«Cara vita, alla fine hai ancora una dignità?» di Irene Rizzo * A seguito di una mozione di indirizzo riguardante il tema del fine-vita, e in particolare incentrata sull'eutanasia, proposta al Congresso Nazionale della FUCI tenutosi a Rimini nel Maggio 2013, dopo ampie discussioni sull'argomento, il gruppo FUCI “S. Giuseppe Moscati” dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ha proposto un incontro sul tema, invitando alla partecipazione tutti i gruppi FUCI degli atenei romani. Il tutto si è svolto il 5-12-2013 presso il Centro Pastorale dell'università stessa, con l'intervento della prof. essa M. L. Di Pietro, docente di Bioetica presso l'UCSC, di Stefano Nannini, presidente nazionale FUCI, nonché membro della commissione teologica e di Alessandro De Biase, presidente del gruppo FUCI S. Giuseppe Moscati. Il primo a intervenire è stato, su invito del moderatore Giuseppe Pietropaolo, membro della FUCI della Cattolica e della commissione?, Stefano. Ha inizialmente dato i suoi saluti al pubblico presente e ricordato il percorso di riflessione su bioetica e fine vita che è stato portato avanti al Congresso Nazionale a Rimini, percorso che ha portato infine alla nascita della mozione: ha ricordato come tanti elementi concorrano alla salvaguardia e alla tutela della dignità umana e fra questi annoveriamo elementi antropologici, teologici, medici e giuridici, i quali, per raggiungere il loro scopo comune, devono interagire e collaborare. Il secondo intervento è stato curato da Alessandro, che sapientemente ha saputo analizzare la domanda posta a titolo della mozione “Cara vita, alla fine hai ancora una dignità?” citando personalità e testi di rilevanza storica riguardo l'argomento. Ha iniziato proponendo un passo del giuramento di Ippocrate, parole quanto mai attuali nel confermare il ruolo del medico all'interno della società. Il passo dice: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.” Alessandro ha poi continuato inserendo un estratto preso dalla mozione, spiegando la scelta del gruppo di volere concentrare la propria attenzione proprio sull'eutanasia, visto la varietà di implicazioni possibili in un argomento vasto come il fine-vita. Partendo da questo presupposto, ha voluto dare una spiegazione al perché della scelta dell'eutanasia, ovvero “il non-senso” della sofferenza. Riportando le parole di Papa Giovanni Paolo II, che nell'Enciclica del 1995 “Evangelium Vitae” scrive: “Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno”, Alessandro ha voluto portare l'attenzione sul senso, che molto spesso non viene trovato, della sofferenza e della malattia. Perché si deve soffrire? A questa domanda la sua risposta è stata semplice ma efficace: la sofferenza ci riporta agli ultimi istanti della vita di Cristo, che sulla Croce ha molto sofferto. Altra motivazione addotta, soprattutto dal personale medico, nella scelta di eliminare la sofferenza alla radice, è la compassione verso il paziente: ma il significato originario di “cumpatior” è soffrire con, soffrire insieme. Il compito del medico quindi non diventa quello di alleviare a ogni costo le sofferenze, ma di viverle in maniera consapevole con il paziente, immedesimarsi nella sofferenza, non mettervi fine. “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.” (Rm 14, 7-9) Queste parole entrano in conflitto oggigiorno con i concetti di “diritto” e “libertà di scelta”, almeno secondo le interpretazioni più moderne e semplicistiche dei termini. Perché non posso decidere “liberamente” se vivere o morire? La risposta Alessandro la riprende da uno dei padri della Chiesa, S. Agostino, dicendo che la libertà è un percorso progressivo che tende al suo raggiungimento. Come dice Fichte: “Essere liberi è cosa da nulla: divenirlo è cosa celeste”, e prima di diventarlo il percorso da svolgere non è per nulla semplice e scontato. Non poteva di certo mancare una riflessione sul concetto di dignità della vita e dignità dell'essere umano in quanto “soggetto” e non “oggetto” della società. Alessandro reinterpreta il “Cogito, ergo sum” cartesiano, frapponendolo a un più anacronistico forse “Cogitor, ergo sum”, pensiero di S. Agostino, invitando il pubblico presente a “pensare di essere pensati”. È questo che in fondo rende l'uomo e la sua vita sacri: solo un acuto discernimento e una profonda riflessione può portare l'uomo a credere nella sacralità della vita, come si legge ancora nell'Evangelium vitae: “Ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine.” Qual è allora il compito della bioetica? Quello di fare chiarezza vista la rivoluzione medica in corso. Oggigiorno infatti si assiste a un sempre più diffuso relativismo morale, in quanto “insieme a questo potere di fare cose nuove, non abbiamo ricevuto un libretto delle istruzioni che ci dica come usarlo, se per il bene o per il male. Il risultato sarà buono o sarà cattivo a seconda di come verrà usato”. (da “Il senso delle cose” di R.P. Feynman) Alessandro ci ha ricordato come sia importante il fine per cui si compiono determinate azioni, ovvero la scelta morale verso il bene o verso il male che indirizza l'azione. Spesso il concetto di finalità di un'azione viene perso o viene nascosto: è per questo che si ricade nel relativismo morale. Alessandro ha concluso il suo intervento riportando le parole di un grande medico, ma in primis un grande uomo, diventato santo: S.Giuseppe Moscati. Egli dice: “Il medico si trova poi in una posizione di privilegio, perché si trova tanto spesso a cospetto di anime che, malgrado i loro passati errori, stanno lì lì per capitolare e far ritorno ai principi ereditati dagli avi, stanno lì ansiose di trovare un conforto, assillate dal dolore. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo.” Il medico dunque non è soltanto colui che aggiusta il corpo ma anche e soprattutto colui che aggiusta l'anima: a chi se non al proprio medico il malato deve rivolgersi per trovare conforto e appoggio, sostegno nel dolore e nelle sofferenze più grandi? A questi interrogativi ha cercato di rispondere la professoressa Di Pietro, analizzando dal punto di vista storico-sociale alcuni episodi di “morte assistita” e cercando di spiegare nel modo più oggettivo possibile alcuni termini, come appunto la parola “eutanasia”, che vengono spesso relativizzati e banalizzati. Eutanasia, dal greco “eu” cioè “buono” e “thanatos” ovvero “morte”, significa letteralmente “buona morte”: una morte serena, tranquilla, senza sofferenza e come tale desiderabile e auspicabile per ogni uomo. L'eutanasia può essere distinta per i modi con cui viene praticata, ovvero tramite un'azione o un'omissione; in base alle intenzioni e ai mezzi viene chiamata “di natura sua” se vengono utilizzati dei mezzi propriamente eutanasici oppure “nelle intenzioni” ovvero se si priva di qualcosa il paziente per arrivare al medesimo fine, la sua morte. La finalità per cui essa viene svolta è sempre una: eliminare ogni dolore eliminando le sofferenze. L'eutanasia può essere distinta inoltre in eutanasia individualistica o su richiesta, che a sua volta si distingue in attuale, ovvero è espressione del momento in cui si trova il paziente, che decide lui stesso di intraprendere questa strada, e anticipata: il paziente riceve l'eutanasia solo se precedentemente ha espresso la volontà, scritta o verbale, di voler “morire bene” nel caso in cui le sofferenze fossero prolungate. In tal modo un individuo si trova a dare un consenso anticipato su qualcosa che, però, effettivamente ancora non conosce e non è accaduto. Decidere in anticipo della propria vita è già di per sé alquanto difficile: come si fa dunque a decidere addirittura della propria morte? Esiste inoltre un'ulteriore tipo di eutanasia, che è quella sociale a scopo eugenetico o economico: verrà messa fine alla vita di quei neonati con patologie non curabili o che richiedono cure costose secondo una classificazione delle condizioni del bambino alla nascita. Secondo il protocollo di Groningen, approvato nel 2005 nella cittadina olandese esistono tre categorie di neonati: neonati senza speranza, neonati con pessime aspettative di vita e neonati con qualità di vita ridotta. L'Olanda è uno dei paesi europei dove è praticata, infatti, l'eutanasia a scopo eugenetico, ovvero col fine di conservare i “geni migliori” per lo sviluppo e la crescita di una popolazione con un patrimonio genetico ineccepibile. Ripercorrendo la storia degli ultimi decenni, durante i quali sono stati troppi forse i casi mediatici esplosi a causa delle morti assistite, come il caso Welby o il più recente caso Englaro, la professoressa ha voluto porre l'attenzione su due temi salienti: il concetto di “qualità della vita umana” e le alternative possibili all'eutanasia. Su cosa si può misurare la qualità della vita? Non bisogna infatti confondere quest'espressione con un'altra, che sembra farne ormai le veci: vita di qualità, dove per qualità si intende essere individui nel pieno delle proprie facoltà, che vengono riconosciuti e accettati dalla società, e della quale sono parte attiva ed integrante. Tutti questi appellativi vengono dunque a essere persi nel momento in cui una menomazione fisica va ad inficiare le funzioni base dell'individuo stesso. Ma non è così! La qualità di una vita sussiste già nel momento in cui l'individuo viene messo al mondo, a prescindere dallo stato in cui questa verrà condotta. Un'argomentazione a favore di questa corrente di pensiero si può trovare in tre argomenti portati avanti da San Tommaso D'Aquino: il primo indica che l'eutanasia è contraria alla legge naturale, perché contraddice la tendenza naturale dell'uomo all'autoconservazione; il secondo mette in risalto il ruolo che l'uomo ha all'interno della società: un suicidio o una morte assistita sono visti dal santo come un'ingiustizia, un atto egoistico che l'uomo compie contro la società di cui fa parte; il terzo, infine, ricorda come la vita sia un dono di Dio e solo a lui spetta giudicare sulla vita e sulla morte. Il santo, come si nota, non adduce come prima argomentazione quella religiosa, ma utilizza delle motivazioni di ordine morale, che prescindono dall'appartenenza dell'uomo a chissà quale credo e rendono il valore della vita come il più auspicabile in ogni caso. La soluzione, conclude la prof. Di Pietro, è semplice: creare delle vie alternative verso le quali instradare il paziente e prendersi cura sì del suo corpo, ma quando questo non fosse più possibile, avere cura in primis della sua anima. Per questo è necessario tenere in considerazione l'idea di centri di accoglienza specializzati con personale adeguato, nei quali sia i pazienti sia le famiglie si sentano accompagnati e attenzionati e possano vivere con più serenità malattia e sofferenza, senza sentirsi in obbligo di prendere decisioni drastiche, che porterebbero a conseguenze radicali. La vita rimane sempre il valore fondamentale da garantire e curare in tutti i casi e in tutti i modi: solo quando questo verrà compreso fino in fondo e si radicherà nella coscienza di ognuno di noi, si parlerà di una società civile a tutti gli effetti. * Fucina del Gruppo dell’Università Cattolica - Roma