MARGARET PETERSON HADDIX
Titolo originale:
AMONG THE HIDDEN
Pubblicato da:
TRA I NASCOSTI
SIMON & SCHUSTER BOOKS FOR YOUNG READERS
An imprint for Simon & Schuster
Children’s Publishing Division
1230 Avenue of the Americas
New York NY, 10020
1998
Traduzione di:
Alberto de Fabris
Primo libro della serie: RAGAZZI OMBRA
CAPITOLO
UNO
V
ide il primo albero ondeggiare e cadere, laggiù, in lontananza. Poi sentì sua
madre chiamarlo dalla finestra della cucina: “Luke! Dentro. Adesso”.
Non aveva mai disubbidito all’ordine di nascondersi. Fin da quando era un
bambino piccolo, capace appena di camminare tra l’erba alta del cortile dietro casa,
aveva in qualche modo percepito la paura nella voce di sua madre. Ma quel giorno,
il giorno in cui avevano cominciato ad abbattere il bosco, aveva esitato. Prese
un’ultima boccata d’aria fresca che odorava di trifoglio e di caprifoglio e - proveniente da lontano – sentì l’odore del pino. Posò gentilmente la zappa e assaporò ancora
per un momento la sensazione della terra calda sotto i suoi piedi nudi. Disse tra sé:
“Non mi sarà permesso più di uscire. Forse mai più, finché vivrò”. Si voltò ed entrò
in casa, silenzioso come un’ombra.
“Perché?” domandò durante la cena quella sera. Non era una domanda usuale in casa Garner. C’erano molti “come” - Com’era stata la pioggia nel campo di
dietro? Come stavano andando le semine? C’erano anche dei “che cosa” – Che cosa vuole fare Matthew con la chiave da cinque sedicesimi? Che cosa ha intenzione
di fare papà con la gomma scassata? Ma “perché” non era una domanda considerata giusta da porsi. Luke domandò di nuovo: “Perché hai dovuto vendere il bosco?”
Il papà di Luke si schiarì la gola e si fermò con la forchetta a mezz’aria, mentre si stava per riempire la bocca con una bella forchettata di patate bollite. “Te l’ho
già detto. Non avevamo scelta. Il Governo aveva bisogno del bosco. Non si può dire
di no al Governo”.
La mamma gli si avvicinò e diede a Luca una stretta rassicurante sulla spalla,
prima di tornare alle sue faccende in cucina. Avevano già una volta disobbedito al
Governo, con Luke. Quel fatto aveva già esaurito tutta la fiducia che il Governo aveva in loro. E forse anche di più.
“Non avremmo venduto il bosco se non fossimo stati costretti”, disse, scodellando un mestolo di densa minestra di pomodori nel piatto. “Il Governo non ha chiesto certo a noi se volevamo delle case al posto del bosco”.
Con le labbra fece segno di silenzio e posò le scodelle di minestra sul tavolo.
1
Nascosti
“Ma il Governo non andrà certo a vivere in quelle case”, Luke protestò. All’età
di dodici anni, lo sapeva molto bene, ma, alle volte, si raffigurava il Governo come
una persona molto grande, grossa e cattiva, due o tre volte più grande di un uomo
normale, il quale andava in giro a gridare alla gente: “Non è permesso!” e “Non farlo!” Luke se lo rappresentava così a causa del modo in cui i suoi genitori e i suoi
fratelli più grandi ne parlavano: “Il Governo non vuole più che piantiamo granoturco
in quel campo”. “Il Governo sta tenendo i prezzi bassi”, “Al Governo non piacerà di
sicuro questo raccolto”.
“Probabilmente alcune delle persone che verranno ad abitare in quelle case
saranno dipendenti del Governo”, mamma disse. “Sarà tutta gente di città”.
Se gli fosse stato permesso, Luke sarebbe andato alla finestra della cucina e
avrebbe guardato fuori, verso il bosco, tentando per l’ennesima volta di raffigurarsi
file e file di case là dove ora c’erano abeti, aceri e querce. O dove almeno c’erano
stati, perché Luke sapeva da una furtiva sbirciatina proprio prima di cena, che metà
degli alberi erano già stati abbattuti. Alcuni alberi stavano ancora a terra. Altri stavano incurvati in modo starno rispetto alla loro precedente nobile posizione dritta
verso il cielo. Il vuoto che avevano lasciato rendeva tutto diverso, come un fresco
taglio di capelli che mette a nudo una striscia di pelle non abbronzata sulla fronte.
Anche stando ben all’interno della cucina, Luke poteva dire che mancavano gli alberi, perché tutto era più chiaro, più aperto. Che metteva più paura.
“E allora, quando quelle persone verranno ad abitare nelle nuove case, dovrò
stare lontano dalle finestre?” Luke domandò, sebbene sapesse già la risposta.
La domanda fece letteralmente esplodere suo padre. Sbatté la mano pesantemente sulla tavola.
“E allora? Devi stare lontano dalle finestre già adesso! Ci saranno un sacco di
persone là dietro che verranno a vedere cosa succede. Ti vedranno!” Fece volteggiare furiosamente la forchetta in aria. Luke non era sicuro di che cosa quel gesto
significasse, ma sapeva che non era una cosa buona.
Nessuno gli aveva mai detto esattamente cosa sarebbe successo se qualcuno l’avesse visto. Morte? Morte era ciò che capitava all’ultimo nato dei maialini, il
più debole, che era d’impiccio ai suoi più robusti fratelli e sorelle. Morte era una mosca che smetteva di ronzare quando lo schiacciamosche la colpiva. Per quanto ci
provasse, non riusciva proprio a pensare a se stesso in relazione alla mosca
schiacciata o al maialino morto sotto il sole. Al solo provarci, sentiva strane sensazioni nello stomaco.
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“Non credo sia giusto che dovremo essere noi a fare il lavoro di Luke ora”,
l’altro fratello di Luke, Mark, brontolò. “Non potrebbe uscire almeno un po’? Magari
di notte?”
Luke rimase in ansiosa attesa di una risposta positiva. Ma papà disse solamente: “No”, senza nemmeno alzare gli occhi.
“Non è giusto”, Mark ripeté. Mark era il secondo figlio – il secondo fortunato,
Luke pensava quando si sentiva rammaricato di se stesso. Mark era solamente due
anni più grande di Luke e appena un anno più giovane di Matthew, il fratello maggiore. Matthew e Mark erano facilmente riconoscibili come fratelli, con i loro capelli
scuri e il viso dai lineamenti marcati. Luke era biondo, dall’ossatura più fragile,
dall’aspetto più morbido. Spesso si domandava se mai sarebbe diventato più robusto, come loro. In qualche modo sentiva che non sarebbe stato così.
“Luke non fa nulla già adesso”, Matthew lo schernì. “Non ci mancherà certo il
suo lavoro, proprio per niente”.
“Non è colpa mia!” Luke protestò. “Aiuterei di più se …”
La mamma appoggiò nuovamente le mani sulle sue spalle: “Zitti, tutti”, disse,
“Luke farà quello che potrà. Come ha sempre fatto”.
Il rumore di pneumatici sul vialetto di ghiaia entrò dalla finestra aperta.
“E adesso chi …” papà iniziò a dire. Luke già sapeva il resto della frase. Chi
poteva essere? Perché lo dovevano disturbare proprio adesso, alla sua prima occasione in tutto il giorno di star seduto con la sua famiglia? Era una domanda di cui
sentiva sempre la risposta stando dall’altra parte di una porta. Quel giorno, messo
in ansia a causa dell’abbattimento del bosco, si alzò più in fretta del solito e scappò
verso la porta che dava sulle scale di dietro. Senza guardare, seppe che mamma
avrebbe fatto sparire il suo piatto dal tavolo e lo avrebbe nascosto nell’armadio, avrebbe fatto scivolare la sua sedia in un angolo della cucina come se fosse stata un
inutile in più. In tre secondi avrebbe nascosto tutte le prove dell’esistenza di Luke, in
tempo per andare alla porta e rivolgere un sorriso stanco al commerciante di fertilizzanti o all’ispettore del Governo o a chiunque altro fosse venuto ad interrompere la
cena.
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Nascosti
CAPITOLO DUE
C
’era una legge contro di Luke.
Non contro di lui personalmente, ma contro tutti quelli come lui, ragazzi nati dopo che i loro genitori avevano già avuto due figli.
A dir il vero, Luke non era a conoscenza se ci fossero altri nella sua stessa
condizione. Perché neppure lui doveva esistere. Forse lui era l’unico. Facevano delle cose alle donne dopo che avevano avuto il loro secondo figlio in modo che non
ne avessero altri. E se veniva commesso un errore e la donna rimaneva ugualmente incinta, doveva disfarsi della gravidanza.
Questo fu ciò che mamma gli aveva spiegato, anni prima, la prima e l’unica
volta che Luke le aveva domandato il motivo per cui doveva nascondersi. Aveva
allora sei anni.
Prima di quell’età, aveva pensato che tutti i bambini molto piccoli dovevano
rimanere lontano dalla vista della gente. Aveva pensato che non appena avesse
avuto la stessa età di Matthew e di Mark, sarebbe potuto andare in giro come loro,
correre per il campo dietro casa e perfino andare in città con papà, e sporgersi con
la testa e le braccia fuori del finestrino del pickup. Aveva pensato che, non appena
fosse stato grande come Matthew e Mark, avrebbe potuto giocare nel girdinetto davanti casa e dare calci al pallone proprio in strada se l’avesse voluto. Aveva pensato che, non appena avesse avuto l’età di Matthew e Mark sarebbe andato a scuola.
Li aveva sentiti lamentarsi della scuola: “Accidenti, dobbiamo fare i compiti!” e: “A
chi importa dell’ortografia?” Ma discorrevano anche della ricreazione e degli amici
con i quali condividevano le caramelle durante l’ora di pranzo o si prestavano i temperini per fare degli intagli.
Ma Luke non divenne mai grande come Matthew e Mark.
Il giorno del suo sesto compleanno, mamma fece una torta, una davvero speciale, con la marmellata di lamponi che colava dal bordo. A cena, quella sera, sistemò sei candeline sulla torta e mettendola davanti a Luke disse: “Esprimi un desiderio”.
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Con gli occhi fissi su quel cerchio di candeline – orgoglioso che finalmente il
numero delle candeline formasse un cerchio tutto attorno alla torta – Luke improvvisamente si ricordò di un’altra torta, di un altro cerchio formato da sei candeline.
Quella di Mark. Si ricordò del sesto compleanno di Mark. Se lo ricordò perché, anche con la torta davanti a sé, Mark aveva piagnucolato: “Ma io voglio una festa di
compleanno. Robert Joe ha fatto una festa per il suo compleanno. E sono venuti tre
suoi amici”. Mamma aveva detto: “Scccc”, e aveva guardato prima Mark poi Luke,
dicendo qualcosa con gli occhi che Luke non aveva capito.
Demoralizzato da quel ricordo, Luke soffiò. Due delle candeline tremolarono
ma una sola si spense. Matthew e Mark risero.
“Il tuo desiderio non sarà esaudito”, Mark disse. “Che bambino che sei, non
sai neppure soffiare le candeline”.
Luke voleva piangere. Si era dimenticato perfino di esprimere il suo desiderio
e se non fosse stato così assorto nei ricordi, sarebbe sicuramente riuscito a soffiare
tutte e sei le candeline. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. E poi sarebbe stato esaudito
– oh, in che cosa non lo sapeva. La possibilità di andare in città col pickup di papà,
forse la possibilità di giocare nel giardinetto davanti casa. La possibilità di andare a
scuola. Invece, tutto quello che ebbe fu solo una strana sensazione che qualcosa
non quadrava. Sicuramente Luke stava pensando al settimo compleanno di Mark o
forse addirittura all’ottavo. Mark non poteva conoscere Robert Joe quando aveva
sei anni, perché sicuramente si stava nascondendo allora, come Luke.
Luke continuò a pensarci per tre giorni. Si trascinò dietro a sua madre mentre
stendeva i panni ad asciugare, faceva le conserve di fragole, fregava il pavimento
del bagno. Per parecchie volte aveva iniziato a chiederle: “Quanti anni dovrò avere
prima che la gente possa vedermi?” Ma qualcosa lo interrompeva ogni volta.
Alla fine, il quarto giorno, dopo che papà, Matthew e Mark avevano scostato
le loro sedie dal tavolo della colazione e si erano diretti verso la stalla, Luke si rannicchiò sotto la finestra della cucina – finestra alla quale non doveva avvicinarsi
perché la gente che passava in macchina sulla strada avrebbe potuto intravedere il
suo viso. Inclinò la testa da una parte e la sollevò quel che bastò perché il suo occhio sinistro fosse appena sopra il livello del davanzale. Guardò Matthew e Mark
che correvano sotto il sole, la cima dei loro stivali da lavoro che batteva contro le
loro ginocchia. Erano ben in vista del mondo intero, così sembrò, e di ciò non se ne
curavano per niente. Stavano correndo verso la porta principale della stalla, non
verso quella laterale, lontana dal cortile di dietro che Luke doveva sempre usare
perché non si vedeva dalla strada.
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Nascosti
Luke si voltò e scivolò sul pavimento, fuori dello specchio della finestra. “Matthew e Mark non devono mai nascondersi, vero?” domandò.
Mamma stava raschiando il resto delle uova strapazzate dalla padella. Girò la
testa e lo guardò attentamente.
“No”, disse.
“Allora, perché io sì?”
Si asciugò le mani e si allontanò dal lavello, una cosa che Luke non l’aveva
quasi mai vista fare fino a che c’erano piatti sporchi da lavare. Si accovacciò vicino
a lui sul pavimento e gli lisciò i capelli via dalla fronte e verso la nuca.
“Oh, Lukie, hai proprio bisogno di saperlo? Non è abbastanza sapere che – le
cose sono solamente diverse per te?”
Ci pensò su. Mamma diceva sempre che lui sarebbe rimasto sempre seduto
sulle sue ginocchia e coccolato. Ancora gli raccontava le fiabe a letto, e lui sapeva
che Matthew e Mark pensavano che quella fosse una cosa da femminucce. Era
questo a cui mamma si riferiva? Ma lui era solo il figlio più piccolo, e ora era cresciuto. Allora non sarebbe stato come loro,?
Con la sua solita testardaggine, Luke insistette: “Voglio sapere perché io sono
diverso. Voglio sapere perché io devo nascondermi”.
Fu così che mamma glielo disse.
Più tardi, avrebbe desiderato aver fatto altre domande. Ma in quel momento,
tutto quello che era stato in grado di fare era stato ascoltare le cose che la mamma
gli aveva detto. Si era sentito come se stesse annegando nel flusso delle parole.
“E semplicemente successo”, disse. “Tu sei semplicemente capitato. E noi ti
volevamo. Non volevo che papà neppure parlasse di … di disfarci di te”.
Luke si raffigurò appena nato, abbandonato in una scatola di cartone al lato
della strada da qualche parte, nel modo in cui papà disse che la gente era solita fare con i gattini, una volta, quando alla gente era consentito tenere animali domestici
in casa. Ma forse non era ciò che mamma aveva inteso dire.
“La Legge Demografica non era in vigore da molto tempo, allora, e io avevo
sempre voluto avere molti bambini. Prima della legge, cioè. Rimanere incinta di te
fu come … un miracolo. Pensai che il Governo avrebbe chiuso un occhio sulla loro
sciocchezza, forse anche quando tu saresti nato, e allora avrei avuto un altro bambino da mostrare a tutti”.
“Ma non l’hai fatto”, Luke riuscì a dire appena. “Mi hai nascosto”. La voce gli
uscì stranamente rauca di bocca, quasi fosse quella di un’altra persona.
Mamma annuì. “Quando la gravidanza iniziò a essere evidente, smisi di uscire. Non fu una cosa troppo difficile. Dove sarei andata, in ogni caso? Non permisi a
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Matthew e a Mark di uscire dalla fattoria, per paura che dicessero qualcosa. Non
dissi nulla di te neppure nelle lettere a mia madre e a mia sorella. Non avevo realmente paura in quel momento. Era solo una forma di superstizione la mia. Non volevo vantarmi. Pensai di andare all’ospedale per partorire. Non ti avrei tenuto segreto per sempre. Ma poi …”
“Poi cosa?” Luke domandò.
Mamma non lo guardò in volto.
“Poi cominciarono a parlare della Legge alla TV, continuamente, dissero della
Polizia Demografica, di come la Polizia Demografica riusciva a scoprire tutto, di
come avrebbero fatto ogni cosa per applicare la legge”.
Luke diede un’occhiata al grande televisore nel soggiorno. Non gli era permesso guardarla. Era quello il motivo?
“E papà iniziò a sentire voci in città, riguardo ad altri bambini …”
Luke rabbrividì. Mamma aveva lo sguardo lontano, verso le file delle nuove
piante di granoturco che si perdevano all’orizzonte.
“Avrei voluto avere anche un John”, disse. “‘Matthew, Mark, Luke e John, benedetto sia il letto su cui giaccio’. Ma ringrazio Dio perché ho te, almeno. E ha funzionato, nasconderti, non è vero?”
Il sorriso che gli rivolse fu incerto. Sentì che doveva assecondarla.
“Sì”, disse.
Dopo quel discorso a Luke non dispiacque più molto nascondersi. Chi aveva
voglia di conoscere dei forestieri, dopo tutto? Chi aveva voglia di andare a scuola,
dove – se si doveva credere a Matthew e a Mark – gli insegnati gridavano e gli altri
ragazzi te ne facevano di tutti i colori se non stavi attento? Lui era speciale. Lui era
un segreto. Lui apparteneva alla casa – la casa, il luogo in cui sua madre lo lasciava sempre prendere la prima fetta di torta di mele, perché lui era a casa e gli altri
ragazzi erano via. La casa, dove poteva coccolare i maialini appena nati nella stalla,
salire sugli alberi al limitare del bosco, lanciare palle di neve ai pali del filo dei panni.
La casa, dove il cortile di dietro era sempre così allettante per lui, sempre sicuro e
protetto ai lati dalla casa, dalla stalla e dal bosco.
Fino a quando il bosco non fu abbattuto.
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CAPITOLO TRE
L
uke si distese a pancia in giù sul pavimento e fece correre sbadatamente il trenino avanti e indietro sulle rotaie. Il trenino era appartenuto a papà quando era
stato un bambino e di suo padre prima di lui. Luke ricordava il tempo in cui il suo più
grande desiderio era stato che Mark diventasse troppo grande per giocare col trenino, cosicché avrebbe potuto averlo tutto per sé. Ma non era col trenino che voleva
giocare quel giorno. Era una bellissima giornata che si dispiegava per la campagna
tutt'attorno, con morbide nuvole bianche su di un cielo azzurro e una brezza mite
faceva frusciare l’erba del cortile di dietro. Era una settimana che non usciva di casa e riusciva quasi a sentire l’aria aperta che lo chiamava. Ma ora a lui non era
neppure permesso di stare nella stanza dove c’era una finestra senza le tapparelle
abbassate.
“Stai cercando di farti scoprire?” papà aveva urlato a Luke quella mattina
stessa, quando aveva scostato la tapparella della finestra della cucina solo di pochi
centimetri e aveva sbirciato fuori pieno di desiderio.
Luke fece un salto. Era tutto intento a pensare di correre a piedi nudi per
l’erba che si era quasi dimenticato che c’era qualcuno o qualcosa dietro di lui, in casa.
“Non c’è nessuno fuori”, disse, dando un’altra occhiata, tanto per essere sicuro.
Stava cercando di non guardare oltre il confine del cortile, alle cataste informi
di rami, tronchi e foglie che i bulldozer avevano ammassato e al pantano che un
tempo era stato il suo amato bosco.
Davvero?” papà disse. “Ti è mai saltato in testa che se c’è qualcuno, ti potrebbe vedere prima che sia tu a vedere lui?”
Afferrò Luke per un braccio e lo strattonò via dalla finestra per un buon metro.
Libero dalla mano di Luke, il fondo della tapparella sbatté contro il davanzale.
“Non devi guardare fuori per niente”, papà disse, “Lo dico sul serio. D’ora in
avanti, sta lontano dalla finestra e basta. E non entrare in una stanza a meno che la
tapparella non sia abbassata o le tende non siano tirate”.
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“Ma così non potrò vedere nulla”, Luke protestò.
“Meglio così che essere denunciato” papà disse.
Il tono di voce di papà era come se fosse dispiaciuto per Luke, ma non fece
altro che rendere le cose peggiori. Luke si girò e uscì per paura di non mettersi a
piangere davanti a papà.
Diede una spinta al trenino e lo fece uscire dai binari. Si capovolse e le ruote
continuarono a girare. “Chi se ne importa!” Luke farfugliò.
Qualcuno bussò violentemente alla porta.
“Polizia Demografica! Aprite!”
Luke non si mosse.
“Non è divertente, Mark!” gridò.
Mark aprì la porta e si precipitò su per le scale che portavano unicamente alla
stanza di Luke. La stanza di Luke si trovava sulla soffitta, cosa che non gli era mai
dispiaciuta. Molto tempo addietro, mamma aveva trascinato tutti i bauli e le scatole
quanto più possibile sotto la linda, lasciando lo spazio principale per il letto d’ottone
di Luke e per un tappeto tondo di stoffa e per i libri e i giocattoli. Luke aveva anche
sentito Matthew e Mark lamentarsi riguardo al fatto che Luke aveva la stanza più
grande. Ma la loro stanza aveva le finestre.
“Ti ho spaventato questa volta, non è vero?” Mark domandò.
No”, Luke rispose. Nulla lo poteva costringere ad ammettere che aveva avuto
un tuffo al cuore. Erano anni che Mark era solito fargli lo scherzo della ”Polizia Demografica”, sempre fuori della portata dell’orecchio dei suoi genitori. Di solito Luke
si limitava ad ignorare Mark, ma ora, con papà così agitato … cosa avrebbe fatto se
ci fosse stata davvero la Polizia Demografica? Cosa gli avrebbero fatto?
“Matt ed io, non abbiamo mai detto una parola su di te”, Mark disse, fattosi
improvvisamente serio, la qual cosa era di per sé molto strana per lui. “E sai che
anche papà e mamma non dicono mai nulla. Tu sei bravo a nasconderti. Perciò sei
al sicuro, lo sai?”
“Lo so”, Luke farfugliò.
Mark diede un calcio al trenino che Luke aveva rovesciato. “Ancora a giocare
con i giocattoli da bambino?” domandò come se volesse farsi perdonare per il brutto scherzo e volesse essere gentile.
Luke alzò le spalle. Normalmente, non avrebbe voluto che Mark sapesse che
giocava ancora con il trenino. Ma quel giorno tutto il resto era talmente brutto che
non gli’importò. “Sei salito fin qui per rompere?” Luke domandò. Mark inscenò una
faccia offesa.
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“Ho pensato che magari avevi voglia di giocare a scacchi”, disse. Luke strabuzzò gli occhi.
“E’ stata la mamma a chiederti di farlo, giusto?” domandò.
“No”.
“Stai mentendo”, Luke disse, e non gl’importò del suo tono di voce cattivo.
“Beh, se hai intenzione di essere così …”
“Solo lasciami in pace, okay?”
“Okay, okay”, Mark esclamò, poi si diresse giù per le scale. “Accidenti!”
Quando fu nuovamente solo, Luke si sentì un pochino dispiaciuto per essere
stato così cattivo. Forse Mark aveva detto la verità. Doveva chiedergli scusa. Ma
non se la sentì.
Si alzò da terra e cominciò a camminare in giro per la stanza. Lo scricchiolio
della terza asse del pavimento della stanza provenendo dalle scale lo infastidì. Odiò
doversi piegare sotto le travi del lato opposto da dove si trovava il suo letto. Persino
i suoi modellini di automobile preferiti, allineati su di una mensola posta nell’angolo,
gli diedero fastidio quel giorno. Perché mai doveva avere dei modellini di automobile? Non si sarebbe mai neppure seduto in una vera. Non sarebbe mai successo.
Non avrebbe mai avuto nulla e non sarebbe mai andato da nessuna parte. Con tutta probabilità sarebbe marcito in quella soffitta. Aveva già pensato alla cosa in passato, durante le rare occasioni in cui mamma, papà, Matthew e Mark erano andati
tutti assieme da qualche parte e lo avevano lasciato a casa solo – e se fosse successo loro qualcosa e non fossero tornati a casa mai più? Qualcuno lo avrebbe trovato anni dopo, abbandonato e morto? Aveva letto una storia in uno dei vecchi libri
che si trovavano in soffitta riguardo a un gruppo di ragazzini che aveva trovato una
nave pirata abbandonata e poi uno scheletro in una delle cabine. Sarebbe stato
come quello scheletro? E ora che non gli era consentito di andare nelle stanze dove
c’erano delle finestre non oscurate, sarebbe stato uno scheletro dentro una stanza
buia.
Automaticamente Luke alzò gli occhi come per ricordare a se stesso che nulla
illuminava le travi se non un’unica lampadina sopra la sua testa. Eccetto che …
c’era della luce su entrambi i lati del soffitto che filtrava all’interno proveniente dalla
sommità del tetto.
Luke si alzò in piedi e andò ad investigare. Ma certo. Avrebbe dovuto ricordarsi. C’erano delle prese d’aria in ciascun lato del tetto. Papà ogni tanto brontolava
riguardo al fatto che doveva riscaldare l’attico a causa di Luke – “E’ come gettare
denaro fuori da quelle prese d’aria” – ma mamma lo aveva fissato con una delle sue
occhiate e nulla cambiò.
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Allora Luke si arrampicò fino in cima a una delle travi più grosse e guardò giù
attraverso la presa d’aria, da lì poteva vedere fuori! Vide una striscia di strada e i
campi di granoturco più in là, con le foglie che ondeggiavano alla brezza. La presa
d’aria era inclinata verso il basso e limitava la sua visuale, ma almeno era sicuro
che nessuno sarebbe stato in grado di vedere lui.
Per un momento, si sentì emozionato, ma subito dopo quella sensazione
svanì. Non voleva passare il resto della sua vita a guardare il granoturco che cresceva. Senza troppa speranza, scese dalla trave e andò dall’altro lato della soffitta,
la parte che dava sul cortile di dietro. Dovette far scivolare dei bauli e trascinare un
vecchio sgabello da un lato all’altro della soffitta, ma alla fine i suoi occhi furono al
livello della presa d’aria posteriore.
La vista non era del cortile – era troppo a ridosso della casa – ma di quello
che fino a poco tempo prima era stato uno dei boschi. Non s’era mai accorto prima,
ma il terreno era in discesa partendo dalla sua casa, con la conseguenza che poteva avere una chiara visione di acri e acri di terreno che fino a poco tempo prima erano stai ricoperti di alberi. Il terreno era ora tutto un ronzio di attività. Grandi bulldozer gialli spingevano all’indietro i rami tagliati lungo una strada accidentata che
era stata tracciata con della ghiaia. Altri veicoli che Luke non riusciva a identificare
stavano scavando delle buche per delle enormi tubature di cemento. Luke rimase
ad osservare affascinato. Conosceva trattori e combinate, naturalmente, aveva visto il decespugliatore di papà e lo spargitore di letame e i carrelli ribaltabili lì vicino,
in alto, nella stalla. Ma quelle macchine erano differenti, costruite per fare lavori diversi. Ed erano tutte manovrate da tante diverse persone.
Un tempo, quando Luke era più piccolo, un mendicante era venuto in casa e
Luke aveva avuto appena il tempo di nascondersi sotto il lavello dello stanzino adibito a spogliatoio prima che l’uomo entrasse in casa a mendicare del cibo. La porta
dello stanzino era rimasta aperta una fessura e Luke era riuscito a sbirciare e a vedere i pantaloni con le toppe dell’uomo e le scarpe bucate. L’aveva sentito piagnucolare: “Non ho un lavoro e non mangio da tre giorni … No, no, non sono capace di
fare nessun lavoro agricolo. Come crede che mi senta? Sto male. Sto morendo di
fame …”
Oltre al mendicante e alle figure sui libri, Luke non aveva mai visto nessun
essere umano, fatta eccezione dei suoi genitori e di Matthew e Mark, naturalmente.
Non si sarebbe mai sognato che ci fosse una tale varietà di esseri umani.
Molte delle persone che azionavano i bulldozer e le macchine da scavo si erano tolti la camicia, mentre altri che stavano lì vicino indossavano perfino cravatte
e cappotti. Alcuni erano grassi, altri magri; alcuni erano scuriti dal sole e alcuni era11
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no più pallidi di Luke stesso, il quale non sarebbe stato mai nuovamente abbronzato. Tutti si muovevano - chi azionava delle leve, chi sollevava le tubature, chi faceva gesti con le mani per indicare la posizione o chi, con tutta probabilità, parlava a
tutta velocità. Tutta quell’attività fece sentire Luke come stordito. Le figure nei libri
mostravano sempre persone immobili. Preso da forte emozione, Luke chiuse gli occhi, poi li riaprì per paura di perdersi qualcosa.
“Luke?”
Con riluttanza, Luke scese dallo sgabello senza far rumore e andò verso il letto dove si distese candidamente di traverso con la schiena in giù. “Entra”, gridò a
sua madre.
Salì faticosamente le scale.
“Stai bene?”
Luke fece dondolare le gambe sbattendole sul lato del letto.
“Sicuro. Sto bene”.
Mamma si sedette sul letto accanto a lui e gli diede dei colpetti sulla gamba.
“E’ …” inghiottì a fatica. “Non è facile, la vita che devi vivere. Lo so che ti piacerebbe guardare fuori. Che ti piacerebbe uscire …”
“Va tutto bene, mamma”, Luke disse. Avrebbe potuto dirle delle prese d’aria –
non vedeva cosa ci sarebbe stato da obiettare sul fatto che guardasse fuori da quelle piccole aperture – ma qualcosa lo bloccò. Cosa sarebbe successo se gli avessero tolto anche quelle? E se mamma l’avesse detto a papà, e papà avesse detto:
“No, no, è troppo rischioso. Te lo proibisco”? Non avrebbe potuto sopportare anche
quello. Perciò rimase zitto.
Mamma gli scompigliò i capelli.
“Sei un vero soldato”, disse. “Lo so che sei coraggioso”.
Luke si appoggiò al braccio della mamma e lei avvolse il suo braccio attorno
alle spalle del figlio e lo strinse forte al suo fianco. Luke si sentì un po’ in colpa per
tenere quel segreto tutto per sé, ma si sentì anche rassicurato – amato e rassicurato.
Poi, parlando più a se stessa che a lui, mamma aggiunse: “E le cose potrebbero anche essere peggiori”.
Quelle parole non furono di molto conforto. Luke non sapeva perché, ma aveva la sensazione che ciò che la mamma aveva inteso dire era che le cose sarebbero andate anche peggio. Si strinse di più a sua madre sperando che avesse torto.
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CAPITOLO QUATTRO
giorni più tardi, quando Luke scese per la colazione, scoprì cosa mamma
Quattro
aveva voluto dire.
Come d’abitudine, aprì la porta che dava dalle scale posteriori alla cucina solo
una fessura. Si ricordò di quelle rare volte in cui c’erano state delle visite inaspettate
prima di colazione e mamma era riuscita ogni volta a mandare Matthew o Mark di
sopra ad avvisare Luke di non farsi vedere. Ma per maggiore prudenza aveva
sempre controllato prima di entrare in cucina. Quel giorno vide papà, Matthew e
Mark a tavola e seppe dal rumore della pancetta che stava friggendo che mamma
doveva trovarsi davanti ai fornelli.
“Le tapparelle sono tutte abbassate?” domandò sottovoce.
Mamma aprì la porta delle scale, Luke si apprestò ad entrare in cucina ma lei
allungò un braccio e lo trattenne al di là della porta. Gli consegnò un piatto pieno di
uova strapazzate e pancetta.
“Luke, tesoro. Puoi mangiare seduto sullo scalino?”
“Che cosa?” Luke domandò.
Mamma gli rivolse uno sguardo supplichevole da sopra le spalle.
“Papà crede – cioè, non è più sicuro che tu venga in cucina. Puoi ancora
mangiare con noi e parlare con noi e tutto il resto, ma starai … là”.
Con la mano fece un segno verso le scale dietro di Luke. “Ma se le tapparelle
sono abbassate …” Luke iniziò a dire.
“Uno degli operai che lavora al taglio del bosco mi ha chiesto ieri: ‘ehi contadino, hai l’aria condizionata in casa tua?’” papà disse stando seduto a tavola. Non si
girò nemmeno. Sembrò non volesse neppure guardare Luke. “Se teniamo tutto
chiuso, in giorni caldissimi come oggi, la gente comincerà a sospettare qualcosa. In
questo modo è più sicuro. Mi dispiace”.
Solo allora papà si girò e diede un’occhiata a Luke, un’unica occhiata furtiva.
Luke tentò di trattenersi dal mostrarsi sconvolto.
“E tu cosa gli hai risposto?” Matthew domandò, come se la domanda
dell’operaio fosse stata solo una semplice curiosità.
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Nascosti
“Gli ho detto che naturalmente non l’avevamo, l’aria condizionata. Il lavoro agricolo non fa diventare milionario nessuno”.
Papà bevve un lungo sorso di caffè.
“D’accordo, Luke?” mamma domandò.
“Sì”, borbottò. Prese il piatto con le uova e la pancetta dalle mani della mamma e cominciò a mangiare. Ma la colazione non gli sembrò più tanto buona. Sapeva
che ogni boccone gli sarebbe rimasto in gola. Si sedette sullo scalino, fuori della
vista di entrambe le finestre della cucina.
“Lasceremo la porta aperta”, mamma disse. Rimase vicino a lui, come se non
volesse tornare ai fornelli. “Non è troppo diverso, vero?”
“Mamma… “ papà disse con tono di avvertimento.
Attraverso le finestre aperte Luke sentiva il rumore di camion e automobili. Gli
operai erano arrivati per iniziare il lavoro. Avendo visto la cosa attraverso la presa
d’aria, sapeva che la lunga carovana di veicoli veniva lungo la strada come in parata. Le automobili si staccavano dalla carovana e si fermavano al lato della strada
per far scendere degli uomini vestiti più elegantemente. I veicoli più pesanti proseguivano verso i settori più sconnessi dell’area e la gente al loro interno si disperdeva in tutte le direzioni, verso i bulldozer e verso gli scavatori che erano stati lasciati
là, all’aperto, durante la notte. Ma le macchine avevano avuto poco tempo per raffreddarsi, perché gli operai lavoravano ora dall’alba fino al tramonto. Evidentemente
qualcuno aveva fretta che il lavoro fosse completato.
“Luke, mi dispiace”, mamma disse, e si affrettò verso i fornelli. Preparò un
piatto per sé, poi si sedette a tavola, accanto a quello che era stato il posto usuale
di Luke. Anche la sua sedia era stata fatta scomparire dalla cucina.
Per un po’ Luke guardò papà, mamma, Matthew e Mark mangiare in silenzio,
una perfetta famiglia di quattro persone. Ancora una volta tossì per schiarirsi la voce, pronto a protestare ancora una volta. Non potete farmi questo – non è giusto ma poi ingoiò le parole, e non disse nulla. Stavano solamente cercando di proteggerlo. Cosa poteva fare?
Con decisione Luke affondò la forchetta nelle uova del suo piatto e mangiò un
boccone. Mangiò tutto il piatto ma non lo gustò neppure un po’.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO CINQUE
D
opo quel primo, Luke mangiò tutti i suoi pasti stando sul primo gradino in basso
delle scale che portavano in soffitta. Divenne una cosa usuale, anche se odiata. Non aveva mai fatto caso alla cosa in precedenza, ma mamma spesso parlava
troppo piano per essere sentita da qualsiasi distanza e Matthew e Mark facevano
sempre i loro commenti maliziosi sottovoce. Quando iniziavano a ridere, spesso ai
danni di Luke, non poteva difendersi perché non sapeva quello che avevano detto.
Non riusciva nemmeno a sentire la mamma dire: “Suvvia, buoni, ragazzi!” Dopo una
settimana o due, non tentò più neppure di ascoltare le conversazioni della sua famiglia.
Ma in un giorno caldo di giugno, non riuscì a trattenere la curiosità, quando
arrivò la lettera che riguardava l’allevamento dei maiali.
Quel giorno Matthew aveva preso la posta dalla cassetta delle lettere
all’incrocio con la strada principale, a tre miglia dalla casa. (Luke non l’aveva mai
vista, naturalmente, ma Matthew e Mark gli avevano detto che ce n’erano tre di
cassette, una per ciascuna famiglia che viveva lungo la loro strada). Di solito la posta dei Garner era costituita solo da conti da pagare o da buste sottili contenenti ordini del Governo riguardo a quanto granoturco seminare, quale fertilizzante usare, e
dove portare il raccolto una volta pronto. Una lettera da un qualche parente era motivo per far festa e mamma sempre interrompeva qualunque cosa stesse facendo e
si sedeva per aprirla con le mani tremanti, dicendo ad intervalli: “Oh, la zia Effie è in
ospedale un’altra volta …” oppure: “Toh! Lisabeth si sposa con quel tizio finalmente
…”. Luke aveva la sensazione quasi di conoscere i suoi parenti, sebbene vivessero
a centinaia di miglia di distanza e non li avesse mai visti. E, naturalmente, nessuno
dei parenti sapeva della sua esistenza. Le lettere che mamma scriveva in risposta,
accuratamente, di sera tardi, quando aveva risparmiato i soldi sufficienti per il francobollo, contenevano un sacco di notizie riguardo a Matthew e Mark, ma mai, neppure una volta, fece cenno al nome di Luke.
La lettera che arrivò quel giorno era grossa, simile a quelle che mandava la
nonna di Luke, ma portava il timbro ufficiale e il sigillo del mittente era stampato in
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Nascosti
rilievo: DIPARTIMENTO DELLA RESIDENZA UMANA, DIVISIONE DEGLI STANDARD AMBIENTALI. Matthew teneva la lettera col braccio allungato in avanti, nel
modo in cui Luke lo aveva visto tenere i maialini morti quando dovevano essere
portati fuori dalla stalla.
Papà subito si scurì in volto quando vide la lettera in mano a Matthew. Matthew posò la lettera accanto alle posate d’argento di papà. Papà sospirò.
“Non possono che esserci cattive notizie”, papà disse. “Non serve a nulla rovinare un buon pasto. Può aspettare”.
Riprese a mangiare pollo e pasta ripiena. Solo dopo il suo ultimo rutto, voltò
la lettera e mise un’unghia contornata di sporco sotto la falda della busta. Estrasse
la lettera.
“Siamo venuti a conoscenza che …’” lesse ad alta voce. “Beh, fin qui capisco”, Ma poi lesse in silenzio per un po’, dicendo ad intervalli, “Madre, che cos’è
‘frattaglie’?” e “Dov’è il dizionario? Matthew, va a cercare ‘reciprocità’”. Alla fine, posò sul tavolo il voluminoso pacchetto e proclamò: “Ci costringono a sbarazzarci dei
nostri maiali”.
“Che cosa?” Matthew domandò. Più serio di Mark, Matthew ne parlava da così tanto tempo che tutti si ricordavano benissimo: “Quando avrò una fattoria tutta
mia, alleverò solo maiali. Convincerò il Governo a permettermi di farlo, in qualche
modo …” . Guardò da sopra le spalle di papà. “Vuoi dire che ci costringono a vendere tutti i maiali, tutti assieme, giusto? Ma che poi possiamo ricostituire nuovamente la mandria …”.
“No”, papà disse. “La gente che abiterà in quelle lussuose case nuove non
dovrà sentire l’odore dei maiali. Perciò non potremo allevare maiali mai più”. Gettò
la lettera al centro del tavolo perché tutti la vedessero. “Cosa pensavano di aspettarsi, costruendo case vicino ad una fattoria?”
Dal suo posto seduto sulle scale, Luke dovette trattenersi dal forte desiderio
di andare a dare un’occhiata alla lettera lui stesso.
“Non possono farlo, vero?” domandò.
Nessuno gli rispose. Non ce n’era bisogno. Luke si sentì uno stupido per aver
fatto quella domanda non appena le parole erano uscite dalla sua bocca. Per una
volta, fu contento del suo nascondiglio.
Mamma attorcigliò uno straccio dei piatti che teneva in mano.
“I maiali sono il nostro pane e burro”, disse. “Con il prezzo del granoturco al livello in cui è ora …cosa faremo per vivere?”
Papà si limitò a rivolgerle un’occhiata. Un momento dopo, anche Matthew e
Mark fecero la stessa cosa. E Luke non ne comprese il motivo.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO SEI
La cartella delle tasse arrivò due settimane dopo, il giorno in cui papà, Metthew e
Mark caricarono i maiali sul rimorchio del bestiame e li portarono via tutti. La maggior parte era destinata al macello. Quelli troppo piccoli e giovani per essere venduti
ad un prezzo decente sarebbero finiti ad un’asta di suini da allevamento. Attraverso
la presa d’aria davanti alla casa Luke osservò papà allontanarsi alla guida del vecchio pickup con un carico alla volta. Matthew e Mark erano seduti nel cassone del
pickup per assicurarsi che il rimorchio stesse agganciato a dovere. Anche stando a
tre piani più in alto, Luke vide l’espressione da cane bastonato sul viso di Matthew.
Alla fine, quando i tre entrarono in casa per la cena, dopo essersi lavati le
mani dall’odore dell’ultimo maiale nello stanzino di dietro, papà consegnò a mamma
la cartella delle tasse, senza fare commenti. Posò il cucchiaio di legno che stava
usando per mescolare lo spezzatino e aprì la lettera. La lettera le cadde di mano.
“Perché, è …”, sembrò fare dei conti a mente quando si piegò per raccoglierla. “E’ tre volte di più del solito. Ci deve essere un errore”.
Papà scosse la testa con aria grave. “Nessun errore, ho parlato con Williker
all’asta”.
I Williker erano i loro vicini di casa. La loro casa era a tre miglia lungo la strada. Luke se li era sempre raffigurati coperti di scaglie mostruose e con artigli feroci,
a causa delle tante volte che era stato messo in guardia da loro: “Non vorresti certo
che i Williker ti vedessero”.
Papà continuò. “Williker dice che hanno alzato le tasse a tutti a causa di quelle case di lusso. Hanno aumentato il valore del terreno”.
“Ma non è una cosa buona?” Luke domandò dimostrandosi interessato. Era
una cosa strana – avrebbe dovuto odiare il fatto che le nuove case stessero prendendo il posto del suo bosco, costringendolo a stare sempre dentro casa. In qualche modo si era innamorato di quelle case, avendo visto gettare le fondamenta, e
poi ogni singola struttura di legno dei muri e i tetti innalzati verso il cielo. Erano il
suo passatempo principale, a parte parlare con mamma quando veniva di sopra per
quella che lei definiva “la ricreazione di Luke”. Alle volte veniva con la scusa che la
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Nascosti
stanza aveva bisogno di pulizie, tanto quanto il pane aveva bisogno di essere cotto
o l’orto ripulito dalle erbacce. Alle volte stava semplicemente seduta e parlava.
Papà scosse la testa in segno di insofferenza per la domanda di Luke.
“No. È una cosa buona solo se vendiamo il terreno. E noi non lo venderemo.
Ma è una cosa buona per il governo, perché così può cavarci più soldi dalle tasche”.
Matthew stava accasciato sulla sedia accostata al tavolo. “Come faremo a
pagare?” domandò. “E’ più di quello che abbiamo ricavato dalla vendita dei maiali e
quei soldi dovevano aiutaci a vivere per molto tempo …”.
Papà non rispose. Anche Mark, il quale normalmente aveva le sue uscite spiritose per ogni occasione, era sconcertato. Mamma era tornata al suo spezzatino.
“Oggi stesso andrò a fare il libretto di lavoro”, disse piano. “La fabbrica sta
assumendo personale. Se riprenderò a lavorare in fabbrica, forse potrò avere un
aumento di stipendio”.
Luke rimase a bocca aperta.
“Non puoi andare a lavorare”, disse. “Chi …”. Voleva dire: Chi starà con me?
Con chi parlerò tutto il giorno se tutti sono via? Ma gli sembrò una cosa troppo egoista da dire. Luke si guardò intorno. Nessuno sembrò sorpreso dalle parole della
mamma. Così non aprì bocca.
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CAPITOLO SETTE
Per metà settembre le giornate di Luke si erano adattate alla routine della famiglia.
Si alzava all’alba solo per avere l’opportunità di guardare il resto della sua famiglia
far colazione stando al suo posto in fondo alle scale. Tutti facevano in fretta ora.
Mamma doveva essere in fabbrica alle sette. Papà era impegnato a sistemare le
macchine agricole perché funzionassero a dovere in vista dell’imminente raccolto
autunnale. E Matthew e Mark erano tornati a scuola. Solo Luke aveva il tempo per
attardarsi sulla sua colazione a base di pancetta poco cotta e pane tostato senza
niente sopra. Non se la sentiva di domandare del burro perché voleva dire che
qualcuno doveva alzarsi e portarglielo a motivo della finestra aperta, facendo finta
magari di aver dimenticato qualcosa di sopra.
Non appena il resto della famiglia era uscito di casa, pestando i piedi, Luke
tornava nella sua stanza e guardava fuori dalle prese d’aria - prima da quella che
dava sul davanti della casa per vedere Matthew e Mark salire sullo scuolabus, poi
da quella di dietro da dove osservava le nuove case praticamente finite. Ogni casa
era grande quanto la casa dei Garner e la stalla messe insieme. Luccicavano al sole del mattino come se i muri fossero stati decorati con gioielli preziosi. Da quanto
Luke poteva saperne, forse lo erano per davvero.
Una folla disordinata di operai ancora arrivava ogni mattina, ma quasi tutti lavoravano all’interno delle case ora. Appena arrivati, si dirigevano subito dentro le
case portando rotoli di moquette, pacchi di cartongesso, latte di pittura. Luke non li
vedeva più molto una volta scomparsi all’interno delle case. Ora trascorreva più
tempo a guardare un nuovo tipo di traffico: automobili all’apparenza molto costose
che percorrevano lentamente le strade asfaltate di fresco. Alle volte, qualche automobile veniva posteggiata lungo il vialetto che portava al garage e l’uomo che
scendeva dall’automobile entrava in una delle case, di solito seguito da una donna
che sembrava parlasse senza sosta. Ci volle un po’ perché Luke si capacitasse della cosa – certamente non aveva mai osato domandare a chicchessia della sua famiglia – ma pensò che forse quella gente stesse valutando l’acquisto della casa.
Una volta che ne fu sicuro, studiò con attenzione ogni potenziale vicino di casa. A-
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Nascosti
veva sentito per caso mamma e papà esprimere il loro disappunto perché le persone che sarebbero venute ad abitare nelle nuove case non sarebbero state delle
semplici persone di città, ma dei Baroni. Luke sapeva che i Baroni erano uomini
d’affari e dipendenti del Governo, molto ricchi e potenti. Possedevano cose che le
famiglie comuni non potevano permettersi. Luke non sapeva come i Baroni fossero
diventati tanto ricchi, quando tutti gli altri erano tanto poveri. Ma mai papà aveva
pronunciato la parola “Baroni” senza un’imprecazione davanti ad essa.
Le persone che entravano nelle nuove case avevano un aspetto decisamente
diverso da quello di tutti i componenti della famiglia di Luke. La maggior parte era
magra, belle donne vestite con abiti perfettamente adatti alla loro forma, gli uomini
che sembravano più grandi e grossi del normale erano vestiti in quelli che il papà di
Luke e i suoi fratelli definivano vestiti da femmina – scarpe lucidissime e pulite, pantaloni eleganti e giacca. Luke si sentiva sempre un po’ imbarazzato per loro, perché
andavano in giro vestiti in quel modo. O forse era imbarazzato per la sua famiglia,
per il fatto che non aveva mai avuto l’aspetto di nessuno di quei Baroni. Luke provava un interesse e curiosità particolari quando gli adulti portavano dei figli con sé,
perché così poteva concentrare la sua attenzione su di essi. I più piccoli erano
sempre vestiti come i loro genitori, con fiocchi ai capelli e bretelle e altri ninnoli vistosi che Luke sapeva che i suoi genitori non avrebbero mai comperato. I ragazzi
più grandi di solito sembravano come se avessero indossato la prima cosa che avessero tirato fuori dall'armadio quella mattina.
Sebbene sapesse che nessuno si sarebbe fatto vedere con tre figli, sempre
contava: “Uno, due …”. “Uno …”. “Uno, due …”.
E se una famiglia con un solo figlio si fosse trasferita dietro la sua casa e lui si
fosse intrufolato nella loro casa e avesse fatto finta di essere il loro secondo figlio?
Sarebbe potuto andare a scuola, andare in città, comportarsi come Matthew e Mark
…
Che idiozia – Luke che vive con i Baroni! Con tutta probabilità gli avrebbero
sparato per violazione di proprietà privata. Oppure lo avrebbero denunciato.
Quando cominciava a pensare a queste cose, sempre saltava giù dal suo posatoio presso la presa d’aria e prendeva in mano un libro da una pila polverosa sotto la linda del tetto. Mamma gli aveva insegnato a leggere e a fare di conto, tutto
quello che essa stessa sapeva. “Almeno abbiano alcuni libri per te …”, spesso borbottava tristemente, quando se ne andava la mattina. Aveva letto tutti i libri dozzine
di volte, perfino quelli con il titolo come : Malattie dei suini e Le erbe comuni della
campagna. I suoi favoriti erano i pochi libri di avventura che possedeva, quelli che
gli permettevano di far finta di essere un cavaliere che combatteva un drago per
Margaret Peterson Haddix
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salvare una principessa rapita, oppure un esploratore che solcava mari tempestosi,
che stava aggrappato all’albero di maestra mentre la tempesta infuriava attorno a
lui.
Gli piaceva dimenticarsi di essere Luke Garner, terzo figlio, nascosto in soffitta.
Alle volte, verso mezzogiorno, sentiva la porta dello stanzino che dava in cucina aprirsi e allora scendeva e mangiava nello stesso momento di suo padre. Senza la mamma. Non c’erano più torte fatte in casa ora, né purè di patate, né l’arrosto
che diffondeva il suo odore delizioso per tutta la casa. Papà sempre faceva quattro
panini, controllava bene che nessuno lo vedesse, poi ne dava due a Luke seduto
nella tromba delle scale.
Papà non parlava mai – aveva spiegato che non voleva che nessuno potesse
sentirlo inavvertitamente e che poi si ponesse delle domande. Ma accendeva la radio per sentire il notiziario agricolo di mezzogiorno e di solito c’era una canzone o
due dopo il notiziario, prima che papà spegnesse la radio e uscisse per riprendere il
suo lavoro.
Quando papà se ne andava, Luke ritornava nella sua stanza e si metteva
nuovamente a osservare le case nuove.
Alle sei e mezza mamma tornava a casa e sempre gli faceva una breve visita
e lo salutava, poi di corsa se ne andava per svolgere i lavori di casa di un intero
giorno nelle poche ore che le restavano prima di andare a letto. Di solito anche Matthew e Mark salivano a fargli visita, ma neppure loro potevano fermarsi a lungo.
Dovevano aiutare papà prima di cena, poi fare i compiti di scuola. Erano sempre
stati molto gentili con Luke quando stavano all’aperto assieme. Prima che il bosco
fosse tagliato. I tre fratelli avevano spesso giocato a palla-base o a calcio, oppure a
pallavolo nel cortile, dopo la scuola, e dopo aver finito le faccende di casa. Matthew
e Mark sempre baruffavano riguardo a chi doveva avere Luke nella propria squadra, perché, anche se Luke non era molto bravo, due ragazzi assieme riuscivano
sempre a battere il terzo.
Ora giocavano con poca convinzione a giochi di carte o a scacchi con Luke, e
Luke era convinto che i due preferissero stare all’aria aperta. E anche lui.
Tentò di non pensarci.
La parte migliore del giorno veniva alla fine, quando mamma saliva per riboccargli le coperte. Era rilassata in quei momenti. Alle volte si fermava per un’ora, per
domandargli cosa avesse letto quel giorno, o per raccontandogli storie sulla vita
passata della fattoria.
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Nascosti
Poi, una sera, quando gli raccontava di come i suoi guanti di plastica erano
rimasti impigliati in un pollo che stava squartando quel giorno, mamma
all’improvviso si era fermata a metà di una frase.
“Mamma?” Luke disse.
Gli rispose russando. Si era addormentata stando seduta.
Luke scrutò il suo viso, vide i segni della stanchezza che mai vi erano apparsi
in precedenza, osservò che i capelli che le contornavano il viso erano ora tanto grigi
quanto castani.
“Mamma?” ripeté, scuotendole gentilmente il braccio.
Ebbe un sussulto. “… ma ho pulito il pollo lo stes … oh. Scusa, Luke. Ora ti
rimbocco le coperte”.
Gli sistemò il cuscino, gli lisciò le lenzuola.
Luke si mise seduto. “Va tutto bene, mamma. Sono grande per queste cose,
orm …” inghiotti il groppo che aveva in gola. “… ormai. Scommetto che tu non rimboccavi le coperte a Matthew e a Mark quando avevano dodici anni”.
“No”, rispose con semplicità.
“Allora non ne ho bisogno neppure io”.
“D’accordo”, disse.
Gli baciò la fronte, comunque, poi spense la luce. Luke girò il viso verso il muro e rimase così fino a che la mamma non se ne andò.
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CAPITOLO OTTO
A
lcune settimane più tardi, in una mattina fredda e piovosa, la famiglia di Luke se
ne andò così in fretta, che ebbe appena il tempo di salutarlo. Si precipitarono
tutti fuori di casa dopo colazione, Matthew e Mark lamentandosi per il loro pranzo al
sacco, papà gridando dietro: “Vado all’asta del bestiame a Chytlesville. Non sarò a
casa fino a ora di cena”. Mamma in tutta fretta consegnò a Luke una busta di carta
contenente ciccioli di maiale e tre pere e alcuni pezzi di pane arrostito, avanzi dalla
sera prima, farfugliando: “Così non ti arrabbierai”, e gli diede un veloce bacio sulla
testa. Poi anche lei se ne andò di corsa.
Luke sbirciò per la porta delle scale e osservò il caos di pentole sporche e
piatti pieni di briciole lasciti in cucina. Sapeva che non poteva guardare fuori fino a
scorgere la finestra, ma lo fece lo stesso. Il cuore ebbe uno strano sussulto quando
vide che la finestra aveva la tapparella abbassata. Qualcuno l’aveva abbassata la
sera prima, evidentemente con lo scopo di tenere calda la cucina e poi si era dimenticato di alzarla la mattina. Luke si avventurò un po’ più in fuori – sì, anche la
tapparella dell’altra finestra era abbassata. Per la prima volta dopo sei mesi, sarebbe potuto entrare in cucina senza preoccuparsi di essere visto. Avrebbe potuto correre, saltare, andare di qua e di là, ballare perfino – sull’ampio linoleum della stanza, senza paura. Avrebbe potuto mettere a posto la cucina e fare una sorpresa alla
mamma. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Mise il piede destro fuori della porta
delle scale con grande titubanza, quasi non osando mettere tutto il corpo sul linoleum della cucina. Il pavimento scricchiolò. Si sentì gelare. Non successe nulla, nonostante ciò, ritrasse il piede. Risalì le scale, a carponi percorse il corridoio del secondo piano per evitare le finestre, poi salì le scale della soffitta. Era talmente disgustato di se stesso, che poteva quasi sentirne il sapore in bocca.
Sono un codardo, sono un vero pollo. Mi merito di essere rinchiuso in soffitta
per sempre, continuava a girargli in testa. No, no, ribatté a se stesso, sono solo
prudente, preparerò un piano.
Salì sullo sgabello posto in cima al baule che gli serviva come posatoio per
guardare fuori della presa d’aria posteriore. Il quartiere dietro casa era ora intera-
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Nascosti
mente abitato. Conosceva tutte le famiglie che vi erano venute ad abitare e aveva
inventato nomi per la maggior parte di esse. La “Famiglia Big Car” aveva quattro
grosse automobili allineate nel vialetto. Tutti i membri della “Famiglia Gold” avevano
i capelli del colore del sole. La “Famiglia Birdbrain” aveva una fila di ben trenta casette per gli uccelli allineate sulla siepe del cortile dietro la loro casa, anche se Luke
avrebbe potuto dire loro che era inutile fare una cosa del genere fino a primavera.
La casa che riusciva a vedere meglio, subito dietro il cortile dei Garner, era abitata
dalla “Famiglia Sport”. Vi abitavano due adolescenti, e il loro portico era pieno di
palloni da calcio, di mazze da baseball, di racchette da tennis, di palloni da basket,
di mazze da hockey e di attrezzatura che Luke poteva solo immaginare cosa fosse.
Quel giorno non provava alcun interesse per il gioco. A lui interessava vedere
le famiglie partire.
Aveva osservato in precedenza che tutte le nuove abitazioni rimanevano
sempre vuote entro le nove di mattina, quando i ragazzi andavano a scuola e i
grandi al lavoro. Sembrava che tre o quattro delle signore di casa non avessero
un’occupazione, ma anche loro se ne andavano via al mattino e ritornavano solamente al pomeriggio con le borse della spesa. Quel giorno, doveva solamente assicurarsi che nessun rimanesse a casa ammalato.
La “Famiglia Gold” fu la prima a partire, due teste bionde in un’automobile, e
altre due nell’altra. La “Famiglia Sport” fu la successiva a partire, i ragazzi con indosso le loro protezioni da football e gli elmetti, le loro madri pericolosamente appoggiate su scarpe dai tacchi altissimi.
In rapida successione tutte le automobili uscirono da ogni vialetto e come un
ruscello si immisero sulla strada nuova di zecca. Luke contò ogni persona, tenne
attentamente il conto facendo dei segni sulla parete e alla fine contò i segni per due
vote per essere sicuro. Sì – ventisei persone partite. Era al sicuro.
Luke scese in fretta dallo sgabello, la testa tutta un turbinio di progetti. Per
prima cosa, avrebbe pulito la cucina; poi avrebbe fatto del pane per cena. Non aveva mai fatto del pane prima, ma aveva guardato mamma un milione di volte. Poi,
forse, avrebbe potuto abbassare le tapparelle del resto della casa e pulirla da cima
a fondo. Non avrebbe potuto usare l’aspirapolvere – avrebbe fatto troppo rumore –
ma avrebbe potuto spolverare e dare la cera. Mamma sarebbe stata proprio contenta. Poi, il pomeriggio, prima che Matthew e Mark o i ragazzi del quartiere tornassero
a casa da scuola, avrebbe potuto preparare qualcosa per cena. Forse minestra di
patate. Ma certo! Avrebbe potuto fare quelle cose ogni giorno. Non aveva mai pensato prima alle faccende di casa o al cucinare come a un lavoro particolarmente
emozionante – Matthew e Mark sempre ci scherzavano sopra e lo definivano lavoro
Margaret Peterson Haddix
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da donne – ma era sempre meglio di niente. E forse, solo forse, se la cosa avesse
funzionato, avrebbe potuto convincere papà a lasciarlo sgattaiolare nella stalla e
fare qualche lavoretto anche là.
Luke era talmente eccitato che entrò in cucina senza pensarci su una seconda volta. Chi se ne importa se il pavimento scricchiola? Nessuno era nei paraggi
per sentire. Raccolse i piatti dalla tavola e li ammucchiò nel lavello poi lavò tutto con
scrupolosità straordinaria. Misurò farina, lardo, latte e lievito e mise il tutto in un recipiente, quando gli venne in mente che sarebbe stato una bella cosa accendere la
radio, con il volume molto basso. Nessuno avrebbe sentito. E anche se avessero
sentito, avrebbero pensato che qualcuno si era dimenticato di spegnerla, proprio
come si era dimenticato di alzare le tapparelle.
Il pane era nel forno e Luke stava raccogliendo a mano i batuffoli di polvere
dal tappeto del soggiorno quando sentì dei pneumatici sulla ghiaia del vialetto di
casa. Erano le due del pomeriggio, troppo presto per lo scuolabus o per papà o
mamma. Luke fece uno scatto verso le scale nella speranza che chiunque fosse se
ne sarebbe semplicemente andato.
Non ebbe fortuna. Sentì la porta di dietro cigolare e aprirsi, poi papà esclamò:
“Cosa accidenti …”.
Era rincasato in anticipo. Non doveva essere un problema. Ma, nascosto nella tromba delle scale, Luke improvvisamente ebbe la sensazione come se la radio
fosse forte come un’intera orchestra, come se il pane che si stava cucinando nel
forno potesse riempire tre paesi col suo odore.
“Luke!” papà urlò.
Luke sentì la mano di suo padre sulla maniglia. Aprì la porta.
“Ho solo cercato di dare una mano”, Luke piagnucolò. “Non c’era pericolo. Hai
lasciato le tapparelle abbassate e ho pensato che non c’erano pericoli e mi sono
assicurato che tutti i vicini di casa fosse andati via e …”.
Papà lo fissò adirato. “Non si può mai essere sicuri”, disse bruscamente.
“Persone simili – ricevono delle consegne continuamente, stanno male e tornano a
casa dal lavoro, hanno donne delle pulizie che vengono durante il giorno …”
Luke avrebbe voluto replicare che, no, le donne delle pulizie non venivamo
mai prima che i ragazzi tornassero a casa da scuola. Ma non voleva spifferare
quanto sapeva più di quanto aveva già fatto.
“Le tapparelle erano abbassate”, disse. “Non ho acceso nessuna luce. Anche
se ci fossero state mille persone là dietro, nessuno avrebbe saputo che ero qui! Per
piacere – dovevo fare qualcosa. Guarda, ho fatto il pane, o pulito tutto, e …”
“Cosa succede se un ispettore del Governo o qualcuno si ferma qui davanti?”
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Nascosti
“Sarei corso a nascondermi. Come sempre”.
Papà scosse la testa. “E lasciare che sentano l’odore del pane in una casa
vuota? Sembra che tu non capisca”, disse. “Non puoi correre alcun rischio. Non
puoi. Perché …”
In quel preciso momento il cicalino del forno scattò e fece un suono forte come una sirena. Papà rivolse a Luke un’occhiata di disapprovazione e si precipitò
verso il forno. Tirò fuori le due casseruole del pane e le gettò sul fornello. Poi, con
un movimento brusco, spense la radio.
“Non voglio che tu venga in cucina mai più”, disse. “Rimarrai nascosto. E’ un
ordine”.
Uscì dalla porta senza girarsi indietro.
Luke scappò su per le scale. Voleva battere i piedi su ogni gradino, arrabbiato, ma non poteva farlo. Ogni rumore era proibito. Una volta nella sua stanza non
riusciva a decidersi, era troppo sconvolto per leggere, troppo agitato per fare qualsiasi cosa. Continuava a sentire nelle orecchie: Rimarrai nascosto. E’ un ordine! Ma
se era rimasto nascosto comunque! Se era stato attento! Per comprovare il suo
punto di vista – almeno a se stesso – risalì sul suo posatoio vicino alla presa d’aria
posteriore e guardò fuori, al quartiere silenzioso.
Tutti i vialetti erano vuoti. Nulla si muoveva nemmeno la bandiera in cima al
palo della bandiera della “Famiglia Gold”, nemmeno le pale dei finti mulini a vento
della “Famiglia Birdbrain”.
Fu allora che Luke, con la coda dell’occhio, intravide qualcosa dietro una delle finestre della casa della “Famiglia Sport”.
Un volto. Il volto di un bambino. In una casa dove vivevano già due figli.
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CAPITOLO NOVE
Luke ne rimase talmente sbalordito che perse l’equilibro e quasi cadde dal baule.
Quando riuscì a riprendersi e a drizzarsi, il volto nella finestra era scomparso. Che
si fosse immaginato tutto? Che uno dei fratelli della “Famiglia Sport” fosse solamente tornato a casa da scuola in anticipo? I ragazzi si ammalano, papà disse, oppure
decidono di marinare la scuola. Luke tentò di ricordare ogni dettaglio del volto che
aveva visto o che credeva di aver visto. Era un volto molto più giovane di entrambi i
fratelli della “Famiglia Sport”. Un volto dai lineamenti più delicati.
Forse era un ladro. Oppure una domestica, venuta prima del solito.
No. Era un bambino. Un …
Si rifiutò persino di pensare che ci fosse un terzo figlio in quella casa.
Per ore continuò a osservare la casa della “Famiglia Sport”, ma nessun volto
riapparve. Nulla successe fino alle sei, quando i due ragazzi della “Famiglia Sport”
si immisero nel vialetto dentro la loro jeep, scaricarono l’attrezzatura da football e la
portarono dentro casa. Non corsero fuori urlando che la loro casa era stata svaligiata.
E non aveva visto nessun ladro fuggire. Non aveva visto nessuna domestica
andarsene. Alle sei e mezza, Luke, con riluttanza, scese dal suo posatoio quando
sentì la mamma bussare alla porta. Si sedette sul letto e le rivolse un distratto “Entra!”. Mamma corse ad abbracciarlo.
“Luke … mi dispiace! Lo so che volevi solo aiutare. E tutto è così incredibilmente pulito. Mi piacerebbe davvero se tu potessi farlo ogni giorno. Ma tuo padre
crede … cioè, non puoi …”
Luke era talmente impegnato a pensare al volto nella finestra che in un primo
momento non riuscì a capacitarsi di ciò che mamma gli stava dicendo. Oh, sì. Il pane. Le pulizie di casa. La radio.
“Non fa niente”, Luke borbottò.
Ma non era così, non sarebbe mai stato così. La collera ritornò. Perché i suoi
genitori dovevano essere così maledettamente cauti? Perché allora non lo chiude-
27
Nascosti
vano semplicemente a chiave in uno dei bauli della soffitta e non la facevano finita
con lui?
“Mamma, non puoi parlare con papà?” Luke domandò. “Non puoi convincerlo
a …”.
Mamma gli scostò un ciuffo di capelli dal viso. “Ci proverò”, disse. “Ma sai che
sta solo cercando di proteggerti. Non puoi correre rischi”.
E se anche il viso nella finestra della casa della “Famiglia Sport” fosse un terzo figlio? Luke e l’altro ragazzo avrebbero potuto vivere proprio uno accanto all’altro
e non incontrarsi mai. Luke avrebbe potuto non vedere mai più l’altro ragazzo. E
quello certamente non avrebbe mai visto Luke.
Luke abbassò la testa.
“Cosa devo fare?” domandò. “Non ho mai nulla da fare. Devo semplicemente
starmene seduto in questa stanza per il resto della mia vita?”
Mamma gli stava accarezzando i capelli ora. E la cosa gli faceva il solletico e
lo irritava.
“Oh, Lukie!”, disse. “Puoi fare tanto. Leggere e giocare e dormire quando vuoi
… credimi, mi piacerebbe vivere un giorno della tua vita proprio adesso”.
“No, non ti piacerebbe”, Luke borbottò, ma lo disse talmente piano che fu sicuro che mamma non lo avesse sentito. Sapeva che non lo avrebbe capito.
Se ci fosse stato un terzo figlio nella “Famiglia Sport”, lui avrebbe capito? Si
sentiva nello stesso modo in cui lui si sentiva?
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO DIECI
Luke scese per la cena, vide che mamma aveva messo due pagnotte
Quando
del pane che lui aveva fatto su un bel piatto di porcellana che usava per le feste
e per le occasioni speciali. Stava mettendo in mostra il pane nel modo in cui era solita fare con i disegni, quasi dei scarabocchi, che Matthew e Mark avevano portato a
casa da scuola quando erano piccoli. Ma qualcosa non quadrava – forse Luke non
aveva usato abbastanza lievito oppure aveva lavorato l’impasto troppo o troppo poco, fatto sta, che le pagnotte erano ora troppo schiacciate. Avevano una forma strana e sembravano quasi patetiche, poste così, al centro della tavola.
Luke avrebbe voluto che mamma le avesse gettate via.
“Fa freddo fuori adesso, nessuno se ne accorgerà se abbassi le tapparelle.
Perché non posso sedermi a tavola con tutti voi?” domandò quando raggiunse il
fondo delle scale.
“Oh, Luke …” mamma iniziò a dire.
“Qualcuno potrebbe vedere la tua ombra attraverso la tapparella”, papà disse.
“Non saprebbero che è la mia”, Luke disse.
“Ma sarebbero cinque. A qualcuno potrebbero venire dei sospetti”, mamma
disse con grande pazienza. “Luke. Stiamo solamente cercando di proteggerti. Che
ne dici di una bella fetta del tuo pane? C’è anche carne fredda e fagioli in scatola.
Con aria rassegnata, Luke si sedette sulle scale.
Matthew domandò a papà come fosse andata l’asta del bestiame.
“Ho fatto tutta quella strada per niente”, papà disse con espressione disgustata. “Ho aspettato per quattro ore che arrivassero i trattori e poi non sono riuscito
neppure a permettermi la prima offerta”.
“Almeno sei tornato a casa in tempo per riparare la staccionata di dietro prima
del buio”, mamma disse tagliando il pane.
E per gridarmi di tutto, Luke disse tra sé amaramente. Cos’era che non andava in lui? Nulla era cambiato. Eccetto che, forse, aveva visto un volto che, forse,
apparteneva a qualcuno come lui.
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Nascosti
Matthew e Mark improvvisamente notarono che il pane che mamma stava distribuendo aveva qualcosa di insolito.
“Cos’ha che non va?” Mark domandò.
“Sono sicura che avrà un buon gusto”, mamma disse. “E’ il primo tentativo di
Luke”.
Luke borbottò: “ E anche l’ultimo”, ma troppo sottovoce perché lo udissero.
C’erano dei vantaggi a stare seduto dall’altra parte della stanza lontano da tutti.
“E’ stato Luke a fare il pane?” Mark disse con espressione incredula. “Che
schifo”.
“Sì. E ho messo un veleno speciale in una delle pagnotte che ha effetto solo
sui quattordicenni”, Luke disse. Inscenò di morire, stringendosi le mani attorno al
collo, facendo penzolare la lingua fuori della bocca, e piegando la testa da una parte. “Se sei gentile con me, ti dirò quale pagnotta non ha il veleno”.
Ciò fu sufficiente a far star zitto Mark, ma Luke si prese una bella occhiata adirata da parte di mamma. Tuttavia, Luke provò una sensazione strana mentre faceva quello scherzo. Naturalmente non avrebbe mai avvelenato nessuno, ma se
qualcosa fosse capitato a Matthew o a Mark, avrebbe dovuto nascondersi ancora?
Sarebbe diventato il secondo figlio ufficiale, libero di andare in città e a scuola e in
qualsiasi altro posto dove andavano Matthew e Mark? I suoi genitori sarebbero stati
in grado di trovare un modo per spiegare che avevano un “nuovo” figlio di dodici
anni?
Non era certo una cosa che Luke poteva chiedere loro. Si sentì in colpa solo
per averlo pensato.
Mark, con grande cerimonia e gesti plateali, portò il pane alla bocca.
“Non ho paura di te”, lo schernì e diede un grosso morso. Inghiottì con grande
difficoltà e fece finta di soffocare. “Acqua, acqua, presto!” Trangugiò metà del suo
bicchiere d’acqua e fissò Luke con aria d’accusa.
“Sa di veleno, è vero”,
Luke diede un morso al suo pane. Era secco e friabile e senza gusto, proprio
per niente come quello di mamma. E tutti se n’erano accorti. Anche papà e mamma
avevano espressioni di pena sul loro viso mentre masticavano. Alla fine papà spinse via la sua fetta.
“Va tutto bene, Luke”, disse. “Non sono sicuro di voler avere un figlio che diventi troppo bravo a cuocere il pane. Ecco perché un uomo si sposa”.
Matthew e Mark si misero a sghignazzare.
“Ti sposerai così presto, Luke?” Mark lo burlò.
Margaret Peterson Haddix
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“Sicuro”, Luke rispose, sforzandosi di sembrare sfacciatamente felice come
Mark. “Ma non penso che ti inviterò al mio matrimonio”.
Sentì una forte contrazione fredda allo stomaco e non era per il pane. Certo
che non si sarebbe mai sposato. O qualunque altra cosa. Non avrebbe mai lasciato
la casa.
Mark allora passò a prendere in giro Matthew, il quale evidentemente aveva
una ragazza. Luke guardò il resto della sua famiglia ridere.
“Posso essere scusato?” Luke domandò.
Tutti si voltarono verso di lui sorpresi. Di solito lui era l’ultimo a fare quella richiesta. Mamma spesso pregava Matthew e Mark, “Non potete aspettare e parlare
con Luke ancora un po’”
“Già finito?”, mamma domandò.
“Non ho molta fame”, Luke disse.
Mamma gli rivolse uno sguardo preoccupato, ma annuì lo stesso.
Luke andò nella sua stanza e salì sullo sgabello vicino alla presa d’aria posteriore. Nel buio era più facile del solito vedere dentro le case del nuovo quartiere. La
luce delle finestre era molto più forte contro il buio della sera. Alcune famiglie stavano cenando, come la sua. Vide una famiglia di quattro persone seduta attorno al
tavolo del soggiorno e una famiglia di tre. Alcune famiglie avevano le tende o le
tapparelle abbassate, ma alle volte la stoffa delle tende era sottile e Luke riusciva a
vedere le ombre delle persone all’interno.
Sola la “Famiglia Sport” aveva le finestre completamente oscurate da tende
spesse e pesanti.
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Nascosti
CAPITOLO UNDICI
D
opo quei fatti, Luke cominciò a non perdere mai di vista la “Famiglia Sport”. In
precedenza, si era limitato a guardare fuori della presa d’aria posteriore di mattina presto e di pomeriggio tardi, quando sapeva che la gente era a casa. Ma aveva
visto quel volto alle due del pomeriggio. Forse anche l’altro ragazzo era a conoscenza dei ritmi del vicinato e abbassava la guardia solo le volte che considerava
sicure.
Per tre lunghi giorni Luke non vide nulla.
Poi, il quarto giorno, la sua attesa fu ricompensata: uno dei pannelli di una
delle tapparelle della finestra del piano di sopra si mosse velocemente su e giù. Erano le undici.
Il settimo giorno la tapparella di una delle finestre del piano terra fu lasciata
alzata di mattina. Luke vide una luce accendersi e spegnersi alle 9,07, due ore intere dopo che l’ultimo della “Famiglia Sport” era partito. Mezz’ora più tardi, la signora
“Sport” si immise nel vialetto di casa alla guida della sua automobile rossa ed entrò
in casa con passo deciso. Due minuti più tardi, la tapparella della finestra del piano
di sotto veniva abbassata. La signora se ne andò subito dopo.
Il tredicesimo giorno fu una giornata di un caldo fuori stagione e Luke sudò
profusamente a stare sotto il tetto della soffitta. Alcune finestre di casa “Sport” erano state lasciate aperte, sebbene ancora oscurate dalle tapparelle. Il vento face oscillare le tapparelle verso l’indietro un paio di volte. Luke vide delle luci accese
prima in alcune stanze, poi in altre, a mano a mano che il giorno proseguiva. Una
volta pensò perfino di aver visto la luce di uno schermo televisivo.
Non aveva più dubbi. Qualcuno si stava nascondendo in casa della “Famiglia
Sport”.
La domanda era, cosa avrebbe fatto al riguardo?
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO DODICI
V
enne la stagione dei raccolti. Matthew e Mark rimasero a casa da scuola per
aiutare papà a portare il raccolto al coperto. Per diversi giorni lavorarono intensamente dall’alba fino a mezzanotte. Anche la fabbrica dove mamma lavorava aveva maggiore lavoro e dovette fare due o tre ore di straordinario ogni giorno. Il mattino, prima di partire da casa, portava una provvista di cibo nella stanza di Luke, sufficiente perché non avesse fame mentre erano tutti via.
“Ecco!” disse allegramente, mettendo in fila scatole di cracker e sacchetti di
frutta. “In questo modo, non sentirai neppure la nostra mancanza”. Con gli occhi lo
pregò di non lamentarsi.
“Sì, sì, “ disse, tentando di sembrare allegro. “Andrà tutto bene”.
Teneva d'occhio la casa della “Famiglia Sport” solo sporadicamente ora. Di
quali prove aveva ancora bisogno? A cosa gli sarebbe giovato sapere di più riguardo al presunto terzo figlio? Del resto, cosa si aspettava: che l’altro ragazzo corresse
per il suo cortile e gridasse: ‘Ehi, Luke, esci e giochiamo assieme!’?”
Sgranocchiò le sue mele in solitudine. Mangiò i suoi cracker da solo.
Senza volerlo, una pazza idea prese forma nella sua mente e, ad ogni giorno
che passava, si arricchì di nuovi particolari.
E se fosse sgattaiolato dentro la casa della “Famiglia Sport” e avesse incontrato l’altro terzo figlio?
Avrebbe potuto farlo. Era possibile. Teoricamente.
Trascorse giorni interi a preparare il percorso nei minimi particolari. Avrebbe
avanzato nascondendosi tra i cespugli e rasente la stalla per attraversare quasi tutto il cortile. Poi gli rimanevano solamente due metri da coprire tra l’angolo della stalla e l’albero più vicino nel cortile della “Famiglia Sport”. Avrebbe potuto strisciare
carponi per terra. Poi si sarebbe nascosto vicino alla siepe che faceva da confine
con la casa della “Famiglia Birdbrain” – tutte quelle casette per uccelli avrebbero
potuto davvero tornare utili. Infine, altri tre passi e avrebbe raggiunto la casa della
“Famiglia Sport”. C’era una porta vetrata scorrevole sul retro della casa e nei giorni
33
Nascosti
caldi la lasciavano aperta, con solo quella che sembrava una porta zanzariera a impedire l’ingresso. Sarebbe potuto entrare da là.
Avrebbe avuto il coraggio di farlo?
Certo che no, eppure, eppure …
Ma un giorno, quando guardò fuori dalle prese d’aria e vide le foglie dell’acero
rigate di rosso e di giallo, fu preso dal panico. Aveva bisogno delle foglie sui rami
perché lo nascondessero lungo il suo tragitto verso la casa della “Famiglia Sport”.
Se avesse aspettato troppo, le foglie sarebbero cadute.
Cominciò a svegliarsi il mattino che sudava freddo al solo pensarci. Forse oggi. Avrò il coraggio di farlo?
E aveva una sensazione strana nello stomaco.
Piovve per tre giorni di fila i primi di ottobre, e si sentì quasi sollevato perché
ciò voleva dire che non avrebbe potuto mettere in atto il suo piano durante quei
giorni di pioggia. Non era neppure pensabile, non poteva certo rischiare di lasciare
delle impronte nel fango. E papà e Matthew e Mark gli sarebbero stati di impedimento perché andavano e venivano in continuazione dalla casa alla stalla e viceversa, brontolando perché non potevano andare a lavorare nei campi.
Finalmente la pioggia cessò e i campi si asciugarono e papà e Matthew e
Mark ripresero il loro lavoro nei campi con la combinata e i trattori, lontano da casa.
Anche il suo cortile e il cortile della “Famiglia Sport” si asciugarono.
E tornò il caldo, e la porta scorrevole della “Famiglia Sport” fu nuovamente lasciata aperta.
La pioggia non aveva fatto cadere tutte le foglie dagli alberi del cortile, ma
quella che sarebbe arrivata in seguito lo avrebbe sicuramente fatto.
Il terzo mattino dopo la pioggia, lo stomaco di Luke era tutto sottosopra quando si sedette sul suo sgabello ad osservare il quartiere deserto là fuori. Seppe senza ombra di dubbio che quel giorno doveva mettere in atto il suo piano, se ancora
aveva intenzione di farlo. Non poteva aspettare fino alla primavera. Non sarebbe
riuscito a resistere.
Vide tutte le ventotto persone partire da casa nelle otto automobile e
nell’unico scuolabus. Con le mani che gli tremavano, fece un’altra volta dei graffi sul
muro e ricontò, una volta, due volte, tre volte. Ventotto. Sì. Ventotto. Sì. Ventotto. Il
numero magico. Sentiva il sangue battere nelle orecchie. Si mosse come in uno
stato confusionale. Scese dal posatoio. Giù per le scale. In cucina. E infine … fuori
della porta di dietro.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO TREDICI
Si era dimenticato di come fosse l’aria fresca, quando gli riempì le narici e i polmoni.
Era buona. Con la schiena premuta contro il muro di casa, rimase fermo per un
momento, solo respirò. Tutti i mesi trascorsi chiuso in casa gli sembrarono
all’improvviso come una non vita. Era stato come un animale che aveva confuso le
stagioni ed era andato in letargo durante la stagione buona. L’ultima cosa reale che
gli era successa era che era stato chiamato in casa quando avevano iniziato ad abbattere il bosco. La vera vita era all’esterno.
Ma stare fuori era pericoloso. E più a lungo vi sarebbe rimasto e più il pericolo
sarebbe aumentato.
Si abbassò, si mise mezzo carponi per terra, poi si mosse svelto rasente alla
casa, poi lungo la siepe e la stalla. Raggiunto l’angolo posteriore della stalla, ebbe
un’esitazione, quando fissò lo sguardo su ciò che gli sembrò uno spazio aperto infinito tra la stalla e gli alberi che delimitavano il confine tra il suo cortile e quello della
“Famiglia Sport”.
Se ne sono andati tutti, disse tra sé. Non c’è anima viva in giro che possa vedermi.
Immobile, aspettò, fissando i fili d’erba proprio di là dei suoi piedi. Gli era stato
insegnato per tutta la vita ad aver paura degli spazi aperti simili a quello che gli stava davanti. Vi si affacciavano dozzine di finestre. Non aveva mai messo piede in
nessun posto tanto pubblico, anche se deserto.
Ancora nascosto dalla stalla, si fece forza e mise lentamente un piede in avanti. Ma subito lo tirò indietro.
Si voltò e guardò la casa della sua famiglia, così rassicurante. Il suo rifugio.
Sentì la voce di sua madre nella testa: Luke! Dentro! Ora! La voce gli sembrò talmente reale che gli venne in mente una cosa che aveva letto in uno dei vecchi libri
della soffitta, una cosa che parlava di telepatia – verosimilmente, se le persone ti
amavano davvero, potevano far sentire la loro voce a miglia di distanza se ti trovavi
in pericolo.
Doveva tornare indietro. Sarebbe stato al sicuro là dentro.
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Nascosti
Prese un grande respiro, guardò avanti, verso la casa della “Famiglia Sport”,
poi guardò indietro verso la sua casa. Pensò di tornare a casa – di trascinarsi stancamente su per le scale consumate e di tornare nella sua stanza familiare e tra le
pareti che fissava ogni giorno. Improvvisamente sentì di odiare la sua casa. Non era
il suo rifugio. Era la sua prigione.
Prima di avere il tempo per pensare una seconda volta, si lanciò in avanti con
un balzo e in modo spericolato sfrecciò attraverso l’erba. Non si fermò neppure per
nascondersi dietro qualche albero. Corse fino alla porta della “Famiglia Sport” e
strattonò la porta a zanzariera.
Era chiusa a chiave.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO QUATTORDICI
I
n tutti i suoi complotti, Luke non aveva mai pensato che avrebbe trovato la porta a
zanzariera chiusa. Sebbene sapesse che i suoi genitori le chiudevano a chiave la
notte – quando non se lo dimenticavano – le porte erano sempre aperte per lui di
giorno Ma non era mai stato vicino alla porta di nessun altro.
“Che idiota”, borbottò tra sé.
Tirò la porta con maggiore forza, ma non riusciva a concentrarsi abbastanza
da coordinare il movimento di entrambe le mani. A ogni secondo che passava i capelli sulla nuca si drizzavano sempre un po’ di più. Non era mai stato tanto allo scoperto in tutta la sua vita.
Svelto, svelto, svelto. Non farti vedere …
La porta non si mosse. Avrebbe dovuto voltarsi e andarsene. Adesso.
Ciò fu quello che il suo cervello gli disse. Ciò che invece la sua mano fece fu
conficcarsi nella rete della zanzariera. La mano strappò la rete dal telaio e passò
oltre. Il filo di ferro della rete gli graffiò il dorso della mano e il braccio, ma non si
fermò. Armeggiò con il chiavistello fino a che non lo sentì scattare.
In silenzio fece scorrere la zanzariera e fece un passo oltre la tapparella abbassata dentro la casa della “Famiglia Sport”.
Anche con le tapparelle che oscuravano tutte le finestre, la stanza dove entrò
era ariosa e luminosa. Dalle pareti dipinte di fresco, ai tavoli di vetro luccicante, al
pavimento di legno lucidato, tutto sembrò nuovo. Luke guardò con attenzione. Quasi tutti i mobili della sua casa erano gli stessi fin da quando riusciva a ricordare, e
ormai avevano perso le loro caratteristiche originali, qualunque fossero state, tanto
erano sbiaditi e consumati. A casa sua, anche il divano, un tempo di colore arancione, e le sedie, originariamente verdi, erano ora tutti uguali, di un solo colore tra il
grigio e il marrone. La stanza in cui si trovava ora era diversa. Gli ricordò una parola
che non aveva mai sentito pronunciare, ma solo letto sui libri: “incontaminato”. Nessuno aveva mai camminato su quei tappeti bianchi con gli scarponi sporchi di letame. Nessuno si era mai seduto su quei cuscini blu pallido con i jeans coperti di polvere di granoturco.
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Nascosti
Luke sarebbe potuto rimanere sulla porta per sempre, completamente incantato, ma qualcuno tossì in un’altra stanza. Poi sentì uno strano bi-bi-bi-biip. In punta
di piedi si inoltrò più avanti. Meglio scoprire che essere scoperti.
Percorse un lungo corridoio. Il bip-bip era diventato ora un persistente
“bzzzzz”, proveniente dalla stanza sul fondo del corridoio.
Trattenendo il respiro, si fermò fuori della porta di tale stanza e, raccogliendo
tutto il suo coraggio, sbirciò dentro. Il cuore batteva forte. Era ancora in tempo a
scappare via senza essere visto, tornare a casa sua e sulla soffitta e alla sua vita
normale e sicura. Ma avrebbe continuato a chiedersi …
Luke si piegò in avanti lentamente, muovendosi una frazione di centimetro alla volta, fino a che non riuscì a vedere appena di là della porta.
All’interno della stanza c’era una sedia e un tavolo da lavoro e un grande aggeggio che Luke riconobbe vagamente come un computer. E al computer, che scriveva furiosamente, stava seduta una ragazza.
Luke sbatté le palpebre, in qualche modo sorpreso perché non aveva mai
pensato che il terzo figlio della “Famiglia Sport” fosse una ragazza. Era quasi del
tutto girata di schiena rispetto a Luke e indossava jeans e una felpa grigia non molto dissimile da quella che i fratelli della “Famiglia Sport” indossavano sempre. I capelli scuri erano corti quasi quanto quelli di Luke. Ma c’era qualcosa nella curva della sua guancia, nell’inclinazione della testa, nel modo in cui la felpa aderiva o non
aderiva al suo corpo - qualcosa che fece concludere a Luke, con certezza, che la
ragazza non era come lui.
Arrossì. Poi deglutì a fatica.
La ragazza girò la testa.
“Io …” Luke disse con voce rauca.
Prima di avere il tempo di pensare ad un’altra parola, la ragazza si precipitò
attraverso la stanza e lo scaraventò a terra. Poi lo bloccò, torcendogli le braccia dietro la schiena, la faccia immersa nel tappeto. Luke si dimenò per poter girare la testa e respirare.
“Ah, è così allora”, la ragazza gli sibilò nell’orecchio. “Tu pensi di poterti avvicinare in tutto silenzio ad una povera ragazza indifesa, ignara di tutto, tutta sola in
casa? Immagino che nessuno ti abbia mai detto del nostro sistema di allarme. Un
messaggio di allarme è stato inviato automaticamente alle nostre guardie di sicurezza il momento stesso in cui sei entrato nella nostra proprietà. Saranno qui a
momenti”.
Luke fu preso dal panico. Allora è così che sarebbe morto. Doveva dare spiegazioni. Doveva fuggire.
Margaret Peterson Haddix
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“No”, disse. “Non devono venire. Io …”
“Oh, davvero?” la ragazza disse. “Chi sei tu per impedirglielo?”
Luke alzò la testa più che poté. Disse la prima parola che gli venne in mente.
“Polizia Demografica”.
La ragazza mollò la presa.
CAPITOLO QUINDICI
L
uke si mise seduto, si controllò le braccia per assicurarsi che non ci fosse nulla
di rotto. “Stai mentendo”, la ragazza disse.
Ma non fece alcuna fatica a placcarlo nuovamente. Si accovacciò sopra di lui,
lo guardò perplessa per alcuni momenti, poi sorrise.
“Ho capito! Sei solo un altro di quelli. Davvero un’ottima parola in codice. Dovrò pensare di usarla per la manifestazione”.
Fu ora la volta di Luke di strabuzzare gli occhi per la confusione che aveva in
testa.
La ragazza fece una risata divertita.
“Cioè, sei un altro ragazzo ombra. Giusto?”
“Ombra …?”
Luke si domandò perché il suo cervello stesse funzionando al rallentatore.
Era solamente perché il cervello della ragazza sembrava correre parecchie miglia
più veloce del suo?
“Non è questa l’espressione che usi anche tu?” domandò. “Pensavo che ‘ragazzo ombra’ fosse un’espressione usata da tutti. Cioè, un illegale, qualcuno i cui
genitori hanno violato la Legge demografica 3903. Un terzo”.
“Io …”, Luke non riusciva a svelare la sua identità tanto era sorpreso. Aveva
già infranto tanti tabù, allontanarsi da casa, stare nel cortile all’aperto, parlare con
un’estranea. Che importanza avrebbe avuto un’ulteriore violazione?
“Dillo pure”, la ragazza disse con tono suadente, “‘Sono un terzo figlio’. Che
male c’è a dirlo?”
A Luke fu risparmiata la risposta, perché la ragazza improvvisamente saltò in
piedi esclamando: “Oh, no! L’allarme!”
Corse giù per il corridoio e svoltò l’angolo. Luke la seguì e la vide strattonare
e aprire la porta di un armadio, poi la vide premere con decisione alcuni pulsanti su
di un pannello pieno di luci colorate.
“Troppo tardi, dannazione!”
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Nascosti
Margaret Peterson Haddix
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Corse al telefono, Luke la seguì quasi senza fiato. Lei fece il numero. Luke la
guardò sbalordito. Non aveva mai parlato al telefono. I suoi genitori gli avevano detto che il Governo poteva intercettare le chiamate, poteva dire se una voce al telefono era di una persona a cui era consentito esistere o no.
“Papà…”, disse facendo una smorfia. “Lo so, lo so. Chiama la società della
sicurezza e dì loro di annullare l’allarme, okay?” Pausa. “E posso ricordarti che la
pena per dar rifugio a un ragazzo ombra è cinque milioni di dollari o la pena di morte, a seconda dello stato d’animo del giudice?”
Girò gli occhi verso Luke mentre ascoltava quella che sembrava essere una
lunga risposta.
“Oh, lo sai, cose simili possono capitare”, un’altra pausa. “Sì, sì. Anch’io ti voglio bene. Grazie, papà”.
Riattaccò. Luke si domandò se dovesse correre a casa immediatamente, prima che la Polizia Demografica si facesse vedere per davvero. “Possono trovarti
proprio adesso”, Luke disse. “Solamente rintracciando la telefonata …”
La ragazza scoppiò a ridere.
“Dicono che sia così. Ma tutti sanno, invece, che il Governo non ha tutta questa competenza”.
Luke iniziò a dirigersi lentamente verso la porta di dietro, solo nel caso. “Ma
davvero quello era un allarme?” domandò. “E hai delle guardie di sicurezza?”
“Sicuro. Tutti ce l’hanno!” la ragazza diede un’altra occhiata strana a Luke.
“Oh. Forse no”.
Fece una smorfia di rincrescimento non appena pronunciate quelle parole.
Luke decise di ignorare l’offesa.
“E le guardie della sicurezza sanno che tu sei qui?” domandò.
“Certo che no”, la ragazza disse. “Se vengono devo nascondermi. Personalmente, penso che la mia famiglia abbia voluto il sistema di allarme per assicurarsi
che io non esca di casa. Ma non sanno che posso disinserirlo. “Ma …” - e gli rivolse
un sorriso malizioso – “Ma qualche volta l’ho fatto scattare per divertimento”.
“E lo trovi divertente?” Luke domandò. Aveva pensato che un eventuale altro
terzo figlio sarebbe stato come lui, che perciò avrebbe capito. Ma la ragazza sicuramente non era come lui. “E non hai paura che le guardie ti scoprano?” aggiunse.
“Veramente no”, la ragazza rispose con un’alzata di spalle. “E vedi, farlo di
proposito ogni tanto ci ha aiutati oggi – papà non mi ha neppure chiesto perché doveva far annullare l’allarme. Ha pensato che gli avevo fatto uno scherzo un’altra volta”.
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Nascosti
Sebbene un po’ contorto, le parole della ragazza avevano un senso. Ma il
tentativo di capire tutte quelle novità fece venire a Luke il mal di testa. Diede
un’occhiata fuori della porta. Se fosse potuto tornare a casa sua sano e salvo, non
si sarebbe mai più lamentato di essere annoiato. In quel momento si sentì confuso,
come Alice nel Paese delle Meraviglie, uno dei vecchi libri che si trovava sulla sua
soffitta. Oppure – si ricordò di una cosa che aveva letto in un libro di scienze – forse
era simile alla preda di un serpente che ipnotizzava le sue vittime prima di mangiarle. Pensò che la ragazza non gli avrebbe fatto del male, ma l’avrebbe potuto confondere e tenere soggiogato fino a che non fosse arrivata la Polizia Demografica o
le guardie della sicurezza o qualcun altro.
La ragazza vide ciò che Luke stava guardando.
“Ti metto forse paura?” domandò. “I ragazzi ombra possono essere talmente
ansiosi alle volte. Sei al sicuro qui, capisci. Che ne dici di iniziare tutto d’accapo? Ti
andrebbe di sederti, ah … come ti chiami, a proposito?”
Luke glielo disse.
“Piacere di conoscerti”, la ragazza disse, stringendogli la mano in un modo
che lo fece sentire come se si stesse prendendo gioco di lui. Poi gli indicò di sedersi
su di un divano della stanza dove era entrato. La ragazza si appollaiò accanto a lui.
“Io sono Jen. Il nome completo è Jennifer Rose Talbot. Ma ti sembro una Jennifer
io?”
Luke scosse la testa e aprì le braccia come se avesse dovuto capire come rispondere solamente osservando la felpa spiegazzata e i capelli in disordine della
ragazza.
Luke aggrottò le sopracciglia.
“Non lo so”, disse. “Non conosco nessuna Jennifer. Solo Matthew e Mark e
mamma e papà”. Sapeva che i nomi dei suoi genitori erano Edna e Harlan, ma si
domandò se doveva mantenere la cosa segreta. Solo nel caso. Probabilmente non
avrebbe dovuto nemmeno nominare Matthew e Mark, ma era stato preso alla
sprovvista, aveva improvvisamente compreso che c’era un mondo pieno di persone
fuori della sua casa, e un mondo pieno di nomi diversi che non aveva mai sentito.
“Hmm”, la ragazza disse. “Allora devo spiegarti – una Jennifer dovrebbe essere, vediamo …, sì tutta timida e carina. Una che la mamma potesse far passare per
sciocca. Mamma voleva una bambina tutta fronzoli, da mettere in abiti di pizzo e
che stesse seduta in un angolo. Come una bambola”, Fece una pausa, poi domandò: “Matthew e Mark sono i tuoi fratelli più grandi, non è vero?”
Luke annuì.
“Allora non hai mai conosciuto nessuno all’infuori dei tuoi parenti più stretti?”
Margaret Peterson Haddix
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Luke scosse la testa in segno di no. Jen ne fu davvero sorpresa, Luke sentì
che doveva difendersi.
“E tu?” domandò, con lo stesso tono di voce di scherno che alle volte usava
con Mark.
“Beh, sì”, lei disse.
“Ma anche tu sei un terzo figlio”, Luke protestò. “Una ragazza ombra. Giusto?”
Sentì improvvisamente una gran voglia di mettersi a piangere se solo si fosse
lasciato andare. Per tutta la sua vita gli era stato detto che non poteva fare tutto ciò
che Matthew e Mark facevano perché lui era il terzo figlio. Ma se Jen poteva andarsene in giro liberamente, la cosa non quadrava più. Che i suoi genitori gli avessero
mentito?
“Tu non devi nasconderti?” domandò.
“Certo”, Jen disse. “Quasi sempre. Ma i miei genitori sono molto bravi a corrompere. E anch’io”. Fece un sorriso malizioso. Poi guardò Luke di traverso. “Come
sapevi che ero un terzo figlio? Come hai saputo che mi trovavo qui?”
Luke glielo disse. Sentì che era importante cominciare dall’inizio, da quando il
bosco era stato abbattuto, perciò la sua storia fu davvero lunga. Jen lo interruppe
frequentemente con domande e commenti. “Allora non ti sei mai allontanato da casa, eccetto che per andare in cortile o nella stalla?”; “Non esci da sei mesi?”; e:
“Accidenti, devi odiare davvero queste case, ah?” E poi, quando arrivò al punto in
cui aveva visto il suo viso nella finestra, lei si morse il labbro.
“Papà mi ucciderebbe se sapesse che ho fatto una cosa del genere. Ma gli
specchietti erano tutti mal allineati e Carlos ha scommesso con me che non sapevo
neppure che tempo facesse fuori, e …”
“Ah?” Luke disse. “Specchietti? Carlos?”
Jen sorvolò sulle sue domande.
“Luke Garner” annunciò solennemente, “sei capitato nel posto giusto. Basta
nasconderti come una talpa. Io sono il tuo biglietto per la libertà”.
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Nascosti
CAPITOLO SEDICI
V
uoi altre patate, Luke?” mamma gli domandò quella sera a cena. “Luke?” La
sua voce divenne più insistente. “LUKE?”
Luke ebbe uno scossone, poi rivolse nuovamente la sua attenzione alla sua
famiglia. Mamma gli stava allungando un recipiente di purè di patate.
“Ehr… no”, Luke disse. “No, grazie. Ne ho già abbastanza”.
“Altro purè per me!” Mark gridò allegro.
Luke si estraniò nuovamente dal contesto in cui si trovava. Aveva mangiato a
stento il suo primo piatto di patate, tanto era assorto a pensare alla sua visita segreta alla casa della “Famiglia Sport”. Non riusciva ancora a crederci che aveva avuto il
coraggio di andarci. Al solo pensare alla corsa che aveva fatto per il cortile gli fece
battere forte il cuore, ricordandosi della paura e della fierezza. L’aveva fatto per
davvero.
E poi incontrare Jen era stato … incredibile. Non c’era altra parola per definire
il fatto. Luke era talmente sopraffatto dalla meraviglia per tutto ciò che aveva visto
nella casa della ragazza, per tutte le cose che lei gli aveva detto, che iniziò a dire:
“Sapevate che Jen …”.
All’ultimo momento strinse i denti e trattenne le parole in bocca. Pensò che
sarebbe scoppiato. Sentì la sua faccia diventare rossa dallo sforzo di trattenere il
fiato. Abbassò la testa sul piatto e nessuno se ne accorse. Come avrebbe fatto a
mantenere il segreto di Jen? Ma doveva farlo, perché se l’avesse detto gli avrebbero impedito di tornare da lei.
Perché doveva assolutamente tornare da lei.
“Useremo un segnale”, Jen aveva detto. “Qualcosa che possa vedere …”
“Ma tu non hai le prese d’aria per guardare fuori come faccio io”, Luke protestò. “Non puoi guardare fuori dalle finestre”.
“Oh, quando gli specchietti sono ben posizionati, non c’è problema. Guarda”.
Lo portò a una finestra vicino alla porta a vetro scorrevole e gli mostrò uno specchietto che rifletteva un’ampia vista del cortile dei Talbot e della campagna oltre il
cortile. Si vedeva solo l’angolo della stalla dei Garner, ma quando Jen lo girò leg-
Margaret Peterson Haddix
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germente, tutta la casa Garner fu visibile. Luke si domandò se i suoi genitori avessero potuto installare lo stesso sistema. Poi guardò nuovamente lo specchio e calcolò che doveva costare parecchio. E, in ogni caso, come avrebbe fatto a spiegare
da dove gli era venuta l’idea?
“Ecco, vediamo”, Jen disse. “Un segnale. Ce l’ho. Che ne dici se guardo fuori
ogni mattina alle nove e, se tu puoi venire qui, mi invii un segnale luminoso con la
pila. Io ti rispondo con un altro segnale luminoso se tutto è sicuro”.
“Ma noi non abbiamo una pila”, Luke disse. “Non che funzioni, almeno”.
Jen aggrottò le sopracciglia.
“Perché no?”
“Non ci sono le batterie, non lo so, almeno da quattro o cinque anni”, Luke
spiegò. Si sentì orgoglioso di essersi ricordato almeno di che cosa fosse una pila.
“D’accordo, d’accordo”, Jen disse. “Nessuna pila, nessun computer …”.
“Oh, abbiamo un computer”, Luke disse. “I miei genitori ce l’hanno. E credo
che funzioni ancora. Ma si trova nell’ufficio di papà sul davanti della casa”. Si ricordò di una volta, quando era molto piccolo, forse tre o quattro anni, e aveva seguito
mamma nell’ufficio di papà mentre lei faceva le pulizie. Le file di lettere della tastiera
del computer gli erano sembrate come un giocattolo allora, e aveva allungato un
dito e aveva premuto la barra spaziatrice, ripetutamente. Mamma si era guardata in
giro e si era spaventata.
“Ti possono scoprire proprio adesso!” aveva gridato. “Se stanno guardando
…”
E per settimane dopo quel fatto, lo aveva nascosto con ancora maggiore attenzione di sempre, chiudendolo nella sua stanza quando doveva uscire.
Jen strabuzzò gli occhi.
“Non mi dirai che i tuoi credono a tutta quella faccenda della propaganda del
Governo?” disse. “Hanno speso tanto di quel denaro per convincere la gente che
possono intercettare tutte le televisioni e i computer accesi, capisci, che ora non ne
hanno più per farlo realmente. Uso il computer della mia famiglia da quando avevo
tre anni – e guardo anche la televisione - e non mi hanno mai scoperta. Che ne dici
di usare una candela?”
“Cosa?” Ci volle un minuto perché Luke si accorgesse che Jen stava parlando
nuovamente del segnale. “Le candele – si trovano tutte in cucina, non mi permettono …”.
Jen accompagnò le parole con dei gesti plateali nel momento stesso in cui
Luke disse: “… di entrare in cucina”.
“Ti tengono al guinzaglio, ed uno terribilmente corto, non è vero?” domandò.
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Nascosti
“No. Cioè, sì. Ma stanno solo cercando di proteggermi …”
Jen scosse la testa. “Sì, l’ho già sentita questa storia. Mai sentito parlare di
disobbedire?”
“Io …”, Luke iniziò tanto per difendersi. “Sono qui, dopo tutto, non è vero?”
Jen si mise a ridere. “Me l’hai fatta questa volta! Hai ragione. Ma, ascolta, se
non puoi usare le candele o la pila, che ne dici di accendere una luce che possa
vedere?”
Questa volta Luke fu maggiormente veloce a capire che Jen stava ancora
parlando del segnale.
“Quella vicino alla porta posteriore”, Luke disse. “Non puoi far a meno di vederla”. Non gli era permesso di accendere neppure quella luce, ma non osò dire
“non mi è permesso” un’altra volta.
Ora Luke si mise a giocare con il suo purè. Tutta la conversazione con Jen
era stata così – lei lo prendeva in giro, lui si difendeva, ma era sempre Jen a fare
quello che le pareva.
Naturalmente – lo ammise a se stesso – Jen sapeva e aveva visto molte più
cose di lui. Dopo che Luke ebbe finito di raccontare la sua storia seduti sul divano,
lei raccontò a lui la sua.
“Per prima cosa”, aveva detto con tono provocatorio, “i miei genitori hanno
avuto me di proposito. Tredici anni fa. Mamma aveva già avuto Bull e Brawn dal
suo primo matrimonio …”
“I tuoi fratelli?” Luke domandò.
“Sì. Si chiamano Buellton e Brownley, a dir il vero, ma che razza di nomi sono
mai questi per degli idioti come loro? Mamma stava attraversando una certa fase di
snobismo da alta società con il marito numero uno”.
“Ha avuto più di un marito?” Luke domandò. Non sapeva che fosse possibile.
“Sicuro”, Jen disse. “Papà – che in realtà e il mio padrigno – è il numero tre”.
Luke trovò la cosa talmente sconcertante che semplicemente tenne la bocca
chiusa.
“Comunque”, Jen disse. “Mamma moriva dalla voglia di avere una figlia, perciò quando lei e il marito numero due si misero assieme, andò e pagò un certo dottore un sacco di soldi e riuscì a restare incinta”.
“E se fosse stato un maschio?” Luke domandò.
“Oh, sono state usate le nuove tecniche della selezione del genere”. Luke gli
aveva rivolto un’occhiata particolarmente inespressiva, quando Jen gli aveva spiegato cos’era la selezione del genere. “Significa che hanno fatto in modo che nascesse una femmina. I dottori lo facevano lo stesso, capisci, anche se il Governo
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aveva dichiarato la procedura illegale perché temeva di perdere il controllo sulla politica demografica. Sono sicura che i miei genitori hanno pagato molto per poterlo
fare. E i tuoi genitori, stavano anch’essi tentando di avere una bambina?”
Luke ci pensò su. Si ricordò che mamma diceva sempre che avrebbe voluto
avere quattro maschi, ma forse avrebbe voluto maggiormente avere una bambina?
Una bambina che fosse come mamma? Ma Luke non riuscì proprio a raffigurarsi
una bambina per casa.
“Non stavano tentando nulla”, disse. “Sono stato una sorpresa. Fortuna”.
Jen annuì. “Non credo che i tuoi abbiano pagato per te”, disse. Poi mise la
mano sulla bocca. “E’ una cosa davvero terribile a dirsi, non è vero? Non intendevo
dire nulla in particolare con la mia domanda. È solo che … che sei la prima persona
che conosco che non è un Barone”.
“Come fai a saperlo che non lo sono?” Luke domandò freddamente.
“Beh …” Jen mosse la mano in aria in un modo che fece capire a Luke ancora di più quanto fossero diversi lui, con la camicia di flanella consumata e i jeans
con le toppe, e lei con la sua casa perfetta. “Guarda, non essere arrabbiato. Non
importa. O forse importa, ma credo che sia fantastico che tu non sia un Barone. Potrai essermi maggiormente d’aiuto”.
“Aiuto?” Luke domandò.
“Con la manifestazione”, Jen disse. Si morse il labbro. “Dovrei … non c’è modo che tu possa essere un infiltrato, vero? Posso fidarmi di te?”
“Cero che puoi”, Luke disse. Si sentì nuovamente insultato. Jen piegò la testa
all’indietro e fissò il soffitto, come se la risposta fosse stata scritta lassù. Poi guadò
nuovamente Luke.
“Scusami. Sto facendo un pasticcio. Non sono proprio abituata a parlare, lo
faccio solo in rete. Guarda, mi fido di te, ma non sono solo io ad essere coinvolta.
Perciò aspettiamo, d’accordo?”
“Okay”, Luke disse. Ma non poté far a meno di dare un tono offeso alla sua risposta.
Jen si piegò in avanti, lo prese per le spalle e lo scosse velocemente.
“Oh, non dirlo in quel modo. Dì ‘Okay, Jen, rispetto la tua valutazione’. Oppure, ‘Okay, Jen, quello che pensi per me va bene’ ”. Fece una risatina. “Questo è ciò
che papà mi dice che dovrei dire quando non sono d’accordo con lui. Ci crederesti?
Sono avvocati!”
Luke fu contento che la conversazione era finita su un altro argomento. “Tuo
papà è un avvocato?” domandò.
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Nascosti
Jen fece rotolare gli occhi all’indietro. “Sì, tutti i mariti di mamma erano avvocati. Strano gusto, ah? Marito numero uno era un avvocato specializzato in ecologia, fra le altre cose; numero due era un aziendale – ecco come hanno fatto ad avere
il denaro sufficiente per avere me. E numero tre, papà, lavora per il Governo. E un
posto di grande rilievo, se posso aggiungere”.
“Ma … se tu sei una illegale …”, Luke pensò che non fosse possibile essere
più confuso di come lo era in quel momento.
Jen rise.
“Non lo sai ancora? I capi del governo sono i più bravi a infrangere le leggi.
Come credi che abbiamo avuto questa casa? Come credi abbiamo avuto l’accesso
a Internet? Come credi che viviamo?”
“Non lo so”, Luke disse, in tutta onestà. “Non credo di sapere molto di nulla”.
Jen gli diede dei buffetti sulla testa come fosse stato un bambino piccolo o un
cane. “Va tutto bene”, disse. “Imparerai”.
Non molto tempo dopo, Luke disse che doveva andar via, perché aveva paura che papà o Matthew o Mark potessero tornare a casa in anticipo per il pranzo.
Aveva una paura matta del percorso per tornare a casa. Jen lo accompagnò alla
porta, parlando tutto il tempo.
“Sistemerò la zanzariera e mi occuperò del sistema di sicurezza, così nessuno saprà che sei stato qui”, disse. “E … oh, no!”
Luke seguì il suo sguardo. Stava fissando tre macchioline di sangue sul tappeto.
“Mi dispiace”, Luke disse. Deve essere successo quando mi sono graffiato la
mano. Pulisco io. C’è ancora tempo …”.
Segretamente, fu contento del contrattempo.
“No, no”, Jen disse con impazienza. “Non m’importa niente del tappeto. È solo
che mamma e papà lo scopriranno e quando vedranno che non ho ferite …”.
Fu allora che, prima che Luke si rendesse conto di quello che stesse facendo,
Jen ficcò la mano attraverso il buco della zanzariera. Le punte aguzze del filo di
ferro non la ferirono subito, perciò afferrò la zanzariera con la mano destra e la fece
scorrere sulla sinistra. Quando Jen ritirò la mano, Luke vi vide sopra un taglio anche
più profondo del suo. Jen spremette alcune gocce di sangue e le lasciò cadere sul
tappeto.
“Ecco fatto”, disse.
Sbalordito, Luke uscì dalla porta camminando all’indietro.
“Torna presto, ragazzo contadino”, Jen disse.
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Luke si girò e si mise a correre, ciecamente, non rallentò neppure per andare
a carponi lungo la stalla. Corse dritto verso la porta posteriore della casa, con una
spinta la aprì e la chiuse sbattendola dietro di sé.
Ora, seduto per consumare la sua cena, sentì il cuore battergli forte di nuovo,
mentre pensava al pericolo che aveva corso. Perché non aveva guardato prima di
mettersi a correre? Perché non aveva proceduto lentamente e a carponi come aveva fatto all’andata? Conficcò la forchetta nelle patate, ora raffreddate e rapprese.
Vide mamma mettere insieme i piatti sporchi, mentre papà, Matthew e Mark appoggiati allo schienale delle loro sedie, stavano parlando della rendita dei cereali. Jen
l’aveva spaventato – ecco perché. Vederla tagliarsi la mano lo aveva terrorizzato.
Come aveva potuto fare una cosa del genere per lui, quando si erano appena conosciuti?
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Nascosti
CAPITOLO DICIASSETTE
L
uke trascorse praticamente ogni secondo dei successivi tre giorni o a rivivere la
sua visita segreta a Jen o a progettarne un’altra. Il primo giorno, un ispettore
governativo venne in casa per esaminare il raccolto dei Garner, con la conseguenza che Luke dovette rimanere chiuso nella sua stanza per tutto il giorno. Il secondo
giorno piovve e papà trascorse in casa l’intera mattina per mettere a posto la contabilità. Il terzo giorno, papà si recò nuovamente a lavorare nei campi, ma quando Luke raggiunse lentamente e con circospezione la porta di dietro, alle nove in punto, e
senza timore girò l’interruttore della luce, non ebbe alcun segnale luminoso di risposta proveniente dalla casa di Jen. Forse gli orologi nella sua casa erano indietro.
Lasciò la luce accesa per quindici minuti, terrorizzato tutto il tempo che qualcuno
oltre a Jen la potesse vedere. Alla fine, a malincuore, la spense e, con le gambe
che gli tremavano, risalì le scale verso la sua stanza.
Che fosse successo qualcosa a Jen? E se fosse ammalata – che stesse perfino morendo – e tutta sola in casa? E se fosse stata scoperta e fosse stata arrestata? Anche se aveva passato poco tempo con lei, poteva ben dire che aveva corso
un sacco di rischi.
Non gli era mai capitato di pensare che conoscere un’altra persona gli avesse
procurato ulteriori preoccupazioni.
Si calmò un po’ quando, appoggiato alla parete in cima alle scale, ricordò a
se stesso alcune possibilità meno terribili: forse uno dei suoi genitori era semplicemente uscito per alcune faccende, non era al lavoro e perciò sarebbe tornato a casa di lì a poco. Forse … cercò di pensare ad un altro motivo non negativo a causa
del quale Jen non gli aveva segnalato di venire. Ma lo sforzo per raffigurarsi la vita
ordinaria della ragazza fu tale che la sua immaginazione lo tradì.
Lo scoprì il giorno successivo, quando rischiò una corsa precipitosa verso la
casa di Jen non appena Jen rispose al suo segnale.
“Dove sei stata?” gli chiese all’istante.
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“Quando? Ieri?” domandò sbadatamente e chiudendo la posta scorrevole dietro di lui. “Hai tentato di venire qui? Scusami, mamma aveva il giorno libero e mi ha
costretta ad andare a fare compere”.
Luke rimase a bocca aperta. “Fare compere? Sei uscita di casa?”
Jen annuì con indifferenza.
“Ma non ti ho vista partire …” Luke protestò.
Jen lo guardò con espressione così seria, come se si stesse chiedendo se
Luke avesse un cervello. “Certo che no. Mi stavo nascondendo. Nel sedile posteriore della nostra automobile è stato ricavato un nascondiglio – papà l’ha fatta costruire apposta”.
“Sei uscita … “Luke ripeté sconcertato.
“Beh, non è che abbia visto qualcosa fino a che non siamo arrivati al centro
commerciale. Due ore di viaggio nel buio non corrisponde alla mia idea di divertimento. E’ una cosa che odio”.
“Ma una volta al centro commerciale – sei uscita? Non hai dovuto nasconderti?” Jen rise dello stupore di Luke.
“Mamma mi ha procurato un pass della spesa falso molto tempo fa. Teoricamente sono sua nipote. E va bene per raggirare i commessi del negozio, ma se la
Polizia Demografica mi dovesse trovare ferma ai lati della strada, sarei morta. Ma,
capisci, ha tutto a che fare con le priorità di mia madre. Fare compere è più importante per lei della mia stessa vita”.
Luke scosse la testa e si sedette sul divano perché le sue ginocchia avevano
una leggera tremarella.
“Non lo so”, disse. “Non sapevo che i terzi potessero fare una cosa del genere”.
E se mamma e papà avessero procurato un pass falso anche a lui? Per un
minuto riuscì quasi a raffigurarsi la cosa – potevano nasconderlo sotto i teloni arrotolati del cassone del pickup fino a che non fossero arrivati in città.
Ma tutti in città conoscevano mamma e papà. Tutti sapevano che mamma e
papà avevano solo due figli. Matthew e Mark.
“Sei andata in città”, disse.
“Beh, sì”, Jen disse. “Non ci sono centri commerciali qui vicino, vero?”
“Com’è stato?” Luke disse quasi con un sussurro.
“Noioso”, Jen disse. “Davvero, davvero noioso. Mamma voleva comprarmi un
vestito – chi lo sa perché mai – e siamo andati da un negozio all’altro e ho dovuto
provare tutti quei vestiti che mi grattavano e pungevano e premevano da tutte le
parti. E poi mi ha fatto prendere un mucchio di reggiseno – oh, scusa”, disse quan51
Nascosti
do Luke arrossì di un bel rosso profondo. “Immagino che non si parli molto di reggiseno in casa tua”.
“Matthew e Mark lo fanno, alle volte, quando vogliono essere … osceni” Luke
disse.
“Beh, i reggiseno non sono osceni”, Jen disse. “Sono solo strumenti di tortura
inventati dagli uomini o dalle madri o da qualcuno così”.
“Oh”, Luke disse abbassando lo sguardo.
“Comunque”, Jen disse e con un salto si spinse via dal divano. “Ho controllato
di te al computer e sei a posto, non esisti. Non ufficialmente, comunque. Perciò non
rappresenti un pericolo. E …”
Sentire Jen dire quella cosa in modo così poco serio – non esisti – fece provare a Luke un non so che di strano nello stomaco.
“Come fai a sapere che non sono un pericolo?” la interruppe.
“Le impronte digitali”, Jen disse. Quando Luke le rivolse un’occhiata inespressiva, lei spiegò. “Mio fratello Brawn ha passato una fase nella sua vita in cui voleva
diventare un investigatore – non che fosse mai stato abbastanza intelligente da diventarlo – e io mi sono ricordata che aveva ancora un kit per le impronte digitali.
Perciò ho preso le tue impronte digitali su alcune cose che hai toccato, come sulla
TV ad esempio. Sono riuscita a prendere delle belle impronte sulla parete. Poi le ho
scannerizzate sul computer, mi sono collegata all’archivio nazionale delle impronte
e voilà, ho scoperto che le tue impronte non esistono e perciò neppure tu. Ufficialmente”.
Fece un’espressione di derisione tanto per enfatizzare la cosa. Luke voleva
domandare: Non è che la Polizia Demografica mi troverà ora, a causa di quello che
hai fatto, vero? Ma aveva capito talmente poco di quello che Jen gli aveva spiegato
che pensò non sarebbe servito a niente domandare alcunché. E Jen stava già parlando di un altro argomento.
“E, comunque, sembri affidabile. Perciò, ora che so che non rappresenti un
pericolo, posso dirti tutto riguardo alla manifestazione e mostrarti la nostra chat segreta e tutto ciò che …”
Jen stava già uscendo dalla stanza, perciò a Luke non restò altro che seguirla
per poter sentire il resto della frase.
“Vuoi qualcosa da mangiare o da bere?” domandò, fermandosi sulla porta
che dava in cucina. “Ero rimasta così sorpresa l’altra volta che sei venuto che mi
sono dimenticata di essere una brava padrona di casa. Cosa preferisci? Una bibita?
Patatine?”
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“Ma sono cose illegali”, Luke protestò. Si ricordò di aver letto qualcosa riguardo al cibo spazzatura in uno dei libri della soffitta e poi aveva fatto domande a sua
madre al riguardo. Gli aveva spiegato che il cibo spazzatura era qualcosa che la
gente era solita mangiare tutto il tempo, fino a che il Governo non aveva chiuso tutte le fabbriche che lo producevano. Non gli aveva saputo dire il motivo. Ma, quale
sorpresa speciale per lui, mamma aveva tirato fuori un sacchetto di patatine che
conservava da anni e le condivise con lui, solo con lui. Erano salate e dure da masticare. Luke aveva fatto finta che gli piacessero solo in considerazione che mamma sembrava volesse che fosse così.
“Sì, beh, anche noi siamo illegali, perciò perché mai non dovremmo fare le
cose che ci piacciono?” Jen domandò, ficcandogli in mano un recipiente pieno di
patatine. Tanto per essere educato, Luke prese una patatina. E poi un’altra. E
un’altra ancora. Quelle patatine erano talmente buone che dovette trattenersi
dall’afferrarle a manciate. Jen lo fissò con attenzione.
“Soffri per caso la fame a casa tua?” gli domandò a voce bassa.
“No”, Luke disse non senza sorpresa.
“Alcuni ragazzi ombra alle volte fanno la fame perché non hanno la tessera
della razione di cibo e il resto della loro famiglia non divide il cibo con loro”, disse,
aprendo un frigorifero che era più grande di tutti gli elettrodomestici della cucina dei
Garner messi assieme. “La mia famiglia può procurarsi tutto il cibo che vuole, naturalmente, ma …” e lo guardò in un modo che ancora una volta Luke , vedendo gli
stracci che indossava, si rese conto di quanto povera fosse la sua famiglia – “Come
fa la tua famiglia a procurarsi il cibo per te?”
La domanda lasciò Luke perplesso.
“Nello stesso modo in cui lo procurano per se stessi”, disse. “Lo coltivano.
Abbiamo un orto, sai – anch’io ci lavoravo, prima. E poi, abbiamo i maiali, beh, li
avevamo, e credo che alle volte scambiassimo maiale macellato per manzo macellato di qualcun altro, perciò avevamo carne di manzo …”
Nella mente di Luke quelli erano tutti scambi che avvenivano di nascosto.
Non senza fatica di ricordò di aver sentito papà o Matthew alle volte dire a mamma,
“Sei pronta a cucinare delle buone bistecche di manzo? Il signor Johnston, quello
vicino a Libertyville, vuole del maiale …”
Jen appoggiò per terra una bottiglia di plastica piena di un liquido marrone.
“Mangiate carne?” esclamò.
“Sicuro, voi no?” Luke aggiunse.
“Quando papà riesce a procurarsela”, Jen disse, piegandosi per raccogliere la
bottiglia. Ne versò un bicchiere pieno a Luke e uno per sé. Il liquido era frizzante e
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Nascosti
faceva le bollicine. “Anche in questo il suo potere sulla gente non è stato tanto incisivo, dopo tutto. Il Governo sta tentando di costringere tutti, anche i Baroni, a diventare vegetariani”.
“Perché?” Luke domandò.
Jen gli consegnò il suo bicchiere.
“Ha qualcosa a che fare col fatto che coltivare vegetali è più efficiente”, disse.
“Gli agricoltori devono usare molta più terra per produrre una libbra di carne di
quanta serva per produrre una libbra di – com’è che si chiama? – soia.”
Luke storse il naso al pensiero di dover mangiare semi di soia.
“Non lo so”, disse lentamente. “Abbiamo sempre dato da mangiare ai nostri
maiali le granaglie che non potevamo vendere perché non erano secondo gli standard del Governo. Ma da quando il Governo ci ha costretto a disfarci dei nostri
maiali, papà lascia semplicemente che le granaglie marciscano nei campi”.
“Davvero?” Jen rise soddisfatta, come se Luke avesse appena annunciato il
rovesciamento del Governo. Gli diede dei colpetti sulla schiena non appena Luke
bevve il primo sorso di bibita. Tra la bevanda frizzante e il battere entusiasta di Jen
sulla schiena, Luke iniziò a tossire. Jen sembrò neppure accorgersene. “Vedi, te
l’ho detto che saresti stato di grande aiuto. Vado subito a scrivere questa cosa sulla
bacheca elettronica!”
“Aspetta…” Luke disse confusamente tra un colpo di tosse e l’altro. Non sapeva di che cosa Jen stesse parlando. Ma non poteva permettete che mettesse nei
guai la sua famiglia. La seguì lungo il corridoio, raggiungendola proprio mentre si
stava sedendo davanti al computer. Lo accese, e il computer emise il bi-bi-bi-biip
che Luke aveva sentito la volta precedente. Luke si mise in piedi a fianco a lei, ben
attento a rimanere fuori della vista del monitor.
“Non ti mangerà mica”, Jen disse. “Prendi una sedia. Siediti”.
Luke si scostò all’indietro.
“Ma il Governo …” disse.
“Il Governo è incompetente e stupido”, Jen disse. “Afferrato? Credimi, se
stessero osservando attraverso lo schermo del computer, lo saprei ormai”.
Timidamente Luke tirò a sé una sedia imbottita e si sedette. Osservò Jen digitare sul computer: “Se il Governo permettesse agli agricoltori di nutrire gli animali
con le granaglie che non riescono a vendere, ci sarebbe più carne”.
Luke si sentì sollevato per il fatto che Jen non aveva menzionato la sua famiglia. Ma, a meno che il Governo non li stesse spiando, non riusciva proprio a capire
quale differenza facesse per lei scrivere quella cosa.
Margaret Peterson Haddix
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“Dov’è che è andato il messaggio? Domandò non appena le parole sullo
schermo scomparvero. “Chi lo vedrà?”
“L’ho messo sulla bacheca elettronica del Dipartimento dell’Agricoltura. Chiunque abbia un computer lo può vedere ora. Forse un lavoratore del Governo con
metà cervello lo vedrà e per la prima volta in dieci anni lo userà per pensare veramente”.
“Ma …”, Luke strabuzzò gli occhi completamente confuso. “Perché è così importante?”
Jen fissò il suo sguardo su Luke.
“Non lo sai proprio, vero? domandò. “Non sai perché hanno approvato la legge sulla popolazione”.
“N-no”, Luke ammise.
“Ha tutto a che fare con il cibo”, Jen disse. “Il Governo aveva paura che saremmo tutti rimasti senza cibo se la popolazione fosse continuata a crescere. Questo è il motivo per cui tu ed io siamo illegali, per impedire alla gente di morire di fame”.
Luke si sentì improvvisamente doppiamente in colpa per le patatine che stava
ancora infilando in bocca una dietro l’altra. Inghiottì a fatica e abbassò le mani in
grembo, invece di ficcarle nuovamente nel recipiente delle patatine.
“Perciò, se io non mangiassi, il mio cibo andrebbe a qualcuno che è legale”,
Luke disse. Ma nella sua famiglia, sarebbero stati solo Matthew e Mark, ed essi
stavano tutt’altro che morendo di fame. Matthew stava addirittura iniziando a sfoggiare un bel rotolo di grasso attorno alla vita, cosa che del resto papà già aveva.
Allora Luke si ricordò del barbone di tanto tempo prima che aveva detto: “Non mangio da tre giorni …” Era stato per caso colpa di Luke?”
Jen si mise a ridere.
“Smettila di essere così preoccupato”, disse. “Questo è quello che il Governo
pensa, ma ha torto. Papà dice che di cibo ce n’è in abbondanza, che solamente non
è distribuito in modo corretto. Ecco perché devono abolire la Legge Demografica.
Ecco perché devono riconoscere te e me e tutti gli altri ragazzi ombra. Ecco perché
faremo la manifestazione”.
Per quanto ignorante fosse, dal modo in cui Jen lo disse, Luke pensò che la
manifestazione era una cosa importante.
“Puoi dirmi della manifestazione?” domandò con modestia.
“Sì”, Jen disse. Si spinse via dal computer e si girò sulla sedia. “Centinaia di
noi – tutti ragazzi ombra che sono riuscita a rintracciare – verranno alla marcia di
protesta contro il Governo. Andremo direttamente davanti alla residenza del presi55
Nascosti
dente. Non li lasceremo in pace fino a che non ci daranno gli stessi diritti che hanno
tutti gli altri”.
Proprio la mia fortuna sfacciata, Luke pensò. Finalmente incontro un altro
terzo figlio ed è completamente pazzo.
“E …” Jen disse, frizzante come la bibita agitata – “Anche tu puoi venire. Non
sarà fantastico?”
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Carlos: Sì, ma poi i miei probabilmente leggeranno la bolletta della luce.
CAPITOLO DICIOTTO
Yolanda: Perché, cosa ti faranno poi? Ti relegheranno in casa?
Carlos: “Buon argomento. Vado subito a cercare il telecomando della temperatura.
I
o …”, Luke disse. Non riusciva a guardare il sorriso esultante di Jen. “Non credo
di …”
Pensò a quanto fosse terrificante semplicemente correre avanti e indietro tra
la sua casa e quella di Jen. Perfino quella mattina, alla sua terza corsa attraverso il
cortile, il cuore aveva battuto talmente forte, che si era domandato se fosse potuto
scoppiare dalla paura. E all’interno del cortile almeno, era sicuro – tanto sicuro
quanto poteva esserlo – che nessuno lo vedesse. Come poteva Jen pensare che
avrebbe avuto il coraggio di uscire in pubblico, dove sapeva che la gente poteva
vederlo – le persone del Governo non meno di altre – e di dire: “Sono un terzo figlio!
Voglio essere trattato come tutti gli altri!”
“Spaventato?” Jen domandò sommessamente.
Luke riuscì solo ad annuire.
Jen si girò nuovamente verso il computer.
“Beh, anch’io lo sono”, disse senza mostrare alcuna emozione. Scrisse qualcosa, poi rivolse nuovamente lo sguardo a Luke. “Un po’. Ma non credi che sarà un
sollievo? Non più nascondersi, non più far finta, solo … essere liberi!”
Luke si domandò che se avesse sempre frainteso il significato del termine
“sollievo”, perché se la raffigurazione che Jen ne dava era quella corretta, allora
quella parola poteva ben essere il suo peggiore incubo.
“Puoi pensarci su”, disse. “Non occorre che tu decida alcunché oggi. Ora,
pronto per chattare?”
Luke guardò lo schermo del computer, dove righe di parole si stavano dispiegando:
Carlos: sono 105 gradi di fuori e i miei genitori credono che sia uno spreco far
correre l’aria condizionata durante il giorno. Dici che sono senza cuore?
Sean: Perché non la metti al massimo e poi la spegni poco prima che tornino
a casa? Pat e io facciamo sempre così. Non se ne accorgeranno mai.
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Nascosti
Yolanda: Dov’è Jen?
Sean: Lo sai che non si alza mai così presto.
Carlos: Accidenti… i miei devono aver chiuso a chiave il telecomando da
qualche parte. Te l’ho detto che erano cattivi. Dov’è Jen? Non vedo l’ora di sentire i
suoi commenti sarcarstici.
Luke lesse le parole che Jen stava digitando: “Sono qui, e, Sean, io mi alzo
sempre presto. Semplicemente alle volte non mi va di sentire te come prima cosa
della giornata. E, Carlos … cos’è che non funziona in te? Hai per caso le traveggole? C’è una sola ‘r’ in ‘sarcastici’”.
Jen premette un altro tasto e le parole apparvero proprio sopra di quelle di
tutti gli altri. Furono seguite quasi subito da un’altra riga:
Sean: Buon giorno anche a te, Jen. Contento di vedere che sei ancora tra i
vivi.
Jen digitò velocemente: “No, non tra i vivi, tra i nascosti. Non è la stessa cosa, affatto!!!!” Poi premette invio.
“Cos’è?” Luke domandò. “Una specie di gioco?”
Si ricordò che Jen aveva accennato ad un certo Carlos prima, ma che non gli
aveva spiegato chi fosse. Erano una specie di amici immaginari creati solamente
dal computer?
“Carlos, Sean, Yolanda … sono tutti terzi figli. Sean ha perfino un fratello, Pat,
che è un quarto figlio. Questo è il modo in cui comunico con loro”.
Luke vide apparire un’altra riga di testo:
Carlos: Grazie per la tua compassione, Jen”.
Margaret Peterson Haddix
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“Ma come …?” Luke domandò, ancora incredulo.
“Oh, capisci, E’ la Rete”, Jen disse. “Se hai un’ora o due che ti avanza qualche volta, ti fornirò tutto il linguaggio tecnico per spiegarti come funziona. Tutto ciò
di cui m’importa è che funzioni. Morirei senza avere qualcuno con cui parlare”.
E mentre parlava anche scriveva. Luke allungò il collo per vedere ciò che
scriveva: “Indovinate che cosa! Il ragazzo di cui vi ho parlato, Luke, è qui con me”.
Velocemente tre “Ciao, Luke”, apparvero sullo schermo. Luke fece di tutto per
non apparire terrorizzato.
“Ma il Governo …” disse. “Mi troveranno …”
Jen scherzosamente gli pizzicò il braccio. “Calmati, okay? Nessuno del Governo può entrare in questa chat. Usiamo tutti una password. Solo i terzi figli la conoscono. E comunque, anche se qualcun altro la leggesse, cosa scoprirebbe? Solo
che in qualche parte del mondo, c’è un ragazzo di nome Luke. Un bel colpo!”.
“Ma possono rintracciarti attraverso il computer e arriverebbero anche a me”.
Il cuore di Luke stava ancora battendo forte.
“Guarda, se potessero rintracciare la gente attraverso il computer o attraverso
questa chat, non pensi che mi avrebbero scoperto tanto tempo fa?” Jen domandò.
Luke tentò di pensare freddamente. “I tuoi genitori”, disse. “Hai detto che
danno le bustarelle alla gente. Perciò tu sei al sicuro. Ma i miei …”
Jen scosse la testa.
“No, non sono al sicuro”, disse con aria seria. “Nemmeno i miei genitori possono corrompere la Polizia Demografica se mi trovano. Forse trattenerli da guardare – ma forse neppure questo. La Polizia Demografica riceve una ricompensa ridicolmente alta per ogni illegale che scopre. Perché credi che mi stia nascondendo
se no? Perché pensi che dobbiamo fare la manifestazione? Tutti dovrebbero vivere
al sicuro. E nessuno dovrebbe essere costretto a dare le bustarelle solamente per
poter camminare per strada o andare al centro commerciale o fare una corsa in
macchina …”
Luke guardò nuovamente il monitor del computer, dove la conversazione continuò.
“Come hanno fatto tutte quelle persone a trovare la password?” domandò.
“Come hai fatto tu?”
“Beh, sono io che ho realizzato la chat, perciò sono stata io a individuare la
password”, Jen disse. “Conoscevo già un paio di altri ragazzi ombra e ho fatto in
modo che i miei genitori e i loro genitori facessero loro avere la password, e poi
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Nascosti
quei ragazzi hanno diffuso la password ad altri ragazzi che conoscevano. L’ultima
volta che ho contato, ci sono circa ottocento ragazzi che partecipano alla chat”.
Luke scosse la testa. Era sicuro che neppure i suoi genitori avessero idea che
fossero così tanti.
“E allora, qual è la password?” domandò.
“Libero”, Jen disse. E’ ‘libero’”.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO DICIANNOVE
L
uke se ne andò dalla casa di Jen quel giorno con una pila di libri e di stampati di
computer stretti al petto.
“Materiale da leggere per te”, Jen aveva detto. “Così capirai”.
Una volta nella sua stanza, Luke si sedette sul letto e aprì il primo libro. Era
grosso e il titolo era scritto in lettere di un nero sinistro: IL DISASTRO DEMOGRAFICO. I caratteri all’interno erano piccoli e gli spazi stretti. Luke lesse una frase a
caso: “Mentre il dibattito continua sulla capacità della terra …” saltò in avanti. “Se il
Tasso di Fertilità Totale nei paesi industrializzati fosse rimasto pari o inferiore al 2,1
…” Luke vide che leggere quel libro sarebbe stato come risolvere il guazzabuglio
delle lettere che papà riceveva dal Governo. Diede un’occhiata agli altri due libri:
“Riconsiderazione degli anni della carestia” e “Il fallimento demografico”. Gli sembrarono non più facili dell’altro. Gli stampati del computer erano almeno più brevi,
ma sia “Il problema dei figli ombra” sia “La Legge Demografica: il più grande errore
del nostro paese”, erano pieni di paroloni.
Luke sospirò. Era tentato di mettere i libri da parte e semplicemente chiedere
a Jen di spiegargli il loro contenuto. E l’avrebbe potuto fare se non fosse stato per
quello che Jen aveva detto quando glieli aveva consegnati: “Oh, caspita! Non c’ho
pensato … sai leggere, non è vero?”
“Certo”, Luke aveva risposto freddamente. “Non ti sei accorta che sono capace di leggere la chat?”
“Sì, ma avresti potuto – oh, non importa. Ti ho offeso un’altra volta, non è vero? Io e la mia boccaccia. Non sarebbe stato nulla di cui vergognarsi se tu non avessi saputo leggere. Oh, sto peggiorando le cose. Sto zitta. Ecco qua”.
E a Luke era sembrato come se avesse tirato giù dallo scaffale dei libri ancora più grossi del primo.
Ora con risolutezza rivolse la sua attenzione al primo capitolo de “Il disastro
demografico” e iniziò a leggere: “Poiché alcuni elementi della crisi della sovrappopolazione erano stati previsti nel 1800, un osservatore poco informato potrebbe so-
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Nascosti
lamente domandarsi come mai l’umanità fosse giunta così vicina al suo totale annientamento. Ma …”
Luke allungò la mano verso il dizionario e si mise comodo, era davvero lungo
il lavoro che aveva davanti.
Piovve per i successivi parecchi giorni e Luke lesse senza sosta, non fu tentato neppure di correre da Jen. Sentiva papà che si aggirava rumorosamente al piano
di sotto, il quale, con passo pesante, andava e veniva continuamente dalla stalla o
dal magazzino delle macchine in casa e viceversa. Ora che il raccolto era al coperto, Luke pensò che papà si stesse annoiando senza i maiali da accudire. Perciò Luke lesse con ogni cautela, sempre pronto a ficcare il libro sulla popolazione sotto il
cuscino e sostituirlo con uno dei suoi libri di avventura. L’accorgimento si dimostrò
utile il quarto giorno, quando sentì i passi di papà sulle scale.
“Ehi, Luke, cosa di bello stai facendo?”
“Nulla”, Luke disse, girando L’Isola del Tesoro, con le pagine dal verso giusto
all’ultimo momento. Papà non se ne accorse.
“Vuoi giocare a carte?”
Giocarono a ramino sul letto di Luke. Luke sentì lo spigolo de “Il Disastro Demografico” che gli toccava la schiena durante tutta la partita a carte. E per tutto il
tempo sentì la voglia di domandare a papà riguardo a quanto stava leggendo. Passò la maggior parte della prima partita a mordersi la lingua. Papà vinse.
“Un’altra?” papà domandò, mescolando le carte.
“Se non hai altri lavori che devi fare…”
“In novembre? Senza bestiame? L’unico lavoro che ho ora è escogitare un
modo per pagare le bollette una volta che il denaro della vendita dei maiali sarà finito”.
“Non c’è un modo per coltivare delle cose al coperto durante l’inverno? In
cantina, ad esempio, con luci speciali, molta acqua e integratori minerali. E che poi
potresti vendere?” Luke domandò senza pensarci. Aveva appena finito di leggere
un capitolo del libro sulla popolazione che parlava di idrocolture.
Papà lo guardò di traverso.
“Mi sembra di aver già sentito parlare di queste colture una volta”.
Luke vinse la mano successiva a carte. Papà sembrò non riuscire a concentrarsi più. Alla fine disse: “ti dispiace se finiamo qui?”
Luke era terrorizzato che papà potesse domandargli dove avesse sentito parlare di idrocolture. Perciò disse semplicemente: “Nessun problema”.
Papà se ne andò borbottando: “Coltivare cibo al chiuso … hmmm …”
Margaret Peterson Haddix
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Luke desiderò di aver avuto il coraggio di domandare a suo padre riguardo alla Legge Demografica, o alla carestia o anche riguardo a qualcosa sulla storia della
sua famiglia. Una volta superata la difficoltà del linguaggio, i libri che Jen gli aveva
prestato erano pieni di cose inedite. Se aveva compreso bene la cosa, il mondo era
semplicemente diventato troppo sovraffollato circa vent’anni prima. I paesi poveri
erano stati colpiti in modo particolare dalla carestia e molta gente di quei paesi era
morta di fame o era molto malnutrita. Ma poi qualcosa di peggio era avvenuto: terribili siccità avevano colpito le zone del mondo in cui veniva coltivata la maggior parte
del cibo. Per tre anni di seguito i raccolti erano andati praticamente perduti. La gente era morta di fame un po’ dappertutto. Nel paese di Luke, il Governo aveva iniziato a razionare il cibo e non permetteva alle singole persone di avere cibo corrispondente a più di 1.500 calorie al giorno. E, per assicurarsi che ci fosse stato cibo sufficiente per tutti, il Governo aveva messo sotto controllo tutta la produzione alimentare. Aveva obbligato gli agricoltori a trasferirsi su terreni dove si poteva ottenere una
maggiore produzione (E’ questo il motivo per cui non abitiamo vicino ai nonni? - Luke voleva chiedere ai suoi genitori). Ma tali provvedimenti non erano stati ritenuti
ancora sufficienti dal Governo. Aveva voluto fare in modo che la popolazione non
aumentasse di numero così da poter sfamare tutti con quanto l’agricoltura poteva
produrre. Proprio per questo motivo era stata approvata la Legge Demografica.
Fu così che ogni sera, affondando il cucchiaio nel suo spezzatino o tagliando
la sua carne, Luke sentiva forti sensi di colpa. Forse qualcuno stava morendo di
fame in qualche posto a causa sua. Ma il cibo non si trovava là – dove c’era la gente che moriva di fame – era lì, nel suo piatto. E finiva sempre per mangiarlo tutto.
“Luke, sei così silenzioso ultimamente. Va tutto bene?” mamma domandò una
sera quando, con un gesto della mano, aveva rifiutato una seconda porzione di cavoli.
“Sto bene”, disse, e continuò a mangiare in silenzio.
Ma era preoccupato. Era preoccupato che, forse, il Governo aveva ragione e
che lui non dovesse esistere.
Solo quando iniziò a leggere gli stampati del computer cominciò a sentirsi
meglio. Uno degli articoli iniziava così: “La Legge demografica è ingiusta e malvagia”. Il secondo diceva: “Centinaia di bambini sono nascosti, maltrattati, muoiono di
fame, sono trascurati, abusati – perfino uccisi – per nessuna ragione. Costringere i
bambini nell’ombra può essere annoverato come genocidio”.
“Come può essere?” domandò a Jen una settimana più tardi, quando finalmente ebbe l’occasione di andare nuovamente a casa sua. “Come possono essere
i libri e gli articoli tanto diversi?”
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Nascosti
Jen gli consegnò un bicchiere di bevanda frizzante.
“Cosa intendi dire?” Jen domandò.
Luke indicò “Il Disastro Demografico”. “Questo libro dice che la razza umana
si sarebbe estinta se non avessimo avuto la Legge Demografica. E questo …” prese in mano e scosse l’articolo intitolato “Il Problema dei Figli Ombra”, …questo dice
che la Legge Demografica era totalmente inutile e crudele. Dice che di cibo ce n’era
parecchio, anche durante la carestia, eccetto che i Baroni lo stavano accumulando
e nascondendo”. In netto ritardo, si ricordò che Jen apparteneva alla classe dei Baroni. “Scusami”.
Jen alzò le spalle, offesa neppure un po’.
“Allora, qual è la verità?”
Jen versò rumorosamente delle patatine in un recipiente.
“Ebbene, pensaci su per un momento. Il Governo ha permesso che questi libri vengano pubblicati, probabilmente hanno anche pagato per la loro pubblicazione. Perciò è naturale che ci sia scritto quello che il Governo vuole che la gente creda. Sono solo propaganda. Falsità. Ma gli articoli, gli autori di questi articoli probabilmente hanno corso dei rischi perché le informazioni circolassero. Perciò hanno
ragione loro”.
Luke ci rifletté sopra. “Allora perché mi hai fatto leggere i libri?” domandò.
“Perché tu capisca quanto sia stupido il Governo”, Jen disse. “Così capirai
perché dobbiamo far vedere alla gente la verità”.
Luke guardò la pila di grossi libri che stavano sul banco della cucina dei Talbot. Avevano un aspetto così ufficiale, così importante – chi era lui per dire che quei
libri non dicevano il vero?
Margaret Peterson Haddix
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Carlos: mamma dice che non me la comprerà fino a che non avrò 18 anni,
perché secondo lei il Governo non ferma un adulto e gli chiede di identificarsi così
spesso come avviene per i minori. E forse sarà meno cara per allora.
CAPITOLO VENTI
Pat: Forse Sean ed io ne avremo una quando saremo novantenni. Papà e
mamma stanno risparmiando per averne una da quando riusciamo a ricordare.
Quando sarebbe cominciato a nevicare, Luke avrebbe dovuto aspettare mesi tra
una visita a Jen e l’altra. Ma il tempo si dimostrò gentile quell’inverno – la maggior
parte dei giorni furono asciutti e sereni. Non c’erano le foglie degli alberi a nasconderlo ora, tuttavia cominciò a sentirsi maggiormente sicuro mentre attraversava
carponi il suo cortile e quello di Jen. Per la metà di gennaio era ormai abituato a fare tutto il percorso senza che il cuore gli battesse più del normale. Le probabilità
che qualcuno lo vedesse da una o dall’altra delle case dei Baroni sembrarono troppo remote per preoccuparsene, l’unica preoccupazione era papà.
Papà si sarebbe aggirato continuamente in casa durante l’inverno. Senza i
maiali da badare, sarebbe sicuramente rimasto in casa molto più del solito, impedendo così a Luke di sgattaiolare fuori. Ma quasi da un giorno all’altro, papà aveva
cominciato a recarsi in città quasi ogni mattina, gridando a Luke: “Vado in biblioteca. Hai qualcosa da mangiare lassù per pranzo, non è vero?” oppure: “C’è del tubo
di plastica da Slyton che voglio controllare. Dillo ai ragazzi quando tornano da scuola, sentito?”
“E’ quell’idea delle idrocolture”, Luke si vantò con Jen un giorno di tardo gennaio mentre stavano seduti al computer assieme. “Ho stuzzicato papà con
quell’idea e ora è tutto entusiasta e troppo indaffarato a occuparsene per accorgersi di quello che faccio”.
“Cosa sono le idrocolture?” Jen domandò.
“Era tutto scritto in uno dei tuoi libri, sai, coltivare delle piante al chiuso, senza
terra, usando solamente acqua e minerali speciali”.
“Oh”, Jen disse. “E tuo padre crede davvero che il Governo gli darà il permesso di coltivarle?”
“Immagino di sì”, Luke disse. “Perché non dovrebbe farlo?”
Jen alzò le spalle. “Per quale ragione il Governo fa mai qualsiasi cosa?”
Luke non aveva una risposta a quella domanda. Jen tornò al computer e alla
sua chat, dove tutti stavano discutendo delle carte d’identità false.
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Nascosti
Yolanda: mio papà dice che vuole trovare una che sia perfetta. Dice che ci
sono troppe carte mal fatte in giro.
Jen iniziò a digitare furiosamente. “A chi serve una carta d’identità falsa? Carlos, probabilmente ti procureranno una che dice che sei ‘John Smith’ e dovrai trascorrere il resto della tua vita tentando di passare per un inglese. I miei genitori mi
stanno pregando da anni perché accetti una carta d’identità falsa, ma io non la voglio finché non potrò avere una su cui c’è scritto ‘Jen Talbot’ e che sia veramente
mia.
“Vi siete tutti dimenticati della manifestazione? Tutti noi avremo le nostre carte
d’identità vere che attesteranno chi siamo realmente!!!! NOI NON SIAMO FALSI!
NON DVREMMO NASCONDERCI!”
Premette il pulsante “Invio” talmente forte che il computer ebbe uno scossone.
“Ma, Jen”, Luke disse timidamente, “Credevo che tu usassi già una carta
d’identità falsa per andare a fare compere con tua madre, su cui c’era scritto che eri
sua nipote.
Jen rivolse uno sguardo feroce a Luke.
“No, era solo un pass della spesa”, disse. “E non mi piace neppure usarla, ma
immagino che non posso far baruffa con i miei su tutto. Ciò di cui parlano - indicò lo
schermo del computer – “è di procurarci una carta d’identità falsa per sempre. La
maggior parte dei ragazzi ombra finisce per farlo – vanno a vivere in un’altra famiglia e fingono di essere quello che non sono per il resto della loro vita”.
“Perciò tu preferisci nasconderti?” Luke domandò. Pensò come sarebbe stato
usare un nome diverso, vivere in una famiglia diversa, essere una persona diversa.
Ma non riuscì ad immaginarselo.
“No, certo che non preferisco nascondermi”, Jen disse irritata. “Ma avere una
di quelle carte d’identità false – è solo un modo diverso di nascondersi. Voglio essere me stessa e andare in giro come tutti gli altri. Nessuna via di mezzo. Ecco perché
devo convincere quegli idioti che la manifestazione è la loro unica occasione”.
Margaret Peterson Haddix
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Ci fu una pausa da shock in cui nulla successe sullo schermo del computer
dopo l’invio di Jen. Poi Carlos si avventurò: “Uhm, Jen, hai per caso una pillola per
la pressione alta dei tuoi genitori? Sembra che tu ne abbia bisogno”.
Jen premette con violenza il bottone di accensione del computer. Lo schermo
divenne nero all’istante. Luke si piegò all’indietro per allontanarsi un po’ da lei, nel
caso decidesse di usare i suoi pugni chiusi su di lui.
Jen si girò verso Luke sorpresa, come se si fosse dimenticata che era lì.
“Non senti mai la voglia di dire ‘non lo sopporto più?’” domandò. Saltò in piedi
e cominciò ad andare avanti e indietro. “Non senti mai la voglia di uscire e camminare all’aria aperta e dire: ‘Basta nascondersi! Non m’importa’? Sono io l’unica che
si sente così?”
“No”, Luke sussurrò.
“Si girò e puntò il dito verso il computer. “Allora cos’è che non funziona in loro? Perché non capiscono? Perché non prendono questa cosa seriamente?”
Luke si morse il labbro. “Credo”, disse, “che le persone abbiano modi diversi
di esprimere le cose che sentono. Quei ragazzi scherzano e si lamentano. Tu corri
in giro gridando a più non posso e affronti le persone”.
Si sentì orgoglioso di sé per aver ideato quelle espressioni, considerando che
conosceva solo cinque persone in tutto il mondo. Ma per la prima volta, si domandò
come il resto della sua famiglia se la fosse cavata se avessero dovuto nascondersi.
Papà sarebbe diventato scontroso. Mamma avrebbe cercato di cavarsela al meglio,
ma sarebbe stata senz’altro infelice. Matthew sarebbe stato tranquillo, ma sarebbe
stato sempre triste, come lo era ogni volta che qualcuno menzionava i maiali che
non poteva tenere più. Mark si sarebbe lamentato talmente tanto che avrebbe reso
tutti depressi. Per la prima volta Luke sentì dentro di sé un barlume di orgoglio, per
il fatto che riusciva a gestire il fatto di nascondersi meglio di quanto non sarebbero
riusciti a farlo gli altri componenti della sua famiglia. Così pensò.
A quella spiegazione Jen cominciò a sbuffare. “Comunque sia”, disse. Si sedette di nuovo al computer. “Ma la manifestazione è in aprile. Ho tre mesi per assicurarmi che tutto sia pronto”.
Accese il computer e iniziò nuovamente a digitare furiosamente.
Luke se ne andò in silenzio alcune ore più tardi. Non era sicuro che Jen
l’avesse visto andarsene.
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Nascosti
CAPITOLO VENTUNO
I
n febbraio, papà ricevette la lettera del Governo che gli proibiva di coltivare alcunché al chiuso.
“E stato portato alla nostra attenzione il fatto che la S.V. ha acquistato una
partita di tubo di plastica in quantità eccessiva, del tipo che si usa per la germinazione, la coltivazione e lo sviluppo di materiale vegetale in una struttura chiusa”, la
lettera così iniziava. “Considerata la preponderanza di tali metodi in agricoltura,
specificatamente nella coltivazione di sostanze illegali, le ordiniamo di cessare e di
desistere immediatamente …”
Luke lesse la lettera durante la cena, dopo che tutti gli altri della famiglia avevano fatto un tentativo inutile di immaginarsi ciò che significasse. In qualche modo,
dopo aver letto tutti i grossi libri che Jen gli aveva prestato, Luke non trovò le parole
stravaganti della lettera tanto scoraggianti.
“Vogliono che tu interrompa tutto”, Luke disse. “Hanno una paura matta che
tu coltivi qualcosa di illegale. E questa parte” – indicò la lettera, nonostante che gli
altri della sua famiglia fossero a tavola, diversi metri più in là, e che lui fosse al suo
solito posto sulle scale – “questa parte, dove dicono: ‘mettere tale materiale a nostra diposizione per la valutazione, significa che devi consegnare tutta l’attrezzatura
e che poi decideranno se ti daranno una multa oppure no”.
Tutti guardarono Luke stupiti. Poi Mark iniziò a ridere.
“Droga”, disse. “Pensano che coltiveremo droga”.
Papà gli lanciò un’occhiata di puro disgusto.
“Credi sia divertente? Vedremo cosa penserai il prossimo anno quando i piedi
ti cresceranno e non avremo i soldi per comprarti scarpe nuove”.
Mark smise di ridere.
“Ce la caveremo”, la mamma di Luke disse sottovoce. “Ce la siamo sempre
cavata”.
Papà si spinse via dalla tavola.
“Perché non ho chiesto la licenza?” domandò a nessuno in particolare. “Forse
se mi danno la licenza …”.
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Luke aveva ormai letto il resto della lettera.
“Non rilasciano licenze per le idrocolture”, disse. “La lettera dice che è
un‘attività sempre illegale”.
A quelle parole l’ attenzione da parte di suo padre fu completa.
Luke sentì la delusione di suo padre e, alla vista dei suoi genitori così preoccupati per il denaro, sentì come una specie di vocina dentro di sé che gli sussurrò:
Forse se non avessero te, potrebbero permettersi tutte le cose che vogliono. Ma
dopo tutto, non è che mangiasse poi molto e tutti i suoi vestiti erano quelli smessi
da Matthew e Mark. E quando poteva costare il riscaldamento della soffitta? Qualche volta aveva trovato cristalli di ghiaccio sullo sgabello su cui si sedeva per vedere fuori delle prese d’aria. Tentò di ignorare la voce.
Ciò che lo disturbava di più era che, senza l’idea delle idrocolture per tenerlo
occupato, papà non se ne sarebbe andato pressoché mai dalla fattoria per il resto
dell’inverno. Luke riuscì ad andare da Jen solo una volta in febbraio e due volte in
marzo, quando papà aveva iniziato ad uscire per cercare la semente al prezzo migliore.
Ad ogni sua visita, Jen lo accoglieva con grandi abbracci e sembrava sinceramente contenta di vederlo. Il suo capriccio di gennaio sembrò dimenticato. Un
giorno, i due fecero un vero disastro nella cucina dei Talbot quando vollero cucinare
dei biscotti.
“Ai tuoi genitori non dispiacerà?” Luke domandò quando Jen lo sgridò per aver tentato di pulire le impronte di farina dagli armadietti, dal frigorifero e dal fornello.
“Stai scherzando? Desiderano davvero che sia così. Saranno contentissimi al
vedere segni di vita casalinga da parte mia”, Jen disse.
La seconda volta, giocarono a giochi da tavolo tutta la mattina, stravaccati sul
pavimento del soggiorno dei Talbot.
Il terzo giorno, trascorsero tutto il tempo a parlare. Jen tenne Luke affascinato
con storie di posti in cui era stata, persone che aveva incontrato, cose che aveva
visto.
“Quando ero piccola, mamma era solita portarmi in un asilo che era frequentato interamente da terzi figli”, Jen disse. Poi rise. “La cosa buffa era che erano tutti
figli di ufficiali del Governo. Credo che ad alcuni genitori non piacessero nemmeno i
bambini – ritenevano semplicemente che fosse uno status symbol infrangere la
Legge Demografica e farla franca”.
“Cosa facevi all’asilo?” Luke domandò.
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Nascosti
“Giocavamo naturalmente. Tutti avevano un sacco di giocattoli. E uno dei
bambini aveva un cane che alle volte portava all’asilo e noi facevamo a turno per
dargli da mangiare crocchette per cani”.
“Quei bambini avevano anche dei cani?” Luke domandò incredulo.
“Beh, capisci, erano Baroni”, Jen rispose.
Luke si fece scuro in volto. Scivolò in giù, quasi disteso sul divano soffice,
tanto diverso da ogni altra cosa che si trovava in casa sua.
“Mio padre dice che quando lui era piccolo, quasi tutti quelli che conosceva
avevano animali domestici. Lui aveva un cane che si chiamava Bootsy e un gatto di
nome Stripe. Parla di loro continuamente. Perché il Governo ha dichiarato illegali gli
animali domestici?”
“Oh, capisci, ha tutto a che fare con il cibo,” Jen disse. Prese un biscotto al
cioccolato da un pacchetto che stava condividendo con Luke e lo roteò in aria con
enfasi. “Senza cani e gatti, c’è più cibo per gli esseri umani. Mio padre dice che se
non fosse per il fatto che i Baroni infrangono la legge, molte specie di animali domestici si estinguerebbero”.
Luke guardò il biscotto che aveva in mano. Così ora doveva sentirsi in colpa
anche di mangiare il cibo che sarebbe dovuto andare agli animali, oltre che alle altre persone?
Jen vide la sua espressione. “Ehi, non prendertela con me”, disse. “E tutto
una truffa, ricordi? Ce n’è fin troppo di cibo nel mondo, specialmente ora che non
nascono abbastanza bambini”.
Cosa?” Luke domandò.
“Beh, oltre ad approvare la Legge Demografica, il Governo ha promosso questa grossa campagna pubblicitaria per fare in modo che le donne considerassero
come cosa cattiva rimanere incinte e avere bambini. Hanno messo manifesti in tutte
le città, con su scritto: “Qual è il peggior criminale?’ e sopra la figura di una donna
incinta posta nel mezzo, non lo so, credo nel mezzo di alcuni furfanti dall’aspetto
violento. Come per dire che la donna è la peggiore furfante di tutti. Un altro cartello”,
Jen disse ridendo, “aveva la figura di una donna incinta con un enorme pancione e
la scritta: ‘Signore, volete sembrare così?’. E alle donne non è permesso andare in
nessun posto una volta che rimangono incinte. Perciò ora, così papà mi ha detto, ci
sono così pochi bambini che nascono che la popolazione si ridurrà della metà entro
breve tempo”.
Luke scosse la testa, confuso come il solito. “Allora perché il Governo non rimuove i cartelli e permette che la gente abbia quanti bambini vuole?
Margaret Peterson Haddix
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Jen fece rotolare gli occhi all’insù. “Luke, devi smetterla di pensare che queste cose abbiano un senso”, Jen disse. “Si tratta del Governo, ricordi? Ecco perché
dobbiamo fare la manifestazione …”.
Luke cambiò argomento più in fretta che poté. “Cosa fanno le donne se non
possono andare da nessuna parte per tutto il tempo che sono in gravidanza? Non
so gli esseri umani, ma i maiali c’impiegano circa quattro mesi per avere i piccoli. Le
donne stanno in casa tutto il tempo?”
“Nascondersi come facciamo noi, vuoi dire?” Jen domandò, non accorgendosi
dello stratagemma di Luke per non parlare della manifestazione. “Molte fanno finta
di essersi semplicemente ingrassate. Mamma disse che è andata a far compere il
giorno prima che io nascessi e che nessuno si è accorto. Ma ciò riguarda mia madre e la sua mania per gli acquisti”.
E poi cominciò a raccontare come sua madre l’aveva portata a far compere in
una città a dieci ore di viaggio da casa, solo perché aveva sentito dire che un negozio del luogo vendeva delle belle borsette.
“Questa è probabilmente l’unica ragione per cui i miei fratelli non mi hanno
denunciata”, Jen disse. “Se non avesse me, mia madre dovrebbe trascinare loro a
fare la spesa. T’immagini quei due gorilla con le borse della spesa?”
Jen mise in scena la cosa, camminò in giro per la stanza con le braccia fino a
terra dal peso di immaginarie borse della spesa. Anche se Luke aveva visto i suoi
fratelli solamente da lontano in situazioni simili, colse la somiglianza e si mise a ridere.
“I tuoi fratelli non ti denuncerebbero mai”, Luke protestò. “Vero?”
“Certo che no”, Jen concordò. “Mi vogliono bene”. Abbracciò se stessa e crollò all’indietro sul divano accanto a Luke. “Comunque, non sarebbero abbastanza
intelligenti da escogitare un modo di denunciarmi senza mettere nei guai il resto
della famiglia. E riguardo ai tuoi di fratelli?”
“Non sono stupidi”, Luke disse sulla difensiva. “Oppure – cioè – “.
“Ti tradirebbero?” Jen strinse gli occhi, davvero curiosa. “Non ora, non necessariamente, ma, diciamo, anni da adesso, se i tuoi genitori fossero morti e la cosa
non facesse del male a nessuno se non a te, e ricevessero un sacco di soldi in
cambio …”
Era una domanda che Luke non aveva mai considerato. Ma sapeva la risposta.
“Mai”, disse, con voce ben salda per accentuare la sua sincerità. “Posso fidarmi di loro. Cioè, siamo cresciuti insieme”.
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Nascosti
Fu davvero una cosa strana il modo in cui era riuscito a dare sicurezza alle
sue parole. D’altronde, in quel momento, i suoi fratelli non avevano il tempo nemmeno di prenderlo in giro e di scherzare con lui. Matthew aveva una relazione con
una ragazza che stava diventando sempre più seria e trascorreva ogni momento
libero a casa di lei. Mark era diventato da un giorno all’altro fanatico del basket, e
aveva convinto papà ad inchiodare un vecchio cerchione di ruota sulla facciata della
stalla per ricavarne un canestro. Luke lo sentiva lanciare a canestro fino a sera tardi. Nonostante la sua sicurezza circa la lealtà dei suoi fratelli, Luke alle volte sentiva
come se essi fossero cresciuti e lui fosse rimasto piccolo e non volessero più avere
a che fare con un bambino. E ne sentiva la mancanza.
Ma non importava. Ora aveva Jen.
Luke riuscì a non far parlare Jen della manifestazione per il resto della giornata e non si avvicinarono neppure al computer. Si limitarono a passare il tempo assieme. Tornò a casa carponi alcune ore più tardi, pensando che non gl’importava
più di dover nascondersi, affatto. Tutto sarebbe potuto continuare in quel modo per
sempre, fintantoché avesse potuto far visita a Jen. Ben presto le foglie sarebbero
tornate sugli alberi e si sarebbe sentito ancora più sicuro durante i suoi tragitti verso
la casa dell’amica. E una volta iniziata la stagione delle semine, papà sarebbe stato
per i campi tutto il giorno e Luke avrebbe potuto far visita a Jen tutte le volte che
avesse voluto.
Ma aprile arrivò prima della stagione delle semine.
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CAPITOLO VENTIDUE
P
iovve le prime due settimane di aprile e Luke, per tutto il tempo, continuò a domandarsi nervosamente quando avrebbe potuto rivedere Jen. Alla fine il terreno
si asciugò e papà uscì nei campi ad arare. Luke andò di corsa a casa di Jen.
“Oh, bene!” lo salutò. “Così potrai avere i piani di battaglia in anticipo. Temevo
che avremmo dovuto prenderti su giovedì sera e aggiornarti su tutto solo allora”.
Luke attentamente fece scorrere la porta dietro di sé e la chiuse, poi abbassò
la tapparella cosicché lui e Jen furono completamente invisibili dall’esterno. Poi si
voltò e la affrontò.
“Di che cosa stai parlando?” domandò. Ma lo sapeva già. Il cuore cominciò a
battere più forte di quanto non avesse battuto durante la sua corsa attraverso il cortile.
“Della manifestazione, naturalmente”, Jen disse con impazienza. “Tutto è
pronto. Prendo la macchina di uno dei miei genitori e prendo su altri tre ragazzi lungo la strada. Ma ho fatto in modo che ci sia posto anche per te. Dovresti sentirti fortunato – molti ragazzi verranno a piedi. L’appuntamento per tutti è davanti alla residenza del presidente alle sei di mattina”.
Luke si aggrappò alla corda della tapparella.
“Sai guidare un’automobile?” domandò incredulo.
“Abbastanza”, e gli rivolse un sorriso malizioso. “I miei fratelli mi hanno detto
come si fa. Dai, siediti”.
Con un segno della mano gli indicò il divano. Luke vi si sprofondò, mentre Jen
si appollaiò sul bordo.
“E se la Polizia Demografica ti ferma prima che tu raggiunga la capitale?” domandò.
“Prima che ci fermi, vuoi dire. Noi. Anche tu vieni, non ti ricordi? Non preoccuparti – nessuno ci fermerà” disse ridendo. “Ho controllato gli orari degli impiegati
pubblici al computer: Diciamo solamente che parecchi della Polizia Demografica
hanno avuto dei giorni liberi inattesi”.
“Vuoi dire che hai cambiato il loro orario di lavoro? Puoi farlo?”
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Nascosti
Jen annuì, un luccichio malizioso nei suoi occhi.
“Me c’è voluto un mese intero per scoprire come si faceva, ma tu ora stai
guardando un esperto pirata informatico”.
Indistintamente Luke si rese conto del motivo per cui Jen era sembrata tanto
rilassata e felice durante le sue ultime visite. Erano state per lei momenti di vero riposo, interruzioni dall’intenso lavoro di preparazione della manifestazione. La osservò più attentamente e vide la stanchezza nei suoi occhi. Sembrava una versione
più giovane di mamma dopo il turno di dodici ore nella fabbrica dei polli, oppure di
papà, dopo un lungo giorno passato ad imballare fieno. Ma c’era qualcosa di diverso nella sua espressione – i suoi genitori non erano mai stati così intensamente eccitati.
“E se qualcuno scopre quello che hai fatto? E li cambia di nuovo?”
Jen scosse la testa- “Non lo faranno. Sono stata molto attenta. Ho coordinato
i piani di viaggio di tutti e ho eliminato solo quelli della polizia che doveva essere
fuori servizio. Non sei emozionato anche tu? Saremo liberi dopo tutti questi anni”. Si
piegò verso terra ed estrasse un pacco di carte da sotto il divano. “Il miglior nascondiglio del mondo. La domestica è troppo pigra per pulire qui sotto. Ora, vediamo. Vengo a prenderti alle dieci di mattina e …”.
Luke fu contento che Jen guardasse i fogli e non lui. Non sarebbe stato in
grado di incrociare il suo sguardo.
“D’accorso, d’accordo, nessuno sarà arrestato durante il tragitto per la capitale. Ma una volta che sarai là, davanti alla residenza del presidente, qualcuno chiamerà la Polizia Demografica e allora …” Luke si sentì terrorizzato al solo pensarci.
Jen non rimase affatto confusa alle parole di Luke. “Allora che cosa?” domandò. “Non m’importa chi chiameranno una volta che saremo là. Accidenti, potrei
chiamare la Polizia Demografica io stessa. Non faranno nulla ad una folla di migliaia
di persone, specialmente quando molti di noi sono parenti di ufficiali di governo. Faremo in modo che ci ascoltino. Siamo una rivoluzione!”
Luke abbassò lo sguardo. “Ma i tuoi amici – eri arrabbiata con loro perché
non erano interessati alla cosa – e se non si faranno vedere?”
“Cosa intendi dire?” Jen domandò con un tono di voce davvero feroce.
Luke riuscì a stento a risponderle per il terrore sempre più forte che sentiva
dentro di sé. “In quella chat, stavano solo scherzando. Carlos e Sean e gli altri. Tu
stessa hai detto che non stavano prendendo la cosa seriamente”.
“Oh, quella cosa là. E’ stato … tanto tempo fa. Sono tutti coinvolti ora. Sono
preparati e convinti. Anzi, Carlos è il mio luogotenente in tutto questo. Mi è stato di
grandissimo aiuto, credimi. Perciò, okay, dieci in punto, e poi ci sono otto ore fino
Margaret Peterson Haddix
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alla capitale e …” consultò le carte di nuovo. “Che tipo di cartello vuoi portare? ‘Merito una vita’ oppure ‘Basta con Legge Demografica. Ora!’’, oppure … questo l’ho
trovato in un vecchio libro … ‘Libertà o morte’”?
Luke tentò di immaginare ciò che Jen poteva dare per scontato. Poteva anche salire su di un’automobile. Era salito sul pickup di famiglia dentro la stalla –
un’automobile non era molto differente dal pickup. E per otto ore, tutto quello che
avrebbe dovuto fare era star seduto. Non molto difficile. Eccetto il terrore che lo avrebbe tormentato per tutte le otto ore a motivo del luogo dove l’automobile si stava
dirigendo. E poi uscire, in pubblico, davanti alla residenza del presidente? E portare
un cartello? La sua immaginazione gli venne meno. Fu subito coperto di sudore
freddo.
“Jen, io …” iniziò a dire.
“Sì?”
Jen rimase in attesa. Il silenzio tra loro sembrò crescere come un palloncino
che si gonfiava. Luke si sforzò di parlare.
“Non posso venire”.
Jen gli spalancò la bocca davanti.
“Non posso”, disse di nuovo, debolmente.
Jen scosse vigorosamente la testa. “Certo che puoi”, disse. “Lo so che sei
spaventato – chi non lo è? Ma è una cosa importante. Vuoi nasconderti per il resto
della tua vita o vuoi cambiare la storia?”
Luke fece un tentativo di umorismo.
“C’è un’altra scelta?”
Jen non rise. Saltò in piedi dal divano.
“Un’altra scelta. Un’altra scelta”. Camminò avanti e in dietro, poi si voltò e si
mise davanti a Luke. “Certo. Puoi essere un codardo e sperare che qualcun altro
cambi il mondo per te. Puoi nasconderti in quella tua soffitta fino a quando qualcuno
busserà alla tua porta e dirà: “ ‘Oh, sì, hanno liberato i nascosti. Vuoi uscire?’ E’
questo che vuoi?”
Luke non rispose.
“Devi venire, Luke, altrimenti ti odierai per il resto della tua vita. Quando non
dovrai nasconderti più, anche anni da adesso, ci sarà sempre una piccola parte di
te che sussurrerà: ‘non mi merito questo. Non ho lottato per questo. Non lo merito’.
E tu sei, Luke, tu sei … sei intelligente e divertente e simpatico e dovresti vivere la
vita invece di essere sepolto vivo in quella tua vecchia casa …”.
“Forse a me non dispiace nascondermi tanto quanto dispiace a te”, Luke sussurrò.
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Nascosti
Jen lo squadrò da cima a fondo, il suo sguardo impassibile.
“Certo che dispiace anche a te. Tu odi quelle pareti tanto quanto le odio io. E
forse anche di più. Hai mai ascoltato te stesso? Ogni volta che parli di come eri solito uscire e passeggiare per il giardino e cose del genere, sei raggiante. Sei vivo.
Anche se non vuoi nient’altro, non vuoi almeno stare ancora all’aria aperta?”
Ma tutto ciò che Luke voleva fare era scappare da Jen. Perché la ragazza
aveva ragione. Tutto quello che aveva detto era giusto. Ma ciò non voleva dire che
lui doveva andare con lei. Sprofondò ancora più nel divano.
“Non sono coraggioso come te”, disse.
Jen lo afferrò per le spalle e lo guardò dritto negli occhi.
“Oh, davvero?” disse. “Hai avuto il coraggio di venire qui, o no? E la sai una
cosa … come mai sei sempre tu a venire da me? Perché sei sempre tu a decidere
come e quando venire? Se sono io quella coraggiosa, com’è che non rischio la mia
vita per venire io da te?”
C’erano migliaia di risposte a quella domanda. Perché sono stato io a trovarti
per primo. Perché la tua casa è più sicura della mia. Perché io ho bisogno di te più
di quanto tu ne abbia di me. Perché hai il computer e la chat con i tuoi amici e io no.
E tu esci e vai in giro e io no. Luke si divincolò dal suo sguardo.
“Mio padre è troppo in giro per casa”, disse. “E’ più sicuro in questo modo. Sto
… sto solo proteggendo te”.
Jen si alzò. “Grazie per l’onore e la generosità”, disse amaramente. “Ma ho
già abbastanza persone che mi proteggono. Se t’importa tanto di me, perché non
mi aiuti ad ottenere la libertà? Dici che non vuoi venire alla manifestazione per te
stesso - fallo allora per me. È tutto quello che mai ti chiederò”.
Luke fece una smorfia. Quando lei metteva le cose in quel modo, come poteva ancora rifiutarsi di andare alla manifestazione? Eccetto che … non poteva.
“Sei pazza”, disse. “Non posso venire, e neppure tu dovresti andarci. È troppo
pericoloso”.
Jen gli lanciò uno sguardo di puro disgusto.
“Puoi andartene ora”, disse freddamente. “Non ho tempo da perdere con te”.
Luke sentì il ghiaccio nelle sue parole. Si alzò. “Ma …”
“Vattene”, Jen disse.
Luke si trascinò verso la porta. Si fermò vicino alla tapparella e si voltò.
“Jen, non capisci? Voglio davvero che la cosa funzioni. Spero …”.
“La speranza non significa niente”, Jen sbottò. “L’azione è l’unica cosa che
conta”.
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Luke uscì dalla porta. Rimase in piedi sul patio dei Talbot, sbattendo le palpebre per la luce del sole, respirando l’odore dell’aria fresca e del pericolo. Poi si
voltò e corse a casa.
CAPITOLO VENTITRE
L
uke lasciò che la porta della cucina sbattesse dietro di sé e non gl’importò. Era
fuori di sé, aveva la vista offuscata. Bel coraggio a dire: non ho tempo per te.
Chi credeva di essere? Salì con passo pesante le scale. Lei aveva sempre pensato
di essere migliore di lui, solo perché era una Barone, facendosi bella con la sua bibita e le patatine e il suo bel computer. E allora? Non per questo era speciale, solo
perché i suoi genitori avevano un sacco di soldi. Non è che li avesse guadagnati lei.
Chi era, allora? Solo una ragazza sciocca. Desiderò non essere mai andato da lei.
Tutto quello che lei faceva era vantarsi, vantarsi, vantarsi e mettersi in mostra. Ecco
cosa era la manifestazione, dopo tutto, solo per mettersi in mostra: Ehi, guardate,
sono un terzo figlio e posso andare davanti alla residenza del presidente e nessuno
mi fa del male. Sperò che qualcuno le sparasse. Così gliel’avrebbero fatta vedere.
Luke si fermò nel mentre stava tirando la porta della soffitta per chiuderla dietro di sé. No, no, la riaprì completamente. Non voleva che sparassero a nessuno.
Sentì le ginocchia vacillare e dovette sedersi sui gradini, tutta la sua collera improvvisamente diventata paura. E se qualcuno le avesse sparato per davvero? Si ricordò del cartello che lei gli aveva chiesto di portare: ‘Libertà o morte’. Lo diceva seriamente? Doveva aspettarsi che …? Impedì a se stesso di pensare al resto della
domanda. E se non sarebbe tornata a casa mai più? Doveva andare, se non altro
per proteggerla. Ma non poteva …
Luke affondò la testa nelle mani, cercando di nascondersi dai suoi stessi pensieri.
Mamma lo trovò lì, ore dopo, ancora rannicchiato sulle scale.
“Luke, hai perso la pazienza di aspettare che tornassi a casa? Hai avuto una
buona giornata?”
Luke la fissò come se fosse stata una visione di un’altra vita.
“Io …”, iniziò a dire pronto a far uscire tutto, non riusciva più a tenere tutto
dentro.
Mamma gli toccò la fronte.
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“Stai male? Sei così pallido – sono sempre preoccupata per te, Luke, solo tutto il giorno. Ma poi ricordo a me stessa, sei al sicuro qui a casa, lontano da tutto
quello che può farti del male”. Gli rivolse un sorriso stanco e gli scompigliò i capelli.
Luke inghiottì a fatica e si ricompose. A cosa stava pensando? Che non poteva dire a nessuno di Jen. Che non la poteva tradire.
“Sto bene”, disse mentendo. “E’ solo che è da un po’ che non esco all’aria
aperta, ti ricordi. Non è che mi stia lamentando”, aggiunse in fretta.
Ancora a nascondersi.
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CAPITOLO VENTIQUATTRO
P
er tre giorni Luke pensò e ripensò. Alle volte concluse che doveva fermare Jen,
convincerla a non andare alla manifestazione. Atre volte concluse che doveva
andare con lei. Altre volte ancora si sentiva arrabbiato con se stesso e pensava di
dover semplicemente andare con risolutezza a casa sua e chiederle scusa.
Ma tutte quelle determinazioni includevano vedere Jen, e ciò era impossibile.
Piovve a dirotto per giorni, e il tempo piovoso, grigio e deprimente, non fece altro
che far sentire Luke ancora peggio, mentre guardava fuori dalle prese d’aria della
soffitta. Da basso sentiva papà camminare per la casa con passo pesante, mormorando di tanto in tanto qualcosa riguardo al tempo e alla parte migliore del terreno
che veniva rovinata da ogni goccia di pioggia che cadeva. Luke si sentì come un
prigioniero.
Giovedì sera andò a letto convinto che non sarebbe riuscito mai a prendere
sonno al pensiero di Jen e degli altri in viaggio, che si allontanavano sempre di più
da lui e si avvicinavano sempre di più al pericolo. Ma deve essersi appisolato perché si svegliò che era buio pesto. Il cuore gli batteva forte. Era sudato. Che avesse
sognato qualcosa? Che avesse sentito qualcosa? Una tavola del pavimento scricchiolò. Drizzò le orecchie in ascolto. Era il respiro di qualcuno nella stanza o forse
era il suo, affannoso e spaurito? Un lampo di luce gli illuminò la faccia.
“Luke?” Un sussurro.
Luke di scatto si drizzò sul letto.
“Jen? Sei tu?”
La ragazza spense la pila.
“Sì, credevo che mi sarei ammazzata a salire su per le scale. Perché non mi
hai detto che erano così ripide?” Sembrava la stessa vecchia Jen, non arrabbiata.
Non pazza.
“Non avrei mai immaginato che vi saresti salita”, Luke disse.
Era una cosa da pazzi parlare di scale in quel momento, nel bel mezzo della
notte, nella sua stanza. Ogni parola che avessero pronunciato costituiva un perico-
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lo. Mamma aveva il sonno leggero. Ma Luke fu lieto di non doversi muovere, di non
dover parlare riguardo a cosa Jen era venuta a fare.
“I tuoi genitori non hanno chiuso a chiave le porte”, Jen disse. Anche lei sembrava temporeggiare, “Immagino di essere fortunata che il Governo abbia reso illegali gli animali domestici. I contadini non usavano per caso tenere dei grossi cani da
guardia che staccavano la testa alla gente con un solo morso?”
Luke alzò le spalle, poi si ricordò che Jen non poteva vederlo nel buio. “Jen.
Io …” non fu sicuro di che cosa avrebbe detto fino a che non lo disse. “Ancora non
posso venire. Mi dispiace. È qualcosa che ha a che fare con il fatto di avere dei
contadini come genitori, non degli avvocati. Non c’entra col fatto di essere un Barone. È la gente come voi che cambia la storia. La gente come me … noi lasciamo
solo che le cose accadano”.
“No. Sei in errore. Tu stesso puoi fare in modo che le cose accadano …”
Luke sentì, più che vide, che Jen scuoteva la testa. Anche nel buio, poteva
immaginare ogni precisa ciocca di capelli sobbalzare e poi ricadere al suo posto.
“Scusami”, lei continuò. “Non sono venuta qui per annoiarti con le mie chiacchiere. Lo so che è pericoloso e nessuno dovrebbe venire malvolentieri. Sono stata
troppo dura con te l’altro giorno. Volevo solo dirti … sei un buon amico, Luke. Mi
mancherai”.
“Ma ritornerai”, Luke disse. “Domani – o dopodomani – dopo la manifestazione. Verrò a trovarti. Se la tua manifestazione avrà successo, entrerò per la porta
principale”.
“Speriamo”, Jen disse sommessamente. E la sua voce a poco a poco scomparve. “Addio, Luke”.
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CAPITOLO VENTICINQUE
L
uke rimase sveglio per il resto della notte. Alle prime luci dell’alba si alzò e senza far rumore pulì le impronte di fango che Jen aveva lasciato dentro casa e sulle scale. Va a fidarti di lei che non ha pensato neppure di non lasciare tracce della
sua visita segreta. Sperò con tutto se stesso che avesse predisposto la manifestazione nei minimi dettagli.
Luke stava appena finendo di pulire le ultime impronte dal pavimento della
cucina quando sentì scorrere lo scarico del bagno al piano di sopra. Nascose gli
stracci sporchi di fango nella spazzatura e di corsa tornò al suo posto sulle scale,
appena in tempo per incrociare la mamma che scendeva.
“Giorno, uccello mattiniero”, lo salutò sbadigliando. “Sei stato alzato durante
la notte? Mi è sembrato di aver udito qualcosa”.
“Non riuscivo a dormire”, Luke disse con sincerità.
Mamma sbadigliò di nuovo.
“E sei in piedi così presto … ti senti bene?”
“Un po’ di fame”, Luke disse.
Ma prese solo un assaggio del cibo. Tutto ciò che metteva in bocca gli si
bloccava in gola.
Dopo che il resto della sua famiglia se n’era andato, si arrischiò a sbirciare in
giro e ad accendere la radio a volume basso. Ci furono le previsioni del tempo e la
pubblicità dei semi di soia e molta musica.
“Suvvia, suvvia”, farfugliò, tenendo un occhio fisso sulla finestra laterale in
caso che papà fosse arrivato.
Alla fine la voce alla radio annunciò le notizie. Il bestiame di un certo proprietario era uscito dal recinto e aveva causato un incidente stradale non grave. Nessun
ferito. Un portavoce del Governo parlò delle previsioni di una stagione delle semine
povera a causa di tutta la pioggia che era caduta.
Nulla della manifestazione.
Vide venire papà verso casa. Luke spense in fretta la radio e si precipitò verso le scale.
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A pranzo papà si dimenticò di accendere la radio e Luke dovette ricordarglielo. L’annunciatore promise che sarebbe stata data una notizia importante dopo la
pubblicità. Finito il suo panino, papà allungò la mano per spegnere la radio.
“No, no … aspetta!” Luke disse. “Potrebbe essere una notizia interessante …”
papà brontolò qualcosa, ma non la spense.
Nuovamente la voce dell’annunciatore. Si schiarì la voce e dichiarò che le
nuove statistiche del Governo dimostravano che il raccolto di erba medica
dell’ultimo anno aveva stabilito il record dell’ultima decade.
Per giorni fu la stessa cosa. Luke continuò ad aspettare, fiducioso di sentire
qualcosa. Ma le poche volte che riusciva ad avvicinarsi alla radio, nulla veniva detto.
Ogni volta che papà se ne andava da casa per rimanere fuori per un tempo
abbastanza lungo, Luke accendeva la luce vicino alla porta posteriore della casa, il
suo segnale per Jen. Rimaneva a fissare la casa di Jen con gli occhi talmente sgranati e attenti, in attesa che si accendesse il segnale luminoso di risposta, che pensò
che sarebbe diventato cieco. Ma nulla accadde.
Iniziò a tenere d’occhio la casa di Jen con la stessa ossessione di quella che
aveva avuto quando aveva scoperto la sua esistenza. Non ci fu alcun segnale da
parte di Jen. Il resto della famiglia andava e veniva come il solito. Sembravano per
caso più tristi? Più felici? Preoccupati? Tranquilli? Dalla distanza, non si poteva dire.
Divenne talmente disperato che domandò a mamma se avesse mai pensato
di andare a far visita ai nuovi vicini, per dare loro il benvenuto nel quartiere. Lei lo
guardò come se fosse stato uno squilibrato.
“Abitano qui da mesi ormai. Non sono più nuovi vicini o quasi. E poi sono dei
Baroni”, disse. E fece una risata amara. “Credimi, non hanno alcun desiderio che
noi facciamo loro visita”.
Cosa pensava che mamma avrebbe fatto o detto se fosse andata a far visita
ai vicini di casa? Che avrebbe forse detto: “Piacere di incontrarla. Ora, mi racconti
tutto riguardo al figlio di cui non ha mai parlato”?
Dopo una settimana Luke si sentì davvero come uno squilibrato. Ogni volta
che qualcuno parlava di lui, faceva un salto. Mamma gli domandò “Stai bene?” così
tante volte, che cominciò a evitarla. Ma non poteva semplicemente starsene seduto
in soffitta e aspettare. Camminò avanti e indietro, su e giù. Si agitò e si dimenò
all’infinito. Si rosicchiò le unghie.
Alla fine escogitò un piano.
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Nascosti
CAPITOLO VENTISEI
F
inalmente, ma proprio finalmente, una settimana e mezza dopo la manifestazione, quando il mattino sembrò promettere una giornata serena e asciutta, Luke
seppe che papà sarebbe stato nei campi tutto il giorno. Senza tante speranze, Luke
accese la luce della porta posteriore. Dopo cinque minuti senza risposta, la spense
e silenziosamente scivolò fuori della porta.
L’aria fresca fu come una scossa e per un brevissimo momento si fermò. Era
più pericoloso di sempre.
“Ma devo sapere”, borbottò con tono fermo, e avanzò quatto quatto lungo la
stalla prima di precipitarsi verso la casa di Jen.
Per entrare doveva strappare la zanzariera o rompere il vetro di una delle finestre dei Talbot, pensò, e il solo pensarci lo fece star male. Ma non importava. Se
Jen era in casa, poteva sempre pensare ad una scusa. E se non era … se non era.
Non sarebbe tornato dai Talbot mai più.
Una volta dentro, seppe che doveva provvedere velocemente a disinserire
l’allarme. Jen gli aveva spiegato una volta come si faceva, gli aveva detto l’esatta
sequenza di pulsanti da premere per disinserirlo. Corse verso l’armadio del corridoio, spalancò la porta, e premette velocemente i pulsanti, con la paura di potersi dimenticare la sequenza esatta se avesse esitato anche per un solo secondo. Verdeblu-giallo-verde-blu-arancione-rosso. Le luci si accesero e si spensero ripetutamente prima di premere l’ultimo bottone e ciò lo spaventò. Era così che avveniva prima?
“Svelto, svelto”, disse a se stesso. Sentì quelle parole ripetutamente nella sua
testa.
“Jen?” chiamò. “Jen?”
Andò su e giù per le scale guardando in ogni stanza. “Jen? Non occorre che ti
nasconda. Sono io. Luke”.
La casa era enorme, tre piani e una cantina. Non poteva cercare dappertutto,
ma se Jen era là, perché mai si sarebbe nascosta? Contro ogni ragione, continuò a
sperare che lo fosse.
“Jen? Suvvia. Non è divertente”.
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Cercò nelle stanze da letto – enormi, eleganti, con letti intagliati artisticamente
e armadi lunghi e pieni di specchi. Non riuscì neppure a riconoscere la camera di
Jen.
Alla fine ammise la sconfitta e corse giù, nella stanza del computer.
Si precipitò alla tastiera e digitò la sequenza di lettere che aveva visto Jen digitare così tante volte. Le sue dita erano maldestre e continuò a fare pasticci. Alla
fine, riuscì ad arrivare alla casella della password della chat. L-I-R-E-B-O. No. Cancella. L-E-I-B-R-O. No. Alla fine ce la fece: L-I-B-E-R-O.
Lo schermo divenne vuoto, nulla degli scambi di battute amichevoli che erano
magicamente apparse ogni volta che aveva osservato Jen al computer. Aveva sbagliato qualcosa? Freneticamente uscì ed entrò nella chat un’altra volta, le mani gli
tremavano. Ancora nulla. Timidamente, usando solo il dito indice della mano destra,
digitò, “Dov’è Jen?” dovette sostenere una mano con l’altra per tener fermo il dito
abbastanza da poter premere il tasto “Invio”.
Quasi all’istante, le sue parole scomparvero e riapparvero in cima allo schermo. Aspettò. Nulla. Lo schermo rimase vuoto sotto la sua domanda.
Poiché nulla è peggio che fare nulla, digitò un’altra volta, “Ciao! C’è qualcuno
là?”
Ancora nulla. Sbatté il pugno sul tavolino del computer talmente forte che gli
fece male.
“Devo sapere!” gridò. “Ditemi! Non posso andare a casa fino a che non so!”
Sentì la porta aprirsi dietro di sé, troppo tardi per avere una qualche reazione.
E improvvisamente una voce rimbombò dietro di lui: “Girati lentamente. Ho una pistola puntata. Chi sei e perché sei qui?”
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CAPITOLO VENTISETTE
L
uke soffocò il suo istinto di correre via. Si girò più lentamente che poté. Le armi
erano state dichiarate fuorilegge per tutti, salvo che per gli ufficiali del Governo,
molto prima che lui nascesse. Ma riconobbe l’oggetto puntato contro di lui dai libri e
dalle descrizioni di papà. Papà aveva sempre parlato dei fucili da caccia e delle carabine, grosse armi per abbattere cervi e lupi. Quell’arma era più piccola. Fatta per
uccidere le persone.
Tutto ciò passò come un lampo nella mente di Luke prima di guardare oltre
quell’arma puntata, all’uomo che la teneva in mano. Era alto di statura e piuttosto in
carne, i suoi vestiti costosi nascondevano solo in parte la sua mole. Luke l’aveva
visto solo da lontano fino ad allora.
“Lei è il padre di Jen”, disse.
“Non ti ho domandato di dirmi chi sono io”, l’uomo sbottò. “Ma chi sei tu”.
Luke prese un grosso respiro poi l’emise lentamente.
“Un amico di Jen”, disse con cautela.
Solo perché stava osservando molto, molto attentamente, vide l’uomo abbassare l’arma una frazione di centimetro.
“La prego”, Luke disse. “Voglio solo sapere dove si trova Jen”.
Questa volta l’uomo chiaramente rilassò la mano che teneva l’arma. Camminò attorno a Luke, gli andò dietro e spense il computer.
“Jen dice che si deve disattivare l’hard disk prima di spegnere il computer”,
Luke disse.
“Come fai a sapere di Jen?” l’uomo domandò. Strinse gli occhi.
Luke sbatté le palpebre. L’uomo stava tirando sul prezzo, se ne accorse, stava cercando di negoziare. Voleva qualcosa da Luke prima di dire a Luke qualcosa
di Jen. Ma cosa?
“Anch’io sono un terzo figlio”, Luke disse alla fine. L’espressione dell’uomo
non cambiò, ma Luke pensò di aver visto un tremolio di interesse nei suoi occhi.
“Sono un vicino di casa. Ho scoperto Jen per caso e ho iniziato a farle visita, quando mi è stato possibile”.
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“Come hai fatto a sapere che era qui?” l’uomo disse.
“Ho visto …” Luke non voleva mettere Jen nei guai. “Ho visto delle luci quando tutti se n’erano andati. Immagino. Io … io davvero volevo che ci fosse un altro
terzo figlio che potessi incontrare.
“Allora Jen è stata poco attenta”, l’uomo disse, con una sfumatura nella sua
voce che Luke non comprese.
“No”, Luke disse con aria dubbiosa. “Sono io ad essere un buon osservatore”.
L’uomo annuì, evidentemente in segno di accettazione della risposta di Luke.
Poi si sedette sulla sedia accanto al tavolo del computer e appoggiò la mano con la
pistola sulla sua gamba. Luke considerò ciò come un segno che la conversazione
poteva durare abbastanza a lungo per poter escogitare qualcosa.
“E’ stata Jen a insegnarti come disabilitare il nostro sistema d’allarme?”
l’uomo domandò.
Luke non vide l’utilità di mentire. “Sì, ma devo aver fatto un pasticcio, dato
che lei è venuto…”.
“No”, l’uomo disse. “Se tu avessi fatto un pasticcio, sarebbero venute le guardie della sicurezza. Ma l’ho predisposto in modo che io venga avvisato automaticamente ogniqualvolta il sistema viene disinserito mentre sono via … date le circostanze, ho deciso di venire a controllare di persona”.
Luke voleva con tutto se stesso domandare a quali “circostanze” si riferisse,
ma l’uomo stava già facendo un’altra domanda. “Allora, cos’altro tu e Jen avete fatto assieme?” l’uomo disse. Luke non riuscì a comprendere perché l’uomo stava usando un tono così accusatorio nei suoi confronti.
“Nulla”, Luke disse. “Cioè, abbiamo parlato molto. Mi ha mostrato il computer.
Voleva … voleva che io partecipassi alla manifestazione, ma io ero troppo spaventato”.
Troppo tardi, non avrebbe dovuto dire della manifestazione, forse l’uomo non
ne sapeva nulla. Aveva Luke tradito la fiducia di Jen? Ma l’uomo non sembrò sorpreso. Stava analizzando Luke con attenzione, proprio come Luke stava analizzando lui con altrettanta attenzione.
“Perché non l’hai fermata?” l’uomo domandò.
“Fermare Jen? Sarebbe stato come tentare di fermare il sole”, Luke disse.
L’uomo rivolse a Luke un debolissimo sorriso, un sorriso di grande tristezza.
“Ricordati di questo”, disse.
“Allora, dov’è?” Luke domandò.
L’uomo rivolse lo sguardo da un’altra parte.
“Jen è …” e la voce gli mancò. “Jen non è più con noi”.
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Nascosti
“E’ …”.
“E’ morta” l’uomo disse con voce secca.
In qualche modo Luke lo sapeva già, anche se non voleva ammetterlo. Barcollò all’indietro, sconvolto. Sbatté contro il divano e si afflosciò su di esso.
“No”, disse, “Non Jen. No. Lei sta mentendo”.
Cominciò a sentire come un rimbombo nelle orecchie. Pensò a cose pazze. E’
un sogno. Un incubo. Devo svegliarmi. Si ricordò che Jen parlava a un chilometro
al minuto e che gesticolava incontrollabile. Come poteva essere morta? Tentò di
raffigurarsela distesa, muta e immobile. Morta. Fu impossibile.
L’uomo stava scuotendo la testa sconsolato.
“Darei qualunque cosa per poterla riavere”, sussurrò. “Ma è la verità. L’ho vista. Ci hanno dato … ci hanno dato il corpo. Privilegio speciale per un ufficiale del
Governo”. La sua voce era talmente piena di amarezza, che Luke riuscì a stento a
sentire. “E non abbiamo potuto neppure seppellirla nella tomba di famiglia. Non abbiamo potuto prendere un giorno di permesso dal lavoro per lutto. Non abbiamo potuto dire a nessuno perché andavamo in giro con gli occhi gonfi e i cuori spezzati.
No … abbiamo semplicemente dovuto far finta di essere la stessa vecchia famiglia
di quattro persone che siamo sempre stati”.
“Come?” Luke domandò. “Come è … morta?”
Stava pensando che se fosse stato un incidente in macchina, non sarebbe
stato tanto brutto. O che forse la sua morte non aveva nulla a che fare con la manifestazione. Forse è stata semplicemente una malattia improvvisa.
“Le hanno sparato”, il padre di Jen disse. “Hanno sparato a tutti. A tutti i quaranta ragazzi presenti alla manifestazione, abbattuti a fucilate proprio davanti alla
residenza del presidente. Il sangue scorreva tra i cespugli di rose. Ma hanno fatto
lavare per bene i marciapiedi prima che arrivassero i turisti, così nessuno avrebbe
saputo”.
Luke cominciò a scuotere la testa in segno di no e non riuscì a fermarsi.
“Ma Jen ha detto che ci sarebbero state troppe persone per sparare a tutte.
Ha detto che sarebbero state un migliaio”. Luke protestò, come se le parole di Jen
potessero cambiare ciò che stava sentendo.
“La nostra Jen aveva troppa fiducia nel coraggio dei suoi amici nascosti”, il
padre di Jen disse.
Luke cominciò a essere scosso dai singhiozzi. “Le dissi che non potevo venire”, disse. “Glielo dissi. Non è colpa mia!”.
Margaret Peterson Haddix
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“No”, il padre di Jen disse con calma. “E non avresti potuto fermarla. Non è
colpa tua. Ci sono molte altre persone che portano la responsabilità di ciò. Probabilmente avrebbero sparato a mille. O anche a quindicimila. A loro non importa”.
L’espressione sul volto dell’uomo si contorse. Luke pensò che non aveva mai
visto un dolore simile, nemmeno quella volta in cui Matthew si era fatto cadere una
mazza sul piede. Le lacrime cominciarono a solcare il volto del padre di Jen.
“Quello che non capisco è … perché l’ha voluta fare, quella Crociata dei Ragazzi? Non era una sprovveduta, per tutta la vita l’avevamo messa in guardia dalla
Polizia Demografica. Pensava davvero che la manifestazione avrebbe avuto successo?” disse.
“Sì”, Luke lo assicurò. Poi, senza evocarle, le ultime parole che Jen gli aveva
rivolto gli tornarono alla mente: Possiamo sperare …quando era stata lei che gli aveva detto che la speranza era una parola senza senso. Forse Jen sapeva che la
manifestazione sarebbe stata un fallimento. Forse sapeva anche che sarebbe probabilmente morta. Si ricordò del primo giorno che l’aveva incontrata, quando si era
tagliata la mano di proposito per coprire le gocce del suo sangue sul tappeto. C’era
qualcosa di strano in Jen che non riusciva proprio a comprendere, che la rendeva
disposta a sacrificare se stessa per aiutare gli altri. O almeno per tentare di farlo.
“Credo che in un primo momento credesse che la manifestazione avrebbe
avuto successo”, Luke disse al padre di Jen. “Poi, anche quando non ne era più
tanto sicura … ancora sentì che doveva andare. Non poteva annullare tutto”.
“Perché?” il padre di Jen domandò. Stava singhiozzando. “Voleva forse morire?”
“No”, Luke disse. “Voleva vivere. Non nascondersi. Vivere”.
Le parole risuonarono ancora e ancora nella sua testa. “Non nascondersi. Vivere. Non nascondersi. Vivere”. Fino a che le trattenne dentro di sé, quelle parole
gli fecero sentire Jen viva in quella casa. Era semplicemente uscita dalla stanza per
un momento per prendere delle altre patatine, forse, e ben presto sarebbe tornata
per fargli un’altra conferenza su come entrambi meritavano una vita migliore che
nascondersi. Poteva ancora credere che fosse la sua voce ad echeggiare nelle sue
orecchie.
Ma se avesse ceduto, se avesse fatto cessare il suono delle parole nella sua
testa anche per un solo momento, si sarebbe sentito perduto. Sentì come se il
mondo intero si allontanasse da lui in un vortice impetuoso e lui fosse rimasto tutto
solo. Voleva gridare con tutto se stesso: “Jen! Torna!” … come se lei lo potesse
sentire e potesse fermare il mondo e tornare da lui.
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Nascosti
Come proveniente da molto lontano, Luke sentì il padre di Jen prendere un
grande respiro e poi soffiarsi il naso.
“Potresti non essere pronto per sentire ciò che ora sto per dirti”, disse. “Ma
…”.
Come disorientato, Luke sollevò la testa e ascoltò senza molta convinzione.
“Quando ti sei collegato in quella chat”, il padre di Jen disse, “un segnale si è
attivato automaticamente in un computer nella sede della Polizia Demografica.
Stanno monitorando la chat molto attentamente – l’hanno scoperta dopo la manifestazione. Sono riuscito a … ah, a far sparire le cose che riguardavano Jen, ma rintracceranno il tuo messaggio e arriveranno al nostro computer. Proprio in questo
momento la Polizia Demografica è dentro la chat ed è risalita a tutti quelli che sono
stati coinvolti nella manifestazione, con la conseguenza che avrò uno o due giorni di
tempo per escogitare una spiegazione che sembri plausibile. Ma se faranno delle
indagini più accurate, potresti trovarti in pericolo”.
“Più del solito? Luke disse sarcasticamente.
Il padre di Jen prese la domanda seriamente.
“Sì. Cominceranno a cercarti attivamente. Perquisiranno ogni casa qui attorno. Non ci vorrà molto perché ti trovino”.
Un brivido freddo corse giù per la schiena di Luke. Allora sarebbe morto allo
stesso modo, proprio come Jen. O non come lei …lei era morta coraggiosamente.
Lui sarebbe stato preso come il classico topo nella sua tana.
“Se tu me lo permetti” il padre di Jen continuò, “posso farti avere una carta
d’identità falsa. Potresti essere a miglia di distanza prima che vengano a cercarti”.
“Farebbe questo per me?” Luke domandò. “Perché?”
“A motivo di Jen”.
“Ma … come?”
“Ho conoscenze. Capisci” – il padre di Jen esitò a dirlo – “io lavoro per la Polizia Demografica”.
Margaret Peterson Haddix
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CAPITOLO VENTOTTO
L
uke iniziò a urlare e non riuscì a smettere. Improvvisamente il suo cervello sembrò non avere alcun controllo su quello che il suo corpo faceva. Sentì le sue
gambe scattare e lanciarlo verso il padre di Jen. Vide la sua stessa mano afferrare
la pistola dalla mano dell’uomo e strappargliela via. Sentì una voce che riconobbe
appena come il suo urlo, ripetuto, “No! No! No!”
“Smettila!” il padre di Jen gridò. “Smettila, tu piccolo sciocco, prima di farci uccidere tutti e due …”
In qualche modo, Luke si trovò con la pistola in mano. Il padre di Jen fece un
balzo contro di lui e Luke già si raffigurava il padre di Jen che lo placcava, proprio
come Jen l’aveva placcato tanti mesi prima. Ma questa volta Luke fece un passo
veloce da un lato e il papà di Jen sbatté, incapace di controllarsi, contro la parete
dietro di lui. Luke puntò la pistola contro l’uomo e con grande forza di volontà riuscì
a tenerla salda in mano.
Il padre di Jen si voltò lentamente.
“Puoi anche spararmi”, disse, tenendo le mani in alto in segno di arresa. “Potrei anche essere contento, perché così potrei non sentire più la mancanza di Jen.
Ma sarebbe un errore. Te lo giuro, nel nome di tutto quello che è di più sacro – nel
nome di Jen – sono dalla tua parte”.
Il padre di Jen fissò Luke dritto negli occhi e rimase in attesa. Luke sentì uno
scatto d’orgoglio per il fatto che era riuscito a prevalere, che si era guadagnato il
diritto di decidere cosa sarebbe successo in seguito. Ma come faceva a sapere che
cosa fosse giusto fare? Sicuramente il padre di Jen non mentirebbe proprio giurando nel suo nome. Vero?
Luke strinse gli occhi fino a chiuderli, poi abbassò la pistola lungo il fianco.
“Bene”, il padre di Jen disse, mandando un respiro forte. Luke lasciò che il
papà di Jen venisse verso di lui, che gentilmente gli prendesse la pistola e che la
posasse sul tavolo.
“Stavo per spiegarti”, il papà di Jen disse, un po’ ansimando. Si sedette. “Io
lavoro solamente nella sede della Polizia Demografica. Non sono d’accordo con
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Nascosti
quello che fanno. Cerco di sabotarli più che posso. Jen non ha mai capito – alle volte è necessario lavorare dietro le linee nemiche”.
Il papà di Jen parlò, e parlò e parlò. Luke pensò che stesse ripetendo due o
tre volte tutto quello che diceva, ma era cosa buona, perché il suo cervello funzionava talmente a rilento che aveva bisogno di un aiuto extra.
“Sai molto di storia?” il papà di Jen domandò.
Luke cercò di ricordare se c’erano libri di storia nella collezione di famiglia in
soffitta. Contavano anche le storie di avventura di tanto tempo prima?
“Solamente …”, Luke si schiarì la voce. “Solamente i libri che Jen mi ha prestato”.
“Quali?”
Luke li indicò sullo scaffale sopra il computer.
“E mi ha dato degli articoli, stampati del computer”.
Il papà di Jen annuì. “Allora hai appreso solo la propaganda di entrambe le
parti”, disse. “Nessuna verità”.
“Cosa intende dire?” Luke domandò.
“Le pubblicazioni del Governo hanno lo scopo di convincere la gente, sono
tutti fatti manipolati. E la resistenza è, a modo suo, altrettanto estrema e usa le statistiche per difendere la propria causa. Perciò non sai nulla”.
“Jen diceva che le cose del computer erano vere”, Luke disse tanto per difendersi. E il solo pronunciare il suo nome lo faceva star male. E ora era morta. Come
poteva essere morta?
Il papà di Jen fece un gesto di esasperazione con la mano.
“Jen credeva a ciò che voleva. Ma purtroppo …” Si bloccò e Luke temette che
il papà di Jen iniziasse a piangere di nuovo. Poi inghiottì e continuò. “Purtroppo sono stato io a incoraggiarla. Le ho passato alcune informazioni a senso unico. Volevo darle speranza che un giorno la Legge Demografica sarebbe stata abolita. Non
sapevo che lei … che lei avrebbe ...”
Luke sapeva che non sarebbe stato in grado di sopportare la vista del papà di
Jen nuovamente in lacrime.
“Allora, cosa dovrei sapere?” Luke domandò. “Qual è la verità?”
“La verità”, il papa di Jen farfugliò, aggrappandosi a quelle due parole come
se Luke gli avesse gettato una cima di salvataggio. Si ricompose velocemente. “E’
che nessuno realmente sa qual è la verità. Ci sono state troppe falsità per troppo
tempo. Il nostro Governo è totalitario e i governi totalitari non amano mai la verità”.
Ciò non aveva senso per Luke, ma ugualmente lasciò che il papà di Jen continuasse a parlare.
Margaret Peterson Haddix
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“Sai della carestia?”
Luke annuì.
“Prima della carestia il nostro paese credeva nella democrazia e
nell’eguaglianza e nella libertà per tutti. Poi venne la carestia e il governo fu rovesciato. Ci furono rivolte in ogni città, per il cibo, e molte, molte persone furono uccise. Quando il Generale Sherwood andò al potere, promise legge e ordine e cibo per
tutti. A quel tempo era tutto ciò che la gente voleva. E fu ciò che la gente ottenne”.
Luke socchiuse gli occhi cercando di capire. Quello era un discorso da grandi,
puro e semplice. No, era peggiore del discorso da grandi cui era abituato, perché
tutto ciò di cui i suoi genitori parlavano era del raccolto del granoturco e delle bollette e della probabilità che venisse la brina alla fine di maggio. Quelle cose lui le capiva. Ma di governi rovesciati, di rivolte nelle città – erano cose che andavano ben
oltre alla sua capacità di comprendere.
“E i Baroni ottennero di più”, disse senza pensare, poi arrossì, perché gli
sembrò una cosa scortese da dire.
Il papà di Jen rise. “Vero. L’hai notato. Lo so che non è onesto, e non ne sono
orgoglioso, ma … il Governo, in tutta consapevolezza, prese la decisione di permettere ad una classe di persone di avere dei privilegi speciali – Jen probabilmente ti
ha fatto conoscere il cibo spazzatura, non è vero?”
Luke annuì.
“E’ un buon esempio. Ufficialmente è illegale, ma nessuno è mai stato arrestato per aver fornito ai Baroni cibo spazzatura. Cosa che è altamente conveniente,
se si considera che tutti i potenti ufficiali di Governo sono Baroni”. Il tono cinico nella
voce dell’uomo sembrò molto simile a quello di Jen, al punto che Luke quasi fu sopraffatto nuovamente dal dolore. Ma si sforzò di concentrarsi su quello che il papà
di Jen stava dicendo.
“Il Governo giustifica il fatto di tenere tutti gli altri in povertà perché sembra
che la gente lavori di più quando sono al limite della sopravvivenza”, continuò. “Il
Governo tenta in tutti i modi di assicurarsi che la maggior parte delle persone –
quelle che cooperano – sopravvivano. Se hai sentito i tuoi genitori parlare degli altri
agricoltori, saprai che nessuno di essi perde più la propria fattoria. Ma, anche, che
nessuno guadagna abbastanza da vivere nell’agiatezza”.
Luke pensò alle costanti preoccupazioni dei suoi genitori per i soldi. Era tutto
ciò necessario? Venivano semplicemente manipolati? Sentì crescere la rabbia, ma
subito la represse, perché aveva altre domande da fare.
93
Nascosti
“Ma anche i Baroni devono rispettare la Legge Demografica”, disse. “E’ perché” – deglutì – “è perché è semplicemente necessario? La popolazione era troppo
numerosa? Lo è ancora?”
“Probabilmente no”, il papà di Jen disse. “Se il cibo fosse stato distribuito giustamente, se la gente non si fosse fatta prendere dal panico … se avessimo avuto
leader politici bravi e onesti, veramente interessati ai bisogni di tutti … saremmo potuti sopravvivere alla crisi senza limitare i diritti di nessuno. E ora – non dovrebbe
essere un problema se alcune persone volessero avere tre o quattro bambini, fintantoché altre persone scelgono di non averne nessuno. Ma la Legge Demografica
è diventata la realizzazione di cui il Generale Sherwood va maggiormente fiero. Ecco perché nemmeno i Baroni sono esentati. Anzi, il Generale lo sottolinea continuamente e dice: ‘Vedete, ho il controllo completo della vita di tutta la mia popolazione’”.
“Allora è sbagliata”, Luke disse, cercando di afferrare il senso.
“Credo di sì. Sì”, il papà di Jen disse.
Luke sentì uno strano senso di sollievo, che non era veramente sbagliato che
lui esistesse, che era solamente un illegale. Per la prima volta da quando aveva letto i libri del Governo, riuscì a capire la differenza tra le due cose. Forse il fatto di
non aver saputo separare i due concetti era il motivo per cui era stato tanto terrorizzato di andare alla manifestazione. Se avesse davvero creduto, come Jen aveva
creduto, allora sarebbe potuto andarci.
E sarebbe stato ucciso come era stata uccisa Jen?
Tutto ciò lo disorientò e lo spaventò solo a pensarci.
Il padre di Jen diede un’occhiata al suo orologio.
“Devo tornare al lavoro. La mia possibilità di nascondermi è limitata. Se vuoi,
posso procurarti la carta d’identità falsa per domain sera. Nel frattempo. Ti consiglio
di …”.
Si interruppe di colpo. Luke seppe perché: un suono proveniente dai suoi
peggiori incubi – qualcuno batté violentemente alla porta e subito dopo l’ordine: “Aprite! Polizia Demografica!”
Margaret Peterson Haddix
94
CAPITOLO VENTINOVE
P
rima che Luke avesse la possibilità di parlare, il papà di Jen lo tirò su dal divano
per un braccio e lo spinse dentro l’armadio a muro.
“C’è una porta segreta sul fondo dell’armadio”, sibilò. “Usala”.
Luke si mosse a tentoni nel buio, districandosi tra quello che al tocco sembravano degli oggetti pelosi. Dietro di lui, sentì il papà di Jen gridare: “Vengo! Vengo! È
una porta da dodicimila dollari. Se la fracassate, la pagherete!” Poi Luke sentì il
computer emettere il suo bi-bi-bi-biiip! e il papà di Jen farfugliare: “Hanno scoperto
l’efficienza proprio in un bel momento. Suvvia, suvvia, connettiti …”.
Il battere alla porta divenne più forte, e una voce burbera gridò: “Hai tre secondi, George!”
Luke si spinse ancora più sul fondo dell’armadio. Ma non riuscì a trovare la
parete sul fondo, tanto meno la porta segreta. E in quel momento sentì un suono di
legno che si fracassava sul davanti della casa. Secondi dopo, c’erano passi pesanti
nella stanza del computer.
“Cosa significa tutto questo?”
Era la voce indignata del papà di Jen che veniva dal corridoio. Se non ne fosse stato testimone lui stesso, Luke non avrebbe mai creduto che il papà di Luke
stesse piangendo solo pochi momenti prima. Sembrava troppo energico, troppo sicuro di sé, troppo convinto delle sue ragioni e chiunque si opponesse a lui era in
errore. I passi pesanti si interruppero. Da dentro l’armadio, ben nascosto, Luke sentì una persona ridacchiare.
“Beccato con i pantaloni abbassati, eh, George?”
“Sì, sì, molto divertente”, il papà di Jen rispose, con un tono di voce neanche
un po’ divertito. Ci fu un suono come di cerniera lampo che veniva chiusa. “Siamo
arrivati a tanto? Un uomo non può neppure andare al bagno senza che la sua porta
venga fracassata da un mucchio di idioti con il complesso del potere? E pagherete
la porta, ve lo assicuro”.
Se Luke fosse stato della Polizia Demografica, si sarebbe sentito spaventato
a morte dalle parole del papà di Jen. Luke si sarebbe ritirato mormorando: “Mi scu-
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Nascosti
si, mi scusi”. Non avrebbe mai immaginato che il papà di Jen stesse nascondendo
un terzo figlio. Fiducioso, Luke rimase immobile così com’era, tutto rannicchiato
nell’armadio dei Talbot.
Ma la voce che rispose al padre di Jen ebbe solo una leggerissima punta di
dubbio.
“Ma dai, George. Lo sai che abbiamo il diritto di perquisire e sequestrare. Abbiamo dei rapporti che dicono che quel computer è stato usato per degli scopi illegali. Solo mezz’ora fa”.
“Siete anche più idioti di quanto pensassi”, il papà di Jen rispose. “Nessuno di
voi legge le circolari? Questa mattina stessa ho fatto rapporto al Comando Centrale
che avevo intenzione di continuare la mia operazione sotto copertura dentro la chat
illegale. Vedete, ho scritto: ‘Dove è Jen?’ e: “Ciao! C’è qualcuno?’, cose che qualche terzo figlio disorientato e confuso e che non ha partecipato alla manifestazione
potrebbe benissimo scrivere. Siete molto in basso nella scala gerarchica e perciò
come facevate a sapere che stavo fingendo di essere Jen, il capo della resistenza
fin dall’inizio? Vi siete per caso persa la cerimonia di riconoscimento in cui sono stato ricompensato per l’eliminazione di quaranta illegali?”
Luke si meravigliò che il papà di Jen potesse dire il nome della figlia senza
che la sua voce lo tradisse. Se Luke non conoscesse Jen – se non l’avesse conosciuta, si corresse con una smorfia – e se non sapesse quanto lei si fidava di suo
padre, sarebbe stato convinto che il padre di Jen l'avesse ingannata e tradita. Stando così le cose, era ancora terrorizzato che il padre di Jen potesse ancora tradire
lui. Come poteva fidarsi di qualcuno che parlava talmente freddamente
dell’”eliminazione” di tutti quei terzi figli? Luke si mosse con grande cautela dentro
l’armadio e raggiunse una pila di lenzuola sul fondo dello stesso. Alla fine toccò la
parete, ma tutto quello che sentì con la mano era un muro liscio. Il padre di Jen aveva detto che c’era una porta. Perciò una porta doveva esserci per forza.
Le voci provenienti dall’esterno dell’armadio erano ora attutite.
“… leggere la circolare …”
“Sono sicuro che si trova sul vostro tavolo là in ufficio, assieme a tutti i documenti che non leggete mai”. Il padre di Jen alzò la voce, così Luke poté sentirlo
chiaramente. “Oppure non sapete neppure leggere?” L’ufficiale della Polizia Demografica ignorò l’insulto. “Mostraci il computer”.
“Molto bene”.
Luke pregò che il papà di Jen avesse qualcosa da mostrare loro. Non riusciva
a trovare la porta segreta, sebbene facesse scorrere le dita lungo la parete, ripetu-
Margaret Peterson Haddix
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tamente. Il cuore gli batteva talmente forte, che era sicuro che la Polizia Demografica l’avrebbe sentito.
Tutto ciò che riusciva a sentire della Polizia Demografica e del padre di Jen
erano ora solo dei borbottii. Poi la voce di uno degli agenti disse forte: “Stai mentendo, George. Faremo una perquisizione”.
“Solo a causa di un malfunzionamento del computer? Bene. Non è problema
mio”. Luke rimase sbalordito dall’indifferenza nella voce del padre di Jen. “Ma
quando non troverete nulla – perché non troverete nulla – lo sapete che ho diritto al
risarcimento per la Perquisizione Illegale e ai Benefici del Sequestro che sono garantiti ai Baroni, e farò pressione perché vengano formulate delle accuse nei vostri
confronti. O dovrei usare bustarelle o caviale e champagne?”
“Ma dai, George, non ci faresti causa per davvero?”
“Credi che non ne sarei capace? Va avanti, allora. Comincia da qui”.
Improvvisamente l’armadio fu inondato di luce. Luke soffocò un sussulto.
Come aveva potuto il padre di Jen spalancare la porta proprio del luogo stesso dove Luke si stava nascondendo? Preso dalla disperazione Luke si mise di scatto una
coperta sulla testa.
Nessuno della Polizia Demografica rispose al padre di Jen, ma le varie ombre
che caddero sulla coperta di Luke lo fecero pensare che la Polizia Demografica stava proprio davanti alla porta dell’armadio. Udì degli appendiabiti scivolare sull’asta
di metallo e poi la Polizia Demografica allontanarsi.
Confuso e terrorizzato, Luke rimase raggomitolato sotto la coperta. Sentì
passi attutiti in ogni luogo della casa ed era sicuro che sarebbero tornati nella stanza del computer da un momento all’altro. Prima di ucciderlo, sperò che gli fosse
permesso almeno di tornare dai suoi genitori e dire loro quanto li amava. Avrebbe
potuto anche scusarsi con Matthew e Mark per non aver apprezzato le partite a
scacchi e a carte che avevano giocato con lui quando sapeva che avrebbero preferito stare all’aria aperta. E probabilmente avrebbe dovuto scusarsi con i suoi genitori per averli disobbediti e per essere venuto nella casa di Jen in primo luogo. Eccetto che, nonostante la paura tremenda di essere trovato, non riusciva a sentirsi in
colpa per averlo fatto.
Comunque fosse, era improbabile che l’avrebbero lasciato vedere i suoi genitori prima di ucciderlo. Doveva proteggere i suoi genitori e rifiutarsi perfino di rivelare chi fossero …
La mente di Luke stava ancora girando attorno ai suoi piani agitatissimi quando sentì qualcuno tornare nella stanza del computer. Erano i passi di una sola persona, perciò osò sperare.
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Nascosti
“Avreste potuto pulire i vetri prima di uscire!”
Era il papà di Jen. Luke tese le orecchie per sentire la risposta, ma non ci fu
alcuna. La polizia Demografica se n’era andata?
Luke tenne la testa bassa. Sentì il papà di Jen entrare nell’armadio. Poi sollevò la coperta dalla testa di Luke e gli strinse la mano sulla bocca. Luke cominciò a
dimenarsi fino a che non lesse le parole su un pezzo di carta che il papà di Jen gli
teneva davanti alla faccia:
Sono andati.
Sei salvo,
ma
NON PARLARE!!!
Luke si calmò e annuì per mostrare che avrebbe ubbidito. Il papà di Jen lo lasciò, capovolse il foglio e iniziò a scrivere furiosamente.
Ci sono cimici in casa ora.
Luke rivolse al papà di Jen un’occhiata perplessa.
“Cim …” iniziò a dire, poi si ricordò e si fermò. Prese la penna dalle mani del
papà di Jen e scrisse: Cimici? Formiche? Scarafaggi?
Il papà di Jen scosse la testa freneticamente. Cimici = piccoli aggeggi per ascoltare – la Polizia Demografica sente tutto. Ecco perché non possiamo parlare. Lo
fanno quando un’irruzione non ha successo. Hanno messo una cimice anche su di
me.
Il papà di Jen si girò e sollevò il collo della giacca e Luke vide un dischetto
metallico attaccato sul rovescio del collo.
Luke aggrottò le sopracciglia e scrisse sulla carta: Perché non toglierlo? Il papà di Jen scosse la testa. Più sicuro così. Finché pensano di sentire tutto, non ritorneranno.
Il papà di Jen indicò gli oggetti pelosi sugli appendiabiti dietro di lui.
Li ho corrotti con le pellicce. Molto rare, di grande valore.
Luke guardò le pellicce. Sembravano molte di meno ora. Erano pellicce di animali? Perché mai una persona vorrebbe avere una pelliccia? Non poteva chiederlo, comunque, perché il papà di Jen stava già scarabocchiando altre cose.
Ho solo preso tempo. La scusa della circolare non reggerà a lungo – non esiste quella circolare. Lo scopriranno presto.
Luke allungò la mano verso la penna. Cosa le faranno?
Il papà di Jen scosse la testa. Non lo so, scrisse. Sono sopravvissuto a queste cose altre volte. Ma ora tutto è a rischio. Il fatto che sono venuti qui così presto
= vogliono rendermi la vita difficile.
Margaret Peterson Haddix
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Debolmente Luke piegò la testa all’indietro contro la parete dell’armadio. Ciò
gli ricordò della sua ricerca frenetica della porta segreta lungo la superficie del muro. Allungò la mano al foglio di carta e scrisse: Dov’è la porta?
Il papà di Jen tirò fuori un altro foglio di carta. Scuotendo la testa scrisse: Non
esiste. Volevo solo farti stare sul fondo dell’armadio.
Luke affondò la testa nelle mani. Il papà di Jen era un buon mentitore, non vi
erano dubbi. Come poteva Luke fidarsi di lui? Luke alzò la testa e guardò il papà di
Jen scrivere dell’altro sulla carta. L’espressione sul volto era piena di preoccupazione, e Luke sapeva, in qualche modo, che poteva fidarsi di lui. Avrebbe potuto facilmente denunciare Luke e ricevere la ricompensa e un’altra cerimonia di riconoscimento. Ma che confusione, non sapere mai quando qualcuno stava mentendo!
Il papà di Jen girò il foglio e lo mise davanti agli occhi di Luke. C’era scritto:
Allora, la vuoi la carta d’identità falsa o no?
Luke deglutì. Dopo un minuto scrisse la risposta: Sono al sicuro se non ce
l’ho?
Il papà di Jen sembrò soppesare la domanda. Strinse gli occhi e scrisse: Probabilmente sì. Stanno cercando me ora, non te. Se davvero hanno pensato che ci
fosse un illegale qui, non si sarebbero fatti corrompere. Oppure avrebbero preso la
bustarella e anche te. Ma il mio consiglio è – accetta la carta d’identità.
Luke scrisse: Posso aspettare? Pensarci su per un po’?
Era ciò che Luke voleva. Ma non tanto pensare, quanto nascondersi dai suoi
pensieri per un po’. Voleva ricordare Jen e sentirsi addolorato per lei da solo. Non
voleva dover pensare a quali parti della Legge Demografica erano buone o a quali
erano cattive, oppure al motivo per cui la sua famiglia non aveva maggiori possibilità economiche. Non voleva dover immaginarsi il papà di Jen e le altre persone come lui che facevano finta di essere molte cose, una diversa dall’altra. Non voleva
dover prendere la decisione su una cosa che avrebbe cambiato il resto della sua
vita. Ma il papà di Jen aveva scritto la risposta: Non lo so. Potrebbe essere il caso
di ‘ora o mai più’.
Luke scarabocchiò: Perché?
Il papà di Jen scrisse per parecchio tempo. Poi girò la carta verso Luke. C’era
scritto: Ho potere adesso. Domani, probabilmente. La prossima settimana???? Il
prossimo anno??? Non si può dire con questo Governo. Lacchè prediletto un giorno, persona non grata il giorno dopo. Non si sa mai. Nessuna garanzia.
Luke fissò il pezzo di carta finché le parole divennero una massa indistinta.
Doveva decidere. Ora.
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Nascosti
Pensò di continuare a leggere e a sognare ad occhi aperti nella soffitta per il
resto della sua vita. I suoi genitori erano gentili con lui, anche se non erano molto in
casa ultimamente. E per quanto Matthew e Mark lo avessero sempre tormentato,
era sicurissimo che si sarebbero presi cura di lui se un giorno i suoi genitori non
l’avessero potuto fare. La sua vita era molto limitata – lo comprese in quel momento
più di sempre. Ma era abituato ad essa. Era una vita sicura. Poteva fare in modo di
essere felice.
Eccetto che …
Luke si ricordò di quanto si era annoiato prima di conoscere Jen, di quanto
disperato era stato di fare qualcosa – qualsiasi cosa! – oltre a leggere e a sognare a
occhi aperti. Era stato talmente disperato che aveva rischiato la vita per la possibilità di incontrare un altro terzo figlio. Era davvero disposto a trascorrere il resto della
sua vita a sentirsi così disperato? Era disposto semplicemente … a buttarla via?
Ma anche se avesse avuto la carta d’identità falsa … cosa avrebbe fatto?
La risposta arrivò all’istante, come se l’avesse saputa da sempre e il suo cervello fosse stato ad aspettare che lui venisse a vederla.
Poteva fare qualcosa per aiutare gli altri terzi figli a uscire dai loro nascondigli.
Non con un’altra grossa e drammatica manifestazione come quella che Jen aveva
tentato, oppure trovando carte d’identità false come quella che il papà di Jen gli stava offrendo. Forse c’era qualcosa di più semplice e di meno eclatante che poteva
fare. Studiare modi per coltivare cibo in maggiore quantità, cosicché nessuno avrebbe patito la fame, non imparta quanti bambini la gente avesse avuto. O cambiando il Governo cosicché gli agricoltori potessero allevare maiali o usare
l’idrocoltura, e la gente ordinaria, non solo i Baroni, avrebbe potuto avere una vita
migliore. Oppure escogitare modi perché la gente potesse vivere nello spazio, cosicché non ci sarebbe stata sovrappopolazione sulla Terra e abbattere dei bei boschi solo per far posto alle case. Non sapeva esattamente come avrebbe potuto fare quelle cose, nemmeno quale fosse la cosa più giusta da fare. Ma voleva fare
qualcosa.
Si ricordò di cosa aveva detto a Jen, l’ultima volta che l’aveva vista: Sono le
persone come te che cambiano la storia. Le persone come me – noi semplicemente
lasciamo che le cose ci accadano. E aveva creduto a ciò. Quello era il modo in cui
la sua famiglia era sempre vissuta. Ma forse era sbagliato. Forse lui poteva avere
successo dove Jen aveva fallito, precisamente perché lui non era un Barone – perché lui non aveva la sua concezione che il mondo gli doveva tutto. Poteva essere
maggiormente paziente, più prudente, più pratico.
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Ma non avrebbe potuto mai fare alcunché stando nascosto. Si morse il labbro. La sua mano tremava quando scrisse la risposta.
Voglio la carta d’identità falsa. Per piacere.
CAPITOLO TRENTA
L
ee Grant si sistemò nell’automobile che l’avrebbe portato via dalla fattoria dove
aveva trovato rifugio, dopo essere scappato di casa. Si era perso – certamente
non aveva mai inteso finire in quel posto. Osservò l’aia polverosa davanti a sé, i
solchi irregolari di fango seccato dove i trattori e i camion avevano lasciato le loro
impronte. Guardò fisso la stalla sgangherata e la pittura sulla casa scrostata dalle
intemperie, luoghi che avrebbero dovuto essere completamente estranei per lui, ma
che non lo erano. Perché lui era …
Luke deglutì, quasi incapace di continuare a pensare alla sua nuova identità.
Era successo tutto troppo in fretta, era tutto troppo difficile, quando ancora sentiva
sulle spalle il calore dell’ultimo abbraccio di mamma. Guardò in giù, alle sue mani
strette assieme, appoggiate in grembo, e già gli sembrarono come quelle di qualcun
altro contro lo sfondo dei suoi pantaloni nuovi di zecca. Non più i jeans consunti e
le camicie di flanella che erano state di altri prima di lui – c’era un’intera valigia nel
bagagliaio piena dello stesso tipo di bei vestiti alla moda, quelli dei Baroni, di cui
aveva riso per mesi in passato. Non gli importò dei vestiti, ma desiderò che lo lasciassero almeno tenere il suo nome. Eppure il padre di Jen era stato orgoglioso di
essere riuscito a trovargli un nuovo nome con le stesse iniziali: L.G.
“Un lavoro fatto di fretta come questo, è già una meraviglia che non ti trovi
addosso un nome come Alphonse Xerxes”, aveva scritto, vantandosi, nella lettera
che aveva lasciato a casa sua la sera prima, fingendo di essere venuto per chiedere ai genitori di Luke di tagliare il salice che allungava i rami dentro la proprietà dei
Talbot.
Il vero Lee Grant era un Barone. Era morto in un incidente sciistico proprio la
sera prima. I suoi genitori non volevano avere nulla a che fare con Luke, “troppo
doloroso” - il padre di Jen aveva spiegato - ma avevano acconsentito a donare il
nome del loro figlio e la carta d’identità, nel modo in cui la gente una volta donava il
cuore o i reni. Un’organizzazione segreta che aiutava i terzi figli aveva provveduto a
ciò. L’organizzazione aveva anche acconsentito a pagare perché Luke andasse in
una scuola privata come residente, per tutto l’anno. Per far apparire la cosa verosi-
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mile, il ragazzo veniva trasferito nel corso del semestre quale punizione per essere
scappato di casa. Luke aveva letto riguardo a posti simili in un vecchio libro della
soffitta. Gli era sembrato un modo strano di vivere, senza famiglia, ma era contento
almeno di non dover far finta di amare altri due genitori.
Ora Luke guardò all’indietro, verso il patio della sua famiglia, dove mamma e
papà e Matthew e Mark stavano in piedi e lo salutavano. Papà e Matthew erano
scuri in volto e Mark sembrava quasi serio – cosa abbastanza insolita per lui – ma
le lacrime scorrevano giù dal viso di mamma.
Aveva pianto anche la sera in cui Luke aveva raccontato tutto ai suoi genitori.
Aveva iniziato con la sua prima visita alla casa di Jen e mamma l’aveva immediatamente sgridato, “Oh, Luke, come hai potuto? Il pericolo … lo so che ti senti
solo, ma tesoro, prometticelo, mai più …”
“Non è tutto”, Luke disse.
Raccontò il resto della storia senza guardarla in volto, fino a quando era giunto alla fine e alla sua decisione di accettare la carta d’identità falsa. Allora il suono
dei singhiozzi di mamma lo costrinse a guardarla. Aveva gli occhi rossi, era distrutta.
“Luke, no, non puoi”, aveva detto trai i sussulti. “Non sai quanto ci mancherai?”
“Mamma, nemmeno io voglio andare”, Luke disse. “E’ solo che … devo. Non
posso passare il resto della mia vita a nascondermi in soffitta. Cosa succederà
quando tu e papà non potrete più prendervi cura di me?”
“Matthew e Mark lo faranno”, rispose.
“Ma non voglio essere un peso per loro. Voglio fare qualcosa con la mia vita.
Studiare modi per aiutare gli altri ragazzi. Fare …”. Tutte le cose cui aveva pensato
di spiegare loro gli sembrarono improvvisamente troppo infantili, infantili a confronto
dei singhiozzi della mamma. Allora concluse debolmente, “Fare la differenza nel
mondo”.
“Non sto dicendo che non potrai mai farlo”, rispose. “Ma sarà fra anni. Penseremo a un modo di farti avere una carta d’identità falsa per te quando sarai grande.
In qualche modo”. Si rivolse al padre di Luke. “Diglielo, Harlan”.
Papà sospirò forte.
“Il ragazzo ha ragione. Deve andare ora, se ha la possibilità”.
Luke sapeva che le parole di suo padre erano state dette con grande dolore,
ma lo trafissero lo stesso. Forse parte di lui aveva segretamente sperato che i suoi
genitori gli proibissero di andare, che lo avessero rinchiuso in soffitta e che
l’avrebbero considerato il loro bambino per sempre.
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“Ho controllato un po’in giro, con discrezione, per vedere se qualcuno aveva
sentito parlare di un terzo figlio che aveva l’opportunità di vivere una vita normale.
Da queste parti, nessuno ha questa possibilità”, papà disse. “Da quanto posso dire,
Luke non avrà un’altra possibilità”.
Luke si girò verso sua madre, perché era troppo doloroso vedere papà che
diceva quelle cose. Ma il dolore che deformava il volto della mamma era peggiore.
“Allora immagino che non abbiamo scelta”, aveva mormorato.
Ciò era successo due giorni prima e da allora mamma si era messa in malattia dal lavoro ed era rimasta a casa, trascorrendo ogni secondo con Luke. Giocarono a giochi da tavolo e a carte, ma ad ogni mossa interrompeva il gioco con: “Ti ricordi …” oppure: “Mi ricordo …”.
I piccoli vagiti quando era nato. I suoi primi passi. La sua gioia nello scoprire
quant’era bello giocare con la terra la primavera in cui aveva compiuto due anni. La
prima volta che aveva zappato un solco diritto nell’orto. Le zucchine che aveva coltivato ed erano cresciute lunghe come il suo braccio. I racconti che gli leggeva a
letto la sera e le coperte che gli rimboccava.
Lo riempiva con i suoi ricordi, lo sapeva, per il tempo in cui non avrebbe avuto
nessuno con cui parlare della sua fanciullezza. Ma era doloroso ascoltare. Desiderò
che potessero solamente muovere le pedine del Monopoli e far finta di non sentire il
ticchettio dell’orologio che gli diceva che il tempo passava.
Ma fin troppo presto il mattino della partenza era arrivato. Il papà di Jen si era
fermato davanti alla casa con la sua macchina lussuosa ed era saltato giù per stringere la mano ai genitori di Luke.
“Signor Garner, signora Garner, grazie per aver denunciato immediatamente
l’arrivo di questo ragazzo. Da quanto sono venuto a sapere, i signori Grant erano
preoccupatissimi”. Poi si rivolse a Luke. “Giovanotto, ciò che hai fatto è irresponsabile e da incosciente. L’unica cosa intelligente che hai fatto è stata quella di ricordarti di prendere la tua carta d’identità. Immagino che tu abbia sentito che la Polizia
Demografica prima spara poi chiede”.
Batté la mano sulla schiena di Luke, poi la fece scivolare verso giù e mise discretamente qualcosa nella tasca di Luke. Luke allungò la mano e toccò il bordo
rigido di una carta d’identità. La sua carta d’identità.
“Dobbiamo iniziare già a far finta?” la mamma di Luke sussurrò, e le lacrime
cominciarono a bagnarle gli occhi.
Il papà di Jen, serio in volto, scosse la testa e si toccò qua e là il petto come
se stesse cercando qualcosa in una tasca nascosta. “La cimice”, fece segno con la
bocca.
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Quando i genitori di Luke annuirono per mostrare che avevano compreso,
smise di toccarsi il petto e tirò fuori un documento che sembrava un atto ufficiale.
“Ah, ecco qua. I documenti di viaggio. I tuoi genitori ti hanno assegnato
all’Istituto Maschile Hendricks. E se non ti comporterai bene …”, il papà di Jen gli
rivolse un’occhiata severa ma con la quale cercava di comunicare anche la sua
compassione.
“Andrebbe…” - mamma si schiarì la voce – “Andrebbe bene se gli dessimo un
abbraccio d’addio? In un certo modo ci siamo affezionati a lui per … per il tempo
che è stato qui”.
Il padre di Jen annuì e allora tutti e due i genitori di Luke lo strinsero a sé e
poi lo lasciarono.
“Sii un bravo ragazzo, ora, sentito?” mamma disse. Luke sapeva che stava
tentando di rendere la cosa un po’ spiritosa, come se stesse parlando al figlio scappato di casa di qualche altra madre. Ma per quanto ci provasse Luke non riuscì a
risponderle con parole altrettanto spiritose. Si limitò ad annuire, sbattendo forte le
palpebre.
Poi saltò in macchina e tentò di essere Lee. Il papà di Jen girò attorno alla
macchina e scivolò dentro al posto di guida. Mise in moto la macchina e uscì in
strada.
“Sei fortunato ad avere un autista così ben pagato”, disse. “Se non fossi un
amico personale del cugino di tuo padre …”
Luke non riuscì a capire se c’era un messaggio nascosto in quelle parole, o
se il papà di Jen avesse detto quella cosa solo in considerazione della cimice. Decise che non valeva la pena analizzare oltre. Si girò e guardò dal finestrino posteriore, vide la sua famiglia che lo salutava con gesti frenetici delle braccia, fino a quando non scomparvero dalla sua vista. Ben presto l’automobile oltrepassò l’altro lato
della stalla e il campo di dietro, visuali che Luke non aveva mai avuto, sebbene avesse vissuto tutta la sua vita a soli cento metri da là. Nonostante la paura che gli
rodeva lo stomaco e l’angoscia per la nostalgia della sua famiglia – di già – sentì un
brivido di emozione. C’era così tanto da vedere. Doveva dirlo a Jen.
Jen. Il dolore che aveva evitato per giorni arrivò fortissimo un’altra volta. Ma,
“Lo faccio anche per te, Jen”, sussurrò, troppo piano perché il papà di Jen o la microspia lo sentisse, coperto dal rumore di fondo della macchina. “Un giorno, quando
saremo tutti liberi, tutti i terzi figli, racconterò a tutti di te. Erigeranno monumenti in
tuo onore, e ci sarà una festa civile in tuo nome …” non era molto, ma lo fece sentire meglio. Un po’.
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Dal finestrino posteriore Luke guardò fisso la fattoria della sua famiglia finché
poté. Ora vedeva solo il tetto della casa di Jen, al di là delle rare file di alberi. E poi,
in un attimo, così sembrò, tutto ciò che gli era familiare scomparve oltre l’orizzonte.
E Lee Grant si voltò per vedere ciò che gli stava davanti.
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tra i nascosti - L`attimo fuggente