551 2.011 Matrimoni civili nel 2000: il 42,3% del totale nel 2008: il 61,8% del totale Circa il 40% dei matrimoni civili avviene tra divorziati Persone di 65 anni e oltre 1981: 17,9% 1991: 21,2% 2001: 25,6% La popolazione nel 2001 superava i 610mila abitanti, nel 2010 scende a 608mila, nonostante gli immigrati siano aumentati di oltre 33mila unità. La dimensione culturale – In tutte le metropoli del mondo risultano vincenti le città che sanno meglio utilizzare le proprie peculiarità storico culturali. La ristrutturazione del Porto antico avviata nel 1992, grazie ai finanziamenti delle Colombiane, costituisce a tale riguardo 23 un esempio da manuale. Così come il 2004, anno di Genova capitale europea della cultura, ha rappresentato il momento più alto di riappropriazione da parte dei cittadini del valore storico culturale della città; rinasce l’orgoglio di una storia da riscoprire e da mostrare a parenti e amici. L’hanno dimostrato gli oltre mille progetti presentati e l’esplicita e positiva scelta di non limitarsi all’organizzazione di eventi, ma anche al rinnovamento dei beni culturali esistenti, che oggi persistono. Grazie a questo evento, la presenza dei turisti è visibile in città. L’azione successiva di Palazzo Ducale ha ulteriormente qualificato l’offerta culturale e possiamo dire che la cultura, come illustrato dagli interventi di Borzani e di Carpi in questa sezione, sta diventando una componente significativa dello sviluppo della città. Proprio perché rilevante, occorre individuare anche i nodi problematici: nella programmazione delle attività bisogna tener conto dell’intera città e non solo del centro, così come avevano pensato gli amministratori del passato (epoca di Attilio Sartori assessore alla cultura del comune di Genova), che avevano costituito l’Ente del decentramento culturale; le diverse zone della città devono poter contare di servizi di trasporto pubblico adeguati (la metropolitana chiude alle 21.00!) altrimenti risulta difficile lo scambio di iniziative; occorre stimolare la produzione culturale autonoma; la discussione pubblica intorno ai temi fondanti lo sviluppo della città è un fatto di grande rilevanza culturale e non può essere relegato a questione locale TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 24 24 Il Tempietto da discutere soltanto in consiglio comunale o nei consigli municipali. L’assenza della ricerca sociale, e delle analisi sulle trasformazioni produttive e socio economiche della città, dal dibattito culturale, indica un limite culturale di fondo, quasi come se ci si dovesse pentire del troppo peso accordato a questi argomenti negli anni ‘70-’80! Allo stesso tempo, e con maggiore impegno, occorre saper collocare la dimensione locale nel contesto del Nord Ovest e internazionale, così come insegnano i progetti europei finanziati dall’UE. Per esempio i temi indicati nel Puc dovranno trasformarsi in grandi dibattiti pubblici, per far maturare consapevolezza e nuova cultura civica. Passato/presente: una domanda cruciale – L’etica e la cultura del lavoro descritte in precedenza che cosa hanno lasciato sul territorio? Come hanno trasmesso i propri orientamenti valoriali? Quale rapporto tra persistenze e rotture? In termini generali possiamo affermare che il lascito valoriale più rilevante sia quello di considerare la stabilità del lavoro quale fonte principale di realizzazione personale, che oggi però entra in profonda crisi a causa della diffusa frantumazione e precarietà. Le nuove modalità del lavoro precario mettono in discussione un patrimonio di cultura del lavoro accumulato nel corso di tutto il Novecento. Ma più grave ancora è il fatto che questa tradizione non ha prodotto istituzioni in grado di ripensare una stagione significativa della storia sociale di Genova e dell’Italia. Come se l’innovazione per essere vincente dovesse fare tabula rasa della storia. Anziché governare il cambiamento, come si direbbe con una semplificazione convegnistica, siamo di fronte a processi spontanei che si svolgono davanti ai nostri occhi, ma che non riusciamo a vedere. Il futuro – Come abbiamo visto dai dati, la questione demografica rimane centrale per discutere di innovazione e di futuro, senza giovani è difficile parlare di futuro, tutt’al più si può fare innovazione in riferimento alla qualità della vita che sapremo dare agli anziani o a chi decide di venirci ad abitare. Senza creazione di opportunità di lavoro, Genova è destinata ad essere relegata a zona residenziale. Secondo il PUC (Piano urbanistico comunale che è la nuova denominazione del Piano Regolatore), il futuro dello sviluppo economico di Genova è centrato su tre grandi direttrici: l’economia del mare e del porto, l’economia dell’alta tecnologia industriale, l’economia della cultura e del turismo. Ciò presuppone un cambiamento di mentalità che dovrà sempre di più poggiare sulla capacità di attrarre risorse esterne, ogni risultato va conquistato sul campo perché tutte le grandi metropoli si pongono obiettivi analoghi. Si vince sulla capacità di praticare comportamenti coerenti rispetto agli obiettivi, dare fiducia ai cittadini, saper fare coalizione e concertazione e renderla visibile all’esterno. La realizzazione del parco tecnologico degli Erzelli può gettare le basi di questo nuovo processo innovativo, a condizione che si proceda con tempi compatibili alla necessità di dare forti e tangibili segni di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 25 Il Tempietto cambiamento. L’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia), localizzato a Morego (Bolzaneto), con poco clamore mediatico, ma con grande determinazione, ha già raggiunto uno staff di ricercatori e scienziati composto da 600 persone di cui il 48% proveniente da 30 paesi esteri. Siamo davvero lontani anni luci da quando in città si discuteva con passione di “fabbrica automatica”, adesso c’è e sembra che nessuno se ne accorga. D’altra parte, il concetto di città intelligente – Smart city – enunciato dal PUC, significa che solo attraverso una gestione integrata, coordinata e condivisa con il mondo della ricerca, della produzione e dell’imprenditoria si può raggiungere uno sviluppo economico duraturo e rispettoso dell’ambiente. Una città smart attrae le imprese e gli investimenti nelle attività produttive pulite, nell’alta tecnologia, nell’industria creativa. In particolare il Ponente, le aree portuali, la Val Polcevera (aree ferroviarie) e la Valbisagno (grandi servizi pubblici da riconvertire) rappresentano i luoghi strategici densi di opportunità di 25 trasformazione e riqualificazione. Complessivamente, in diverse forme e modalità, si tratta di intervenire su oltre 6 milioni di mq. Rispetto agli attuali 610mila abitanti il Puc è stato dimensionato su una previsione futura che non supera i 700mila abitanti, mentre i posti di lavoro dovrebbero passare dagli 285mila di oggi ai futuri 300mila. I servizi invece sono dimensionati per circa 970mila. Un aspetto innovativo è l’integrazione del Piano paesistico nel livello locale del Puc e il rapporto unitario col Piano regolatore portuale (Genova, città-porto) attraverso un confronto sulle best practices esistenti in altre città-porto europee. L’urbanista inglese Richard Burdett che collabora nelle strategie del PUC afferma che Genova si trova ad una svolta fondamentale della sua lunga e consolidata storia urbana: in bilico tra un passato illustre ed un futuro incerto. Dobbiamo essere comunque consapevoli che una nuova identità non nasce dal nulla ma deve affondare le sue radici nella storia dell’etica del lavoro genovese. È l’orgoglio di una città produttiva e solidale che bisogna proiettare nel futuro. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 26 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 27 Renato Carpi docente Accademia Ligustica di Belle Arti La cultura di una città e le potenzialità di Genova “Il sostegno alle iniziative culturali deve essere visto come condizione per un diverso sviluppo economico di Genova. Si deve acquisire pienamente la consapevolezza che la cultura è una straordinaria risorsa economica e su questa risorsa si deve incentrare il nuovo assetto economico della città”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 28 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 29 Il Tempietto La cultura di una città e le potenzialità di Genova Renato Carpi C he cos’è la cultura di una città? Vorrei provare a rispondere a questo quesito. Una prima possibile definizione è questa: “l’insieme delle idee che attraversano la mente di chi vi vive”. Non mi convince, forse è meglio: “l’insieme delle idee e dei comportamenti di chi vi vive”. Oppure: “l’insieme delle idee, dei comportamenti e delle potenzialità di chi vi vive”. Intendo con potenzialità le capacità di elaborazione, le competenze professionali: le capacità di pensare, di fare, di progettare. Ma queste definizioni risultano del tutto inadeguate al cospetto della dimensione storica. La cultura di una città è anche l’insieme delle idee, dei comportamenti, delle potenzialità sedimentate nel tempo; è anche struttura urbana, organizzazione degli spazi, organizzazione dei collegamenti e delle funzioni. È anche l’insieme delle relazioni che si vivono al suo interno e l’insieme delle relazioni che si creano col mondo esterno. E allora la cultura di una città è un insieme di culture diverse a confronto. Si può provare ad affinare ulteriormente la definizione di cultura di una città, ma penso che ogni tentativo sarebbe comunque 29 accompagnato da un senso di incompiutezza, di inadeguatezza. Questi tentativi, però, vale la pena compierli perché sono utili per individuare alcune importanti caratteristiche della cultura di una città. La cultura di una città è un flusso continuo di conoscenze, competenze, esperienze, relazioni, comportamenti che si sedimentano nelle cose che la compongono e nelle menti dei suoi abitanti. È, per sua natura, non pienamente afferrabile, la sua qualità dipende dallo scambio culturale fra le generazioni, fra i ceti, fra i generi, oggi – più di ieri – possiamo dire anche fra le diverse culture presenti. È il frutto di un complesso processo di accumulazione di cui non si è del tutto consci. Come per la mente di ciascuno di noi, anche per la mente di una città esiste una dimensione inconscia che condiziona fortemente i comportamenti sociali. La cultura di una città è un serbatoio di energie, di pensieri al quale si può (si deve) attingere per comprendere il presente, per progettare il futuro e nel quale bisogna continuamente introdurre nuovi saperi, nuovi linguaggi, nuove esperienze. La cultura di una città è una realtà inevitabilmente aperta e come tale interagisce continuamente con i potenti modelli culturali che prevalgono oggi nel mondo. Tutti gli agglomerati urbani sono sottoposti alla forte spinta all’omologazione in atto nel mondo (processo al quale è illusorio pensare di opporsi), ma tale processo può essere vissuto da ogni luogo in modo differente, mantenendo o meno la propria ragion d’essere, ciò TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 30 30 Il Tempietto dipende dalle radici culturali di ogni luogo e dalla capacità di creare nuove radici. La cultura di una città è la sua identità e averne cura è un compito fondamentale del nostro tempo. Se la cultura di una città è consapevolezza del presente e capacità di prefigurare il futuro di essa si ha ancor più bisogno nei momenti di transizione, nei momenti in cui su devono ridefinire i modi di produrre, i meccanismi di formazione e ridistribuzione della ricchezza, i principi fondamentali con cui innervare una realtà sociale. In quest’ottica la cultura si rivela in tutta la sua importanza, non è un lusso, ma una necessità, non è una componente ornamentale di un organismo sociale, ma è qualcosa che struttura e organizza la società, che rende viva una città, è la risorsa con cui affrontare la crisi, il cambiamento. Eppure, quasi come un riflesso condizionato, nei momenti di crisi – come quello che viviamo oggi – riemerge con forza l’idea che la cultura sia qualcosa che si può sacrificare, di cui si può fare a meno, sicuramente non una priorità. Idea largamente diffusa nell’opinione pubblica, nelle diverse forze sociali e politiche, in quasi tutte le persone che non sono direttamente coinvolte nella vita culturale. Penso che questo sia un dato su cui valga la pena riflettere. Le riflessioni da cui sono partito intorno al quesito “che cos’è la cultura di una città” valgono naturalmente anche per Genova. Genova è un luogo che ha subito negli ultimi decenni, in particolare dagli inizi degli anni ‘ 80 ad oggi, profonde trasformazioni urbane, sociali, economiche; e proprio nel vivo di queste trasformazioni è emerso il ruolo strategico che può avere la cultura. I due fondamentali poli culturali della città (quello tecnico-scientifico e quello storico-artistico) hanno indicato due possibili percorsi per la ridefinizione dell’identità della città: realtà industriali ad alto contenuto scientifico e tecnologico e centri di ricerca avanzata da una parte, piena valorizzazione del patrimonio storicoartistico della città come componente essenziale per una più elevata qualità della vita urbana e come valore fondamentale per una piena affermazione della dimensione turistica della città dall’altra. La cultura nelle sue due fondamentali componenti – quella scientifica e quella cosiddetta umanistica – è al centro dei cambiamenti in atto nella città, la capacità di Genova di darsi una nuova identità, di darsi un futuro, dopo la crisi irreversibile della grande industria siderurgica e meccanica, dipende in larga misura dalla piena valorizzazione delle potenzialità culturali della cultura. Per poter valorizzare le potenzialità culturali della città bisogna in primo luogo conoscerle. Questo è il primo problema da affrontare: come conoscere le intelligenze della città. Penso siano necessari strumenti permanenti di comunicazione e di informazione, una rete di terminazioni nervose che siano in grado di diffondere conoscenze e consapevolezza della qualità del lavoro intellettuale che si TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 31 Il Tempietto svolge quotidianamente nella nostra città. Mi sembra ancora del tutto carente la conoscenza del lavoro di ricerca e di studio che si svolge a Genova, mi sembra ancora inadeguato il rapporto fra Università, centri di ricerca e città. L’Università è ancora prevalentemente una realtà separata dal contesto sociale, culturale ed economico della città e questo le impedisce di svolgere un ruolo attivo e propositivo in questa fase di forte cambiamento. Come costruire un più fecondo rapporto fra città e Università è un quesito che si dovrebbero porre in tanti: le forze politiche, i docenti universitari, gli studenti, le imprese, l’ampio tessuto sociale genovese. Per pensare Genova in questo nuovo scenario economico mondiale, per pensare Genova al cospetto della crescente presenza di immigrati, per individuare nuove capacità produttive e nuove solidarietà è di strategica importanza il ruolo dell’Università. Ecco un punto cruciale su cui aprire un largo confronto in città. Se invece guardiamo al rapporto fra cultura e città dal punto di vista delle istituzioni culturali emerge l’enorme lavoro condotto negli ultimi decenni dalle amministrazioni pubbliche, in particolare – non solo – dal Comune di Genova. Per capire come è profondamente cambiato il rapporto fra cultura e città dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi credo sia doveroso partire dall’evento più emblematico che è, a mio avviso,il cambiamento di destinazione d’uso di Palazzo Ducale. Aver pensato il palazzo più prestigioso della città, il 31 palazzo simbolo della storia di Genova come palazzo della cultura segna una svolta storica nel rapporto fra città e cultura. Nei quasi vent’anni che ci separano dal 1992, anno in cui il Ducale assume il ruolo di palazzo della cultura, l’istituzione culturale che lo governa ha acquisito una crescente capacità di produrre eventi culturali. Oggi, grazie alle indubbie capacità di chi lo dirige, è uno dei centri culturali più vivi nell’intero panorama italiano ed europeo. Nel formulare questo giudizio penso sicuramente alle grandi mostre che ha organizzato e ospitato, alle opportunità offerte ai giovani artisti, ma soprattutto penso alla qualità degli incontri che ne segnano la vita, e all’interesse che ha saputo suscitare, in un pubblico sempre più esteso, sui grandi temi della nostra contemporaneità. Ma questa significativa realtà culturale non ha operato in una sorta di desolata landa culturale, ma in un contesto di grande vitalità pur in presenza di crescenti difficoltà finanziarie. Penso, ad esempio, al complesso e articolato sistema museale civico, penso all’Accademia Ligustica come realtà formativa e museale, penso al nuovo museo del Mare e al graduale recupero dello straordinario spazio della Commenda di Prè. Nell’esaminare il rapporto fra città e cultura a Genova una particolare menzione merita il sistema teatrale genovese: possiamo dire con certezza uno dei più importanti a livello nazionale. Il Teatro Stabile e la sua scuola di formazione per giovani attori, il Teatro TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 32 32 Il Tempietto della Tosse con il suo laboratorio di scenografia, il Teatro dell’Archivolto che ha rivitalizzato il più prestigioso spazio teatrale storico (il Modena di Sampierdarena), il Teatro Cargo che è un prezioso presidio culturale nell’estrema periferia della città (Voltri), il Teatro Garage che nel suo piccolo spazio di S.Fruttuoso, ormai da molti anni, realizza stagioni teatrali di grande qualità. E poi le moltissime compagnie teatrali, che pur prive di un proprio spazio, continuano a dare un prezioso contributo alla vita culturale della città, penso ad esempio al Teatro delle Nuvole. È difficile se non impossibile trovare un’altra città come Genova così ricca di esperienze teatrali. Ciascuna delle realtà che ho preso in considerazione ha una sua precisa identità e costituisce una tessera preziosa di un ricco mosaico. Il Teatro Stabile svolge un ruolo insostituibile nel mantenere viva l’attenzione del pubblico e in particolare delle nuove generazioni intorno al patrimonio storico teatrale nazionale e internazionale, promuove la circuitazione di spettacoli teatrali di giovani compagnie e di giovani autori e compie un lavoro di particolare valore culturale con la scuola di formazione per giovani attori. Il Teatro della Tosse offre alla città l’opportunità di conoscere esperienze teatrali molto originali per la scelta dei testi e per il tipo di linguaggio teatrale che viene utilizzato. Inoltre continua a realizzare rassegne di teatro per bambini, di spettacoli di marionette, e – anche nelle attuali difficoltà economiche – mantiene vive le sue capacità di produzione di scene e costumi; infine continua a realizzare eventi teatrali in grado di valorizzare spazi urbani e centri storici. Il Teatro dell’Archivolto che nella sua multiforme programmazione teatrale ha in particolare messo a fuoco il rapporto fra letteratura e teatro Il Teatro Cargo particolarmente attento ai temi legati alla memoria storica della comunità e alle problematiche sociali più rilevanti. Un’analisi completa del sistema teatrale genovese naturalmente richiederebbe molto più spazio e tempo; è forse per la nostra città il settore culturale più importante, più ricco, più diffuso territorialmente e probabilmente esprime una particolare vocazione di Genova. Sarebbe forse opportuno riprendere in considerazione la possibilità di realizzare a Genova un Festival Internazionale del Teatro. In ultimo, nell’analizzare la vita culturale di Genova, penso sia importante rivolgere l’attenzione su queste interessanti esperienze: • il Festival Musicale del Mediterraneo, • il Festival Suq, • il Festival della Scienza, • il Festival della Poesia. Il Festival Musicale del Mediterraneo è una grande esperienza culturale per Genova, il cui valore non è stato ancora pienamente compreso. È il primo significativo progetto culturale che ha dato centralità alla multiculturalità. Forse non è casuale che la prima esperienza di scambio TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 33 Il Tempietto culturale di livello mediterraneo e mondiale sia stata un’esperienza musicale. La musica per la sua immaterialità si diffonde più velocemente e riesce più efficacemente a superare le forti barriere che separano, a livello mondiale, le diverse aree culturali e religiose. Poter riconoscere nelle più diverse esperienze culturali forti potenzialità comunicative permette di vivere pienamente la dimensione multiculturale del nostro tempo. Il Festival Suq che si colloca nel solco della multiculturalità è un’esperienza che sta facendo scuola in Italia e in Europa. La multiculturalità, nel suo ambito, diventa polisensoriale, tutti i nostri sensi sono coinvolti: la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto, il tatto. È un grande contenitore di cibi, di cose, di suoni, di idee, di parole che permette di vivere una sorta di scambio fra le culture onnicomprensivo. È come un microcosmo periodico in cui si vivono le diversità di colore, di lingua, di cultura, di cucina con gioia, con curiosità, con partecipazione e interesse. È un laboratorio di sperimentazione sociale in cui si svolgono delle vere e proprie lezioni di convivenza, di confronto; questi caratteri hanno fatto diventare il Festival Suq un appuntamento culturale irrinunciabile in una città come Genova che deve sapersi confrontare con le grandi trasformazioni socio-culturali indotte dalla crescente presenza di immigrati. Il Festival della Scienza ha molteplici meriti: in primo luogo è un’occasione di lavoro per molti giovani, inoltre è un 33 evento che interessa moltissime persone, in particolare giovani – ma non solo – e che dimostra concretamente come la Scienza, questo insieme di saperi e linguaggi complessi, può essere diffuso e fatto conoscere a persone di ogni età e di ogni livello di istruzione; è necessaria fantasia, creatività, semplicità, essenzialità. Il festival della Scienza ha il merito di aver messo a punto una formula, dei modelli comunicativi capaci di far comprendere a tutti contenuti complessi, conoscenze scientifiche che devono essere patrimonio di tutti i cittadini in una fase storica così profondamente segnata dalle trasformazioni tecnologiche. Il Festival della Poesia che è giunto alla sua 17° edizione è un’importante realtà culturale della città che permette al contempo di conoscere e valorizzare giovani poeti genovesi e di collegarsi a significative esperienze internazionali. Vorrei concludere questa mia proposta di riflessione sulla cultura a Genova proponendo alcuni aspetti problematici. Siamo nel vivo di una profonda crisi economica mondiale che ha riflessi devastanti sul nostro paese. La drastica riduzione delle risorse finanziarie per le autonomie locali sta mettendo in discussione la sopravvivenza di fondamentali servizi per il cittadino, eppure anche in questo contesto – io credo – bisogna sostenere con ostinazione l’importanza della vita culturale della città. Per raggiungere questi obiettivi si impone TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 34 34 Il Tempietto l’esigenza di affrontare in modo serio il tema della sostenibilità economica della cultura, di individuare nuovi strumenti gestionali capaci di costruire un più stretto rapporto fra pubblico e privato, di sviluppare ulteriormente il lavoro di rete, di valorizzare pienamente gli operatori culturali, di valorizzare le enormi competenze presenti all’interno della pubblica amministrazione, di individuare le realtà culturali che prioritariamente devono essere sostenute. Se, come emerge da una ricerca condotta dalla Bocconi, l’investimento finanziario in cultura deve essere moltiplicato per 4,8 (fattore molto elevato) per coglierne l’impatto sull’assetto economico del paese, si rende necessario un più esteso coinvolgimento dei diversi soggetti sociali interessati; la difesa e lo sviluppo della cultura non devono essere delegati esclusivamente agli addetti ai lavori, deve emergere uno schieramento sociale più rappresentativo dei diversi soggetti in gioco; inoltre devono essere individuate le iniziative legislative, i meccanismi finanziari che possano permettere di reinvestire parte della ricchezza creata in attività culturali. * Le riflessioni proposte in questo articolo sono state precedute da mie conversazioni con Maria Paola Profumo, Carlo Repetti, Luca Borzani che ringrazio per la disponibilità. È mio augurio che possano essere uno stimolo alla discussione. 16 settembre 2011 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 35 Alessandro Repetto Presidente della Provincia di Genova Intervista a Alessandro Repetto “Vi sono molte argomentazioni che potrebbero sostenere le ragioni di mantenere, dopo le dovute razionalizzazioni, le competenze provinciali, mentre l’attuale Governo prevede l’abolizione delle Province tramite una proposta di Legge Costituzionale, senza tuttavia dimostrare quanto questa riforma porterà in termini di risparmio e quando sarà attuata. Considerando tutto ciò e il fatto che a primavera 2012 bisognerà rieleggere i vertici di Comune e Provincia di Genova, potrebbe essere una coraggiosa scelta politica quella di utilizzare il tempo che ci separa dalle prossime amministrative per far nascere o comunque prefigurare un nuovo soggetto istituzionale: la Città metropolitana. Daremmo un segnale di forte rinnovamento, elevando Genova a luogo di sperimentazione di un processo riformatore”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 36 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 37 Il Tempietto Intervista al Presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto A cura di Salvatore Vento A partire dalla tua esperienza personale in qualità di Presidente della Provincia, negli anni del tuo mandato quali sono state le trasformazioni principali di Genova, sia sotto il profilo socio economico che culturale? Genova, in questo ultimo decennio se non ventennio, ha goduto di un forte rilancio turistico e culturale che l’ha riportata sotto i riflettori e agli onori della cronaca a livello nazionale e internazionale, penso, per esempio, al 2004 in cui è stata Capitale Europea della Cultura. Ma, come la maggior parte delle città italiane, ha anche dovuto affrontare radicali cambiamenti e minacce tutt’ora in atto, conseguenti a un naturale processo di mutamenti socio-economici e a un profondo mutamento della cultura collettiva. Basti pensare, per esempio, alla rilevanza che –giustamente – viene riconosciuta oggi all’attenzione all’ambiente o alla necessità di sicurezza sempre più sentita dai cittadini. Tra le difficoltà maggiori è innegabile quella dell’occupazione, strettamente collegata all’indebolimento del tessuto industriale, alle nuove esigenze di competenze e professionalità, quindi 37 alla formazione, e necessariamente queste problematiche hanno comportato una trasformazione significativa nelle esigenze delle persone e delle strutture. Quali di questi cambiamenti hanno visto la Provincia soggetto particolarmente decisivo? Ritengo che la Provincia di Genova sia stata decisiva in diversi settori, a cominciare dalle politiche del lavoro: ora i Centri per l’Impiego coprono tutto il territorio provinciale e offrono un servizio capillare di alta qualità sia a chi cerca lavoro, sia alle imprese e, oltre ai servizi di orientamento, ai percorsi formativi e di mediazione al lavoro, sono fondamentali quelli di sostegno all’autoimprenditorialità e al lavoro indipendente. Inoltre, in questi anni e in particolare negli ultimi, aggravati dalla crisi generale, la Provincia, insieme alle altre Istituzioni locali e alle forze economico-sociali, ha avuto un ruolo attivo, politico e di competenza, nella salvaguardia di diverse realtà industriali come, ne cito alcune, la Mares, il trasferimento della Lames, la riconversione dell’Ilva, le vicende dell’Ansaldo, per non parlare di Fincantieri. Abbiamo poi investito molto nella sicurezza degli edifici scolastici, non solo rafforzando il patrimonio comune ma creando nuove aree scolastiche, e, sempre nell’ottica della sicurezza, tra gli investimenti più rilevanti c’è la cura e lo sviluppo della viabilità provinciale, che rappresenta il collegamento tra paesi e città, tra costa ed entroterra, la possibilità di studiare e lavorare. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 38 38 Il Tempietto Abbiamo garantito il trasporto pubblico locale con un servizio, l’ATP, che unisce tutto il territorio provinciale, e abbiamo avviato e sostenuto una politica di nuove forme di sviluppo sostenibile sfruttando energie alternative, dedicando anche una struttura a questi temi, il Muvita, riconosciuto primo Science Center nazionale dedicato ai cambiamenti climatici. Queste alcune iniziative particolarmente incisive, ma non certamente le uniche. In tutta l’area della provincia di Genova, quali vocazioni produttive del passato possono dare ancora prospettive di futuro? Abbiamo un territorio che, per vocazione, deve cercare, di valorizzare le proprie potenzialità turistiche e quelle industriali con un’attenta e coerente politica di equilibrio socioeconomico e di compatibilità ambientale, accompagnata anche da iniziative e investimenti sulle infrastrutture. Queste sono una chiave imprescindibile per qualunque forma di sviluppo possa avere Genova e la sua provincia, e queste sono state tra gli obiettivi prioritari che ci siamo posti, dal Terzo Valico alla gronda di ponente, dal tunnel della Fontanabuona al prolungamento di Viale Kasman, al nodo ferroviario di Genova. Attraverso vari strumenti abbiamo portato avanti un processo di riconversione del territorio nell’ottica della tutela e della valorizzazione ambientale e occupazionale, rilanciando, per esempio, la vocazione all’economia marittima, una delle nostre tradizioni più antiche e prestigiose. L’Accademia della Marina Mercantile può essere considerata una buona pratica che esplicita il positivo rapporto tra passato/presente? Puoi dare qualche dato sul numero e le caratteristiche degli allievi compresi gli sbocchi occupazionali? Far crescere un territorio significa anche preoccuparsi delle occasioni di formazione e di aggiornamento professionale offerte a chi lo abita: maggiore sarà il livello qualitativo di tali offerte, migliori saranno le ricadute sullo sviluppo culturale, sociale ed economico locale. L’Accademia Italiana della Marina Mercantile, sicuramente risponde a questi criteri e obiettivi. Dal 2005 a oggi, ha diplomato 266 allievi ufficiali: 173 ufficiali di coperta e 93 ufficiali di macchina, in collaborazione con le più importanti compagnie di navigazione nazionali e internazionali. Uno dei punti di forza dell’Accademia, per cui è corretto considerarla una best practice, va individuato nel recupero di una storica tradizione come quella degli ufficiali della Marina Mercantile Italiana, da sempre considerati tra i migliori al mondo ma che, a causa della mancanza di un’istruzione formativa rischiavano di essere definitivamente sostituiti da personale straniero. Recentemente hai rilanciato l’idea dell’Area Metropolitana, su quali basi dovrebbe nascere? Essa risponde a necessità soltanto politiche oppure deriva da argomentazioni fondate? TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 39 Il Tempietto Non vi è dubbio che sia necessaria una razionalizzazione dell’ordinamento statale, ma in questo momento si fa una gran demagogia attorno al tema dell’abolizione delle Province che di certo non risolverebbe il problema dei costi della politica e dell’ingorgo dei livelli istituzionali e non. Una valida soluzione per offrire ai cittadini semplificazione e chiarezza sulle procedure e sulle competenze e una ottimizzazione delle Province stesse, sarebbe attraverso l’istituzione delle Città Metropolitane. E’ fondamentale, infatti, porsi alcuni interrogativi, per esempio domandandosi chi coordinerà e governerà la dimensione provinciale (gestione strade, edilizia scolastica, formazione, politiche del lavoro, ambiente); chi svolgerà il ruolo mediatorio e comunque rassicurante per i medi e piccoli Comuni nei confronti dello strapotere del Comune capoluogo; chi avrà il compito di provvedere alla funzione di contrappeso istituzionale in alcune materie dove i Comuni molte volte sono portatori di conflitti di interesse (ambiente, gestione discariche, società di gestione) o per le politiche formative e del lavoro per le quali la Regione esercita il ruolo di erogazione e di garante di fondi pubblici. Considerato che il personale della Provincia (per tradizione di ottimo livello professionale) ha una spesa procapite inferiore a quella di Regione e Comune, trasferendo a tali enti le funzioni attualmente esercitate dall’ente di area vasta, è prevedibile un incremento dei costi dei servizi 39 erogabili, anziché una sua diminuzione. Vi sono molte argomentazioni che potrebbero sostenere le ragioni di mantenere, dopo le dovute razionalizzazioni, le competenze provinciali, mentre l’attuale Governo prevede l’abolizione delle Province tramite una proposta di Legge Costituzionale, senza tuttavia dimostrare quanto questa riforma porterà in termini di risparmio e quando sarà attuata. Considerando tutto ciò e il fatto che a primavera 2012 bisognerà rieleggere i vertici di Comune e Provincia di Genova, potrebbe essere una coraggiosa scelta politica quella di utilizzare il tempo che ci separa dalle prossime amministrative per far nascere o comunque prefigurare un nuovo soggetto istituzionale: la Città metropolitana. Daremmo un segnale di forte rinnovamento, elevando Genova a luogo di sperimentazione di un processo riformatore. Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza della necessità di politiche che traguardino la dimensione del Nord Ovest, in particolare il Piano strategico di Torino del 2006 ha posto con forza questo tema. Quali azioni per raggiungere questo obiettivo? Quali coerenze richiede nei comportamenti quotidiani? Nel tempo si è affermata l’idea che i territori non possono più essere governati in modo asfittico, dentro angusti confini territoriali e amministrativi, ma è necessario dotarsi TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 40 40 Il Tempietto di strumenti strategici per far convergere le scelte e le priorità dei diversi soggetti e organizzazioni, siano esse istituzioni pubbliche o imprese, su progetti e decisioni comuni al fine di traguardare obiettivi di crescita e sviluppo economico. Sono convinto che per affrontare la sfida di una economia globalizzata, sia innanzitutto necessario, per essere competitivi, puntare sulla realizzazione di reti organizzate tra i diversi sistemi territoriali, con l’obiettivo di raggiungere una progettualità strategica coordinata su infrastrutture e logistica, sviluppo locale e marketing territoriale. L’esperienza della Fondazione SLALA e della Fondazione delle Province del Nord-Ovest, nelle quali la Provincia di Genova è particolarmente impegnata, ha rappresentato questo tentativo di superare i localismi e di creare uno strumento, una cabina di regia per condividere una programmazione di area vasta, nel settore della logistica, del trasporto delle merci, delle reti infrastrutturali stradali, in modo coordinato e integrato dei diversi sistemi territoriali, perseguendo la valorizzazione delle diverse realtà territoriali. Penso che ancora siamo agli inizi di un lavoro che richiede maggiori sforzi in tal senso e che la macroarea più industrializzata del paese, che produce una parte significativa del P.I.L., debba continuare a lavorare sviluppando politiche economiche e sociali sempre più integrate. È ovvio che per raggiungere l’obiettivo tutti i soggetti istituzionali interessati debbono coerentemente improntare le proprie azioni pianificatorie e progettuali nel quadro di riferimento di una comune, coordinata e condivisa strategia, senza la quale tutto resterebbe nell’ambito di una mera dichiarazione di intenti. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 41 Luca Borzani Presidente della Fondazione Culturale Palazzo Ducale Intervista a Luca Borzani “Palazzo Ducale è aperto 365 giorni all’anno e quasi ogni giorno c’è un appuntamento importante. Palazzo Ducale non è più il “salotto buono della città”, ma si rapporta a tanti pubblici diversi. La scommessa sulla quale siamo impegnati è che la cultura di qualità deve essere accessibile a tutti”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 42 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 43 Il Tempietto Intervista a Luca Borzani, presidente della Fondazione culturale Palazzo Ducale A cura di Salvatore Vento Comincerei con una domanda sul tuo ruolo professionale. Prima di essere nominato Presidente di Palazzo Ducale sei stato assessore alla cultura: quali analogie e differenze? Sono ruoli profondamente diversi. Un assessore definisce gli indirizzi, pianifica le attività dell’intero sistema culturale della città, ne definisce priorità. Il presidente della Fondazione si occupa della gestione e della programmazione di Palazzo Ducale con uno specifico ambito di autonomia all’interno degli indirizzi del Comune. Sono proprio compiti assai differenti. È evidente che nella scommessa, fino ad oggi direi vinta, di fare di Palazzo Ducale la “casa della cultura” di Genova l’esperienza di dieci anni di assessorati diversi è stata importante. Nel 2004 l’evento “Genova, capitale europea della cultura” è stato un momento esaltante e di orgoglio cittadino, sia per la riscoperta della propria storia che per la partecipazione civica. Possiamo considerare il 2004 un anno di svolta per la cultura genovese? Il 2004 è stato punto di arrivo di un percorso iniziato nel 1992. Larga parte 43 dei progetti realizzati nell’ambito del 2004 erano coerenti con le strategie che avevano caratterizzato la ricerca di una nuova fase di sviluppo dopo il processo accelerato di deindustrializzazione. L’intreccio tra riqualificazione urbana e offerta culturale è stata una delle risposte più importanti al declino produttivo dei comparti tradizionali dell’economia della città. La scelta più importante nell’ambito del 2004 è stata quella di realizzare non solo una stagione di eventi ma di utilizzare le risorse a disposizione perché producessero effetti lunghi nel tempo. È questo, io credo, che ha segnato una vera svolta. Penso ad esempio alla riorganizzazione del sistema museale con l’apertura del Museo del Mare (oggi il museo più visitato della città), alla GAM di Nervi, al Castello d’Albertis, al restauro di Palazzo Rosso, di Palazzo Bianco e l’estensione di Palazzo Tursi al polo di Via Garibaldi. Oggi i visitatori dei musei genovesi sono oltre 500 mila. Un numero impensabile nel 2001/2003. In questo senso credo che Genova sia la città che meglio ha utilizzato la candidatura a capitale europea della cultura. In sintesi: il senso del 2004 è da ricercarsi nella rimessa in moto di alcune precondizioni per il decollo della città turistica e della cultura in continuità con quanto realizzato nel 1992 e nel 2001. La svolta non è però stata solo nella modernizzazione delle strutture ma anche nella coscienza collettiva dei genovesi. Si è radicata la consapevolezza che Genova possa giocare un ruolo tra le “città d’arte”, sia capace di misurarsi con una nuova identità postindustriale. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 44 44 Il Tempietto La domanda: “E dopo il 2004?” – diretta espressione di quell’impasto tra nostalgia e “maniman” che spesso ci caratterizza – ha la sua risposta nella continuità di una produzione culturale che assegna a Genova un buon livello di attenzione internazionale e nei dati di presenza turistica che hanno gli indici migliori di crescita a livello nazionale. Il quesito dell’oggi, sia in riferimento al turismo sia alla produzione culturale, è se a questo hardware corrisponda un software adeguato. Per software intendo: la consapevolezza delle effettive potenzialità della città, il superamento di autoreferenzialità di stampo municipalistico, la definizione di indicatori di risultato legati a strategie pubbliche di sviluppo, il superamento del tipico ossimoro genovese di essere contemporaneamente “capitale di tutto” e “ultimi in tutto”. Insomma, il nodo è se riusciamo a fare un altro passo in avanti. Se saremo in grado di chiudere la stagione del provincialismo che segna ancora pesantemente la città nelle sue dinamiche culturali, civili e produttive. A tale proposito sarebbe davvero interessante riflettere quanto il provincialismo rappresenti una sorta di radicata subcultura omogenea di gruppi e segmenti di potere che tengono da decenni in mano la città. Ma nelle nostre industrie, penso ad Ansaldo, Elsag o Italimpianti, l’internazionalità si viveva quotidianamente. Nelle fabbriche si respirava il mondo, basta farsi raccontare la storia dei diretti protagonisti, dall’operaio al manager, per rendersene conto. Certamente, ma dobbiamo aggiungere che a un’alta professionalità sia operaia che tecnica e talvolta anche del management, il livello di effettiva competizione sui mercati era basso. Una contraddizione che ha radici lontane nel tempo e le cui conseguenze si sono viste con le ripetute crisi e il ridimensionamento finale. Ripeto, la logica municipalistica che ha segnato Genova è qualcosa di profondamente diverso dall’attenzione al territorio e alle realtà locali. Il “Local” può e deve coniugarsi con il “Global”. È in quella relazione che si può resistere alla globalizzazione senza regole e operare per la ricomposizione della comunità frammentata. Il municipalismo è altra cosa: è un’ideologia della chiusura e del declino. Nei settori più accorti della società, che forse sono minoritari, si comincia comunque a diffondere la consapevolezza che la produzione culturale è parte fondamentale dello sviluppo economico del paese, ma, a questo punto, occorre chiarire che cosa intendiamo per cultura. Ho spesso la sensazione che quando si discute di cultura trovino spazio i peggiori luoghi comuni. C’è sovente un odore di retorica, una ripetitività di concetti che non aiuta a misurarsi con le difficoltà dei tempi che stiamo vivendo. Talvolta è come se gli stessi operatori della cultura non riuscissero ad avere una soglia di consapevolezza capace di travalicare la loro singola esperienza, di uscire da una logica, anche legittima, rivendicativa e di autopromozione. Personalmente non credo abbia senso TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 45 Il Tempietto parlare di cultura come un tutto unitario e omogeneo. Esistono tanti modi di fare cultura, di rapportarsi con il pubblico, di gestire i bilanci. Ci sono anche tanti sprechi e o iniziative di modesta qualità. Mi riferisco, ad esempio, alla concezione quasi mitica dell’“evento per l’evento” che sembra affascinare anche tante amministrazioni pubbliche. Siamo insomma davanti a uno scenario diversificato e talvolta contraddittorio al suo interno. C’è chi è attento a una dimensione civile ed educativa nella propria programmazione e chi no, chi prova a misurarsi con standard internazionali e chi no, chi si preoccupa di avere il bilancio in pareggio e chi no, chi sviluppa forme di imprenditorialità e chi aspetta passivamente il contributo pubblico. E ancora: la scuola, il sistema formativo, la ricerca, l’hi tech sono o non sono parte del sistema culturale della città? Poi una cosa sono i musei, altra cosa i teatri, altro la tutela del patrimonio. Potrei proseguire a lungo ma sarebbe troppo noioso. In sintesi: una discussione sull’attività culturale oggi deve concentrarsi su aspetti troppo spesso trascurati perché non immediatamente riducibili a uno slogan. Quanto al rapporto cultura-economia credo si debbano evitare due concezioni semplificate. La prima, ampiamente diffusa pochi anni or sono, era che la contaminazione cultura/economia avrebbe comportato un immediato scadimento della prima e l’accettazione di una pura logica di mercato. Larga parte della discussione sul rapporto pubblico-privato è stata segnata proprio da questo atteggiamento. All’opposto oggi la cultura pare avere legittimazione 45 solo se è uno degli strumenti della crescita economica, se l’investimento culturale ha immediato ritorno in termini di fatturato e di indotto turistico. Penso che la produzione culturale debba riconoscersi in una logica di sviluppo delle città e che sia un comparto occupazionale tutt’altro che irrilevante. Cosi come credo che la produzione culturale debba rispondere anche a bisogni immateriali di conoscenza, di bellezza, di cittadinanza. È possibile pensare a un ritorno economico delle biblioteche? Evidentemente no. E allora bisogna chiuderle tutte? Di fatto, come spesso accade nel nostro paese, invece di concentrarsi su indicatori di ritorno diretto e indiretto per il territorio delle attività culturali, di perseguire sostenibilità ed efficienza nelle gestioni, di individuare le priorità e le modalità migliori per perseguirle ci si perde in inutili dibattiti che mi fanno tornare alla mente “Lavoro culturale” l’aureo volumetto di Luciano Bianciardi. Sempre come consiglio bibliografico suggerisco la lettura del recente libro di Paolo Sacco, uno dei più noti economisti della cultura italiani, “Italia realroaded”. Vorrei ritornare alla domanda di prima. Negli ultimi tempi tra gli osservatori sociali e gli economisti studiosi dei processi di globalizzazione è cresciuta l’idea che le vocazioni territoriali costituiscono un vantaggio competitivo. È entrato nel linguaggio corrente il termine glocal. Lo sviluppo delle comunità locali, come l’altra faccia della globalizzazione, non può non rimandare alla crescita e al TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 46 46 Il Tempietto consolidamento del comparto culturale che in questo senso è oggi un vero e proprio comparto produttivo. Alla cultura sono assegnati la valorizzazione di beni materiali e immateriali non delocalizzabili; da questo punto di vista essa può avere un ruolo strategico. In realtà, l’ideologia del municipalismo, insieme all’assenza di una visione strategica, impedisce di utilizzare al meglio le intelligenze e le risorse. Al di là della retorica, è qui che si misura ancora una bassa soglia di consapevolezza complessiva. Anche nei produttori di cultura. Come possiamo misurare il valore economico della produzione culturale di una città? Gli indicatori per misurare l’attività culturale sono ancora molto modesti: dagli studi della Bocconi a quelli di Federcultura, tutti si soffermano ad analizzare il ritorno diretto (posti letto degli alberghi, movimento dei taxi, ecc.), mentre la dimensione culturale dovrebbe avere anche degli “indicatori del ritorno indiretto” sull’evoluzione, nel medio e lungo periodo, dell’attrattività della città, della società, della sicurezza sociale. Occorre non basarsi unicamente sui pur importanti corrispettivi immediati. Tra l’altro molti dei moltiplicatori usati per analizzare l’effetto generato dalla cultura sono abbastanza peregrini e talvolta sfiorano il ridicolo. La produzione culturale deve certamente avere un risvolto economico, ma anche una molteplicità di altri effetti legati alla qualità della vita, al sociale e alla formazione permanente; purtroppo questi indicatori non sono ancora evidenziati. Per quanto ci riguarda negli ultimi due anni (2009 e 2010) abbiamo elaborato il bilancio sociale che rende conto della nostra attività. Non misuriamo più il costo dell’ignoranza e come questa condizioni il presente e il futuro del paese. In Italia, a centocinquanta anni dall’Unità, esiste il 13% della popolazione analfabeta o analfabeta funzionale a fronte del 7,5% di laureati. Il 20% degli italiani non è in grado di comprendere un testo scritto. Un esempio di grande attualità: su 67.961 detenuti quasi 32.000 si collocano in una fascia di istruzione compresa tra l’analfabetismo e la licenza media inferiore. Vale la pena di riflettere su questi costi sociali o no? Perché non se parla mai? Arrivando all’oggi non possiamo non considerare i devastanti effetti della manovra finanziaria. C’è una soglia sotto la quale non si può andare, il budget pubblico per la cultura di Torino è 40milioni di euro a Genova è di 20milioni. Anche se ci sono dei contesti culturali corporativi e poco attenti, la soglia dello spreco effettivo è nell’insieme bassa e i tagli rischiano di portare alla destrutturazione di un sistema. Sono tagli per fare cassa, senza un progetto di riorganizzazione e razionalizzazione, di protezione delle eccellenze e della virtuosità gestionale. Mettono tutti sullo stesso piano. Ancora una volta l’assenza di indicatori impedisce scelte razionali. Ma esiste anche un ritardo di innovazione nello stesso mondo della cultura. Un’aspirazione a guardare indietro più che avanti. Non si può TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 47 Il Tempietto pensare di fare le stesse cose solo con meno soldi. Bisogna cambiare e velocemente. Se la cultura non dà risposte alle domande che la crisi pone alle persone, se non riesce a ripensare i propri modelli organizzativi rischia di moltiplicare gli effetti davvero drammatici dei tagli. E bisogna affrontare dei nodi di fondo: c’è chi ritiene che l’attrattività della città si debba realizzare attraverso i grandi eventi, mentre altri (tra i quali mi colloco anch’io), ritengono che l’attrattività viene data dalla città stessa, dalla valorizzazione del mare, dal grande centro storico… All’interno di questo scenario la dimensione culturale costituisce un arricchimento, un valore aggiunto. Per questo è necessario indirizzare le poche risorse verso i soggetti in grado di garantire qualità e continuità. Insomma, qualità della vita, riqualificazione urbana e cultura – nei suoi diversi segmenti: musei, teatro, mostre, biblioteche, tutela del patrimonio – non si possono separare. Come possiamo considerare il livello raggiunto dall’offerta culturale genovese? A partire dal 2004 assistiamo ad una crescita della capacità culturale (sia in termini di offerta sia di presenze di pubblico) della città in un contesto nel quale venivano ridimensionati i settori storici della portualità e dell’industria. Genova ha raggiunto un livello europeo, impensabile fino a 10 anni fa. La crescita della qualità è ancora più importante se pensiamo che essa è avvenuta senza aumento delle risorse economiche pubbliche dedicate. 47 Complessivamente abbiamo 4 milioni di presenze l’anno nelle varie attività promosse dal sistema culturale genovese (dall’Acquario al Teatro stabile, a Palazzo ducale, ai musei). A Palazzo Ducale, a settembre del 2011, abbiamo superato tutte le presenze del 2010. Per presentarci in maniera unitaria nel promuovere la città ci muoviamo d’intesa con l’Acquario, il Teatro stabile, il Porto antico. Oggi occorre ragionare in termini di “sistema cultura” che però non può essere promosso soltanto dagli operatori. La politica appare ancora indietro. Storicamente però la produzione culturale è stata strettamente legata alle grandi committenze, valga per tutti lo straordinario esempio della Chiesa nei rapporti instaurati con i grandi artisti di ogni epoca. Oppure, in misura diversa, ma a Genova comunque significativa, il ruolo svolto dalle famiglie nobili di cui godiamo i loro lasciti, di ville, di palazzi, di giardini e parchi, di strutture sanitarie. La crisi determina anche una riduzione delle sponsorizzazioni e il neomecenatismo langue. Basti pensare alla crisi dell’arte contemporanea e al ruolo propulsivo che avevano avuto nel settore – da “Civiltà delle macchine”, all’Italsider di Osti, a Olivetti – le grandi imprese italiane. Bene, adesso parliamo della struttura organizzativa di Palazzo Ducale La struttura organizzativa è la vecchia struttura di Palazzo Ducale S.p.A. con una trentina di persone. È invece TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 48 48 Il Tempietto cambiata l’organizzazione del lavoro, si sono ridotte le attività legate alle competenze specialistiche e sono aumentate le forme di flessibilità adeguate alle diverse iniziative, siamo passati da una struttura di servizio a una struttura di produzione. In tutta questa imponente rete di attività e di qualità, riconosciuta da tutti gli osservatori, possiamo enucleare dei filoni, dei fili conduttori? Il primo obiettivo che ci siamo proposti è stato quello di dare un’identità a Palazzo Ducale. Oggi mi pare che ci sia uno stile riconoscibile. Gli ingredienti sono stati l’internazionalità e la convinzione che esiste una domanda diffusa di conoscenza e a cui bisogna tentare di dare risposta. Ci siamo orientati al tema delle interculture, al legame tra scienze naturali e filosofia delle scienze, cultura umanistica e cultura scientifica. La nostra offerta varia dalle mostre più specialistiche a mostre rivolte ad un pubblico più vasto, a cicli di lezioni, incontri, attività didattica. Palazzo Ducale è aperto 365 giorni all’anno e quasi ogni giorno c’è un appuntamento importante. Palazzo Ducale non è più il “salotto buono della città”, ma si rapporta a tanti pubblici diversi. La scommessa sulla quale siamo impegnati è che la cultura di qualità deve essere accessibile a tutti. In che modo i temi della città si riflettono in queste iniziative? In modi diversi, per esempio quello di Mediterranea, che facciamo da tre anni, coincide con una riflessione non retorica sulle tante voci del e sul mediterraneo. La “Storia in Piazza” rimanda alla necessità che il passato non sia consegnato all’oblio. È possibile parlare di Genova direttamente e indirettamente senza odore del pesto (con tutto il rispetto del pesto e della sua grande valenza culturale). Cerchiamo di avviare una riflessione sulla città provando ad allargare lo sguardo, a intrecciare i temi della città con quelli del mondo. Perché cosi è ormai la nostra vita. Il programma del 2012 lo abbiamo costruito insieme a 50 realtà culturali: dal Cep di Prà al Festival dell’economia di Trento. Abbiamo inoltre rapporti organici con associazioni quali il Centro Primo Levi e il Centro studi Antonio Balletto, la Fondazione Garrone. Nella scelta delle persone da invitare non conta l’appartenenza ideologica o la notorietà televisiva quanto la capacità di fornire strumenti di interpretazione del mondo, di dialogare con il grande pubblico. Il nostro obiettivo è di permettere a tutti un supplemento di informazione e di crescita, un’opportunità per alimentare liberamente la propria conoscenza della realtà. E penso che la città questo lo abbia sentito. TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 49 Luigi Garbato già Docente di Lettere al liceo “D’Oria” I “Quaderni del Tempietto” “Ma – bisogna dirlo – gli opuscoli “targati” Tempietto, dalla dignitosissima e semplice veste grafica, rappresentano una sorta di esperienza, per certi versi, unica nel bunker culturale della scuola italiana perché, da un lato, aprono al confronto gli alunni in prossimità del traguardo finale e dall’altro sono la testimonianza di un aggiornamento che dovrebbe essere il “dovere” di chi insegna troppo spesso ancorato a schemi esegetici e a una comoda routine, mentre, invece, la scuola dovrebbe essere ricerca e indagine continue perché – ci si passi l’espressione consunta, ma sempre attuale – i grandi della letteratura (e non solo) sono sempre pronti a parlarci, quando la storia sembra essere muta o – peggio – tragica”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 50 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 51 Il Tempietto I “Quaderni del Tempietto” Luigi Garbato Premessa All’interno delle numerose e poliedriche attività dei Salesiani nella “cittadella” di Sampierdarena, al “Tempietto”, assume – almeno per me – un particolare e singolare ricordo la lunga serie di incontri letterari, filosofici e di varia cultura specificamente mirati agli esami di maturità: una sorta di autentico scoop del solito, vulcanico Don Rinaldini che aveva colto – almeno secondo noi – un aspetto degli esami di stato che erano (e forse ancora sono) sì l’atto finale di un corso di studi, da sempre – però – circondato da uno strano alone, un misto di timori (in primo luogo) e di un malinteso senso della cultura, fatto di informazioni acriticamente raccolte, ahimé contrabbandate per profondo e puntiglioso sapere: ne citiamo una diventata proverbiale per la sua stupidità (il colore delle calze di Lucia ne I Promessi sposi). A parte il fatto che tali esagerazioni non erano davvero leggende in una scuola che giocava le sue chances non di rado su uno sterile nozionismo fatto passare per “dottrina” e che qualcuno giustificava come l’estremo retaggio dell’“era” positivistica, diafano fantasma ancora aleggiante in molti ambiti scolastici. Anzi tale risvolto – almeno ci pare – non è ancor oggi del tutto estinto nelle aule liceali e negli esami di stato. Insomma spesso si andava (o si va?) a sostenere la maturità con un pesante 51 fardello di inutili, superflue conoscenze. E se ci è permesso un paradosso la prova non di rado indossa ancora panni da tempo culturalmente dismessi. Invece – almeno nello spirito di Gentile che, con la sua riforma, aveva modificato la monumentale struttura degli esami – le prove conclusive delle scuole superiori avrebbero dovuto (il condizionale è d’obbligo a causa di pervicaci resistenze vieux type) configurarsi come autentico confronto, scambio di idee e punti di vista ideologici. I “Quaderni del Tempietto” A tale prospettiva hanno mirato i Quaderni del Tempietto, nella profonda convinzione che l’esame di stato dovesse essere soprattutto un autentico dialogo tra esaminatore e candidato,sia l’uno sia l’altro depositari di una propria cultura. Di qui l’idea di invitare nel teatro di Sampierdarena docenti dalla diversa ideologia e formazione perché il confronto tra culture, talvolta ideologicamente opposte, generasse una problematica e una dialettica capaci di suggerire ai candidati un “verbo” alternativo in grado di suscitare dubbi o confermare – arricchendole – certezze. E, lo dico con cognizione di causa, gli insegnanti (universitari e di scuola superiore) invitati non sono mai stati “censurati” guardando alla loro silhouette culturale e ideologica, ma sempre ascoltati senza preclusioni e riserve di sorta. Insomma da tale prospettiva si comprende come gli agili libretti dalla bianca copertina (almeno così erano nella prima “edizione”) costituissero l’autentica TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 52 52 Il Tempietto controvoce proposta (anche se non sempre poi verificata nell’opportuna sede) al bagaglio culturale dei candidati. Insomma le pagine dei Quaderni erano il pretesto prima di tutto per una dialettica che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere sempre alla base degli esami di stato, anzi meglio di maturità, termine che la dice lunga sull’intima essenza (almeno nelle intenzioni) di tale prova. Ma val la pena di sottolineare altri risvolti di questa iniziativa del Tempietto. Intanto i relatori: hanno risposto all’iniziativa docenti di ogni “livello” e ideologia: universitari (segno fin troppo evidente che il loro fare cultura non è stato, in questa iniziativa davvero salesiana, un dialogo tra pochi eletti nel chiuso del proprio orticello, come spesso succede in ambiti accademici) e professori di scuola media superiore; ciascuno con la propria “ideologia” e cultura, ma tutti con il convincimento che gli incontri nel teatro di Sampierdarena sarebbero stati didatticamente fecondi con proficui apporti e scambi di idee. Inoltre va sottolinato che nessuno dei relatori – almeno credo – si è fatto pagare. Insomma in occasione dei rendez-vous nella rossa sala del teatro, si è toccata con mano la gratuità della cultura che – ci si permetta un secolare moralistico appunto – quando è appigionata perde il suo intrinseco e autentico valore. In questi termini l’operazione – Tempietto – (ci si passi la sigla) appare semplice, ma sempre gli incontri presupponevano una non facile gestazione: tanti gli incontri preliminari con Rinaldini in cabina di regia, suggeritore di proposte e obiettore attento, nonché doverosa e severa (si fa per dire) controvoce nel discutere le proposte e le scelte, ma sempre pronto a suggerire un’alternativa, che veniva a sua volta discussa o meglio “anatomizzata”, sviscerata e sottoposta al “fuoco di fila” di eventuali rilievi; ma non si dimenticava la dimensione “teatrale” degli incontri alternando al discorso critico-didattico letture degli autori (spesso, anzi solo “grandi”) che sagacemente interrompessero la “pesantezza” del flusso criticodidattico con la magìa “in diretta” del “verbo” poetico. E la “bontà” della formula scelta per parlare di grande letteratura alle cinco de la tarde è dimostrata dal fatto che gli incontri della sala rossa richiamavano anche “estranei”, o meglio non studenti, attirati dalla formula, che doveva essere un’“esclusiva” per chi si stava preparando agli esami, ma che si traformava anche in ricupero, o meglio aggiornamento per chi voleva risentire grandi voci lontane, sempre spiritualmente feconde, se non “attuali” in una società scandita spesso da disvalori e gretti interessi. Tematiche Alla base – e lo si è detto – ogni relatore aveva come punto di riferimento i programmi d’esame. C’era, quindi, una sorta di vincolo stimolante e impegnativo a un tempo: gli argomenti erano mirati alla letteratura dell’‘800 e del ‘900 e, almeno nelle intenzioni, dovevano costituire da un lato un aggiornamento critico, dall’altro un utile “pretesto” TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 53 Il Tempietto per un’auspicabile dialettica con la commissione d’esame; si trattava, almeno nelle intenzioni, di un messaggio che non intendeva contrapporsi a quelli della scuola, ma corroborarli. E difatti la serie dei volumi del “Tempietto", per certi versi, costuisce una sorta di Storia della letteratura parallela alle lezioni e alla didattica curriculari con l’intento di creare-proprio in vista dell’esameun’alternativa in grado di allargare e approfondire gli orizzonti di una cultura letteraria (quella europea degli ultimi due secoli) caratterizzata da una costante e sofferta ricerca di libertà spesso soffocata dall’ incombere e affermarsi di odiose dittature e che ha finalmente sentito la necessità di non subire passivamente il diktat di turno (come drammaticamente è stato), ma di creare spunti culturali in grado di allargare orizzonti. Ma di là da tale prospettiva, i pomeriggi al Tempietto avevano sempre un marchio salesiano: c’erano, difatti, tanti giovani che si trovavano lì non solo spinti dalla voglia di sapere, ma anche (o soprattutto) dal desiderio di aggregazione e di confronto nello spirito di Don Bosco: un atteggiamento a suo modo ineffabile, uno stare assieme e trovarsi tutto particolare. Ma – bisogna dirlo – gli opuscoli “targati” Tempietto, dalla dignitosissima e semplice veste grafica, rappresentano una sorta di esperienza, per certi versi, unica nel bunker culturale della scuola italiana perché, da un lato, aprono al confronto gli alunni in prossimità del traguardo finale e dall’altro sono la testimonianza di un aggiornamento che 53 dovrebbe essere il “dovere"di chi insegna troppo spesso ancorato a schemi esegetici e a una comoda routine, mentre, invece, la scuola dovrebbe essere ricerca e indagine continue perché – ci si passi l’espressione consunta, ma sempre attuale – i grandi della letteratura (e non solo) sono sempre pronti a parlarci, quando la storia sembra essere muta o – peggio – tragica. Ma l’ultimo quaderno del Tempietto (il numero 12) intanto si presenta con una nuova veste tipografica: i bianchi libretti che hanno percorso con dovizia di interventi critici e costanti aggiornamenti la prepotente espressione letteraria dell’’800 e del ‘900 cedono il posto – si fa per dire – a nuovi, suggestivi allargamenti: il discorso che nelle numerose pagine dei quaderni cercava di sviscerare (e, secondo noi, c’è riuscito) un affascinante panorama letterario si apre (o si allarga) ad altre prospettive. Ed ecco che accanto alla letteratura compaiono nuove dimensioni culturali che “costringono” (l’unico verbo che può rendere l’idea) a fare i conti oltreché con la letteratura, anche con altre prepotenti dimensioni culturali: in particolare quella politico-filosofica europea tesa alla ricerca di una propria identità. Difatti il frontespizio abbandona la “famosa”, semplicissima “pagina bianca” per cedere alla suggestione della facciata neoclassica dell’edificio (segno evidente dello spessore della storia) e anche solo scorrendo l’indice dell’ultimo dei Quaderni del Tempietto, ci si rende conto del nobile travaglio culturale del TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 54 54 Il Tempietto nostro continente, dell’intenso evolversi-pur tra tanti intoppi e tragiche “sconfitte” – del pensiero europeo, senza mai rinunciare, però, alla propria identità, anzi arricchendola proprio con la forza degli errori che hanno costellato la complessa storia del “vecchio continente”; e proprio da sconfitte ed errori (soprattutto quello dell’eurocentrismo) muove l’idea di un’Europa vera individuata in un intenso e continuo filone culturale con resistentissime radici all’apparenza estranee. Difatti, se si scorre anche soltanto l’indice del nuovo quaderno, si trovano figure e movimenti culturali che sembrerebbero a “prima vista” lontani, ma, a detta di Rinaldini, che presenta I Venerdì Europei al Tempietto di Sampierdarena -: “attraverso il registro filosofico, letterario e artistico ascolteremo voci lontane e vicine nel tempo che dicono aspetti qualificanti della nostra identità culturale da Socrate a San Tommaso, a Kant, da Orazio a Dante, a Leopardi; dall’Acropoli alle cattedrali, all’arte del razionalismo neoclassico; da un universalismo “chiuso nell’interesse egoistico all’universalismo umanistico aperto alle differenze nell’età della globalizzazione. Altro elemento essenziale della nostra civiltà è la rivoluzione scientifico-tecnica, “un modello culturale autonomo ed egemone” esteso a tutto il pianeta, ma pur sempre europeo”. Quest’ultima affermazione di Gadamer non deve essere intesa come il segno di una pericolosa superiorità, ma quale programma culturale che affonda proprio nelle radici del “vecchio” continente la sua linfa perenne. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 55 Benito Poggio già Docente di Lingua e Letteratura Inglese al Liceo “D’Oria” “Tempietto” e “Gazzettino sampierdarenese”: due vitali polmoni culturali Il Centro Culturale “Il Tempietto” e “Gazzettino sampierdarenese” due polmoni autentici per la vita culturale di Sampierdarena; due realtà che danno tanto al territorio di Sampierdarena e in cambio non chiedono nulla, se non l’attenzione e la fedeltà al loro impegno. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 56 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 57 Il Tempietto “Tempietto” e “Gazzettino sampierdarenese”: due vitali polmoni culturali. Il 150° dell’Unità d’Italia a San Pier d’Arena Benito Poggio H o sempre sostenuto (e ampiamente dimostrato in più occasioni: sui “Quaderni del Tempietto” e sul “Gazzettino sampierdarenese”) che San Pier d’Arena è, in tutta autonomia, un’autentica e attiva fucina culturale di prim’ordine e lo è, a pieno diritto, per due motivi principali: perché la Cultura (quella con la “C” maiuscola) è da sempre congenita e connaturata nel DNA della cosiddetta “Piccola Città”, autonoma fino al 1926, e che è, non lo si dimentichi mai, del Municio II Centro Ovest, che comprende anche San Teodoro, il quartiere più popoloso, tra tutte quelle che un tempo si chiamavano “Delegazioni”. Uno sguardo al passato di San Pier d’Arena, la vede, nel Cinquecento e oltre, lussureggiante centro di villeggiatura per i nobili genovesi che, progettate da grandi architetti, vi costruirono le loro sontuose ville, come La Fortezza, La Bellezza, Villa Scassi e altre ancora, contornate da giardini che si prolungavano fino al mare, ricchi di fontane e giochi d’acqua. Adibite a scuole, se ne sta tentando oggi un lento recupero: e costituirebbe un ritorno 57 turistico-artistico encomiabile un circuito che ne preveda e consenta la visita. Nell’Ottocento, nel secolo dell’Unità d’Italia e dell’espansione di attività commerciali e industriali, San Pier d’Arena si sviluppa come prolungamento del porto e come centro industriale di primaria importanza tanto da meritare l’appellativo di “Manchester italiana” e di essere annoverata tra i siti industriali più produttivi… a scapito, però, della bellissima e lunga spiaggia che dal Promontorio di San Benigno si prolungava fino al Polcevera. Nella nostra epoca, a 150 anni dall’Unità d’Italia, la sua funzione è variata ulteriormente: centri commerciali e negozi di ogni genere, uffici e cinema hanno preso il posto delle fabbriche… dissoltesi, purtroppo, come neve al sole a causa della globalizzazione del commercio, della delocalizzazione delle industrie e della spietata concorrenza (al ribasso) di altri paesi. Nonostante tutto San Pier d’Arena non merita affatto d’essere sminuita e considerata o, peggio ancora, trattata come semplice costola della “Grande Genova”. Ancor oggi, semmai, è in grado di gareggiare con “La Superba”, talvolta superandola, poiché sono davvero varie e numerose le iniziative in ogni campo e settore della vita comunitaria che a San Pier d’Arena, senza soluzione di continuità, sono messe in atto e portate avanti dalle varie organizzazioni e associazioni presenti sul territorio per lunga tradizione: culturali, musicali, artistiche, sportive e di volontariato nei settori più diversificati. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 58 58 Il Tempietto Tra le feconde organizzazioni e dinamiche associazioni sampierdarenese – punto fermo e inalienabile – spicca indubbiamente l’Istituto “Don Bosco”, voluto e fondato direttamente dal santo fondatore, San Giovanni Bosco, che, al suo interno, ha dato vita e opera da lungo tempo il Centro Culturale “il Tempietto”, guidato dal salesiano don Alberto Rinaldini che ne è animatore e propulsore primario. “Il Tempietto”, com’è ovunque noto, si è rivelato e continua ad essere un autentico polo d’attrazione che calamita a San Pier d’Arena centinaia di giovani e meno giovani provenienti da diversi paesi del mondo, attira studenti e docenti da tutte le scuole della città, richiama in gran numero amanti e simpatizzanti della cultura a tutto campo, dando vita a convegni e conferenze, dibattiti e approfondimenti, spettacoli teatrali e concerti musicali. Ma l’attività prevalente e senz’altro più impegnativa del Centro Cultura “il Tempietto”, il cui lungo cammino si protrae da oltre trent’anni, è oggi indubbiamente costituita dalla molteplice serie, quella vecchia e quella rinnovata, dei “Quaderni del Tempietto”. Nella nuova serie, ciascun “Quaderno”, seguito e arricchito con particolare cura, è stato dedicato ad una particolare tematica, problematica o accadimento che ha caratterizzato e improntato il nostro tempo, come il ‘68, la Resistenza, il Relativismo, gli Anniversari. Tra gli anniversari, su tutti: - nel 2004, in occasione dell’anno che ha visto Genova-Capitale Europea della Cultura, fu organizzato un ciclo di lezioni-conferenza tenute al venerdì e dedicate in special modo agli studenti delle scuole superiori. Tali lezioni-conferenza sono state raccolte e pubblicate in uno speciale Quaderno detto “Venerdì Europei”; - anche se nel 2011 cadeva la ricorrenza del 150° dell’Unità d’Italia: 1861-2011, il “Centro Cultura salesiano” s’era già mosso per tempo e con congruo anticipo, impegnandosi nel processo di avvicinamento all’importante avvenimento. Ha prodotto, a tale scopo, una serie di ricche, accurate e preziose pubblicazioni che, con il più recente, formano una magnifica quadrilogìa. Il n. 10 e n. 11sono stati presentati a palazzo Ducale con pubblico riconoscimento d’un’opera davvero utile e meritevole d’ogni encomio. Ma chi c’è dietro tutto questo impegno? e di chi sono il frutto i saggi e gli studi pubblicati? Sono davvero tanti – tra cattedratici genovesi e non, esperti nelle varie discipline e docenti di scuole superiori della città – coloro che, generosamente e gratuitamente, hanno profuso la loro intelligenza e le loro capacità e continuano nell’impegno di metterle, senza esclusioni di sorta, al servizio di tutti gli altri: è così che il centro Cultura “il Tempietto” illumina e rende grande San Pier d’Arena. E tutto ciò lo fa con l’apporto del “Gazzettino sampierdarenese”, una voce giornalistica e di informazione locale importante che del “Tempietto” e di ogni altra realtà nel territorio (e ce TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 59 Il Tempietto ne sono tante!) ha da sempre registrato l’intensa attività e gli avvenimenti più significativi, dando loro il dovuto e meritato impulso. Tutte le iniziative poste in essere a San Pier d’Arena trovano degna e ampia risonanza, vengono sempre fatte proprie e pubblicizzate da un – mi sia consentito affermarlo – rinnovatissimo (e “lanciatissimo”) “Gazzettino sampierdarenese”, da sempre, ma ancor più oggi, vero polmone e vera voce dei Sampierdarenesi tutti, unitamente e in sintonìa col Centro Cultura “il Tempietto”. E i Sampierdarenesi – non solo quanti a San Pier d’Arena vivono e lavorano, ma anche quanti (e sono in gran numero), per le ragioni più varie, si sono trasferiti lontano dal loro “borgo natìo”, andando a vivere e lavorare in altre città e perfino all’estero – sono, e si mostrano, sentimentalmente attenti e legati ma consapevolmente fedeli e affezionati a chi con tanta dedizione opera per loro: “il Tempietto” e il “Gazzettino Sampierdarenese”. Abbiamo detto chi è il solerte promotore e animatore del “Tempietto”, e chi è oggi l’eccellente guida del “Gazzettino sampierdarenese”? È un giornalista esperto e di lunga navigazione che 59 risponde al nome di Dino Frambati. Egli attualmente ricopre, con perizia e con passione, l’incarico di “direttore responsabile” e, ad avallare la sua valentìa, è stato eletto con unanime consenso alla carica di vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti. Nella direzione è affiancato da un abile, instancabile e capace “redattore capo”, nella persona di Stefano D’Oria; ma non si può dimenticare che con i due collabora un validissimo e impegnatissimo “Comitato di redazione” formato da Ezio Baglini, Roberta Barbanera, Pietro Pero, Sara Gadducci e Orazio G. Messina, e che, in aggiunta, tutti possono contare su un agguerrito e tosto manipolo di “redattori” (sono tanti e non li nomino), davvero attivi, sempre in fermento, refrattari al gossip, ma sempre pronti a stare sulla notizia e coglierla quando ne vale veramente la pena per il bene di crescita culturale di San Pier d’Arena. Centro Cultura “il Tempietto” e “Gazzettino sampierdarenese” due polmoni autentici per la vita culturale di Sampierdarena; due realtà che danno tanto al territorio di Sampierdarena e in cambio non chiedono nulla, se non l’attenzione e la fedeltà al loro impegno. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 60 60 Il Tempietto Centro Culturale “Il Tempietto” Un’appendice ai due articoli precedenti a cura di Alberto Rinaldini 1. Scuola di Formazione politica Nel 1991 al Tempietto nasce la Scuola di Formazione politica. Un biennio ricco come ben documentano i tre volumi della serie politica dei Quaderni. Il primo corso venne aperto dell’on Leopoldo Elia ex presidente della Corte Costituzionale, nel secondo anno da Ennio Pintacuda con la scorta. Altre presenze Rosi Bindi e Bartolomeo Sorge. Docenti sono tutti professori universitari, esperti a vario titolo. Nel primo anno gli iscritti erano 120. Frequentavano il corso dalle 16 alle 17,30. Si voleva dare la Scienza della politica, non l’ideologia di questo o quel partito; intendevamo offrire strumenti per essere capaci di scelte motivate… e la scelta personale vuole conoscenza dell’arte, della sua struttura e della missione della politica. L'interesse si esaurì in due anni, ma riemerse nel 1995 col formarsi di un gruppo di giovani laureati e universitari che con Alberto Rinaldini si confrontavano con passione sull’attualità politica. Era il tempo dei “ribaltoni” politici. Frutto delle nostre discussioni sulla politica in atto sono tre piccoli volumi ciclostilati . Fu una breve stagione. Nel 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle, il corso di politica per aiutare i giovani “a capire il nostro tempo” fu condotto dal prof. Eugenio Torre. Il discorso della scuola di formazione politica collima col fine caro a don Bosco che nell’educazione vede lo strumento per fare crescere “onesti cittadini e buoni cristiani”. E si può essere buoni cristiani se si è onesti cittadini… e l’onesto cittadino è cosciente del portato della cittadinanza, che richiede conoscenza del fine e degli strumenti per agire politicamente. 2. Convegni giovanili - forum dei giovani Un modo per rendere protagonisti i giovani attraverso il confronto e il dialogo tra loro e con gli adulti. Un andare a fondo su problemi che la scuola neppure sfiora. I 9 convegni affrontavano problematiche della condizione giovanile: Il fine: maturare una conoscenza critica e costruttiva del proprio tempo per essere protagonisti (anni '80-90). In sintonia con un umanesimo che sprizza fiducia nei giovani ed apre orizzonti di speranza… tanto caro al “fare” di don Bosco. Nel 2000 tale prospettiva riprendeva quota aggiungendo un tocco di internazionalità. Significativo il tema del 3° forum del 2004: “Genova: mare che unisce, città che accoglie”. Affrontava l’esplosione in Sampierdarena della immigrazione massiccia dei latino americani. I 4 Forum sono stati sponsorizzati dalla Provincia di Genova. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 61 Il Tempietto 3. Nel 2004 “Genova capitale europea della Cultura” il Tempietto ha vissuto un anno esaltante Scrive Benito Poggio nella presentazione del volume “Venerdì Europei”. “Nell'ambito del 2004, che vede Genova fregiarsi del titolo Capitale europea della cultura, anche il Centro Culturale “Il Tempietto”, una tra le più vive e vitali realtà genovesi, non poteva esimersi dal promuovere un'iniziativa tale da implementare un valore aggiunto al complesso di iniziative promosse dall’Ente, creato ad hoc, GENOVA 04”. Il tema: “le radici culturali dell’Europa” colte attraverso il registro filosofico, letterario e artistico nei tre momenti: classicità, medioevo, modernità. 61 A questo volume si aggiungono gli atti di tre convegni di studio: Immanuel Kant, pesatore attuale; Giorgio La Pira; Edith Stein, donna europea. 4. La Rivista il “Tempietto" Segna il momento più alto dell’attività culturale per visibilità e notorietà in città e fuori città (vedi Sito www.iltempietto.it voce Rivista). Gli ultimi 4 volumi sono uno spaccato sull’“esperienza Italia” nei suoi 150 anni di vita. Il primo “Oltre il mito del Risorgimento” è stato stampato nel 2009; il secondo “In vista del 150° dell’Unità d’Italia” e il terzo “150° dell’Unità d’Italia” nel 2010; il quarto “150° dell’Unità d’Italia” e “Fare gli Italiani” nel 2011. L’ultimo numero, che vede la luce nello scadere dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Italia Unita, raccoglie l’apporto dei Salesiani e di alcuni ordini e/o congregazioni religiose. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 62 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 63 Luca Beltrami Dottore di Ricerca presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova L’“amor patrio” di Dante negli scritti letterari di Mazzini “Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che [...] mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti”. G. Mazzini TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 64 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 65 Il Tempietto L’“amor patrio” di Dante negli scritti letterari di Mazzini Luca Beltrami 1. Dante «Padre della Nazione» Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare Genova sta, marmoreo gigante, Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante Secolo ei grande austero immoto appare. Da quegli scogli, onde Colombo infante Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare, Egli vide nel ciel crepuscolare Co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante La terza Italia; e con le luci fise A lei trasse per mezzo un cimitero, E un popol morto dietro a lui si mise. Or, vecchio esule, al ciel mite e severo Levato il volto che giammai non rise, – Tu solo, – pensa – o idëal, sei vero. Con questo sonetto, composto nel febbraio 1872, circa un mese prima della morte di Mazzini, Giosuè Carducci tributa un sentito omaggio a uno dei padri della nazione italiana1. Ma quali sono i grandi esempi del passato con i quali Mazzini alimenta il proprio amore per la patria? Uno di questi è Dante, l’influenza del quale è così determinante nel suo pensiero, da essere citato, insieme a Gracco, nella sezione centrale del sonetto, nell’ultimo verso della seconda quartina, ovvero al culmine tensivo del componimento, sottolineato dall’enjambement tra la fine del verso e l’esordio della prima 65 terzina. In seguito all’esaltazione civile della figura mazziniana, colta in un atteggiamento statuario e monumentale che si pone in gara con la rappresentazione plastica di Cristoforo Colombo, fino ad allora il genovese più illustre, Carducci individua proprio nell’opera del Sommo Poeta la radice ideologica dell’iniziativa mazziniana, intenta a rivitalizzare, con la promessa della «terza Italia», ovvero di una renovatio delle glorie della Roma antica e rinascimentale, un popolo oppresso dal dominio straniero e giacente tra le rovine dei fasti passati. La formazione “dantesca” di Mazzini viene del resto testimoniata in molti degli scritti lasciati dall’esule ai lettori. La lunga nota introduttiva al primo volume degli Scritti editi e inediti, raccolti da Gino Daelli a partire dal 1861, costituisce una delle prove più autorevoli del suo “culto” per Dante2. Lì Mazzini ripercorre le tappe più significative della propria esistenza soffermandosi a lungo sui momenti della gioventù. L’ardente passione per Foscolo, che lo «infanatichisce» tanto da far temere alla madre la possibilità di un suicidio, è la chiave di accesso per l’impegnata lettura del poeta fiorentino. Oltre alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, che lo convincono a vestire sempre di nero per il «lutto della patria» – ma in questo atteggiamento c’è forse una certa «affettazione», come più tardi avrebbe suggerito un amico di quegli anni come Giovanni Ruffini3 –, il giovane studente genovese ammira anche l’opera critica di Foscolo, che nelle lezioni pavesi indica nell’impegno civile il vero TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 66 66 Il Tempietto ufficio del letterato, mentre nel celebre Discorso sul testo della Commedia di Dante evidenzia l’aspetto “patriottico” dell’exul immeritus, contribuendo all’emancipazione della critica dagli studi prettamente stilistici, retorici e filologici sulla Divina Commedia e sulle opere minori4. A proposito di queste ultime, Mazzini avverte più di altri la necessità che esse vengano studiate con il medesimo impegno dedicato agli scritti maggiori. Convivio, De vulgari eloquentia e Monarchia rivelano infatti alcuni fondamentali aspetti dell’ideologia politica di Dante, senza la conoscenza dei quali la stessa esegesi della Commedia risulterebbe parziale e incompleta. Al di là della probabile impuntatura polemica, l’autore rintraccia principalmente nella Monarchia alcune importanti anticipazioni della sua stessa dottrina e sostiene persino di avere attinto dal trattato dantesco quella fede nel progresso «che contiene in sé la religione dell’avvenire» rilanciata negli anni della Restaurazione da Cousin e Guizot, prima che il loro ingegno si inchinasse al giogo della monarchia di Luglio5. L’asserzione, che oggi nessun critico oserebbe sostenere, assume però un significato profondo se consideriamo quanto la fiducia nel progresso della società umana sia un elemento fondante dell’ideologia democratica mazziniana. Appare dunque un dato degno d’attenzione che Mazzini attribuisca proprio al Sommo Poeta la paternità di un concetto così determinante nella sua visione filosofica della storia, e poco importa se gli studiosi novecenteschi abbiano invece dimostrato come l’idea della perfettibilità indefinita degli uomini risalga piuttosto al pensiero di Condorcet e ai filosofi del Settecento mediati dalla cultura francese postnapoleonica (si considerino l’interpretazione di Vico fatta da Michelet, la traduzione di Herder allestita da Quinet e la mediazione eclettica tra Herder e Vico nel Cours di Cousin). Considerata l’assidua lettura di Dante negli anni giovanili («dal 1821 al 1827 aveva imparato a venerare Dante non solamente come poeta, ma come Padre della Nazione»6), non sorprende che lo scritto d’esordio di Mazzini sia proprio dedicato al poeta che più sentiva affine ai suoi ideali. Il saggio Dell’amor patrio di Dante viene composto tra il 1826 e il 1827, all’epoca in cui l’allora ventiduenne Mazzini è in procinto di laurearsi in Legge dopo il biennio propedeutico in Belle Lettere. Il saggio, che è una vibrante protesta contro la secolare mancanza di libertà politica in Italia, viene audacemente spedito all’«Antologia» di Firenze. La rivista di Vieusseux, pur aperta al nuovo gusto romantico e alle istanze risorgimentali, non può accettare un articolo in cui l’interesse letterario assume una finalità politica così tanto evidente, ed è costretta a rifiutarne la pubblicazione per non incorrere nelle pesanti sanzioni della censura. Lo scritto viene però conservato dai redattori del periodico e, più tardi, verrà riscoperto da Tommaseo, che nel 1837 ne agevolerà la stampa sul «Subalpino», rimediando in parte al decennale silenzio sull’articolo7. Tuttavia, tornando sulla TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 67 Il Tempietto questione nel 1861, Mazzini stesso sostiene che «molto a ragione» Tommaseo non aveva inserito quelle pagine sull’«Antologia» e rivela che le aveva «interamente dimenticate», prima di trovarle pubblicate, con molta sorpresa, sul giornale «Subalpino»8. 2. Giulio Perticari e l’«amor patrio» di Dante Collocandosi nel pieno del dibattito critico che negli anni Venti dell’Ottocento si era aperto sul sentimento di Dante nei confronti di Firenze e dell’Italia, Mazzini propone un’interpretazione civile e patriottica della sua esperienza biografica e letteraria che trae origine proprio dalla critica di matrice foscoliana. Il titolo del saggio rimanda però, più immediatamente, al trattato Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eloquio, attraverso cui un’altro importante critico, Giulio Perticari, aveva cercato di dimostrare come la rampogna dantesca sui mali della sua patria fosse dettata in realtà da un sentimento di profonda commozione verso la terra natìa, tormentata da una sorte avversa9. Interpretando l’opera di Dante alla luce delle vicende esistenziali dell’autore e delle riflessioni affidate ai trattati minori, le durissime invettive della Commedia avrebbero infatti acquistato un significato più completo e avrebbero trovato giustificazione nell’analisi del contesto storico nelle quali furono proferite. Il saggio di Perticari, in realtà, si inserisce nel più ampio contesto della questione sulla lingua e, difendendo l’idioma letterario toscano, cerca di 67 combattere il purismo cruscante, favorevole a un rigoroso ritorno all’eloquio trecentesco. Pur ponendosi nell’alveo del classicismo e appellandosi all’auctoritas di Vincenzo Monti, che non poco aveva contribuito alla rinascita degli studi danteschi, Perticari suscita, con le sue opinioni, un’aspra polemica10. Rigettando l’accusa di ingratitudine verso la patria rivolta a Dante da più parti, il genero di Monti onora l’Alighieri come «il più grande cittadino d’Italia, e l’ottimo e certissimo maestro della nobile nostra favella»11. Ciò basta per innescare la diatriba. Tra le prime reazioni si registra quella contenuta nel numero del marzo 1821 dell’«Antologia», in cui il recensore, mostrando una forte perplessità riguardo alla tesi espressa da Perticari, sostiene che, quand’anche fosse dimostrato l’amore di Dante per la patria, il discorso risulterebbe fuori luogo nel contesto dello studio sulla lingua. Nelle pagine centrali del saggio si segnalano dunque alcuni passi circostanziati del trattato di Perticari per verificarne la scarsa tenuta12. Lo stesso procedimento critico viene adottato anche in un opuscolo composto nel 1825 da Niccolò Tommaseo e intitolato Il Perticari confutato da Dante13. Confermando l’opposizione dell’ambiente fiorentino dell’«Antologia» alle tesi espresse da Perticari, nella prima sezione del saggio Tommaseo discute genericamente sulla questione della lingua appellandosi alle auctoritates classiche e volgari, mentre nella seconda parte passa a confutare le singole argomentazioni del critico TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 68 68 Il Tempietto ritenute false o erronee. Il discorso non esce dall’ambito linguistico, tuttavia, nell’Appendice pubblicata in calce al pamphlet, Tommaseo accenna anche alla tematica civile, sostenendo che «per riguardo poi all’apologia dell’amor patrio di Dante, e del suo libro intorno al volgare eloquio, fu egli confutato nelle lettere di Panfilo a Polifilo con prove sì evidenti ed incontrastabili, che il Perticari, dopo tanta fatica e studio, ammutolì, né ha mai potuto sciogliere le difficoltà, né difendere le incongruenze che sono state rilevate nell’opera sua»14. Se però seguiamo il consiglio di Tommaseo e sfogliamo le Lettere di Panfilo a Polifilo scritte da Giuseppe Biamonti15, troviamo in sostanza gli stessi rilievi sulla lingua e poco o nulla sull’interpretazione patriottica di Dante, che sembra venire recepita come un aspetto secondario della polemica. Un giudizio più temperato da parte dell’«Antologia» si legge invece in una lunga recensione sulle diverse novità editoriali apparsa sulla rivista nel maggio 182716. Nonostante il critico fosse morto già nel 1822, lo strascico polemico innescato dalle sue opere non si era ancora del tutto esaurito, tanto che alcuni letterati si erano opposti all’iniziativa promossa dal conte Cassi di erigere un monumento in memoria dello studioso, da lui considerato uno dei più acuti filologi danteschi. Intervenendo sulla questione, il recensore dell’«Antologia» non manca di prendere le dovute distanze dall’autore del trattato sull’Amor patrio e, ad esempio, dubita «assai che la severa integrità del gran padre Alighieri (se per integrità s’intende il contrario dell’ira sua contro la patria) sia stata da questo suo studioso rivendicata»17. Tuttavia a Perticari vengono riconosciuti impegno e serietà negli studi nonché qualità morali e bontà d’animo sufficienti a far sì che «quattro marmi scolpiti» non sembrino affatto «un pegno di gratitudine eccessiva»18. Un tempestivo riconoscimento del suo magistero viene comunque dall’ambiente classicista genovese riunito attorno a Gian Carlo Di Negro, che il 21 agosto 1825 organizza la cerimonia per l’inaugurazione del busto di Perticari nel giardino della sua celebre Villetta, situata a pochi passi dall’Acquasola19. In questa occasione l’iniziativa viene apertamente lodata dall’«Antologia», che fa eco all’approvazione già espressa qualche tempo prima dal «Ricoglitore italiano e straniero»20. Nonostante l’atteggiamento benevolo da parte dei classicisti liguri nei confronti del genero di Vincenzo Monti, il trattato sull’Amor patrio viene biasimato senza troppe riserve dal «Giornale ligustico», avamposto del conservatorismo cattolico locale ispirato dal padre barnabita Giambattista Spotorno21. Senza nemmeno accennare alla disputa linguistica, il recensore focalizza la propria attenzione sul problema politico e intende confutare l’asserzione fondamentale del discorso di Perticari, ovvero l’idea che Dante non abbia mai provato ira e odio per la patria, contrariamente a ciò che aveva sostenuto Cesari nelle Bellezze della Commedia di Dante Alighieri. Una lettura capziosa del commento TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 69 Il Tempietto foscoliano all’opera dantesca è sufficiente al critico del «Giornale ligustico» per smontare la tesi dell’avversario, infatti «se gli studiosi vedranno consentire in un medesimo giudizio e il Cesari e il Foscolo cotanto dissimili e per gli studj e per l’indole, ed amendue innamorati di Dante, avverrà forse che non più si contenda intorno al vero amor patrio dell’Alighieri»22. Raccogliendo i vari rilievi che Foscolo muove a Perticari23, il recensore riesce quindi a rendere inattaccabili le proprie osservazioni, perché apparentemente condivise dal poeta di Zacinto, autorità indiscutibile della letteratura dell’epoca, ma anche principale interprete della poesia civile e patriottica, cosicché, al cospetto di tale poeta, «tutta l’ingegnosa operetta del Perticari apparisce inutile prova di sagace intelletto»24. Sembra quasi superfluo sottolineare che la lettura mazziniana dell’opera di Dante e Foscolo andrà in direzione diametralmente opposta. 3. Giuseppe Mazzini e l’«amor patrio» di Dante All’epoca della composizione dell’Amor patrio di Dante, Mazzini è poco più che un ragazzo fresco di studi letterari. L’avventura nell’«Indicatore genovese», l’adesione alla carboneria, l’arresto, la detenzione al Priamar di Savona, l’esilio e la fondazione della Giovine Italia, ovvero le tappe che costituiranno la svolta decisiva della sua vita, sarebbero arrivate poco tempo dopo. Già dallo scritto giovanile emerge tuttavia un nodo centrale della sua impostazione critica, ovvero 69 l’intrinseco legame tra letteratura e istituzioni, da cui scaturisce la convinzione che ogni discorso letterario sia anche, necessariamente, politico. Anzi, ricordando nell’edizione Daelli i tempi della militanza nell’«Indicatore genovese», Mazzini sostiene che la questione letteraria sia sempre subordinata alla lotta politica, infatti «l’indipendenza in fatto di letteratura non era se non il primo passo a ben altra indipendenza: una chiamata ai giovani perché ispirassero la loro alla vita segreta che fermentava giù giù nelle viscere dell’Italia»25. La poesia dunque non può prescindere dall’impegno civile e il suo fine ultimo non può essere altro che offrire l’«ispirazione individuale» al servizio delle più importanti «aspirazioni della vita collettiva italiana», indirizzando l’evoluzione di una coscienza sociale ancora «incerta, indefinita, senza centro, senza unità d’ideale»26. L’esordio dell’Amor patrio di Dante è perciò un vagheggiamento dell’epoca greca antica, quando i poeti «consecravano il loro genio all’utile della patria» contrariamente a quanto avviene nella modernità, in cui predomina la figura dell’intellettuale cortigiano che vende la sua libertà alla tirannide politica27. Venendo poi alla polemica sul sentimento di Dante verso la patria, Mazzini si schiera tra coloro che considerano il poeta come un prototipo dell’«ottimo cittadino», costretto a rimproverare Firenze e l’Italia a causa delle avverse contingenze storiche. Non odio o ira albergherebbero dunque nelle sue violente invettive, ma un profondo TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 70 70 Il Tempietto sdegno esprimibile soltanto con un vibrante tono di rampogna. L’ufficio della satira è infatti «santo» laddove non dia licenza a una volgarità fine a se stessa, ma sia condotto con la «severità della virtù» sul modello di Persio o «colla onesta decenza del nostro Parini»28. Quelle pronunciate da Dante sono perciò «parole di fuoco», «parole d’alto sdegno, d’iracondo dolore, di amaro scherno, tali insomma, che colpir valessero quelle menti indurate»29. L’ardore con cui il poeta flagella i vizi dei suoi contemporanei è dunque il medesimo che alimenta l’amore per la patria, ma ciò appare evidente solo collocando l’opera di Dante nei tempi in cui l’autore ha vissuto30. Il quadro della società due-trecentesca è dipinto da Mazzini a tinte fosche e la civiltà medievale appare lacerata da insanabili contrasti, tanto che «sublimi virtù» si mescolano a «grandi delitti» e «giganteggian gl’opposti del bello, e dell’orrido»31. Una tale «irrequieta fecondità» di energia già all’epoca avrebbe potuto porre le basi dell’indipendenza dall’oppressione straniera, ma la discordia «ingenita nelle menti italiane», le ambizioni, i particolarismi e gli interessi privati delle varie signorie hanno impedito lo sviluppo di un sentimento unitario per la patria32. Di fronte a uno spettacolo funesto di guerre interne, tradimenti, città e principati che combattono «a danno della madre comune», Mazzini constata come «non possiamo, se non gemere su questa nostra Italia, che diede sì miserando spettacolo al mondo»33. Non si può dunque biasimare Dante, che ha denunciato la tragica situazione dell’epoca mosso da sdegno per gli interessi privati dei potenti e compassione per le sorti della patria. Memore della celebre apostrofe all’Italia del canto VI del Purgatorio, Mazzini descrive la perenne condizione di guerra civile, depreca lo stato di anarchia e rammenta il disprezzo della legge da parte dei cittadini al tempo dei Comuni34. «Le leggi erano: ma i governi erano impotenti a serbarne intatta l’esecuzione»35: manca cioè chi, tra papa e imperatore, sia in grado di porre mano «a la predella» e governare una contrada fatta «indomita e selvaggia»36. Se infatti la gente che dovrebbe «esser devota» cerca costantemente di usurpare il potere politico, creando confusione tra funzione religiosa e aspirazioni temporali, Alberto «tedesco», ovvero colui che dovrebbe assumere le redini del comando, lascia che «’l giardin de lo ‘mperio sia diserto»37. Ora, sostiene Mazzini, qualsiasi uomo sensibile alle «sciagure d’una nazione» che rivolge furiosamente le proprie forze «contro i suoi figli, e prepara allo straniero la via», non può provare se non «dolore» e piangere su sventure tanto grandi38. Ma solo poche anime magnanime riescono più di altre a interpretare il pensiero collettivo di un epoca. In ogni periodo storico ci sono infatti alcuni geni che «comprendono in un’occhiata la situazione» e, invasi da uno «sdegno santo», sono in grado di riassumere in sé l’epoca appena trascorsa e di presentire quella successiva. Dante è appunto uno di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 71 Il Tempietto loro, e Mazzini descrive in questi termini il suo ardore polemico: Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che non possono acquetarsi all’universal corruttela, né starsi paghe d’uno steril silenzio. – Collocate dalla natura ad una immensa altezza comprendono in un’occhiata la situazione, e i bisogni de’ loro simili; straniere a’ vizi de’ loro contemporanei, tanto più vivamente ne sono affette; uno sdegno santo le invade; tormentate da un prepotente desio di far migliori i loro fratelli, mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti39. In questo modo Dante non viene soltanto assolto dall’accusa di provare odio per la patria, ma anzi viene rilanciato come il «profeta» dell’identità sociale e culturale italiana. Le dure invettive della Commedia sono infatti attualizzate alla luce della situazione politica contemporanea e, per Mazzini, parlare di Dante significa porre le basi di un’ideologia apertamente risorgimentale e romantica, dove l’aspetto letterario assume una finalità politica talmente manifesta da costringere i redattori dell’«Antologia» a rifiutare la stampa dell’articolo. Non a caso lo stesso lessico dantesco e foscoliano sarà utilizzato da Mazzini anche per presentare gli autori a lui coevi e, ad esempio, descriverà con entusiasmo un altro interprete della lotta contro l’oppressione politica come Francesco 71 Domenico Guerrazzi, nel quale il critico intuirà la scintilla del genio, appassionandosi al romanzo “democratico” della Battaglia di Benevento40. Pur non negando la durezza della parola dantesca, Mazzini trova un’ulteriore giustificazione del tono satirico nel confronto con altri poeti. Lo sdegno di Petrarca, ad esempio, è stato altrettanto fiero. Anzi, se Dante si era spinto a declassare l’Italia da «donna di provincie» a «bordello»41, i tre sonetti babilonesi di Petrarca, nei quali il poeta non esita a definire «putta sfacciata» la corte avignonese42, «superano in ira quanto fu detto mai da Dante, o da alcun altro poeta»43. È però nella canzone Italia mia che Petrarca mostra tutto il suo disprezzo per i «tirannetti, che laceravano la patria»44. Del resto la canzone 128 pare essere ben presente nella memoria di Mazzini, che nel saggio lamenta gli oltraggi perpetrati a danno delle «belle contrade, che sembrano create dalla natura ad una pace tranquilla ed eterna»45. Se infatti «belle contrade» è un evidente lessema petrarchesco, il topos del territorio italiano difeso naturalmente dalle Alpi ricorre nella terza lassa di Italia mia. Nonostante la benevolenza della natura, l’Italia è però rovinata dalle ambizioni private dei principi, che mancano della pietas necessaria alla sua salvezza. Al Giove «crucifisso» di Dante che rivolge lo sguardo altrove46, Petrarca sostituisce quindi il Cristo fons pietatis che, proprio in virtù della sua misericordia, muove gli occhi sul suo diletto «almo paese»47. Ma il «freno» di Giustiniano, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 72 72 Il Tempietto ovvero il potere politico e legislativo, vacante ai tempi di Dante, è ora in mano ai signori locali, che si affrontano in guerre fratricide appoggiandosi agli eserciti mercenari, secondo una prassi ormai consolidata che però indebolisce ulteriormente le forze in campo, come descriverà acutamente Machiavelli nel Principe. In Petrarca, come in Dante, l’Italia e la sua capitale designata, Roma, vengono raffigurate come donne sofferenti, che patiscono e piangono sulle proprie lacerazioni interne. Il «bel corpo» dell’Italia è infatti attraversato da «piaghe mortali»48, le stesse «piaghe» che, per Dante, «hanno Italia morta»49 e la Roma di Dante, che «piagne / vedova e sola» per l’assenza dell’impero50, costituisce il capo dalle «trecce sparte» di questo corpo, che attende di essere svegliato per rinnovare le glorie di un’Italia ormai «vecchia, otiosa et lenta»51. Urge dunque una reazione che non può prescindere dalla terza rinascita di Roma. La via politica attraverso cui possa verificarsi questa renovatio appare invece dettata dalle contingenze politiche del momento, tanto che per Dante la soluzione imperiale sembra essere l’unica percorribile, mentre Petrarca, già proiettato nel recupero umanistico delle fonti classiche, sembra voler credere, almeno prima della delusione per la vicenda di Cola di Rienzo, al mito liviano di una nuova Roma repubblicana. È un topos, quello della personificazione dell’Italia lacera e livida, che può funzionare anche in epoca risorgimentale e che viene recuperato da Leopardi nella canzone All’Italia. Le divisioni tra gli stati italiani, il dominio straniero, le guerre combattute per altri popoli e non per la causa nazionale sono infatti elementi ricorrenti nella storia della Penisola e, sebbene cambino i protagonisti e gli scenari, il desiderio di libertà e indipendenza rimane costantemente inesaudito. Leopardi riprende dunque l’immagine della «formosissima donna» offesa da profonde «ferite», stretta su entrambe le braccia da catene «sì che sparte le chiome e senza velo / siede in terra negletta e sconsolata, / nascondendo la faccia / tra le ginocchia, e piange»52. L’evidente posa dantesca della domina provinciarum in lacrime perché fatta «ancella» delle potenze straniere53 si sposa dunque con la lunga tradizione della canzone civile di matrice petrarchesca e innesca il doloroso contrasto tra le virtù del passato e le miserie del presente su cui si regge l’intero componimento. Il tributo leopardiano verso la funzione civile della poesia dell’Alighieri prosegue poi nella canzone Sopra il monumento di Dante, in cui il ritratto scultoreo del poeta ispira la vibrante esortazione all’amor patrio: «Amor d’Italia, o cari, / amor di questa misera vi sproni, / ver cui pietade è morta / in ogni petto omai, perciò che amari / giorni dopo il seren dato n’ha il cielo»54. Nonostante la profonda diversità d’indole, di temperamento e di interessi, alcuni elementi sembrano quindi avvicinare due intellettuali così distanti come Mazzini e Leopardi. Sebbene non si possa dimenticare il giudizio TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 73 Il Tempietto fortemente critico nei confronti del poeta recanatese che Mazzini aggiunge un po’ sbrigativamente al saggio sul Moto letterario in Italia, dove annovera l’opera di Leopardi tra gli «sforzi d’un periodo di transizione che il futuro cancellerà»55, è altrettanto importante notare come la ricorrente incitazione mazziniana a non piangere sulle rovine del passato se non per fondare il riscatto politico dell’avvenire, trovi un’involontaria eco nel congedo della canzone di Leopardi Sopra il monumento di Dante, in cui il poeta invita il «guasto legnaggio» italiano a farsi da parte qualora non riesca ad appassionarsi alle sorti della patria: «mira queste ruine / e le carte e le tele e i marmi e i templi; / pensa qual terra premi; e se destarti / non può la luce di cotanti esempli, che stai? levati e parti»56. 4. «O Italiani! Studiate Dante» Il saggio sull’Amor patrio di Dante si conclude con una digressione sulle opere minori dell’autore e sulle vicende biografiche dell’esilio per dimostrare una volta di più l’attaccamento alla patria del Sommo Poeta. L’interpretazione civile e risorgimentale rende quindi Dante un apostolo della futura nazione italiana. Di conseguenza l’appello ai giovani a leggere i suoi scritti suona come una chiamata alle armi nella contesa letteraria e sociale: «O Italiani! Studiate Dante; non su’ commenti, non sulle glosse; ma nella storia del secolo, in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle sue opere»57. Per comprendere in pieno la posizione 73 ideologica di Mazzini e il suo radicale distacco dalla critica erudita su Dante occorre però considerare un ulteriore passaggio. Un’importante chiave interpretativa del pensiero mazziniano è offerta dall’ampio saggio sul Moto letterario in Italia, pubblicato nel 1837 in inglese sulla «London and Westminster Review» e tradotto in italiano dall’autore per la raccolta Daelli negli anni Sessanta. In questa sede Mazzini sostiene che il principale artefice del rinato «fervore dantesco», nonché «l’iniziatore del nuovo sviluppo dell’intelletto italiano» sia Ugo Foscolo, che nei duri anni dell’esilio inglese, nonostante la povertà e la salute inferma, si era impegnato con dedizione alla critica letteraria pubblicando, tra l’altro, un commento alla Divina Commedia rimasto però incompleto58. Gli «infiniti volumi» sul tema si sono infatti impaludati nelle questioni filologiche e antiquarie, mentre Foscolo è stato il primo a studiare in Dante «il patriota e il riformatore»59. Pur prigioniero di una filosofia «nudrita di sconforto e di scetticismo», figlia dei tempi in cui ha vissuto, l’autore dell’Ortis ha cercato in Dante «il grande cittadino, il pensatore profondo, il vate religioso, il profeta della nazionalità, dell’Italia»60. Per una curiosa storia di esuli che si rincorrono e si riconoscono in una ideologia comune, gli studi londinesi di Foscolo sull’exul immeritus vengono riscoperti proprio da Mazzini durante il suo soggiorno inglese, iniziato tra varie difficoltà nei primi mesi del 1837 in compagnia di Angelo Usiglio, Agostino TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 74 74 Il Tempietto e Giovanni Ruffini. Il ritrovamento dei manoscritti presso il libraio Pickering e l’acquisto delle carte con l’aiuto di Quirina Magiotti Mocenni e dell’editore Pietro Rolandi permette quindi a Mazzini di completare il lavoro foscoliano e pubblicare un’edizione del commento più ampia ed emendata dagli errori61. La prefazione composta dall’esule per l’occasione insiste dunque sull’esigenza di riproporre un testo più corretto rispetto alle precedenti edizioni di Pickering e di Ruggia e dà merito alla generosità di Rolandi che si avventura in «forti spese di stampa, dalle quali egli forse non ritrarrà che l’onore d’averle affrontate»62. La pubblicazione del commento dantesco – come quella degli Scritti politici inediti, in cui Foscolo ribadisce «la connessione delle lettere col viver civile»63 – è tuttavia un «debito sacro» verso gli Italiani che non può arrestarsi di fronte alle difficoltà economiche64. Recuperando quasi alla lettera quanto aveva già scritto nel Moto letterario in Italia, Mazzini ribadisce come Foscolo, per primo, abbia condotto la critica «sulle vie della storia» e abbia intravisto in Dante «l’apostolo religioso» e il «profeta della nazione»65. Foscolo, però, non è stato un «sacerdote di Dante» poiché l’epoca in cui ha vissuto non gli ha consentito di avere fede «in una poesia nazionale»66. Tuttavia il suo merito è indiscutibile, perché egli ha dato impulso agli studi su una «grande anima» che, «più di cinque secoli addietro», «ha presentito l’Italia»67. Promuovendo il suggerimento foscoliano a leggere Dante anche alla luce della sua esperienza biografica e politica, Mazzini propone di avvicinarsi al poeta fiorentino cominciando «dalla vita» e «dall’Opere Minori» per «conchiudersi» infine «intorno alla Divina Commedia»68. Del resto già nel saggio sull’Amor patrio l’autore aveva incitato la lettura del De vulgari eloquentia, dove Dante aveva cercato un fondamento comune per la nascente lingua italiana, del Convivio, in cui «egli si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare», e della Monarchia, in cui «mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora minacciavala più che mai»69. Negli anni successivi alla pubblicazione dell’esegesi foscoliana, Mazzini dimostra di seguire con coerenza questa impostazione critica, e nel 1844 pubblica sulla «Foreign Quarterly Review» un lungo articolo sulle Opere minori di Dante, che prende spunto dalle principali novità editoriali della critica ottocentesca sulla biografia e gli scritti del poeta70. Il saggio, caratterizzato da una complicata vicenda compositiva che impegna l’autore fin dal 184071, ribadisce la centralità del commento di Foscolo, purtroppo ancora ignorato da molti critici, e interpreta la proposta dantesca dell’accentramento del potere imperiale a Roma come un’anticipazione dell’idea di nazione, tanto da spingersi a dichiarare che «al di là del guelfismo e del ghibellinismo ei vide l’unità nazionale italiana; al di là di Clemente V e d’Arrigo VII ei vide l’unità del mondo e il governo morale di quell’unità nelle mani d’Italia. E non TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 75 Il Tempietto abbandonò mai quell’idea»72. La lettura mazziniana di Dante è ormai totalmente politica e tende a far coincidere l’amor patrio del poeta fiorentino con quello dei rivoluzionari e dei proscritti del tempo di Mazzini. Partendo da questi presupposti, l’autore dell’articolo può quindi esclamare che «il pensiero che fremeva in Dante più di cinque secoli addietro è lo stesso ch’oggi freme inviscerato nell’epoca»73. La riabilitazione civile e patriottica di Dante è ormai funzionale a un preciso progetto politico e il padre della poesia italiana diventa davvero il profeta della nazione di fronte agli occhi dei giovani mazziniani. Il Dante di Mazzini propugna infatti una nobile «idea di grandezza nazionale» che «rifulge da ogni pagina e da ogni detto». Insomma, «nessuno amò la patria di più sublime e fervido amore; nessuno intravvide per essa fati più solenni e gloriosi»74. La stessa forzatura ideologica della figura dantesca emerge anche in uno scritto rivolto agli operai italiani e intitolato semplicemente Dante. Nell’articolo, pubblicato sull’«Apostolato popolare» nel 184175, Mazzini individua ancora una volta nell’amor patrio la principale virtù del poeta, al quale attribuisce gli stessi ideali politici che animano la sua battaglia. Il ritratto di Dante diviene quindi quello di un intellettuale che usa la «penna» come se brandisse una «spada» in difesa del «popolo», considerato l’«elemento della nazione futura»76. Il «pensiero predominante» 75 nella mente del poeta sarebbe stato addirittura quello dell’«unità italiana», sebbene la visione politica dei suoi contemporanei non andasse «più in là dell’idea di Comune»77. Il pensiero di Dante ormai si confonde con quello di Mazzini, che sembra quasi alludere a se stesso quando sostiene che la «patria» per il poeta fiorentino fosse «una religione»78, mentre la costruzione del suo profilo civile prosegue con la celebrazione dell’esilio, che era già stata abbozzata nell’Amor patrio, prima che il destino facesse provare anche a Mazzini «come sa di sale / lo pane altrui»79. In conclusione è forse il caso di ricordare i versi con cui Carducci riconosce il peso di Dante nell’ideologia politica e letteraria mazziniana. Il ritratto del pensatore che scruta le forme della «terza Italia» nel «ciel crepuscolare» trova infatti conferma nelle parole con cui Mazzini descrive Dante morente, «infelicissimo, ramingo, mendico», ma confortato dalla «credenza che l’Italia sarebbe un giorno nazione e direttrice una terza volta dell’incivilimento europeo»80. Il congedo dell’articolo è quindi un grido di speranza affinché in una Roma finalmente «capitale dell’Italia» e centro politico indipendente venga innalzata una statua dedicata «al Profeta della Nazione Italiana» dagli «Italiani degni di lui»81. Il cammino per l’unità e l’annessione di Roma però sarebbe stato ancora lungo, e non esattamente quello vagheggiato da Mazzini. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 76 76 Il Tempietto Note 1 Giosuè Carducci, Giuseppe Mazzini, in Giambi ed epodi, libro II, sonetto XXIII. 2 Giuseppe Mazzini, Scritti editi e inediti [d’ora in poi citato SEI], I (Politica I), Milano, Daelli, 1861, pp. 13-54. 3 Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni. Or passages in the life of an Italian, Edimburgo, Constable and Co., 1853, qui citato in traduzione italiana nell’edizione a cura di Martino Marazzi, Genova, De Ferrari, 2005, p. 178. 4 La funzione civilizzatrice della letteratura è al centro dell’orazione inaugurale al corso pavese del 1809 di Foscolo, ora raccolta insieme alle altre lezioni in Ugo Foscolo, Orazioni e lezioni pavesi, a cura di Andrea Campana, Roma, Carocci, 2009, pp. 81122. Su Dante: Id., Discorso sul testo della Commedia di Dante, in La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, Londra, Pickering, 1825. 5 Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 30. 6 Ivi, p. 17. 7 Id., Dell’amor patrio di Dante, in «Subalpino», a. II, vol. I (1837), pp. 359385, poi in Scritti editi ed inediti [Edizione Nazionale, d’ora in poi Scritti], I (Letteratura I), pp. 3-23. 8 Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 17. 9 Giulio Perticari, Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eloquio, Lugo, Melandri, 1822 (ma già nel II volume del 1820 della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Vincenzo Monti). 10 Si veda a riguardo Pantaleo Palmieri, Il dantismo di Mazzini (tra Perticari e Foscolo), in «Italianistica», XXXV, 3, 2006, pp. 87-95. Tra i principali studi moderni sull’interpretazione mazziniana di Dante si rimanda Mario Scotti, Dante nel 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 pensiero di Mazzini, in Mazzini e il mazzinianesimo, Atti del XLVI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Genova, 24-28 settembre 1972, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1974, pp. 563-578; Luigi Russo, La nuova critica dantesca del Foscolo e del Mazzini, in «Belfagor», IV (1949), pp. 621-637; Salvatore Battaglia, L’idea di Dante nel pensiero di G. Mazzini, Napoli, Centro napoletano di studi mazziniani, 1966. Alcuni accenni alla ricezione dantesca in Monti e Foscolo si trovano invece in Filippo Bettini, Monti e Foscolo, in «L’Indicatore genovese», 26-27 e 31, 31 ottobre, 8 novembre e 6 dicembre 1828, pp. 98-99, 103 e 118-119. Giulio Perticari, Dell’amor patrio di Dante, cit., p. 6. Appendice critica all’opera del Sig. Giulio Perticari [...], in «Antologia», t. I, n. III, marzo 1821, pp. 323-384. Niccolò Tommaseo, Il Perticari confutato da Dante, Milano, Sonzogno, 1825. Id., Appendice all’opuscolo Il Perticari confutato da Dante o sia Risposta di N. Tommaseo ad un articolo della Biblioteca Italiana, in Ivi, p. 25. Giuseppe Biamonti, Lettere di Panfilo a Polifilo, Firenze, s.n., 1828. «Antologia», t. XXVI, n. LXXVII, maggio 1827, pp. 75-76. Ivi, p. 76. Ibidem. Per l’occasione Di Negro compone anche l’opuscolo poetico Per l’inaugurazione del busto di G. Perticari [...], Genova, s.n., 1825. «Antologia», t. XXII, n. LXVI, giugno 1826, pp. 110-111; «Ricoglitore italiano e straniero», a. II, parte I (1835), pp. 463-465. Del libro di Giulio Perticari intitolato L’Amor Patrio di Dante, in «Giornale TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 77 Il Tempietto 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 ligustico», a. II, fasc. V, settembre-ottobre 1828, pp. 483-488. Ivi, p. 483. La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, cit., pp. 207-219. Del libro di Giulio Perticari intitolato L’Amor Patrio di Dante, in «Giornale ligustico», cit., pp. 485-486. Giuseppe Mazzini, SEI, I (Politica I), p. 20. Ivi, p. 18. Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 3. Ivi, p. 12. Ivi, p. 13. Ivi, p. 7: «A’ tempi dunque è d’uopo guardare per conoscere, se il linguaggio d’uno scrittore è tale, che possa dirsi spirato dall’affetto della sua patria, conveniente cioè alla situazione in che questa giace». Ivi, p. 8. Ibidem. Ivi, p. 10. Si vedano Purg., VI, 82-84: «e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra» e 88-96, in cui si lamenta il mancato rispetto delle leggi di Giustiniano, necessario «freno» all’indomita Italia «fatta fella / per non esser corretta da li sproni». Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 10, ma si veda Purg., XVI, 97: «le leggi son, ma chi pon mano ad esse?». Purg., VI, 94-99. Purg., VI, 91-105. Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 11. Ibidem. Si veda la recensione di Mazzini alla Battaglia di Benevento in «L’Indicatore genovese», 16-17, 23 e 30 agosto 1828, pp. 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 77 59 e 62-63, poi in Scritti, I (Letteratura I), pp. 75-85. Purg., VI, 78. Francesco Petrarca, Rvf, 138, v. 11. Giuseppe Mazzini, Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 16. Ibidem. Ivi, p. 10. Purg., VI, 118-120. Francesco Petrarca, Rvf, 128, v. 9. Ivi, vv. 2-3. Purg., VII, 95. Purg., VI, 112-113. Francesco Petrarca, Rvf, 53, vv. 12-21. Giacomo Leopardi, All’Italia, in Canti, I, 8-20. Ivi, I, 24, su cui si veda Purg., VI, 78: «non donna di provincie, ma bordello». Giacomo Leopardi, Sopra il monumento di Dante, in Canti, II, 35-39. Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia, in Scritti, VIII (Letteratura II), p. 369. Giacomo Leopardi, Sopra il monumento di Dante, in Canti, II, 192-196. Giuseppe Mazzini, Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), p. 22. Id., Moto letterario in Italia, in Scritti, VIII (Letteratura II), p. 357. Sull’impegno dantesco di Foscolo si veda la già citata Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo. Id., Moto letterario in Italia, in Scritti, VIII (Letteratura II), p. 357. Ibidem. La Commedia di Dante Alighieri illustrata da Ugo Foscolo, Londra, Rolandi, 1842-1843. La prefazione mazziniana si legge ora con il titolo di Commento foscoliano alla «Divina Commedia», in Scritti, XXIX (Letteratura V), pp. 33-47. La citazione ricorre a p. 41. L’introduzione di Mazzini all’edizione luganese degli Scritti politici inediti TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 78 78 64 65 66 67 68 69 70 Il Tempietto foscoliani si trova in Scritti, XXIX (Letteratura V), pp. 159-180. La citazione ricorre a p. 161. Giuseppe Mazzini, Commento foscoliano alla «Divina Commedia», in Ivi, p. 47. Ivi, p. 46. Ivi, p. 45. Ivi, p. 44. Ivi, p. 43. Id., Dell’amor patrio di Dante, in Scritti, I (Letteratura I), pp. 17-18. L’articolo, uscito sulla «Foreign Quarterly Review», XXXIII, aprile 1844, pp. 1-30, è ora raccolto in Scritti, XXIX (Letteratura V), pp. 183-282. 71 Si veda l’Introduzione a Ivi, pp. LIV-LX. 72 Giuseppe Mazzini, Opere minori di Dante, in Ivi, p. 258. 73 Ivi, p. 192. 74 Ivi, pp. 234-235. 75 Id., Dante, in «Apostolato popolare», III, 15 settembre 1841, poi in Scritti, XXIX (Letteratura V), pp. 3-15. 76 Ivi, pp. 5-9. 77 Ivi, p. 9. 78 Ivi, p. 10. 79 Par., XVII, 58. 80 Giuseppe Mazzini, Dante, in Scritti, XXIX (Letteratura V), p. 4. 81 Ivi, p. 15. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 79 Seconda Parte Fare gli Italiani TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 80 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 81 Paola Ruminelli già segretaria Associazione Filosofica Ligure Cattolicesimo e Umanesimo “Furono Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini a pensare l’Italia come entità morale, che richiedeva una determinazione politica, in nome di condivisi valori di civiltà. Valori cristiani efficacemente vissuti e diffusi in tutta Europa fin dal Medioevo attraverso l’opera dei religiosi, dai monaci benedettini ai monaci ortodossi, ma in Italia anche efficacemente saldati sulla cultura romana erede di civiltà dal mondo ellenico. Un intreccio di culture e di pensiero, che si fonda sull’evidenziazione dell’umano e che ha trovato la sua radice nella figura del Salvatore, Uomo divino”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 82 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 83 Il Tempietto Cattolicità e Umanesimo Paola Ruminelli e celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia hanno visto la Chiesa tra i promotori più attenti al valore della ricorrenza. Il messaggio del Papa Benedetto XVI, indirizzato al Presidente della Repubblica italiana e consegnato dal Segretario di Stato Cardinale Tarcisio Bertone, indica il grande interesse del Pontefice alla storia della nazione italiana che “ha sempre avvertito l’onere ma nel tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità”. Il Papa sottolinea anche come l’identità nazionale degli italiani sia sempre stata radicata nelle tradizioni cattoliche tanto da costituire “la base più solida della conquistata unità politica”. Di tale identità, che è un fattore primariamente culturale, lo stesso Pontefice ha sottolineato il carattere cattolico riferendosi non solo all’opera della Chiesa con le sue iniziative educative ed assistenziali, ma anche all’interesse alla attività artistica nella letteratura, nella pittura, nella scultura e nelle esperienze di santità quali quelle di San Francesco d’Assisi e di Santa Caterina da Siena. Inoltre i cattolici hanno partecipato attivamente alla formazione della coscienza nazionale con il contributo di molti intellettuali quali Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni, proprio nel periodo della unificazione politica. L 83 Del pari il cardinale Angelo Bagnasco, invocando la benedizione per l’Italia nella Messa voluta dalla Chiesa italiana per celebrare i 150 anni dell’unità in Santa Maria degli Angeli alla presenza delle più alte autorità dello Stato, ha parlato della Patria, che ha un volto che si è forgiato attraverso secoli di storia, che ci permette di conoscerci, di stimarci e di lavorare per gli stessi obiettivi, costituendo un popolo, un tesoro da trasmettere alle nuove generazioni che richiede di essere continuamente rivissuto e ricreato. Purtroppo la storia della nascita dello Stato unitario italiano è stata costellata da eventi drammatici e da laceranti contrasti. Studi recenti hanno evidenziato la portata della contrapposizione tra Stato e Chiesa, tra la sensibilità cattolica molto diffusa a livello popolare e le correnti laiciste minoritarie ma sostenute dall’appoggio delle grandi potenze quali la Francia, da cui proveniva fin dal tempo di Napoleone il giacobinismo rivoluzionario, e dall’Inghilterra. È noto come il Regno di Sardegna avesse preso provvedimenti legislativi anticattolici, confermati ed estesi al regno d’Italia per volontà del Cavour quali la soppressione di ordini religiosi e la confisca dei beni ecclesiastici, l’espulsione di religiosi e di religiose dai conventi e sono noti i fatti politici che segnarono il declino del governo papale, quali la Repubblica romana, la sconfitta dei papalini a Castelfidardo, la Breccia di Porta Pia e la fine del potere temporale della Chiesa. In questa situazione si creò una forte TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 84 84 Il Tempietto tensione tra i cattolici ed il nuovo Stato, tensione che culminò nel divieto ai cattolici di partecipare alla vita politica. In realtà se l’assenza dei cattolici dal gioco parlamentare finì con il favorire l’anticlericalismo politico, i cattolici furono sempre presenti nel tessuto sociale e, sostenuti anche dall’enciclica di Leone XIII Rerum novarum, sempre attenti ai bisogni dei più deboli. Basti pensare ai don Bosco, don Guanella, don Orione e alle suore della Cabrini, che si sono sempre adoperati con impegno instancabile ed a titolo del tutto gratuito là dove mancava completamente l’iniziativa dello Stato. È impensabile parlare di unità italiana senza far riferimento al contributo dei cattolici al processo di unificazione, contributo che ha trovato peraltro il suo riconoscimento con il Concordato tra Stato e Chiesa del 1929 e con la revisione dello stesso nel 1984. D’altra parte se guardiamo alla storia della penisola italiana non possiamo fare a meno di ammettere come il cattolicesimo sia saldamente legato a tale storia a cominciare dalla Roma imperiale, in cui morirono martiri della fede San Pietro e San Paolo e in cui si succedettero i Papi, a capo della Chiesa come corpo di Cristo, ora in buoni rapporti con il potere politico ora in lotta per le investiture ora in urto con gli altri stati della penisola. Una storia quella d’Italia fatta da genti diverse a partire dai tempi lontani della colonizzazione greca sulle coste dell’Italia meridionale e in Sicilia fino ai tempi del Medioevo con le invasioni degli ostrogoti, dei longobardi, dei franchi, dei germani nelle regioni del nord, dei bizantini, dei saraceni, dei normanni, degli svevi a Sud. Genti diverse che tuttavia hanno raggiunto una unità culturale e non solo perché insediati in una regione geograficamente definita nei suoi confini dalle Alpi e dal mare, ma perché frutto di una comunanza di cultura e di condivisi interessi spirituali. Furono Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini a pensare l’Italia come entità morale, che richiedeva una determinazione politica, in nome di condivisi valori di civiltà. Valori cristiani efficacemente vissuti e diffusi in tutta Europa fin dal Medioevo attraverso l’opera dei religiosi, dai monaci benedettini ai monaci ortodossi, ma in Italia anche efficacemente saldati sulla cultura romana erede di civiltà dal mondo ellenico. Un intreccio di culture e di pensiero, che si fonda sull’evidenziazione dell’umano e che ha trovato la sua radice nella figura del Salvatore, Uomo divino. Alla base dell’Umanesimo del Quattrocento, che è stato l’ultima grande conquista del pensiero latino e che si è diffuso in tutta Europa, vi è ancora l’idea giudaica-cristiana che all’uomo è stata conferita da Dio la possibilità di agire sulla natura e la libertà di costruire la sua vita. Dall’Umanesimo ha avuto l’avvio il mondo moderno, che ha trovato nella cultura ereditata dal razionalismo greco e dallo spirito pratico dei romani, il supporto per rilanciare il valore dell’umano ingegno in grado di produrre scienza e tecnica, di fondare TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 85 Il Tempietto istituzioni civili e di sviluppare la storia. L’autonomia dell’umano, avviato dall’Umanesimo, attraverso l’esaltazione della ragione e dello spirito nell’Illuminismo e nel Romanticismo, ha però avuto come esito nel post-moderno l’affermarsi di un relativismo e di un materialismo, che hanno finito con il contraddire i presupposti stessi della esaltazione umanistica. L’uomo è oggi ridotto a prodotto del processo evolutivo, negandone ogni eccedenza sulla realtà biologica e, dopo le scoperte della genetica, affermandone la possibilità di manipolazione sin dallo stadio embrionale. Malgrado la proclamazione dei diritti umani in ambito internazionale di fatto all’uomo del post-moderno non è riconosciuta alcuna specificità che lo differenzi dagli altri viventi. L’unica prerogativa attribuitagli è quella di poter costituirsi in assoluta libertà senza limiti valoriali, che ne indirizzino il comportamento, unicamente motivato da impulsi sensibili, secondo un individualismo, che nega la spinta di superiore razionalità che pur è intrinseca ad ogni vivente umano. I fasti dell’Umanesimo che letterati, filosofi e artisti avevano celebrato nel Rinascimento, sono stati sostituiti dalle notizie giornalistiche, che ogni giorno informano sui progressi della scienza, capace di cambiare il corso dei processi naturali, dimenticando che il progresso è certamente un bene se riesce ad armonizzarsi con le leggi della natura, di fronte alla quale anche la più ardita tecnologia si rivela impotente. 85 Di qui l’urgenza di un nuovo Umanesimo, un Umanesimo non più fiducioso di poter esercitare in maniera immediata un equilibrato dominio della realtà, ma consapevole, come gli spiriti più avvertiti da Pascal a Leopardi ci hanno insegnato, della grandezza ed insieme dei limiti dell’umano. Un Umanesimo provato dalla drammatica storia di generazioni, che sono cadute nell’inganno di spietate dittature che hanno portato rovina e guerra, un Umanesimo che si renda conto del significato distruttivo di uno sviluppo, che prescinde dai valori con il rischio di portare l’umanità sull’orlo del baratro dell’autodistruzione. Forse proprio qui in Italia, la patria di una cultura che ha saputo confrontare la grandezza dell’uomo con quella del cosmo, è ancora avvertibile la sollecitazione alla ricostruzione di tale nuovo umanesimo come piena realizzazione della nostra innata vocazione al trascendimento del livello fisico, come universale armonia tra tutti gli umani e tra gli umani e la natura. È difficile peraltro pensare che, a differenza dell’età dell’Umanesimo quattrocentesco caratterizzata da sfarzose corti principesche, il nostro paese, a così alto debito pubblico e sottoposto a ricorrenti crisi politiche ed economiche, possa avere ancora qualcosa da offrire al mondo. Ma l’unità d’Italia sta sempre ancora realizzandosi e questo processo ci deve vedere uniti proprio in nome di quella cultura, che si è forgiata nei secoli attraverso la varietà delle genti e delle vicende storiche e ha maturato frutti di civiltà e di cultura che arricchiscono il TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 86 86 Il Tempietto genere umano. Il messaggio di un’alta umanità, serenamente conciliata con sé stessa e con la natura, è custodito ancora qui nella cattolicità, che vede in Cristo, vero Dio e vero Uomo, la realizzazione perfetta dell’umanità, di cui la Chiesa rappresenta la continuità sulla terra. Tale messaggio può ancora rivelarsi come la forza capace di risvegliare l’uomo a sé stesso, di suscitare anche nel nostro tempo, attraversato da spinte scettiche e provato da tentazioni nichiliste, il coraggio di ritrovare la propria dignità per un Umanesimo, potenziato dal progresso scientifico, ma insieme umilmente cosciente della sua condizione creaturale. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 87 Alberto Rinaldini già docente di Storia e Filosofia nel liceo Mazzini Don Bosco e i Salesiani nei 150 anni di vita unitaria del Paese “Il progetto educativo di don Bosco era (ed è tuttora) quello di formare “buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo”. Esso quindi pone esplicitamente la politica al terzo posto, dopo la religione e la morale. È un progetto che coinvolge nell’opera educativa la scuola, la cultura e il tempo libero, attraverso una sequenza ben sintetizzata dalla regola dell’oratorio salesiano (all’epoca il primo approccio con i giovani): amore, lavoro, frequenza dei sacramenti, rispetto dell’autorità, fuga dalle cattive compagnie.(…) È una missione che inizia nell’oratorio di Valdocco, dopo l’incontro con i primi ragazzi raccolti in strada e avviati a pregare, studiare e lavorare, secondo quello che diventerà il modello salesiano: ottimismo e allegria, fiducia nella Provvidenza e impegno nella solidarietà e nella formazione civile e professionale accanto a quella religiosa, educazione al lavoro, all’eguaglianza, al rispetto della dignità propria e altrui. La missione assunse il significato di una vera e propria rivoluzione sociale, quando (dopo la realizzazione di laboratori di calzoleria, sartoria, legatoria, falegnameria, tipografia e fabbro ferraio) don Bosco predispose e sottoscrisse alcuni fra i primi contratti di apprendistato in Italia. A introdurre una disciplina e una tutela del lavoro minorile, sino ad allora vergognosamente sfruttato”. Giovani Maria Flick ex allievo di Sampierdarena TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 88 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 89 Il Tempietto Don Bosco e i Salesiani nei 150 anni di vita unitaria del Paese Alberto Rinaldini 1. La Rivista e i 150 anni dell’Italia. Alla vigilia del 150° dell’Unità d’Italia la nostra Rivista si poneva varie domande. Alcune hanno trovato risposta confermando quanto avevamo scritto nella rivisitazione della storia unitaria del Paese. Molte voci – con e oltre agli addetti ai lavori – infatti si sono levate avviando una sana revisione sul Risorgimento e i “suoi eroi” ripercorrendo i principali momenti del percorso unitario. La nobiltà di intenti dei molti che hanno portato a termine l’unità politica dell’Italia ne è uscita più nitida anche per l’emersione delle ombre sulla modalità con cui l’Italia è diventata una politicamente. La strada percorsa è comunque la nostra e tale la ricordiamo con le sue luci e le sue ombre. Anche se non era l’unica. Il percorso di ricerca per “vederci più chiaro” paga: con ammirazione e affetto possiamo guardare ora il nostro paese a 150 anni dalla sua nascita politica. Come figli di una madre che ha qualche ruga antica e non gode ancora di splendida salute, siamo orgogliosi di essa. Al di là del mito appare il travagliato cammino di un popolo che assurge ad unità, ma da “liberare” dalla sua rigidità attuando quel federalismo presente nella 89 Costituzione... un recuperare cioè le diversità nell’unità… Oggi il nostro paese è chiamato ad affrontare l’incertezza di una difficile navigazione per i guasti di una globalizzazione senza pilota. Siamo passati, stando alle immagini usate dal prof. Stefano Zamagni, da una visione piramidale (in alto i ricchi e a seguire i ceti medi e infine la base meno abbiente) ad una visione a clessidra (in alto aumentano i pochi, a metà l’imbuto annulla i ceti medi e la base dei meno abbienti s’ingrossa). Un tendenziale che stritola i più a vantaggio dei pochi che saranno sempre meno. Solo una economia della fraternità o di comunione può salvare il mondo: la parte alta della piramide tenderebbe, in questo caso, a portare al livello superiore rinunciando all’egoismo. La crescita, che vuole l’altro ad un livello più alto, farebbe aumentare il benessere di tutti. Sarebbero scongiurate le losche speculazioni che fanno soffrire vari paesi della Comunità europea e non solo. Qualcuno, in questa torrida estate 2011, ha puntato al crollo anche dell’Euro, che è debole senza una “politica comunitaria unica”. L’economia mondiale, ritenuta scienza e lasciata a se stessa, è una filosofia della pazzia e del suicidio. È un discorso che interessa il globale come il locale. Il virus di un’economia ritenuta scienza a sé stante – mentre è la politica che dovrebbe impegnarsi per il bene comune – coltiva localismi esasperati tanto da oscurare i valori dei padri che hanno regalato a noi l’Italia… e l’Unione Europea. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 90 90 Il Tempietto Questi padri benemeriti sono poi ben più numerosi di quelli riportati dai manuali scolastici. 1.1 Altre vie erano percorribili È stato rotto anche il silenzio sulla positività, negli anni ‘40 dell’800, della primavera risorgimentale che è cattolica. Il neoguelfismo ipotizzava infatti una federazione degli stati del Bel Paese facendo leva sulla religione cattolica, il collante comune che univa nel profondo tutti i diversi stati della penisola. Almeno fino alla primavera del ‘48 gli ideali di indipendenza e unità furono un sentire comune, dato il legame religioso profondo che, insieme all’arte e alla lingua, caratterizzava la nazione Italia, non ancora stato unitario. I semi di libertà, indipendenza e unità portati dalle armate napoleoniche avevano messo robuste radici. La Restaurazione non riuscì a estirparle e, dopo i moti del ‘20-’21 e del ‘30-’31, esplosero possenti nel 1848 in tutto il paese. I Moti carbonari coinvolsero élites militari o borghesi, lo stesso dicasi del mazzinianesimo. Il grande genovese voleva l’Italia una, indipendente e repubblicana fatta dal popolo…visione inattuale per allora. L’Italia sognata si realizzerà un secolo dopo, quando il primo e grande referendum popolare della nostra storia, cui parteciparono tutti gli italiani maggiorenni, uomini e donne, si pronunciò per la Repubblica. Le visioni federaliste repubblicane del Cattaneo e del Ferrari, pur nobili nelle mete indicate, ebbero ancora meno seguito del Mazzini. Il federalismo repubblicano comunque fermentò la cultura e animò la spinta unitaria. La visione federale neoguelfa invece parlava all’intero popolo italiano, cattolico nella sua stramaggioranza e sembrò davvero realizzarsi nei primi mesi del ‘48. Il fallimento è da iscriversi all’interesse dei Savoia di allargare il proprio stato all’intera penisola e al difficile ruolo di Pio IX: non poteva il Papa fare guerra ad una potenza cattolica. Anche la proposta del Rosmini che con il progetto di Costituzione federale liberava il Pontefice dal poter dichiarare guerra incontrò l’opposizione del Piemonte! Quando le redini del movimento unitario passarono nelle mani dei liberali moderati, le masse cattoliche si estraniarono fino a trasformarsi in netta opposizione. Non va però dimenticata la generosa e intelligente opera dei cattolici liberali. Le menti più acute di questi, penso al Rosmini, videro possibile la sintesi tra la modernità dei liberali col Cristianesimo. L’unità si raggiunse con la forza sotto la regia “palese e occulta” di Cavour, per il quale il movimento democratico rivoluzionario viene visto come pericolo e insieme un’opportunità da sfruttare. L’incontro di Teano – tra Garibaldi che ha conquistato il regno borbonico e Vittorio Emanale II che ha sottratto buona parte della stato a Pio IX – è l’icona della sinergìa tra liberalismo moderato monarchico e rivoluzionarismo democratico. Garibaldi offrirà ai Savoia il conquistato regno borbonico, ma si ritirerà a Caprera sognando la conquista di Roma. Ci proverà infatti due volte sotto il governo Rattazzi. Verrà fermato prima dall’esercito italiano ad TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 91 Il Tempietto Aspromonte nel ‘62, poi dai Francesi a Mentana, nel ‘67. Solo la sconfitta di Napoleone III, nel 1870, lascerà la via libera alla conquista di Roma da parte dell’esercito di Vittorio Emanuele II… ma Garibaldi non ci sarà. I 150 anni dell’Italia portano i lineamenti di tutte quelle correnti risorgimentali a cui abbiamo accennato: i moti smossero il restaurato vecchio ordine; il popolo insorse nel ‘48 in tutta la penisola; il neoguelfismo, che aveva avviato il cammino risorgimentale, riemergerà, aggiornato, dopo il secondo conflitto mondiale; il Mazzini i cui ideali, pur risultando in gran parte sconfitti, furono lievito e profezia per il processo unitario, e, nel 1849, innervarono la Costituzione democratica della Repubblica Romana, le cui tracce le ritroviamo nella nostra Carta Costituzionale del 1948; i liberali moderati e democratici rivoluzionari fecero di fatto l’unità politica del paese. Una luce più critica illumina le ragioni dei vinti e dei vincitori: la memoria comune ricupera il positivo dei primi e analizza anche le ombre dei secondi. Gli uni e gli altri sono parte della nostra memoria comune. 1.2 Un bilancio del conflitto Stato e Chiesa. Guardando questi 150 anni potremmo parlare di eterogenesi dei fini. Il liberalismo giacobino nostrano, moderato o radicale, puntava all’unità del paese con l’inevitabile scontro con la Chiesa. Di ascendenza francese s’incontra con il movimento “democratico-rivoluzionario”, trova sostegno dal mondo protestante 91 europeo ed americano e subisce l’egemonia della massoneria, in modo eclatante, dopo l’avvento della Sinistra al potere. Un mix di liberalismo anticlericale e massonico che vuole non solo eliminare il potere temporale del Papa quale impedimento all’unificazione del paese, ma vuole portare il Protestantesimo anche in Italia. Lo scontro, come abbiamo scritto nei precedenti volumi della Rivista, mirava, a detta degli stessi protagonisti, ad eliminare la stessa religione. Ma il popolo italiano è rimasto cattolico. Il Papa, liberato dal potere temporale, può svolgere il suo ministero spirituale universale come mai era accaduto prima. Questo delude l’anticlericalismo e rinnova – al dilà dell’apparente sconfitta – la Chiesa. Questa ha difeso il potere temporale ritenuto essenziale alla libertà del potere spirituale del Papato, contrastando in tutti i modi il “cosiddetto liberalismo nostrano” e ci troviamo in uno Stato la cui laicità positiva è fuori discussione. Oggi possiamo rivedere con sollievo che dallo scontro si arriva alla conciliazione e alla collaborazione sincera tra Stato e Chiesa per il ben comune della patria. Scrive la prof.ssa Lucetta Scaraffia: “Se si vuole un bilancio del conflitto scatenatosi tra Stato e Chiesa in occasione dell’unificazione del paese dopo 150 anni, si può concludere che, nonostante le indubbie violenze e prevaricazioni nei confronti dei cattolici, la Chiesa non è stata TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 92 92 Il Tempietto indebolita da questa battaglia, ma ne è uscita più forte, purificata e anche fortemente modernizzata, processo che era inevitabile e che trovava però molte difficoltà a essere accettato al suo interno”. [1] 2. Fatta l’Italia si dovevano fare gli Italiani Lo sforzo del nuovo Stato di educare all’italianità lo diamo per scontato, ma se fosse rimasto l’unico ad operare, saremmo diversi da come siamo. Gli storici rilevano, ora, anche il significativo apporto dei Cattolici bollati a torto, fino alla prima guerra mondiale, come “anti-italiani”. Erano invece italiani da sempre che avrebbero voluto uno stato diverso: l’intransigenza non organizzò sommosse popolari contro lo Stato. La loro opposizione era l’essere “l’Italia reale” che rimane ai margini e sopporta con sofferenza quella “quella legale”, nel tentativo di modificarla. Le popolazioni cattoliche erano insorte contro l’invasione napoleonica che scosse la religiosità popolare, ma non si sollevarono contro lo stato liberale giacobino. La guerra civile – detta guerra contro i briganti – scoppiata nel Meridione è l’effetto di un insieme di cause che esulano dal nostro tema. La Chiesa rimane nel cuore della società: le sue 27.000 parrocchie e 300 diocesi sono una rete che avvolge il paese. “È a suo agio – scrive Andrea Riccardi nell’Agorà Idee, Avvenire 30 ottobre 2011 – nell’Italia unita anzi si arricchisce del ruolo unificante dei nuovi istituti religiosi, come quello salesiano”. Dopo il 1870 l’intransigenza dei Cattolici nei confronti dello stato liberale “illiberale” si fa impegno nel sociale e sul finire dell’800 il lento rientro nella politica attiva fino a costituire, nel 1919, il Partito Popolare con don Sturzo. Il non expedit emargina dalla politica attiva, ma l’impegno nel sociale movimenta una riflessione che avvierà la nascita di un cattolicesimo nuovo e coraggioso che, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, guiderà la rinascita del paese. Si può dire: se i liberali e i democratici unificarono politicamente l’Italia, la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi la fece risorgere. La democrazia, il miracolo economico e la nascita della Comunità Europea sono indubbiamente legati alla personalità dello statista De Gasperi, il più grande che l’Italia abbia avuto in questi 150 di storia unitaria. Merito dei Cattolici liberali – da sempre oggetto di particolare attenzione da parte della storiografia – è stato quello di mantenere viva la possibilità di un accordo tra liberalismo e cattolicesimo. E non è un merito da poco! 2. Le nuove congregazioni religiose Nel considerare l’apporto della Chiesa e dei Cattolici alla formazione degli Italiani è rimasto però disatteso – anche da parte di cattedratici cattolici – il ruolo educativo e assistenziale delle congregazioni e ordini religiosi maschili e femminili. [2] TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 93 Il Tempietto Noi ci occuperemo solo di don Bosco e dei Salesiani. 3. Don Bosco e i suoi Salesiani Negli anni ‘70 lo storico Pietro Stella scriveva: “È da immaginare che prima o dopo la ricerca storica non possa fare a meno dall’indagare più attentamente anche su ciò che furono e operarono i Salesiani di don Bosco”. [3] Negli anni ‘90 il prof. Francesco Traniello osservava: “non è detto che le commemorazioni civili nazionali del 150° ricorderanno l’operato dei Salesiani in Italia e all’estero, dal momento che le stesse celebrazioni nazionali previste a Torino a tutt’oggi sembrano addirittura dimenticare che don Bosco e i suoi “figli” e “figlie”, oltre a contribuire a “fare” in 150 anni qualche milione di Italiani, hanno esportato con dignità il nome della città sabauda (e dell’Italia) in decine di paesi prima che arrivasse la Fiat”.[4]. La speranza del primo e il dubbio del secondo chiedono una risposta. Ora anche storici di professione si interessano dell’apporto di don Bosco e dei Salesiani alla formazione degli italiani. Il motivo del ritardo, forse, va cercato nel fatto che, anche in ambito cattolico, la storiografia ha privilegiato le correnti, le associazioni, i movimenti 93 che hanno avuto rapporto con la politica ed i partiti, con lo Stato unificato o “l’Italia legale”, e non tanto con la società reale, con la gente comune. È quest’ultimo il terreno ove operano le nuove Congregazioni religiose sorte numerose dopo l’“illiberale” soppressione degli ordini religiosi a partire dal Piemonte nel 1848 con l’espulsione dei Gesuiti. Di fatto se il Piemonte ha guidato il processo di unificazione politica, è stato insieme guida anche di un altro Risorgimento: quello dei santi fondatori di numerose congregazioni. Alcuni nomi? Giuseppe Benedetto Cottolengo, la marchesa Giulia Barolo, Leonardo Murialdo, don Bosco, Giuseppe Allamano, Francesco Foà di Bruno… Franco Azzali arriva a dire: “è stato accertato che i santi, i beati e persone in via di beatificazione nativi o oriundi piemontesi dell’800 sono circa 90; altri sono per così dire “in lista di attesa”. Non si trova altro esempio nella storia della Chiesa di una tale concentrazione in una regione e, ancor più precisamente, in una città[5]. Tale rigogliosa fioritura avveniva nel tempo i cui erano soppressi gli ordini religiosi e incamerati i beni della Chiesa da parte dello Stato Sardo prima e poi dal nuovo Stato Italiano. Quanto al dubbio di Traniello, la celebrazione dei 150 anni di vita unitaria all’opera di don Bosco e dei Salesiani nel “fare gli italiani”, effettivamente, sembra non avere dato il dovuto “risalto ufficiale”.(6) Certo i Salesiani e studiosi TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 94 94 Il Tempietto vicini all’orizzonte salesiano ne hanno parlato. E molti sono gli studi e le ricerche fatte. In quest’anno, in particolare, tanto è stato scritto. 3.1 La via di don Bosco. Nel 150° dell’unità d’Italia occorre fare memoria non solo di chi ha fatto l’Italia, ma anche di chi ha fatto gli italiani. E tra questi sicuramente va annoverato don Bosco. La sua vita si estende dal 1815 al 1888. Nel 1859 fonda la Società Salesiana. Egli affronta il problema giovanile con uno stile educativo ancorato alla fede per promuovere la persona e il migliorare la società. Il suo progetto: “fare buoni cristiani e onesti cittadini”. Ma si può essere buon cristiano solo se si è onesto cittadino. Per lui c’è un rapporto stretto tra l’educazione dei giovani, il “bene della società” e la salvezza eterna. La politica per don Bosco veniva al terzo posto, dopo la religione e la morale. C’era la questione meridionale, la questione romana, la questione economica, la questione politica, don Bosco e altri santi torinesi hanno affrontato la questione giovanile. Contrariamente a quanto pensava il Lombroso, per don Bosco, l’uomo non nasce criminale. In ogni giovane, sosteneva, c’è “un punto accessibile al bene” su cui fare leva per stimolarlo responsabilmente a crescere e diventare protagonista di una società migliore. Il disegno di occuparsi dei giovani maturò in lui, giovane sacerdote, quando seguiva don Cafasso nelle carceri torinesi. Quei giovani, ragazzi e bambini, non sarebbero dietro le sbarre se solo avessero incontrato un amico che li avesse indirizzati al bene, né sarebbero rientrati in carcere se qualcuno si fosse preso cura di loro. L’esperienza delle carceri scatenò nel sacerdote il bisogno di essere l’Amico che si prende cura di loro: fa loro catechismo, li indirizza allo studio, insegna loro un mestiere, e, per i più poveri, offre il calore di una casa. È lo stile salesiano, il sistema preventivo, che si traduce nel celebre trinomio: ragione, religione, amorevolezza. Oggi tradurremmo il termine amorevolezza con ‘empatia’, ma per don Bosco dice molto di più: “La prima felicità per un fanciullo – ripete – è quella di sentirsi amato”. Il contesto sociale in cui opera don Bosco è quello dell’inizio dello sviluppo industriale della Torino di metà ‘800 con l’invitabile flusso migratorio dalle vallate verso la città in cerca di più facili guadagni, col seguito di frotte di ragazzi anch’essi in cerca di lavoro, in balìa di se stessi. E le carceri sono traboccanti di “piccoli delinquenti”. Scrive don Bosco nelle sue “Memorie”: “vedere turbe di giovanetti, nell’età dai 12 ai 18 anni; tutti sani e robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale, fu una cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 95 Il Tempietto punizione, da cui erano da pochi giorni usciti” [7]. Sconvolto inizia a cercare un modo per intervenire: “mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. Chi sa, diceva tra me, se questi giovani avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse… chissà che non possano tenersi lontani dalla rovina? Comunicai la cosa a don Cafasso, e mi sono messo a studiar il modo di effettuarlo”. e poco oltre aggiunge: “Fu allora che io toccai con mano che i giovanetti usciti dal luogo di punizione, se trovano una mano benevola che di loro si prenda cura, li assista nei giorni festivi, studi di collocarli a lavorare presso qualche onesto padrone e andandoli qualche volta a visitare lungo la settimana, questi giovanetti si davano ad una vita onorata, dimenticando il passato, divenivano buoni cristiani ed onesti cittadini” (8) Ecco l’Oratorio di don Bosco: Casa che accoglie, cortile per incontrarsi da amici e vivere in allegria, scuola che avvia alla vita, parrocchia che evangelizza. Luogo ove si possa assaporare il senso positivo della vita e la gioia di vivere e fare del bene. È la via della prevenzione. 95 Che la spinta ad occuparsi dei giovani nascesse dall’esperienza delle carceri torinesi lo confermano due biografie, al di fuori del mondo salesiano, scritte ancora vivente don Bosco. La prima del 1881 dal medico nizzardo Charles d’Espiney, porta il titolo “Don Bosco”. A spingere don Bosco a consacrarsi ai fanciulli poveri ed abbandonati, che pullulavano nei quartieri di Torino, venne dai piccoli carcerati. Qui nasce il metodo preventivo: “prevenire le mancanze in modo da non doverle punire; amare i fanciulli e farsi amare in modo da ottenere tutto ciò che contribuisce al loro bene”. Abilitarli ad un lavoro qualificato, che garantisca una personale riuscita nella vita e “concorrere all’onore e alla prosperità di una nazione” [9]. Meno originale, ma più ricco anche agli occhi di don Bosco, risultò nel 1883 il lavoro del francese Albert du Boys, “Don Bosco e la Pieuse Societé des Salesiens”. Racconta lo sviluppo dell’Oratorio con riferimento alle scuole di “arti e mestieri” e alle “colonie agricole”, e soprattutto al sistema preventivo, che risolve “il gran problema pedagogico” molto più concretamente delle “chimeriche utopìe” proclamate dai “più sfegatati rivoluzionari”[10]. Don Bosco stesso “pare un’enciclopedia pedagogica personificata”, che si può chiamare “la guarigione morale dei casi disperati”. È il sistema “correzionale” che don Bosco aveva avuto modo di esporre nel 1854 a Urbano Rattazzi, dichiarandone l’applicabilità agli istituti di rieducazione e nelle carceri e mostrandone un’attuazione pratica TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 96 96 Il Tempietto nella famosa escursione con centinaia di detenuti in una casa di correzione, La Generala di Torino… “il poema di don Bosco”. [11] Egli si prese cura soprattutto dei giovani apprendisti, collocandoli a bottega presso artigiani e imprenditori di fiducia e tutelandoli con contratti di lavoro. All’Oratorio di Valdocco ragazzi totalmente abbandonati troveranno il calore della famiglia. E i Salesiani proseguirono il cammino del fondatore in Italia e nei vari Continenti. La stella polare: la Religione apre al paradiso che inizia sulla terra se si conduce una vita di onestà. È quanto ripete don Bosco ai suoi giovani: “vi voglio felici sempre” ora e nell’eternità. 3.2 Don Bosco e la politica Sul piano ideale l’opposizione di don Bosco allo stato liberale è netta. Basterebbe leggere il suo scritto “La Storia d’Italia”. Lo scritto si ferma al 1859 e rimette al giudizio divino quanto è accaduto dopo… Incuriosisce tuttavia la carta geografica inclusa nel manuale che mostra tutta la penisola italica. Sul piano pratico, osserva Piero Bairati, “il rapporto con la laicizzazione complessiva della società e delle istituzioni non si caratterizza come rifiuto accidioso e impotente al nuovo ordine sociale e politico emergente. […] Al contrario si trattò di formare una società parallela ma non separata, diversa ma non chiusa in sé medesima”.[12] La vita di don Bosco percorre tutto l’arco del processo unitario e post unitario. Non è un cattolico liberale, né un cattolico intransigente. Fedele al Papa e rispettoso delle autorità, non è d’accordo sulle modalità violente con cui si faceva l’unità del Paese da parte dei cosiddetti liberali moderati e rivoluzionari. Ma già prima del compimento dell’unità aveva compreso che la politica ecclesiastica liberale era un processo inarrestabile. Evidente in lui è l’avversione verso quanti attaccavano la Chiesa e il suo supremo pastore. Riteneva infatti lo stato temporale della Chiesa condizione necessaria per il libero esercizio del potere del Papa. Nel medesimo tempo s’impegna nel campo educativo a vantaggio dei giovani poveri ed abbandonati. È la politica del “fare gli Italiani”, che, se non era quella che avrebbe voluto il governo liberale piemontese prima e il nuovo stato italiano dopo, tuttavia era apprezzata dai governanti e benemerita agli occhi del Pontefice. Una politica dunque del “silenzio eloquente”, senza schierarsi, impegnata nel campo della educazione preventiva. Il confronto con un giovane sacerdote torinese evidenzia l’atteggiamento di don Bosco verso la politica. Si tratta di don Cocchi. Prima di don Bosco aveva intuito la necessità di fondare un Oratorio per incontrare i ragazzi che, stabili o solo di passaggio, occupati o disoccupati che fossero, gremivano la periferia di Torino in cerca di espedienti. Nell’acceso clima patriottico egli vedeva con piacere i suoi giovani partecipare agli avvenimenti della causa nazionale. Arrivò al punto di guidare, nella primavera del ‘49, una sfortunata TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 97 Il Tempietto spedizione di un gruppo di allievi in appoggio alle forze piemontesi impegnati nella guerra contro l’Austria. Ma i 200 giovani guidati da don Cocchi non riuscirono ad andare oltre Vercelli perché nel frattempo i Piemontesi era stati sconfitti a Novara il 23 marzo ‘49. La vicenda fece scalpore in curia, che decise di chiudere l’Oratorio. “A Valdocco invece la politica era bandita. Don Bosco, che se ebbe qualche entusiasmo neoguelfo dovette abbandonarlo abbastanza presto, si faceva un merito di tenere il suo Oratorio estraneo alle fazioni politiche, convinto per altro che, nello strappare dalla strada abbandonati e nell’istillare in loro i principi della religione, egli contribuiva altresì alla formazione di buoni cittadini e al sicuro progresso della civiltà”. [13] La posizione di don Bosco risulta chiara nel colloquio, da Lui riferito nelle “Memorie dell’Oratorio”, a proposito delle pressioni di Roberto D’Azeglio che lo voleva presente con i suoi giovani in occasione della celebrazione dello Statuto del 27 febbraio 1848. Scrive: “malgrado il mio rifiuto, provvide quanto ci occorreva perché potessimo cogli altri fare onorevole comparsa. Un posto ci stava preparato in piazza Vittorio accanto a tutti gli istituti di qualsiasi nome, scopo e condizione. Che fare? Rifiutarmi era dichiararmi nemico dell’Italia; accondiscendere, valeva l’accettazione dei princìpi che io giudicavo di funeste conseguenze. - Signor Marchese, risposi al prelodato D’Azeglio, questa mia famiglia, i giovani che dalla città si raccolgono, non sono ente morale; io mi farei burlare, se pretendessi di fare mia un’istituzione, che è tutta della carità cittadina. - Appunto così. Sappia la carità cittadina, che tale opera nascente non è contraria alle moderne istituzioni; ciò vi farà del bene; aumenteranno le offerte, il Municipio, io stesso largheggeremo in vostro favore. - Sig, Marchese, è mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca alla politica. Non mai pro, non mai contro. - Che cosa dunque volete fare? - Fare quel po’ di ben che posso ai giovanetti abbandonati, adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, ed onesti cittadini in mezzo alla civile società. - Capisco tutto: ma voi vi sbagliate, e se persistete su questo principio voi sarete abbandonato da tutti, e l’opera vostra diventa impossibile. Bisogna studiar il mondo, conoscerlo e portare le antiche e le moderne istituzioni all’altezza dei tempi. - Vi ringrazio del vostro buon volere e dei consigli che mi date. Invitatemi a qualunque cosa dove il prete esercita la carità, e voi mi vedrete pronto a sacrificare la vita e 97 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 98 98 Il Tempietto le sostanze, ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica”. E conclude: “Quel rinomato patrizio mi lasciò con soddisfazione, e d’allora in poi non ebbesi più relazione di sorta tra noi. Dopo di lui parecchi altri laici ed ecclesiastici mi abbandonarono”. [14] Negli anni 1882-’83 campagne giornalistiche lanciano contro don Bosco l’accusa di “politico” o “politicante” occulto. “Don Bosco – scrive Pietro Braido – non respinge del tutto l’addebito; anzi, non esita a sottolineare in più occasioni la finalità e la portata sociale e politica della sua scelta “educazionistica”. Dopo il trionfale viaggio a Parigi, nel 1883, precisava, solo apparentemente contraddicendosi: “Lo scopo al quale noi miriamo torna beneviso a tutti gli uomini, non esclusi quei medesimi, che in fatto di religione non la sentono con noi. Se vi ha qualcuno che ci osteggia, bisogna dire o che non ci conosce, oppure che non sa quello che si faccia. La civile istituzione, la morale educazione della gioventù o abbandonata, o pericolante, per sottrarla all’ozio, al mal affare, al disonore, e forse anche alla prigione, ecco a che mira l’opera nostra. Or quale uomo assennato, quale autorità civile potrebbe impedircela? […] Coll’opera nostra noi non facciamo della politica; noi rispettiamo le autorità costituite, osserviamo le leggi da osservarsi, paghiamo le imposte e tiriamo avanti, domandando solo che ci lascino fare del bene alla povera gioventù e salvare delle anime. Se vuolsi, noi facciamo anche politica, ma in modo affatto innocuo, anzi vantaggioso ad ogni Governo. […] L’opera dell’Oratorio in Italia, in Francia, nella Spagna, nell’America, in tutti i paesi, dove già si è stabilita, esercitandosi specialmente a sollievo della gioventù più bisognosa, tende a diminuire i discoli e i vagabondi; tende a scemare il numero de’ piccoli malfattori e dei ladroncelli; tende in una parola a formare dei buoni cittadini, che lungi dal recare fastidi alle pubbliche Autorità, saranno loro di appoggio, per mantenere nella società l’ordine, la tranquillità e la pace. Questa è la politica nostra, di questa ci siamo occupati, di questa ci occuperemo in avvenire”.[15] “I Salesiani – scrive Francesco Motto – sorti a Torino in concomitanza con l’unità d’Italia, non hanno lanciato retorici proclami in favore della causa nazionale, l’hanno però promossa con i fatti”. Le istituzioni salesiane del Nord d’Italia fin dall’inizio hanno accolto ragazzi del Centro e del Sud; altrettanto hanno fatto quelle del Centro, mentre i Salesiani in gran parte nativi del Nord hanno sciamato da una TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 99 Il Tempietto regione all’altra del paese, là dove venivano chiamati a servire la gioventù”. È interessante – aggiunge – ricordare che essi approdano in Sicilia nel 1879, a Roma nel 1880, Firenze nel 1881, a Milano nel 1894. Essi si sono messi come missionari a servizio dei nostri emigrati già dal 1875 in Argentina e in altri paesi del Sudamerica e più tardi negli Stati Uniti, mentre l’Italia legale non si occupava di loro”. [16] È stato detto che don Bosco divenne una forza politica a forza di non fare politica. È certamente lettura corretta quando per politica non si intenda solo il coinvolgimento in un partito, ma impegnarsi per il ben comune, che può assumere varie forme, come interessarsi subito di situazioni sociali d’emergenza, come quella giovanile della metà ‘800 a Torino. 3.3 L’azione educativa di don Bosco L’atteggiamento di don Bosco nei confronti della politica – noi diremmo partitica – resta costante come risulta dai due documenti citati, il primo del 1848, il secondo del 1883. Lungi dall’accendere conflitti o incrementare lo scontro tra Stato liberale e Chiesa, don Bosco e i suoi figli fanno scelte concrete utili alla gioventù e ai bisogni delle famiglie popolari. Nello sfondo il sogno unitario traluce, ma non s’illumina perché, dopo il fallimento neoguelfo, l’unità pare raggiungibile solo se si elimina il potere temporale della Chiesa. Don Bosco non condivide 99 il modo di fare l’Italia, ma coi suoi figli contribuisce a fare gli italiani attraverso le centinaia di opere lungo la penisola e in altrettante opere fuori dei confini nazionale. “Il modello educativo salesiano si è sviluppato – scrive Francesco Motto – trovando un proprio stretto rapporto con la società civile e inserendosi operativamente nella vita dell’Italia nuova. Si è trattato di un apporto o di collaborazione, di concorrenza attiva ed onesta, di sforzo generoso, inteso a creare una società migliore. Nei tempi difficili della “questione romana”, in quelli ostili delle violente campagne anticlericali di inizio secolo XX, in quelli tragici delle due guerre mondiali, all’epoca del totalitarismo fascista e in quella della sofferta ricostruzione del secondo dopoguerra, nel momento felice del miracolo economico e in quello problematico della contestazione giovanile, nella fase della industrializzazione e in quella della globalizzazione, al tempo della scolarizzazione di massa ed in quella della stasi e ora dell’attesa, i Salesiani con le risorse umane e finanziarie disponibili, in dialogo con le istituzioni o muovendosi in libertà hanno continuato “salesianamente” a “fare il bene che potevano e come potevano”. [17] In sintesi don Bosco si interessa prima dei giovani sbandati che circolano per Torino, poi li tutela con contratti di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 100 100 Il Tempietto lavoro presso padroni affidabili, infine crea laboratori di arti e mestieri a Valdocco, che diverranno le future scuole professionali. Il cuore dell’attività educativa resterà, per don Bosco e i suoi Salesiani, l’Oratorio inteso come luogo per la crescita globale dei ragazzi, in un clima di famiglia e di gioia. L’Oratorio come ambiente in grado di dare adeguate risposte ai bisogni dei giovani. Nel tempo si parlerà di “cuore oratoriano” per ricordare che l’educazione salesiana deve ispirarsi a questo stile, qualunque sia il campo in cui il salesiano si trova ad agire. Riprendiamo a conferma le autorevoli parole di uno storico laico, Giovanni Spadolini, nel 1988, l’anno del centenario della morte di don Bosco. Parole significative in quanto Spadolini era allora Presidente del Consiglio dei ministri. “Don Bosco, un nome accettato dalla morale civile italiana per l’apporto che alla causa del proletariato, dell’avanzamento del popolo, aveva dato la grande, complessa e universale organizzazione dei Salesiani…Don Bosco ha fatto parte dell’Italia civile e minuta. Egli è ricordato per un complesso di intuizioni nel campo dell’educazione che superano i confini fra le due società, che intreccia in uguale esperienza il mondo laico e il mondo cattolico. Apostolato ambulante, è nell’amore per i ragazzi, il segreto della modernità di don Bosco, “La più grande meraviglia del secolo XIX”, come lo definiva uno statista laico, Urbano Rattazzi; una modernità che don Bosco traduce soprattutto nel sistema preventivo. Una storia della nazione italiana condotta con obiettività, nel superamento degli storici steccati di una volta, non può non tener conto del peso sociale che l’Opera salesiana ha esercitato… Don Bosco seppe condurre a termine imprese che il mondo di allora chiamò pazzìe, con la follìa dell’amore e dell’ottimismo nelle capacità dell’uomo sentito come fratello. È vero…che egli fu nel suo secolo un ardito agente di affari di Dio. Ma nei santi gli affari di Dio sono un po’ gli affari del prossimo, quando il prossimo è la collettività nel suo insieme, nei suoi valori, nei bisogni, nelle attese e nelle utopie”. [18] Si dovrebbe ancora aggiungere – scrive Piero Bargellini – che don Bosco: “aveva come costante e realistico riferimento la propria esperienza giovanile in vari ambienti di lavoro e le sofferenza e disagi di quel periodo furono una scuola molto proficua ai fini di un intervento illuminato in questo settore. Intuì che il problema sociale era un problema umano e che, come tale, non avrebbe potuto essere fronteggiato e avviato a soluzione se non operando nel cuore dell’uomo e con sentimento di amore fra gli uomini, lievitando di nuovo spirito TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 101 Il Tempietto il tessuto sociale. Si trattava di ridestare nei lavoratori il senso spirituale della dignità, della forza elevatrice del lavoro, là dove stava avanzando il materialismo, un abbassamento livellatore, mortificatore della personalità; si trattava di contrapporre la carità al risentimento, all’odio, la cooperazione alla lotta, la solidarietà alla discordia, la consapevolezza della necessaria reciproca contribuzione allo sterile antagonismo, all’ansiosa gara di prevalenza di una classe sulle altre”(19) 3.4 Devoto del Papa e amico dei governanti Don Bosco resta un personaggio originale nel conteso risorgimentale e post risorgimentale. È col Pontefice, ma collabora con le Istituzioni per il bene della società e della religione. Critico sul modo in cui veniva unificata l’Italia, non si è mai messo contro lo Stato nazionale. Fu assertore di una convinta e leale collaborazione con le autorità costituite. Da queste ritenuto persona “non sgradita”, nel travaglio di “coscienza dei Cattolici” si adopera per rimuovere gli ostacoli perché l’Italia sorgesse nel segno della pace religiosa, su basi condivise, richieste dai tempi e dalle circostanze.[20] Piero Stella ricorda come don Bosco nutrisse sentimenti che da secoli alimentavano la mentalità popolare. Nel sovrano sentiva “come radicate, prevalenti e alimentate da una speciale grazia divina le doti che si immaginano nel buon padre: pienezza 101 di amore verso i figli, rettitudine e saggezza nel governo dei sudditi”. [21] I grandi funerali a corte preannunziati durante la crisi Calabiana, diventano – secondo lo storico – più un monito verso i consiglieri politici che non una riprovazione della monarchia legittima. Si comprende allora anche la distinzione, legata al tradizionale rispetto per il monarca, tra sovrano ben intenzionato e i suoi ministri, dominati dopo il ‘48 da cattive intenzioni nei confronti della Chiesa. Ma nel suo impegno educativo della gioventù tesse rapporti collaborativi con tutti i governi. E ne è ampiamente ripagato, al di là degli inevitabili momenti oscuri. Lo stesso atteggiamento di collaborazione lo ritroviamo nei Salesiani cui don Bosco affidò la Congregazione. Troviamo conferma nel Bollettino Salesiano. Come ai tempi del fondatore componenti di casa Savoia continuarono a presiedere comitati d’onore in favore di opere salesiane. Nel 1910 alla morte di don Rua inviarono le loro condoglianze la regina Elena, la regina madre Margherita di Savoia, le principesse Clotilde e Letizia e il duca di Genova.[22] Nel 1918 in occasione di un imponente omaggio dell’esercito italiano per il 50° della Basilica di Maria Ausiliatrice, la casa regnante era rappresentata dal principe Eugenio, duca di Ancona che portò, quale dono della regina Elena, un crocifisso di argento massiccio. [23] Il clima politico e sociale è quello del passaggio dall’intransigentismo cattolico a tentativi di avvicinamento tra Stato e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 102 102 Il Tempietto Chiesa. E gli interventi di casa Savoia, a ben vedere, s’inquadrano – osserva Pietro Stella – nel disegno di pacificazione degli animi, di legittimazione dell’avvenuta unificazione nazionale sotto la corona dei Savoia. Pacificazione tra Stato e Chiesa si avrà con la Conciliazione del 1929. Qui mirava implicitamente col cuore ed esplicitamente col suo operare don Bosco. D’altra parte in Lui come nei suoi Salesiani costante è la cura di coltivare l’appoggio e il favore delle pubbliche autorità. È la condizione realistica per portare avanti la sua opera educativa. Il carteggio di don Bosco, conservato presso l’Archivio centrale salesiano, evidenzia la fitta trama di richieste inoltrate da don Bosco e la risposta di enti pubblici. Il personaggio politico che in epoca cavouriana fu più generoso in aiuti fu Urbano Rattazzi. I sussidi elargiti aumentano nel periodo in cui fu ministro degli interni. Il motivo? Le benemerenze filantropiche di don Bosco a vantaggio della gioventù bisognosa delle classi popolari. [24] A Firenze Giovanni Lanza e altri coinvolsero don Bosco nella nomina dei vescovi: di lui si fidavano gli uomini di governo, di lui si fidava il Papa. Ancora nel 1876, quando la Sinistra storica andò al potere, don Bosco continuò forme d’intesa, nonostante la contrarietà del movimento intransigente, con i rappresentanti del Governo. Mediatore tra Stato e Chiesa risolse il problema di varie diocesi vacanti, senza possibilità di nominare nuovi vescovi, per divergenze di interpretazione su diritti di patronato. Tale disponibilità fu apprezzata da liberali e conservatori e anche da uomini della Sinistra. Come non ricordare poi che, nel 1870, don Bosco dissuase Pio IX a lasciare Roma dopo la breccia di Porta Pia? Nel 1878 ottenne poi dal Governo italiano libertà assoluta per il conclave da cui fu eletto papa Leone XIII. Non sono questi semi di Conciliazione? Per i Salesiani la beatificazione di don Bosco nel 2 giugno del 1929 e la canonizzazione nel giorno di Pasqua del 1934 fu un vero trionfo. Era superato il clima di screzi tra Salesiani e fascismo. A proposto dello “screzio” col fascismo va ricordata la riposta dei superiori di Torino all’ordine di creare sezioni di balilla all’interno degli Oratori salesiani: le nostre opere educative le gestiamo noi secondo lo spirito del fondatore; “accettare chiunque, vestito o no da balilla, purchè si adatti alla vita dell’Oratorio; non permettere che l’Oratorio sia trasformato in una caserma di balilla. Le scuole nostre, frequentate da esterni, sono scuole nostre come quelle frequentate da interni”. [25] I grandiosi festeggiamenti per la beatificazione qualche mese dopo i Patti Lateranensi, e la santificazione di don Bosco trovarono un clima molto più sereno e le feste coinvolsero autorità religiose e politiche. Certo nelle seconde non mancò l’elogio dell’opera del santo in chiave nazionalistica e patriottica come appare dal discorso di De Vecchi in Campidoglio: TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 103 Il Tempietto “Don Bosco è un santo italiano ed è il più italiano dei santi! Lo sente suo tutto il popolo, e tuttavia il grande spirito è onnipresente nel mondo, cosicché questa perfezione italiana diventa per lui romanità”.[26] Ma il concetto di politica dei salesiani prescinde dai partiti e collabora con qualunque governo. Certo l’autonomia, anche se non assoluta, dal fascismo chiederà attenzione per non farsi ingabbiare dalle sue maglie. Nel secondo dopo guerra mondiale non si fecero coinvolgere neppure dalla Democrazia Cristiana. 4. Riflessioni riassuntive: 1. Cittadini di fronte allo Stato e Religiosi di fronte alla Chiesa. Quello di don Bosco fu un atteggiamento coerente ad una sana concezione liberale? Nell’azione certamente sì. Egli ebbe chiaro il ruolo spettante alla pubblica autorità. Già nell’agosto del 1877 prospetta il suo programma civile: “Estranei affatto alla politica noi ci terremo costantemente lontani da ogni cosa che possa tornare a carico di qualche persona costituita in autorità civile ed ecclesiastica. Il nostro programma sarà inalterabilmente questo. ‘Lasciateci la cura dei giovani poveri ed abbandonati, e noi faremo tutti i nostri sforzi per fare loro il maggior bene che possiamo, ché così crediamo poter giovare al buon costume ed alla civiltà’”. [27] 2. L’esperienza salesiana e l’esperienza Italia “Per 150 anni i Salesiani e per oltre 130 le Figlie di Maria Ausiliatrice sono stati costruttori di oltre 1500 opere educative, sparse per le province d’Italia, in favore dei giovani, soprattutto quelli più in difficoltà, ai quali non tanto trasmettere la cittadinanza, soprattutto se intesa nei termini attuali, quanto educarli, attraverso la scuola, la cultura, la catechesi e l’uso intelligente del tempo libero, ad essere onesti e capaci lavoratori, disciplinati interpreti e operatori del bene comune (secondo le circostanze storiche), cristiani fedeli alla Chiesa e al Papa. […] Hanno cercato di integrare giovani italiani diversi provenienti dai 4 angoli della penisola ed hanno operato per accrescere il sentimento di unità di destino tra le generazioni di un Paese sostanzialmente privo di cultura patriottica, dal fragile tessuto connettivo e da forme di cittadinanza piuttosto deboli. Non solo. Le loro riuscite iniziative di concreta risposta ai bisogni della comunità, sia in funzione di supplenza che di collaborazione e solidarietà con lo Stato e con la Chiesa, hanno altresì innescato sia in istituzioni civili che ecclesiastiche una dinamica favorevole ad una maggiore attenzione ai giovani, alla loro educazione e formazione, alla loro socializzazione e promozione, ossia al loro futuro e al futuro della società italiana”. [28] 103 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 104 104 Il Tempietto 3. Attualità di don Bosco. Il sistema educativo salesiano opera in 130 Stati del mondo, ove sono presenti i Salesiani. Essi gestiscono scuole anche a stramaggioranza islamica, come nella scuola di Alessandria d’Egitto e del Cairo. Ce lo conferma la testimonianza di un illustre ex-allievo, Magdì Allam, scrittore egiziano da pochi anni approdato al Cattolicesimo. Ancora islamico, in un incontro con gli studenti nel nostro Centro Culturale “il Tempietto”, ricordava il rispetto, l’accoglienza, il clima di famiglia, la serenità della scuola salesiana frequentata. Sottolineava come la cultura occidentale della scuola avesse messo in moto in lui un atteggiamento di ricerca personale e critica, il bisogno di vederci chiaro. Dalla scuola riceveva la spinta ad essere un buon musulmano. Il cristianesimo lo vedeva incarnato nei Salesiani suoi insegnanti. I veri testimoni mettono sempre in crisi! Occorre però ponderare alcune obiezioni che vengono mosse da varie parti al “sistema preventivo di don Bosco”. È definito debole in funzione dell’educazione all’autonomia decisionale, all’affettività e all’impegno politico. In sintesi: don Bosco ha intuito la netta distinzione tra politica e religione nell’accezione di “vera laicità” o, come si dice, di “laicità positiva”. Ciò si ricava dalla sua nitida e costante pratica educativa. Don Bosco però non è un teorico, né un pedagogista, è un maestro di vita che con intelligenza coglie le esigenze del tempo e concretizza “il sogno” di essere segno dell’amore di Dio verso i giovani, specialmente poveri e abbandonati. Naturalmente l’uomo don Bosco è figlio del suo tempo. Vive secondo la formazione ricevuta in seminario. Professandosi fuori della politica, di fatto di politica ne fa parecchia e quasi sempre dalla parte dei “conservatori”, persino degli austriacanti. E don Bosco guardò molte volte con simpatia all’Austria. In seminario era stato formato al conservatorismo e a ritenere l’Austria come protettrice del Papa. La parola “politica”, per don Bosco, coinvolge anche l’atteggiamento verso la “questione sociale”. Politica è quella di Cavour, ma anche dei rivoluzionari socialisti, del “socialista mazziniano Pisacane” che sbarca nel Sud (1857) per sollevare le plebi oppresse, le cooperative ispirate da Owen, i sindacati. “Lasciar da parte ogni politica” significa non farsi tirare dentro al dibattito sociale. Schierarsi “per” qualcuno è schierarsi “contro” qualcun altro. Don Bosco ripete ai suoi Salesiani: “Certo nel mondo vi devono essere anche di quelli che si interessano delle cose politiche, per dare consigli, per segnalare pericoli o per altro; ma questo compito non è per noi”. [29] E “Nella Chiesa non mancano coloro che sanno trattare valentemente queste ardue e pericolose questioni, e in un esercito vi sono quelli destinati a combattere, e quelli destinati TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 105 Il Tempietto ai bagagli e agli altri uffici ugualmente necessari per cooperare alla vittoria”.[30] La novità e l’attualità di don Bosco è nella “risposta” all’emergenza giovanile di allora, pur restando nella visione tradizionale. Il cuore del suo agire: la carità evangelica. Il detto “con don Bosco e coi tempi” è uno slogan indovinato. Don Bosco oggi, respirerebbe altra cultura, avrebbe altri problemi da affrontare nel campo giovanile. Occorre un lavoro di scavo che porti al carisma del santo dei giovani. Ed allora si comprende come in uno stato democratico in cui la laicità è autentica, don Bosco, o meglio, i Salesiani istituiscano anche scuole di formazione politica. Non per manipolare il consenso partitico, ma per fornire ai giovani la possibilità impegnarsi in modo critico e responsabile nella politica. Per quanto riguarda l’educazione affettiva occorre “scrostare” ciò che appartiene ad “un tempo”, alla formazione del seminario, da ciò che è perenne. Senza dimenticare che il processo di storicizzazione interessa l’umanità in quanto tale. Segni del proprio tempo tuttavia sono meno marcati nel “teorico innovatore” come nel “pratico innovatore”, basta pensare a Rosmini e a don Bosco appunto. La proposta educativa di don Bosco, proseguita nel mondo dai Salesiani, si rivelò vincente rispetto a quella del nazionalismo e totalitarismo, ed è vincente sempre nei regimi democratici, anche se necessita di 105 essere riformulata negli strumenti educativi e nel linguaggio in sintonia coi tempi e coi luoghi. Al di là di fallimenti e ripiegamenti episodici e la ben nota crisi generale del clero cattolico nel dopo Vaticano II. 4. Due autorevoli testimonianze. Umberto Eco scrive nell’Espresso del 15 novembre del 1981: L’Oratorio “è la grande invenzione di don Bosco. Don Bosco lo inventa, poi, lo esporta verso la rete delle parrocchie e dell’azione cattolica; ma il nucleo è là, quando questo geniale riformatore intravede che la società industriale richiede nuovi modi di aggregazione, prima giovanile poi adulta, e inventa l’oratorio salesiano: una macchina perfetta in cui ogni canale di comunicazione, dal gioco alla musica, dal teatro alla stampa, è gestito in proprio su basi minime, e riutilizzato e discusso quando la comunicazione arriva da fuori […]. La genialità dell’Oratorio è che esso prescrive ai suoi frequentatori un codice morale e religioso, ma poi accoglie anche chi non lo segue. In tale senso il progetto di don Bosco investe tutta la società dell’età industriale […] alla quale (società) è mancato il suo “progetto don Bosco” e cioè qualcuno o gruppo con la stessa immaginazione sociologica, lo stesso senso del tempo, la stessa inventiva organizzativa. Al di fuori di questo quadro nessuna forza TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 106 106 Il Tempietto ideologica può elaborare una politica globale delle comunicazioni di massa, e dovrà limitarsi alla occupazione (spesso inutile e sovente dannosa) dei vertici dei grandi dinosauri. Che contano meno di quanto si crede”.[31] Interessante il commento che fa Piero Stella. Umberto Eco riflette nell’articolo la propria competenza di semiologo e vi riversa la memoria dei giorni trascorsi da ragazzo nell’Oratorio dei Salesiani di don Bosco ad Alessandria tra gli anni della seconda guerra mondiale e il dopoguerra. Erano tempi in cui l’Oratorio nella città era l’unico riferimento preferito. Erano anni in cui i Salesiani impegnati negli oratori avevano vivissima l’immagine del fondatore, canonizzato pochi ani prima. Sandro Pertini scrive al suo amato maestro don Borella del collegio salesiano di Varazze: “Il ricordo dei giorni trascorsi vicino a Lei tra codeste mura vive sempre, nel mio animo. Oggi comprendo che l’amore senza limiti che sento per gli oppressi, per tutti i miseri ha cominciato a sorgere in me, vivendo in codesto porto di pace. La mirabile vita del loro Santo mi ha iniziato a questo amore… San Giovanni Bosco, come San Francesco di Assisi, ha amato come noi amiamo gli oppressi, i diseredati ed a costoro tutta la sua nobile esistenza ha generosamente sacrificata. […] Che nostalgia di quel tempo spesso io sento!” [32] Interessane quanto scrive lo storico Giacomo Martina: i Salesiani della prima generazione, quando arrivavano in certe città romagnole rosse e mangiapreti, sembravano destinati a sicuro fallimento. E invece attaccavano con l’oratorio e la banda musicale, e dopo poco tempo erano amici di tutti. “Sono preti diversi” dicevano. [33] 5. Conclusione “Un paese che ignora la propria storia – scriveva Indro Montanelli – non può avere un domani”. E la storia, il nostro cammino nel tempo, è una lettura del passato mai definitiva. Nuovi documenti, nuove prospettive arricchiscono la rivisitazione storica che non ha capolinea. I Salesiani nei 150 anni dell’Unità d’Italia fanno parte della storia del nostro Paese: essi portano alla società una “modalità educativa” originale, vissuta e trasmessa loro da don Bosco. Paolo VI, a proposito del Santo dei giovani, negli anni ‘70 scriveva: “Fra le cose grandi, fra le cose geniali, fra le cose stupende nella vita di don Bosco, troviamo anche questo: ha saputo concordare, in anticipo, l’italianità con la cattolicità, ha avuto l’antiveggenza di mettere in atto la pace che deve esistere fra l’anima di un cattolico e l’anima di un cittadino”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 107 Il Tempietto Note [1] Lucetta Scaraffia (a c. di), I Cattolici che hanno fatto l’Italia, Religiosi e Cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia, Indau, marzo 2011. [2] Pietro Stella, I Salesiani e il movimento cattolico in Italia fino alla prima guerra mondiale, in Ricerche Storiche Salesiane/3, 1983, pp. 223-251. [3] ivi, p. 228. [4] Soldani S. e G. Turi (a c. di), Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea. I/La nascita dello stato nazionale, Il Mulino 1993. [5] Lucetta Scaraffa,I Cattolici che hanno fatto l’unità, op. cit. pag. 57 … (6) Una delle debolezze dell’identità italiana sta nel fatto che la sua elaborazione si è fondata su una memoria pubblica ritagliata a seconda delle finalità politiche e ideologiche o dei poteri forti. Un solo esempio recentissimo: l’assenza dell’editoria cattolica nella mostra “L’Italia dei libri” di Torino 150°, e questo nella città di uno dei primi autori di bestseller come don Bosco (Letture cattoliche e l’almanacco popolare Il Galantuoomo) e nella città dell’editoria imprenditoriale salesiana che per 150 anni ha disseminato per tutto il Paese centinaia di migliaia di volumi proprio là dove si cercava di “fare gli Italiani”, ossia la scuola, gli oratori, le associazioni giovanili, le parrocchie, i centri assistenziali, ricreativi, culturali, il volontariato…” (Conferenza di Francesco Motto tenuta a Castelnuovo don Bosco il 20 settembre 2011. [7] G. Bosco, Memorie, Ellenici, 1985, pp. 102-103. [8] Francesco Motto (a c. di), Salesiani di don Bosco in Italia – 150 di educazione, in [9] [10] [11] (12] [13] [14] [15] [16] [17] [18] (19) [20] [21] [22] [23] [24] [25] [26] 107 Saggio di Pietro Braido, “Poveri e abbandonati, pericolanti e pericolosi; pedagogia, assistenza, socialità nell’“esperienza preventiva” di don Bosco”, p. 139. ivi. ivi, p. 140 ivi. Salesiani di don Bosco in Italia, op. cit., in Saggio di Pietro Bairati, “Cultura salesiana e Società industriale”, p.198. Francesco Traniello (a c. di), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Sei, Torino 1986, p.17. Aldo Giraudo, I giovani pericolanti di Torino e il successo dell’opera educativa di don Bosco nel decennio preunitario, in Rivista “il Tempietto”, n. 11, p. 209 Bollettino Salesiano, VII, agosto 1883, pp. 127-128 Salesiani di don Bosco in Italia – 150 di educazione, op. cit., pp. 10-11. Salesiani di don Bosco in Italia – 150 anni di educazione, op. cit., Introduzione, p. 11. Dossier del 150°, Italia Salesiana, inserto Notiziaro ispettoriale ICC, Pasqua 2011, p. 22. Piero Bargellini, Il Santo del lavoro, LDC 1975, pag.8-9 Salesiani di don Bosco in Italia, op. cit., p. 9. Don Bosco nella storia della cultura popolare, op. cit., p. 360. Bollettino Salesiano XXXIV, maggio 1910. Bollettino Salesiano XLII, giugno-luglio 1918. Pietro Stella in Don Bosco nella cultura popolare, op.cit., p. 362. Pietro Stella, Don Bosco, op, cit., p. 10. Pietro Stella, in Don Bosco e la cultura popolare a c. di Francesco Traniello, p. 363. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 108 108 Il Tempietto [27] Bollettino Salesiano, agosto 1887. [28] da Comunicato ANSA – Roma 17 marzo 2011. [29] Memorie Biografiche di don Bosco, vol. XVI, p. 291: citazione in Teresio Bosco, Don Bosco, una biografia nuova, Elledici, 2005, p. 197. [30] Memorie Biografiche, p. 487: citazione in Teresio Bosco, op. cit., p. 197. [31] Pietro Stella, Don Bosco, op. cit., p. 7. [32] Lettere di Pertini a don Borella in Eco di don Bosco, anno LXXV n. 2, p. 14. Riportiamo il commento di Rocco Coladonato ai vari brani di lettere di Pertini al maestro don Borella, dai quali abbiamo desunto la citazione. “A questo punto ci pare importante mettere in rilievo che “l’ambiente”, “e ore serene dell’infanzia”, in quel “porto di pace” in cui si educa all’“amore degli oppressi…” un adolescente pensoso, vicino ai “maestri salesiani”, con don Borella, don Viglietti, don Ruggeri, don Gresino (nominati nelle lettere), è l’ambiente in cui questi Salesiani con i loro giovani vissero ore amarissime. Sandro Pertini era entrato in quell’ambiente proprio nel settembre di quel 1907 in cui, dal luglio appena trascorso, si era scatenata una violenta campagna diffamatoria e denigratoria contro il collegio, passata alla storia con il nome “I fatti di Varazze”, a causa di un ignobile “diario”, pattumiera zoliana come lo definisce don Ceria negli Annali, inventato e strumentalizzato in uno dei momenti più sfacciati della propaganda anticlericale italiana. Amarezza di anni che si protrasse intensamente fino al 1912; anni in cui veniva maturando l’adolescenza di Pertini; ed era da poco fiorita quella di altri celebri ex-allievi del collegio, come Camillo Sbarbaro, un maestro della poesia italiana del Novecento, e l’indimenticabile Mario Mazza, fondatore dello scoutismo italiano”. [33] cfr.Teresio Bosco, Don Bosco, una biografia nuova, Eledici tredicesima edizione 205, pag. 197. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 109 Il Tempietto Don Bosco e i Salesiani a Genova Alberto Rinaldini Premessa: “Aprendo la finestra della mia stanza, in questa mattina di primavera piena di sole, sono attratto dal verde dei campi in erba. Lo sguardo si alza al cielo e incrocia il vecchio campanile voluto “alto” da don Bosco… Le bombe che distrussero la bella chiesa non osarono toccarlo. Stringeva al suo seno tre Salesiani. Passato e presente, unica onda di un sogno che non finisce di stupire. La cuspide antica sembra guardare oltre le colline e le vallate fino al fiume Bisagno che accarezza la zona di Marassi e Corso Sardegna per risalire Corso Europa e giungere a Quarto… in un ideale abbraccio della città, così cara al Santo dei giovani. Seguendo gli occhi e il cuore di don Bosco dal bel campanile vedo il mare che unisce il mondo…e i primi Salesiani in viaggio verso le Americhe. Dove sono i giovani, lì c’è il suo cuore…e il ricordo mi unisce ai tanti Salesiani che qui operarono e ancora operano nel suo stile”. (1) Parole che dicono l’affetto di don Bosco per questa città e il profondo legame della città con “Il Don Bosco”. Verrebbe quasi da chiedersi: “Quanto 109 mancherebbe al mondo salesiano se si cancellasse dalla sua storia la casa di Sampierdarena? Quanto mancherebbe a Genova se dalla sua storia fossero eliminati questi 140 anni di presenza Salesiana?”. Tra Genova e don Bosco nacque un legame affettuoso, a prima vista, come ebbe a scrivere un grande genovese, il cardinale Giuseppe Siri: “Non c’è stata tra noi figura di rilievo che per qualche tempo non sia entrata nella sua orbita, non ne abbia subito il fascino. (…) Genova e don Bosco non ebbero che a vedersi per comprendersi”.(2) Un felice incontro che dura da 140 anni, oggi vitale in tre punti strategici della città: Sampierdarena, Corso Sardegna e Quarto. 1. don Bosco e la “questione giovanile” Alla metà dell’ 800 i giovani, per la società, non avevano voce. Sui giovani don Bosco scommise la sua vita e questa scommessa affidò ai suoi Salesiani. Diverse sono le povertà delle giovani generazioni nel cammino del tempo, ma il loro grido di aiuto è lo stesso. Don Bosco indica la via della risposta, la “pedagogia della bontà”, la passione educativa espressa nello stile salesiano. La sentiamo ben compresa da Duvallet, apostolo della rieducazione dei giovani. Negli ultimi decenni del ‘900 egli così scrive ai Salesiani: “Voi avete opere, collegi, oratori, case per giovani, ma non avete che TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 110 110 Il Tempietto un tesoro: la pedagogia di don Bosco. In un mondo in cui i giovani sono traditi, disseccati, triturati, strumentalizzati, psicanalizzati, il Signore vi ha affidato una pedagogia in cui trionfa il rispetto per il ragazzo, della sua grandezza, della sua fragilità e della sua dignità di figlio di Dio. Conservatela, rinnovatela, rinvigoritela, arricchitela di tutte le scoperte moderne, adattatela a queste creature del ventesimo secolo, ai loro drammi che don Bosco non ha potuto conoscere. Ma, per carità, conservatela. Cambiate tutto; perdete, se è il caso, le vostre case, ma conservate questo tesoro, costruendo in migliaia di cuori la maniera di amare e di salvare i giovani che è l’eredità di don Bosco”. 2. Stima e simpatia dei genovesi per don Bosco e i salesiani La casa di Sampierdarena inizia l’avventura nel 1872 in compagnia di “sorella povertà”, ma sorretta dall’affetto e dalla simpatia della popolazione. Un’opera per i giovani richiesta da Genova e sostenuta dalla generosità dei genovesi, un crescendo di coraggiose risposte, nell’evolversi delle situazioni che sembra non finire. Lo sviluppo dell’opera salesiana nel tempo è tale che il solo ricordo delle sue umili origini desta meraviglia. Raccogliamo le fila di quest’avventura. Il legame di don Bosco con la città tuttavia inizia molto prima. Nel 1841 appena ordinato sacerdote era stato richiesto come precettore da una nobile famiglia genovese. Non era questa la via per Genova... Tre illustri vescovi genovesi, che la Provvidenza metterà sul cammino del Santo in tempi diversi, creeranno quel ponte che finirà per legare definitivamente Don Bosco alla città: Mons. Luigi Fransoni, Mons. Salvatore Magnasco e Mons. Gaetano Alimonda. Mons. Fransoni fu il suo più valido sostegno dell’Oratorio a Torino; Mons Alimonda oltre all’appoggio a Roma, fatto arcivescovo di Torino, fu l’angelo che lo consolò negli ultimi anni, dopo le incomprensioni di Mons. Gastaldi; Mons. Magnasco, arcivescovo di Genova, volle e aiutò la fondazione dell’Opera salesiana di Sampiedarena. Fu sempre vicino a don Bosco e ai Salesiani.(3) Il suo impegno per i giovani più bisognosi troverà valido sostegno e conforto in tanti sacerdoti e in numerose famiglie dell’aristocrazia genovese. Nella cattedrale di San Siro poi il popolo incontrava il Santo dei giovani durante le sue soste a Sampierdarena e la generosità dei genovesi era sempre grande. Ci limitiamo all’elenco delle famiglie aristocratiche che, per l’opera di don Bosco, furono il cuore e le mani della Provvidenza. Attingiamo queste informazioni ben documentate dal libro del salesiano Stefano Sciaccaluga.(4) Il ricordare la generosità dei genovesi vuol essere anche un segno di gratitudine alla città che ha dato una mano a don Bosco e ai Salesiani in TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 111 Il Tempietto questi 140 anni a formare, attraverso l’impegno educativo, uno stuolo di onesti cittadini e buoni cristiani. Questa generosità non è mai venuta meno. Cosicchè tutto quello che, in nome e nello spirito di don Bosco, i Salesiani continuano a fare per i giovani, è reso possibile dalla Provvidenza che muove il cuore sensibile di Genova. L’amore e gli aiuti d’ogni sorta dati a don Bosco e ai suoi Salesiani pongono la famiglia Dufour al posto d’onore. Don Bosco definì Maurizio Dufour “La Provvidenza dei poveri orfani”. E con lui i fratelli Lorenzo, Carlo, Luigi e Amalia. Amore e simpatia trasmessi ai nipoti continueranno nel tempo: dopo la morte di don Bosco l’amore divenne culto al Santo e carità verso i suoi figli e le sue opere. Alla famiglia Durazzo Pallavicini è legata la vendita a modico prezzo della villa – per costruirla aveva speso un patrimonio – e del terreno adiacente, oggi Oratorio Don Bosco di Sampierdarena. Il marchese Ignazio già dagli anni ‘50 aveva aiutato don Bosco e tra i due era nata una profonda amicizia. L’incontro con la famiglia Cataldi risale al 1869, ben prima che aiutasse don Bosco a Genova. La prima “sosta” a Genova è nella zona di Marassi, a villa Oneto dei Cataldi. Ma da quando intervennero per l’acquisto del convento di S. Gaetano – l’attuale don Bosco di Sampierdarena – con un’offerta di 30.000 lire, tutta la famiglia entrò a fare parte della famiglia salesiana. Don Bosco è amato da tutti: la mamma Luigia Cataldi Parodi, Giuseppe Cataldi banchiere genovese e sindaco 111 di Genova. Mamma Luigia, s’ammalò d’occhi proprio nel 1871. Per 25 anni sopportò il male fino alla cecità assoluta. Essa fu una grande benefattrice e con l’anonimo della cronaca della casa di Sampierdarena la diremmo “più che benefattrice, mamma amorosa”. Ricordiamo la famiglia Ghiglini, in particolare la mamma del senatore Lorenzo. Essa fu grande benefattrice e ad essa facevano capo molte signore di Genova, zelantissime cooperatrici. Mons. Augusto dei marchesi Negrotto, genovese, operava alla Corte pontificia e fu di grande aiuto per il disbrigo di pratiche presso gli uffici della curia. Questo vescovo aveva tanta stima di don Bosco che avrebbe voluto farsi salesiano. Ciò non avvenne, ma l’amicizia rimase sempre solida con i Salesiani anche dopo la morte del Santo. Monsignore si ritirò a Genova dopo la scomparsa della madre. Nella cronaca della casa di Sampierdarena nel 1897, nelle feste del 25° di fondazione dell’Opera, accanto a Mons. Negrotto leggiamo ” “antico cameriere segreto di Pio IX e intimo amico di don Bosco”. La Casata Centurione, in particolare il caritatevole Principe Vittorio facilitò l’acquisto del convento di San Gaetano, sede della casa di Sampierdarena. I Centurione rimasero in buoni rapporti con i Salesiani. Della famiglia Spinola si deve sottolineare i buoni rapporti di don Bosco con il marchese Spinola, Ministro Italiano a Buenos Aires che aiutò i Salesiani arrivati in Argentina nel 1875. Un altro Spinola, nel 1886, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 112 112 Il Tempietto venne a Sampierdarena per fotografare don Bosco. Il Santo doveva partire per Varazze, ma per compiacerlo accondiscese. È la più bella foto del Santo. Buona cooperatrice di don Bosco fu la principessa Elisabetta Doria-Sols cugina dell’imperatore Guglielmo II. Maria De Ferrari Duchessa di Galliera, nata a Genova, visse a Parigi: profuse in beneficenza per opere pubbliche milioni in città. L’ospedale che porta il suo nome, primeggia su tutte. Due anni prima di morire costituì il Pio Istituto Negrone Durazzo Brignole Sale. Nell’elenco delle fondazioni perpetue a “beneficio e utilità della città di Genova2, è compreso l’Ospizio S.Vincenzo de’ Paoli in Sampierdarena. Ad esso furono assegnate 500 Lire annue per due posti gratuiti. Dei Conti della Chiesa ricordiamo Giacomo, che fu papa Benedetto XV. Conobbe indirettamente don Bosco attraverso i suoi scritti che la piissima madre faceva leggere a Giacomo e ai fratelli. Benedetto XV diede un grande segno di stima a don Bosco e alla Società Salesiana nel 1915, quando elevò Mons. Cagliero alla porpora cardinalizia. Fu un’ora indimenticabile per i salesiani che videro riconosciuto da un papa genovese il loro lavoro missionario. Quest’elenco esprime l’animo squisito del patriziato genovese per don Bosco e i Salesiani. L’elenco dovrebbe continuare con i numerosissimi amici, sacerdoti laici. Sarebbe troppo lungo! Tra gli estimatori compare persino Giuseppe Garibaldi che mostrò stima e simpatia per l’opera educativa di don Bosco. Lo racconta il biografo don Ceria. Nel 1875 sulle case salesiane di Varazze, di Alassio e di Sampierdarena stava addensandosi una tempesta. Il prefetto di Genova Colucci osteggiava in tutti i modi le scuole salesiane. Ma anche dopo il trasferimento del Colucci l’ostilità continuò. Venne a cessare per l’interevento di Giuseppe Garibaldi. Il generale accortosi del malanimo e saputo il motivo disse: “Ma lasciatelo un po’ tranquillo don Bosco. È un vero prete”. Il fatto destò grande meraviglia. Ma non fu il solo gesto di simpatia verso il Santo, stando al biografo... Passando l’estate sulla spiaggia di Alassio a Villa Gotica, il generale parlò in modo benevolo con un alunno di quel collegio salesiano, condottogli dalla compagna Francesca. Essendo stata costei la balia del ragazzo, vedendolo per strada nel gruppo dei giovani dell’Istituto, lo chiamò in casa. Garibaldi gli disse: - Dunque tu sei del collegio di Don Bosco. - Sissignore - E ti vuoi fare prete? Io non so ancora che cosa farò. E in collegio si parla male di me? Io non ho sentito nessuno a parlar male di lei, Va’ dunque con i tuoi compagni, studia e sii obbediente ai tuoi superiori. In altra occasione Garibaldi disse di don Bosco: “quello sì che è un bravo prete e un vero sacerdote di Dio, amante TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 113 Il Tempietto dell’umanità. Fa del bene alla gioventù, ed è il solo nell’Italia”. Osserviamo col biografo Ceria: “Era un po’ troppo veramente…” A ogni modo è lecito prendere atto che, una volta tanto, l’implacabile nemico dei preti seppe anche dire bene di un prete…” (5) 3. Gli inizi dell’Opera Nel febbraio del 1871 Don Bosco si trovava a Genova. Due genovesi, soci della Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli di Borgo Incrociati, Domenico Prefumo e Giuseppe Varetti, andarono dal Santo e gli chiesero di aprire una casa anche a Genova. Don Bosco non disse di no, ma osservò che ci volevano mezzi ed essi promisero di fare quanto potevano. La cosa restò lì come sospesa. (6) Era però nel destino della Provvidenza che quest’opera sorgesse e presto. Quando la Conferenza di S. Vincenzo riuscì ad ottenere in affitto per 500 lire dal barone Cataldi una villa a Marassi (villa Oneto) sul declivio orientale della Val Bisagno, Don Bosco accettò. II 26 ottobre mandò Don Albera con due giovani salesiani, tre capi laboratorio ed un cuoco. Don Albera accettò con animo sereno la direzione della casa. Al momento di partire Don Bosco gli raccomandò di non darsi pensiero di niente e di riporre tutta la fiducia nel Signore. Gli chiese poi se avesse bisogno di qualche cosa. - «No, signor Don Bosco – rispose – La ringrazio, ho con me 500 lire». E Don Bosco: 113 - «Non è necessario tanto denaro. Non ci sarà la Provvidenza a Genova? Va’ tranquillo, la Provvidenza penserà anche a te». Ritirò le 500 lire e gli lasciò una somma molto inferiore. E la Provvidenza non mancò. Così inizia la storia di Don Bosco e della sua opera nel capoluogo ligure. I vicini della Villa Oneto di Marassi chiamarono i salesiani «quelli dei discoli», un nomignolo che non era indicato... Con meraviglia si accorsero della famigliarità che esisteva fra salesiani ed alunni: conversavano, giocavano insieme e alla sera, nel cortile, cantavano... Era la pratica del sistema preventivo che trova il suo fondamento nell’accoglienza, nel clima di famiglia e nella pratica gioiosa della religione.(7) Se l’inizio fu povero, anzi eroicamente povero, i buoni genovesi aiutarono i ragazzi di Don Bosco. La storia dice che Domenico Prefumo fu per loro un secondo padre. 4. A Sampierdarena Don Bosco andò a Marassi due volte, nel ‘71 e nel ‘72. Nella seconda visita si rese conto che, essendo cresciuto il numero dei giovani, ormai oltre 40, occorreva una sede più ampia. La scelta cadde su Sampierdarena, che stava diventando un polo notevole di sviluppo industriale e punto di riferimento di un elevato flusso di immigrazione. Secondo l’intenzione di Don Bosco e dell’Arcivescovo Mons. Magnasco l’Opera avrebbe dovuto animare spiritualmente i Sampierdarenesi e i nuovi che TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 114 114 Il Tempietto affluivano numerosi come operai dell’Ansaldo e di altre fabbriche. Ma era necessario salvaguardare la cattolicità della zona, come d’altra parte accadeva a Torino. L’aumento della popolazione di Sampierdarea (da 14.000 nel 1862 a 22.000 nel 1882, a 58.000 nel 1931) non è dovuto alla natalità, ma all’immigrazione: necessità di lavoro, affari, commercio convogliavano qui ogni sorta di gente. Dei nuovi arrivati non pochi erano Anglicani, Luterani, Calvinisti. La massoneria poi esercitava tutto il suo impegno ed all’epoca aveva aperto un ricreatorio festivo. (8) Un articolo dell’Osservatore Romano del 2 gennaio 1876 parlando di Genova scrive: “Le cose erano a tal punto che quella città in fatto di religione era comunemente appellata piccola Ginevra”. L’11 novembre 1872 era il giorno del trasloco da Marassi a Sampierdarena. Fu ostacolato da un autentico nubifragio sulla città. Vennero allora mandati avanti cinque giovani artigiani con un salesiano. Presero possesso dell’Ospizio, ma non avevano da mangiare. Se ne accorse un signore, Stefano Delcanto, che provvide il necessario. Fu il primo benefattore. Il tempo finalmente si rasserenò e il 15 novembre l’intera brigata partiva per Sampierdarena, a piedi, ognuno col proprio fagotto. Erano in 35. Le difficoltà nella nuova casa furono tante... Col tempo però tutto si sistemò. Fu reso agibile l’antico convento. Fu ampliata e risistemata la chiesa. A fianco della Chiesa fu innalzata la prima costruzione su disegno dell’Ing. Campanella. Intanto anche il numero dei ragazzi aumentava. Oltre all’ospizio destinato ai giovani orfani, si aprì, nello stesso mese di novembre 1872, anche l’oratorio festivo, dove accorse subito numerosa la gioventù della città. 5. Le scuole professionali Genova nella seconda metà dell’800 vive il passaggio dall’artigianato all’industria, che richiede operai qualificati e tecnici. Esplode anche la questione operaia, resa più sensibile dalla migrazione interna. Come a Torino, anche a Genova numerosi giovani bisognosi di accoglienza e di occupazione vagano senza una casa e senza protezione. Stessa situazione, analoga risposta! Se a Torino l’ospizio per accogliere i giovani orfani e/o senza casa viene dopo l’Oratorio come risposta all’emergenza giovanile, a Genova s’inizia come Ospizio cui segue subito l’Oratorio. Per Don Bosco la soluzione ai problemi dei giovani in difficoltà è la educazione professionale, vista come strumento di elevazione della dignità e della condizione del giovane operaio. E la storia gli ha dato ragione. A Sampierdarena, detta la Manchester d’Italia, sorgerà la scuola di “Arti e Mestieri”. È l’opera di un uomo che ha colto i problemi del suo tempo e ne tenta una originale risposta. La prima in ordine e di tempo e d’importanza in Liguria. Nel 1874 oltre ai laboratori per sarti, falegnami, calzolai, già in funzione a Marassi, con ritmo veloce TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 115 Il Tempietto allestisce laboratori per meccanici, tipografi, stampatori e legatori. La tipografia di Sampierdarena è la seconda fondata dal Santo: qui si stamperanno le Letture Cattoiche e le prime annate del «Bollettino Salesiano» dal 1878 in avanti, la rivista voluta da Don Bosco, oggi stampata in 19 lingue e diffusa in 45 nazioni, con una tiratura di oltre 10.000.000 di copie annue. Pur nell’evolversi delle forme nel tempo, la Scuola di Arti e Mestieri – un’esperienza ormai forte e maturata a Torino Valdocco – sarà il filo rosso che attraversa l’intero arco dei 140 anni: dalla fase dei laboratori alla scuola professionale, oggi definita “Centro di formazione professionale", dall’apprendere un mestiere a dare un’istruzione scolastica adeguata, agli attuali CFP, come risposta al diritto di ogni giovane di seguire il percorso scolastico o quello professionale. Sampierdarena si è dimostrata una scelta giusta: per la sua vocazione operaia e industriale ha costretto i Salesiani a pensare e ripensare le strutture, in funzione dei nuovi sbocchi di lavoro. E il problema si pone anche oggi… Per capire la vitalità della scuola professionale di Sampierdarena dobbiamo tornare alla sorgente, Don Bosco; si comprende se la vediamo come il dilatarsi dell’unica onda che nasce dal suo “modo di rispondere” alle emergenze del suo tempo. Intuizioni e patrimonio educativo che vengono portati con la “sua presenza” e con quella dei suoi Salesiani a Genova. 115 L’opera educativa del Santo dei giovani, nell’aderire alla realtà storica, si carica di valenza sociale. Non teorizza una terza via tra liberalismo e marxismo. Percorre una via di ricupero della solidarietà smarrita dal liberismo in nome della libertà e della concorrenza. Nel medesimo tempo rifugge dallo scontro di classe teorizzato dal marxismo. La sua intuizione nasce dal Vangelo che lo porta ad evitare l’odio di classe e favorire la solidarietà, ancora prima della nascita del manifesto di Marx e nel tempo del liberismo trionfante. A partire dalla sua esperienza giovanile in vari ambienti di lavoro intuì che il problema sociale era un problema umano non risolvibile se non col sentimento di amore fra gli uomini lievitando di nuovo spirito il tessuto sociale. “Si trattava – scrive Bargellini – di ridestare nei lavoratori il senso spirituale della dignità, della funzione elevatrice del lavoro, là dove stava avanzando il materialismo, un abbassamento livellatore, mortificatore della personalità; si trattava di contrapporre la carità al risentimento, all’odio, la cooperazione alla lotta, la solidarietà alla discordia, la consapevolezza della necessaria reciproca contribuzione allo sterile antagonismo, all’ansiosa gara di prevalenza di una classe sociale sulle altre”. E aggiunge: quello che colpisce le origini e le caratteristiche delle scuole professionali, “è l’intimo legame TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 116 116 Il Tempietto tra spirituale e materiale, l’educazione dell’anima e dell’intelletto con quella della mano operosa. In questa armoniosa inquadratura troviamo l’anticipazione geniale, in tempi così diversi e oscuri, di quelle direttrici, di quei criteri, di quel sistema didattico, che doveva poi essere universalmente accettato, e che tutt’oggi informa con singolare e aderenza l’ordinamento attuale, dopo tanti studi e dibattiti in materia”. (9) Don Bosco non fu tuttavia il precursore dell’artigianato giovanile. Altri lo precedettero, basta pensare alle vite di Calasanzio, di Emiliani e di La Salle. Anche a metà ‘800 troviamo tentativi del genere, come gli Artigianelli di don Cocchi a Torino. Il proprium di don Bosco sta nella capacità di armonizzare l’istituzione coi tempi e imprimerle il proprio metodo educativo. Il capitolo generale del 1886 recita: "Il fine che si propone la Società Salesiana nell’accogliere ed educare i giovani artigiani si è di allevarli in modo che, uscendo dalle nostre case dopo aver compiuto il loro tirocinio, abbiamo appreso un mestiere onde guadagnarsi il pane della vita, siano istruiti nella religione ed abbiano le cognizioni scientifiche opportune al loro stato”.(10) L’Opera, su richiesta della popolazione, si occupò anche delle scuole elementari: il leggere, lo scrivere e far di conto era allora un dogma sociale. L’apertura del Ginnasio poi formò in tanti anni una schiera di exallievi che portano ancora nella vita indelebile il ricordo dello spirito di Don Bosco. 6. Desiderio o profezia? Un giorno del luglio 1876, durante un soggiorno di Don Bosco a Sampierdarena, sedevano attorno al Santo, a mensa, vari benefattori. Sulla fine, la piccola banda musicale dell’Istituto faceva echeggiare l’aria di una marcia festosa. Espressione della gioia che provavano d’avere in mezzo a loro il buon Padre e i cari benefattori. Uno di questi, un sacerdote che aveva avuto molta parte nell’arrivo dei figli di Don Bosco a Sampierdarena, disse: - Don Bosco chi avrebbe immaginato che l’Istituto avrebbe preso tanto incremento! I quaranta giovani si sono moltiplicati. Ora è una vita! Saranno ormai duecento! - Sono duecento – rispose Don Bosco – ma cresceranno ancora. - Mi pare che sia già un numero rilevante. - Cresceranno, e un giorno se ne conteranno trecento e quattrocento e più ancora. Questa casa per numero e per importanza non sarà a meno dell’Oratorio di Valdocco(11). Era una profezia oppure soltanto l’espressione del desiderio di Don Bosco o un segno del grande affetto per quest’opera? TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 117 Il Tempietto Don Michele Rua, il primo successore di Don Bosco, l’anno dopo, nel lodare il lavoro dei Salesiani a Sampierdarena esclamava: "Io devo parlare con un poco di invidia di questo Istituto, perché minaccia di sopraffare l’Oratorio. Cinque anni fa era una casupola a Marassi. Qui l’opera non poteva ingrandirsi. Si trattò di trasportarla a Sampierdarena, città famosa per l’irreligione e la framassoneria. Era impresa arrischiata. Ma la Divina Provvidenza…Vi era bisogno di una fabbrica corrispondente alle necessità. Don Bosco andò a farvi visita e sorse come per incanto una bella e grande fabbrica…In breve tempo crebbero i giovani ed ora sono da 260 a 300. Quasi raggiungono il numero di quelli dell’Oratorio. I giovani, fra cui molti già di età, che studiano il latino sono circa 80, per fornire alla Chiesa ed alla Congregazione buoni ministri del Signore.” (11 bis) Nel brano di don Rua si parla di 80 giovani già in età, sono i Figli di Maria, fiore all’occhiello per don Bosco. Un’istituzione che il Santo avrebbe voluto all’Oratorio di Torino, ma per i rapporti tesi con l’arcivescovo Gastaldi, fu consigliato da Roma a situarla altrove. E Sampierdarena fu la sede prescelta. Si dice che abbia dato alla Chiesa 300 sacerdoti, diocesani e religiosi. Tra i Salesiani ricordiamo don Filippo Rinaldi, che sarà il terzo successore di don Bosco, Michele Unia 117 e Raffaele Crippa che si dedicheranno entrambi ai lebbrosi in Colombia. L’espandersi dell’Opera di Don Bosco in Sampierdarena suscita stupore anche per noi. I 140 anni di vita sono stati un crescendo di coraggiose risposte, nell’evolversi delle situazioni e sembra non finire. Vera casa di don Bosco. Fresca nella sua identità salesiana. Cresciuta nel più genuino spirito di don Bosco, aperta alle promesse e alle attese quest’opera continua ad essere una realtà viva nel tessuto sociale, ecclesiale, educativo della grande Genova. Oggi centinaia e migliaia di giovani la sentono casa loro: città dei giovani ove trovano spazi per il gioco, sale per la cultura, aule per studiare e chiesa per pregare. 7. Sampierdarena: città in costruzione La città di Sampierdarena dall’‘800 è una comunità sempre in costruzione: da “villeggiatura” della nobiltà genovese fino all’‘800 diviene città operaia nella seconda metà dell’‘800 e nel 2000 multietnica. Il flusso migratorio interno – dalla campagna e dal Meridione prima, e quello estero nell’ultimo trentennio fino all’arrivo dei latino-americani – pone alla città gravi problemi. Oggi è meta prescelta di una massiccia immigrazione ecuadoriana, e la via dell’integrazione trova forti difficoltà. Ma il flusso migratorio non è solo problema, è anche un’opportunità. Come sempre i Salesiani “sentono” il disagio della Comunità che si ritrova “diversa” e con difficoltà gestisce la “novità”. Il “Don Bosco” apre le porte ai nuovi TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 118 118 Il Tempietto arrivati facendo proprio il monito di don Bosco che raccomandava ai primi missionari partenti per l’America Latina nel 1875: “Vi raccomando poi con insistenza particolare la dolorosa posizione di molte famiglie italiane che numerose vivono disperse in quelle città ed in quei paesi in mezzo alle estese campagne…Andate, cercate questi nostri fratelli, cui la miseria o la sventura portò in terra straniera e adoperatevi per fare loro conoscere quanto grande sia la misericordia di quel Dio, che ad essi vi manda per il bene delle anime loro, per aiutarli a conoscere e seguire quella strada, che sicura conduca all’eterna salvezza”. (12) Per l’emigrato il sentirsi fuori della patria d’origine è motivo di particolare disagio, più marcato negli adolescenti già in difficoltà nella costruzione della propria identità. I giovani, nella casa di Sampierdarena: erano 42 a Marassi nel 1871, 500 nel 1935, più di 800 attualmente nelle scuole e varie migliaia nell’Oratorio e nelle molteplici iniziative sportive dislocate in diverse filiali in città. 8. Quartiere generale L’opera di Sampierdarena è stata per Don Bosco come una stazione, un quartiere generale per i contatti con famiglie genovesi benemerite dell’Opera. Da Genova partì nel 1875 la prima spedizione missionaria e le altre successive. La Congregazione Salesiana diveniva mondiale. Da Sampierdarena Don Bosco, commosso, accompagnava i suoi al «Savoie», il piroscafo che salpava per le Americhe. E da allora lo slancio missionario si è allargato al mondo e ogni anno, nel mese di ottobre, il Successore di don Bosco consegna il crocifisso ai nuovi missionari. Sono religiosi salesiani, cooperatori, giovani e adulti che intendono offrire qualche anno o mese all’impegno missionario salesiano. Ora non partono più via mare, ma raggiungono i vari continenti in aereo. 9. Soste di don Bosco a Genova I soggiorni del Santo nella casa furono frequenti e prolungati. Vi si fermò anche per cinque o sei giorni di seguito. Qui passò ben 169 giorni della sua vita. Sarebbe interessante seguire i vari incontri di don Bosco con i Genovesi. In breve possiamo parlare di una fase precedente la fondazione dell’Ospizio di S. Vincenzo, prima a Marassi poi trasferito a Sampierdarena, e di una fase seguente. Nel 1857 don Bosco sente il bisogno di scendere a Genova. Cerca aiuto da parte di personalità ragguardevoli, ecclesiastici e nobili: ha bisogno di farsi conoscere e deve fare la propaganda per la diffusione delle Letture Cattoliche. Inizia a tessere la tela di relazioni, prodromi provvidenziali di avvenimenti di anni futuri.(13) Il vescovo di Genova è Charvaz, grande estimatore di don Bosco, promosso dalla diocesi di Pinerolo alla sede del capoluogo ligure nel 1852 per l’intervento dello stesso TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 119 Il Tempietto Cavour. Il nuovo vescovo, genovese, poteva essere ponte tra la nobiltà genovese, il clero genovese e il potentato economico, aristocratico, sociale e culturale. (14) In questa prima sosta è ospite del marchese Antonio Brignole Sale. Ospitalità che apre la porta a quanti lo vogliono conoscere. Incontrerà don Montebruno che in Genova aveva fondato l’Opera Artigianelli come don Bosco a Torino. Tra i due nasce stima, amicizia, volontà di aiutarsi. Addirittura don Montebruno vorrebbe fondere la propria opera con quella di don Bosco e, dopo una permanenza a Valdocco di quindici giorni, è propenso ad affidarsi a don Bosco. Conoscerà don Frassinetti, teologo moralista che gli sarà di grande aiuto per le Letture Cattoliche, di cui scriverà cinque libretti. Volle conoscere le Conferenze genovesi di San Vincenzo de’ Paoli, da cui verrà poi la proposta concreta di fondare un’opera a Genova. Nasceva forse l’idea di una sua opera a Genova? Nel 1864 nella passeggiata autunnale arriva anche Genova. Coi suoi giovami sarà ospite del Seminario maggiore, visterà con la guida di alcuni soci della San Vincenzo la città e, nella giornata conclusiva, sul trenino Genova – Pegli andrà ad incontrare nella sua splendida dimora l’amico marchese Ignazio Pallavicini. Tra le donne nobili genovesi che aiutano don Bosco c’è la figlia Nina del senatore Ignazio. Ella aveva scritto, nel 1860, a don Bosco per raccomandare ragazzi suoi protetti negli ospizi di Torino. Diverrà una cooperatrice, una benefattrice. Una 119 quindicina di anni dopo – come abbiamo accennato – l’Oratorio di Sampierdarena si allargherà nel terreno e nella villa Pallavicini confinante con l’Ospizio stesso. Il 1871 segna la nascita della prima opera salesiana a Genova. Sarà preceduta da visite per definire la fondazione di un ospizio per giovani in difficoltà. Due soci della confraternità di San Vincenzo, Varetti e Prefumo, si rivolgono al barone Castaldi che si rende disponibile ad affidare e affittare ai Salesiani una sua villa a 500 lire nella zona di Marassi. Don Bosco il 6 settembre è a Genova in visita la baronessa Cataldi, per ossequiarla e parlare della nuova fondazione. Il 26 settembre visita la villa a Marassi destinata all’Ospizio; cerca benefattori per avere aiuti per la nuova opera. Il 26 ottobre Don Albera con alcuni salesiani è inviato a dirigere la nuova opera… che manca di tutto. Il giorno dopo Don Albera va all’arcivecovado, ma Mons. Magnasco è a Roma pechè aveva avuto notizia della sua elezione ad arcivescovo di Genova. Va ricordato la parte che ebbe don Bosco nella mediazione tra governo italiano e curia romana per tale elezione. L’8 settembre infatti il ministro degli interni On. Lanza aveva invitato don Bosco, tramite il prefetto di Torino, “a recarsi al più presto a Firenze per conferire sopra affare a lui noto”. L’affare era la nomina dei vescovi alle sedi vacanti, affare che da mesi trattava per incarico di Pio IX. Il nome suggerito per la diocesi di Genova è Mons Magnasco e don Bosco può portare il placet al papa.(15) TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 120 120 Il Tempietto Il 2-3 dicembre visita i suoi figli nell’Ospizio di Marassi. Nel giugno del 1872, convinto che la sede di Marassi non sia adatta per un Ospizio, va a Samperdarean e visita la chiesa e il convento di San Gaetano. Dopo un estenuante lavoro per superare gli ostacoli sorti, in luglio conclude il contratto di compera dei suddetti immobili. Nella prima settimana di dicembre visita i suoi figli trasferiti a Sampierdarena, da Marassi. D’ora in poi i soggiorni di don Bosco in quella che lui ritiene la “sua seconda casa” si infittiscono. I biografi ne formulano un preciso calendario. Ogni anno, fino alla primavera del ‘87, è segnato dalla sua presenza: incontra i Salesiani, i giovani dell’opera, i benefattori, e sosta per udienze prolungate al fine di accontentare tutti. La sua cameretta è testimone delle meraviglie che la Divina Provvidenza opera per mezzo del Santo dei giovani. La cronaca della casa riporta il tutto e i suoi biografi lo comunicano al mondo. Sampierdarena spesso diviene per don Bosco la provvidenza che si fa visibile, in particolare, in Mons. Magnasco. Per lui va in porto la bella e fortunata impresa dei figli di Maria, col suo appoggio può stampare per un certo tempo il Bollettino Salesiano e le Letture Cattoliche. La città di Genova diviene un punto di riposo e rifugio nei momenti difficili, punto di passaggio tra Torino e Roma, porto per inviare i suoi Salesiani nel mondo. 10. “Il don Bosco” oggi Nell’Opera di Sampierdarena, seguendo l’evoluzione della scuola in Italia, si succedettero il ginnasio, l’avviamento e la scuola tecnica, la scuola media e le classi della qualifica professionale che preparava operai richiesti dal mondo del lavoro. Nel 1963 nacque l’Istituto Tecnico Industriale per meccanici, elettrotecnici, elettronici, informatici. Fino a non molti anni fa le grandi industrie genovesi si premuravano di chiedere al Don Bosco gli elenchi dei ragazzi ancor prima che finissero i loro studi, per assumerli subito nel mondo del lavoro. Oggi – in un momento di calo demografico e insufficiente attenzione al diritto alle scelte educative da parte dei genitori – sono diminuite le iscrizioni scolastiche. Però la scuola resta un punto educativo tipicamente salesiano. Per questo al Don Bosco, accanto all’Istituto Tecnico, nel 1991, nacque anche un Liceo Scientifico e per breve esperienza anche il Liceo sportivo. Infine sono sorte altre attività educative: il “nido”, una scuola materna e una scuola elementare, l’“Albero Generoso”. Sempre nell’alveo della Scuola non possiamo tacere, per il recente passato il Centro Linguistico, il Centro di Orientamento psico-diagnostico, dal primo decennio del 2000 il Centro di Formazione Professionale. Ma il Don Bosco è stato da sempre una “casa”. Un solo dato: nell’immediato dopoguerra, al Don Bosco sono stati ospitati – anche a mangiare e dormire – fino a 500 ragazzi! Anche nell’attuale stagione della “rivoluzione dei giovani” dell’Africa del Nord con TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 121 Il Tempietto la conseguente emigrazione di massa in Italia, alla richiesta delle autorità comunali di alloggio per una quindicina di ragazzi profughi, “il Don Bosco” ha dato la sua disponibilità. L’emergenza è stato poi risolta diversamente. Dove trovano i salesiani le risorse per questi servizi? Noi diciamo: la Provvidenza. Tutta Genova ha sempre visto con grande interesse e amore lo sforzo di quest’opera. E possiamo anche noi, Salesiani di oggi, testimoniare che questa Provvidenza continua. Il manto verde dei cortili, fino ai primi anni del 2000 polverosi, è l’icona di questa città dei ragazzi. Don Bosco per i suoi giovani voleva sempre le cose più belle! Si può dire che i Sampierdarenesi sono cresciuti nei cortili dell’Oratorio. Un giorno è stato chiesto a un “onorevole” del posto cosa sarebbe successo se noi salesiani avessimo – per ipotesi – chiuso il cancelletto dell’Oratorio. La sua risposta: “Sampierdarena perderebbe un polmone”. Oratorio non è però solo sinonimo di cortile: dal cortile prendono storia e vigore le tante iniziative, che poi rendono adulti i giovani. Di qui sono nate attività come il Club Amici del Cinema; il Centro Cultura il Tempietto con le sue attività teatrali, letterarie e sociali, musicali e mostre d’arte, i convegni giovanili e la Rivista “Il Tempietto”… Di qui sono nati: l’UNITRE, l’Università della Terza Età, che oggi conta 2.500 iscritti con più di cento corsi, il Paladonbosco e l’Unione Sportiva Don Bosco. Da ultimo “Il Sogno”, compagnia teatrale giovanile 121 oratoriana e lo “Sportello servizi integrati”. Davvero un’immagine fedele dell’Oratorio voluto da don Bosco. Oratorio che è luogo e uno stile educativo. Non per nulla, nel 1970, i Salesiani nelle loro Costituzioni hanno definito ogni loro opera sul modello del primo oratorio di don Bosco, “casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita, cortile per incontrarsi tra amici e vivere in allegria”. Possiamo infine solo immaginare l’altissimo numero di exallievi… E tanti sono coloro che oggi come ieri occupano posti significativi nella società, nelle Istituzioni e nella Chiesa. Sono onesti cittadini e buoni cristiani. In Genova trovi ex allievi ovunque! Quanti sono? Si può calcolare che in 140 anni siano usciti da quest’opera dai 30 ai 40 mila giovani. Forse sono molto di più se si calcolano anche chi ha frequentato solo la scuola Media. Senza contare chi ha sostato nell’Oratorio e/o in parrocchia. 11. La prima parrocchia salesiana in Liguria Ospizio, Oratorio, parrocchia: sono i tre pilastri della presenza dei Salesiani a Sampierdarena. Qui, oltre all’incontro con Dio, fioriscono il dialogo con chi è in ricerca, la solidarietà verso i più poveri, le proposte per una migliore qualità di vita, l’attenzione ai malati, ai soli. È visibile e insostituibile la dimensione del Volontariato. Dal 2005 il don Bosco di Sampierdarena veste i colori del mondo: ha aperto il cuore e le porte ai TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 122 122 Il Tempietto numerosi emigrati in cerca di spazi per giocare, di una chiesa per pregare e di aule per studiare. Ritorna anche per i Salesiani di oggi l’invito del Santo – ai missionari in partenza per L’America Latina- a impegnarsi per gli emigrati italiani. (15 bis) Attualmente ospitiamo l’Università ecuadoriana della Loja – Istruzione a distanza – e la Scuola Superiore Josè Maria Velaz per periti informatici. Gli studenti – giovani emigrati lavoratori – vengono a studiare il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Nella comunità parrocchiale sta consolidandosi una comunità latino-americana ben strutturata e ogni domenica si celebra una S. Messa in lingua spagnola. I nuovi arrivati, in gran parte latinoamericani, sono l’ultimo tocco di novità che corre col tempo. Il piccolo Oratorio di 140 anni fa è ora Oratorio del mondo, la parrocchia è anche è “parrocchia per i latinoamericani” di Sampierdarena. 12. Don Paolo Albera: il “piccolo don Bosco” di Genova La casa salesiana di Sampierdarena, tanto cara a don Bosco, è ritenuta ” la seconda Valdocco”. Ci si chiede il perché. Il desiderio o profezia di don Bosco sul luminoso futuro dell’Opera riguarda il fatto, non dice il perché. Credo che la spiegazione più convincente sia, oltre la predilezione di don Bosco per l’Opera (qui trova rifugio nei momenti di sofferenza, qui istituisce i Figli di Maria, da qui partono le varie “spedizioni” missionarie), sia la presenza di don Paolo Albera, il primo direttore dal 1871 al 1881. È stato il “don Bosco per Genova”. Egli, avendo assimilato profondamente lo spirito del fondatore, lo farà vivere intensamente a Genova. Ricorda lui stesso nel 1920: "Cinque anni ho vissuto con il buon Padre (1858-1863) respirando quasi la sua stessa anima, perché si può dirlo senza esagerazione, da noi giovani di allora si viveva interamente della vita di lui, che possedeva in grado eminente quasi un’atmosfera le virtù conquistatrici e trasformatrici dei cuori”.(…) Mi sentivo fatto prigioniero da una potenza affettiva che mi alimentava i pensieri, le parole, le azioni, ma non saprei descrivere meglio questo stato e felicità, dell’animo mio, che era pure quello dei miei compagni d’allora: sentivo di essere amato in un modo non mai provato prima”. (…) “L’amore di don Bosco ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza da cui erano bandite pene, tristezze, e malinconie” (16) “Quel mondo", “quello spirito di famiglia” don Albera lo impiantò a Sampiedarena. In lui e con la comunità salesiana inizia a realizzarsi la “profezia", per il numero degli allievi come per l’importanza dell’Opera. L’oggi affonda in quelle solidi radici. L’ospizio cresce come fedele copia dell’ ‘’Oratorio di Valdocco” e può essere ritenuta a ragione la “Seconda Valdocco”. Don Albera edificava tutti per la sua TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 123 Il Tempietto semplicità di modi e di santità di vita. A tutti era di esempio di dedizione totale di sè agli altri. A ragione un giorno il canonico Gaetano Alimonda, poi cardinale di Torino, al salesiano don Domenico Canepa – dopo aver predicato in San Gaetano una missione per le Società Operaie Cattoliche – alludendo alla figura straordinaria di don Albera, disse: “Voi salesiani siete fortunati di avere questa autentica perla di sacerdote”. (17) Don Albera, seguendo l’esempio e i consigli di don Bosco, ebbe grande fiducia nella Provvidenza; fu uno squisito ed intelligente educatore. Mise in atto per l’Opera di Sampierdarena le doti di organizzatore, costruttore e animatore spirituale e soprattutto la sua bontà. “I giovani ed i confratelli sentivano in lui il padre sensibilissimo alle loro svariate necessità, la pietà che trascina al bene, la mente colta, aperta che intuiva le loro disposizioni psicologiche e ad esse si conformava nel porgere ad ognuno il suo aiuto”.(18) Don Bosco gli aveva detto: “A Genova ci sarà la provvidenza ance per te”. Ed egli che mai dubitò dell’assicurazione del buon Padre, ne potè fare la più ampia esperienza. Tutte le porte dei grandi signori genovesi, come della gente del popolo, furono sempre aperte al giovane sacerdote, così modesto e così amabile. Se Don Bosco fondò l’Opera, don Albera, nel decennio seguente, la costruì. Scrive don Guido Favini: "Non fu infatti inviato a continuare imprese da altri poste in cammino, ma per immettere nelle opere salesiane un corpo 123 nuovo. Lo guida un’idea potente: rendere testimonianza all’altro, grazie al quale si è ciò che si è e si ha ciò che si ha. L’altro, ossia don Bosco, sta al sommo di ogni suo pensiero, di ogni parola, di ogni desiderio"(19) E aggiunge: “E non fa stupire che don Bosco gradisse lui Paolino, in ginocchio in atto di confessarsi, quando si riuscì a fare la prima fotografia del Santo. È incantevole, pur nella semplicità della lastra fotografica”. (20) 13. Altre presenze salesiane nella città di Genova. L’Istituto Don Bosco – Opera “Pretto” a Quarto dei Mille A Genova Quarto, l’Istituto Salesiano Don Bosco, Opera Pretto è nato dal cuore di Giuseppe Alberto Pretto, che l’ha voluto a ricordo dei figli Eugenio e Pierino. Un’altra bella risposta alla previsione con cui Don Bosco invia don Albera a Genova: “Non ci sarà la Provvidenza a Genova?”. E la Provvidenza è stata grande per il Ponente non meno che per il Levante della città. L’Istituto inizia la sua attività nel 1960 e attraverso varie vicende è diventato un centro prevalentemente professionale, particolarmente stimato dalle Istituzioni come dagli alunni e dalle famiglie. Nella casa di Don Bosco i giovani trovano il clima caratteristico di gioia e di lavoro proprio del Santo. Negli ultimi anni i Salesiani gestiscono la Parrocchia dei Santi Angeli Custodi, hanno aperto l’Oratorio – Centro Giovanile, curano l’ospitalità dei giovani universitari e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 124 124 Il Tempietto dei genitori dei bambini in cura presso l’Ospedale Gaslini. L’Associazionismo, le recite, la musica e lo sport integrano l’opera della scuola, notevole per l’efficienza sul piano culturale come su quello educativo. Le Figlie di Maria Ausiliatrice Fu don Pestarino, parroco di Mornese e salesiano esterno, a fornire a Don Bosco il primo nucleo delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA). Il fiore più bello di questo giardino fu Maria Mazzarello, che con Don Bosco fondò la nuova Congregazione. Quel primo nucleo si allargò e nel 1877 cinque suore partirono per l’America. La santa le presentò a Don Bosco perché le benedicesse. Don Bosco fece di più: le ascoltò ad una ad una dando loro preziosi consigli per il loro lavoro. Madre Mazzarello fu ancora a Genova alla fine del 1878 e accompagnò a bordo del “Savoie” altre suore e vi trovò Don Bosco con tre missionari.(21) Le suore avevano bisogno di una sede fissa. L’ebbero anch’esse a Sampierdarena l’8 dicembre del 1881, quando Don Bosco le invitò a prendersi cura dell’Ospizio di san Vincenzo de’ Paoli. Con l’Oratorio nacquero le altre opere: la scuola materna e la scuola elementare. Ne guadagnò la Parrocchia San Gaetano: i catechismi per i bambini e le varie associazioni. La presenza delle FMA punteggiò la città e l’immediato entroterra. La prima grande opera delle FMA in Genova è quella di Corso Sardegna, nel quartiere di Marassi: l’Oratorio e il complesso di scuole che comprende, oltre la materna, le elementari, la scuola media, il Liceo della Comunicazione e il CIOFS, Centro di Formazione Professionale. Nel 1912 la Signora Angela Picone offriva in uso alle FMA una sua palazzina in Corso Magenta. Vi apersero un Pensionato-convitto per signorine. Rivelatasi col tempo insufficiente, nel 1922, si trasferirono in Corso Mentana. Aggiunsero una scuola di lavoro e l’Oratorio festivo. Nel 1927 l’opera si trasferì definitivamente in Corso Sardegna nell’antica villa Ruzza ridotta dall’ing. Giuseppe Massardo a locale scolastico di comoda semplicità. Nel 1933 si aprì una scuola magistrale. Se torniamo al 1871, sappiamo che don Bosco visitò questa zona della città e iniziò il suo ospizio a villa Oneto. Oggi in questa località -Marassi – le FMA, con l’imponente complesso di attività nel campo dell’istruzione come in quello della formazione professionale, fanno tanto bene nel nome del Santo. Ma l’opera più bella a favore dei figli e delle figlie del popolo è l’oratorio fotografia di quello di Valdocco nello spirito di Mornese. Le FMA a Genova, nel primo Novecento, operarono anche in altre zone della città e nell’entroterra genovese. Seguendo le indicazioni di Sciaccaluga le ricordiamo in ordine di tempo. L’avv. Conte Luigi Aquarone in una sua villa di Bolzaneto concretizza il progetto di fondare le Colonie Alpine Genovesi. Un’umile suora F. M. A., provvisoriamente in famiglia per assistere il padre infermo, non TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 125 Il Tempietto tralascia la sua missione di catechista. Raduna all’ospedale i bambini della parrocchia: parla loro del Signore, li assiste nei giochi e li intrattiene benevolmente. Il conte la osserva. Ne rimane sorpreso. Ha trovato le suore che rispondono alle sue aspettative di assistere maternamente le bambine nelle colonie alpine. Viene in contatto con le FMA e nel 1903 si apre a Rigoso la prima colonia. Negli anni seguenti altre sorgeranno ai Giovi, a Masone, Prele con sezioni maschile e femminili. Per più anni le suore esplicano la loro missione. Soddisfatto il conte spera di avere le stesse suore per la fondazione dell’Albergo del Fanciullo. La prima sede sorge a San Fruttuoso in un palazzo del Senatore Erasmo Piaggio, nel 1911 per il crescente numero dei piccoli ospiti si trasferirà in Oregina e l’ex Conservatorio della Provvidenza, riadattato e ampliato, diviene la sede definitiva. L’educazione nello stile di don Bosco è affidata alle suore. Vengono accolti orfani ed abbandonati. Ne beneficeranno anche gli orfani di guerra. Vi è annessa una scuola materna e un dopo scuola. Generazioni di fanciulli si susseguono in questa casa ospitale, che, sorretta dalla carità genovese e dalla dedizione delle FMA, darà alla società ed alla chiesa cittadini onesti e cattolici sinceri. Nel 29 novembre del 1919 fu aperto un orfanotrofio femminile a Pegli. Le FMA trovarono aiuto nella nobile famiglia Reggio che cedette loro la villa Rosata. A rinfrancare le suore in un’opera che pareva azzardata, perché 125 prive di fondi, concorse la benevolenza di Benedetto XV pegliese, la Regina Margherita e molte altre persone. Dal novembre 1917 alla fine di agosto del 1919 le FMA operarono per l’assistenza alle profughe del Veneto, dopo la disfatta di Caporetto, in un appartamento di Vico Notturno n. 326, nei pressi della Chiesa del Carmine. La proposta del luogo e la finalità dell’opera era stata proposta dalla marchesa Viola Cattaneo Adorno, presidente dell’associazione “Protezione della giovane”. Sistemate le profughe, le suore iniziarono l’oratorio, coinvolgendo le stesse profughe. “La bontà accogliente delle suore – conclude Sciaccaluga – fu la potente attrattiva a quell’umile casa, dove la serena gaiezza trovava modo di effondersi ed elevarsi, educandosi alla virtù”. (22) La casa Orfani Gente di Mare a Voltri sorse nel 1920. La sede per gli orfanelli di bordo fu una villa dei fratelli Piccardo, ampliata dalla generosa beneficenza. Di queste presenze resta l’Opera grandiosa di Corso Sardegna. Delle opere che hanno punteggiato la città rimane la memoria storica. Vivono ed operano tuttora nell’entroterra genovese le opere di Masone e di Monleone…nello spirito di don Bosco e di Santa Mazzarello. Conclusione A prova del clima salesiano che si respira nelle case delle FMA raccolgo TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 126 126 Il Tempietto la testimonianza di Mario Magogno, gà ospite dell’Albergo del Fanciullo. Ce la racconta Sonia Baronti(23). “Ho trovato interessante la vicenda di un piccolo ospite dell’Albergo che, nonostante la sua infanzia difficile è riuscito a riscattare la propria vita, diventando tra l’altro un famoso marionettista, fondatore della “Compagnia Teatrale La Giostra” e del “Teatro Dialettale Genovese dei Burattini”. Mario Magonio (1900-2009) ci lascia una preziosa testimonianza della sua vita nel libro di Ulderico Munzi Il romanzo del Rex in cui racconta le sue esperienze di orfano di guerra, accolto in quattro diversi istituti per l’infanzia abbandonata, e poi quelle di operaio durante la costruzione e il varo del grande transatlantico nei Cantieri Ansaldo di Sestri Ponente: «Sono venuto al mondo il 16 Dicembre 1909. Mio padre Giovanni Magonio, è morto mentre andava all’attacco con il moschetto 91 e la baionetta in canna assieme a tanta povera gente in grigioverde. È stato fulminato a Pangrande sul Piave[…]. Ci ha lasciati soli, mia mamma Gemma, mia sorella Italia e io. Ha avuto una vita movimentata, la mia mamma, e non mi è stata mai accanto. È stata la nonna, la madre della mia mamma, che era slava, ad allevarmi. E poi, orfano di guerra, sono passato da un istituto all’altro. Vivevamo nel centro di Genova, a Vico Untoria, e io ogni sera morivo di paura. […]. Ho avuto ancora più paura quando sono arrivate le guardie regie. Sono scappato saltando dalla finestra, mi sono fatto male, ma sono riuscito a dileguarmi, con il cuore che batteva come un martello, nel buio di Genova. Non ho più visto la mia nonna. Sono finito in un istituto per bambini abbandonati di Sant’Olcese. Le suore erano perfide come streghe: mi chiudevano nella carbonaia per terrorizzarmi. L’incubo di Sant’Olcese si è concluso quando avevo sette anni e sono andato a scuola all’Albergo dei Fanciulli Umberto I. Stavolta ho trovato delle suore buone,le suore salesiane di Don Bosco, anche se i primi tempi avevo paura di guardarle in faccia temendo che potessero trasformarsi nelle streghe di Sant’Olcese. All’Albergo dei Fanciulli ho imparato ad amare la Madonna, ho trovato in lei una madre, anche se mi chiedevo sempre dove fosse la mia vera mamma, la mamma di carne, l’essere che mi aveva dato la vita. Un orfano non conosce frontiere di affetto: è sempre alla ricerca di un sorriso, di una carezza, di un gesto di benevolenza, di labbra che sfiorino la sua fronte. […]. Ero un ragazzino che aveva sempre vissuto in collegio, che aveva appreso il mestiere di operaio specializzato all’ Istituto Artigianelli di Don Montebruno».(24) TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 127 Il Tempietto Il riconoscente ricordo per le FMA che lo curarono come un figlio compare anche nella sua autobiografia: «Di quell’Istituto conservo un buon ricordo e anche ricordo la suora che fu la mia prima maestra. Pensare che, quando la Direttrice me la presentò ed io vidi che era una suora, abbassai il capo e non ebbi più il coraggio di alzarlo per la paura e per i brutti ricordi che le suore conosciute in precedenza mi avevano lasciato. Ma questa suora invece mi parlò molto dolcemente, passandomi una mano lieve sulla spalla e accarezzandomi i capelli. “Caro bambino – mi disse – questa è la tua nuova casa ed io sarò la tua nuova mamma”. Alzai finalmente lo sguardo su di lei e vidi una donnina minuscola con due grandi occhi azzurri che la facevano assomigliare ad una bambola vestita da suora. La suorina continuava a sorridermi ed io, che non avrei mai creduto che una suora potesse essere così dolce, ero strabiliato e felice perché non mi era mai capitato di sentire tanto affetto in una persona».(25) 127 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 128 128 Il Tempietto Note 1) Anonimo salesiano anziano di Sampiedarena 2) Stefano Sciaccaluga, Don Bosco a Genova, Salesiana Editrice Ge-Sampiedarena, 1946, presentazione del cardinale Siri pag. VI 3) Da ricordare che dei tre vescovi genovesi, Alimonda e Magnasco ebbero la sede tramite la mediazione tra Stato e Chiesa di don Bosco. Anche l’arcivescovo e Lorenzo Gastaldi ottenne la sede di Torino attraverso la mediazione di don Bosco. 4) Stefano Sciaccaluga, op. cit. pag. 46- 103 5) Ceria, Memorie biografiche di Don Bosco, vol XI, pag. 326-327 6) Lemoyne, Memorie biografiche di Don Bosco, vol X, pag. 145 7) Stefano Sciaccluga, op. cit, pag.166-170 8) Ceria, op. cit. vol.XVII, pag. 9) Piero Bargellini,Il Santo del lavoro, LDCTorino, pag. 8-9 (10)Deliberazione del III e IV capitolo generale dela Pia Società Salesiana, San Benigno Canadese 1887,III, pag. 18 11) Ceria, Memorie Biografiche di don Bosco, op. cit. XII, pag.411-413 11 bis) Ceria, Memorie Biografiche, op. cit.XII, pag. 73; XIII, pag. 41 12) Ceria, Annali IV p. 36 ss Prima spedizione missionaria in America Latina 1875 13) Lemoyne, Memorie Biografiche, op, cit. pag. 604-605 14) Antonio Miscio, La seconda Valdocco, 2002, vol I. pag. 15 15) Lemoyne – Amadei, op.cit. X, pag. 444 15 bis) “Vi raccomando poi con insistenza particolare (disse volgendosi ai Missionari) la dolorosa posizione di molte famiglie italiane, che numerose vivono disperse in quelle città e in quei paesi e in mezzo alle stesse campagne. I genitori, la loro figliuolanza poco istruita della lingua e dei costumi dei luoghi, lontani dalle scuole e dalle chiese, o non vanno alle pratiche religiose o, se ci vanno, niente capiscono. Perciò mi scrivono che voi troverete un numero grandissimo di fanciulli ed anche di adulti che vivono nella più deplorabile ignoranza del leggere, dello scrivere, e di ogni principio religioso. Andate, cercate questi nostri fratelli, cui la miseria o la sventura portò in terra straniera, e adoperatevi per far loro conoscere quanto sia grande la misericordia di quel Dio, che ad essi vi manda pel bene delle loro anime, per aiutarli a conoscere e seguire quella strada, che sicura li conduca alla eterna loro salvezza”. MB vol cap- 16 pag. 16) Lettere circolari di Don Albera (18-X1920, pag. 331 17) Citato in “Don Bosco e Genova”, numero unico a cura degli exallievi nel centenario dell’arrivo dei Salesiani a Genova (18711971), Scuola Grafica don Bosco – Sampierdarena, pag. 77 18) Stefano Sciaccaluga, op.cit. pag.190 19) Guido Favini, Don Paolo Albera, Le petit don Bosco, SEI, 1975, presentazione di Mons Raffaele Forni, pag. 8 20) Guido Favini, op. cit. pag.17. 21) Stefano Sciaccaluga, op. cit. pag.242-254 22) Ivi pag. 254 23) Sonia Baronti, La presenza delle Figlie di Maria Asiliatrice a Genova, in Le Figlie di Maria Ausiliatrice, donne nell’educazione,a cira di Grazia Lo parco e Maria Teresa Spiga, Las Roma pag.543-544 24) Munzi Ulderico, Il romanzo del Rex, un leggendario transatlantico, l’Italia fascista, l'alta società internazionale, le storie del mare, Sperling e Kupfer 3003,130. 25) Magonio, Anche i Burattini 3-4 TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 129 Appendice Relazione di Francesco Motto, direttore dell’Istituto Storico Salesiano di Roma Relazione di Giovanni Maria Flick, già presidente della Corte Costituzionale ex-allievo di Sampierdarena TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 130 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 131 Il Tempietto 131 Artefici dell’unità nonostante tutto Don Bosco, la Famiglia salesiana e i “padri” (o patrigni) della patria: due facce diverse del Risorgimento e dell’unità d’Italia.* Francesco Motto - Direttore dell’Istituto Storico Salesiano di Roma Premessa Una delle debolezze dell’identità italiana sta nel fatto che la sua elaborazione si è fondata su una memoria pubblica ritagliata a seconda delle finalità politiche e ideologiche o dei poteri forti. Un solo esempio recentissimo: l’assenza dell’editoria cattolica nella mostra “L’Italia dei libri” di Torino 150°, e questo nella città di uno dei primi autori di bestseller come don Bosco (Letture cattoliche e l’almanacco popolare Il Galantuoomo) e nella città dell’editoria imprenditoriale salesiana che per 150 anni ha disseminato per tutto il Paese centinaia di migliaia di volumi proprio là dove si cercava di “fare gli Italiani”, ossia la scuola, gli oratori, le associazioni giovanili, le parrocchie, i centri assistenziali, ricreativi, culturali, il volontariato… Ma nella ricorrenza del 150° dell’unità d’Italia non si tratta tanto di promuovere una memoria di parte nei confronti di una memoria pubblica che si ritiene piena di forzature e omissioni, ma di ricomporre le tessere di un mosaico di diverse memorie che hanno contribuito alla formazione dell’identità nazionale e alla crescita del Paese. Fra di esse occupano un loro dignitoso posto, anche se scarsamente riconosciuto i religiosi e le religiose, ossia quegli uomini e donne di fede, come recita il titolo generale delle manifestazioni culturali promosse dall’“Associazione Vita Consacrata” del Piemonte che si avviano a conclusione in questi mesi. Prima di presentare il tema centrale del mio intervento – il contributo dato dai SDB di don bosco all’unità e italianità del “bel paese” – lasciatemi esprimere tre sole idee sul titolo un po’ polemico del titolo. 1. Anzitutto che in generale la storia la scrivono i vincitori, che, come è logico, tendono ad enfatizzare il ruolo avuto in certi momenti significativi da quei personaggi quali si sentono più affini. Pensiamo solo come il mito risorgimentale poggia su molteplici travisamenti storici, ideali religiosi. Pensiamo solo a quella di alcune grandi correnti storiografiche che hanno avallato e spesso costruito la ormai traballante vulgata risorgimentale, nell’esaltazione di alcune problematiche e occultando tutto quanto non corrispondeva o si opponeva alla grandezza del mito. Pensiamo solo ai giudizi terribilmente negativi dati su Pio IX da molti studiosi laici che hanno dedicato la loro attenzione al Risorgimento italiano, e proprio mentre dilagava tutta una letteratura che esaltava oltre ogni dire il ruolo avuto dai vari Cavour, Mazzini, Garibaldi, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 132 132 Il Tempietto Vittorio Emanuele II, pomposamente definiti i 4 “padri della patria”. Eterogenesi dei fini: per oltre un secolo si sono beatificati i padri della patria contro Pio IX… oggi che almeno in molti scaffali di librerie ed in molte teste pensanti essi hanno perso l’aureola, ad essere beato è invece Pio IX. A questo riguardo va anzitutto detto che se l’Unificazione italiana (non tanto l’Unità direbbe qualcuno) è stata indubbiamente per buona parte opera loro, nessuno di loro voleva una Italia unita così come si è effettivamente costituita. Per dirla brutalmente con Bruno Vespa, l’Unità d’Italia è nata per caso. Tanto più che il modello “accentrato di unità”, caro a Mazzini e Garibaldi, con tutti gli errori colossali da loro fatti ed i mali che ne sono derivati e ne derivano tuttora, ha prevalso su quello “regionalista”, caro a cattolici quali ad es. Vincenzo Gioberti e Massimo d’Azeglio, modello questo fra l’altro più aderente alla realtà socioculturale del Paese. 2. A fronte di una storiografia ufficiale dei manuale di storia che ha trasformato in grandissimi eroi tali “padri della patria”, da venerare nelle mille piazze d’Italia, si è recentemente contrapposta una lettura del tutto diversa e spesso ugualmente esasperata nell’evidenziare gli aspetti meno brillanti, anzi oscuri del movimento unitario. Il nostro Risorgimento viene così ri-letto nell’unica ottica di una “guerra di religione dimenticata”; i protagonisti di quegli eventi definiti, senza mezzi termini, “liberali e massoni”, “ladri e disonesti”, doppiogiochisti e anticlericali, vengono presentati come nemici giurati della Chiesa cattolica. Tale pubblicistica di stampo polemico ascrive la costruzione dell’unità alle manovre appunto di una minoranza massonica e laicista, collegata agli interessi statuali della monarchia sabauda, che avrebbe consapevolmente condotta una lotta anticattolica per sradicare l’unica vera base della identità italiana, ossia la fede religiosa. Siamo così di fronte al totale rovesciamento dei giudizi. A visioni idilliache del Risorgimento si contrappongono visioni drammatiche; a letture apologetiche laiche si oppongono visioni apologetiche confessionali, preoccupati entrambi i fronti di mettere in buona luce la propria parte e in cattiva luce l’altera pars, anziché di ricostruire storia. Tale storia polemica di parte cattolica, pur ben documentata, racconta solo una metà dei fatti. La metà trascurata degli eventi è invece l’analisi dell’approccio ecclesiastico e pontificio alla questione dell’unificazione e più ampiamente la sua reazione all’affermazione del liberalismo e della modernità politica, all’ipotesi di costruzione di istituzioni laiche, che uscissero dalla stagione della coincidenza tra chiesa e società e che andassero oltre la centralità giuridicamente stabilita dalla religione nel vivere civile. Fra un modello di rapporti tra chiesa e stato ispirato alla logica unificante della cristianità storica e l’evoluzione in senso laico e liberale delle istituzioni civili jon vi era molta possibilità di dialogo, si viaggiava in rotta di collisione. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 133 Il Tempietto Onestamente ancora va detto che l’immagine dello scontro frontale fra due blocchi monolitici, ossia i cattolici intransigenti da una parte e il risorgimento anticlericale e anticattolico dall’altra, appare largamente fuorviante. Patrioti e cattolici non erano due mondi chiusi in loro stessi, ma realtà pluralistiche e sfrangiate, sovrapposte e spesso presenti nelle stesse persone e coscienze. Dunque titoli come “Una guerra di religione dimenticata” di una studiosa cattolica (come Angela Pellicciari) e come “Risorgimento scomunicato” sul fronte opposto di un giornalista laico (come Vittorio Gorresio) lasciano perplessi, pur portando gli autori serie impressionate e indiscutibile di documenti a favore della loro tesi. 3. Rimangono alla fine tre acquisizioni indiscutibili. Anzitutto che l’Italia unita è sorta oggettivamente per iniziativa di una ristretta aristocrazia illuminata, con l’appoggio “mediatico” di ceti intellettuali potenti e prepotenti e di quello economico del mondo settario e massonico nonché di paesi stranieri, senza avere, soprattutto inizialmente, radici popolari solide e profonde: con l’evidente conseguenza che la mancata partecipazione popolare alla rivoluzione italiana rimane il problema per eccellenza della storia unitaria. In secondo luogo che l’unificazione territoriale si è effettuata contro il diritto positivo degli altri stati preunitari, conquistati con violenza ed inganni da parte di un governo e di un re privo di scrupoli – cattolico ma 133 indifferente alla scomunica papale-; il che ha contribuendo notevolmente alla celebra spaccatura fra paese reale e paese legale, fra nord e sud del Paese, tuttora vigente. In terzo luogo che il Risorgimento è nato fuori, anzi contro la Chiesa e che nonostante la presenza, all’interno della cultura cattolica dell’Ottocento, di eminenti personalità (a partire da Manzoni, Gioberti, Rosmini..) che si ispirano dichiaratamente al cattolicesimo, nella stagione risorgimentale il ruolo dei cattolici sia stata sostanzialmente marginale. E non poteva forse esserlo diversamente, per la dura opposizione che, dopo la “svolta di Pio IX, il pontificato condusse al processo unitario sia per la linea anticlericale che si stava infondendo e sempre più radicalizzando (dalle leggi eversive di Rattazzi già nel Piemonte preunitario alle vere e proprie spogliazioni operate fino al tempo di Crispi) sia per la violenta soppressione della Stato della chiesa fino all’esito finale della breccia di Porta Pia. Chissà se la vera unità non si sarebbe potuta raggiungere in altra maniera, per altre vie, senza la guerra alla chiesa e al clero, senza le stragi degli Italiani nel Mezzogiorno, senza la corruzione dilagante e gli scandali anche bancari a go go, senza provocare milioni di emigranti. La storia però non si fa con i se, dunque con il né eletti ne elettori del 1861 e con il non expedit del 1868 iniziava la lunga stagione della presa di distanza dei cattolici dalla vita politica, ma non dalla esperienza amministrativa e ancor meno dalle dinamiche sociali. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 134 134 Il Tempietto Fatta l’Italia in quel modo che sappiamo, si trattava di costruire gli Italiani. Non l’hanno fatta i padri della patria, bensì altri e fra loro anche gli uomini e le donne di fede già prima del 1861, che soprattutto dopo, lungo i 150 anni di unità nazionale 1. Don Bosco promotore di unità e italianità prima della nascita dell’Italia unita nel 1861 Può essere allora interessante vedere come don Bosco già nel quindicennio precedente l’Italia unita abbia dato un suo apporto ad essa e all’Italianità. Nel 1845 pubblica un volume di 400 paginette: la Storia ecclesiastica ad uso delle scuole, utile ad ogni ceto di persone. Gli ecclesiastici, gli studiosi, le persone colte, gli allievi delle (poche) scuole superiori avevano già a loro disposizione grossi volumi; non così i ragazzi delle scuole inferiori, dei collegi, dei piccoli seminari; non così i giovanotti semianalfabeti che frequentavano le scuole festive e serali; non così la gran massa della popolazione semianalfabeta dell’epoca. L’obiettivo che si propone è educativo, apologetico, catechistico. Il volume ebbe 25 edizioni-ristampe fino al 1913. Non passano due anni che don Bosco dà alle stampa una storia analoga, ossia La storia sacra per uso delle scuole, utile ad ogni stato di persone, arricchita di analoghe incisioni. Come sempre, onde «giovare alla gioventù» l’autore si prone la «facilità della dicitura e popolarità dello stile». Un maestro apprezza tanto l’opera al punto da adottarla e da consigliarla ai suoi colleghi: «I miei scolari vanno a ruba per averla nelle mani, e la leggono con ansietà e non rifiniscono di presentarla agli altri e di parlarne, chiaro segno che la capiscono». La «fortuna» dell’opera è notevole se alla morte di don Bosco (1888) le edizioni-ristampe sono arrivate a 19, e tante altre sarebbero state immesse sul mercato editoriale e scolastico fino al 1964. Alla trilogia mancava ancora una storia, quella d’Italia, che per altro è richiesta dall’aria che si respirava. Ed ecco don Bosco darla alle stampe nel 1855: La storia d’Italia raccontata alla gioventù da’ suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, corredata da una carta geografica d’Italia. Sono sempre pagine di uno scrittore che si adegua all’intelligenza dei suoi lettori, di un educatore di giovani “poveri ed abbandonati “che non fanno storia, ma la subiscono dalla prepotenza dei grandi. Se ne hanno ben 31 edizioni fino al 1907. Alla triplice storia si può accostare il fascicolo Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità, preceduto dalle quattro prime operazioni dell’aritmetica, ad uso degli artigiani e della gente di campagna, rieditato nel dicembre 1849 alla vigilia del definitivo mutamento dei sistemi di misura in Piemonte (1 gennaio 1850). Se l’’intento è quello di insegnare a vivere meglio nel proprio paese, ma sempre in prospettiva educativa,ciò che più interessa è il fatto che esso è pure rappresentato come commedia brillante in tre atti. Dunque ancor prima del 1861 don Bosco investe sulla massa dei giovani, perché il domani della società italiana sta nelle loro mani; per la loro TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 135 Il Tempietto formazione investe sulla storia d’Italia, perché la casa comune italiana ha radici ben più antichi della Stato Unitario; investe sulla fede cattolica perché è convinto che essa sia l’anima profonda del Paese; investe sull’italiano semplice, popolare, perché non c’è cultura nazionale senza lingua che tutti possano capire; investe sull’arte, anche se poverissima di mezzi, messa a servizio dell’educazione e del gusto estetico dei giovani di cui nessuno o quasi si interessa. 2. Il contributo dato all’unità del Paese dalle comunità educative dei salesiani di don Bosco Scriveva Ernesto Galli della Loggia nel 2010: “L’Italia è l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero sono avvenuti in aperto, feroce contrasto, con la propria chiesa Nazionale […] L’incompatibilità fra patria e religione, fra stato e cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità nazionale”. Paolo VI papa invece una quarantina di anni prima, scriveva: “Fra le cose grandi, fra le cose geniali, fra le cose stupende nella vita di don Bosco, troviamo anche questo: ha sputo concordare, in anticipo, l’italianità con la cattolicità, ha avuto l’antiveggenza 135 di mettere in atto la pace che deve esistere fra l’anima di un cattolico e l’anima di un cittadino”. Ecco se questo è vero per don Bosco e lo diamo per scontato per il pubblico qui in sala, possiamo vederlo messo in Atto dai suoi salesiani con la sintesi che tracciamo del contributo da loro dato all’unità ed italianità del Paese in cui si sono trovati ad agire dopo il 1861, del loro sforzo di superare in qualche modo quella che è stata definita la “tendenziale cesura fra identità nazionale ed identità italiana”. Comunità educative sparse su tutto il territorio nazionale L’italianità della società salesiana può essere colta anzitutto nella sua espansione su tutto il territorio nazionale. In 150 anni sono state fondate quasi 400 case di SDB, cui sono da aggiungere oltre mille case delle FMA. Ovviamente le richieste di fondazioni salesiane, avanzate da autorità religiose e civili, da istituzioni o singoli cittadini, sono state varie migliaia. Salvo rarissimi casi di ostilità ideologico-politica, la presenza salesiana, fu sempre bene accettata e apprezzata. Tutte le 20 regioni italiane risultano destinatarie di case salesiane, anche se in misura molto diversa. Se però è evidente che il loro nucleo più consistente di case si trovi in Piemonte (74), desta forse sorpresa il fatto che le due posizioni immediatamente successive si trovino in regioni molto distanti dal Piemonte e fra loro, ossia la Sicilia (49) e il Lazio (34). TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 136 136 Il Tempietto Considerando le attuali 110 province (alcune ridottissime di popolazione), solo 11 non hanno mai ospitato una casa salesiana. Al primo posto per numero di case figura Torino (34), seguita da Roma (27) e, più distanziata, da Catania (14). Comune cittadinanza di giovani favorita da convivenze interregionali Quale apporto all’identità e unità nazionale va anche considerata l’amalgama e la convivenza nelle stesse case salesiane di giovani di diversa provenienza. Infatti lungo l’intera penisola la gran parte delle case (specialmente collegi-convitti e pensionati) non hanno mai accolto solo giovani provenienti dal solo bacino geografico attiguo ad esse. Al loro interno hanno fatto vita comune con educatori anche non di origine locale, spesso 24 ore al giorno, giovani di diverse province e regioni d’Italia, e talora anche di origine estera. Ovviamente è impossibile conoscere il numero dei ragazzi che i Salesiani in Italia hanno direttamente educato nelle loro opere e hanno raggiunto con la loro azione. Se alla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, essi potevano essere circa 2.500, alla morte di don Bosco nel 1888 superavano già gli 8.500. Alla vigilia della grande guerra si aggiravano sui 33.600, mentre alla vigilia invece della seconda guerra mondiale sfioravano i 50.000. Nel 1970 gli studenti si aggiravano sui 27.000, numero che si è mantenuto quasi costante fino ad oggi, mentre gli oratoriani sono costantemente aumentati, passando dai quasi 50.000 mila nel 1970 ai 60.000 nel 2010. In continua crescita sono stati anche gli allievi delle scuole professionali, raggiungendo il numero di 20.000 nel 2010, sia pure con diverse fisionomie di accoglienza. Anche i parrocchiani si sono triplicati fra il 1888 ed il 1915 (15.000-60.000), nuovamente triplicati nel 1940 (310.000); 960.000 nel 1970 superano attualmente il milione. Comunità di educatori provenienti da ogni angolo d’Italia I giovani italiani che dopo vari anni di studi preparatori e un anno di formazione in noviziato si sono fatti salesiani stati in 150 anni 17 mila, oltre un quarto del numero totale. Ne risulta immediatamente la forte italianità della Società salesiana nei confronti dei tanti altri Paesi esteri che pure hanno dato ad essa molto personale. Ma anche al suo interno ha goduto di una forte impronta nazionale, dal momento che ogni regione d’Italia ha dato i natali o a migliaia di Salesiani (come il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Sicilia), o a centinaia come tutte le altre regioni, tranne la Valle d’Aosta e l’Umbria fermatisi alla soglia del centinaio. Salesiani dunque di tutta Italia che hanno vissuto per anni sotto lo stesso tetto, sia nelle case di formazione che in quelle di educazione, occupando indistintamente ruoli di autorità o di subalterni. Non è un caso che a quattro Rettori maggiori piemontesi ne siano succeduti di seguito uno veneto, uno siciliano ed uno lombardo. Neppure è da sottovalutare il fatto che la comunità salesiana era composta da ecclesiastici (chierici e sacerdoti) e da laici, i cosiddetti “coadiutori”. Questi TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 137 Il Tempietto ultimi hanno sempre costituito una minoranza, per quanto significativa (fra il 17 e il 25%), ma la loro presenza ha rappresentato una esigenza indispensabile per l’impegno in alcuni settori dell’Opera salesiana, come la Formazione Professionale, attività “tipica” ed originale di tale componente laicale salesiana. 3. Il contributo dato all’italianità del Paese con le varie forme di attività e servizi L’identità italiana, l’unità nazionale invero esisteva da secoli, prima ancora che assumesse il carattere politico del Regno d’Italia nel 1861. Essa aveva da molto tempo un carattere linguistico, religioso, letterario, artistico, paesaggistico che ne faceva un “carattere nazionale”, per cui il Risorgimento non ha creato una “nazione italiana”, che appunto esisteva già, ma solo uno “Stato italiano unitario”. Secondo questa prospettiva è allora estremamente interessante notare come l’Opera salesiana abbia sempre operato sul fronte di alcune di tali espressioni proprie dell’Italianità, quali, ad esempio, la lingua, la storia, la cultura, le arti, l’accoglienza, la fede cattolica. Tali caratteristiche ridefiniscono esattamente le dimensioni del progetto educativo di qualunque casa salesiana: un luogo dove con lo studio, l’apprendimento di un lavoro, il gioco, l’amicizia ci si prepara alla vita, uno spazio dove sono coltivati gli “interessi” giovanili concreti (sport, teatro, cinema, canto, musica, socialità…), un’accoglienza incondizionata dei giovani dove poter toccare con mano di 137 essere “amati” per quello che si è e come si è, un’esperienza di un modo di essere uomini e cristiani seri, spesso alternativo a quello dominante, nella logica del Vangelo (onestà, solidarietà, libertà e responsabilità, senso del mistero…). Ora l’area che qualifica i Salesiani tanto nella Società civile che ecclesiale è quella tipicamente giovanile ed educativa. Ed è in essa che si sono collocate la maggior parte delle presenze salesiane in Italia (e nel mondo) sia in termini quantitativi (numero delle opere), che in termini di modalità di servizio ai giovani. a.Anzitutto vanno considerati gli Oratori quotidiani, serali festivi – vale a dire quegli ambienti aperti a tutti i ragazzi e giovani, che favoriscono l’incontro di giovani fra loro e con gli educatori, a tempo pieno o parziale. La grande plasticità dell’oratorio – diventato poi Oratorio-Centro giovanile – ha portato lungo i decenni ad una grande versatilità e a una grande diversità di modi di organizzarlo. Sarà però sempre caratterizzato da esistenza di gruppi di numerosi giovani, per lo più bisognosi, da diverso grado di maturità umano-cristiana e di impegno dei singoli e dei gruppi e da gradualità del loro inserimento nelle attività e vita dell’oratorio, da un insieme variegato di attività sviluppatesi, tra l’altro, in un impiego formativo del tempo libero. L’associazionismo giovanile salesiano ha fatto la parte del leone. L’oratorio si estende poi in un certo modo TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 138 138 Il Tempietto anche alle famiglie, si dirige anche ad altri giovani che si trovavano fuori delle sue mura. b. In secondo luogo i Salesiani hanno mirato ad una valida formazione culturale e professionale dei giovani italiani, creando ambienti di serio impegno: sono sorte così le centinaia di scuole, di ogni ordine e grado (dalle elementari agli istituti universitari), in scala crescente per rispondere alla crescita del livello culturale richiesto alle nuove generazioni, alle nuove culture emergenti, alle richieste della globalizzazione… Fra i diversi tipi di scuola, la preferenza è sempre stata data a quelle più adatte alla necessità dei giovani più indigenti, vale a dire alle scuole di “arte e mestieri”, alle scuole professionali o tecnico-professionali, in grado di immettere rapidamente nel mondo del lavoro e dell’autosufficienza economica. La scuola salesiana è però da intendersi in vario modo: come formazione umana e cristiana per aiutare gli allievi ad inserirsi un domani come cittadini attivi e coscienti nella società e nella Chiesa; come trasmissione ai giovani allievi di un forte senso del dovere e della disciplina; come insegnamento della lingua italiana (a chi parlava solo il dialetto) e della cultura nazionale che, a loro volta, trasmettendo il passato, potevano trasmettere una identità nazionale; come socializzazione di valori tradizionali, ma anche incentivazione di esperienze artistiche proprie del Paese (musica, canto, teatro…). Ecco perché i Salesiani hanno sempre preferito scuole a tempo pieno, che come tali permettono la promozione di molte attività parascolastiche ed extrascolastiche atte a completare la formazione dei giovani. Le pareti della scuola si devono dilatare, quasi dissolvere, e la “scuola”, quella vera e formativa, deve continuare fuori dell’aula, in un sereno clima di famiglia e di allegria, nel quale né vengono annullati i ruoli diversi né viene compromessa una “ragionevole” disciplina Sempre in un contesto scolastico vanno annoverate le forme di accoglienza quali i collegi-convitti, orfanotrofi, pensionati (per studenti e lavoratori), collocate in luoghi strategici del paese, che venivano incontro ai bisogni di molte famiglie obbligate a mandare i figli in lontani centri di studio e di addestramento al lavoro, oppure che volevano una educazione cristiana più intensa. Non si trattava solo di opere di beneficenza, ma di vera e propria opera di riscatto, di promozione sociale degli strati più deboli e meno protetti della popolazione. c. Lungo il secolo e mezzo di vita l’area della povertà giovanile in Italia ha assunto forme nuove e più gravi, per cui accanto alle opere tipiche sopravvissute del passato – la scuola, l’Oratorio, ma non più il collegioconvitto dopo gli anni settanta – i Salesiani hanno sviluppato altre attività più specificatamente rivolte ai giovani in difficoltà e “a rischio” ma sempre ispirate alla pedagogia TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 139 Il Tempietto preventiva: opere nuove, molto diversificate, che si potrebbero definire di “promozione sociale” caratterizzate dal contatto vivo ed immediato con giovani “border line” o “drop out”. Dagli anni ottanta si tratta di case-famiglia, di comunitàalloggio, di comunità di recupero tossicodipendenti, di servizi residenziali, tanto diurni e preventivi quanto residenziali, propri degli ultimi decenni. In questi ultimi anni si sta affrontando anche il grave problema della assistenza ai giovani immigrati. d. Ovviamente in opere educative gestite soprattutto da Salesiani non poteva certo mancare un elemento decisamente caratterizzante la storia del Paese Italia, vale a dire l’educazione alla fede, e alla fede cattolica. Ed ecco allora tutte le case salesiane diventare una sorta di parrocchia dei giovani, dove si è data un’attenzione tutta speciale alla loro formazione religiosa, fatta di frequenza dei sacramenti, esercizi e ritiri spirituali, partecipazione alle associazioni, fuga dai “cattivi compagni”, lettura della “buona stampa”, amore alla Chiesa e al papa. Fra gli allievi o Exallievi diventati fermento attivo nella società e nella Chiesa, alcuni hanno raggiunto vette spirituali altissime, come l’allievo di Torino-Valdocco San Domenico Savio, il discepolo spirituale di don Cojazzi, il torinese beato Piergiorgio Frassati, l’ingegnere exallievo dell’oratorio di Rimini beato Alberto Marvelli, il carabiniere di Napoli servo di Dio 139 Salvo D’Acquisto, il ferroviere, cooperatore di Milano, servo di Dio Attilio Giordani. e. Come dimenticare l’azione salesiana in favore delle masse di emigranti italiani in vari paesi europei, in tutti i paesi americani, in alcuni di quelli Africani ed asiatici (Medio Oriente). Un tema questo facilmente trascurato nelle celebrazioni ufficiali, anche perché pagina molto nera della nostra Italietta nata dal Risorgimento. Don Bosco, sognando in grande, aveva anche guardato all’Italia con uno sguardo planetario. A mezzo secolo dalla fondazione i Salesiani avevano già raggiunto quattro continenti, con oltre 30 Paesi e 4 mila confratelli. Grazie ai missionari italiani, moltissimi piemontesi, ivi compresi vari di Castelnuovo – uno per tutti, il capo della prima spedizione in argentina, il futuro card. Giovanni Cagliero – l’esperienza educativa piemonteseitaliana – ivi compresa la lingua italiana, le abitudini, le tradizioni, i costumi, le forme di vita e di religiosità della penisola – si è trasferita con notevolissima fedeltà alle origini in vari paesi nei quali il nome di Salesiani equivalse per alcuni decenni a quello di italiani. Grazie al lavoro dei missionari salesiani, molti immigrati provenienti dai mille campanili nazionali, ma privi della lingua, della storia, della cultura, hanno scoperto la loro identità e unità nazionale. f. Andrebbe infine ricordato il notevole supporto morale, economico, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 140 140 Il Tempietto logistico, di personale, di protezione (ebrei, partigiani, antifascisti e fascisti, CLNAI...) offerto dalle singole case salesiane d’Italia in occasione delle emergenze nazionali (vari terremoti, due guerre mondiali, Resistenza, immigrazione albanese di massa ecc.). g. Un accenno pure alle FMA. La diffusione delle loro case e la varietà delle opere ha costituito di fatto una rete di unificazione del Paese intorno ad un ideale educativo comune, con modalità relazionali e mezzi che se nelle città erano più consoni alla mentalità, nei piccoli centri sono stati per diversi decenni all’avanguardia. Questo è ancora più evidente per l’educazione delle ragazze, più a lungo trascurata. Difatti le FMA, chiamate per una miriade di giardini d’infanzia, come maestre comunali o a gestire convitti per operaie, hanno diffuso l’istruzione, l’associazionismo, il senso di responsabilità sociale, la cultura del tempo libero femminile come tempo di crescita nella qualità degli interessi, mentre educavano donne cristiane per le famiglie. L’impegno risoluto per la formazione delle maestre in tutta Italia da una parte ha consentito una preparazione culturale a molte ragazze delle fasce popolari, dall’altra ha esteso il modello educativo preventivo e la concezione cristiana della persona e della vita. Con il grande cambio relativo al lavoro delle donne, anche le antiche scuole di lavoro si sono trasformate in una proposta di formazione professionale sempre più qualificata e culturalmente rilevante. La difesa della dignità femminile, nella famiglia come nelle professioni, attraverso il senso del dovere e dell’apostolato, più che la rivendicazione, ha intercettato la trasformazione del ruolo delle donne. 4. Salesiani educatori del popolo italiano Nulla ha forse segnato più profondamente e definitivamente l’identità italiana come la presenza della chiesa cattolica, che ha incomparabilmente unificato la penisola per secoli, rendendola unica rispetto ad altri paesi. C’è chi ha scritto che “la ferita più lancinante inflitta alla identità degli Italiani del XIX secolo, la causa prima della spaccatura civile e morale del nostro popolo, tutt’oggi evidentissima dinanzi ai ostri occhi [è] la guerra alla Chiesa e alla fede degli italiani” Un cristianesimo ed un cattolicesimo a vocazione decisamente popolare, fatto di fede, devozioni, processioni, pellegrinaggi, generosità, religiosità vissuta che ha effettivamente raggiunto gli strati più umili della società. Dopo quella giovanile, una seconda area di impegni dei Salesiani comprende opere che possono considerarsi più immediatamente di carattere popolare, dirette anche a fasce più ampie di giovani: parrocchie, santuari, chiese pubbliche e semipubbliche, centri catechisti e pastorali, case di spiritualità e numerosissime altre attività di carattere popolare – sempre con finalità di formare “onesti cittadini (italiani) e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 141 Il Tempietto buoni cristiani” – che sono difficilmente classificabili. La precedenza è stata ovviamente data alle “parrocchie popolari”, solitamente di periferia di città, che hanno offerto opportunità religiose per famiglie operaie ricche di figli; ovvero alle “parrocchie giovanili” con apprendisti non residenti, studenti universitari, militari, emigranti di altre regioni, ossia giovani sradicati da ogni struttura familiare, civile e religiosa che in qualche modo avrebbero potuto mettere a rischio la loro fede. Per aggiungere grandi masse di giovani e di popolazione i Salesiani sono ricorsi alla comunicazione ne sociale. Don Bosco per altro, avendone precocemente intuito la portata, era stato all’avanguardia in tale settore, allora limitato alla carta stampata. Ecco allora numerosissime tipografie salesiane all’avanguardia, ecco le biblioteche circolanti, ecco una serie impressionanti di riviste per giovani e per docenti, educatori, catechisti, animatori di giovani.. Si affermano numerose editrici specializzate per educatori adulti (LAS), ma soprattutto per la gioventù e per l’educazione popolare (LDC, LES), con produzione anche di filmine, audiovisivi, video cassette, CD, DVD, strumenti tecnologici sempre cangianti 5. Metodo educativo A questo punto si dovrebbe anche trattare del metodo educativo. Non c’è tempo per farlo. diciamo solo che i Salesiani hanno tradotto la “salvezza” dei giovani in termini di formazione integrale dei giovani stessi coniugando 141 “sanità, studio, santità” con lo sviluppo personale e sociale, mettendo cioè insieme “pietà, moralità, cultura, civiltà”. Si sono dedicati a “fare gli italiani” mediante una educazione che, tramite “ragione, religione e amorevolezza”, mirasse alla formazione di persone istruite, competenti nel loro mestiere, solidali con la società, religiosamente ben formate. L’anima dell’educazione salesiana è una fede viva tesa a far maturare persone forti e coraggiose, che diventino fermento di comunità cristiane e germe di una società civile rinnovata a partire dalle energie spirituali morali e culturali delle singole persone Ovviamente non sono mancati i punti deboli della pedagogia salesiana tanto del “buon cristiano” che dell’“onesto cittadino”: ne ricordiamo alcuni. Per il primo obiettivo in particolare una forte dose di conservatorismo, dovuta ad una antropologia e teologia in larga misura tradizionalistica e dogmatica ed una educazione religiosa fatta più di pratiche che di autentica formazione di coscienze, di accentuazione dell’obbedienza religiosa che di assunzione di responsabilità nella comunità ecclesiale. Per il secondo obiettivo, ossia l’educazione ad essere “onesto cittadino”. ha potuto tradire un profilo di cittadino onesto, esecutivo, ma poco attento alla partecipazione civile e sociale per la mancanza di un vero quadro teorico di riferimento. Va anche detto che il sistema preventivo ha necessariamente risentito dei contesti dominanti in ciascuna epoca, per cui la ragionevolezza e l’amorevolezza hanno potuto scadere o in forme di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 142 142 Il Tempietto paternalistico o in una disciplina “di collegio” troppo severa. Se l’’impegno per una robusta istruzione ha portato a solide competenze professionali e culturali, non sempre ha avuto il corrispondente di una pratica educativa aperta, rispettosa della libertà e fautrice di formazione di personalità dalla grande capacità di scelte autonome e responsabili. Conclusione Il modello educativo salesiano si è sviluppato trovando un proprio stretto rapporto con la società civile e si è inserito operativamente nella vita dell’Italia nuova, “senza oneri per lo Stato”, con generalmente apprezzate funzioni di supplenza, collaborazione e sussidiarietà, soprattutto in settori per i quali lo Stato liberale non aveva sufficienti risorse da spendere e forse anche poco interesse. Con le risorse umane e finanziarie disponibili, in dialogo con le istituzioni o muovendosi in libertà, hanno cercato di trasmettere alle giovani generazioni insegnamenti e esperienze di morale (cattolica) e di civismo (educazione, cultura, senso del dovere, responsabilità, convivenza pacifica, solidarietà, rispetto dell’autorità e delle leggi, apertura agli altri popoli). Si è trattato di un apporto di concorrenza attiva ed onesta, di sforzo generoso, inteso a creare una società migliore, attraverso l’educazione “integrale” della gioventù, lo sviluppo della istruzione professionale, la diffusione e la crescita della cultura di base, l’assistenza religiosa alle popolazioni. In tutti i momenti della storia centocinquantenaria, ha sempre cercato, in dialogo con le istituzioni o muovendosi in libertà, di costruire di ogni italiano “dei piani bassi” dell’edificio nazionale, un uomo, un lavoratore, un cittadino, un cristiano, all’interno del Paese Italia dal fragile tessuto connettivo e da forme di cittadinanza piuttosto deboli. A fronte di una comunità nazionale storicamente sorta con forti incongruenze e inclinata per storia e definizione a frantumarsi, i Salesiani (e con loro le Figlie di Maria Ausiliatrice, di cui non si è trattato in questa sede) con la loro straordinaria struttura di rete, così tipica dell’identità italiana, hanno per un secolo e mezzo affiancato la società civile e cercato di integrare giovani italiani dei quattro angoli della penisola, operando per accrescere il sentimento di unità di destino tra le generazioni di un Paese. L’Italia era stata fatta senza di loro, ma loro hanno dato un valido contributo “per fare gli Italiani”. È questa una faccia della storia della nostra Italia unita che va meglio conosciuta. * Conferenza tenuta il 23 Settembre 2011 a Castelnuovo Don Bosco TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 143 Il Tempietto 143 Centocinquanta anni di presenza salesiana in Italia Doppia fedeltà attraverso l’educazione Giovanni Maria Flick C entocinquanta anni fa a Torino, quando Vittorio Emanuele II venne proclamato Re d’Italia, a poca distanza dal Parlamento Subalpino operava la Società salesiana fondata, da poco più di un anno (18 dicembre 1859), da don Giovanni Bosco. Il percorso unitario dell’Italia in qualche modo si intreccia con quello dei salesiani. È giusto ricordare quanto sia stato importante il contributo salesiano alla unità e alla vita della nazione, sin dall’origine. Anche per superare (ove ve ne fosse ancora bisogno) il mito della frattura insanabile fra anticlericalismo risorgimentale e presenza cattolica nel primo Risorgimento. Da questo punto di vista, l’avventura salesiana nei suoi centocinquanta anni di vita rappresenta un test particolarmente significativo di come si possa, secondo l’insegnamento evangelico richiamato da don bosco, dare a Cesare e a Dio quanto loro rispettivamente spetta, in una prospettiva di doppia fedeltà, che mi sembra un segno peculiare del modello dell’educazione salesiana. Sono fra i tanti ad aver sperimentato personalmente il modello salesiano, al quale devo molto nella mia formazione. A me sembra potersi ricondurre agevolmente al significato più attuale del percorso nazionale unitario: la centralità della Costituzione come espressione fondamentale del nostro vivere insieme, come testimonianza di continuità fra il primo e il secondo Risorgimento. Nel primo Risorgimento la nazione si è fatta Stato e si è unita attraverso la condivisione (faticosa, in parte elitaria, ma sentita) di una serie di valori che esprimevano una comunità dell’appartenenza. Nel secondo Risorgimento – dopo l’esperienza totalitaria, la guerra e la disfatta, la nuova frattura fra nord e sud – il Paese è tornato a riunirsi attraverso la Resistenza, la scelta repubblicana, la Costituzione. In quest’ultima, la centralità della persona – già presente nel primo Risorgimento (penso alla Costituzione romana del 1849) – propone una serie di valori (eguaglianza, solidarietà, lavoro, pluralismo, personalismo, sinergia fra diritti inviolabili e doveri inderogabili, sussidiarietà) che mi sembra si possano riassumere nella pari dignità e nella laicità. Essi si aggiungono ai valori del primo Risorgimento in termini più attuali, rendendo la nostra una comunità della partecipazione, più che della appartenenza. In questo quadro, il contributo di don Bosco e dei salesiani mi sembra rilevante per il nostro percorso unitario e per l’identità nazionale. Nel primo come nel secondo Risorgimento, la nostra storia è segnata da alcune costanti e da alcune questioni nazionali. Tra le prime, i meriti TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 144 144 Il Tempietto e gli eroismi ma anche i difetti e le contraddizioni del nostro vivere insieme; tra le seconde, la questione meridionale e quella romana. L’esperienza salesiana si identifica poi con la non meno significativa questione giovanile. La consapevolezza del problema e la ricerca della soluzione devono molto al contributo di don Bosco e della Società salesiana, al loro impegno nella educazione, istruzione e formazione professionale e civile. Quasi a controbilanciare, nel primo Risorgimento, gli effetti del non expedit, la tradizionale laicità della vita politica e l’anticlericalismo allora prevalente; quasi a compensare con l’impegno sociale e civile l’astensione, quando non la contrarietà di don Bosco verso il moto risorgimentale nelle sue varie manifestazioni e il modo con cui vennero realizzate l’unità d’Italia e la fine del potere temporale, nonché la sua fedeltà totale e assoluta al Papa. Il progetto educativo di don Bosco era (ed è tuttora) quello di formare “buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo”. Esso quindi pone esplicitamente la politica al terzo posto, dopo la religione e la morale. È un progetto che coinvolge nell’opera educativa la scuola, la cultura e il tempo libero, attraverso una sequenza ben sintetizzata dalla regola dell’oratorio salesiano (all’epoca il primo approccio con i giovani): amore, lavoro, frequenza dei sacramenti, rispetto dell’autorità, fuga dalle cattive compagnie. È un progetto che, inevitabilmente, nel contesto del primo Risorgimento, comportava un rischio di anti-modernità, tradizionalismo, paternalismo e rigidità, disinteresse verso la maturazione politica e le novità culturali: rischi che hanno suscitato critiche ricorrenti nei confronti del modello educativo salesiano. Sono, tuttavia, altrettanto noti l’impegno concreto e fattivo nell’assistenza ai giovani, soprattutto emarginati o socialmente più deboli, e la sua diffusione su scala nazionale. Un impegno articolato sul piano sociale, culturale, scolastico, educativo, religioso, assistenziale, popolare e massmediatico, che ha certamente contribuito a fare l’Italia e gli italiani, compensando largamente l’astensione e, anzi, la contrarietà di don Bosco ai moti risorgimentali. Quanto al rapporto con le istituzioni e autorità civili, è emblematico il feeling che egli ebbe con il ministro della giustizia piemontese Rattazzi, noto anticlericale. La legge Rattazzi del 1855, che decretò la soppressione degli ordini religiosi, fu decisamente contrastata da don Bosco, con l’avvertimento al Re (attraverso un “sogno-profezia") di “grandi funerali a Corte”. Eppure Rattazzi comprese l’importanza dell’opera del santo, indirizzandovi aiuti anche economici e suggerendo di organizzarsi non come una congregazione, ma come “una società religiosa che davanti allo Stato fosse una società civile”. È noto l’impegno sociale di don Bosco nella Capitale preunitaria, dove lo sviluppo industriale si confrontava con ingiustizie sociali, alienazione, immigrazione, sfruttamento e abbandono dei ragazzi, spesso destinati al carcere e, nel migliore dei casi, alla strada. Un TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 145 Il Tempietto contesto di moti, restaurazioni e rivalutazioni in cui la Chiesa era sì considerata raramente alleata e spesso nemica, ma in cui destava rispetto in tutti la santità degli “evangelizzatori dei poveri”. Uno dei più importanti fu don Bosco con la sua missione a favore della gioventù “povera e abbandonata", in condizioni di minorità (non di inferiorità), nella stessa linea dei suoi contemporanei Giuseppe Cafasso (assistenza ai carcerati) e Giuseppe Cottolengo (assistenza ai portatori di gravissimi handicap), ma con sviluppi che la Provvidenza ha voluto fossero ben più ampi. È una missione che inizia nell’oratorio di Valdocco, dopo l’incontro con i primi ragazzi raccolti in strada e avviati a pregare, studiare e lavorare, secondo quello che diventerà il modello salesiano: ottimismo e allegria, fiducia nella Provvidenza e impegno nella solidarietà e nella formazione civile e professionale accanto a quella religiosa, educazione al lavoro, all’eguaglianza, al rispetto della dignità propria e altrui. Una missione vista con sospetto, quando non con incredulità, sia dalla gerarchia ecclesiastica locale, sia dalle istituzioni e dalla società civile. Tanto da indurre alcuni benpensanti ad architettare il ricovero di don Bosco in manicomio, che non riuscì perché il santo aveva mangiato la foglia. Una missione che cominciò a stupire e a rivelare la sua importanza, quando don Bosco riuscì a farsi affidare più di trecento giovani detenuti, portandoli fuori dal carcere sulla parola e senza sorveglianza, per una giornata di svago, per poi ricondurveli tutti a sera, senza alcuna defezione. 145 Una missione che nell’estate 1854, durante un’epidemia di colera che investì Torino, indusse il santo a chiedere ai suoi ragazzi un forte impegno nell’assistenza e nel trasporto dei malati: un impegno in cui l’aspetto sociale era strettamente connesso a quello religioso, poiché don Bosco promise ai ragazzi che non sarebbero stati contagiati se fossero rimasti in grazia di Dio. In effetti nessuno di loro (sembra) si ammalò. La missione assunse il significato di una vera e propria rivoluzione sociale, quando (dopo la realizzazione di laboratori di calzoleria, sartoria, legatoria, falegnameria, tipografia e fabbro ferraio) don Bosco predispose e sottoscrisse alcuni fra i primi contratti di apprendistato in Italia. A introdurre una disciplina e una tutela del lavoro minorile, sino ad allora vergognosamente sfruttato. Mi sembra perciò agevole cogliere il contributo importante della presenza e dell’opera salesiana all’identità e all’unità italiana. Non soltanto sotto il profilo della sua espansione quantitativa e qualitativa, nei centocinquanta anni di vita nazionale e di vita salesiana, ma, prima ancora, per l’anticipazione e l’attuazione concreta (nel primo Risorgimento) di alcuni fra i valori fondanti della Costituzione e del secondo Risorgimento. Quanto all’espansione, si pensi da un lato alla diffusione delle opere salesiane su tutto il territorio nazionale, e non solo (dal 1875 iniziò la vocazione missionaria, con l’assistenza sociale ed educativa all’emigrazione italiana a partire dall’Argentina); e, dall’altro, a come si TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 146 146 Il Tempietto sono sviluppate e diversificate sul territorio le attività salesiane, a seconda delle esigenze. Dall’oratorio al centro giovanile e alla parrocchia, alla scuola e al collegio; alla azione culturale e massmediatica; alle opere di prevenzione sociale e, ora, di assistenza per l’immigrazione; all’associazionismo e al volontariato. Quanto all’anticipazione e all’attuazione dei valori costituzionali, la formazione umana e cristiana che costituisce l’obiettivo della scuola salesiana, accanto alla dimensione religiosa, si radica in una serie di valori profondamente laici ed espressivi della centralità della persona, nei termini in cui essa è proposta dalla nostra Costituzione: il principio lavorista, quello personalista, quello di eguaglianza e di pari dignità, quello di solidarietà, quello di sussidiarietà. Non si tratta solo, riduttivamente, di dare a Cesare ciò che gli spetta. Si tratta, piuttosto, di saper riconoscere e valorizzare concretamente la dignità del minore. Don Bosco ha saputo fare questo attraverso un’intuizione (da lui tradotta in pratica) che ha trovato piena conferma sia nelle indicazioni proposte cento anni più tardi dalla Costituzione, sia in quelle poi riaffermate dalla Carta europea dei diritti fondamentali, in coerenza con le indicazioni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia. Il diritto del minore al benessere e la preminenza del suo interesse su tutti gli altri (art. 24 della Carta europea) riassumono ed esprimono la sua pari dignità sociale (art. 3 della Costituzione), e cioè il suo diritto fondamentale a essere riconosciuto come persona, la sua identità non sacrificabile nel confronto con altri interessi, l’impegno alla sua tutela di per sé, non in subordine alla tutela di altri diritti e interessi (come ad esempio quelli della famiglia), o in chiave paternalistica e assistenziale. A me sembra che il messaggio ed il modello educativo di don Bosco abbiano saputo sin dall’inizio mirare alla prospettiva di realizzare concretamente ed effettivamente la dignità del minore. E ciò, credo, vale a superare le perplessità avanzate da chi in passato temeva che la componente religiosa dell’educazione salesiana potesse risolversi in termini di autoreferenzialità, paternalismo, rigidità dottrinale, distacco dall’impegno politico e sociale, insufficiente autonomia decisionale. Insomma, dei due valori-chiave della Costituzione (dignità e laicità) il modello salesiano ha perseguito e realizzato il primo, nei centocinquanta anni del percorso unitario: in un modo e con risultati tali da compensare largamente la “disattenzione” (o la minore sensibilità) verso il secondo. Lo ricordava anni addietro un ex-allievo salesiano, illustre e laico, Sandro Pertini, il quale riconosceva di aver “imparato nella scuola salesiana un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri", al quale lo aveva iniziato “la vita mirabile del Santo”. Una testimonianza significativa dell’efficacia del messaggio educativo di don Bosco. Credo sia giusto ricordarla, in occasione dei centocinquanta anni dell’unità italiana e della presenza salesiana nel Paese. (©L’Osservatore Romano 14 aprile 2011) TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 147 Tullio Fognani docente di Lettere, ex allievo di Don Orione San Luigi Orione patriota nell’Italia unita “San Luigi Orione è un patriota, un modello di italianità vera perché, seguendo l’esempio di suo padre Vittorio e di San Giovanni Bosco, non si è risparmiato, agendo mediante la parola, l’esempio e le opere di carità, nella formazione di “onesti cittadini e buoni cristiani”; anche lui ha fatto gli italiani”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 148 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 149 Il Tempietto San Luigi Orione patriota nell’Italia unita Tullio Fognani Il comitato interministeriale per le celebrazioni e quello dei garanti hanno lavorato duramente, per far sì che il 150° anniversario dell’unificazione dell’Italia rappresenti un’ulteriore tappa di aggregazione del popolo italiano. Il presidente Ciampi ha chiesto e ottenuto che il 17 marzo venga proclamato festa nazionale col seguente messaggio:”Dalla coscienza e dall’orgoglio della nostra storia dobbiamo trarre l’energia per ritrovare slancio e fiducia in noi stessi. Lo spirito delle celebrazioni sarà animato dall’unità della Patria, dalla libertà dei cittadini e dagli ideali che hanno ispirato le lotte degli uomini del Risorgimento”. Il D’Azeglio diceva che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. L’unificazione si è potuta realizzare così in fretta perché la popolazione si sentiva già italiana, fin dai tempi dell’Impero Romano. Successivamente il Cristianesimo ha dato il suo contributo culturale facendo sentire l’appartenenza di tutti i fedeli ad un’unica famiglia: la “Città di Dio“, di cui parlava S. Agostino. Anche nel Medio-Evo, S. Francesco, S. Caterina da Siena, Dante Alighieri e tanti altri, si sentivano italiani. Chi ha fatto gli italiani nel periodo dell’unificazione sono stati soprattutto 130 fondatori di istituzioni cattoliche (Montonati Stefano, 149 “Famiglia Cristiana“); mentre molti di quei personaggi che hanno unito l’Italia diplomaticamente e militarmente faticavano ad avere il consenso popolare. Traggo le presenti informazioni dal I° volume della serie intitolata: “Don Orione e la Piccola Opera della Divina Provvidenza”, stampata a Roma nel 1958, a cura delle scuole professionali “D. Orione”. Che molti si sentissero patrioti anche durante le guerre del Risorgimento lo testimonia un santo sacerdote (ex-allievo di Don Bosco), nato undici anni dopo l’unificazione: San Luigi Orione. Egli, che potrebbe essere riconosciuto come l’eroe dei due mondi nel segno della Carità (perché, dopo aver aperto numerose istituzioni caritative in Italia, è andato a fondarne tante anche in America), ha parlato di suo padre Vittorio, che fu garibaldino e combattente nelle guerre del Risorgimento, e di sua madre Carolina Feltri, che ha avuto a che fare con Urbano Rattazzi, ministro del Regno d’Italia. È risaputo che Garibaldi, condottiero abilissimo e audace, tornato appositamente dall’America, partecipò alle vicende militari della prima guerra d’indipendenza del 1848 e che, anche dopo la sconfitta dell’esercito di Re Carlo Alberto a Custoza e il successivo armistizio di Salasco, continuò la guerriglia e, al comando di un corpo di volontari, fu vittorioso a Varese e a Morazzone, prima di rifugiarsi in Svizzera. Garibaldi riusciva quasi sempre nelle sue imprese perché ammirato e aiutato dal popolo e da volontari che combattevano per l’Italia. In quegli anni TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 150 150 Il Tempietto l’Eroe dei due mondi appariva come il simbolo dell’insofferenza alla schiavitù politica, il paladino dell’azione patriottica decisa che, senza incertezze e pentimenti, puntava all’ideale dell’Italia una, libera, indipendente. Anche tra i soldati del Regio Esercito Sardo c’erano dei garibaldini: uno di questi era Vittorio, il padre di San Luigi Orione. Questi diede tutto se stesso nel periodo glorioso del primo risorgimento, dal 1845 al 1854 e portò a casa idee liberaleggianti e un acceso entusiasmo per Garibaldi, allora aureolato di un’ammirazione popolare specialmente a Pontecurone, dove il ministro democratico Rattazzi aveva una villa. I garibaldini di quel paese erano degli anticlericali che non frequentavano la chiesa; essi associavano l’ostentazione di una certa freddezza religiosa che consideravano di moda, agli ideali patriottici di indipendenza e libertà nazionale. Nel famoso 1848, anno delle rivoluzioni e della prima Guerra d’Indipendenza, in un momento di pausa di quel conflitto, accadde un fatto curioso: in un’osteria, insieme ad altri garibaldini, tra ammiccamenti vari, Vittorio allungò una mano verso Carolina Feltri, una ragazza quindicenne che lavorava come cameriera; costei reagì “appioppandogli” un sonoro ceffone. Quel soldato, dopo gli otto anni di servizio militare, andò a cercare quella ragazza per chiederle la mano, perché pensava: “Una ragazza che si difende così è seria ”. Ad assaggiare le mani robuste di Carolina fu anche il ministro Rattazzi, che forse voleva trattarla come qualche “escort” di oggi; lo scrive Don Orione stesso: “Noi eravamo portinai del ministro Rattazzi, che allora aveva la villa a Pontecurone: un giorno mia madre aveva in braccio un mio fratellino; sua Eccellenza, passando, così…, le fece una carezza… Essa cambiò di braccio il bambino e diede uno schiaffo al ministro; poi se ne andò a casa di sua madre e ci dovette andare mio padre a persuaderla a ritornare con lui”. Magari fossero tutte così le ragazze di oggi. Fu il medesimo Rattazzi a spiegare a Vittorio Orione che era stato un gesto innocente e a pregarlo che non se ne facesse rumore (O.2, III; M.3 XIII; Par. 1.10.30.); oggi se ne farebbe anche troppo. Il ministro, le cui preferenze per la famiglia Orione erano dovute senz’altro al servizio militare di Vittorio, non piaceva a Carolina, perché non faceva mai l’elemosina ai poveri; lei gli attribuì il nomignolo di “Pulon”, il ricco Epulone, di cui Gesù parla nel Vangelo, che finì all’inferno. Egli comunque aveva aiutato Don Bosco a far in modo che i suoi istituti potessero sfuggire alle soppressioni e alle leggi, allora vigenti contro le istituzioni della chiesa, approvate dai parlamentari liberalmassoni. Quando il ministro morì (1873) ella narrò di averlo visto in sogno che le diceva: “Io sono in eterno (sono morto?) e questo palazzo è affittato”; erano veri entrambi i fatti. Del patriottismo di Vittorio si trova un segno nel fatto che egli ha dato il nome del Re Carlo Alberto al suo secondogenito. Don Orione stesso, di fronte a un TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 151 Il Tempietto gruppo di suoi religiosi, dichiarò di essere patriota: “La prima volta che mi presentai all’On. Parini, dissi franco che io sono papista dalle unghie dei piedi fino alla punta dei capelli; ma che nello stesso tempo, sentivo di avere sangue italiano al cento per cento. E dissi: - Sono figlio di padre che si battè nelle Guerre d’Indipendenza; non sono diventato patriota (solo) da che Mussolini è al potere; ma lo ero prima che egli nascesse.”(P.13) Vive e sente quello che dice all’inizio della II guerra mondiale: “…; che sarà domani del mondo, dell’Italia, della Congregazione, di noi?… Opponiamo ai cannoni i rosari…” (D.A. Campagna, Dare la vita cantando l’amore, ed. Shalom, Camerata Picena, 05/02/’06). Don Orione aveva ereditato dal padre: “Un acceso patriottismo, un appassionato amore per il popolo italiano e la comprensione per certi stati d’animo in conflitto, che erano alla radice del nostro Risorgimento”. (Gallarati scotti, Corriere della sera, 20/11/1955). In una foto scattata a Tortona si vede Don Orione che, in data 03/06/1939 davanti a centinaia di alunni delle scuole, bacia la 151 bandiera italiana, al cui amore ne ha educati tanti. Il nostro santo, ex-allievo di Don Bosco a Valdocco di Torino, agli alunni delle sue scuole insegnava a diventare onesti cittadini e buoni cristiani, come era lui stesso; non si occupava di partiti e diceva: “La nostra politica è la carità grande e divina che fa del bene a tutti. Sia la nostra politica quella del Pater Noster. Noi non guardiamo ad altro che alle anime da salvare, …” (Peloso Flavio: Don Orione, p.17 – 18 ed. San Paolo,1997, Cinisello Balsamo – MI). Ma salvando le anime si formano anche cittadini onesti, impegnati ad operare per il bene di tutti, come promettono coloro che svolgono il servizio militare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica Italiana e al suo capo, di osservare lealmente le sue leggi e di adempiere ai doveri del mio stato, al solo scopo del bene della Patria”. San Luigi Orione è un patriota, un modello di italianità vera perché, seguendo l’esempio di suo padre Vittorio e di San Giovanni Bosco, non si è risparmiato, agendo mediante la parola, l’esempio e le opere di carità, nella formazione di “onesti cittadini e buoni cristiani “; anche lui ha fatto gli italiani. Certamente festeggerà il 150° dell’Unità d’Italia dal cielo. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 152 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 153 Damiano Casati docente di Storia e Filosofia nel liceo Giuseppe Calasanzio Gli Scolopi e il Risorgimento in Liguria “La rivolta scoppiata a Genova dopo la sconfitta di Novara, turbò profondamente P. Canata, che riuscì a stento a calmare i giovani divisi tra Piemontesi e Liguri. Di tutto ciò, testimonia l’Abba “di lì a dieci anni, molti di quei genovesi e monferrini, fattisi soldati volontari per le guerre del ‘59-‘60, ne parlarono ancora esultandosi a ricordare il gran Maestro, e si confidavano di essersi messi a servire la Patria per merito di Lui”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 154 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 155 Il Tempietto Gli Scolopi e il Risorgimento in Liguria Damiano Casati Il settecento è stato, specie nella sua seconda parte, il secolo di maggiore splendore delle Scuole Pie in Liguria. Gli Scolopi erano presenti con le loro scuole in Oneglia, Carcare, Savona, Genova, Finalborgo, Albenga, Toirano e in altri piccoli centri poi abbandonati tra settecento e ottocento, istituti di cultura che godevano di grande successo, per questo molto richiesti. Il fatto non meraviglia se pensiamo: a) al numero piuttosto copioso di Religiosi vari geniali e capaci e di fama non solo italiana. Basti pensare a P. Gian Maria Picone (1772- 1832), europeo per formazione, cultura e attività, al centro di un ampio dibattito, in Liguria, sui problemi agricoli: saggi sull’economia olearia, sulla viticultura, sulla cultura della barbabietola, sulla cultura del guado o pastello e sull’estrazione dell’indaco dalle foglie di questa pianta. P. Beccaria, insegnante di fisica a Torino in rapporto epistolare con A. Volta e con altri studiosi della medesima disciplina sia italiani che stranieri. P. Assarotti, studioso e pedagogo degli audiolesi (la biblioteca del suo istituto contava più di diciottomila volumi sull’argomento), P. Molinelli, il teologo della 155 Repubblica genovese, il formatore di tanti di questi religiosi; P. Domenico Buccelli, il primo a volere l’italiano nella scuola primaria; P. Michele Alberto Bancalari (1805-1864), a lui si deve la scoperta del diamagnetismo dei gas, insegnante di fisica all’Università di Genova e decorato per i suoi studi della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. P. Isnardi, precettore dei Principi di casa Savoia. P. Carlo Barletti, precursore di A. Volta a lui succeduto all’Università di Pavia, P. Giuseppe Solari. Scienziati, eredi della tradizione galileiana dei Padri Scolopi, letterati, pedagogisti, innovatori in più campi del sapere, animatori di comunità con le più avanzate tecniche di insegnamento (frequentatori degli Svizzeri Pestalozzi e P. Girard.). b) Al fatto che la casa di Oneglia era la più vicina al confine francese e quindi rendeva agevole lo scambio culturale con l’Europa. c) Ma un altro avvenimento spiega la richiesta della presenza dei Padri con le loro scuole in vari paesi della regione e fuori: la soppressione della Compagnia di Gesù (1773) e la tendenza dei governi a privilegiare Ordini più vicini al popolo minuto (p. es. a Milano). L’attenzione più a riforme (illuminismo) che alla vita religiosa, l’attenuarsi della vita di comunità, la sicurezza economica che gli stati sembravano garantire al futuro delle loro scuole, l’avversione ai TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 156 156 Il Tempietto Gesuiti e le loro simpatie per i Portorealisti, crearono all’interno della Provincia religiosa un clima che non li predispose a prevedere ciò che tra breve sarebbe successo: la rivoluzione francese e il regime napoleonico. Non fa stupore che molti di questi Padri, scoppiata la rivoluzione, ne sposassero le idee e, formatesi le repubbliche sorelle, i medesimi siano stati preposti a cariche di prestigio, che svolsero con entusiasmo, non intravedendo le insidie possibili di tale scelta. Ecco come ce li presenta il Codignola: “Li caratterizzavano di fronte alla generazione precedente una maggiore indifferenza verso i problemi, diremo così, tecnici della teologia tradizionale, un più acceso giacobinismo evangelico, in politica avversione profonda e irriducibile a qualsiasi governo assolutistico e paterno”(i). Erano in politica ferventi repubblicani. Nelle comunità le idee rivoluzionarie crearono divisioni; chi le condivideva, chi le avversava. Vari religiosi uscirono dall’Ordine e, fatto più grave, nel 1810 Napoleone, che già aveva facilitato tale fuoriuscita con l’assicurarli economicamente, soppresse tutti gli Ordini Religiosi, obbligando gli adepti a dismettere l’abito religioso, a non vivere in comunità, a sottomettere ad una amministrazione laica e governativa le scuole. Furono momenti terribili per le comunità religiose. I Padri in Liguria si ridussero a poco più di 14. Bisognerà aspettare il Congresso di Vienna per vedere le cose cambiare. La Liguria venne annessa al Piemonte che permise tacitamente ai Religiosi e di riavere le loro Scuole e di vivere in comunità e di rivestire l’abito religioso proprio. d) C’è ancora un altro elemento che ci aiuta a comporre il clima culturale di quel periodo. I Padri Scolopi avevano da tempo forti simpatie per i Giansenisti tant’è vero che ne sposavano in campo politico le idee repubblicane, in campo morale il forte rigorismo (erano scolari di P. Molinelli, teologo della Repubblica). Costoro avevano oramai dismesso l’ansia per i problemi teologici e in parte per quelli politici, ma auspicavano un rinnovamento sociale e religioso attraverso la cultura diffusa nelle scuole con metodi pedagogici molto avanzati. Il romanticismo che allora si diffondeva nella regione insieme al portorealismo (ogni nazione, ogni uomo ha una missione da svolgere) li avvicinò al problema nazionale che per loro era innanzitutto culturale (farsi una coscienza nazionale, sentire il bisogno della libertà, prima di agire). A questo punto è necessaria una precisazione: i centri maggiori erano Genova, Savona, Carcare, Chiavari, ma pure tutte le case della regione beneficiarono e vissero le problematiche di quelle case. Mi soffermo su alcune: 1. Genova: momento democratico (Bancalari, Cereseto, Mameli): TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 157 Il Tempietto siamo fra gli anni 20 e 30 dell’ottocento. Michele Alberto Bancalari (chiavarese e alunno degli Scolopi) terminati gli studi entra nelle Scuole Pie nel 1825 e ne veste l’abito religioso. Nel 1830 è ad Oneglia dove insegna retorica. Il perché a maggio fosse a Genova non è dato sapere, ma è certo questo: Mazzini lo incontra e gli dice “non hai soddisfatto il debito come altri…. devo però confessare che Bancalari mi promise di adempiere il suo dovere”. Come? si conoscevano? e che dovere doveva il Bancalari adempiere?” Domande che richiedono una chiarificazione. I due si erano conosciuti all’Università di Genova durante i loro studi e ne era nata una profonda amicizia che coinvolse pure la madre di Mazzini. Costui, soppresso dal Governo nel 1828 l’Indicatore Genovese, aveva dato vita, con l’aiuto di amici, ad un’Associazione letteraria con lo scopo di promuovere e diffondere la cultura tra i giovani. Gli iscritti dovevano pagare una quota (ciò che chiede il Mazzini al Bancalari, moroso nel pagamento). Anche la madre di Mazzini conosceva il Bancalari (nel 1832 è ordinato sacerdote). Lo rilevano queste due lettere. Per meglio intenderle è necessario premettere quanto segue: a Mazzini, esule in Svizzera, viene recapitata nell’ottobre del 1834 una lettera del francese Lamennais, elogiativa del pensiero e dell’opera del patriota italiano, lettera riportata da molti giornali. Il Bancalari viene in essa qualificato come “giovane frate”. Ecco la lettera di Mazzini alla madre e di seguito la di lei risposta: Lettera di Mazzini alla madre: “Soleure 18 nov. 1834. Vedo della visita fattavi da quel giovane frate, che io ricordo benissimo, e al quale ho pensato più volte, come all’altro suo compagno che forse, come d’intelletto più applicato a cose meno gravi, sarà più lieto e più felice di questo. Cosa mai intendeva egli dire con quel timore che la lettera di quel sant’uomo (Lamennais) ed altre simili cose potessero recarmi aggravio all’anima, perch’io peccassi d’orgoglio e di vanità?.... Ma, è necessario aver sentita e decisa la vita dell’esule per intender forse siffatte cose…. e però io lo scuso per il suo timore. Bensì non intendo, come le noie che i suoi superiori gli danno, valgano ad affrangerlo. Ditegli che io vivo da tempo lungo, e ditegli ch’ei pensi a come molt’altri vivono, pure sorridono incontro alla fortuna, e alla persecuzione. La vita è una missione…. ed ei non deve temer d’altro, se non che del giudizio di Dio, quand’ei gli chiederà: cosa hai fatto della vita a pro’ della mia creatura? Si crei una missione sulla terra, si prefigga un nobile intento, e vi consacri tutte le sue potenze: si sentirà rinfrancato e indifferente a tutte vicende. Io gli desidero questo, perché è dolore per me, quando ricevo lettere di quel sant’uomo, che la terra ove il giovane di cui parlo è nato, sia sola vuota e fredda ad ogni fiamma generosa. Non so se voi lo 157 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 158 158 Il Tempietto farete, ma io non vi nego che, non potendo altro bramerei gli mandaste codeste mie linee, in segno di memoria che io ne ho, benché nol conosca personalmente…. e vi sarei grato assai dove il faceste”. In data 27 nov. 1834 così rispondeva la madre: “Ieri ebbi la tua 18…. ove mi parli circa alla terra di quel sacerdote che io ti esprimeva. Non è già in lui cotale pensiero, volgare timore di una giusta vanagloria che tu abbia a ritrarre dalle lodi altrui; no certo, dappoiché l’idea sublime che nutre di tutto lo stesso sa concepire il valore dell’anima tua per crederti immune da quelle impressioni connaturali a tutti fuorché a te. Egli temeva soltanto che appunto i tratti di stima e di ammirazione che ti si tributavano…. potessero vieppiù accendere l’ira e l’invidia altrui onde averne maggiori dispiaceri…. Mi duole molto di non potere per ora fargli leggere (la tua risposta) non consentendole le sue circostanze…. critiche ed assai delicate, essendo che gli si suscitarono calunnie, fra le quali il crederesti? quella di mantenere teco una intelligenza di amore e di affetto. Or comprendi il grave delitto, trattandosi di far credere questo da’ suoi nemici a’ propri suoi religiosi superiori. Però venne tosto sventata simile calunnia…. dei nemici che per invidia cercarono di perderlo or sotto un aspetto or sotto l’altro…. È tenuto e guardato con somma vigilanza…. dunque comprendi quanto sia necessario ad esso come a chi l’ami l’essere prudente….”.(ii) Queste due lettere ci fanno capire quanto segue: la profonda amicizia tra il sacerdote e un suo confratello e il Mazzini, la premurosa preoccupazione del primo per i guai recenti e possibili per l’amico esule, l’opera chiarificatrice della madre al figlio per alcune espressioni del sacerdote, la preoccupazione di lei di salvaguardare il religioso dentro e fuori l’Ordine (un filo mazziniano creava sospetti). C’è da pensare che all’interno non tutti i religiosi condividessero le idee religiose dell’esule e all’esterno dato il clima politico, essere repubblicani significava, almeno essere sorvegliati dalla polizia. Il Bancalari, in seguito, insegnerà a Finalborgo, a Carcare, a Chiavari per ritornare poi a Genova. È all’Università della città dove insegnerà fisica sperimentale, per questo avrà incarichi di prestigio: 1846, presente e operante al Congresso scientifico di Genova, nel 1847 in quello di Venezia. A lui si deve la scoperta del diamagnetismo dei gas. Nel periodo difficile della Provincia (1851- 1853) sarà nominato Superiore provinciale di Liguria e si darà da fare a riportare la pace fra i religiosi divisi politicamente e non solo. A Genova in quegli anni era pure presente P. G. B. Cereseto di Ovada, uomo di vasta cultura, con le sue TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 159 Il Tempietto traduzioni dal tedesco e dall’inglese, preparerà il diffondersi del romanticismo in Liguria. Con la sua rivista “Il giovinetto italiano” veicolerà i giovani al problema nazionale formandone lo spirito sui concetti di libertà e di democrazia, ideali tipici del risorgimento nel nostro paese. A Genova, nell’istituto scolopico della città si formerà e studierà Goffredo Mameli del quale si parlerà più avanti. Momento liberale a Savona e Carcare, in modo particolare: uscita malconcia dalla tempesta rivoluzionaria e napoleonica, la Provincia Ligure dei PP. Scolopi, riprese rapidamente a crescere grazie all’opera indefessa di alcuni religiosi: P. Carosio, P. Buccelli, P. Canata, P. Muraglia, P. Garassini, questi i più rappresentativi. Da Genova il baricentro della Provincia si spostò sull’asse Carcare e Savona. È da Carcare che P. Carosio, ricostruì l’istituto (disastrato dalle armate napoleoniche) e vi formò vari giovani aspiranti alla vita religiosa, tanto che all’accorrere di studenti dalla Liguria, dal Piemonte e pure dalla Lombardia, fu necessario ampliare l’istituto, tra difficoltà economiche enormi. In più mancavano insegnanti religiosi. Per questo motivo nelle case di Carcare e Savona il Padre si servì di insigni laici e di preti secolari inoltre accolse giovani aspiranti ad essere scolopi, che furono formati in sede (non essendoci una apposita casa di formazione). Il fatto fece sì che venissero istruiti secondo le idee dei loro superiori, che in vario modo provavano simpatie 159 portorealiste, e quindi ricevevano un’educazione teologico-dogmatica, spesso non conforme a quanto avrebbero gradito i Vescovi della diocesi. Poi, facendo vita comunitaria con i Padri già sacerdoti, partecipavano ai loro problemi, alle loro discussioni, vivevano a contatto con il mondo esterno, questo, certo, non facilitava la loro formazione anche se avevano una coscienza civile maggiore rispetto a coloro che venivano formati nei noviziati e nei seminari. Di questo i Superiori ne erano consapevoli. Il Provinciale P. Isnardi (Precettore, prima, a Torino dei principi Ferdinando e Vittorio: del primo rilevò la non comune attitudine allo studio della matematica, del secondo negli esami del 1832 dice: non ha saputo niente di niente): scrive: “soprattutto i chierici si applichino agli studi teologici poiché è vergogna che nelle Scuole Pie questi siano da loro così trascurati che molti dei secolari ne arrossirebbero”.(iii) Mentre P. Carosio era interessato all’ampliamento della casa e alla formazione saltuaria di questi giovani aspiranti, la mente delle innovazioni scolastiche era P. Domenico Buccelli di Varazze (1778-1842). Studiò a Genova dove strinse amicizia con Eustachio Degola e studiò teologia sotto la guida del teologo giansenista G. B. Molinelli e di P. Assarotti. È a Carcare dal 1804. Studiò appassionatamente, aperto a problemi didattici (F. Cherubini, Pestalozzi, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 160 160 Il Tempietto Girard), innovò in campo scolastico; nel 1817 inserì, difatti, tra le classi del “leggere e dello scrivere” e il ginnasio, un corso di lingua italiana e ne indicò i principi nel “Quaderno del Metodo di questa scuola primaria”. Solo sei anni dopo (1822), lo Stato piemontese introdurrà un insegnamento del genere nei suoi territori: era l’inizio della scuola comunale. Lusingato da questi successi pubblicò a Torino la “Ragion della Lingua” proibita nel 1826 dal Ministro Brignole Sale che soppresse la “scuola intermedia”. Ma l’opera trionfò e nel 1833 fu ripubblicata con lettera di introduzione dello Charvaz. Significative le sue parole introduttive a questa 2ª edizione: “Un metodo d’insegnamento per le prime scuole che introduce l’analisi minuta nelle cose della lingua, tanto per riguardo alle parole, quanto particolarmente per riguardo ai pensieri, che alla nuda e inintelleggibile autorità sostituisce il ragionamento, proporzionato ai Giovanetti, e quindi l’intelligenza di essi, che abbraccia la parte morale e civile dell’educazione….”.(iv) Tra i consensi che ebbe, oltre a quello dello Charvaz, è da sottolineare che il Lambruschini lesse e apprezzò l’opera e la citò nella sua “Guida dell’Educatore” tra le grammatiche “pedagogiche e socratiche”, opposte a quelle “dogmatiche espositive”.(v) Ritiratosi, la sua eredità culturale nel 1840, passò a P. Atanasio Canata che in precedenza aveva conosciuto sia il P. Carosio che il P. Buccelli. Nel 1830 era entrato negli Scolopi. Fu insegnante a Chiavari, nel 1835 a Savona, dove conobbe P. Manara e P. Scotti e poté entrare in relazione con i Padri Cereseto, Garassini, Solari, Berlingeri. Furono, quelli savonesi, anni pieni di attività: insegnamento, catechismo, confessioni, buon predicatore, studioso di filosofia e letteratura, disorganica la sua preparazione teologica. L’adesione al Romanticismo ebbe certamente influsso nella sua produzione letteraria, ma, probabilmente, lo avvicinò anche alla politica. Questi Padri, rispetto alla precedente generazione, avevano ricevuto una mentalità più aperta; il loro spirito antigesuita, anticonservatore, li aveva preparati a considerare i fermenti risorgimentali, e gli aneliti alla libertà non come fenomeni sovversivi da soffocare, ma problemi concreti da risolvere. Questo era il clima che P. Canata respirava nella comunità savonese e nell’ambiente stesso della città, nella quale, dopo il 1815, si erano formati movimenti di eterogenee tendenze che avevano tenuti vivi i fermenti politici nel clima repressivo della restaurazione, e avevano contribuito a diffondere, specie negli ambienti culturalmente più preparati, nuovi problemi e nuove esigenze. C’erano infatti gruppi aderenti alla Massoneria e Carboneria, altri erano gruppi d’opinione che diffondevano le nuove idee. Fra questi, il “partito napoleonico” e quello indipendentista che si ispiravano agli ideali della Rivoluzione francese, erano portavoci TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 161 Il Tempietto di nuove istanze e avevano molti aderenti fra il clero, specie con quello di venature portorealiste, ansioso di realizzare l’idea di una democrazia cristiana giacobina che rimandava al Degola e alla sua aspirazione di vedere coniugati i principi di libertà e di uguaglianza con la dottrina cristiana. L’interesse per il movimento d’opinione liberale moderato era abbastanza diffuso e si andava sempre più affermando tra gli Scolopi, i quali in particolare modo, si interessavano a quella produzione letteraria, filosofica, storiografica che si rifaceva, in molti scrittori moderati, ad un’ideologia cattolico liberale. “In questi scrittori e nella maggiore parte dei loro imitatori e seguaci, la tendenza tipica del liberalismo moderato a conciliare tradizione e progresso, autorità e libertà, e a combattere la democrazia da un lato e la nazione dall’altro, si unisce alla tendenza a conciliare la fede cattolica con il pensiero filosofico moderno, la morale cattolica con alcune esigenze pratiche proprie della società borghese, l’universalismo ecclesiastico con il sentimento nazionale”.(vi) Un importante contributo alla propagazione tra gli Scolopi delle aspirazioni nazionali che venivano via via manifestandosi nell’ambiente culturale moderato, lo diedero i Saggi Accademici (vii) i quali agirono anche come strumento di propaganda nei riguardi di un folto pubblico che vi 161 partecipava. I saggi letterari di fine anno favorirono la lettura, la conoscenza di autori romantici allora in voga: Manzoni, Pellico, Prati, Berchet, Grossi nonché di alcuni non solo propriamente romantici Alfieri, Foscolo, Leopardi, ma esponenti anch’essi di una cultura “militante” e suscitatori di ideali. Il patriottismo la faceva da padrone tanto che P. Isnardi, provinciale, scriveva al P. Muraglia nel luglio del 1843: “Una cosa debbo poi raccomandare, è che nei componimenti non si parli d’Italia con quelle passioni e con quei termini di cui il governo è sospettosissimo, si allontani tutto ciò che da un nemico nostro e da un calunniatore potrebbe essere riferito a principii liberali…. Se mai c’è qualcosa di simile, la prego di sopprimerlo, a non permetterlo, meglio che sentirlo bramo stare lontano perché soffro troppo; né i timori sono per me, ma per la religione….”(viii). 2. Momento neoguelfo: Negli anni quaranta il cattolicesimo liberale prima elitario e timoroso, ora dimostrava una forza di espansione e una indiscussa capacità di organizzazione, con la pubblicazione del Primato di Gioberti, sfociò in un movimento politico vasto e complesso. Gli Scolopi furono in prima fila, specie a Chiavari, a Savona “Poche città d’Italia, come ha acutamente osservato Pietro Sbarbaro, erano preparate e disposte tanto quanto la piccola TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 162 162 Il Tempietto Savona, a ricevere, abbracciare con fede ed entusiasmo il Vangelo giobertiano, quando un Papa parve se ne facesse banditore dell’altezza di Roma”(ix) poi a Carcare, a Genova, ma per coglierne i sintomi nei saggi accademici bisognerà attendere il 1847 per vedere esposte alla luce del sole e propagandate nelle accademie di fine anno idee patriottiche e cattolico-liberali. Il P. Canata si sentì in piena sintonia con le idee Giobertiane. Lo illustra una lettera al P. Muraglia del 9-5-1845 in cui a commento del libro del Gesuita P. C. Curci, dal titolo: “Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di V. Gioberti intorno ai Gesuiti” così si esprimeva: “Mi pare quel Gesuita troppo capzioso, anzi, talora, pur vile, intendendo a fare comparire il gran filosofo, al di sotto di uno scolaretto di logica, un utopista instricabile e inintelleggibile a se stesso, in parte malvagio e tristo. Cose indegnissime e stomachevoli, vestite di quei freddi motti e talora scipiti, lo che non so come s’accordi con quel guardare che fa il malizioso gesuita il Crocifisso che si tiene davanti nello studiolo”(x). Stando così le cose, particolarmente infausta fu l’elezione a P. Provinciale di A. Dasso. Uomo dinamico, carattere forte, di indubbie capacità, ma rigidamente conservatore, legato ad ambienti reazionari e filogesuiti, avversario di ogni novità che non fosse la dottrina cattolica. Consapevole del serpeggiare fra i Padri di idee gianseniste e liberali, e certo di una disorganica formazione teologica in loro, la addebitò alla mancanza di unità nell’insegnamento teologico impartito nelle singole case ai chierici; avvertì, perciò, la necessità di un apposito studentato per essi, per cui diede inizio ad una riforma dell’ordine condotta in maniera autoritaria e invadente. Dalla sua, aveva l’apporto del P. Generale, P. G. Inghirami. Iniziò con una serie di provvedimenti che miravano ad accentuare la direzione delle singole case, ad interferire nella vita dei Padri, regolandone le attività, le vacanze, le letture, gli atteggiamenti; con questo si attirò l’antipatia di molti. Ma ciò che li indispettiva era il suo filogesuitismo che molti Padri non potevano accettare, sia per antiche incomprensioni iniziate già al tempo del Calasanzio e sempre riemergenti, sia per il momento storico in cui tentava di imporlo. P. Canata, in una lettera al P. Muraglia, esprime tutto il suo rammarico per tale situazione: “Tacere, studiare, scrivere e più pregare, soffrire sarà d’or innanzi l’occupazione mia: tanto la riforma bisogna cominciarla dagli anziani e per l’esempio…. Mi pare una gesuitata e delle meno concludenti, checché ne dica V. R. e mi scomunichi; per bene nostro io lascerei stare i Gesuiti lontani mille miglia per non sostituire disgusto e disgusto negli animi, i quali si querelano per sembrar loro TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 163 Il Tempietto che il presente governo o ministero scolopio (il tempo del regresso vuole che io usi questi termini) si voglia porre sulle tracce di quei RR. PP.-Povero Scolopismo”.(xi) Ma ben presto P. Dasso nel tentativo di imporre norme della tradizione gesuitica, subì un duro colpo. Infatti, allorché uscì il Gesuita moderno di Gioberti, la polemica contro i Padri della Compagnia esplose con la gioia di tanti Padri, specie P. Canata, che mal sopportava quel clima repressivo e autoritario. L’elezione a Pontefice di Pio IX contribuì ad alimentare il clima di speranza nel rinnovamento proprio negli istituti soprattutto di Savona e Carcare nonostante le proteste del P. Dasso. Era allora rettore di Carcare P. Garassini molto amico di P. Canata sin dai tempi in cui erano stati chierici a Savona, ambedue liberali convinti. In un articolo pubblicato sulla Stampa nel 1910 così li ricorda Cesare Abba, loro scolaro: “Verso il 1846 in quel Collegio c’era un gruppo di Padri di mezza età, alcuni dei quali, se fossero rimasti da giovani nel così detto “Secolo” si sarebbero incontrati in Mazzini o in qualche suo seguace, che li avrebbe fatti della Giovane Italia…. Di questo era l’anima un P. Canata da Lerici, poeta focoso in tutto, sin nel fare penitenza; uomo da dipingere con la spada in pugno come S. Paolo. Quello poi sì! non solo sarebbe divenuto della Giovane Italia, ma se fosse rimasto nel mondo, fra il 1830 e 1848, 163 avrebbe trovato la via di andare a morire in qualcuna delle sfide di pochi al “potere onnipotente”, qua e là dove che gli fosse capitato di vedere un po’ di tricolore. Nel 1846, all’avvento di Pio IX salì sulle più alte cime dell’ideale a cantare l’inno alla vita, alla Patria, alla fede; Romantico nutrito di classicismo, svegliò gli alunni suoi ad amare la gran cosa vietata: l’Italia. Allora nella sua scuola suonarono temi tali che gli spiriti si inebriarono di idealità nuove. Egli poi leggeva nella scuola pagine della “Battaglia di Benevento” e dell’”Assedio di Firenze”, “Lettere dell’Ortis”, passi del “Colletta”, né il rettore del collegio P. Garassini glielo vietava. Anzi questo metteva a nuovo qualcosa nella giovinezza dei suoi convittori, dava (cioè) il bando all’abito a coda, all’alta cravatta, alla feluca, e vi sostituiva la divisa dei bersaglieri e il cappello piumato nero e azzurro i colori. Da tutto ciò una bell’aria di rinascita che spirava da tutto e che aveva lasciato pensare che gli Scolopi fossero stati sempre un po’ in guerra contro i Gesuiti…. !(xii) Proprio in quegli anni, nel settembre del 1846, giungeva a Carcare Goffredo Mameli (vedere articolo a parte). Nel marzo del 1848 ci fu in Genova una violenta polemica contro i Gesuiti, con saccheggio della loro casa. Qui furono trovate lettere che rovinarono il P. Dasso. Da Albenga P. Guardone, ammalato di vaiolo, scrive al P. Canata: TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 164 164 Il Tempietto “…Un esempio, mio caro, per chi si mette sotto i piedi, Costituzioni, Vangelo, onestà, tutto per fini ambiziosi! Una caduta ignominiosa di quest’Uomo, che Iddio ci mandava nell’ira sua, io lo prevedevo, ma dico il vero non lo credevo così terribile…. i suoi maneggi per conseguire il vescovado di Bobbio, mi riescono bensì nuovi…. Gliel’han messa i Genovesi la Mittera e proprio secondo i meriti. La protesta che avete fatta costì, e quella di Savona mi piacquero assai, e più la vostra perché mi pare più religiosa…. Ho saputo che ad Oneglia volevano seguire l’esempio e penso che a quest’ora l’avranno fatto. Ma sarebbe bene che il seguissero anche le altre case, perché altrimenti si porrebbe dare appiglio a qualche malevolo da spargere che non è che una sola parte degli Scolopi che ha protestato, e che forse la maggioranza teneva mano al traditore”.(xiii) Le proteste degli Scolopi furono lodate dal Ministro della pubblica istruzione C. Boncompagni e dallo stesso Gioberti in una lettera al P. Garassini in cui si complimentava “co’ lui e i suoi colleghi” per la funzione che svolgevano in seno al clero “cioè quello di servir da modello ai chiostri cattolici del nostro secolo e dell’avvenire, e di scuola universale a chi vuol apprendere l’accordo della vita monastica con la cultura”.(xiv) I due attestati di stima, l’esultanza dei Padri per la presa di posizione del Papa Pio IX, l’avversione ai Gesuiti, dimostrano che la più parte degli Scolopi erano in sintonia con il sentire popolare, anche se alcune nubi parevano sorgere all’orizzonte (la ventilata riforma scolastica, la guerra vicina) e prontamente rilevata dal P. Giriodi e P. Canata. Ma la passione politica a favore dello Statuto e dell’indipendenza italiana non frenava. Lo stesso P. Giriodi conferma al P. Canata: “…. Avrei desiderato alcune copie della lettera di Gioberti stampata, che avrei distribuite ai miei conoscenti prossimi e lontani: ma spero che il P. Rettore manterrà la promessa di venirci a trovare prima di pigliare la volta di Roma e quindi ne porterà qualcuna con sé…. Sentii da mio fratello che Gonnella produsse nuovi canti sull’Italia, che vennero accolti sui giornali con infiniti applausi. Gli inviai il mio Canto per la Costituzione, e mi rispose che fattolo leggere a molti, tutti lo volevano musicato, e stampato, a preferenza di tanti altri che n’ebbero la sorte più avventurosa che meritata. Avrei invece desiderato di comunicare il Suo Inno che avea promesso di trascrivermi; e che ancora attendo al presente….”.(xv) La guerra andò male, C. Abba, allievo allora nel Collegio così commentò: “Quando scoppiò la guerra del 1848, il Collegio fu un faro per TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 165 Il Tempietto tutte le Langhe. Non v’era notizia che aggiungesse luce là dentro gli spiriti”.(xvi) Il ritiro del Papa, la sconfitta di Custoza furono duri colpi per i P.P. Garassini e Canata; continua C. Abba: “triste fu l’autunno del ‘48, triste fu l’inverno appresso, sopravvenute le notizie di Roma e della fuga del Papa, nel convento entrò la malinconia”, causata pure dall’approvazione della legge “Boncompagni” sul riordino dell’Istruzione pubblica del 4 ottobre 1848. Erano paure dei Padri per la sopravvivenza dell’Istituto, e per l’ingerenza del governo nel campo dell’insegnamento, con l’obbligo di dare esami per i Religiosi presso lo stato, per verificare se fossero idonei all’insegnamento (Decreto Reale 4 ottobre art 55-56), a meno che avessero dato saggio di distinta abilità. Il Collegio non aveva a temere niente al riguardo. Ne era prova la stima dei governanti, rafforzata dal fatto che il Prof. Troya, ispettore delle scuole religiose a nome del Governo, arrivato a Carcare “Stimò grandemente l’opera educativa dei padri in beneficio degli alunni”(xvii) Ma da altre case le leggi di Boncompagni e i progetti di accorpamenti di scuole del Troya ebbero dure critiche. In più, la rivolta scoppiata a Genova dopo la sconfitta di Novara, turbò profondamente P. Canata, che riuscì a stento a calmare i giovani divisi tra Piemontesi e Liguri. Di tutto ciò, testimonia l’Abba “di lì a dieci anni, molti di quei genovesi e monferrini, fattisi 165 soldati volontari per le guerre del ‘59-60, ne parlarono ancora esultandosi a ricordare il gran Maestro, e si confidavano di essersi messi a servire la Patria per merito di Lui”.(xviii) Dopo il 1848 le Accademie di fine anno a Carcare e Savona, per il loro contenuto patriottico, non furono gradite alle autorità religiose, e gli Scolopi ne subirono la reazione. P. Pizzorno fu allontanato da Savona per Genova e P. Solari fu espulso dall’Ordine degli Scolopi per ordine della Congregazione dei Vescovi e Regolari; era un sintomo di una più vasta reazione da parte della Chiesa. Nonostante questo P. Canata intraprese a scrivere il Saggio del 1852, vera espressione del suo liberalismo moderato, avverso ad ogni estremismo. Ma gli attacchi non mancarono. Prima L’Eco della Provincia, poi l’Armonia manifestarono sulle loro pagine il proprio dissenso, spesso non bene informato. A nulla servirono le rettifiche esplicative di P. Canata. La lettera di questi all’amico don Luigi Daneri dà la dimensione della polemica suscitata dal Saggio e l’amarezza che essa provocò in P. Canata. Smise di scrivere poesie e introduzioni ai Saggi Accademici e non si interessò più, come prima alle tematiche del suo tempo. Ne sono testimonianza i titoli delle Accademie: Giovani santi (1854), Genio e fede (‘55), la Famiglia (‘56), la gioventù (‘57), Fede e poesia (‘58), Gioventù e sentimento (‘59), Virtù e dolore (‘60). In essi solo qualche accenno a temi TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 166 166 Il Tempietto patriottici quali: Rossini, Silvio Pellico, Manzoni, Eugenio di Savoia, il ritorno dell’esule, il Coscritto di Crimea, che così terminava “chi s’aggiunge allo stuolo dei codardi, vero figlio d’Italia non è”. Non sono però che accenni sbiaditi, altro tono avevano i saggi dal ‘47 al ‘52. Nel ‘59 sembrarono riemergere le antiche passioni nazionali. Molti dei suoi giovani erano al fronte. Al P. Leoncini con la lettera del 26 maggio 1859 scrive: “…. In Savona sento poi che i convittori de’ Missionari e nostri spiegarono un vero furore d’entusiasmo nell’accogliere i Francesi, acclamarli, abbracciarli, regalarli di mazzi di fiori e di monete (se non fossi frate mi farei soldato)….(xix) Il risultato della guerra non gli piacque; lo rileviamo da una lettera di un suo ex-alunno del 22 sett 1859: “Povero Canata! E sempre disinganni ovunque? Speravamo nel 1859 ed eccoli di nuovo, mi perdoni, con le brache in mano! È un po’ cruda in verità! Io ho pensato subito a Lei appena lessi l’annuncio della pace conclusa…. Lei forse avrà già formata l’Accademia sopra soggetti contemporanei, recenti, sopra quei magnifici soggetti, e poi…. succedendo i fatti in ben altra guisa da quelli che immaginavamo, che speravamo…. per scansare di essere vilipeso da certi giornalacci avrà mutato idea”.(xx) Pure la spedizione di Garibaldi suscitò in lui apprensioni e paure che i più giovani Padri, Leoncini, Gherzi, Scotti gli rimproveravano scherzosamente. Dal 1861 in poi attese totalmente al buon andamento della scuola, brillando come sempre. Subentrò in lui un profondo ripensamento della sua vita, guardò il suo passato, visitandolo criticamente mentre pensava che avrebbe dovuto rivivere più profondamente la sua vocazione religiosa e sacerdotale; anche la defezione di alcuni suoi confratelli a cui era legato da profonda amicizia lo rattristò grandemente, gli diede un po’ di sollievo la presa di posizione governativa di esentare il Collegio di Carcare dalla confisca dei beni delle Congregazioni religiose (1866), così poté vivere nel suo amato istituto per tutto l’ultimo anno di vita. Il 5 aprile 1867, colpito da febbre gastro-tifoidea, terminava la sua ricca e complessa avventura umana. Con lui terminava anche la passione risorgimentale di questi frati scolopi anche se il loro insegnamento continuava. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 167 Il Tempietto Annotazioni i E. Codignola, Carteggi di Giansenisti liguri, Le Monnier, Firenze, vol I pag. CLVII. ii Appendice all’Epistolario di Giuseppe Mazzini, vol I, Imola, 1938. iii ASPL, cart. Circolari dei Provinciali, ms, lettere del 1° nov. 1836 iv La ragione della lingua per le prime scuole, esposta da un Individuo delle Scuole Pie, IIª ediz, Torino, 1833. v V. S. Derapalino, Un collegio nelle Langhe, storia del Collegio di Carcare, Savona, 1972, pag. 38. vi G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol II, Dalla Restaurazione alla Rivoluzione nazionale, 1958, pag. 348. vii Saggi Accademici: produzioni letterarie dei giovani a mo’ d’esame di fine anno. viii A.P.S.P.G., Cart. Muraglia, lettera del luglio 1843. ix Citato nell’Opuscolo di C. Russo, Il contributo degli Scolopi liguri al Risorgimento italiano, Savona, pp. 7-8. x 167 A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 9 maggio 1845. xi A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 15 ottobre, 1845. xii G. C. Abba, Un Collegio nelle Langhe, in “La Stampa”, 27-28 ottobre 1910 xiii A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 10 marzo xiv V. S. Derapalino, Un Collegio nelle Langhe, op. cit. pag. 49. xv A.P.S.P.G., Cart. Canata, lettera del 22 marzo 1848. xvi G. C. Abba, Un collegio nelle Langhe, in “La Stampa” 27-28 ottobre 1910. xvii P. D. Casati, Storia del Collegio di Carcare 1815-1848, cit. p. 152 xviii G. C. Abba, La Stampa, 28 ottobre 1910, Torino xix A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 26 maggio 1859. xx A.P.S.P.G., Cart. Canata, Lettera del 21 sett. 1859. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 168 168 Il Tempietto TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 169 Luigi Cattanei già preside del Liceo Classico Colombo Spirito di Patria in Padre Canata delle Scuole Pie “Maestro scolopio …frate raro, svegliatore d’ingegni e di cuori... O frate calasanziano, maestro mio, cosa fai in questo momento nella tua cella, donde in quello scoppio del ‘48 …l’anima tua di trovatore si lanciò ebra di patria…” Cesare Abba TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 170 TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 171 Il Tempietto Spirito di patria in padre Canata delle Scuole Pie Luigi Cattanei sentimenti e le espressioni che G.C. Abba, l’allievo più illustre degli Scolopi, rivolge al suo antico maestro, Padre Canata (1), si leggono nelle sue pagine garibaldine(2), ove la sua personale vicenda scolastica e patriottica torna sui luoghi natii e sulle figure di maggior rilievo(3) incontrate prima e durante l’Impresa dei Mille. Se per il ‘ 48 Canata annotava (“meraviglia del ‘48 espresso in parole…crescenti, vuol dire più sacro. Non dissidi, ma dubbi forse del governo”), già per la guerra del ‘59 partivano alcuni ex alunni e il Canata poté fondar speranze sui Cacciatori delle Alpi (“credo che quei di Garibaldi faranno la loro parte”). Quando poi il generale muove da Quarto, otto ex-alunni (4) del Canata lo seguono e il loro professore li nomina in note e lettere, anche se non riesce a “vedere di buon grado l’impresa di Garibaldi”: scrive infatti l’Abba a un amico: I “sono anche in rotta col professore…credo che i miei amici di lassù (Cairo) ballino”. Certo il sacerdote patriota era più attento alle mosse della Corona e del Cavour, tosto scomparso, fra i disparati commenti degli Scolopi alla sua “morte cristiana”. Del resto l’Abba, in affettuose lettere successive al P. Leoncini – in 171 settembre – avverte con piacere che il suo ex-maestro ” si era ravveduto dell’“errore” in cui l’avevano “avvolto” calunnie di nemici personali del garibaldino. Questi, del resto, lodava entusiasticamente il Canata nel diario. della spedizione elaborato al ritorno, (5) rivivendone le lezioni di patriottismo – tenute dalla cattedra. I Padri Scolopi erano passati in Liguria attraverso ventate giansenistiche, venute specialmente dal P. Mulinelli(6), vicino ad alcune personalità dell’Ordine; altre erano più vicine al rigorismo dei Gesuiti. Ne erano venute poche diserzioni e un rafforzamento degli Scolopi nella loro rocca di Carcare, fondata dal Calasanzio. Aperti alla vita pubblica, politica e patriottica battevano sentieri pedagogici inconsueti per i tempi; data la presenza fra i convittori di giovani d’età diverse: per i più piccoli studenti il P. Domenico Buccelli (7) aveva tratto dall’esperienza magistrale un sistema che li guidasse dalle lettere e dalle cose alla scrittura delle parole in uso, fino a distinguere le regole mercè confronti lessicali, grammaticali e fin sintattici (non opprimenti perché venute dall’esperienza delle prime osservazioni ragionate… Il metodo era maturato a Genova, ove il P. Assarotti studiava metodi didattici pei sordomuti; ma il ministro Brignole Sale non gradiva liberi sensi e pose ostacoli al Buccelli. Puntando sull’affiatamento maestroalunno, il P. Canata insegnava “umanità” suscitando curiosità (parallelamente al P. Ighina,(8) direttore di un ricco museo scientifico TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 172 172 Il Tempietto ),affiancando ai profili storici e letterari considerazioni di vita morale e religiosa/ non risparmiando uomini di Chiesa: “il Card. Bembo...«gustando troppo le delizie, perché la Laura che s’era scelto... e creata in Lucrezia Borgia non era tale da armarlo alla spiritualità... Paolo III creò Bembo e Sadoleto cardinali, ma egli riuscì gelido e, che è peggio, pietra di scandalo a ritardar lo slancio della lirica... iniziatori della prosa italiana, mancavano di profondità... frati allegroni e più che non si permettesse a un laico... Ferrara vide chierici e prelati che chiudevano in sonetti affetti che non avevano…«e donne travianti (ipocrisia l’arte)”. Con la dura fatica dei lavoratori locali il Maestro proponeva ai giovani l’equazione seme – prodotto, studio – sacrificio: “È la vita espiazione. E la gioventù è una porzione di questa? Dunque pure la gioventù deve soffrire. Se si educa nella parola si perde dell’azione? Come il seme se seminiamo dirittamente senza scegliere la vista del sole...con altri, poveri, se non vi ha pietà, come per gioco, che piacere dà?” Premio per gli alunni erano le parti in rappresentazioni teatrali su temi storici, religiosi, patrii; le accademie di fine-anno (9) e il conferimento del titolo di”Principe dell’Accademia”al migliore alunno (con ritratto!!), che consacrava l’impegno d’un anno di studio e offriva alla società garanzia di valore e segno d’interesse…(10) Sono rimaste alcune sinossi epistolari del Canata, che citiamo a mo’ d’esempio: “Studio della stazione/ l lavori della ferrovia avanzano/ il vantaggio che ne preparano a questi paesi. /Anni sopra la ferrovia/ Sosta mattutina delle migrazioni in Carcare”. Ma il religioso meditava sui precetti di S. Francesco de Sales, richiamato più volte secondo occasioni e opportunità: “Non devesi impastoiare il nostro spirito in tele di ragno, ma comunicare alla buona, in mezzo alle due belle virtù, 1’ umiltà e la semplicità e non più gli estremi di tante sottigliezze. La forza è più forte quando già è tranquilla, anch’ essa nasce dalla ragione senza mescolanza di passione”. Il contatto con la realtà, mai venuto meno, giovava alla confidenza dei convittori coi loro maestri e superiori, finalizzato ad una penetrazione psicoaffettiva negli animi dei giovani, onde portarli su un piano di parità e liberi giudizi che suscitava più facile confidenza... “Farsi giovani coi giovani “era precetto – base dei padri, non dimentichi delle pressioni autoritarie dei giorni napoleonici – Stabilir confidenza agevolava la Confessione, suscitava amicizie che duravano nel TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 173 Il Tempietto tempo e riportavano spésso gli exalunni a visite e colloqui… Se i padri avevano manifestato e suscitato dalla cattedra entusiasmi, critiche, elogi, gli alunni ne ricevevano impressioni per cui si chiedevano più tardi la ragion di gesti, parole e slanci. Il metodo scolopico trovava il P. Canata appassionato alla letteratura; questa prevaleva sulle lingue classiche (incentrate su Virgilio) per un continuo riferimento ai dati storici. Però il Canata... prendeva appunti... anche in latino! La tematica letteraria (una vera “storia”, quella del P.Canata, vicino a quel P.Cereseto, lodato dal De Sanctis) obbediva al dettato Dio- PatriaFamiglia, al culto dell’ eroeprotagonista, mentre i Padri, in versi o per lettera, s’allineavano in didattica, si scambiavano pareri, testi e calde (taciute, segrete nei taccuini) le passioni Risorgimentali. Apertamente enunciate però erano le posizioni assunte circa i moti mazziniani genovesi del 1853(11), col ricorso all’inno patriottico del Padre Pizzorno (stranamente fra le pagine del Canata non v’é cenno alcuno a quello del Mameli). Giovava alla stima confidente dei collegiali per i loro maestri il contatto che parecchi di loro intrattenevano con personalità del mondo scientifico, letterario e politico; è difficile quantificare il peso delle simpatie mazziniane dei Padri Dasso e Bancalari (12) e quello dei massimi pedagogisti col P.Buccelli; dalla cattedra i nomi del Mariani, del Lambruschìni passavan odi bocca in bocca: Tommaseo e Canata erano in 173 corrispondenza per un lavoro su S. Caterina da Siena; senza contare accessi alle cattedre universitari, partecipazioni a convegni scientifici (Solo il bizzarro ex-alunno Pietro Sbarbaro aveva polemicamente usato l’appellativo di “Beozia della Liguria” per Carcare... Ma era uomo da prendersela pure coi regnanti...) Salda e intatta restava l’orgogliosa appartenenza alla”piccola patria locale”, ormai inseparabile dal moto risorgimentale. Torino faceva sentire la sua voce con visite di principi e ispettori illustri (Vincenzo Troya) nonché di Vescovoi. Fra gli alunni e gli Scolopi passati pel collegio s’annoveravano nomi illustri nella storia patria: i fratelli Mameli, l’Abba, il Barrili, i Padri Stella e Sapeto (13), fattisi missionari in Eritrea e cari al Leoncini e al Garassini che ritrovavamo antichi entusiasmi, curiosità, sensi religiosi. I Padri insegnanti in classi superiori sostenevano i profili storici e letterari con letture di testi; proponevano analisi di versi e prose, lasciando conclusioni e giudizi ai giovani, in un’osmosi attenta ai fondamentali parametri della religione e della morale. Tali offerte culturali aprivano vie diverse; orgoglio dell’Ordine erano gli ex-alunni deputati (Emanuele Cèlesia, Bartolomeo Borelli, Giuseppe Elia Benza, intimo amico di Mazzini e dei fratelli Ruffini), mentre ministro era Domenico Buffa, ed un altro Buffa, Francesco, agiva da missionario in Cina... A questo punto par legittimata – oltre che da una personalità robusta e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 174 174 Il Tempietto accesa, attenta al sacro come al politico-patriottico- la gagliarda voce cristiana del P. Canata. E no n si può ascrivere la lode a debito sentito da Abba verso il suo maestro; poiché egli si rivolgeva al P. Leoncini in termini d’amicizia e d’affetto, lodando la regola scolopica della “santità e della cultura” e perfino i suoi eccessi... i ceffoni (ben 29 ne ebbe dal P.. Giriodi, rammentava bonariamente Abba anche nelle lettere più tarde ai Padri Cigliuti, Carosio, Escrìu, Damezzano). D’altra parte l’exgaribaldino non avrebbe vergato le paterne lettere rivolte molti anni dopo ai parenti Luigi e Alessandro Tasca, (14) intenzionati ad entrare nelle Scuole Pie: non l’accende più il sacro fuoco, ma maturo consiglio, memoria di scuola e di collegio, coll’orgoglio di quel ritratto di “Principe dell’Accademia”, sfregiato al tempo dei Mille da qualcuno in dissenso politico... Del resto il Convento stesso aveva a lamentare perdite di Scolopi orientatisi verso altri Ordini, se il P. Guardione scriveva al Canata deplorando l’emorragia di Padri e d’insegnanti, anche se l’epidemia colerica aveva visto prodigarsi i rimasti, tra cui il Canata, che pure aveva qualche ragion di lagnanza (sentiva “come un camauro di dolore addosso” la proibizione di confessarsi presso sacerdoti “esterni”al convento ). Ma egli restava fedele all’Ordine e, nel taccuino, celebrava per sé, in versi, le grandi ore del Cristianesimo, ispirandosi, per La resurrezione, agli Inni manzoniani: “Il rinnovar del secolo / noveIle grandi porge / con Cristo resu- scitato/ ogni essere consorte. /L’adora ogni elemento / e spirito contento / vedo del suo Fattor. /Vedo la fiamma mobile / e la volubil aura / fluisce l’acqua labile / la terra par più varia. / Si fa seren pur l’etere / il mar più si tranquilla / sopra più lieve zefiro / la vai di fior s’immilla..” Gli scambi epistolari fra i Padri promuovevano discussioni e devozione percepita dagli allievi, che si cimentavano non di rado, nelle stesse prove poetiche dei loro maestri. Nel suo “diario spirituale “Canata confidava ai versi “Zelo caldo ad affrettar ne punge che coi pargoli si rende eppur di raso la sua seta aggiunge. Tal sacrificio chi di noi comprende? È il sacrificio dei pii figli tuoi; Tu sostienci ogni dì,Padre diletto, e d’amarezze l’aspergiamo noi. Dio! Ti rinfranchi il Protettor tuo santo, fatto vittima ei pure d’ogni affetto. Or benedica alle fatiche e al pianto”. Della linea letteraria il maestro proponeva ai giovani due capitoletti sul Savonarola (16); ma le lezioni di “morale” s’arrischiavano a temi ardui (la verginità e lo scandalo) di cui davano cenno (approvato) al Lambruschini che aggiungeva: “il momento pericoloso s’ha quando il giovane teme di ritrovarsi, lasciato il TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 175 Il Tempietto collegio o il corso, in sola balia di se stesso”. E il Padre Canata fissava il suo tema: “Disinganni della gioventù. / Missione dell’uomo facoltoso. / Se i giovani debbano difendere la religione e come. /Amarezze di chi usa male i primi anni.” Ma i versi, soprattutto, legavano gli Scolopi ed entusiasmavano gli alunni, che perfino “tentavano”il verso, dopo le lezioni preparate specie sull’onda patria, corredate...di rimari, con attenzione ai metri, alle rime, alle coppie fino ai...palindromi, che i giovani ritrovavano nelle rappresentazioni drammatiche cui assistevano, insieme al pubblico del borgo. Ciò era presente al Canata, che annotava, lasciando intuire riserve e… campanilismi: “Ho sdegnato, nel passare da noi, nel teatro, la tragedia, per sollievo degli altaresi che vi si esercitano.Gli italiani non hanno motivo né di stoltamente avvilirsi: il passato sia stimolo del presente, il presente preparazione/dell’avvenire”. (17) Si spiegan così la frequenza e preferenza con cui i Padri schizzavano su fogli e taccuini icastici volti (18) e figure; nella confidenza con quelle 175 nacquero o maturarono gli entusiasmi figurativi di Abba. Ma concludeva degnamente la vita carcarese del Canata la dedica al confratello e superiore P. Garassini: A G.B. GARASSINI MODERATORE DEL CARCARESE COLLEGIO DOVE ORA VOLGE IL QUARTO LUSTRO CON CARITÀ’ D’AMICO E PROFFERTE D’AIUTO CONFORTAVI IL MIO TIROCINIO NELLE LETTERE A QUESTO PRIMO TENTATIVO DRAMMATICO IL TUO ATANASIO CANATA IN GRATO RICAMBIO DI CONSOLAZIONE E SPERANZA INTITOLA, OFFRE, CONSACRA DESIDEROSO CHE IL CIELO S’EDUCHI FRA TUOI FIGLI CHE SI RITRAGGA IN SE’ L’IMMAGINE DEL SUO CIRILLO. La lunga confidenza con le pagine del più illustre alunno di Carcere permette di riconoscere uno stile e un calore umano, di partecipazione, di studio e di formazione raramente avvertibile fra scuola ed allievo, per rimandare ai sensi patriottici, affettivi, poetici, in cattedra come in comunità che l’Abba ereditò dai suoi Maestri. Maestri, direi, ispiratori. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 176 176 Il Tempietto Note 1) Atanasio Canata da Lerici (I811-I867) fu guidato negli studi dal fratello, Rettore del Collegio dei Fratelli della Missione, in Sarzana;lì l’ottimo docente Dameri lo iniziò alle lettere. La scelta religiosa di Canata andò tuttavia all’abito delle Scuole Pie, cui pare fosse chiamato da un Gerolamo Mongiardini, d’Ovada. Dopo un breve periodo a Carcare, passò al Collegio di Chiavari, cittadina assai vivace, ove gli Scolopi avevano contribuito alle sorti della “Società Economica, “impegnata da problemi agricoli” “L’Accademia Entelli ca”, poi, avrebbe accolto, fra gli altri mazziniani, il Mameli. L’ardente sacerdote insegnò lettere a Savona, tornò a Carcare nel ‘40, stringendovi amicizia col rettore P. Garassini. Maestro nato, si preparava diligentemente le lezioni per schemi e sinossi, obbedendo alle voci del suo famoso dialogo. Lo si legge in D. C AS ATI, Il Co 11 e gio di Cascare, Carcare,GRIFL, 2007, p.132. Altre norme si diede nei suoi taccuini. 2) “Maestro scolopio... frate raro, svegliatore d’ingegni e di cuori... 0 frate calasanziano, maestro mio, cosa fai in questo momento nella tua cella, donde in quello scoppio del ‘ 48... l’anima tua di trovatore si lanciò ebra di patria…” (Cesare Abba, Da Quarto al Vliturno. Noterelle d’uno dei Mille, Bologna, Zanichelli, 1880. Per P. Canata cfr. 0.BARDELLINI, A. C. gran prete scolopico, oratore, pedagogista, L a Spezia, 1922; L.CATTANEI, Il maestro di G. C. Abba, in LA SPEZIA, Riv.del Comune,1965. 3) “Ci narravano i più grandi che il Maestro mio dicendo così (fummo vinti a Novara) era caduto sfinito... e noi mirandolo per i corridoi del Collegio, rapido, sempre agitato, fronte alta, capelli bianchi all’aria e l’occhio in un mondo che lui solo vedeva...” 4) Abba, Benedetti, Borello, Broglia, Caranti, Dapino D., Dapino S., Pochintesta. Cfr. P.CASATI, op.ci t., pag.150 sg. 5) Da appunti presi durante l’Impresa dei Mille, Abba aveva tratto poi il il testo delle Noterelle “edite dopo vent’anni”). 6) Padre G.BB.Mulinelli (1730 -1799) studiò a Roma presso gli Scolopi, sempre ostile ai Gesuiti, dallo studio di S. Agostino passò ai testi giansenisti di Gregoire, Mesenguy, Quesnel. 7) Padre Domenico Buccelli(1778-1842), pubblicò Le ragioni della lingua; Gf r. Un pedagogista insigne: P. Dom. Buccelli., Roma, 1943; G. FARRIS, P.D.B. precursore della scuola elementare e anticipatore della linguistica, in Miscellanea 2000, pp.44 e seg.; L. CATTANEI, Un pedagogista insigne, in STUDI DI STORIA 0VADESS, 0vada, 2005, pp.345 sg. 8) P. Flippino Ighina fu complimentato e premiato dal Ministero dell’Istruzione per le sue ricerche scientifiche, che permisero di dotare il Collegio di Carcare d’un Museo Scientifico, inaugurato nel 1876, trasferito poi al Collegio Calasanzio di Genova Cornigliano. 9) Nel corso dell’anno i giovani dovevano fornire risposte scritte a domande e temi d’attualità che i Padri preparavano per loro; su di essi si sarebbe impostata la recita di fine anno. Erano sottintesi una stesura e; la memorizzazione delle parti, 1’abitudine alla loro recita; i Padri si improvvisavano suggeritori, registi, direttori di scena, nonché autori, secondo gli spunti offerti dal clima Risorgimentale. 10) Cfr. Saggio del Collegio delle Scuole Pie, Miscellanea, Savona, 1832-38. 11) La lettera d’un Padre, da Genova Sestri, si TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 177 Il Tempietto legge in B. CASATI, op.cit. pag.145: “I moti di Genova non ebbero effetto, è vero.... Genova sarebbe stata un mucchio di rovine... nella sera del 29 che precedeva la notte fatale vi fu una radunanza dei capi cospiratori, e grande divisione corse fra loro... ed il Mazzini, di 60.000 uomini che gli erano stati promessi, restò con sei morti, onde s’involò; questa fu la salute di Genova.” 12) P. Michele Bancalari, romano, insegnò filosofia a Firenze, fu provinciale a Genova, docente all’Università, presente al Convegno di Venezia per gli studi sul magnetismo e gli atomi composti. P. Agostino Basso, lasciò il Collegio di Carcare e, filogesuita riparò presso la Compagnia di Gesù, finendo peraltro in un vivere dirodinato. Mazzini li conobbe e ne scrisse alla propria madre: “Avete risaputo poi più nulla dei due frati delle Missioni B. D.?; vedo dalle visite fattevi da quel gran frate; lo ricordo benissimo, perché è doloroso per me quando ricevo lettere di quel sant’uomo”. G.MAZZINI, Epistolario, Ed. Naz. App.XVI / 9 e Lib / X /212. 13) Da allievi di Carcare, divennero Padri delle Missioni, esplorarono l’Africa Orientale; lo Stella fu al Cairo, toccò Massaia (fra Musulmani non teneri); puntò sull’Etiopia e vi conobbe il viceré dei Galla. Sapeto esplorò il delta del Nilo, visitando monasteri fra gli israeliti; toccò Massaua, incontrando un altro sacerdote famoso: il Padre Massaia. 14) G.C. Abba, Epistolario. Ed. Nazionale, 1999, II. Cfr le lettere del 4.9.1899’ e sg. fino al 30.4.1909. 177 15) Non sempre dovuta a “rientri” nel secolo, ma alla preferenza accordata – restando Scolopi – ad impegni e occupazioni che li tenevano lontani da Carcare. È il caso di P. Isnardi, subentrato al futuro arcivescovo Charvaz quale precettore di corte per i Principi sabaudi, benché eletto Provinciale nel 1836 e confemato tre anni dopo. L’ambita sede torinese ridusse la sua autorità a Carcare all’insolito titolo di “Rettore”. 16) Con note gravi, che sottolineavano però la valutazione e le linee di giudizio (per gli allievi ): “Savonarola e la letteratura pagana. Suo sistema fu introdotto “in bella vita, antiscandalosa, scostumatezze civili. Volle annientamento di Firenze pagana” (taccuino). 17) La notazione è ancora di pagine manoscritte del taccuino, forse in un momento di perplessità, che il P. Canata aveva pur scritto tragedie, stampate a Torino: Giornata, Giaccardo martire di Cocincina. 18) Si trovano, in inchiostro, in parecchie pagine d’appunti, ove rappresentano un Cristo velato, religiosi, demoni, prove di penna, profili di militari! Abba dovette conoscerle, forse attingervi la sua passione per le arti figurative (rimpianse sempre il forzato abbandono dell’Accademia di Belle Arti di Genova). Cfr. L.CATTANEI, “Le prove figurative di G.C.Abba, in SCRITTI IN ONORE DI GAETANO PANAZZA, Brescia, Ateneo, 1994, pag.49-494. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 178 TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 179 Terza Parte Appendice 10 Marzo 2011: presentazione del volume n° 11 della rivista al Palazzo Ducale 17 Marzo 2011: nasce lo stato nazionale messaggio del Santo Padre al Presidente della Repubblica intervento del Presidente Napolitano in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia omelia del cardinale Bagnasco nella messa di ringraziamento per l’Italia TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 180 180 Il Tempietto La presenza dei cattolici nel Risorgimento ruolo dei cattolici nei 150 anni di vita unitaria è rimasto per la storiografia argomento di scarso interesse. Si parla dei cattolici liberali o dei cattolici intransigenti, si sosta sullo scontro tra Piemonte prima e Stato Italiano dopo con la Chiesa cattolica, ma si sorvola sull'orizzonte della presenza cattolica che ha ben altra consistenza. La natura stessa del conflitto rischia di rimanere in superficie se non si coglie la sua specificità moderata. Per cui anticlericalismo e clericalismo vanno ridimensionati, anche se il cammino è segnato da conflittualità specie con la Sinistra storica liberale al potere. Tuttavia lo Stato sente di aver bisogno della Chiesa e la Chiesa non contesta l'aspirazione all'unità politica dell'Italia e non si ribella allo Stato: voleva altra via per la conquista dell’unità politica, aspira ad avere uno Stato diverso. Possiamo parlare di primavera risorgimentale cattolica, finita nella lunga opposizione di fronte alla scelta piemontese che non poteva che essere conflittuale col potere temporale del papa. Sono prevalsi tra i consiglieri di Pio IX quelli non all’altezza di indicare soluzioni coraggiose, è mancata, nell'altra parte, la coscienza delle ragioni del pontefice e della radicata cattolicità della nazione Italia. Anche dopo la conquista di Roma il popolo è rimasto cattolico con delusione di quanti sognavano di “protestantizzare” anche l’Italia o dei pochi che avrebbero voluto eliminare la religione stessa. Abbiamo voluto riportare la discussione fatta a Palazzo Ducale quale avvio ad esplorare il più vasto orizzonte del ruolo dei cattolici nella esperienza Italia. Nel nuovo volume abbiamo tentato alcune piste partendo dal popolo evidenziando l'opera educativa delle nuove congregazioni religiose nel “fare gli Italiani”. Il TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 181 Il Tempietto 181 Cattolici e unità d’Italia tra storia e attualità Salvatore Vento Il 10 marzo scorso a Genova, presso la sala Camino di Palazzo Ducale, si è svolto l’incontro su “cattolici e unità d’Italia tra storia e attualità”. Promosso da Palazzo Ducale Fondazione per la cultura in collaborazione col Centro culturale “Il Tempietto” del Don Bosco di Sampierdarena, il dibattito è stato animato dagli interventi di Salvatore Vento (sociologo e studioso del movimento cattolico), Giovanni Battista Varnier (preside della facoltà di scienze politiche dell’Università di Genova), Sandro Capitanio (esponente del Movimento Federalista Europeo), don Alberto Rinaldini (direttore della rivista “Il Tempietto” che ha dedicato gli ultimi tre numeri al Risorgimento), Mons. Luigi Palletti (Vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di Genova). L’incontro è stato accolto con favore da diverse associazioni che da tempo in città lavorano insieme intorno ai temi del Concilio; la presenza di un pubblico numeroso e attento dimostra, ancora una volta, il bisogno di confrontarsi in maniera libera e serena, nonostante il frastuono dilagante. Permangono diverse interpretazioni storiche sul ruolo dei cattolici nel Risorgimento. C’è chi ritiene ancora valida la tesi secondo la quale l’opposizione della Chiesa fu chiara ed esplicita; altri invece ritengono che è sempre esistita una pluralità di posizioni fino a considerare i cattolici come “soci fondatori” dell’unità d’Italia. Le differenze, ancora oggi, dipendono da una non chiara definizione di Chiesa. Se identifichiamo la Chiesa unicamente col Papa e con lo Stato del Vaticano è indubbio che si trattò di uno scontro frontale (Pio IX scomunicò il Risorgimento). Se invece, come insegna il Concilio Vaticano II, intendiamo per Chiesa la comunità dei fedeli (il popolo di Dio) allora dobbiamo tener presente la pluralità delle sue componenti e le differenti opzioni; tra queste ultime c’era chi considerava l’abbattimento del potere temporale del Papa come una sorta di purificazione spirituale ed evangelica della Chiesa stessa. Non solo, un’altra importante distinzione è quella tra Stato e Nazione: mentre vi fu un’indubbia opposizione al modo con il quale si formò il Regno d’Italia, vi fu un’altrettanta convinta adesione all’unità nazionale, anzi, secondo questa visione, lo “Stato legale” sabaudo non coincideva affatto col “Paese reale” in cui i cattolici erano profondamente radicati e si consideravano la vera espressione dell’unità nazionale. È perciò importante sottolineare con forza che il “mondo cattolico” non è un blocco omogeneo e non può essere identificato con la Chiesa-istituzione; la caratteristica fondativa dell’esperienza storica dei cattolici è il pluralismo: tra congregazioni religiose, tra movimenti ecclesiali, tra movimenti sociali e politici, tra parrocchie di una stessa città. Proprio perché i cattolici sono radicati nel paese, ne esprimono anche le diversità e le contraddizioni. Nella pubblicistica corrente – dove si addensano personaggi che per avere notorietà estremizzano i loro TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 182 182 Il Tempietto ragionamenti come in qualsiasi talk show televisivo – la mancata comprensione di questa complessità porta a conclusioni storicamente parziali perché si riferiscono soltanto ad un aspetto, quello della ChiesaIstituzione. Un momento d’unificazione nazionale a livello popolare fu certamente quello della prima guerra mondiale dove s’incontrarono fisicamente e per la prima volta soldati provenienti da ogni regione. Anche in questa circostanza, tra i cattolici, assistiamo ad una pluralità di componenti: da una parte i cappellani militari inseriti nelle Forze armate, dall’altra il grido di dolore di Papa Benedetto XV che definì la guerra un’inutile strage. Venendo all’attualità, com’era nello spirito dell’incontro, la presenza del segretario di Stato vaticano, Card. Tarcisio Bertone, alle celebrazioni per l’anniversario della breccia di Porta Pia (20 settembre 2010) rappresenta, anche simbolicamente, la presa d’atto di un conflitto storico (tra Stato e Chiesa) che appartiene appunto alla storia. Così come, in maniera più analitica, è avvenuto al Forum del progetto culturale della Chiesa dedicato ai 150 anni dell’unità d’Italia. Durante il Forum, il card. Bagnasco ha esortato ad un ripensamento sereno della nostra vicenda nazionale al fine di ritrovare in essa una memoria condivisa e una prospettiva futura in grado di suscitare un nuovo innamoramento dell’essere italiani, in un’Europa unita. Il cardinale inoltre ci ha esortato a rileggere il contributo dei cattolici che, a giusto titolo, si sentono ‘soci fondatori’ di questo Paese, alla luce delle sfide che siamo chiamati ad affrontare. Ancora più recenti sono gli orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020 (Educare alla vita buona del Vangelo) che costituiscono punti di riferimento fondamentali perché vengono offerti come patrimonio per tutti, finalizzato al bene comune. Le virtù umane e quelle cristiane, infatti, prosegue i documento della CEI, non appartengono ad ambiti separati. Di conseguenza nell’opera educativa della Chiesa emerge con evidenza il ruolo primario della testimonianza, perché l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri lo fa perché sono anche testimoni credibili e coerenti della Parola che annunciano e vivono. Se il cattolicesimo vuol dire universalità, non ci possono essere valori cattolici che non siano valori dell’uomo in quanto tale. Emerge invece la necessità di approfondire il discorso della mediazione storico antropologica che è il compito dei cristiani impegnati in politica. La Costituzione rappresenta a tale riguardo l’esempio più alto di questa mediazione dove il personalismo d’ispirazione cristiana (vedi in particolare gli articoli 2 e 3) si è positivamente confrontato con altre tradizioni culturali (comunista, socialista e liberale). Oggi la CEI, e lo stesso Papa Benedetto XVI, invita a sostenere la crescita di una nuova generazione di laici cristiani, capaci di impegnarsi a livello politico con competenza e rigore morale. Un punto, quest’ultimo, in palese contrasto con l’attuale clima politico provocato dai comportamenti indecenti di una maggioranza parlamentare che difende il proprio leader a prescindere dalla questione morale e dalle più elementari norme del buon senso e del buon gusto. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 183 Il Tempietto 183 Cattolici “soci costruttori del paese” Alberto Rinaldini 1. Premessa Quando usiamo il termine “cattolici” nel processo unitario del nostro paese è d’obbligo rilevare che usiamo un termine dalle molte articolazioni: ci sono liberali cattolici, cattolici liberali, cattolici intransigenti e transigenti, cattolici moderati, cattolici democratici… c’è la popolazione italiana che, nell’800, nella stragrande maggioranza è cattolica, c’è la Chiesa cattolica con la sua gerarchia: una rete di 300 diocesi e 27 mila parrocchie collegata col Papa. Non si può tacere poi tutta la ricca fioritura di movimenti religiosi che pullulano nella Chiesa dopo la soppressione degli ordini religiosi contemplativi… Questi movimenti religiosi nuovi, conformi alle nuove leggi, sono il “sacro operare” tra la gente del popolo, un forte collante che sgorga dalla comune appartenenza alla fede. Infine come non vedere l’anima cattolica di un Vittorio Emanuele II? Scomunicato dal papa, nel 1859 prima di entrare in guerra con Napoleone III contro l’Austria, chiede al Pontefice la riammissione in seno alla Chiesa. Dopo l’erosione di parte del potere temporale nelle Legazioni fu nuovamente scomunicato. Sul letto di morte ha voluto l’assistenza spirituale e ha chiesto perdono a Pio IX per il dolore che gli aveva recato. Cavour volle confessarsi prima di morire. Segni di vicinanza al cristianesimo li troviamo anche in Garibaldi. A San Marino – in fuga da Roma nel ‘49 dopo la sconfitta subita ad opera dei Francesi – mentre con un gruppo di fedelissimi sosta presso un convento, raccontano documenti che donasse ai frati una somma per fare celebrare tre Sante Messe per Anita che stava male. Pensiamo ai tanti giovani che sull’ali dell’entusiasmo patriottico diedero la vita per l’Unità della Patria. Sul Gianicolo tra le altre erme, 90 in tutto, che ricordano i giovani martiri che morirono combattendo per la Repubblica Romana del 1848, con quella eretta a Mameli ce n’è una che ricorda un francescano, fra Pantaleo. Troviamo sacerdoti anche con i Mille di Garibaldi. Anche a proposito di “unità politica ” d’Italia si deve parlare di un concetto complesso e dinamico: un processo in cui confluiscono varie visioni ed un cammino non ancora finito. Il mio intervento intende avviare in questa sede la riflessione su Cattolici e Unità d’Italia”, tema portante della Rivista “Il Tempietto”. 2. I cattolici “soci costruttori dell’unità d’Italia”? Mi lascio provocare da una considerazione del cardinale Biffi su Avvenire del 1990 nell’articolo “Pinocchio e la questione italiana”: “Anche se non percepita o addirittura censurata, dalla cultura TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 184 184 Il Tempietto ufficiale, la tragedia di un popolo, che all’atto di connettersi politicamente, spiritualmente si lacera e s’immiserisce, non è passata del tutto inosservata negli animi in cui si andava consumando”. L’unità esige questa lacerazione? Sarebbe meglio dire che un certo modo di portare avanti il processo unitario avviene a costo della lacerazione dell’anima del popolo. Lacerazione tra l’essere cattolici e l’appartenenza al nuovo stato… il caso di coscienza del nostro risorgimento. Non tradurrei lacerazione tra cattolico e italiano: i cattolici sono e si sentono italiani. Non accettano il modo con cui l’Italia viene politicamente unita. Ed hanno le loro buone ragioni! Ma certo si deve parlare di grave lacerazione conclusa solo nel 1929 con Patti Lateranensi. E cattolici sono anche in gran parte quelli che “lacerano” l’anima del popolo cattolico… e le loro ragioni sono fuori dubbio alte e meritano tutto il nostro rispetto. Si poteva scegliere un’altra modalità? Questo era il prezzo da pagare per unificare politicamente un popolo credente che già esisteva? Si doveva “immiserire spiritualmente” per unirlo politicamente? Questa è stata la strada percorsa dai nostri padri ed è parte della nostra memoria comune. Ci aiutano a capire “questa lacerazione” le parole del segretario della del Regno d’Italia; ma l’unificazione italiana è un processo che viene da lontano e presenta, senza interruzione, un dato strategico di fondo: la connessione strettissima con la presenza e l’impegno della Chiesa e dei cattolici italiani. Conferenza episcopale italiana Mons. Crociata: Questa emerge con grande evidenza a metà degli anni quaranta dell’Ottocento, tra l’opera Del primato morale e civile degli italiani (1843) di Vincenzo Gioberti e l’elezione di Pio IX (16 giugno 1846), anni in cui confluisce un movimento di iniziativa cattolica, di clero e di laici, che mostrava con tutta evidenza la fede cattolica come collante ed elemento di fusione per una unità nazionale da realizzare in armonia con questa identità religiosamente plasmata.(1) Da questa primavera risorgimentale poteva nascere un’Italia confederale. Il Rosmini redasse persino un Progetto di Costituzione federale, come plenipotenziario del governo Casati (Gioberti era ministro senza portafoglio). Siamo nei mesi di agosto e settembre, tra la prima e seconda fase della prima guerra d’indipendenza (quella federale e quella sabauda). Dopo la sconfitta piemontese a Custoza (luglio 1848) cadde il governo Casati e diventò primo ministro Perrone. Il progetto di Costituzione del Rosmini, approvato da Pio IX a condizione che fosse firmato anche dal Piemonte, resterà lettera morta. La risposta del nuovo governo piemontese: L’unità ha una data convenzionale, è cioè il 17 marzo 1861, giorno della proclamazione “Non è tempo di parlare, ma di combattere: cacciato lo straniero parleremo della Legge e della Dieta”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 185 Il Tempietto Tale progetto viene riportato a pag. 120-22 del n. 11 della Rivista “Il Tempietto”. Fallita la fase federale seguirà la fase unitaria sabauda, poi quella democratico rivoluzionaria. Nel 1849 col fallimento dei democratici il processo unitario è ripreso dai liberali moderati e dai democratici rivoluzionari. Con l’inevitabile conflitto tra Pio IX e il mondo cattolico e le forze che guidano il processo di unificazione. Il Conflitto raggiunge il punto più alto con la conquista di Roma e la fine del potere temporale dei papi ad opera del nuovo Regno d’Italia. Inizia il tempo del non expedit che emargina i cattolici dalla vita politica, ma li vede impegnati nel sociale e nel campo amministrativo; poi la conflittualità lentamente si stempera e nel 1919 nascerà il partito popolare di Sturzo. Dopo la tragica esperienza del fascismo e della seconda guerra mondiale, cento anni dopo la “primavera cattolica”, i cattolici assurgeranno a guida politica dell’Italia con la DC. Infine, con il crollo del muro di Berlino e la fine della DC, i cattolici sono in tutti i partiti: uniti nei valori, separati dalle strategie politiche. Per cogliere le coordinate della “lacerazione” occorre distinguere tra “questione cattolica” e “questione romana”, alla quale venne imputata la dolorosa scissione. Tra le due questioni dopo il 1870 c’è evidente sovrapposizione. La questione romana nasce tuttavia con 185 la presa di Roma nel 1870 e si chiude con i Patti Lateranensi del 1929. La questione cattolica nasce prima, nasce con l’invasione delle truppe napoleoniche, con le reazioni popolari, le insorgenze, contro una cultura estranea che voleva imporre stili di vita diversi rispetto alla storia nazionale. Una questione che diventa culturale e che ancora, come tale, non si è conclusa. La storiografia poi, fin dall’inizio del ‘900, individua due tendenze nella politica del Piemonte dal ‘48 al ‘61: • una separatista volta ad eliminare privilegi ed esenzioni, secondo le esigenze degli stati liberali (soppressione del Foro ecclesiastico e del diritto d’asilo). • una seconda neo-giurisdizionalista che era di fatto un’ingerenza dello Stato nella Chiesa… nettamente anticlericale. Tra le due questa seconda prevalse. Nel ‘48 la legge della soppressone dei Gesuiti e loro espulsione dal Piemonte. Più rilevante la legge del 1855 con la quale unilateralmente venivano soppressi gli ordini religiosi giudicati non socialmente utili: 21 maschili e 13 femminili, per un complesso 335 sedi e 5489 persone. Anche il Cavour, in questo caso, ammise che il Piemonte liberale, per ridurre il potere della Chiesa, aveva dovuto negare se stesso. Per lo storico Rosario Romeo la legge del 1855 rappresentò lo scostamento più sensibile dalla politica liberale e separatista della “formula libera Chiesa in libero stato”. La strada aperta fu continuata nella TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 186 186 Il Tempietto legislazione 59-61… E si giunse alle due grandi leggi del 1866 e 1867 con le quali veniva negato agli Istituti ecclesiastici, regolari e secolari, il diritto di possedere beni. Estesa, dopo il 1870, a Roma, la legislazione piemontese rimase alla base della legislazione ecclesiastica italiana fino al 1929. Lo scontro tra Nuovo Stato italiano e Chiesa cattolica nel 1870 vede ben 89 diocesi senza vescovo: 43 esiliati; 16 espulsi; una ventina processati e incarcerati soprattutto al Sud. 2. Il senso del dramma “unione politica e lacerazione spirituale” è messo in luce da due illustri protagonisti, non sospetti di simpatie clericali. Ferdinando Martini (2) (1841- 1928) scriveva a Carducci nel 1894: “Le rivoluzioni politiche le quali non accompagnino un rinnovamento religioso perdono di vista l’origine loro, e i primi intenti finiscono a scatenare ogni istinto nelle plebi: di ciò io sono convinto da un pezzo. Ma dopo rimane il male che, tutti noi, tutti noi, caro Giosuè, abbiamo fatto, siamo in grado di provvedere a rimedi? A chi predichiamo? Noi borghesia volterriana, siamo noi che abbiamo fatto i miscredenti, intanto che il papa custodisce i male credenti: ora anche le plebi chiedono le parole cui affidarsi, perché non credono più nell’ al di là, torneremo fuori a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato! Non ci prestano fede: parlo delle plebi di città e dei borghi; le rurali di un Dio senza riti, senza preti, non sanno che farsi. A tutto il male che noi (non tu od io, noi certo) abbiamo fatto per spensierata superbia, le bombe sono troppo scarso compenso: abbiamo voluto distruggere e non abbiamo saputo edificare. La scuola doveva, nelle chiacchiere dei pedagoghi, sostituire la Chiesa. Una bella sostituzione ! Te la raccomando…(3)” Nei pensieri di Francesco Crispi a un certo punto si legge: “Il cattolicesimo, oltre la potente e mirabile gerarchia, che tiene stretto i fedeli attorno al capo, ha, nei fini della sua missione, l’educazione, l’insegnamento, l’apostolato. Che ne abbiamo noi fatto in 34 anni, nel Regno d’Italia per fare cittadini e soldati, uomini e patrioti?”(4) Siamo nel 1895! 3. Il Natale dell’Unità d’Italia ci porta in dono, al di là delle ombre e dei limiti, tre conquiste principali: La prima: definitiva liberazione da ogni dominazione non italiana. La seconda: tutti gli italiani sono riuniti nella realtà politica di uno stato “Laico, democratico, sociale”. Aggiungiamo: l’unità di una nazione può essere gestita in diverso modo, ma non può essere rinnegata o rimessa in TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 187 Il Tempietto discussione. Il separatismo sarebbe poi irragionevole e indecoroso, se fosse incentivato dal dissolvesi di ogni spirito di solidarietà. La terza conquista: fine del potere temporale. Paolo VI, ancora arcivescovo di Milano pochi mesi prima di essere eletto papa, sosteneva che il 20 settembre del 1870 la “Provvidenza” aveva ingannato tutti, credenti e non credenti. “Aveva ingannato i credenti, che dalla fine del “potere temporale” temevano il crollo dell’Istituzione ecclesiastica, e aveva ingannato i non credenti, che dopo la presa di Roma quel crollo desideravano e attendevano. Accadde infatti che perduta “l’autorità temporale”, ma acquistata “la suprema autorità nella Chiesa”, il papato riprese “con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimone del Vangelo”. 4. Il Presidente Napolitano. Il contributo dei cattolici all’unità del Paese è ben noto e non si limita al periodo pre-unitario, ma si allarga anche alla fase successiva del suo sviluppo, come è stato di recente autorevolmente sottolineato dal Presidente della Repubblica, nel telegramma inviato al cardinale Bagnasco il 3 maggio 2010: “Anche dopo la formazione dello Stato unitario l’intero mondo cattolico, sia pure non senza momenti di attrito e di difficile confronto, è stato protagonista di 187 rilievo della vita pubblica, fino ad influenzare profondamente il processo di formazione ed approvazione della costituzione repubblicana”. 5. Il Cardinale Bagnasco. Nella prolusione all’Assemblea generale della Cei del 24 maggio 2010: “Ben prima del 1861 la nostra realtà italiana, per quanto frammentata in mille rivoli feudali, poi comunali, quindi statali, aveva conosciuto una profonda sintonia in virtù dell’eredità cristiana. Affermare questa origine dell’Italia non significa ingenuamente rimarcare diritti di primogenitura, ma solo cogliere la segreta attrazione tra l’identità profonda di un popolo e quella che sarebbe diventata la sua forma storica unitaria, per altro non senza gravi turbamenti di coscienza e, per lungo tempo, irrisolti conflitti istituzionali. È qui sufficiente accennare che al fondo di tali vicende vi era anche la principale preoccupazione della Chiesa di garantire la piena libertà e l’indipendenza del Pontefice, necessarie per l’esercizio del suo supremo ministero apostolico, e più in generale di scongiurare un “assoggettamento” della Chiesa allo Stato. L’anniversario che ci apprestiamo a celebrare è, dunque, rilevante non tanto “perché l’Italia sia un’invenzione di quel momento, ossia del 1861, ma perché in quel TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 188 188 Il Tempietto momento, per una serie di combinazioni, veniva a compiersi anche politicamente una nazione che da un punto di vista geografico, linguistico, religioso, culturale e artistico era già da secoli in cammino”. Il 3 maggio nell’intervento al forum di Genova: “Nei 150 anni dell’unità d’Italia. Tradizione e progetto”- il cardinale vede nel Forum un invito a fare di questo importante anniversario non una circostanza retorica, ma “l’occasione per un ripensamento sereno della nostra vicenda nazionale, così da ritrovare in essa una memoria condivisa e una prospettiva futura in grado di suscitare un “nuovo innamoramento dell’essere italiani, in una Europa saggiamente unita e in un mondo equilibratamente globale”. • ripensamento sereno… “il tempo tutto svela e tutto vela”! • da cui può sgorgare un nuovo innamoramento dell’essere italiani… • e insieme una spinta a risollevarsi dall’attuale grigiore ricuperando il “sostrato religioso”, senza il quale, anche se non se ne parla, l’Italia non sarebbe tale. 6. In che modo i cattolici sono “soci costruttori del Paese”? Dovremmo dire “costruttori dell’identità del Paese”. Il processo di unificazione politica, dopo la primavera degli anni quaranta, vede infatti i cattolici all’opposizione. Essi volevano l’unione politica, ma non come allargamento del Piemonte. L’alternativa confederale era possibile, anzi come suggerisce Rosmini, l’unica rispettosa dell’autentica libertà. (5) Con il non expedit i cattolici nella quasi totalità rimasero fuori del processo unitario dopo il 1870. Ma il quarantennio di opposizione non sfociò in ribellione. Le 27.000 parrocchie con le 300 diocesi collegate al romano pontefice salvarono la fede cristiana nel popolo, arginarono il tentativo di sostituire la religione cattolica del popolo con la religione della patria. L’impegno “politico” si tradusse in impegno sociale e partecipazione a livello amministravo. La soppressioni degli Ordini religiosi, l’incameramento dei beni della Chiesa e la soppressione del potere temprale, divennero un terreno fertile per una fioritura di nuove congregazioni religiose che collaborarono al “risorgere” della Chiesa: divenuta Chiesa italiana, mostrerà nuova energia e, stretta al papato e ai vescovi, centinerà ad essere il “sostrato profondo” dell’italianità. 7. Osservazioni 1. L’appunto più grave che si può muovere al movimento risorgimentale è di aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consustanzialità con l’identità nazionale. 2. Pio IX in un primo tempo si mostrò aperto alle novità del liberalismo, poi spaventato dalla deriva anticlericale, nei fatti, per lui liberalismo e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 189 Il Tempietto anticlericalismo coincidevano. Ma nell’uso della termine “il cosiddetto liberalismo” intendeva dire che un liberalismo che toglie la libertà non era vero liberalismo. E quello risorgimentale fu un liberalismo di tipo giacobino! La sua battaglia è stata una battaglia di difesa, senza proposta alternativa, mentre la libertà è il DNA del Cristianesimo e nella sua articolazione politica apre alla democrazia. Alcuni grandi cattolici lo compresero, ma non i consiglieri del papa. 3. L’identità di un popolo si costruisce: quella italiana è stata curata, educata, maturata dalla Chiesa. La Chiesa – scrive Luigi Negri – ha contribuito a questa identità attraverso l’educazione come inculturazione della fede e questa identità si è cercato di sostituirla forzosamente con un’ideologia che senza scrupoli voleva imporsi a dispetto della maggioranza. 4. Hanno difeso la fede cristiana e “fatto gli italiani” soprattutto 130 fondatori di istituzioni cattoliche, come scrive Montonari Stefano in “Famiglia Cristiana”; mentre molti di quei personaggi che hanno unito l’Italia diplomaticamente e militarmente faticavano ad avere il consenso popolare. 189 5. Perché in questa celebrazione dei 150 si parla così poco dell’apporto dei cattolici nella costruzione del paese? Il tema è stato affrontato da parte di specialisti, ma non è entrato nei libri di scuola e per la gente i cattolici sono rimasti coloro che si sono apposti all’Unità d’Italia. Segno del clima cambiato è la constatazione che se c’è un’Istituzione che si prende a cuore questo importante anniversario è proprio la Chiesa Cattolica. Non a caso l’affermazione “Cattolici fondatori del paese”, usata in documenti ufficiali dalla Chiesa italiana, conferma ciò che la Rivista “Il Tempietto” intende quando scrive su “Cattolici soci costruttori dell’Unità d’Italia”. Si potrebbe, a riguardo del rapporto dialettico tra Chiesa Italiana e Stato, usare la similitudine della madre: essa genera il figlio, ma questo raggiunta l’adolescenza esige la sua autonomia fino scontrarsi con essa, per ritrovarsi nelle braccia del suo amore nei momenti di smarrimento. Potremmo, però, aggiungere: anche la madre, nella sua vicinanza, matura con tempo insieme al figlio: nella distinzione, non separazione, Stato e Chiesa collaborano al bene comune del Paese in libertà e in verità. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 190 190 Il Tempietto Note 1) Mons. Crociata, Prolusione all’anno accademico 2010-2011 Facoltà Teologica dell’Emilia e Romagna, Bologna 15 dicembre 2010 2) Ferdinando Martini (1841-1928) Accetta infatti la candidatura che la Sinistra gli offre a Pescia per le elezioni del novembre di quell’anno e dopo intricate vicissitudini elettorali nel 1876, sotto il primo ministero Depretis entra in Parlamento e ci siederà per più di quarant’anni! Nel 1884 diviene sottosegretario alla Pubblica Istruzione di cui sarà Ministro nel 1892/93 durante il Governo Giolitti. Fu poi dal 1897 al 1907 Governatore dell’Eritrea. Alla vigilia della prima guerra mondiale torna alla politica avvicinandosi decisamente allo schieramento conservatore: Ministro delle Colonie nel Governo Salandra fu risoluto interventista. Una scelta forse dettata da spirito irredentista risorgimentale, dalla predilezione per la cultura francese, ma, concretamente motivata da mire egemonistiche verso l’area balcanica e centroeuropea. Il suo Diario 1914-1918 ci rivela, tra l’altro, che in pratica furono Martini e Salandra a decidere (a Frascati il 17 settembre 1914) l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria. Allarmato per la svolgersi degli avvenimenti durante il “biennio-rosso”, preso anche fisicamente di mira come “guerrafondaio” Martini, come del resto altri esponenti della classe politica liberale del tempo, finì per vedere nell’affermarsi del fascismo l’unico argine al “disordine” montante. Non risulta che aderisse al movimento, come il Regime dopo la sua morte volle far apparire, ma ne fu un autorevole fiancheggiatore ed il fascismo gli fu riconoscente nominandolo Senatore nel marzo 1923 e Ministro di Stato nel 1927. 3) Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia, Centocinquant’anni 1861-2011, Cnatagalli 2011, pag. 39-40 4) ivi, citazione riportata a pag. 40 5) Rosmini, Sull’Unità d’Italia (1848) scrive: “L’unità d’Italia! È un grido universale, e a questo grido non v’ha un solo italiano dal Faro alle Alpi a cui non palpiti il cuore. (…) Ma non tutti sono d’accordo sul modo di ottenere quest’unità: alcuni pensano al modo più facile di giungervi, altri all’unità più perfetta, altri sarebbero contenti di trovare un modo possibile qualunque, scorgendo in tutti gravi difficoltà. Quello che deve essere posto fuori controversia, quello che è al di sopra della politica, è che qualunque via si prenda, deve essere giusta ed onesta: gli Italiani non ne possono volere un’altra. (…) L’Italia l’ hanno fatta i suoi quattordici secoli d’invasioni straniere, di dissoluzione, d’individuale azione, di parziale organizzazione e d’intestina divisone. Non trattasi di organizzare un’Italia immaginaria, ma l’Italia reale colla sua schiena dell’Appennino nel mezzo, colle sue maremme, con la sua figura di stivale, con la varietà delle sue stirpi non fuse ancora in una sola, colle differenze dei suoi climi, delle sue consuetudini, delle sue educazioni, dei suoi governi, dei suoi cento dialetti, fedeli rappresentanti della sociale nostra condizione.(…) Ad ottenere così desiderabile effetto, il mezzo più efficace di tutti, il primo, è indubbiamente l’unità politica della intera penisola. (…) La questione adunque dell’unità italiana, la questione pratica e del momento si riduce, come dicevamo, a trovare il modo di fabbricare l’edificio dell’unità italiana coi materiali che abbiamo, e sono tutte quelle parti, quegli Stati d’Italia che non si possono fare scomparire senza violenza o senza ingiustizia”. (Citazione desunta da Dialoghi dicembre 2010 pag.58-61) TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 191 Il Tempietto 191 I cattolici e l’unità Luca Rolandi - Giornalista e ricercatore di storia sociale e religiosa L a ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia rappresenta una preziosa occasione di riflessione in ordine ai rapporti, periodicamente conflittuali, tra Stato e Chiesa: infatti a partire dal detto evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” i due sistemi – quello politico e quello religioso – si sono fronteggiati in tutte le società occidentali, dapprima (nell’età medievale) con la supremazia della Chiesa, e successivamente con la progressiva affermazione dello Stato. Il rapporto tra Stato e Chiesa nel Risorgimento è un aspetto del tutto peculiare di questa permanente dialettica, essendo condizionato dalla presenza dello Stato della Chiesa: non si trattava dunque solo di conciliare coscienza religiosa e coscienza civile, diritti della Chiesa e laicità dello Stato, ma di conciliare due sovranità o di convincere una delle due (la Chiesa come struttura temporale) a rinunziare a questa sovranità. Fu questa la grande fatica dei cattolici del Risorgimento, fatica che solo dopo quasi 100 anni, con la Costituzione repubblicana, si sarebbe conclusa con l’accoglimento del principio della separazione dei poteri (“Stato e Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) ma a prezzo di un duro e prolungato conflitto. Il processo dell’unificazione politica dell’Italia – iniziato nel 1859 con quella che fu chiamata la “seconda guerra d’indipendenza” e con l’annessione della Lombardia al Regno sabaudo, e concluso nel 1918 con “grande guerra” e l’annessione del Trentino e della Venezia Giulia – ha trovato nel Cattolicesimo italiano contemporaneamente un grande ostacolo politico (l’esistenza del millenario “Stato pontificio” a Roma e nel centro della penisola) ed un vitale apporto di principi e di valori. A cominciare dai valori fondanti del processo risorgimentale stesso: la libertà (ispiratrice e promotrice dei primi “moti” del 1821 e ‘31 e della “prima guerra d’indipendenza” nel ‘48), l’unità (condizione e obbiettivo dell’indipendenza) e la nazionalità. Tutti e tre questi valori certamente di ispirazione cristiana, sono stati adottati dall’Illuminismo e dal Positivismo, ma deformandone la concezione e deviandone l’attuazione. Infatti secondo l’antropologia cristiana l’uomo è persona razionale e perciò libera, e non soltanto individuo materiale fisicamente determinato; l’uomo non è individuo isolato ma naturalmente “sociale“, con essenziale bisogno di unità nell’ organizzazione della sua società, della “polis”; l’uomo nasce e vive in una comunità culturale, di tradizioni e di costumi lungamente elaborati da molte generazioni, che costituiscono e identificano – in diverse condizioni geografiche e TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 192 192 Il Tempietto storiche – la più vasta comunità: la nazione. Questi valori, derivati dalla concezione tipicamente cristiana di “persona“, hanno formato culturalmente e politicamente la società europea attraverso una lunga, travagliata esperienza storica. E sono giunti al nostro tempo attraverso varie interpretazioni, sostanziali deformazioni e, spesso, contraddittorie attuazioni. Anche perché, avulsi alla loro radice – la concezione cristiana della persona umana – hanno subito la contaminazione e la deformazione sotto l’influenza delle antropologie individualistiche ha trovato la sua giustificazione teorica nella filosofia dell’empirismo materialistico contrapposto al razionalismo spirituale. Nell’Ottocento, durante il periodo risorgimentale, questa filosofia – e la conseguente antropologia – si è affermata largamente: non solo negli ambienti accademici e dei più alti livelli culturali, ma si è diffusa anche nei più vasti strati – anche mediobassi – dalla società contemporanea europea e, specificamente, italiana; ed ha fornito la giustificazione teorica dell’egoismo in morale e dell’utilitarismo in economia. Principi, questi, che – applicati coerentemente e spregiudicatamente non solo nei rapporti fra individui ma anche in quelli fra gli Stati – hanno prodotto inevitabili conflitti, con reciproci gravissimi danni agli uni e agli altri. Come l’antropologia personalista e il razionalismo spirituale fondano la “polis” sulla cooperazione e la solidarietà fra i suoi membri, e mettono le basi teoriche per il riconoscimento dei “diritti umani” universali – propri della natura umana e non di questa o quella cultura o religione – così l’antropologia individualista e l’empirismo materialista aprono la strada della conflittualità naturale, permanente, fra gli individui (“homo homini lupus”) e fra gli Stati (“bellum omnium contra omnes”) in cui ha sempre ragione quello che è il più forte economicamente, militarmente, demograficamente. Su questi principi e con queste idee è stato costruito, si è affermato e sviluppato lo Stato moderno in tutta l’Europa, sia nelle forme liberali che in quelle autoritarie, dittatoriali. Su questi principi e valori è stata costruito anche lo Stato italiano del Risorgimento: elitario, centralista, in bilico fra il liberalismo politico e l’autoritarismo, fra il liberismo economico e l’interventismo statale. E, fin dalle origini, non solo anticlericale (spiegabile per la “questione romana”), ma anche anticristiano, anzi antireligioso. Ed è solo dalla radicata e largamente diffusa tradizione culturale e sociale del Cattolicesimo che è venuta la capacità di attenuare gli effetti perversi di quelle concezioni dell’uomo e dello Stato, sostenendo e divulgando forme più razionali e umane di convivenza civile fondata sulla solidarietà e sulla cooperazione fra le persone e le loro organizzazioni sociali, Stato compreso. È dalla illuminata presenza di alcuni suoi esponenti ecclesiastici e laici, dal costante impegno religioso e civile del “Magistero” papale e dal non meno TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 193 Il Tempietto impegnato magistero filosofico, storico e letterario di tanti laici cattolici, che sono stati tramandati nella loro integralità e nel loro autentico significato i tre fondamentali principi cristiani della libertà, dell’unità e della nazionalità, come “anima” e base concettuale del Risorgimento. È con le loro proposte programmatiche e con la loro concreta realizzazione – non solo con la critica razionale, ma anche con sempre più vasto impegno operativo sociale – che è stata dimostrata la erronea e deviante interpretazione che di quegli stessi principi stava dando lo Stato moderno, sedicente liberale, unitario e nazionale. Dunque lo Stato doveva essere unitario, ma non uniforme; coordinatore di diversità ma non verticisticamente impositore di un sistema accentratore, mutuato dall’esperienza illuministico-giacobina della Repubblica francese. Doveva essere uno Stato armonizzatore e sintetizzatore di molte diversità – come avevano saputo fare i coloni inglesi in America del secolo precedente. Come stava facendo – pur con l’autoritarismo di Bismark – la Germania, dopo la fine, anche formale, del Sacro Romano Impero e della supremazia asburgica. Cioè la possibilità di costituire uno stato federale. E così avevano proposto alcuni grandi intellettuali cattolici già nel 1848-’49: alquanto utopisticamente il piemontese Vincenzo Gioberti col suo “neoguelfismo” monarchico, e (meno utopisticamente e con diretto impegno personale nelle rivolta di Venezia del ‘49) il dalmata Nicolò Tommaseo col suo federalismo 193 fieramente repubblicano (tanto da rifiutare il seggio senatoriale di nomina regia). Cinquant’anni dopo, nella seconda fase del Risorgimento, quando si cominciarono a constatare gli effetti negativi del liberalismo elitario e dello statalismo accentratore, il cattolicesimo italiano trovò più efficaci argomenti per criticarli e contestarli, ed una meno ostile atmosfera per cominciare a dar vita a concreti interventi sul terreno amministrativo e sociale. Tra gli antesignani il vescovo cremonese Geremia Bonomelli. Nonostante le ombre che continuavano a calare sui rapporti fra Stato e Chiesa, nei primi anni del ‘900 non mancarono, soprattutto negli anni di Giolitti, i negoziati riservati ed i tentativi, dall’una e dell’altra parte, volti a porre su nuove basi i rapporti fra Chiesa e Stato. Fra questi segnali, di particolare importanza la parziale abrogazione del decreto (noto sotto il nome di Non expedit) con il quale era stato fatto divieto ai cattolici di partecipare alla vita pubblica a livello nazionale, all’insegna del motto “né eletti né elettori”. Cominciarono così, nei primi anni del Novecento, ad entrare nell’unica Camera elettiva di allora, quella dei Deputati, alcuni “cattolici deputati”, così chiamati per evitare che essi fossero considerati “deputati cattolici”, in quanto tali in qualche modo espressivi del “mondo cattolico”, se non propriamente della chiesa italiana (Giuseppe Micheli e Filippo Meda furono i due primi “cattolici deputati”). La ricerca storica ha messo ormai in TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 194 194 Il Tempietto chiara evidenza quanto fossero a più riprese condotte trattative fra Stato e Chiesa: ma esse furono periodicamente interrotte, qualche volta per l’intransigenza del Vaticano, più spesso per la persistenza di una mentalità anticlericale che non si rassegnava all’idea di riconoscere una pur simbolica sovranità al Pontefice (conditio sine qua non, questa, posta dalla S. Sede per la prosecuzione delle trattativa, in vista della garanzia che da una pur minuscola sovranità territoriale sarebbe derivata alla sua indipendenza). Così quell’accordo che, nella maggioranza degli spiriti, era già maturo nei primi anni del ‘900, fu rinviato – a causa della prima guerra mondiale e dei successivi sommovimenti sociali – al 1929, consentendo così a Mussolini di appropriarsi dei frutti di un lungo lavoro preparatorio svolto dalle componenti conciliatoristiche dell’una e dell’altra parte. Non stupisce, in questo contesto, il pressochè corale consenso dato dai cattolici ai Patti Lateranensi; se non mancarono le riserve (particolarmente autorevoli quelle di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi) esse riguardarono non la sostanza degli accordi ma alcuni aspetti di essi, soprattutto quelli che potevano essere interpretati come un avallo al regime fascista e sembravano aprire la strada ad una sorta di “Stato cattolico” accentratore ed autoritario, apparentemente rispettoso dei diritti della Chiesa ma in realtà orientato ad un uso strumentale del cattolicesimo a sostegno di uno Stato autoritario. Era acuta, in questi due grandi esponenti del cattolicesimo democratico, la percezione dei rischi che la Chiesa avrebbe potuto correre se i Patti Lateranensi si fossero trasformati, da patto per la soluzione dell’antico contrasto fra Stato e Chiesa, in una sorta di legittimazione dello Stato fascista: di uno Stato che già nel 1929 rivendicava un totale dominio sulla società, a partire dall’educazione dei giovani. Su questo terreno si consumò, come noto, già nel 1931 un distacco, mai più sanato, tra il regime e la coscienza cattolica. Così, ad appena due anni dal Concordato – e dopo il duro conflitto fra regime e Azione cattolica apertosi nel 1931 – cadevano le illusioni circa la possibile “cristianizzazione”del fascismo e si ponevano le basi del progressivo distacco della Chiesa dal fascismo che si sarebbe consumato con le leggi razziali e la fatale alleanza con Hitler. Caduto il regime fascista fu comune, fra le forze politiche più responsabili, la convinzione che non si dovesse riaprire la ferita della “questione romana”: poche furono, in effetti, le voci che pur si levarono dopo il 1945 a favore della pura e semplice abrogazione dei Patti Lateranensi. Si comprese, da parte dei cattolici – ma anche da parte di consistenti componenti tanto della cultura socialista e comunista quanto di quella liberale – che era preferibile non rimettere in discussione i Patti e procedere semmai ad una loro revisione e reinterpretazione, anche alla luce dei principi ispiratori della nuova Costituzione, che collocava gli stessi Patti Lateranensi all’interno di TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 195 Il Tempietto una ben diversa e più vasta cornice. Per questa via le parti caduche dei Patti lateranensi sono state progressivamente erose dalla sentenze della Corte Costituzionale, dalla grande dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae (1965), dagli Accordi di revisione del 1984. Riemergeranno, inevitabilmente, diverse forme di potenziale conflittualità fra Stato e Chiesa – perché le “diarchie”, secondo la citata espressione di Sturzo, non sono mai facili. Come ricorda lo storico delle dottrine politiche Giorgio Campanini non si possono negare alcune benemerenze dello Stato unitario uscito dal processo 195 risorgimentale, né ha senso domandarsi quale sarebbe stato il corso delle storia d’Italia se fosse stato accettato – sia dal Pontefice sia dagli Stati pre-unitari – il programma “neoguelfo” di Gioberti. Quella di oggi è, irrevocabilmente, l’Italia che ha preso corpo a partire da quel complesso processo storico che ha preso l’avvio 150 anni fa con l’impresa dei Mille; né si può tornare indietro; ma il passato non può essere considerato una prigione dalla quale sia impossibile uscire, bensì una sollecitazione ad una nuova progettualità di una Nazione-Italia nella quale anche i cattolici possano recitare degnamente la loro parte. TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 196 196 Il Tempietto Il Risorgimento e l’unità europea Sandro Capitanio - Movimento Federalista Europeo C on la ricorrenza dei 150 dalla nascita dello Stato italiano, nascono occasioni per riflettere su alcuni aspetti della storia risorgimentale che la mitologia nazionalista aveva parzialmente nascosto o travisato. Tra gli aspetti importanti vi è senza dubbio anche quello che stiamo trattando in questo convegno e che è stato oggetto degli ultimi numeri della rivista Il Tempietto, vale a dire il ruolo dei cattolici nel processo di unificazione italiana. A ben vedere sembra strano che questo sia stato un aspetto sostanzialmente trascurato nel passato; sembra impossibile ritenere infatti che in un paese a stragrande maggioranza cattolica, prima e dopo l’unità d’Italia, i cattolici non abbiano svolto un ruolo decisivo nel processo unitario. Un altro tema che è stato trascurato è l’idea di Europa nel Risorgimento. La rivista Il Tempietto ha dedicato numerosi articoli all’Europa e nell’ultimo numero in particolare a Mazzini e l’Europa. È opportuno precisare che il tema dell’Europa non fu di esclusivo interesse di Mazzini ma fu presente in tutte le componenti del Risorgimento italiano. Questo è spiegabile se si pensa che l’Europa della prima parte dell’800 era quella uscita dal Congresso di Vienna (1815), quella del “concerto europeo” che garantiva una forte stabilità tra gli Stati; e dove il ricorso alla guerra aveva un carattere eccezionale. Questa condizione di equilibrio sostanzialmente pacifico, favoriva la convinzione che l’unità europea fosse sicuramente destinata a rafforzarsi e che la nascita dell’Europa delle Nazioni avrebbe inevitabilmente aumentato il liberismo internazionale e la collaborazione pacifica tra gli Stati. In questo contesto trovavano spazio anche gli interessi e gli ideali della Chiesa, per loro natura eminentemente sovranazionali. Era quindi diffusa tra gli intellettuali promotori dell’unità italiana, sia i moderati, sia i più rivoluzionari mazziniani, sia i liberali-radicali, l’idea che l’Europa, pur articolata in Stati sovrani, avrebbe in qualche modo assicurato un sistema politico unitario. E l’idea nazionale, che pure era presente nel mondo letterario (Foscolo, Leopardi, Manzoni), non era poi così diffusa a livello di coscienza politica, se si escludono i mazziniani, e anche per loro occorrerà fare alcune precisazioni. Quello che mancò, salvo in Cattaneo, fu però l’idea di creare istituzioni statuali sovranazionali. Ciò unificava i protagonisti del Risorgimento era soprattutto l’idea della democrazia, dei valori liberali, delle Costituzioni. Valori e idee che non erano solo italiani, bensì appunto europei. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 197 Il Tempietto È proprio ai modelli europei che si ispiravano i patrioti, agli esempi che, anche con alterne fortune, accadevano in Francia, Inghilterra, Spagna. Erano gli stessi ideali che mobilitavano i patrioti tedeschi, polacchi, ungheresi ecc che infatti si sentirono uniti agli italiani; ideali che coinvolgevano anche gran parte della società europea che guardava con simpatia e sostegno all’Italia. Tra i protagonisti del Risorgimento che parlarono d’Europa,Vincenzo Gioberti (1801-1852) è uno degli autori più importanti del partito dei moderati. Tra le correnti che, dopo il 1831 ed il 1848, guidarono gli italiani dalle vecchie nazionalità regionali all’idea italiana mentre i mazziniani erano una minoranza rivoluzionaria, mossa soprattutto da incentivi ideologici, i moderati appartenevano alla classe politica al potere o vicina al potere e pensavano quindi all’unità italiana in funzione dei bisogni economici e sociali dei ceti più attivi della popolazione, la vedevano come una graduale evoluzione e non come un processo di totale rottura rispetto al sistema degli Stati regionali. Il loro cosiddetto programma federale, in realtà mirava ad una confederazione di Stati sovrani con però l’importante aggiunta della modernizzazione in senso costituzionale e liberista degli Stati regionali. Il Gioberti del “Primato morale e civile degli italiani”, non si limita al progetto di unire l’Italia attraverso una “Federazione” (in realtà una confederazione) basata sugli Stati regionali nella pienezza della loro sovranità e su una dieta confederale 197 presieduta dal Papa. Con un mezzo quasi uguale a quello proposto per l’Italia, il Gioberti vuole unire anche l’Europa. A suo parere l’Europa, a differenza dagli altri continenti, possedeva un’unità etnografica, morale, religiosa, civile; unità messa in crisi dalla Riforma, che avrebbe potuto essere ristabilita per mezzo del diritto ecclesiastico, lasciando gli Stati così come erano ma subordinandoli al potere unificativo e pacifico del Pontefice. Il pensiero di una sostanziale unità dell’Europa era diffuso tra i moderati, indipendentemente dalla visione religiosa o meno, come ad esempio in D’Azeglio ed in Cavour. I moderati quindi concepirono l’unità nazionale come mezzo per rinvigorire l’Italia e unirla più attivamente all’Europa, e quindi anche per loro i valori supernazionali ebbero grande importanza nel processo che portò all’unità dell’Italia. Naturalmente essi non tenevano conto del fatto che la nascita delle nazioni avrebbe sconvolto la situazione di potere sulla quale si reggevano l’equilibrio europeo ed il liberismo internazionale usciti dal Congresso di Vienna, questione che fu invece ben compresa da Cattaneo. Carlo Cattaneo (1801-1869) nell’800 fu l’unico pensatore italiano federalista: comprese i limiti dello Stato nazionale e capì la necessità degli Stati Uniti d’Europa. Nelle sue Memorie sull’insurrezione di Milano del 1848 affermò: “Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d’Europa”. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 198 198 Il Tempietto Aveva visto, come altri pensatori europei (Constantin Frantz in Germania e Pierre-Joseph Proudhon in Francia), gli aspetti negativi della formula politica dello Stato nazionale unitario. Aveva intuito il rapporto profondo che esiste tra la guerra e la sovranità assoluta degli Stati, tra l’anarchia internazionale e il prevalere all’interno degli Stati di tendenze accentratrici, militariste ed autoritarie. Di conseguenza aveva contestato la pretesa dello Stato unitario di presentarsi come la formula più elevata di organizzazione politica. Egli aveva un’idea precisa delle innovazioni istituzionali contenute nelle Costituzioni degli Stati Uniti e della Confederazione Elvetica e contribuì a diffonderne la conoscenza. La concezione dell’Europa di Giuseppe Mazzini (1805-1872) è diversa da quella di Cattaneo, è più di tipo confederale che federale, anche se Mazzini critica proprio il confederalismo del Gioberti. Si può considerare Mazzini un precursore del processo di unificazione europea di oggi? A questa domanda hanno risposto alcuni studiosi del pensatore genovese e, pur con alcune differenze, mi sembra che abbiano concluso che Mazzini non può essere definito un propugnatore della costruzione di uno Stato Federale Europeo, ciononostante deve essere considerato tra i precursori dell’unità europea perché nel suo pensiero si trovano tutti gli elementi che stanno alla base dell’idea e delle ragioni che conducono alla costruzione dell’Europa. Anche se Mazzini fu dominato da una sola decisiva passione, quella della lotta per l’Italia, la sua figura ha comunque diritto ad un posto di rilievo nella storia dell’idea federalistica per la forte componente supernazionale del suo pensiero politico. Non c’è in lui contraddizione tra il dedicare ogni sua energia alla lotta per l’unificazione italiana e la sua costante fedeltà all’idea dell’unità dell’Europa e del genere umano. Nazione e umanità per lui sono termini complementari, l’egoismo nazionale per lui era il tradimento del principio di unità del genere umano. Mazzini afferma “la Nazione è il mezzo, l’Umanità è il fine”. Egli ha lasciato germi fecondi che ne fanno un precursore dell’Europa e per questo merita quindi di essere più conosciuto e studiato. Infatti continua ad essere di attualità la concezione religiosa che egli aveva della “solidarietà tra i popoli”, per la difesa della democrazia e della giustizia, contro la conservazione e contro il culto della ragion di Stato ed il disprezzo dei diritti dell’individuo. Questa concezione della solidarietà implica l’idea della obbligatorietà morale dell’intervento internazionale contro la pretesa della assoluta sovranità degli Stati. Ne discende che tale obbligatorietà si deve basare su un fondamento giuridico, grazie ad una Costituzione che riconosca un ordine statale sopra gli Stati: ciò vuol dire creare un nuovo diritto internazionale e creare un sistema federale. Il valore e la grandezza dell’insegnamento di Mazzini stanno nella sua convinzione che “la TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 199 Il Tempietto democrazia, la libertà, la difesa della dignità dell’uomo o sono solidali a livello europeo o sono destinati a perire”. Perché questo spirito europeo non si realizzò? Raggiunta l’unità italiana – anche se, come sappiamo, attraverso un processo che vide Mazzini emarginato – il nuovo Stato si trovò in un contesto europeo modificato, dove altri Stati operavano per un loro rafforzamento, anche militare, Germania e Francia in particolare: per l’Italia fu necessario seguirne l’esempio, farsi potenza tra le potenze. Inoltre si verificarono anche situazioni interne all’Italia che spinsero ad una scelta accentratrice del nuovo Stato (dalla guerra civile detta del brigantaggio, alla necessità di tentare di superare le forti differenze economiche e strutturali, alla necessità di costruire una scuola e quindi una cultura “italiana”, ai problemi causati dal contrasto del nuovo Stato con la Chiesa). Come disse D’Azeglio, fatta l’Italia bisognava fare gli italiani; 199 progetto non certo facile se si pensa che alle elezioni del primo Parlamento italiano poté partecipare solo il due per cento della popolazione. Secondo Mario Albertini, un importante autore e studioso federalista, è a partire da questo momento che si passa da un diffuso sentimento sovranazionale europeo alla concezione “nazionalistica”, all’abbandono cioè dell’idea, specie mazziniana, della Nazione portatrice di valori di pace e di fratellanza: è la Nazione stessa che diventerà un valore a se stante, che soffocherà e sottometterà gli stessi valori democratici, liberali e socialisti ed anche religiosi. Fu così che non nacque l’Europa sognata da Mazzini, ma quella che portò all’esasperazione del nazionalismo e successivamente anche alla tragedia delle due guerre del ‘900. Solo alla fine della seconda guerra mondiale, a partire da tutta la Resistenza europea, si recuperarono gli ideali sovranazionali e si riaprì il processo unitario dell’Europa, che tuttavia deve ancora essere completato. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 200 200 Il Tempietto A propostio della partecipazione dei cattolici italiani alla formazione dello stato unitario Giovanni B. Varnier - Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Genova Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia rappresenta l’occasione per concretare una serie di manifestazioni celebrative, considerando le quali, chi come me di questo secolo e mezzo ne ha vissuto ben più di un terzo e ricorda gli eventi del 1961, è colpito dall’abbandono della lettura della storia del Risorgimento compiuta prevalentemente come storia del patriottismo italiano il quale, attraverso una serie di lotte, realizza l’indipendenza e l’unità nazionale. Un passaggio che, per il mondo cattolico, si è manifestato nel superamento dei residui di un antico distacco dal moto unitario per giungere al trionfalismo identitario di oggi. Fenomeno che, in ultima analisi, – partendo dall’osservazione retrospettiva della supplenza istituzionale esercitata dalla Chiesa nell’odierna crisi dell’Italia – ci conduce all’esagerazione opposta di cadere in una lettura che vorrebbe i cattolici italiani quali soci fondatori dello Stato unitario. In tutto questo dimenticando il non expedit e quel dibattito, di cui è ricca la manualistica di teologia morale del secondo Ottocento, incentrato sulla liceità o meno del voto politico dei cattolici italiani. Ovviamente del presente anniversario è ancora presto per valutare gli esiti, ma si può cercare di tracciare qualche nota, partendo proprio dalle odierne manifestazioni celebrative, non poche delle quali appaiono di dubbio valore culturale e tali da essere collocate nella categoria del più effimero revisionismo. Nel bilancio rientra certamente la lettura della partecipazione dei cattolici italiani alla formazione dello Stato unitario; un capitolo che oggi è più che mai aperto nella prospettiva di superare vecchie e superficiali polemiche, che periodicamente vengono a ripresentarsi. In tale quadro è da porre la pubblicazione, da parte dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, di un’opera, la cui direzione scientifica è affidata ad Alberto Melloni, che ha come titolo: Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato 1861-2011. Si tratta di un prodotto culturale di pregio, a cui però si può imputare il fatto che l’alto costo editoriale non può certo facilitare la diffusione di quello che – negli intenti dei promotori – intente essere un contributo per l’analisi scientifica e per un quadro storiografico. Ma qui si innesta un tratto negativo dell’opera sopra richiamata, che è rappresentato dal taglio editoriale che ha condotto alla scelta, tra gli autori, di nomi di qualificati studiosi accanto ad altri di giovani esordienti in larga maggioranza esponenti di un mondo culturale vicino agli orientamenti ideologici dei soggetti proponenti. Proprio alla luce di questo risulta ormai indiscutibile la fortuna TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 201 Il Tempietto politica del cattolicesimo di sinistra rispetto a quello moderato o di destra ed è chiaro che a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso la cultura cattolica italiana finisce con l’essere rappresentata da esponenti appartenenti all’area cosiddetta progressista; come, con parti invertite, successe nel primo Novecento quando fu egemone il pensiero cattolico di orientamento nazionalista. Orbene, senza lasciarsi travolgere da quelle che potrebbero apparire soltanto delle recriminazioni, aggiungo subito che, nonostante quello che si sostiene – più per moda che per reale indirizzo storiografico – io non credo che il contributo dei cattolici all’unificazione italiana sia stato particolarmente rilevante. Integrando questa opinione con il fatto che per una valutazione complessiva di tale contributo è opportuno allargare la riflessione agli interi 150 anni di vita unitaria. Una valutazione che deve essere diversa dalle posizioni, ancor più negative, assunte dalla Chiesa cattolica di fronte all’unità d’Italia. Ricordo, solo come esempio, che nel 1867 La Civiltà Cattolica, all’indomani delle leggi eversive del patrimonio ecclesiastico, si riferì al regno d’Italia, definendolo “così detto” e che “nato col latrocinio e col sacrilegio, non per altre vie, che per questa cerca di conservarsi”. Tornando all’apporto dei cattolici italiani alla formazione dello Stato unitario, si tratta in primo luogo di ricondurre ad una lettura meno totalizzante il contributo di Vincenzo Gioberti (che, sebbene sacerdote, fu esclusivamente un politico senza alcuna impronta di fede) e di Antonio Rosmini. Questo senza negare il 201 peso delle istanze federalistiche, che segnarono un contrasto deciso del giacobinismo illuminista e che si fecero portavoce delle richieste di autonomia provenienti dal contesto locale della società italiana. Si ricordi poi che il federalismo sembrò la sola soluzione possibile per il fatto che lo Stato della Chiesa si estendeva dal mare Tirreno all’Adriatico e chiaramente rappresentava un ostacolo a ogni progetto unitario tra Nord e Sud della Penisola, specialmente allorché la difesa del potere temporale del pontefice venne elevata quasi a dogma religioso. Inoltre non si deve dimenticare che l’istanza federale restò presente nel pensiero cattolico e trovò poi spazio nel terreno delle autonomie, sfociando nel riconoscimento contenuto nella Costituzione italiana. Con questi presupposti all’infatuazione giobertiana di intendere il cattolicesimo italiano come forza politica vantaggiosa per la realizzazione del disegno di unità nazionale, si sommò l’entusiasmo per il programma neo-guelfo, che proponeva di mettere il papa a capo di una federazione che riunisse tutti i sovrani italiani e che vide clero e fedeli di varie regioni recare alla causa nazionale un appoggio, se non totale almeno molto vasto. A questo si oppose l’errore degli anticlericali, che – specialmente dopo l’unificazione – sottovalutarono il radicamento della fede cattolica nell’animo degli italiani, separando in modo netto la Chiesa dallo Stato e dando il via a quel periodo storico che Arturo Carlo Jemolo definì gli anni del dilaceramento. Per alcuni decenni nelle pubbliche istituzioni si annidò un deciso anticlericalismo che ebbe una duplice TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 202 202 Il Tempietto matrice: filosofica (di stampo illuministico) e politica (con caratteristiche prettamente italiana). La prima intendeva lottare contro l’ingerenza della Chiesa cattolica nella sfera pubblica per liberare la società dai vincoli e dai privilegi confessionali, mentre la seconda combatteva il potere temporale dei papi per realizzare l’unità nazionale e poi per mantenere le posizioni di governo del Paese. A ciò si sommi che più tardi, in età umbertina, oltre a forti momenti di anticlericalismo politico, il Risorgimento fu areligioso e cercò di sostituire il cattolicesimo – reso privato – con il culto pubblico della religione della Patria. Accanto a ciò si deve aggiungere che, alla luce dell’analisi della politica ecclesiastica italiana, l’affermazione libera Chiesa in libero Stato si rivela una mera formula retorica, dettata da ragioni politiche e diplomatiche. Resta invece la sincerità della passione di tanta parte della classe dirigente risorgimentale la quale – pur dovendosi piegare alle esigenze del contingente – coltivò nel proprio animo la fedeltà all’appartenenza nazionale, senza venire a compromesso con la coscienza religiosa e trovando l’appoggio di una parte del clero e in schiere di fedeli. Quello che ebbero ben chiaro i cattolici liberali nel Risorgimento è l’importanza del cattolicesimo nella formazione storica e culturale della nazione italiana, proprio ciò che oggi da un lato viene sopravalutato e da altri rimesso in discussione. Vi fu una larga parte della cultura dei cattolici, espressa dal pensiero intransigente, che non accettò il processo verso l’unità e le cui linee di orientamento non risultarono valutate in modo equilibrato per una sorta di giudizio previo. Riandando al primo congresso cattolico italiano, svoltosi a Venezia dal 12 al 19 giugno 1874, osserviamo come nella generale incertezza diffusa in quegli anni tra le schiere del campo cattolico e di fronte agli eventi politico-militari che avevano radicalmente trasformato la Penisola e che avevano visto i cattolici divisi tra intransigenti e liberali, venne a delinearsi il deciso predominio dei primi, con il tramonto del cattolicesimo liberale e con l’affermarsi di quella che Giovanni Spadolini definì: l’opposizione cattolica. Bisognerà attendere con il Patto Gentiloni l’apertura al cattolicesimo politico e poi – durante il pontificato di Benedetto XV – l’esperienza del Partito Popolare Italiano, che si concretò avendo quale base un programma politico differente dall’antica affermazione dei conciliatoristi: cattolici con il Papa e liberali con lo Statuto. Analogamente i seguaci del separatismo non dovrebbero considerare le fedi come un retaggio del passato e, quindi, continuare a perseguire lo sradicamento dei sentimenti religiosi dalla società, riconoscendone, invece, l’indispensabilità, specialmente se si vogliono conservare salde le tradizioni culturali del mondo occidentale ed evitare che i credenti si sentano perseguitati. Sarà un contributo costruttivo a questo 150° anniversario se con discernimento staremo lontani dall’effimero di cui si è detto e, inoltre, cercheremo di indirizzare lo sguardo oltre il mito, ma senza costruire nuovi miti. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 203 17 Marzo 2011 Benedetto XVI Giorgio Napolitano Angelo Bagnasco TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 204 TEMPIETTO 12_Layout 1 19/12/11 09.30 Pagina 205 Il Tempietto 205 Messaggio del Santo Padre al Presidente della Repubblica italiana in occasione dei 150 anni dell’unità politica d’Italia, 16/03/2011 Illustrissimo Signore, On. GIORGIO NAPOLITANO, Presidente della Repubblica Italiana. Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni. Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico. San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 206 206 Il Tempietto della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale. Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a “fare gli italiani”, cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: “cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa”. La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 207 Il Tempietto individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro. Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politicoistituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di “Questione Romana”, suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale “Conciliazione”, nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto. Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il “non expedit”, rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa. Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di 207 ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della “Questione Romana” attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: “Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai”. L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 208 208 Il Tempietto Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema “Costituzione e Costituente”. Da lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella “grande preghiera per l’Italia” indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994. La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come “strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria”. Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo “la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune”. L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 209 Il Tempietto distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, “anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane” (Cost. Gaudium et spes, 76). L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella “promozione dell’uomo e del bene del Paese” che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come afferma il Concilio Vaticano II: “chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni” (Cost. Gaudium et spes, 44). Nel guardare al lungo divenire della 209 storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla “questione romana”, giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata. Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace. Dal Vaticano, 17 marzo 2011 BENEDICTUS PP. XVI TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 210 210 Il Tempietto Intervento del Presidente Napolitano alla seduta del Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia Montecitorio, 17/03/2011 S ento di dover rivolgere un riconoscente saluto ai tanti che hanno raccolto l’appello a festeggiare e a celebrare i 150 anni dell’Italia unita: ai tanti cittadini che ho incontrato o che mi hanno indirizzato messaggi, esprimendo sentimenti e pensieri sinceri, e a tutti i soggetti pubblici e privati che hanno promosso iniziative sempre più numerose in tutto il Paese. Istituzioni rappresentative e Amministrazioni pubbliche: Regioni e Provincie, e innanzitutto municipalità, Sindaci anche e in particolare di piccoli Comuni, a conferma che quella è la nostra istituzione di più antica e radicata tradizione storica, il fulcro dell’autogoverno democratico e di ogni assetto autonomistico. Scuole, i cui insegnanti e dirigenti hanno espresso la loro sensibilità per i valori dell’unità nazionale, stimolando e raccogliendo un’attenzione e disponibilità diffusa tra gli studenti. Istituzioni culturali di alto prestigio nazionale, Università, Associazioni locali legate alla memoria della nostra storia nei mille luoghi in cui essa si è svolta. E ancora, case editrici, giornali, radiotelevisioni, in primo luogo quella pubblica. Grazie a tutti. Grazie a quanti hanno dato il loro apporto nel Comitato interministeriale e nel Comitato dei garanti, a cominciare dal suo Presidente. Comune può essere la soddisfazione per questo dispiegamento di iniziative e contributi, che continuerà ben oltre la ricorrenza di oggi. E anche, aggiungo, per un rilancio, mai così vasto e diffuso, dei nostri simboli, della bandiera tricolore, dell’Inno di Mameli, delle melodie risorgimentali. Si è dunque largamente compresa e condivisa la convinzione che ci muoveva e che così formulerò: la memoria degli eventi che condussero alla nascita dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso successivamente compiuto, possono risultare preziose nella difficile fase che l’Italia sta attraversando, in un’epoca di profondo e incessante cambiamento della realtà mondiale. Possono risultare preziose per suscitare le risposte collettive di cui c’è più bisogno: orgoglio e fiducia; coscienza critica dei problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide da affrontare; senso della missione e dell’unità nazionale. È in questo spirito che abbiamo concepito le celebrazioni del Centocinquantenario. Orgoglio e fiducia, innanzitutto. Non temiamo di trarre questa lezione dalle vicende risorgimentali! Non TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 211 Il Tempietto lasciamoci paralizzare dall’orrore della retorica: per evitarla è sufficiente affidarsi alla luminosa evidenza dei fatti. L’unificazione italiana ha rappresentato un’impresa storica straordinaria, per le condizioni in cui si svolse, per i caratteri e la portata che assunse, per il successo che la coronò superando le previsioni di molti e premiando le speranze più audaci. Come si presentò agli occhi del mondo quel risultato? Rileggiamo la lettera che quello stesso giorno, il 17 marzo 1861, il Presidente del Consiglio indirizzò a Emanuele Tapparelli D’Azeglio, che reggeva la Legazione d’Italia a Londra: “Il Parlamento Nazionale ha appena votato e il Re ha sanzionato la legge in virtù della quale Sua Maestà Vittorio Emanuele II assume, per sé e per i suoi successori, il titolo di Re d’Italia. La legalità costituzionale ha così consacrato l’opera di giustizia e di riparazione che ha restituito l’Italia a se stessa. A partire da questo giorno, l’Italia afferma a voce alta di fronte al mondo la propria esistenza. Il diritto che le apparteneva di essere indipendente e libera, e che essa ha sostenuto sui campi di battaglia e nei Consigli, l’Italia lo proclama solennemente oggi”. Così Cavour, con parole che rispecchiavano l’emozione e la fierezza per il traguardo raggiunto: sentimenti, questi, con cui possiamo ancor oggi 211 identificarci. Il plurisecolare cammino dell’idea d’Italia si era concluso: quell’idea-guida, per lungo tempo irradiatasi grazie all’impulso di altissimi messaggi di lingua, letteratura e cultura, si era fatta strada sempre più largamente, nell’età della rivoluzione francese e napoleonica e nei decenni successivi, raccogliendo adesioni e forze combattenti, ispirando rivendicazioni di libertà e moti rivoluzionari, e infine imponendosi negli anni decisivi per lo sviluppo del movimento unitario, fino al suo compimento nel 1861. Non c’è discussione, pur lecita e feconda, sulle ombre, sulle contraddizioni e tensioni di quel movimento che possa oscurare il dato fondamentale dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale rappresentò per l’insieme degli italiani, per le popolazioni di ogni parte, Nord e Sud, che in esso si unirono. Entrammo, così, insieme, nella modernità, rimuovendo le barriere che ci precludevano quell’ingresso. Occorre ricordare qual era la condizione degli italiani prima dell’unificazione? Facciamolo con le parole di Giuseppe Mazzini – 1845: “Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le nazioni d’Europa; non abbiamo centro comune, né patto comune, né comune mercato. Siamo smembrati in otto Stati, indipendenti l’uno dall’altro... Otto linee doganali.... dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso.... TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 212 212 Il Tempietto otto sistemi diversi di monetazione, di pesi e di misure, di legislazione civile, commerciale e penale, di ordinamento amministrativo, ci fanno come stranieri gli uni agli altri”. E ancora, proseguiva Mazzini, Stati governati dispoticamente, “uno dei quali – contenente quasi il quarto della popolazione italiana – appartiene allo straniero, all’Austria”. Eppure, per Mazzini era indubitabile che una nazione italiana esistesse, e che non vi fossero “cinque, quattro, tre Italie” ma “una Italia”. Fu dunque la consapevolezza di basilari interessi e pressanti esigenze comuni, e fu, insieme, una possente aspirazione alla libertà e all’indipendenza, che condussero all’impegno di schiere di patrioti – aristocratici, borghesi, operai e popolani, persone colte e incolte, monarchici e repubblicani – nelle battaglie per l’unificazione nazionale. Battaglie dure, sanguinose, affrontate con magnifico slancio ideale ed eroica predisposizione al sacrificio da giovani e giovanissimi, protagonisti talvolta delle imprese più audaci anche condannate alla sconfitta. È giusto che oggi si torni ad onorarne la memoria, rievocando episodi e figure come stiamo facendo a partire, nel maggio scorso, dall’anniversario della Spedizione dei Mille, fino all’omaggio, questa mattina, ai luoghi e ai prodigiosi protagonisti della gloriosa Repubblica romana del 1849. Sono fonte di orgoglio vivo e attuale per l’Italia e per gli italiani le vicende risorgimentali da molteplici punti di vista, ed è sufficiente sottolinearne alcuni. In primo luogo, la suprema sapienza della guida politica cavouriana, che rese possibile la convergenza verso un unico, concreto e decisivo traguardo, di componenti soggettive e oggettive diverse, non facilmente componibili e anche apertamente confliggenti. In secondo luogo, l’emergere, in seno alla società e nettamente tra i ceti urbani, nelle città italiane, di ricche, forse imprevedibili riserve – sensibilità ideali e politiche, e risorse umane – che si espressero nello slancio dei volontari come componente attiva essenziale al successo del moto unitario, e in un’adesione crescente a tale moto da parte non solo di ristrette élite intellettuali ma di strati sociali non marginali, anche grazie al diffondersi di nuovi strumenti comunicativi e narrativi. E in terzo luogo vorrei sottolineare l’eccezionale levatura dei protagonisti del Risorgimento, degli ispiratori e degli attori del moto unitario. Una formidabile galleria di ingegni e di personalità – quelle femminili fino a ieri non abbastanza studiate e ricordate – di uomini di pensiero e d’azione. A cominciare, s’intende, dai maggiori: si pensi, non solo a quale impronta fissata nella storia, ma a quale lascito cui attingere ancora con rinnovato fervore di studi e generale interesse, rappresentino il mito mondiale, senza eguali – che non era TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 213 Il Tempietto artificiosa leggenda – di Giuseppe Garibaldi, e le diverse, egualmente grandi eredità di Cavour, di Mazzini e di Cattaneo. Quei maggiori, lo sappiamo, tra loro dissentirono e si combatterono: ma ciascuno di essi sapeva quanto l’apporto degli altri concorresse al raggiungimento dell’obbiettivo considerato comune, anche se ciò non valse a cancellare contrasti di fondo e poi tenaci risentimenti. Ho detto dei principali protagonisti, ma molti altri nomi – del campo moderato, dell’area cattolicoliberale, e del campo democratico – potrebbero essere richiamati a testimonianza di una straordinaria fioritura di personalità di spicco nell’azione politica, nella società civile, nell’amministrazione pubblica. Questi fortificanti motivi di orgoglio italiano trovano d’altronde riscontro nei riconoscimenti che vennero in quello stesso periodo e successivamente, dall’esterno del nostro paese, da esponenti della politica e della cultura storica d’altre nazioni; riconoscimenti della portata europea della nascita dell’Italia unita, dell’impatto che essa ebbe su altre vicende di nazionalità in movimento nell’Europa degli ultimi decenni dell’Ottocento e oltre. Né si può dimenticare l’orizzonte europeo della visione e dell’azione politica di Cavour, e la significativa presenza, nel bagaglio ideale risorgimentale, della generosa utopia degli Stati Uniti d’Europa. Nell’avvicinarsi del Centocinquantenario si è riacceso in Italia il dibattito sia attorno ai limiti e ai condizionamenti che 213 pesarono sul processo unitario sia attorno alle più controverse scelte successive al conseguimento dell’Unità. Sorvolare su tali questioni, rimuovere le criticità e negatività del percorso seguito prima e dopo al 1860-61, sarebbe davvero un cedere alla tentazione di racconti storici edulcorati e alle insidie della retorica. Sono però fuorvianti certi clamorosi semplicismi: come quello dell’immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l’Unità poco oltre il limite di un Regno dell’Alta Italia: di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva all’ideale del movimento nazionale (come Cavour ben comprese, ci ha insegnato Rosario Romeo) – visione e scelta che l’impresa garibaldina, la Spedizione dei Mille rese irresistibile. L’Unità non poté compiersi che scontando limiti di fondo come l’assenza delle masse contadine, cioè della grande maggioranza, allora, della popolazione, dalla vita pubblica, e dunque scontando il peso di una questione sociale potenzialmente esplosiva. L’Unità non poté compiersi che sotto l’egida dello Stato più avanzato, già caratterizzato in senso liberale, più aperto e accogliente verso la causa italiana e i suoi combattenti che vi fosse nella penisola, e cioè sotto l’egida della dinastia sabauda e della classe politica moderata del Piemonte, impersonata da Cavour. Fu quella la condizione obbiettiva riconosciuta con generoso realismo da Garibaldi, pur democratico e repubblicano, col suo “Italia e Vittorio Emanuele”. E se lo scontro tra garibaldini ed Esercito Regio sull’Aspromonte è rimasto traccia TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 214 214 Il Tempietto dolorosa dell’aspra dialettica di posizioni che s’intrecciò col percorso unitario, appare singolare ogni tendenza a “scoprire” oggi con scandalo come le battaglie sul campo per l’Unità furono ovviamente anche battaglie tra italiani, similmente a quanto accadde dovunque vi furono movimenti nazionali per la libertà e l’indipendenza. Ma al di là di semplicismi e polemiche strumentali, vale piuttosto la pena di considerare i termini della riflessione e del dibattito più recente sulle scelte che vennero adottate subito dopo l’unificazione dalle forze dirigenti del nuovo Stato. E a questo proposito si sono registrati seri approfondimenti critici: che non possono tuttavia non collocarsi nel quadro di una obbiettiva valutazione storica del quadro dell’Italia pre-unitaria quale era stato ereditato dal nuovo governo e Parlamento nazionale. Questi si trovarono dinanzi a ferree necessità di sopravvivenza e sviluppo dello Stato appena nato, che non potevano non prevalere su un pacato e lungimirante esame delle opzioni in campo, specie quella tra accentramento, nel segno della continuità e dell’uniformità rispetto allo Stato piemontese da un lato, e – se non federalismo – decentramento, con forme di autonomia e autogoverno anche al livello regionale, dall’altro lato. E a questo proposito vale ancor oggi la vigorosa sintesi tracciata da un grande storico, che pure fu spirito eminentemente critico, Gaetano Salvemini. “I governanti italiani, fra il 1860 e il 1870, si trovavano” – egli scrisse – “alle prese con formidabili difficoltà”. Quello che s’impose era allora – a giudizio di Salvemini – “il solo ordinamento politico e amministrativo, con cui potesse essere soddisfatto in Italia il bisogno di indipendenza e di coesione nazionale”. E così, attraverso errori non meno gravi delle difficoltà da superare, “fu compiuta” – sono ancora parole dello storico – “un’opera ciclopica. Fu fatto di sette eserciti un esercito solo... Furono tracciate le prime linee della rete ferroviaria nazionale. Fu creato un sistema spietato di imposte per sostenere spese pubbliche crescenti e per pagare l’interesse dei debiti... Furono rinnovati da cima a fondo i rapporti tra lo Stato e la Chiesa”. E fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno. Da un quadro storico così drammaticamente condizionato, e da un’“opera ciclopica” di unificazione, TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 215 Il Tempietto che gettò le basi di un mercato nazionale e di un moderno sviluppo economico e civile, possiamo trarre oggi motivi di comprensione del nostro modo di costituirci come Stato, motivi di orgoglio per quel che 150 anni fa nacque e si iniziò a costruire, motivi di fiducia nella tradizione di cui in quanto italiani siamo portatori; e possiamo in pari tempo trarre piena consapevolezza critica dei problemi con cui l’Italia dové fare e continua a fare i conti. Problemi e debolezze di ordine istituzionale e politico, che – nei decenni successivi all’Unità – hanno inciso in modo determinante sulle travagliate vicende dello Stato e della società nazionale, sfociate dopo la prima guerra mondiale in una crisi radicale risolta con la violenza in chiave autoritaria dal fascismo. Ed egualmente problemi e debolezze di ordine strutturale, sociale e civile. Sono i primi problemi quelli che oggi ci appaiono aver trovato – nello scorso secolo – più valide risposte. Mi riferisco a quel grande fatto di rinnovamento dello Stato in senso democratico che ha coronato il riscatto dell’Italia dalla dittatura totalitaria e dal nuovo servaggio in cui la nazione venne ridotta dalla guerra fascista e dalla disfatta che la concluse. Un riscatto reso possibile dall’emergere delle forze tempratesi nell’antifascismo, e dalla mobilitazione partigiana, cui si affiancarono nella Resistenza le schiere dei militari rimasti fedeli al giuramento. Un riscatto che culminò nella eccezionale temperie ideale e culturale e nel forte clima unitario – più forte 215 delle diversità storiche e delle fratture ideologiche – dell’Assemblea Costituente. Con la Costituzione approvata nel dicembre 1947 prese finalmente corpo un nuovo disegno statuale, fondato su un sistema di principi e di garanzie da cui l’ordinamento della Repubblica, pur nella sua prevedibile e praticabile evoluzione, non potesse prescindere. Come venne esplicitamente indicato nella relazione Ruini sul progetto di Costituzione, “l’innovazione più profonda” consisteva nel poggiare l’ordinamento dello Stato su basi di autonomia, secondo il principio fondamentale dell’articolo 5 che legò l’unità e indivisibilità della Repubblica al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali, riferite, nella seconda parte della Carta, a Regioni, Provincie e Comuni. E altrettanto esplicitamente, nella relazione Ruini, si presentò tale innovazione come correttiva dell’accentramento prevalso all’atto dell’unificazione nazionale. La successiva pluridecennale esperienza delle lentezze, insufficienze e distorsioni registratesi nell’attuazione di quel principio e di quelle norme costituzionali, ha condotto dieci anni fa alla revisione del Titolo V della Carta. E non è un caso che sia quella l’unica rilevante riforma della Costituzione che finora il Parlamento abbia approvato, il corpo elettorale abbia confermato e governi di diverso orientamento politico si siano impegnati ad applicare concretamente. È stata in definitiva recuperata l’ispirazione federalista che si presentò TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 216 216 Il Tempietto in varie forme ma non ebbe fortuna nello sviluppo e a conclusione del moto unitario. All’indomani dell’unificazione, anche i progetti moderatamente autonomistici che erano stati predisposti in seno al governo, cedettero il passo ai timori e agli imperativi dominanti, già nel breve tempo che a Cavour fu ancora dato di vivere e nonostante la sua ribadita posizione di principio ostile all’accentramento benché non favorevole al federalismo. E oggi dell’unificazione celebriamo l’anniversario vedendo l’attenzione pubblica rivolta a verificare le condizioni alle quali un’evoluzione in senso federalistico – e non solo nel campo finanziario – potrà garantire maggiore autonomia e responsabilità alle istituzioni regionali e locali rinnovando e rafforzando le basi dell’unità nazionale. È tale rafforzamento, e non il suo contrario, l’autentico fine da perseguire. D’altronde, nella nostra storia e nella nostra visione, la parola unità si sposa con altre: pluralità, diversità, solidarietà, sussidiarietà. In quanto ai problemi e alle debolezze di ordine strutturale, sociale e civile cui ho poc’anzi fatto cenno e che abbiamo ereditato tra le incompiutezze dell’unificazione perpetuatesi fino ai nostri giorni, è il divario tra Nord e Sud, è la condizione del Mezzogiorno che si colloca al centro delle nostre preoccupazioni e responsabilità nazionali. Ed è rispetto a questa questione che più tardano a venire risposte adeguate. Pesa certamente l’esperienza dei tentativi e degli sforzi portati avanti a più riprese nei decenni dell’Italia repubblicana e rimasti non senza frutti ma senza risultati risolutivi; pesa altresì l’oscurarsi della consapevolezza delle potenzialità che il Mezzogiorno offre per un nuovo sviluppo complessivo del paese e che sarebbe fatale per tutti non saper valorizzare. Proprio guardando a questa cruciale questione, vale il richiamo a fare del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia l’occasione per una profonda riflessione critica, per quello che ho chiamato “un esame di coscienza collettivo”. Un esame cui in nessuna parte del paese ci si può sottrarre, e a cui è essenziale il contributo di una severa riflessione sui propri comportamenti da parte delle classi dirigenti e dei cittadini dello stesso Mezzogiorno. È da riferire per molti aspetti e in non lieve misura al Mezzogiorno, ma va vista nella sua complessiva caratterizzazione e valenza nazionale, la questione sociale, delle disuguaglianze, delle ingiustizie – delle pesanti penalizzazioni per una parte della società – quale oggi si presenta in Italia. Anche qui ci sono eredità storiche, debolezze antiche con cui fare i conti, a cominciare da quella di una cronica insufficienza di possibilità di occupazione, che nel passato, e ancora dopo l’avvento della Repubblica, fece dell’Italia un paese di massiccia emigrazione e oggi convive con il complesso fenomeno del flusso immigratorio, del lavoro degli immigrati e della loro necessaria integrazione. Senza temere di eccedere TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 217 Il Tempietto 217 nella sommarietà di questo mio riferimento alla questione sociale, dico che la si deve vedere innanzitutto come drammatica carenza di prospettive di occupazione e di valorizzazione delle proprie potenzialità per una parte rilevante delle giovani generazioni. E non c’è dubbio che la risposta vada in generale trovata in una nuova qualità e in un accresciuto dinamismo del nostro sviluppo economico, facendo leva sul ruolo di protagonisti che in ogni fase di costruzione, ricostruzione e crescita dell’economia nazionale hanno assolto e sono oggi egualmente chiamati ad assolvere il mondo dell’impresa e il mondo del lavoro, passati entrambi, in oltre un secolo, attraverso profonde, decisive trasformazioni. Ma non è certo mia intenzione passare qui in rassegna l’insieme delle prove che ci attendono. Vorrei solo condividessimo la convinzione che esse costituiscono delle autentiche sfide, quanto mai impegnative e per molti aspetti assai dure, tali da richiedere grande spirito di sacrificio e slancio innovativo, in una rinnovata e realistica visione dell’interesse generale. La carica di fiducia che ci è indispensabile dobbiamo ricavarla dalla esperienza del superamento di molte ardue prove nel corso della nostra storia nazionale e dal consolidamento di punti di riferimento fondamentali per il nostro futuro. cattolica. Dopo il 1861 l’obbiettivo Una prova di straordinaria difficoltà e importanza l’Italia unita ha superato affrontando e via via sciogliendo il conflitto con la Chiesa si manifesta oggi come uno dei punti di forza su cui possiamo far leva per il consolidamento della coesione e unità nazionale. Ce ne ha dato la più alta della piena unificazione nazionale fu perseguito e raggiunto anche con la terza guerra d’indipendenza nel 1866 e a conclusione della guerra 1915-18: ma irrinunciabile era l’obbiettivo di dare in tempi non lunghi al nascente Stato italiano Roma come capitale, la cui conquista per via militare – fallito ogni tentativo negoziale – fece precipitare inevitabilmente il conflitto con il Papato e la Chiesa. Ma esso fu avviato a soluzione con un’intelligenza, moderazione e capacità di mediazione di cui già lo Stato liberale diede il segno con la Legge delle guarentigie nel 1871 e che – sottoscritti nel 1929 e infine recepiti in Costituzione i Patti Lateranensi – sfociò in tempi recenti nella revisione del Concordato. Si ebbe di mira, da parte italiana, il fine della laicità dello Stato e della libertà religiosa e insieme il graduale superamento di ogni separazione e contrapposizione tra laici e cattolici nella vita sociale e nella vita pubblica. Un fine, e un traguardo, perseguiti e pienamente garantiti dalla Costituzione repubblicana e proiettatisi sempre di più in un rapporto altamente costruttivo e in una “collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese” – anche attraverso il riconoscimento del ruolo sociale e pubblico della Chiesa cattolica e, insieme, nella garanzia del pluralismo religioso. Questo rapporto TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 218 218 Il Tempietto testimonianza il messaggio augurale indirizzatomi per l’odierno anniversario – e lo ringrazio – dal Papa Benedetto XVI. Un messaggio che sapientemente richiama il contributo fondamentale del Cristianesimo alla formazione, nei secoli, dell’identità italiana, così come il coinvolgimento di esponenti del mondo cattolico nella costruzione dello Stato unitario, fino all’incancellabile apporto dei cattolici e della loro scuola di pensiero alla elaborazione della Costituzione repubblicana, e al loro successivo affermarsi nella vita politica, sociale e civile nazionale. Ma quante prove superate e quanti momenti alti vissuti nel corso della nostra storia potremmo richiamare a sostegno della fiducia che deve guidarci di fronte alle sfide di oggi e del futuro! Anche a voler solo considerare il periodo successivo alla sconfitta e al crollo del 1943 e poi alla Resistenza e alla nascita della Repubblica, è ancora incancellabile nell’animo di quanti come me, giovanissimi, attraversarono quel passaggio cruciale, la memoria di un abisso di distruzione e generale arretramento da cui potevamo temere di non riuscire a risollevarci. Eppure l’Italia unita, dopo aver scongiurato con sapienza politica rischi di separatismo e di amputazione del territorio nazionale, riuscì a rimettersi in piedi. Il primo, e forse più autentico “miracolo”, fu la ricostruzione, e quindi – nonostante aspri conflitti ideologici, politici e sociali – il balzo in avanti, oltre ogni previsione, dell’economia italiana, le cui basi erano state gettate nel primo cinquantennio di vita dello Stato nazionale. L’Italia entrò allora a far parte dell’area dei paesi più industrializzati e progrediti, nella quale poté fare ingresso e oggi resta collocata grazie alla più grande invenzione storica di cui essa ha saputo farsi protagonista a partire dagli anni ‘50 dello scorso secolo: l’integrazione europea. Quella divenne ed è anche l’essenziale cerniera di una sempre più attiva proiezione dell’Italia nella più vasta comunità transatlantica e internazionale. La nostra collocazione convinta, senza riserve, assertiva e propulsiva nell’Europa unita, resta la chance più grande di cui disponiamo per portarci all’altezza delle sfide, delle opportunità e delle problematicità della globalizzazione. Prove egualmente rischiose e difficili abbiamo dovuto superare, nell’Italia repubblicana, sul terreno della difesa e del consolidamento delle istituzioni democratiche. Mi riferisco a insidie subdole e penetranti, così come ad attacchi violenti e diffusi – stragismo e terrorismo – che non fu facile sventare e che si riuscì a debellare grazie al solido ancoraggio della Costituzione e grazie alla forza di molteplici forme di partecipazione sociale e politica democratica; risorse sulle quali sempre fa affidamento la lotta contro l’ancora devastante fenomeno della criminalità organizzata. In tutte quelle circostanze, ha operato, e ha deciso a favore del successo, un forte cemento unitario, impensabile senza identità nazionale condivisa. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 219 Il Tempietto Fattori determinanti di questa nostra identità italiana sono la lingua e la cultura, il patrimonio storico-artistico e storico-naturale: bisognerebbe non dimenticarsene mai, è lì forse il principale segreto dell’attrazione e simpatia che l’Italia suscita nel mondo. E parlo di espressioni della cultura e dell’arte italiana anche in tempi recenti: basti citare il rilancio nei diversi continenti della nostra grande, peculiare tradizione musicale, o il contributo del migliore cinema italiano nel rappresentare la realtà e trasmettere l’immagine, ovunque, del nostro paese. Ma dell’identità nazionale è innanzitutto componente primaria il senso di patria, l’amor di patria emerso e riemerso tra gli italiani attraverso vicende anche laceranti e fuorvianti. Aver riscoperto – dopo il fascismo – quel valore e farsene banditori non può esser confuso con qualsiasi cedimento al nazionalismo. Abbiamo conosciuto i guasti e pagato i costi della boria nazionalistica, delle pretese aggressive verso altri popoli e delle degenerazioni razzistiche. Ma ce ne siamo liberati, così come se ne sono liberati tutti i paesi e i popoli unitisi in un’Europa senza frontiere, in un’Europa di pace e cooperazione. E dunque nessun impaccio è giustificabile, nessun impaccio può trattenerci dal manifestare – lo dobbiamo anche a quanti con la bandiera tricolore operano e rischiano la vita nelle missioni internazionali – la nostra fierezza nazionale, il nostro attaccamento alla patria italiana, per tutto quel che di nobile e vitale la 219 nostra nazione ha espresso nel corso della sua lunga storia. E potremo tanto meglio manifestare la nostra fierezza nazionale, quanto più ciascuno di noi saprà mostrare umiltà nell’assolvere i propri doveri pubblici, nel servire ad ogni livello lo Stato e i cittadini. Infine, non ha nulla di riduttivo il legare patriottismo e Costituzione, come feci in quest’Aula in occasione del 60° anniversario della Carta del 1948. Una Carta che rappresenta tuttora la valida base del nostro vivere comune, offrendo – insieme con un ordinamento riformabile attraverso sforzi condivisi – un corpo di principii e di valori in cui tutti possono riconoscersi perché essi rendono tangibile e feconda, aprendola al futuro, l’idea di patria e segnano il grande quadro regolatore delle libere battaglie e competizioni politiche, sociali e civili. Valgano dunque le celebrazioni del Centocinquantenario a diffondere e approfondire tra gli italiani il senso della missione e dell’unità nazionale: come appare tanto più necessario quanto più lucidamente guardiamo al mondo che ci circonda, con le sue promesse di futuro migliore e più giusto e con le sue tante incognite, anche quelle misteriose e terribili che ci riserva la natura. Reggeremo – in questo gran mare aperto – alle prove che ci attendono, come abbiamo fatto in momenti cruciali del passato, perché disponiamo anche oggi di grandi riserve di risorse umane e morali. Ma ci riusciremo ad una condizione: che operi nuovamente un forte cemento nazionale unitario, non TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 220 220 Il Tempietto eroso e dissolto da cieche partigianerie, da perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità. Non so quando e come ciò accadrà; confido che accada; convinciamoci tutti, nel profondo, che questa è ormai la condizione della salvezza comune, del comune progresso. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 221 Il Tempietto 221 “Nella Patria paternità e maternità. Una storia e un destino comune” Testo integrale dell’omelia pronunciata il 17 marzo 2011 dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla Messa celebrata nella Basilica di Santa Maria degli Angeli S iamo qui oggi – insieme ai presidenti delle conferenze episcopali regionali per elevare a Dio l’inno di ringraziamento per l’Italia. Non è retorica, né tantomeno nostalgia quella che ci muove, ma la consapevolezza che la Patria che ci ha generato è una preziosa eredità e insieme una esigente responsabilità. L’Eucaristia che stiamo celebrando in questa Basilica di S. Maria degli Angeli – uno degli innumerevoli scrigni di bellezza custoditi dal nostro Paese – ci invita ad oltrepassare le contingenze del momento presente e ad allargare lo sguardo a quella singolare ‘Provvidenza’ che ha condotto gli italiani a diventare sempre più consapevoli dell’Italia. Ben prima dell’Italia in senso stretto, infatti, è esistita una sotterranea tensione morale e spirituale in cui si sono forgiate la lingua e progressivamente la sensibilità e la cultura e che ha condotto, per vie non sempre rettilinee, a dar vita all’Italia. Di essa tutti ci sentiamo oggi orgogliosamente figli perché a lei tutti dobbiamo gran parte della nostra identità umana e religiosa. ‘Signore, la tua bontà dura per sempre’ La Liturgia ci ha posto sulle labbra queste parole e ancor più nel nostro cuore: sentimento di lode e di gratitudine per i doni di Dio, e, tra questi, la grazia di appartenere ad un popolo, di avere una storia e un destino comune, di avere un volto: di non essere civilmente orfani. La Patria, nello stesso linguaggio comune, esprime una paternità, così come la Madrepatria esprime una maternità: il popolo che nasce da ideali alti e comuni, che vive secondo valori nobili di giustizia e solidarietà, che sviluppa uno stile di relazioni virtuose, respira un anima spirituale capace di toccare le menti e i cuori, è un popolo vivo, prende volto, assapora e si riconosce uno, diventa Nazione e Patria, offre sostanza allo Stato. L’unificazione, come ha scritto il santo Padre, Benedetto XVI, al Presidente della Repubblica, ‘è il naturale sbocco di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo’. È questa la vera forza della società e dello Stato, il tesoro più grande da custodire con amore e da trasmettere alle giovani generazioni. Si è parlato di volto: senza volto infatti non ci si incontra, non si riesce a conoscersi, a stimarsi, a correggersi, a camminare insieme, a lavorare per gli stessi obiettivi, ad essere ‘popolo’. Tale volto rivela l’identità plurale e variegata della nostra Patria, in cui convivono peculiarità e tradizioni che si sviluppano in modo armonico e solidale, secondo quello che don Luigi TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 222 222 Il Tempietto Sturzo chiamava il ‘sano agonismo della libertà’. E potremmo aggiungere della operosità. La religione, in genere, e in Italia, le comunità cristiane in particolare, sono state e sono lievito accanto alla gente: sono prossimità di condivisione e di speranza evangelica, sorgente generatrice del senso della vita, memoria permanente di valori morali. I 100.000 campanili della nostra Italia, ispirano un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità cristiana, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato. Come non esprimere, poi, affetto ed ammirazione per Roma, capitale d’Italia, memoria vivente della nostra storia plurimillenaria e provvidenziale sede del Successore di Pietro, centro della Cattolicità! Significative al riguardo le parole del cardinale Giovanni Battista Montini all’indomani del I centenario dell’Unità: ‘Il nome di Roma appare nelle intenzioni divine’ (Campidoglio, 10 ottobre 1962). ‘Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro’ Il Vangelo di oggi evidenzia una delle grandi regole di ogni comunità, la legge della relazione. La nostra vera identità infatti sta nel legame. La beatitudine della vita si pesa nel dare e nel ricevere amore. A partire da dove? A partire dalla regola evangelica che gli esegeti chiamano la regola d’oro: ‘Tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, questo anche voi fate a loro’. Prodigiosa semplificazione della legge etica. Tutta la legge la imparerò a partire da ciò che desidero per me: fate agli altri quello che desiderate per voi. ‘Come agire allora? A partire da me, ma non per me’ (Martin Buber, Il cammino dell’uomo). Nessuno è l’obiettivo di se stesso! Solo uscendo dalla trappola mortale di un individualismo che ha mostrato chiaramente le sue falle e i suoi inganni, sarà possibile ritrovare un bene più ampio e a misura umana, che tutti desideriamo. L’uomo non è una monade gettata per caso nel caos, un caos abitato da innumerevoli altre che vagano come scintille nella notte, ma è relazione, come Dio-Creatore è relazione di persone nell’ intimità del suo essere. Da questa origine deriva nell’uomo un indirizzo di marcia che, prima che essere un imperativo morale, è un’esigenza ontologica, scritta cioè nelle fibre del suo essere uomo. Seguire questa direzione profonda significa per la persona raggiungere se stessa, compiersi, creare una società ricca di relazioni positive. Viceversa, allontanarsi vuol dire negarsi a se stessa, e perdersi in una libertà innamorata di sé: l’individuo è destinato a trovarsi solo con se stesso, e la società che ne consegue sarà tendenzialmente frammentata e insicura, diventerà progressivamente paurosa e aggressiva, ripiegata e autoreferenziale. Il prendersi in carico gli uni gli altri, nella quotidianità dei giorni e degli TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 223 Il Tempietto anni, sarà visto come un insopportabile attentato alla libertà individuale e alla felicità, o come un peso insostenibile per la collettività. Da questo altare, da dove eleviamo un’intesa preghiera per il nostro Pese, la Chiesa rinnova il suo amore per l’Italia e la gioia di servire il popolo italiano secondo il Vangelo. Come 223 Pastori, al nostro Paese auguriamo di far proprie le parole del salmo: ‘Rendo grazie al tuo nome, Signore, per la tua fedeltà e la tua misericordia. Nel giorno in cui t’ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza. Amen’. TEMPIETTO 12_Layout 1 16/12/11 12.23 Pagina 224 finito di stampare nel mese di dicembre 2011 presso arti grafiche bicidi via san felice, 37 d – 16138 genova COPERTINA 12_Layout 1 16/12/11 12.30 Pagina 1 La Rivista vive grazie all’aiuto di persone che apprezzano la cultura. Alberto Rinaldini Ferruccio Lombardo Gian Carlo Giraud Paola Ruminelli Salvatore Vento nr. 12 Redazione: Pubblicazione a cura del CGS Il Tempietto Genova-Sampierdarena Via Carlo Rolando, 15 www.iltempietto.it 150° di esperienza presenza dei religiosi nel sociale € 8,00