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Appunti di viaggio
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Nuova e antica emigrazione
20 agosto 2013
La storia di una giovane nigeriana immigrata
do.co., Eco del Chisone, 17 marzo 2010
Cos'hanno nel cuore le nigeriane che si prostituiscono per le nostre strade? Ecco una
storia.
R.K. è nata in un povero villaggio. Sua madre è morta a 25 anni, affetta da Aids, la peste che in Africa sta uccidendo un'intera generazione, con una crescita continua di
persone colpite dalla malattia. La bimba, come tanti altri minori nelle sue stesse condizioni, è stata affidata ai nonni. Ma anche questi, in un Paese dove la vita media non
supera i 50 anni, sono presto scomparsi. R.K. è stata aiutata da un'amica di sua madre,
una donna poverissima ma pronta ad accoglierla in casa sua, accanto alle proprie figlie. Insieme a queste ragazzine, R.K. a sette anni ha incominciato a fare la buyamsallams, si è trasformata cioè in una piccola venditrice di prodotti agricoli nei mercati.
Pur nella precarietà economica e nell'impossibilità di andare a scuola, R.K. ha conosciuto un periodo sereno fino a quando al villaggio è arrivata una persona che con piccoli doni e grandi promesse si è accattivata la fiducia di tutti. Spergiurava che avrebbe
fatto studiare le bambine, portandole con sé in un posto migliore. Con tanta speranza
la madre adottiva ha affidato a questa donna R.K. e la sua figlia più grande. Le due ragazzine erano contente di partire, ma presto si sono trovate in un incubo.
Strappate dalla loro terra, gettate in una nazione di cui ignoravano la lingua e i costumi, continuamente minacciate che, se si fossero ribellate, sarebbe stata sterminata in
Africa tutta la loro famiglia, sono state costrette a vivere come schiave e avviate alla
prostituzione.
La tratta delle donne e dei bambini ha oggi dimensioni allarmanti. Anche se è difficile
disporre di cifre precise, l'Organizzazione mondiale del lavoro stima in 2,4 milioni il
numero delle vittime; di questi 1,3 milioni sono sfruttati a livello sessuale.
Se ne è parlato anche nel recente incontro di Luserna. Citando le parole di William
Booth, il fondatore dell'Esercito della salvezza, Valeria Fusetti ha concluso il suo intenso messaggio dicendo:
Finché delle donne piangeranno io mi batterò, finché delle giovani si venderanno
nelle vie io mi batterò, finché ci sarà un alcolizzato da aiutare io mi batterò.
Emigranti, non solo valigie di cartone. Roberto Beretta Avvenire, 19 agosto 2013
Dicevano che in America le strade erano pavimentate d’oro. Arrivato là, mi sono
accorto invece che non erano pavimentate per niente. E mi hanno detto che
adesso pavimentarle toccava proprio a me.
Centro culturale aderente al Progetto Culturale delle CEI
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A Ellis Island, la «porta degli Stati Uniti» che oggi è diventata un museo-sacrario
dell’emigrazione, sta affisso quest’amaro apologo italiano che documenta come non
per tutti i nostri connazionali la Merica sia stata l’America – o almeno con quanta santa fatica lo è poi diventata. E però la storiella dice anche un’altra verità meno nota:
ovvero che ci fu una ben organizzata propaganda (dalla quale non è stata immune
nemmeno la Chiesa) per attirare gli italiani oltreoceano; una pubblicità che non si faceva scrupolo di dipingere gli Usa come un irrealistico eden avvalendosi dei più moderni – per l’epoca – mezzi di comunicazione. «Perché non è vero che i siciliani emigrati erano tutti cafoni morti di fame – è la seconda cosa che Marcello Saija dice al visitatore del Museo dell’Emigrazione eoliana di Malfa, sull’isola di Salina –: per esempio
dal nostro arcipelago si partiva non tanto per indigenza, bensì alla ricerca di maggior
fortuna e denari grazie ai commerci».
La prima cosa che invece il professor Saija, docente di Storia delle istituzioni politiche
all’università di Palermo ma forse anzitutto presidente e anima della Rete che collega i
musei siciliani dell’emigrazione, ricorda a chi lo interpella in materia è una sorta di distillato della sua pluridecennale ricerca:
Non esiste una sola emigrazione, ma tante emigrazioni quanti sono i campanili o
quasi. Ognuna con i suoi motivi, caratteristiche anche molto diverse, le sue destinazioni geografiche. E ognuna va compresa al di fuori degli stereotipi creati
dalla storiografia che nel dopoguerra aveva bisogno di "dimostrare" le colpe di
uno Stato incapace di garantire lavoro e sopravvivenza ai suoi figli, i quali avevano dovuto espatriare per sfuggire alla miseria.
Prendiamo le Eolie, dunque, e in specie Salina che tra le «sette sorelle» dell’arcipelago
pare essere stata storicamente la più prodiga in imprenditorialità: già dal primo Ottocento le famiglie dei «padroni» salinari si distinguevano per la capacità di mettere a
frutto le abilità di navigatori, intessendo reti di trasporto commerciale in tutto il Mediterraneo, mentre chi rimaneva sulla fertile terra vulcanica dell’isola si dedicava
all’agricoltura e in particolare alla produzione di altissima qualità e resa economica
della malvasìa...
Perché dunque abbandonare quella possibile agiatezza per andare fino in America?
Intanto perché, a causa della dovizia di abili velisti reclutati dalle grandi compagnie di navigazione transoceanica, gli eoliani conoscono il Nuovo mondo prima
di altri – risponde Sajia –. E poi per fare più soldi e magari costruirsi in patria un
palazzotto, come quello sontuoso che a Malfa si fece edificare Antonio Marchetti (presto soprannominato ’u miliunariu), che aveva fatto fortuna a New York
commerciando il marmo di Carrara. E fu il primo ad avere la corrente elettrica a
Salina!.
Il professore documenta la tesi con cifre e con storie. Qui la crescita costante della
flotta a vela eoliana, testimonianza di un investimento che fu assai redditizio. Lì il passaporto di un salinaro che emigra a 50 anni suonati, con tutta la famiglia, pur essendo
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tra i notabili dell’isola. Non era dunque gente che andasse alla ventura perché tanto
non aveva nulla da perdere...
La filossera. Certo, qualcuno spiega la spinta ad andarsene con l’arrivo del parassita che in pochissimo tempo, da metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, azzerò tutte le vigne eoliane; fu davvero un cataclisma. Tuttavia, più che al minuscolo insetto, le responsabilità dell’esodo vanno attribuite a questo libretto.
Saija indica in una vetrina la colorata copertina di Dall’Italia a New York. Guida
dell’Emigrante, edizione 1902:
A New York le case sono in torri alte anche 300 metri – così vi si leggeva –, e più
in alto si va più ricche sono le case. I rubinetti dell’acqua sono d’oro e d’argento.
Vuoi sapere che succede appena arrivi nel porto di Nuova York? Dieci, venti persone ti chiederanno se vuoi un lavoro. Tu scegli quello che più ti piace.
Se vuoi diventare un venditore di frutta non hai bisogno di fare molta fatica; basta solo la tua forza di volontà e la tua voglia di lavorare! Appena riesci a guadagnare un po’ di soldi procurati un carretto, la mattina presto vai ai mercati
generali, compra un po’ di frutta e vendila per le strade.
Ed è alquanto significativo che questa pubblicistica da paese di Cuccagna sia stampata
e distribuita da due grandi compagnie navali, «La Veloce» e la «Navigazione Generale
Italiana»: le due che – prima divise, poi fuse nella medesima impresa – nelle Eolie si
accaparrarono grazie ai loro agenti la maggior quota di biglietti transoceanici. Il business era così allettante che sulle sperdute isole arrivarono persino emissari di armatori
stranieri, sviluppando tutto un indotto di sensali e speculatori.
C’erano per esempio faccendieri che anticipavano il prezzo del viaggio, il quale sarebbe poi stato restituito «in comode rate» oltre Atlantico lavorando per un boss già prefissato; c’era chi lucrava acquistando a prezzi da svendita i beni immobili dei partenti;
c’era l’assicuratore per stipulare, «a sole 10 lire», polizze che garantivano le 200 lire
del biglietto nel caso si venisse respinti all’arrivo (evento tutt’altro che remoto) o che
addirittura avrebbe versato un vitalizio ai congiunti in caso di affondamento del piroscafo e morte del titolare.
Pure la Chiesa veniva incontro alle nuove esigenze: nel museo di Malfa sono esposti libretti di orazioni appositi per emigranti, con preghiere da recitare per ogni occasione
del viaggio e della lontananza, ma anche diplomi pontifici in cui (a pagamento...) si garantiva l’indulgenza anche nel caso non si fosse riusciti a confessarsi in tempo mentre
la nave colava a picco.
Di fatto poi, e anche se l’America non si rivela certo quell’eden dipinto dai manualetti
pubblicitari, gli eoliani faranno molto spesso fortuna. Il professor Sajia ha documentato negli Stati Uniti del primo Novecento addirittura 15 società di mutuo soccorso per
emigrati del solo arcipelago, che divisi per «isola» creano e sostengono corposi processi di integrazione sociale: quelli di Lipari, quelli di Filicudi, quelli di Salina, eccetera.
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Nate come istituti di assistenza reciproca in caso di malattia, infortunio o morte e comunque per tenere viva la colleganza tra conterranei (era prevista l’espulsione immediata per chi non avesse partecipato ai funerali di un socio), le organizzazioni diventarono poi lobbies anche assai ricche – basta osservare appese al museo le foto di gruppo scattate durante le elegantissime feste sociali – e influenti: tanto che i presidenti
Usa non disdegnavano di averle come partner in campagna elettorale (l’ultimo presidente della Mutual Aid Society «Isola di Salina», Edoard Re, divenne segretario di Stato alla Cultura con John Kennedy e giudice federale con Johnson).
Parte di tale prosperità ritornò poi in patria: per esempio, il primo generatore elettrico
di Santa Marina Salina fu finanziato nel 1919 con centomila lire da un munifico emigrato americano.
E lo stesso museo di Malfa ha trovato significativamente la sua prima sede nella dimora di un emigrante ritornato in patria. Ma il medesimo viaggio di ritorno purtroppo lo
fece anche la mafia (no, non avvenne il contrario, come comunemente si crede), che a
New York imparò i metodi estorsivi: tra gli oggetti della raccolta vi sono infatti pure gli
sgrammaticati biglietti che la Mano Nera newyorkese spediva ai fruttivendoli salinari
di Little Italy e di Brooklyn per offrire «protezione» in cambio del «pizzo». Cosa Nostra
imparò presto.
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Quel tabù di Gesù