tradizioni metapolitica storia esoterismo attualità ASSOCIAZIONE CULTURALE DIFESA DELLA TRADIZIONE - STORIA E CONTROSTORIA - GEOPOLITICA - RIFLESSIONI- ALTRE VOCI - ALTRA LETTURA n ove m b re / d i cem b re 2 0 1 3 Sommario Editoriale Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire di Gabriele Gruppo 3 Difesa della Tradizione Ibis: saggezza e purezza di Monica Mainardi 10 I Nibelungi trascr. di Giacomo Tognacci e Sofia Gini 18 Geopolitica Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo di Gabriele Gruppo 26 Thule Soci Amore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea contro la Decadenza di Pasquale Piraino Altra Lettura “La razza ventura” di Edward Bulwer-Lytton bimestrale, anno X progetto grafico e impaginazione Marco Linguardo Immagine di copertina Veronica Piu Redazione Giacomo Tognacci e-mail [email protected] 36 44 Editoriale Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire L’ultimo numero annuale della rivista di Thule-Italia è, sotto certi aspetti, quello che per noi segna la simbolica chiusura di un argomento trattato lungo l’arco dei dodici mesi trascorsi; in cui porre dei punti fermi e passare oltre, traendo alcune debite conclusioni da quel che si è trattato nei diversi articoli, e in cerca poi di un nuovo fermento. Riteniamo, infatti, utile e rigenerativo dare sempre nuovi spunti a noi stessi e a coloro che ci seguono, soprattutto nella parte della rivista da noi curata e che, con lungimiranza, è stata con il tempo battezzata dall’editore “Riflessioni”. L’argomento del 2013 ha avuto come cardine due parole: resistenza e reazione. Il nostro intento era quello di capire se, in una fase storica così critica, sussistessero forme ben definite di resistenza e di reazione ancora vive in Europa occidentale, e in particolare nel popolo italiano, nella sua cultura, nella politica antagonista, financo nelle dinamiche del sistema al potere vigente. Cercando di toccare un po’ tutti i punti che ritenevamo nevralgici. Arduo sarebbe affermare che siamo riusciti nell’intento. Proprio in ragione della natura particolarmente sfuggente del nostro contemporaneo, ci siamo ritrovati a dover spesso scrivere nell’incalzare di eventi che non permettevano di stabilire con chiarezza nessun tipo di tesi, o di formulare una sintesi esaustiva. Inoltre, sarebbe stata necessaria una polifonia di voci, anche confliggenti, che potessero far pesare su di un piatto di bilancia oggettivo le differenti visioni del mondo, per compensare magari vicendevoli manchevolezze, o fornire un’impronta ideologica meno unidirezionale dell’argomento trattato, in ragione della sua complessa natura multiforme. Ma ormai sembra non essere più necessario questo tipo di approfondimento, per noi invece necessario, in un’epoca di comunicazione veloce e superficiale come l’attuale. Tuttavia, consideriamo un nostro punto di forza il non aver inflazionato l’esposizione delle nostre riflessioni con capziosità superflue, che avrebbero deviato dalle due parole poste in oggetto; finalità che c’eravamo comunque posti fin da principio. Per prima cosa resta nostro punto fermo il quesito con cui partimmo all’inizio: “Alle mutate condizioni di stabilità strutturale e di crescita organica dell’Occidente ci si pone di fronte un quesito: Esiste ancora una capacità di reazione?”. In linea di massima potremmo ben dire che il concetto di reazione al sistema, a oggi, non ha avuto nessuna manifestazione nel complesso dell’Occidente che possa rendergli onore, tranne forse che in qualche raro esempio. Editoriale Stiamo per entrare nel 2014 in condizioni peggiori rispetto a 365 giorni fa, e nulla sembra presagire che qualche cosa possa smentire le nostre ormai quotidiane previsioni sul collasso imminente. In Italia addirittura viviamo tutti noi come in un micro cosmo particolaristico, spesso incomprensibile all’estero. Siamo presi da uno strano ingranaggio esistenziale, come se partecipassimo tutti noi a un gigantesco reality-show, in cui a ogni gruppo organizzato, o nicchia sociale, corrisponde una parte da recitare nel modo più sguaiato e appariscente possibile, ma nei fatti inconcludente, mentre la grande maggioranza del popolo italiano fa da spettatore più o meno passivo. C’è un’immagine emblematica di quanto vi stiamo dicendo: un uomo, in maniche di camicia e cravatta, osserva dall’alto di una finestra, al sicuro da ogni coinvolgimento diretto, degli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti, durante una recente manifestazione a Roma. L’uomo sembra bere o mangiare qualche cosa, tranquillo, come se stesse comodamente a osservare proprio questo reality-show dal vivo, di cui egli è spettatore e nulla più. Tranquillo, appunto, in ragione di uno status quo che, forse, lo rende refrattario a qualsiasi sconvolgimento epocale, o che vada semplicemente al di là del suo raggio d’azione esistenziale. stro pensiero, riguardo alle risultanze che potevamo sviscerare dal tema in oggetto. Eppure, ci siamo accorti che è drammaticamente molto più significativo farvi comprendere quanto una foto possa rendere di più, rispetto a mille analisi hegeliane. Qui non si tratta più di capire quanto ancora siano presenti nel nostro popolo i concetti di resistenza e di reazione, bensì se essi abbiano ancora un senso o un esistere di fronte a un fattore umano/occidentale, non solamente italiano quindi, che è succube di talmente tanti stimoli eterodiretti, da essere ormai diventato praticamente composto di un materiale refrattario all’etica dell’azione, corroborando invece un’esistenza grigia e artefatta, capace di farlo vegetare fino alla fine dei suoi giorni. Un’altra metafora emblematica, che può far comprendere l’insensatezza che ci circonda, è per noi rappresentata da una piccola notizia; rimbalzata giusto su qualche quotidiano emiliano nell’ottobre di quest’anno: “Nuova protesta dei collettivi studenteschi di Bologna che, verso mezzogiorno, hanno occupato simbolicamente la mensa universitaria di piazza Puntoni, da loro definita «la più cara d’Italia». Gli attivisti hanno allestito dentro i locali una mensa «alternativa», offrendo un pasto completo (pasta con sugo di peperoni, insalata e pane), al prezzo di un euro, contro i quasi sette di quella «ufficiale». All’ingresso e all’interno sono stati affissi striscioni: «Occupymensa, pranzo sociale a un euro». In breve tempo si è formata una coda di studenti per consumare il pranzo preparato dai ragazzi dei collettivi”. Saprà quell’uomo cosa sta succedendo? Avrà maturato un suo pensiero in merito? I dimostranti è anche per quell’uomo alla finestra che si battono con le forze dell’ordine? Fonte Ansa Oppure prestano semplicemente il fianco al “gioco delle parti”, voluto dal sistema? In tempi non molto lontani da quello in cui viviamo, le università erano il laboratorio di sintesi di idee nuove, radicali e rivoluzionarie, capaci d’innestarsi nella società, e dell’innestarsi di tali idee in una categoria umana molto recettiva alla volontà di compiere mutamenti epocali. Oggi le università sono come quel monastero benedettino descritto mirabilmente da Umberto Eco nel suo libro “Il nome della rosa”. Luoghi in cui il sapere è fine a se stesso, dove l’erudizione è solamente interpretata come il Domande semplici, banali, ma che rappresentano il fulcro della questione. Domande che hanno delle risposte purtroppo immediate e in parte sconfortate, visto il corso degli eventi che stanno avendo questi anni difficili. Infatti, potremmo scrivere dottissimi distillati del no4 Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire prolisso ripetersi di cose statiche e immutabili, in cui il si- principe del controllo diffuso e capillare; in quanto ormai stema vigente ha un controllo presso che totale, assoluto, indispensabili per un gran numero di attività. Non ritee in cui v’è spazio solamente per un teatrino dell’assurdo niamo poi di nessuna utilità quelle manifestazioni di redove si coltivano immaturità etica e infantilismo politico. sistenza e di reazione al sistema vigente che non abbiano Potranno sicuramente esserci dei “fiori nel deserto”, tutta- come fine l’abbattimento dei suoi princìpi universalistici e via essi sono di fatto soverchiati numericamente da una progressisti. O che vogliano utilizzare certi strumenti per compagine umana massificata, che si balocca in una con- innescare un processo rivoluzionario. dizione d’estraneità alla vita reale e agli eventi che stanno Non esisterà mai una “rivoluzione”, nel senso genuino del sconvolgendo questo inizio di secolo. termine, che ponga tra i suoi obbiettivi la preservazione L’esempio che vi abbiamo portato è per noi emblematico, di aspetti dell’ideale fondativo del sistema contro cui si è significativo di una totale assenza di reazione all’attuale rivolta. Questo è il problema principale: attualmente non situazione storica, e di rifugio in pseudo giochi di ruolo, esiste una sola alternativa al regime imperante, che ponga da parte di quella che in essere l’abbattimento dovrebbe essere, invece, di ogni suo pilastro ideun’avanguardia sociale e ologico. Per questo moculturale di primo livello, tivo, pur nell’abbondancosì come lo era un temza di premesse storiche, po. Con particolare attennon vediamo fin qui né zione all’Italia, possiamo in Italia, né in gran parben dire che l’università te dell’Occidente euronon è più un vivaio di peo, un solo esempio di fermenti creativi, ma uno reazione significativa al dei tanti luoghi d’intratsistema. tenimento che il sistema utilizza per addomestiDetto questo, che in care le masse, e porle in sintesi ha rappresenuna condizione di staticitato il corpo principale tà esistenziale. delle nostre riflessioni Quello che costatiamo è in quest’ultimo anno, che, nonostante il perioabbiamo comunque do sia potenzialmente tratto delle conclusioni propizio per l’avvento non soltanto negative, di idee rivoluzionarie, ma decisamente in conesse sono poste nell’imtrotendenza rispetto a possibilità di attecchire quello che potrebbe proprio dal fatto che il sembrare il nostro apAlla finestra. potere vigente ha creato proccio critico, e anche i presupposti perché esse non possano attecchire in nes- velatamente pessimista. sun luogo. Non esiste più connessione vera tra comunità e uomo, tra diverse categorie sociali o culturali: siamo so- Per far comprendere il nostro pensiero, utilizzeremo inilamente di fronte a tanti recinti, divisi tra loro per settori e zialmente una metafora già nota a chi ci legge; quella delcircondati da muri di gomma impermeabili. la rana bollita. Nonostante la comunicazione e la diffusione d’informazioni siano ormai invasive, esse risultano pilotate abil- La nostra società occidentale è da decenni immersa come mente dall’alto, come da una sapiente regia che nulla una rana in una pentola che s’è fatta via via sempre più lascia al caso. calda. Una condizione subdola, che se da una parte ha Non è paranoia la nostra, e non coltiviamo certo le specu- fornito i presupposti per il benessere diffuso negli anni lazioni sul “grande fratello”. Tuttavia ci riesce impossibile d’oro tra i due secoli, dall’altro sta mostrando il suo ripensare che il sistema non abbia la capacità di operare svolto pericoloso. Il sistema ha compreso da tempo che scientificamente una sorta di apartheid individualistica, il graduale aumento della temperatura, che sta facendo finalizzata al controllo della massa in ogni suo livello. Pro- venir meno gli aspetti positivi di questo “bagno”, non troprio le tecnologie di comunicazione, diffuse nel quotidia- va contrasti diffusi in chi c’è immerso, in quanto la società no delle singole persone, rappresentano lo strumento mostra palesemente riflessi intorpiditi, e sovente teme 5 Editoriale addirittura che il camServe solamente un biamento possa signifierrore, uno soltanto, e care la perdita di quelle tutto quello che oggi prerogative che hanno sembra impossibile o reso unica nel suo geutopistico potrà connere (in senso negativo, cretizzarsi, diventare ovviamente) la civiltà reale, muovere i prodel consumismo. I popri passi, magari inpoli occidentali sencerti in principio, ma tono ormai il pericolo che saranno solamenimminente, ma sperano te l’inizio di un nuovo ancora che esso possa cammino. Magari per non presentarsi a chiepochi, ma quelli badere il conto. steranno. Il paradosso di questa La storia non è fatta metafora sta proprio sempre di grandi nuIl futuro si decide in mensa. nell’avere tutti gli elemeri. menti ben visibili e ben La storia è anche sopercepibili, ma dove il sistema al potere ha saputo abil- stanza e valore. mente annichilire la rabbia che normalmente sarebbe sfociata in una reazione, con la paura dell’ignoto che atta- Cerchiamo di essere uomini, e non semplicemente rane naglia la nostra società borghese. da bollire. Questo dato di fatto ineccepibile ci ha però fatto molto riflettere, in quanto restiamo convinti che nulla sia già scritto, e che la storia dell’Europa occidentale non possa essere soltanto ridotta a una mattanza di rane al vapore. Siamo uomini, siamo esseri senzienti, e, pur nei limiti o nelle condizioni in cui s’è trovata la civiltà di cui siamo ancora gli eredi, non riteniamo che possano esistere condizionamenti talmente efficaci da poter a lungo impedire un capovolgimento delle nostre sorti. Siamo uomini, non siamo rane. Il sistema vigente potrà anche ambire a estirpare nell’Occidente europeo ogni capacità di resistenza al declino che ci ha colpiti, e di reazione a coloro che hanno spinto perché ciò avvenisse. Tuttavia crediamo fermamente che l’europeo abbia ancora in sé i nervi capaci di ribellarsi a un destino che non deve essere accettato come ineluttabile. Molti dei nostri (apparentemente) simili potranno anche aver abbandonato ogni istinto di conservazione della propria stirpe, e della Kultur da essa scaturita: essi sono già condannati al destino della rana bollita; ma esisterà sempre, ne siamo certi, chi anche all’ultimo momento avrà la forza di ridestarsi dal torpore, seguendo chi, forse, in ragione di un fato imperscrutabile ha sempre sentito come perverso e pervertito questo sistema. All’apparenza così potente e incontestabile, ma in realtà già sulla via del fallimento, in quanto, come sosterremo sempre con forza e ragione, esso non è frutto della forza divina, bensì poggiante su gambe umane, molto umane, che potranno essere fermate. 6 http://thule-italia.com/wordpress/ http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/ http://www.thule-italia.com/Wordpress%20galleria/ 7 Difesa della Tra 8 adizione Difesa della Tradizione 9 Ibis: saggezza e purezza Monica Mainardi La famiglia degli ibis comprende un numero abbastanza ampio di varietà. La specie più nota è certamente l’ibis sacro (Threskiornis aethiopicus), così denominato a motivo del culto religioso di cui era fatto oggetto presso gli antichi Egizi: in Egitto, dove questa specie si è praticamente estinta, l’ibis sacro era simbolo di Thoth, il dio della saggezza e della scrittura (l’ibis è raffigurato in molte pitture murali e geroglifici, e se ne trovano numerosi esemplari mummificati nei luoghi di sepoltura; in un solo gruppo di tombe furono trovati oltre un milione e mezzo di questi uccelli). Ampiamente distribuito nell’Africa orientale e sudorientale, in Madagascar e in Arabia meridionale, l’ibis sacro è lungo 70 cm circa, ha zampe sviluppate ed è caratterizzato dal lungo becco a lieve convessità superiore, nonché dal collo e dal capo neri, privi di penne, contrastanti con il piumaggio completamente candido. La simbolica degli antichi tenne conto di questi due colori dell’ibis sacro – il bianco e il nero – così come pure di alcuni suoi atteggiamenti famigliari (Fig. 1). Gli egizi portavano grande rispetto a questo animale, basti pensare che i sacerdoti utilizzavano per i loro bagni solo acqua in cui si fosse abbeverato un ibis sacro. Questo gesto ha all’origine il fatto che l’ibis si ciba prevalentemente di serpenti, rettili o carogne (e ciò lo rendeva un animale utile e anche un essere purificatore, in quanto ripuliva Fig. 1 – L’ibis sacro degli l’ambiente non solo dalle caroantichi Egizi (da un’incisio- gne ma anche dai serpenti e dai ne fornita da Jules Trousset rettili, da sempre simboli negasul Nouveau Dictionnaire encyclopédique, Vol. III, tivi); ma quando ha necessità di bere sceglie solo l’acqua più limpag. 332). pida (e questo lo rendeva anche assolutamente puro). La sua alimentazione particolare ha portato inoltre a considerare quest’animale anche quale simbolo dell’uomo che si sbarazza della sua parte più bassa e infima, materiale: sottolinea il passaggio dalla natura materiale a quella spirituale. Simbolo della Saggezza, del Discernimento e della Purezza, le credenziali dell’ibis sacro come simbolo cui tribu- tare gli onori divini erano: (a) le sue ali nere, che hanno attinenza con l’oscurità primordiale, il caos; (b) la forma triangolare di esse, poiché il triangolo è la prima forma geometrica e il simbolo del mistero trinitario. Ancor oggi alcune tribù Copte che vivono sulle rive del Nilo considerano l’ibis un uccello sacro. Con il cigno, l’oca, il coccodrillo, il loto, esso è consacrato all’Unità androgina, al di sopra della quale era il Celato di Kneph. Essi, infatti, sono il simbolo dell’Aria e dell’Acqua. L’ibis sacro possedeva poi proprietà magiche. Khonsu, il terzo elemento della triade tebana, veniva rappresentato con la fronte incoronata da una testa di ibis, decorata dal disco lunare e da un diadema. Durante la cerimonia d’iniziazione, uno degli ierofanti portava un cappuccio a forma di ibis, che stava a simboleggiare Thoth, quale dio della Sapienza e dell’Insegnamento Segreto. Un particolare curioso di quest’uccello è che, quando nasconde il collo e la testa, egli assume una forma che rassomiglia a quella del cuore umano. Inoltre il suo passo è lungo esattamente un cubito (la lunghezza utilizzata per costruire i templi egizi). Simile all’ibis sacro, troviamo l’ibis bianco (Threskiornis melanocephalus), che è diffuso in India. L’ibis eremita, o ibis calvo, (Geronticus eremita) vive invece in zone montagnose dell’Africa settentrionale e dell’Asia Minore, e occasionalmente in Spagna. Un tempo era ampiamente diffuso anche in alcune zone dell’Europa, tra cui l’Italia nordorientale; ma si è però estinto nel sec. XVI in Baviera e nel sec. XIX in Turchia. Esso si distingue per il piumaggio nero a riflessi verdi, contrastante con il rosso vivo della cute nuda del capo e con il bianco del collo. Anche l’ibis eremita è stato considerato un uccello sacro, o comunque tenuto in grande considerazione in numerose culture. Nell’Antico Egitto, era adorato, al pari dell’ibis sacro, come reincarnazione di Thoth, lo scriba degli dèi; e la stessa parola Akh – termine che esprimeva la potenza e la forza del dio attraverso il suo aspetto luminoso e trascendente – veniva rappresentata nei geroglifici con un ibis eremita stilizzato, probabilmente in virtù dei riflessi metallici del piumaggio di questo uccello. Un collegamento, questo con l’Akh, che in qualche modo gli fa assumere la veste di simbolo della forza interiore che porta l’uomo a percorrere il suo cammino iniziatico che lo induce a lavorare su se stesso e sul mondo che lo circonda fino ad arrivare all’illuminazione, quindi al tornare a essere parte 10 Ibis: saggezza e purezza della divinità. Probabilmente erano ibis eremiti (o forse anche ibis sacri) pure gli uccelli del lago Stinfalo di cui parla Erodoto: muniti sulle ali di piume metalliche, che potevano lanciare come dardi verso le proprie vittime, essi furono protagonisti di una delle dodici fatiche di Eracle, che liberò da essi il lago Stinfalo. Nell’area della città di Bireçik sussiste invece la tradizione che vuole che l’ibis eremita sia stato uno dei primi uccelli che Noè lasciò scendere dall’Arca e pertanto viene considerato un simbolo di fertilità, anche alla luce del fatto che il ritorno di questi uccelli dalle proprie migrazioni coincide con l’arrivo della bella stagione e quindi con la maturazione dei frutti della terra. L’ibis eremita viene inoltre raffigurato sui francobolli di numerosi Paesi: Austria, Marocco, Algeria, Sudan, Siria, Turchia, Yemen (luoghi dove l’animale ha vissuto o vive tuttora, oppure che frequenta durante le migrazioni), isola di Jersey (dove è presente una piccola popolazione di questi uccelli). Tornando alle varie specie di ibis, troviamo poi l’ibis hadeda (Bostrichia hagedash), dal piumaggio bruno e dal becco scuro, con ramo superiore rossastro, che è comunissimo in tutta l’Africa a sud del Sahara. L’ibis rosso (Guara guara=Eudocimus ruber), che abita le zone acquitrinose dell’America meridionale e che si differenzia per il bel piumaggio di colore rosso scarlatto. Altre specie americane sono: l’ibis bianco (Eudocimus albus), con piumaggio interamente bianco e faccia, becco e zampe rosse; e l’ibis faccia bianca (Plegadis chihi), molto simile al mignattaio. Come animale totemico, l’ibis insegna la socievolezza, la comunicazione e a lavorare in gruppo. Stimola la saggezza e mostra come trovare la conoscenza. Porta illuminazione, ispirazione, intuizione, comprensione e chiarimento. La medicina dell’ibis insegna la pazienza e il suo potere archetipico trasmette elementi protettivi. È annunciatore di nuova ricchezza e di fertilità, favorisce l’abilità nel lavorare con incantesimi. E in alchimia quest’uccello è il messaggero delle fasi lunari: negli scritti alchemici egli venne dipinto come una sorta di conciliatore dopo le avvenute trasmutazioni. Phta – regna sull’universo, e il suo volto è il sole. Gli egizi chiamavano questo dio Amon, quando lo vedevano nei panni del dominatore e del padrone sovrano del mondo; lo chiamavano Ra, quando ne volevano celebrare la gloria; e lo chiamavano Phta, nel momento in cui lo consideravano padre degli altri dèi, degli uomini e di tutti gli altri esseri viventi. AmonRa-Phta aveva creato tutto attraverso il suo Verbo, ma nell’opera di questo Verbo divino si distinguevano due parti: quella del pensiero creatore, che era il cuore divino, sede del pensiero e dell’intelligenza eterne; e quella dello strumento di creazione, che era la lingua divina. Il cuore divino era incarna- Fig. 2 – L’insegna to nella figura di Horus, il dio del dio Thoth-Ibis dalla testa di falco. Mentre la (da Alexandre lingua divina, che realizzava Moret, Mystères égyptiens, A. Coattraverso la parola i concetti lin 1913). divini, era rappresentata da Thoth, il dio dalla testa di ibis. Il falco divenne così il geroglifico rappresentativo di Horus, mentre l’ibis lo fu di Thoth; e l’insegna sacra di Thoth venne sormontata da un ibis (Fig. 2). Come divinità, Thoth comparve già nel periodo pre-dinastico, anche se il suo massimo culto verrà sviluppato a Ermopoli (la “Città degli Otto”), capitale del 15° distretto dell’Alto Egitto. Nella teogonia di Ermopoli, Thoth assunse un ruolo di grande rilevanza ed era considerato una delle divinità creatrici del mondo: quale dio demiurgo fu lui che depose l’uovo dal quale nacquero poi le altre divinità. Dio della scrittura, della scienza, della magia, della conoscenza, della matematica, della geometria, fu lui che inventò la divisione dell’anno in 365 giorni e giocò ruoli molto importanti nella mitologia egizia: era, infatti, l’arbitro delle contese fra bene e male (venne anche posto a presiedere il rito della pesatura del cuore, che doveva stabilire se il morto poteva o meno avere accesso all’aldilà), inoltre aiutò Iside a riportare in vita Osiride, insegnandole le giuste parole magiche. Come divinità lunare (egli portava sempre sul capo una luna crescente, e probabilmente era un misto di almeno due divinità lunari precedenti – Fig. 3) era associato con il “sole morto”, in quanto la luna compare raramente nella teologia egizia. Come i cicli della luna regolavano molti dei rituali religiosi ed eventi civili della Fig. 3 – Thoth con la testa di società egiziana, così Thoth fu ibis incoronato con il disco e la mezzaluna lunare. Tempio considerato anche il primo regolatore di tali attività. In quedi Ramsete II ad Antinoe. L’ibis nell’Antico Egitto L’ibis ha avuto una parte piuttosto piccola nella simbolica medievale dell’Occidente. E con un significato decisamente non positivo. In compenso, in Medio Oriente ha rappresentato uno dei più nobili emblemi religiosi dell’Antichità. A promuoverlo al ruolo glorioso che ha ricoperto nell’emblematica dei popoli antichi furono i sacerdoti dell’Antico Egitto, al pari di quanto accadde con la fenice. Nella teologia dell’Antico Egitto, un dio degli dèi – Amon-Ra11 sto contesto, vi era un legame simbolico anche con l’ibis sacro, in quanto si credeva che questo uccello impiegasse tanti giorni a covare le uova quanti la luna ne impiega per compiere ogni ciclo delle sue fasi. Poiché inoltre la luna scompare per poi ricomparire periodicamente, l’ibis sacro fu considerato anche il simbolo della rinascita e di una nuova vita dopo la morte. Il dio Thoth era, come abbiamo visto in precedenza, anche il Verbo, e si narrava che fosse stato lui a inventare la scrittura. Sua compagna era la dea Seshat, la dea della Sapienza, che con lui divideva il compito di scrivere i nomi e le imprese dei defunti, nonché i nomi dei sovrani, sulle foglie dell’albero ished (secondo altre tradizioni, sposa di Thoth fu anche la dea-rana Heket, la dea della fertilità e della rigenerazione, che proteggeva le nascite ma anche la rinascita del sole, vegliandolo durante il suo viaggio notturno nell’Oltretomba). In questo senso l’ibis assunse il ruolo di mediatore celeste, con l’incarico di fornire ai sacerdoti l’interpretazione delle cose divine, ai sovrani la saggezza e la moderazione e ai comuni mortali le ispirazioni positive. In pratica l’ibis-Thoth assunse il significato di Parola-creatrice. Tale considerazione si è mantenuta fino ai giorni nostri. Tanto che l’ibis bianco ancora oggi viene considerato, tra i contadini del Medio Oriente e del Nord Africa, un uccello benefico e benedetto, la cui presenza protegge e favorisce l’agricoltura. E la sua uccisione viene considerata degna di disapprovazione. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe narra che Mosè, recandosi in guerra contro l’Etiopia, fece trasportare dalle sue armate un gran numero di ibis, al fine di opporli ai moltissimi serpenti che infestavano quelle zone. E una scultura oggi conservata ai Musei Vaticani glorifica questo ruolo dell’ibis quale distruttore di serpenti, mostrando l’uccello con la testa, rivolta verso il cielo, che tiene nel becco il suo nemico sconfitto e morto Fig. 4 – Scultura antica rappresentante (Fig. 4). un ibis (Musei Vati- E l’ibis è anche nemico dei rettili. Una cani). scultura egizia mostra un ibis che divora una lucertola e, secondo quanto narra Orapollo, era diffusa la credenza che si riuscisse a immobilizzare un coccodrillo solo toccandolo con la piuma di un ibis (6). Oltre al fatto che quest’uccello faceva strage delle uova di coccodrillo, salvando così il Paese dal rischio che il Nilo venisse eccessivamente infestato da questi rettili. Anche per questi motivi nelle case dell’Antico Egitto era uso comune porre l’immagine venerata di un ibis (Fig. 5). L’ibis, distruttore di serpenti Al di là di ogni rappresentazione simbolica, l’ibis faceva parte di quella schiera di animali che gli Egizi tenevano in grande considerazione in funzione dei servigi che rendevano. Come riferiva lo stesso Plutarco: “L’ibis è onorato in Egitto perché distrugge i serpenti il cui morso è mortale” (1). Pomponio Mela racconta che ogni anno dei piccoli e velenosissimi serpenti si dirigevano verso l’Egitto, ma, all’entrata nel Paese, venivano uccisi e divorati dagli ibis (2). E allo stesso modo parlano di questi eventi Erodoto, Diodoro Siculo, Marcellino e altri autori antichi. Eliano scrive, nel suo Della natura degli animali: “L’ibis è per natura un uccello molto aggressivo, oltremodo vorace, che mangia schifosissimi cibi, se è vero, come dicono, che si nutre di serpenti e di scorpioni. Ma quelli li digerisce senza difficoltà e questi li può defecare molto agevolmente. È molto raro vedere un ibis malato. Questo uccello ficca il becco dappertutto, non bada al sudiciume ma vi si aggira sopra, andando in cerca persino là di qualcosa da mangiare. Quando però torna nella sua dimora prima si lava e si pulisce accuratamente”. E Plinio il Vecchio aggiunge che, durante il periodo in cui i serpenti uscivano dalla fanghiglia del Nilo, gli Egizi invocavano religiosamente gli ibis (3) e giungevano al punto di addomesticare questi uccelli (4); e riporta anche il fatto che più volte i sacerdoti fermarono epidemie di peste immolando agli dèi un ibis sacro(5). Fig. 5 – Ibis amuleto in pasta di ceramica (Museo del Louvre, Parigi). L’ibis, Thoth ed Ermete Trismegisto Un altro aspetto delle concezioni religiose dell’Antico Egitto metteva l’ibis sacro in relazione con Osiride, e faceva di lui uno dei simboli dell’idea di resurrezione di cui anche la luna era emblema, in virtù del fatto che cresce, risplende, decresce e sparisce, per poi riapparire ancora. Analogamente, l’uomo cresce durante la sua giovinezza, 12 Ibis: saggezza e purezza le parole della Tavola su una lastra verde di smeraldo con la punta di un diamante e che Sara, moglie di Abramo, l’avesse rinvenuta nella sua tomba (altre versioni indicano come scopritore Apollonio di Tiana oppure Alessandro il Grande). Il testo fu tradotto dall’arabo al latino nel 1250, e apparve in versione stampata per la prima volta nel De Alchemia di Johannes Patricius (1541). Questo il testo della Tavola Smeraldina: risplende di vigore nell’età adulta, decresce nella vecchiaia e infine muore, per rinascere in seguito a nuova vita. Ma al defunto resuscitato necessita un ruolo definitivo. Ecco così che l’ibis sacro – al pari dell’aquila, del grifone e della pantera in altri Paesi – interviene per aiutare l’anima a guadagnare il soggiorno permanente della Divinità. È, infatti, sull’ala di Thoth-Ibis che gli dèi venuti sulla terra e le anime dei giusti salgono verso il cielo. Egli era il veicolo sacro e sicuro sulla strada della felicità eterna. Presso i Greci questo ruolo psicopompo fu caratteristico del dio Hermes, che gli alessandrini ellenizzati hanno avvicinato all’egizio Thoth, al punto da identificare l’uno con l’altro. Hermes è il messaggero di Zeus, Thoth è lo scriba di Osiride; Ermete è il dio della parola e Thot è il dio della parola e della letteratura; entrambi accompagnano le anime dei defunti nell’oltretomba. Sia Hermes sia Thoth sono inoltre, nelle loro rispettive culture, gli dèi della scrittura e della magia. E a entrambi è collegato Ermete Trismegisto (dal greco antico Ἑρμῆς ὁ Τρισμέγιστος - l’aggettivo “Trismegisto” è riferito alla triplice natura di Ermete: Dio, Re e Filosofo), il personaggio leggendario dell’età ellenistica – esperto in magia, astronomia, astrologia, alchimia e filosofia –, che fu venerato come maestro di sapienza; e che fu ritenuto l’autore del Corpus hermeticum, una collezione di scritti (tra i quali il cosiddetto Libro di Thoth e la Tavola Smeraldina) che rappresentò poi la fonte d’ispirazione del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale. Le opere attribuite a Ermete Trismegisto furono molto popolari anche tra gli alchimisti, che ritenevano il loro autore un “sapiente” realmente esistito e vissuto nell’Antico Egitto. Secondo la modalità dell’evemerismo, Trismegisto sarebbe stato il figlio del dio Hermes, mentre nella cabala, che fu ereditata dal Rinascimento, si immaginava che fosse un personaggio contemporaneo di Mosè e che comunicasse ai suoi adepti una saggezza parallela a quella del patriarca biblico. Per questo l’etimologia occultista ha connesso i due personaggi creando il termine Thothmoses (Thoth + Mosè). Ermete Trismegisto avrebbe lasciato, secondo Clemente di Alessandria, circa una quarantina di libri; Giamblico attribuiva a Ermete decine di migliaia di opere, di grande antichità e immensa importanza, anteriori persino a Pitagora e Platone, che avrebbero attinto da questi testi. Nei dialoghi Timeo e Crizia lo stesso Platone riferisce che nel tempio di Neith a Sais vi fossero stanze segrete contenenti registrazioni storiche possedute per novemila anni. E secondo Cirillo di Alessandria e Marsilio Ficino, Platone avrebbe conosciuto in Egitto una sapienza antica – quella di Ermete Trismegisto – risalente all’epoca di Mosè. A questa figura leggendaria sembrano essere attribuibili con una certa sicurezza: Il cratere della sapienza, I Misteri Eleusini e la già citata Tavola Smeraldina, chiamata così perché il testo era inciso su una lastra di smeraldo. La tradizione vuole che Ermete avesse inciso “È vero senza errore, è certo e verissimo. “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della cosa-una (di una cosa sola). “Come tutte le cose sono sempre state e venute dall’Uno, così tutte le cose sono nate per adattamento di questa cosa unica. “Il Sole ne è il Padre, la Luna è la Madre, il Vento l’ha portato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il Padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è illimitata se viene convertita in Terra. “Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso, dolcemente, con grande industria. Ei rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra, e raccoglie la forza delle cose superiori e inferiori. “Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo, epperciò ogni oscurità andrà lungi da te. È la forza forte di ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida. “È in questo modo che il Mondo fu creato. “Da questa sorgente usciranno innumerevoli adattamenti, il cui mezzo si trova qui indicato. “È per questo motivo che io venni chiamato Ermete Trismegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del Mondo. “Ciò che ho detto dell’operazione del Sole è perfetto e completo”. La mummificazione dell’ibis Quanto finora esposto basta a giustificare i grandi onori che l’Antico Egitto tributava agli ibis, che venivano mummificati dopo la loro morte, al pari di quanto avveniva con i falconi di Horus. Erodoto narra che nessuno poteva uccidere un Ibis, in quanto l’animale era l’incarnazione del dio Thoth, ma che al momento della loro morte questi uccelli venissero seppelliti, soprattutto a Ermopoli (7). Ad Abydos essi erano inumati nel tempio di Thoth; a Menfi venivano invece rinchiusi, sotto forma di mummie, dentro vasi conici. Questa stessa pratica era seguita nei pozzi funerari di Saqqara, noti anche come i “Pozzi degli uccelli”; e tutto ciò per un 13 ben determinato motivo, visto che esisteva un legame simbolico tra l’ibis e il vaso geroglifico: entrambi erano infatti emblema del cuore umano. Nelle scritture sacre degli Egizi, il cuore del dio Un e quello dell’uomo erano raffigurati con un vaso (Figg. 6 e 7); e anche l’ibis venne assunto Fig. 6 e 7 – I vasi geroglifici egiziani, emble- come emblema mi del cuore. del cuore. Dice Eliano: “Quando l’ibis pone la testa e il collo sotto l’ala, assume la sagoma di un cuore, e gli Egizi d’altri tempi per raffigurare in geroglifico l’Egitto usavano la figura di un cuore” (8). Nell’arte si trovano alcune raffigurazioni di ibis in questo atteggiamento simbolico, anche se risalgono a un periodo molto tardo e non in Egitto: come il gioiello (Fig. 8) del XIII secolo, appartenuto al conte francese Raoul de Rochebrune, che rappresenta un ibis bianco con la testa reclinata in avanti, in una posizione che gli fa assumere la forma appena descritta da Eliano. Fig. 8 – Gioiello medievale che Plutarco fece un ulteriore ac- mostra l’ibis araldico posiziocostamento: nel momento in nato a forma di cuore. cui si schiude l’uovo, il piccolo ibis ha esattamente il peso che avrebbe il cuore di un bambino appena nato (9). Forse è per questo motivo che a Ermopoli sono stati riportati alla luce anche ibis mummificati contenuti, invece che in vasi, in contenitori a forma di piccoli corpi umani. A questo proposito è importante ricordare che presso gli antichi Egizi il cuore era la sede, la dimora e la fonte dell’Intelligenza e del Pensiero, e quindi della Conoscenza e della Saggezza. Con l’effige di quest’animale venivano così realizzati anche amuleti (soprattutto per auspicare la saggezza); e immagini di ibis venivano poste anche nelle tombe e nei templi. Il fatto che l’ibis fosse sacro, in quanto simbolo di Thoth, non impedì neppure, soprattutto in età tolemaica, che questi animali venissero allevati e uccisi come offerta votiva o per metterli nelle tombe per accompagnare i mor- ti. Di recente si è infine scoperta una curiosa usanza: quella di nutrire “post mortem” gli ibis sacri. Secondo gli autori di questa ricerca, pubblicata sul Journal of Archaeological Science, la TAC eseguita sulla mummia di un uccello di 2.500 anni fa mostra che il corpo dopo la morte fu riempito di cereali, affinché fosse in grado di affrontare la sua missione ultraterrena di messaggero presso gli dèi. La ricostruzione tridimensionale basata sulla TAC di un altro esemplare di ibis adulto mummificato trovato ad Abydos mostra che il “pasto” post mortem dell’animale – a base di lumache – venne inserito nel corpo attraverso un’incisione. In altre mummie sono stati invece ritrovati cereali e piccoli vertebrati, come pesci. Anche se oggi questi uccelli sono ormai estinti in Egitto, nell’antichità venivano mummificati a milioni. Nel sito di Tuna el-Gebel sono state trovate oltre 4 milioni di mummie di ibis. Si trattava di un’industria fiorente nell’Antico Egitto: venivano prodotte come offerte votive e i fedeli pagavano cifre anche molto elevate per procurarsele. L’ibis nella prima simbolica cristiana La simbolica egizia di Thoth, che identificava questo dio con il Logos, suscitò grande interesse nei Greci alessandrini; anche nel momento in cui si formò la grande scuola cristiana di Alessandria, il Didascaleion, essa non poté disconoscere gli elementi che avvicinavano ThothIbis al Logos ellenico e al Verbo Fig. 9 – Il Thoth-Ibis d’Egitdivino fatto uomo (Fig. 9). to, Verbo divino (statuetLa caratteristica di simbolo del- ta conservata al Museo del la resurrezione attribuita all’ibis, Louvre, Parigi). il suo ruolo di vincitore sui serpenti, di “purificatore del mondo”, di conduttore delle anime verso il cielo lo avvicinarono alla figura del Salvatore, al pari di altri animali quali il leone, la pantera, l’aquila, la fenice e molti altri. Le rappresentazioni dell’ibis nell’arte occidentale dei primi periodi dell’arte cristiana non sono tuttavia molto numerose. Lo si incontra però in alcuni casi come, per esempio, su un amuleto gnostico (riFig. 10 – L’ibis su prodotto nella Fig. 10), su un avorio scolun amuleto gno- pito della Lombardia e su una lampada stico. 14 Ibis: saggezza e purezza del IV secolo, molto probabilmente cristiana, rinvenuta a Poitiers nel 1914 (Fig. 11). In varie opere artistiche l’ibis sostituisce la fenice quale simbolo di resurrezione. Una di queste opere di “sostituzione” dovrebbe essere quella che si trova nel grande mosaico della Basilica romana dei santi Cosma e Damiano, risalente al pontificato di Felice VI, tra il 526 e il 530 d.C. Il mosaico Fig. 11 – Lampada gallo-romamostra il Salvatore tra due na (proveniente da Poitiers; Collezione Fr. Eygun). gruppi di santi; egli è sollevato sulle nuvole e, accanto alla sua testa, un grande trampoliere bianco avanza verso di lui in volo: l’uccello è coronato con la stella monogrammatica del nome sacro “Xristsos”, con la lettera X che si trova sulla croce (Fig. 12). Quest’uccello, inizialmente preso per una Fig. 12 – La stella del mosaico fenice, sembra essere piutnella Basilica dei santi Cosma e tosto un ibis bianco. petiti) (Fig. 13) – anche dal fatto di essere stato tanto venerato nella religione pagana, in primis nell’Antico Egitto. E, tra i vari fattori di questa interpretazione simbolica di segno negativo, anche il fatto che il Deuteronomio classifica l’ibis, l’airone, la cicogna e il pellicano tra gli uccelli impuri di cui gli Ebrei non devono mangiare le carni (10). Tenuto per questi motivi in disparte dalla simbologia medievale, l’ibis, che nel frattempo si era quasi un po’ ovunque estinto, viene in un certo senso “riscoperto” nel 1555, allorché Conrad Gessner ne schizza un’immagine sul suo Historia animalium, definendolo però Corvo Sylvatico (Fig. 14). Damiano (a Roma). L’ibis simbolo del cattivo cristiano nel Medioevo Ma, dopo un primo periodo di benevolenza, la cristianità non fu orientata positivamente verso l’ibis. E finì per vederlo come un simbolo negativo e malvagio: l’emblema del cattivo cristiano. Nel Physiologus si legge infatti: “Secondo la legge l’ibis è impuro. Non sa nuotare ma ha la propria dimora lungo le sponde dei fiumi e degli stagni, e non può immergersi negli abissi dove nuotano i pesci puri, ma soltanto dove vivono i pesciolini impuri”. E i vari Bestiari occidentali tralasciano gli aspetti positivi del passato simbolico di quest’uccello, vedendo in esso solo l’emblema di vizi degradanti. Probabilmente questa demonizzazione gli derivò – oltre che dalle sue abitudini alimentari non del tutto salutari (tanto che gli autori dei Bestiari lo posero a paragone del cristiano che soddisfa con gola smisurata e Fig. 13 – L’ibis su una miniatura medievale (Biblioteca dell’Arsenale, Paimpudicizia i suoi vili aprigi). Fig. 14 – L’ibis sull’Historia animalium di Conrad Gessner (che lo definì però Corvo Sylvatico). La riscoperta dell’ibis Ma è nel Settecento che l’ibis torna in auge, grazie all’“Egittomania” che dilaga in quel tempo nella cultura europea, assieme alla prima diffusione delle Logge Massoniche. E che verrà ulteriormente corroborata, alla fine di quel secolo, dalla spedizione di Napoleone in Egitto. Nel 1721, Jean Terrasson pubblicò un romanzo pseudoiniziatico, Séthos, falsamente tradotto dal greco, in cui le antiche iniziazioni egiziane erano narrate in modo fantasioso, ma che conobbe un autentico successo e popola15 rizzò la nozione dei “misteri egizi”. Nel 1728, il compositore Jean-Philippe Rameau intitolò uno dei suoi balletti La nascita di Osiride. Nel 1770, i tedeschi Johann Wilhelm Bernhard Hymmen e Karl Friedrich Köppen pubblicarono un’imitazione del testo di Terrasson, altrettanto fantastica, il Crata Repoa, fondamentale per lo studio della nascita e della simbologia della massoneria egizia. Nel 1777, Antoine Court de Gébelin, erudito e massone, parlò, nei suoi libri, dell’Egitto e dei suoi misteri. Ignaz Von Borg, il Maestro Venerabile della Loggia di Mozart, nel 1789 fondò il Journal für Freimauer e sul primo numero scrisse un lungo articolo sui misteri egizi, che probabilmente influenzò il librettista del Flauto Magico mozartiano, il confratello Emanuel Shikaneder. Nel 1795, il volume L’ Origine de tous les cultes, ou de la Religion universelle di Charles-François Dupuis, formalizzò e sistematizzò una teoria che ebbe grande diffusione, quella della derivazione del rituale massonico da quelli dei Misteri antichi. Infine, nel 1784 a Parigi, avvenne la fondazione della Loggia Madre dell’Adattamento dell’Alta Magia Egizia, da parte del conte di Cagliostro, leggendaria figura di mago e di terapeuta itinerante. Dallo studio dei Misteri esoterici egizi si viene così a scoprire che “ibis” era la parola d’ordine per accedere al Sesto grado (in totale erano sette) nell’antica società segreta egizia di Crata Repoa, che inizialmente era riservata ai re e ai sacerdoti. Il Sesto Grado rappresentava l’“Astronomo di fronte alla porta degli dèi”, e la parola “Ibis” significava “vigilanza”. E l’ibis lo ritroviamo legato anche a Wolfgang Amadeus Mozart e al suo Flauto magico. Chi si trovò seduto sulle poltrone del Teatro viennese Auf der Wieden la sera della “prima” dell’opera, il 30 settembre 1791, si sarà soffermato sicuramente sull’incisione che decorava il frontespizio del libretto (Fig. 15). Opera di Ignaz Alberti, editore del libretto dell’opera e fratello di loggia di Mozart nella “Zur gekrönten Hoffnung”, agli occhi del profano quell’incisione sarà sembrata una delle tante riproduzioni di uno scavo archeologico in Egitto, allora molto in voga. In realtà l’intera opera è immersa in un mondo di simboli che traggono origine dai misteri dell’Egitto e, passando attraverso gli elementi fondamentali della cosmogonia esoterica, ci proiettano all’interno del rituale massonico. E quel frontespizio del libretto non faceva eccezione. Sulla sinistra, una base di obelisco con simboli scolpiti; al centro, una serie di archi che conduce a una parete provvista di nicchie e a un portale immersi nella luce; dall’arco centrale pende una catena cui è appesa una stella a cinque punte e sulla base destra campeggia un grosso vaso in stile rococò alla cui base stanno due curiose figure accovacciate; in primo piano si vedono una cazzuola, un compasso, una clessidra e frammenti di rovine, nonché la testa di un uomo morto oppure svenuto. Vicino alla base dell’obelisco è raffigurato un ibis che tiene nel becco un serpente. L’ibis che, in quanto divoratore di serpenti e cavallette, ha nella tradizione egiziana un importante ruolo come “liberatore” del Paese da questa piaga, in questo specifico contesto potrebbe alludere simbolicamente a una liberazione dalle pene dell’Inferno. Ma il serpente è anche il simbolo dell’ignoranza nei culti isiaci, e l’ibis che sconfigge l’ignoranza diventa così un “annuncio” dell’arrivo della sapienza, il cui archetipo è rappresentato, nelle filosofie esoteriche, dal dio Thoth-Ermete Trismegisto: la filosofia cosiddetta “ermetica” costituisce, infatti, il fondamento teorico dell’alchimia. E come richiamo a uno dei significati simbolici che aveva nell’Antico Egitto, nel Settecento l’ibis tornerà ad assumere anche un significato funerario, venendo utilizzato sui monumenti funebri. Fig. 15 – L’ibis sul frontespizio del libretto del Flauto magico di Mozart (l’incisione, del 1791, era di Ignaz Alberti). NOTE (1) Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi. (2) Pomponio Mela, De Chorographia, Edizioni di Storia e letteratura. (3) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X., Rizzoli. (4) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 3, Rizzoli. (5) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 4, Rizzoli. (6) Orapollo, I geroglifici, II, BUR. (7) Cicerone, Sulla natura degli dèi, Mondadori. (8) Erodoto, Le storie, Garzanti. (9) Eliano, La natura degli animali, BUR. (10) Plutarco, Questioni conviviali, IV, 5, 2, in Moralia, Loeb Classical Library. (11) Il Deuteronomio, XIV, 16, San Paolo Edizioni. 16 Ibis: saggezza e purezza BIBLIOGRAFIA Hahajah, La tavola di smeraldo, in Ibis, rivista bimestrale di studi esoterici, n° 4-5-6 luglio/dicembre 1950. Bestiari Medievali, Einaudi. Mario Tosi, Dizionario delle Divinità dell’Antico Egitto, Ananke. Robert Graves, I miti greci, Longanesi. Ermete Trismegisto, Corpus hermeticum, Rizzoli. L’opera originale di Veronica Piu in copertina. 17 I Nibelungi trascrizione di Giacomo Tognacci e Sofia Gini I NIBELUNGI (Rapsodia germanica) Con mille graziosi complimenti, la principessa Kriemhilt s’avanzò per ricever dama Brunhilt e il suo seguito. Con le loro bianche mani, si videro gettar da parte le ciocche dei loro capelli, quando si scambiarono un bacio. Se lo dettero con grande affetto. La vergine Kriemhilt parlò amichevolmente. - “Siate la benvenuta in questo Paese, per me, per mia madre e per tutti coloro che ci sono amici fedeli.” E da una parte e dall’altra s’inchinarono. E le donne s’abbracciarono a più riprese. Giammai si è udito parlare d’una accoglienza tanto affettuosa quanto quella fatta alla fidanzata da dama Uota e da sua figlia. Parecchie volte esse baciarono le sue dolci labbra. Quando le donne di Brunhilt furono tutte discese sulla spiaggia, parecchi giovani guerrieri condussero per la mano molte vergini riccamente vestite. Quelle nobili fanciulle circondarono Brunhilt. Prima che tutti i saluti fossero finiti, passò una lunga ora. Durante questo tempo fu baciata più d’una rosea bocca. Le figlie del re stavano sempre una presso l’altra. E un gran numero d’eroi famosi si compiacevano a contemplarle. Essi le seguivano con lo sguardo, ben sapendo che non potevano veder nulla di più bello che quelle due donne; e lo si diceva senza esagerare, perché nella bellezza della loro persona nulla era simulato, nulla era ingannatore. Quelli che sapevano apprezzar le donne e le loro forme graziose lodavano la bellezza della fidanzata di Gunther. Ma i più saggi che le avevano meglio paragonate, dicevano che Kriemhilt era preferibile a Brunhilt. Donne e vergini si avanzarono le une verso le altre. Quante bellezze magnificamente vestite! Molte bandiere di seta e un gran numero di tende cuoprivano tutta la campagna davanti a Worms. I parenti del re si stringevano intorno a lui. Le due regine e tutte le dame furono condotte nei punti riparati dal sole. I guerrieri del Paese burgundo le accompagnavano. Tutti gli ospiti erano venuti a cavallo. Si cozzavano brillantemente le lancie contro gli scudi, e il piano si cuoprì di polvere, come se tutto il Paese fosse stato in fiamme. I veri eroi si riconobbero presto. Le dame guardavano i giuochi dei cavalieri. Credo che Siegfrid passò e ripassò parecchie volte dinanzi ai padiglioni, cavalcando con la spada in mano. Egli conduceva mille valorosi guerrieri dei Nibelungi. Secondo il consiglio del re Hageno di Troneja, s’avanzò e fece cessare amichevolmente il torneo, onde preservar dalla polvere quelle belle fanciulle. Tutti gli stranieri lo se- Edizione Sonzogno Biblioteca Universale databile fra il 1889 e il 1910... X Come Brunhilt fu ricevuta a Worms Dall’altra parte del Reno, si vedeva il re, seguito da parecchi drappelli di cavalieri che si avvicinavano alla riva. Le chinee destinate alle giovinette, che erano in buon numero, venivano condotte per la briglia. Quelli che dovevano riceverle stavano pronti. Quando i guerrieri dell’Islanda e del Nibelungen, cioè gli uomini di Siegfrid, arrivarono sulle loro imbarcazioni, si diressero rapidamente – e le loro braccia erano infaticabili – verso il punto in cui si trovavano gli amici del re dall’altra parte del fiume. Sentite adesso come la regina Uota, la ricchissima, condusse la vergine fuor del castello e ne uscì anch’essa. Parecchi cavalieri e molte giovinette fecero conoscenza in quel giorno. Il margravio Gère conduceva per la briglia il cavallo di Kriemhilt, ma soltanto fino alle porte del castello. Al di là, Siegfrid, l’uomo prode, la servì affettuosamente. Era una bella fanciulla. In seguito, ne fu ben ricompensato dalla giovinetta. Ortwin l’ardito cavalcava presso dama Uota. Un gran numero di cavalieri e di vergini li seguivano. Giammai, bisogna confessarlo, non s’erano vedute a simili ricevimenti tante donne riunite. Fino all’arrivo della barca, non pochi brillanti giuochi d’armi – si farebbe male a dimenticarlo – furono compiuti da guerrieri famosi davanti alla bella Kriemhilt. Allora vennero tolte dalla sella parecchie donne riccamente vestite. Il re ed i suoi illustri ospiti avevano traversato il fiume. Ah! davanti alle dame quali forti lancie volarono in frantumi! Si udiva il fracasso di molti scudi violentemente urtati. Le loro punte, riccamente ornate, risuonavano da lontano sotto i colpi. Le donne stavano vicino alla riva. Gunther discese dal vascello co’ suoi ospiti. Egli condusse da se stesso Brunhilt per la mano. Le magnifiche vesti e le splendide pietre preziose brillavano a gara. 18 I Nibelungi guirono subito senza nessuna difficoltà. Il signor Gernot parlò così: - “Lasciate qui i vostri cavalli finché venga il fresco. Noi andremo ad accompagnar le belle dame fino alla reggia, onde quando il re vorrà salire a cavallo siate tutti pronti.” Subito cessarono i passi d’arme. Lasciarono il piano per ritirarsi sotto le tende, dove il tempo passò piacevolmente. I guerrieri stavano vicino alle dame da cui speravano ottenere i favori. Così passarono le ore fino al momento della partenza. Prima del tramonto del sole, l’aria incominciò a rinfrescarsi e non si volle tardar di più. Dame e cavalieri cavalcarono verso il castello. Gli occhi si posavano con piacere sulle attrattive delle belle donne. Mostrando il loro coraggio, i buoni guerrieri corsero alcune lancie per le vesti, secondo l’uso del Paese, fino a che non giunsero alla reggia, dove il re mise piede a terra. Ivi le dame furono servite dai cavalieri come si conveniva ad eroi di tanto valore. Allora le regine si lasciarono. Dama Uota e sua figlia si ritirarono nei loro vasti appartamenti, accompagnate dal loro seguito. Da tutte le parti echeggiavano alte grida d’allegrezza. Prepararono dei sedili. Il re voleva recarsi al banchetto co’ suoi ospiti. Accanto a lui si vedeva la bella Brunhilt. Nel Paese del re, ella portava la corona. Oh! come era riccamente vestita! Parecchi seggi principeschi erano collocati intorno a buone e larghe tavole, tutte coperte di vivande, secondo ciò che ci hanno narrato. Non mancava nulla di quanto si poteva desiderare. Presso il re erano seduti parecchi convitati di gran lignaggio. Gli scudieri reali portavano l’acqua nelle coppe d’oro rosso. Prima che il capo del Reno avesse preso l’acqua, il signor Siegfrid fece quanto aveva diritto di fare. Gli rammentò la fede datagli e la promessa fattagli prima che avessero veduto Brunhilt nella sua Patria, l’Islanda. Egli disse: - “Vi dovete ricordare di ciò che la vostra mano mi giurò: che se giammai dama Brunhilt veniva in questo Paese, mi dareste vostra sorella... Che sono divenuti i vostri giuramenti?... Io ho compiuto per voi in questo viaggio dure fatiche.” Il re rispose al suo ospite: - “Voi mi avete avvertito con ragione, e la mia mano non sarà spergiura. Vi ajuterò del mio meglio a riuscire in questo progetto d’unione.” E pregò amichevolmente Kriemhilt d’intervenire al banchetto. Essa entrò nella sala seguita da parecchie belle vergini, ma dall’alto di un gradino Giselher gridò: - “Fate tornar indietro coteste giovinette, perché bisogna che mia sorella comparisca sola davanti al re.” Kriemhilt fu condotta presso il re. Molti nobili cavalieri di diversi Paesi riempivano la vasta sala. Li pregarono di rimanere ai loro posti. Già Brunhilt s’era recata al suo posto, a tavola. Essa ignorava quanto stava per accadere. Allora il figlio di Dankrat disse al suo più prossimo parente: - “Ajutatemi a far sì che mia sorella prenda Siegfrid per isposo.” E tutti ad una voce sclamarono: - “Essa può farlo con onore.” Il re Gunther disse: - “O mia vezzosissima sorella, io spero che per la tua virtù il mio giuramento sarà mantenuto. Io ti ho promessa ad un eroe. Se egli diviene tuo sposo avrai adempito i miei voti con gran fedeltà.” La nobile vergine rispose: - “Mio amatissimo fratello, non c’è bisogno alcuno che mi preghiate. Voglio sempre fare quanto mi comanderete. Sia dunque così. Io amerò volentieri, o signore colui che mi date per isposo.” Siegfrid arrossì di piacere e d’amore. L’eroe offrì il suo omaggio a Kriemhilt. Li fecero avvicinar l’una all’altro, nel circolo dei parenti, e le dimandarono se ella accettava quell’uomo valoroso. Un pudico imbarazzo di giovinetta la rese muta per un istante. Ma per la felicità e la gioja di Siegfrid non lo respinse. Ed egli la prese per moglie, il nobile re del Niderlant. Era fidanzato alla vergine, ed essa a lui. Siegfrid strinse dolcemente fra le sue braccia la leggiadra fanciulla. Quindi baciò la nobile principessa al cospetto di quell’assemblea d’eroi. Allora questi si divisero in due gruppi. In faccia all’ospite, si vedevano assisi Siegfrid e Kriemhilt. Parecchi prodi uomini la servivano. I Nibelungi accompagnavano Siegfrid. Dall’altro lato stavano seduti il re e Brunhilt. Quando essa vide Kriemhilt accanto a Siegfrid (giammai provò tanta afflizione) cominciò a piangere. E lungo le sue rosee guancie si vedevano scorrer le lagrime. Il capo del Paese disse: - “Che avete, sposa mia? Perché oscurar così il brillante splendore de’ vostri occhi? Dovete invece rallegrarvi. Il mio Paese, i miei castelli, e tutti i miei valorosi uomini vi sono sottomessi.” - “Ah! Ho ben ragione di piangere! Rispose la bella vergine. È per causa di vostra sorella che ho il cuore così amareggiato. La vedo seduta accanto al vostro uomo ligio, e mi sento costretta a piangere nel vederla abbassata fino a questo punto.” Il re Gunther rispose: - “Acquietatevi. In un altro momento vi dirò perché ho 19 dato mia sorella a Siegfrid. Ah! che essa possa vivere felice con quest’eroe!”. - “Lo deplorerò eternamente, rispose lei, per la sua bellezza e la sua virtù. Se sapessi dove andare, fuggirei volontieri, e giammai mi assiderò a fianco vostro finchè non mi avrete detto il perché Siegfrid è divenuto lo sposo di Kriemhilt.” Il re Gunther le disse: - “Ebbene, ve lo dirò. Sappiate che egli possiede quanto me un gran numero di castelli e un gran regno. Credetemi, è un re potente. Ecco perché gli ho dato in moglie la bella e graziosa giovinetta.” Qualunque cosa Gunther avesse potuto dirle, essa conservò sempre il suo fosco umore. I prodi cavalieri lasciarono la tavola. Le loro giostre furono tanto gagliarde che tutto il castello ne echeggiò. E nondimeno il re si annojava presso i suoi ospiti. Egli pensava alle dolcezze che lo attendevano presso la sua bella moglie. Il suo cuore si schiudeva alla speranza che essa adempirebbe finalmente al suo debito d’amore. E cominciò a guardare affettuosamente Brunhilt. Gli ospiti furono pregati di cessar i tornei perché il re desiderava condur sua moglie alla camera nuziale. Kriemhilt e Brunhilt s’incontrarono sui gradini della sala. Nessun odio esisteva ancora fra esse. Il loro seguito le accompagnò. I valletti riccamente vestiti portavano le faci. I guerrieri dei due re si separarono. Si vide un gran numero di buone spade accompagnar Siegfrid. I capi giunsero nei loro appartamenti. Ognuno d’essi pensava vincer col suo amore la sua sposa vezzosa. Questa idea rendeva più dolci i loro sentimenti. La felicità di Siegfrid fu completa e senza limiti. Quando fu coricato presso Kriemhilt, offrì teneramente alla giovinetta il suo nobile amore, ed essa divenne come la sua propria carne; certo lo meritava, quella donna tanto ricca di virtù. Non vi dirò altro, di ciò che egli fece per lei. Ma ascoltate il racconto di quel che successe a Gunther con dama Brunhilt. Più d’un bel cavaliere s’è trovato a più dolce festa vicino ad altre donne. La folla s’era ritirata. Dame e cavalieri erano tornati ai loro alloggi. Il re si affrettò a chiudere la porta perché sperava che quella bella persona sarebbe sua. Ma il momento in cui ella diverrebbe sua moglie non era ancor giunto. Ella si diresse verso il suo letto, con la sola sua bianca camicia di lino. Il nobile cavaliere diceva fra sé: “Adesso sto per ottenere ciò che ho per tanto tempo desiderato!”. E certo essa doveva piacergli per la sua splendida bellezza. Con la sua mano il nobile re, spense il lume, e quindi si avvicinò alla giovine, il coraggioso guerriero. Poi le si coricò accanto. Grande fu la sua gioja! Egli strinse fra le sue braccia la vergine degna d’amore. Stava per prodigarle le più tenere carezze, ma Brunhilt non glielo permise. Essa s’irritò terribilmente; e ciò lo desolò. Sperava trovar una felicità e non incontrava che inimicizia e odio. Essa gli disse: - “Nobile cavaliere, dovete rinunziare a quanto avete progettato, perché ciò non si compirà. Sappiatelo: vergine sono e resterò. Fino a che non mi si sveli il segreto che vi ho dimandato.” Gunther cominciò a odiarla. Volle ottener per forza il di lei amore e lacerò la sua camicia. La potente donna diè prontamente di piglio ad una cintura d’oro e di seta con cui si stringeva la vita. Essa fece gran male al re. Gli legò i piedi e le mani; poi lo afferrò e lo appese ad un gran chiodo infisso nella parete, onde non le turbasse più il sonno; essa gli proibiva d’amarla. La di lei forza era tanta che poco mancò non ne ricevesse la morte. E quello che avrebbe dovuto essere il padrone, incominciò a pregare: - “Scioglietemi, nobilissima vergine. Io non tenterò più di vincervi, o bella dama, e non verrò più a coricarmi tanto vicino a voi.” Ma essa s’inquietò poco del suo soffrire. Era mollemente coricata, e Gunther rimase appeso tutta la notte, fino all’indomani quando l’alba venne a rischiarare la camera nuziale. Durante quel tempo, il piacere del re non fu grande. - “Ditemi un po’ signor Gunther, non vi dispiacerebbe punto che i vostri scudieri vi trovassero legato come siete, dalla mano d’una donna?”. Così parlò la bella vergine. Ed il nobile cavaliere rispose: - “Ciò non tornerebbe vantaggioso nemmeno a voi. Vi confesso però che ne avrei poco onore. In nome delle vostre virtù lasciatemi venir vicino a voi, e poiché il mio affetto vi spiace, la mia mano non toccherà più le vostre vesti.” Allora essa lo sciolse e lo lasciò libero. Gunther entrò in letto accanto a Brunhilt, ma stava tanto lontano che non le toccava nemmeno la sua finissima camicia, perché nemmen ciò ella avrebbe tollerato. Le sue ancelle giunsero, recandole nuovi ornamenti; ne avevano preparato un gran numero per quella mattinata nuziale. Quantunque tutti fossero allegri, il re rimaneva d’umor cupo, e la generale allegria lo irritava. Secondo l’antico costume che dovettero seguire, Gunther e Brunhilt non tardarono a recarsi alla cattedrale, ove 20 fu cantata la messa. Anche il signor Siegfrid vi si recò. La folla numerosissima vi si accalcava. Ivi ricevettero gli onori reali loro dovuti; la corona e il mantello. Quando furono benedetti tutti quattro, si ammirò il bell’effetto che facevano con la corona in testa. Sappiate che un gran numero di guerrieri, seicento ed anche più, ricevettero la spada, in onore del re. Vi furono grandi feste nel Paese dei Burgundi; e si udivano cozzar le lancie dei giovani guerrieri. Le belle vergini stavano alle finestre. Esse guardavano brillar da lungi gli scudi brillanti; ma il re si teneva in disparte da’ suoi uomini. Qualunque cosa facessero, lo si vedeva camminar pensoso e triste. Gli umori di Siegfrid e di Gunther erano ben differenti. Il nobile cavaliere sapeva bene ciò che tormentava il re. Si avanzò dunque verso di lui e gli domandò: - “Che vi è mai successo? Fatemelo sapere.” Gunther rispose al suo ospite: - “Con questa donna ho introdotto in casa mia la vergogna e la sciagura. Quando ho voluto parlarle d’amore, essa mi ha legato come un capretto. Poi trascinandomi mi ha appeso ad un gran chiodo infisso nella parete. Vi rimasi pieno d’angoscia tutta la notte, e soltanto a giorno mi sciolse. Ed essa se ne stava mollemente coricata. Te lo dico in segreto come ad un amico.” Il forte Siegfrid rispose: - “Ne sono afflitto vivamente. Ma te ne renderò padrone; cessa di fomentare la tua collera. Farò in maniera che essa sia sì strettamente unita teco, che d’ora innanzi essa non ti ricuserà più mai l’amor suo.” Queste parole consolarono Gunther che aggiunse: - “Guarda adesso le mie mani; osserva come sono gonfie. Mi ha domato come se fossi stato un bambino. Il sangue scaturiva dalle mie unghie. Credevo proprio di morire. - “Non temer nulla, gli rispose Siegfrid, tu la vincerai. Le nostre notti non sono state simili. Tua sorella Kriemhilt è ora come la mia carne. Bisogna che stanotte Brunhilt diventi tua moglie.” Poi aggiunse: “Stanotte, verrò nella tua camera, reso invisibile dall’effetto della mia Tarnkapp, in maniera che nessuno potrà dubitar dell’astuzia. Lascia dunque che i tuoi valletti si rechino al loro alloggio. Spegnerò le faci in mano ai paggi, e quello sarà il segno che sono arrivato e sono pronto a venirti in aiuto. Costringerò questa donna ad accordarti il suo amore, oppure ci lascierà la vita.” - “Purché tu non le provi il tuo amore, rispose il re, puoi fare ciò che vuoi alla mia cara sposa. Del resto ne sarò contentissimo. Quand’anche tu dovessi ucciderla sarò contento. È una donna terribile.” - “Prometto sulla mia parola d’onore, disse Siegfrid, di non provare amore di sorta. Preferisco la tua bellissima sorella a tutte le donne che abbia mai vedute.” Gunther credè senza secondi fini alle parole di Siegfrid. In questo tempo i guerrieri si dedicavano ai piaceri ed ai pericoli dei giuochi cavallereschi. Si pose fine ai tornei, onde le donne potessero recarsi nella gran sala. I valletti facevano sgombrar la gente dinanzi ad esse. Cavalli ed uomini lasciarono la corte. Un vescovo conduceva ciascuna delle due principesse che si recarono alla messa reale. Il seguito dei galanti cavalieri veniva dietro ad esse. Il re stava seduto accanto a sua moglie pieno di speranza. Egli pensava senza tregua a ciò che Siegfrid gli avea promesso. Quel solo giorno parve a lui che durasse un mese almeno. La sua anima era completamente assorta nell’amor di Brunhilt. Aspettò con ansia che i convitati si alzassero da tavola. La bella Brunhilt e Kriemhilt furono condotte verso i rispettivi appartamenti. Oh! Quali valenti spade si vedevano camminar dinanzi al re! Il signor Siegfrid era teneramente seduto accanto alla sua vezzosissima sposa. La sua gioja era grande e pura. Con le bianche sue mani accarezzava quelle dell’eroe quando ad un tratto questo disparve. La regina ne rimase sbigottita e domandò alle sue ancelle dove era andato il re. Ma niuno seppe dirglielo. Egli era colà dove stavano i valletti con le faci, e cominciò a spegnerle. Gunther capì che Siegfrid era vicino a lui. Il re sapeva quanto stava per succedere. Perciò dette commiato alle dame e alle damigelle. Quando ciò fu fatto, il nobile principe andò a chiuder da se stesso la porta. Poi mise i chiavistelli per di dentro. Nascose quindi il lume sotto i parati del letto. E allora incominciò fra il forte Siegfrid e la bella vergine (così doveva essere) un terribile giuoco. Ciò faceva pena e piacere al tempo stesso al re Gunther. Siegfrid si coricò accanto alla regina. Essa gli disse: - “Ora, signor Gunther, qualunque possa essere il vostro desiderio statevene tranquillo, se non volete soffrir vergogna e dolore. Le mie mani sapranno ben punirvi.” Siegfrid trattenne la sua voce e non rispose verbo. Quantunque non lo vedesse, Gunther sentiva bene che nulla di misterioso accadeva fra loro. Poco riposo si gustava su quel letto! Siegfrid finse d’essere il potente re Gunther, e prese fra le braccia la vergine degna d’amore. Ma essa lo gettò fuor del letto, sopra una panca che era non lontano da lì, con tanta forza che la sua testa picchiò con fracasso sopra uno sgabello. Con nuovo vigore l’uomo ardito si rialzò di sbalzo. 21 Voleva tentar meglio; ma gliene incolse male, quando si provò a domarla. Io credo che alcuna donna non si difese mai sì vigorosamente. Siccome non voleva ritirarsi, la vergine gli gridò: - “Non vi è permesso di lacerar la mia bianca camicia. Siete molto tracotante e ve ne pentirete.” Ciò detto afferrò e strinse fra le sue braccia il valido eroe, come aveva già fatto col re, desiderando riposar senza molestia sul suo letto. Voleva vendicarsi terribilmente, perché le aveva stracciata la camicia. A che serviva la gran forza di Siegfrid in quel momento, in cui essa spiegava la potenza superiore delle sue membra? Lo trascinò con violenza – egli non poteva resisterle – e lo spinse senza mercé contro un mobile che si trovava a pié del letto. - “Ohimè! pensò il guerriero. Se debbo perder qui la vita per mano d’una vergine, d’ora innanzi le donne mostreranno ai loro mariti un umor più feroce di quello che hanno mostrato finora.” Il re sentiva tutto, e tremava per tutte le membra. Ma la vergogna assalì Siegfrid, che incominciò a non aver più riguardo. Respinse Brunhilt con prodigioso vigore e riprese con lei una lotta piena di angoscie. Per quanto essa lo contenesse fortemente, la sua collera ed anche il suo meraviglioso coraggio unito ad una forza straordinaria gli vennero in ajuto. Pervenne a rialzarsi malgrado Brunhilt. La sua ansietà era grande. Di qui e di là si urtarono nella camera chiusa. Anche il re Gunther era in gran tormento. Ad ogni istante egli doveva evitarli, da una parte e dall’altra. Essi lottarono così con tanta violenza, che fu veramente miracolo se ne uscirono sani e salvi. Il re gemeva sul pericolo di entrambi; ma temeva assai più la morte di Siegfrid, perché essa aveva quasi tolto la vita al guerriero. Se avesse osato sarebbe corso volontieri in suo soccorso. La lotta durò ancora lungamente e in grandissima furia. Finalmente Siegfrid pervenne a ricondur la vergine sulla sponda del letto, e per quanto gagliardamente ella si difendesse, le sue forze finirono per esaurirsi. Il re era agitato da mille diversi pensieri. Il tempo gli parve lungo prima che Siegfrid potesse vincerla. Essa gli strinse le mani con tanta violenza che il sangue gli spicciò fuor delle unghie. Era una tortura per l’eroe. Nondimeno domò la nobile vergine, e la costrinse a mutar l’irrevocabile risoluzione da lei presa. Il re udiva tutto, quantunque non dicesse nulla. Siegfrid la spinse sul letto e ve la calcò tanto fortemente che essa gettò alte grida. Con la sua gran vigoria le faceva terribilmente male. Allora essa si portò la mano al fianco per prender la sua cintura e legarlo. Ma il braccio dell’eroe la respinse con tanta violenza, che le di lei membra scricchiolarono assieme a tutto il suo corpo. La lotta era finita. Brunhilt divenne la moglie di Gunther. Essa gli disse: - “Nobile re, lasciami la vita e perdonami ciò che ti ho fatto. Mai più mi difenderò contro il tuo amore. Ho troppo provato che sai domar le donne.” Siegfrid lasciò la regina coricata e si ritirò, come se volesse spogliarsi. Le prese dal dito un anello d’oro senza che la nobile regina se ne accorgesse, e le tolse anche la cintura. Ignoro se lo facesse per orgoglio. La regalò a sua moglie, e in seguito per causa di quella cintura successero grandi disgrazie. Il re e la bella vergine rimasero coricati l’uno a fianco dell’altra. Egli la trattò con gran tenerezza, e in maniera degna d’entrambi; ed essa dovette rinunziar alla sua collera e al suo pudore. Le sue tenerezze la fecero leggermente impallidire. Ma, pur troppo, l’amore scacciò la sua gran forza. E d’allora in poi non fu più forte d’un’altra donna; egli accarezzò con amore le sue attrattive impareggiabili. Sarebbe stato invano che Brunhilt avrebbe provato a resister più oltre. Ecco ciò che Gunther aveva ottenuto col suo affetto. Rimase così pieno di soave passione vicino alla sua dilettissima moglie, fino alla prima luce del giorno. Quanto a Siegfrid, egli era tornato nel suo appartamento, ove fu ben ricevuto dalla sua bella sposa. Indovinando la domanda che ella stava per dirigergli, egli le nascose a lungo ciò che aveva portato per essa, fino a che portando la corona, non fu arrivata nel suo Paese. Al mattino il re si mostrò di molto miglior umore che non era stato fino allora; e molti nobili uomini di diversi Paesi si rallegrarono dell’allegria del re. Egli offrì i suoi doni a tutti coloro che aveva invitati. Le nozze durarono quindici giorni, e per tutto quel tempo non cessò il rumor dei divertimenti ai quali ciascuno si dedicava. Si peserebbero difficilmente i tesori che il re spese in quella occasione. Secondo gli ordini del nobile Gunther, i suoi parenti distribuirono, per fargli onore, a parecchi prodi guerrieri, abiti ed oro rosso, cavalli e denaro. I capi che erano venuti si ritirarono soddisfattissimi. E il re Siegfrid del Niderlant dette a’ suoi mille uomini tutte le vesti che aveva fatto portar seco, e dei bellissimi cavalli da sella. Potevano oramai viver da signori. Prima che si fossero distribuiti tutti quei ricchi presenti, il tempo parve lungo a coloro che desideravano tornar 22 nelle loro terre. Giammai compagni d’armi furono meglio trattati. Così finì la festa delle nozze e molti guerrieri partirono. 23 Geopolitica Geopolitica Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo Gabriele Gruppo Il problema della sovranità nazionale che hanno nella speculazione l’unica ragion d’essere. L’Europa occidentale è stata la terra di nascita del moderno concetto di Stato-nazione, un fenomeno organico articolato e complesso, che ha avuto la capacità di plasmare l’identità dei popoli di tutto il Vecchio Continente, rafforzarla, e dargli un ruolo ben preciso in quella grande sequenza di eventi intercorsi tra il XVIII e il XX secolo, capaci di segnare la storia mondiale in modo indelebile. Noi, quindi, affermiamo la validità di questo strumento identitario, pur nelle sue condizioni a oggi non ottimali. Mettiamo quindi subito in chiaro una cosa fondamentale: la nostra difesa del concetto di Stato-nazione non è né dovuta ad anacronistici sentimenti patriottardi, né tanto meno all’incapacità di porre una critica severa, ma fondamentalmente costruttiva, alle devianze che In un susseguirsi di mutalo Stato-nazione ha intramenti politici, sociali ed ecopreso nell’ultima fase del nomici profondi, spesso raXX secolo. In particolare dicali, mai definitivi (la storia al venir meno del suo ruoin sé non sarà mai definitiva), lo di difensore dell’identiche hanno visto lo Stato-natà dei popoli, in nome di zione strumento protagoniquei precetti mondialisti sta, si può ben dire che esso e progressisti, che hanLa sovranità perduta. abbia saputo adempiere a no minato le fondamenta un dovere fondamentale: stesse dell’identità delle sviluppare l’identità dei popoli. genti dell’Europa occidentale, ponendola per giunta al servizio di fenomeni socialmente disgregativi e culturalAncora nei tempi nefasti in cui viviamo, pur nella situa- mente omologanti, che hanno contribuito non poco allo zione a noi più vicina e contemporanea, che vede lo svilimento delle prerogative dei popoli a tutto vantagsvilimento del concetto di comunità a opera della glo- gio dell’economia postmoderna, e sulla sua involuzione balizzazione e dell’individualismo, sua base filosofica, nell’ambito dei processi di globalizzazione dei mercati. lo Stato-nazione europeo sta mostrando caratteristiche di resistenza, anche nel quadro dell’Unione Europea, o Nonostante tutto però, nella nostra visione del mondo, dell’affermarsi con sempre maggior chiarezza di un si- l’Europa occidentale ha ancora nello Stato-nazione un stema geopolitico multipolare dove a contrapporsi sono baluardo di resistenza ai gruppi apolidi mondialisti, e grandi agglomerati continentali, che hanno le sembianze uno strumento di reazione al tentativo operato da quedi moderne forme d’impero. sti poteri di smantellare definitivamente le peculiarità dei popoli, sostituendole con legislazioni universalistiche, Comprendiamo benissimo le critiche che possono esse- che mirano a far prevalere il concetto neutro e astratto di re mosse all’attuale condizione in cui versa il concetto cittadinanza; come nella miglior visione dell’illuminismo di Stato-nazione euroccidentale, e nella sua applicazio- giacobino, della filosofia marxista, e della prassi neolibene pratica. Esso, infatti, sembra ormai imbrigliato nelle rista. istituzioni comunitarie, e sottoposto, in certi casi, a una L’Unione Europea si sta rivelando, infatti, il peggior netutela imposta dall’alto da precisi organi sovranazionali, mico dell’identità dei popoli europei, e strumento della Commissione Europea e Banca Centrale Europea, inter- disintegrazione di una Kultur e di una civiltà che sono stavenuti nell’ambito della crisi dei debiti Sovrani, che ha te grandiose dominatrici della storia per secoli, e di cui lo colpito specialmente i cosiddetti PIIGS, quel poco invidia- Stato-nazione è risultato essere un frutto prezioso. bile novero di nazioni, facenti parte dell’area euro, le cui condizioni economiche instabili hanno prestato il fianco Per questo motivo riteniamo che il processo d’integrazioa un vero e proprio attacco organizzato contro tutta l’UE, ne comunitaria prima, e soprattutto l’attuale protagoniperpetrato dalle piazze finanziarie e da soggetti apolidi smo della Commissione Europea e della banca Centrale 26 Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo Europea in questi anni di crisi, abbiano contribuito alla mortificazione delle ultime difese identitarie degli Statinazione, con il preciso intento di dissolvere la loro forza, per creare dei semplici burattini eterodiretti. ne continentale politica, che sembrava difficilissima in tempi normali, si sta profilando sempre più nettamente attraverso interventi emergenziali, dove gli Stati-nazione saranno sempre più costretti a cedere le loro autonomie decisionali principali, al fine di ottenere diverse tranches in miliardi di euro, per la messa in sicurezza della loro credibilità finanziaria e per poter così attirare gli investitori esteri, vitali nell’ambito della globalizzazione, ma letali per la struttura economica di realtà molto indebolite, o private di ogni indipendenza decisionale. Proprio l’ingerenza recente degli organismi comunitari, intervenuti per “salvare” nazioni in difficoltà per via della crisi dell’area euro, ha di fatto sancito la cessione di cospicue porzioni di sovranità politica ed economica da parte dei governi che hanno beneficiato di questi “salvataggi”, dando l’avvio a un processo di mutamento dello Statonazione, che certo non si limiterà al semplice ambito dell’emergenza finanziaria, ma potrà essere applicato apertamente come norma di condotta del potere ormai conclamato delle principali istituzioni dell’UE. Organismi, è bene ricordarlo, posti al di fuori di qualsiasi controllo politico, autoreferenziali, e animati dalla volontà di cancellare le specificità nazionali, in nome appunto di precetti universalistici e neoliberisti. Riteniamo però che in pericolo non sia solamente la sovranità di nazioni europee strutturalmente deboli, come nel caso dei PIIGS, ma che il rafforzamento di un certo potere continentale e di sovrastrutture politiche e finanziarie non controllabili, proprio in ragione del loro nuovo ruolo nell’ambito della crisi dell’area euro, potrà, a lungo andare, essere capace di intaccare anche l’autonomia di quegli Stati ancora ritenuti solidi; Germania e Francia in primis. Attualmente, l’opera di smantellamento delle Il nazionalismo ecosovranità nazionali semnomico tedesco e il riGermania. bra essere più marcata schio di logoramento proprio presso quegli nazionale Stati che hanno beneficiato dei cosiddetti “salvataggi”; Spagna, Grecia, Portogallo e, in misura minore ma non Il declino economico dell’Occidente si avvia a un nuovo meno pericolosa, Italia e Irlanda. Tuttavia, l’intervento anno di recrudescenza, con pesanti contraccolpi sistemisuppletivo della Commissione Europea, della Banca Cen- ci. Sia l’America settentrionale sia l’Unione Europea non trale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, or- hanno preso consapevolezza che proprio globalizzazioganismo economico addirittura extraeuropeo, non sem- ne e finanza apolide hanno posto le fondamenta di quebra volto a una condizione temporanea, bensì ha tutti i sta loro fase discendente, e le classi dirigenti al potere tra connotati per essere definitivo e irrevocabile. La debo- le due sponde del Nord Atlantico perseguono ancora con lezza degli Stati colpiti dall’attacco finanziario, infatti, è ostinazione la via che ha portato al disastro. Questa conormai cronica e strutturale, se inquadrata nei parametri dizione andrà sicuramente ad aggravare il quadro econoneoliberisti, quindi essi avranno sempre bisogno di que- mico generale, e anche di quelle realtà del Vecchio Contisto supporto, che pone però vincoli pesanti alla ripresa nente che hanno retto fin qui meglio ai contraccolpi della sociale e al benessere popolare, in quanto la sua attenzio- crisi. In particolare la Germania, sovente tacciata di trarre ne è rivolta unicamente alla stabilità dei conti pubblici, e enormi vantaggi dalle disgrazie delle altre nazioni europee, non potrà reggere ancora per molto nel suo ruolo di alla loro appetibilità per i mercati speculativi. solitaria “locomotiva” d’Europa, e le prime crepe nella sua In pratica, la corda servita per il salvataggio finisce per corazza potrebbero a breve palesarsi in modo pericoloso, diventare un cappio, con cui entità sovranazionali deter- facendo così diminuire il suo potere contrattuale e il suo minano le politiche interne di una nazione sovrana. Il fine primato di nazione indipendente proprio nel confronto è evidente, se si considerano tutti i fattori e le dinamiche con le istituzioni comunitarie. fin qui svoltesi all’ombra della crisi dell’area euro: l’unio27 rio. Che Berlino abbia, nell’ambito della crisi dei debiti sovrani, fin qui fatto anche i propri interessi nazionali è fuor di dubbio, ed è stata cosa a parer nostro legittima, anche se riteniamo da sempre ingiusta una certa vulgata mediatica, che dipinge la Germania come unica responsabile delle politiche di austerità interne all’Unione Europea, o l’asservimento di intere nazioni ai diktat della troika UE/ BCE/FMI, nel quadro delle iniziative di “salvataggio”, sia durante le fasi più acute degli attacchi speculativi sia del successivo ruolo suppletivo per il riordino . La Germania è l’unico Stato-nazione dell’area euro che abbia mantenuto integre gran parte delle proprie prerogative economiche e politiche, e questo, ne siamo certi, rappresenta un fattore positivo non solamente per la Germania, ma in grado anche di porre un freno allo strapotere di entità prive di controllo politico e di legittimazione popolare. Siamo consapevoli che, nel caso d’implosione dell’euro, la Germania subirebbe certo un duro colpo, ma non mortale. Per Berlino addirittura si potrebbe profilare un più accentuato controllo del Vecchio Continente nel medio/lungo termine, senza più dover rendere conto alle regole imposte dal partenariato comunitario”. Ciò detto non possiamo negare che il logoramento prolungato, che sta caratterizzando questa fase della crisi economica mondiale, possa in qualche modo intaccare la solidità germanica e, quindi, porla in una condizione di pericolosa interdipendenza proprio dai destini dell’area euro. Questo potrebbe portare, nel medio periodo, a una diminuita capacità da parte della Germania di contrastare le spinte accentratrici delle istituzioni comunitarie, che vedrebbero così spianata la strada per una riduzione dell’indipendenza e della sovranità perfino di questa fondamentale nazione europea. Solida economicamente ma politicamente ancora ricattabile per via del suo “passato che non passa”. Lo spauracchio di un’Europa dominata politicamente da Berlino è spesso trapelato proprio in questi anni difficili; in cui, se da un lato la solidità tedesca è stata garanzia per l’area euro, e fonte di rafforzamento per la Banca Centrale Europea, dall’altro è stata mantenuta in vita l’artificiosa paura dell’espansionismo germanico che, a dire degli europeisti più ortodossi, potrebbe essere debellato solamente riducendo l’indipendenza e la sovranità della Germania, e dal suo assorbimento definitivo nell’alveo dei destini dell’Unione e della sua capacità di controllo sovranazionale. Per la Germania, quindi, potrebbe non bastare più quella sorta di “nazionalismo” economico che le ha garantito un primato e una concreta importanza continentale in questi anni recenti, e proprio un collasso economico rappresenterebbe un perfetto cavallo di Troia per il suo indebolimento come Stato-nazione, a tutto vantaggio dei poteri istituzionali dell’Unione, che avrebbero così una pedina importante tra le mani, da poter utilizzare qualora la crisi sociale europea dovesse in qualche modo aggravarsi per via del prolungarsi della crisi, e occorresse cannibalizzare una struttura ancora forte, ma non più indipendente politicamente, da utilizzare a mo’ di “gendarme” dell’euro, e di “guardia del corpo” delle tecnocrazie che dominano a Bruxelles e a Strasburgo. L’economia tedesca risulta essere solida, nonostante tutto, e resta valido quel che scrivemmo nel 2012 nel nostro articolo “La Germania alla conquista dell’Europa”. “Quale nazione, in questa Europa, può vantare di avere una casa automobilistica (la Volkswagen) leader mondiale, capace di mantenere alto il livello occupazionale in patria, senza tuttavia rinunciare alle sfide dei mercati emergenti? Solo la Germania. Quale nazione, in questa Europa, ha differenziato il proprio approvvigionamento energetico, rendendosi di fatto indipendente dalle eventuali turbolenze mediorientali e nordafricane? Solo la Germania, grazie alle quote sempre maggiori di energia proveniente da fonti rinnovabili, e dall’alleanza con la Russia. Quale nazione, in questa Europa, può dirsi finanziariamente solida? Solo la Germania. Ecco perché riteniamo stucchevoli le lamentele verso il modus operandi che Berlino adotta nei confronti della crisi dell’area euro. C’è chi sostiene che, senza l’euro, la Germania cadrebbe a terra, visto che ha beneficiato come nessun altro della moneta unica. Sarà pur vero, ma bisogna rammentare che, senza la Germania, l’Unione Europea sarebbe entrata ancor di più nella spirale discendente che sta ridimensionando il ruolo dell’Occidente in tutto il pianeta. Magari immolandosi per gli Stati Uniti, come vorrebbero le tante centrali di potere filo-atlantiche ancora presenti nel Vecchio Continente, e che hanno proprio nel Presidente della BCE un loro rappresentante. Serve, alla nazione tedesca, non più la semplice nomea di “virtuosa”, bensì un rinnovato orgoglio identitario, capace di liberare quelle forze positive che ancora albergano in essa e nel suo nobile popolo. Il rapporto di dipendenza tra UE e Germania è sicuramente più favorevole per l’Unione, che può in ogni momento mettersi sotto le ali dell’aquila prussiana; mai avverrà il contra28 Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo La rivoluzione nazionale ungherese* pericolo “fascista” ungherese, al risorgere dell’antisemitismo e baggianate simili. A tre anni dalla sua ascesa al governo d’Ungheria Viktor Orban e il suo partito, Fidesz, rappresentano per noi quel modello ideale e serio di resistenza e reazione alla dissoluzione dei popoli d’Europa, delle loro specificità, dei princìpi su cui si fonda la nostra civiltà. “Orban è un dittatore!”. Tuonano le vestali del progressismo europeo. “Orban sta facendo affondare l’economia ungherese”. Rincarano i tromboni della finanza internazionale. Dissoluzione voluta dal mondialismo economico apolide e dal progressismo (pseudo)culturale d’ogni sfumatura ideologica. Eppure questo soggetto pericolosissimo piace al suo popolo, e da quel che sappiamo le manifestazioni del nazionalismo ungherese sono nutrite e compatte, mentre i partiti dell’opposizione (socialisti e liberali) e le varie ONG, che mestano sempre nel torbido, possono vantare un seguito a dir poco ridicolo. Avendo noi sempre nutrito simpatie per il movimento politico Jobbik, costatando la solidità di questa realtà nel corso della sua affermazione elettorale, vedevamo Orban come una sorta di nazionalista “moderato”, con un passato da liberale e un programma che ci sembrava poco coraggioso. Invece, anno dopo anno, ci siamo dovuti sinceramente ricredere. Il nuovo corso della politica ungherese è chiaro: - Lotta contro la dipendenza economica dell’Ungheria dai finanziamenti internazionali. Viktor Orban. La politica espressa dal governo monocolore di Viktor Orban ha sterzato sempre più verso iniziative di rottura con un certo tipo di “tradizione” europea, che impone alle nazioni aderenti all’Unione Europea di seguire certi dettami ideologici ed economici. Una rottura sempre più evidente, e sempre più profonda, che ha reso l’Ungheria una sorta di macchia nera (è proprio il caso di dirlo) in mezzo al blu insignificante dell’Unione Europea, una nazione ribelle, con un capo demonizzato da tutti i media occidentali, anche oltre Atlantico, che anelano la sua caduta e il ritorno della terra dei magiari nell’alveo della presentabilità democratica. - Nazionalizzazione della Banca Centrale, per poter riavere piena sovranità monetaria. - Iniziative di sostegno alla famiglia (quella normale). - Pensioni più dignitose. - Tutela dei lavoratori, in particolare contro gli abusi delle multinazionali. - Contrasto della criminalità (nomade e autoctona) e della corruzione. Tutto questo è stato ottenuto in tre anni di governo, non con mera propaganda ma con fatti concreti, e in un clima di ostilità da parte dei cosiddetti “partners” europei, che in tutto questo tempo non hanno mai perduto occasione di tentare qualche ingerenza politica, per far deragliare il nuovo corso d’Ungheria. Problema: Viktor Orban, proprio perché ha osato sfidare molti tabù, e ha di fatto evitato all’Ungheria la fine della Grecia o del Portogallo, ha dalla sua parte il favore di milioni di ungheresi. Ogni tentativo di minare il suo governo o il suo partito, da parte di nemici interni e internazionali, non ha avuto successo fin qui, e il prestigio di cui gode in patria può certo non fargli rimpiangere l’inimicizia di molte cancellerie del Vecchio Continente, o quella dei “fratelli maggiori”. Noi crediamo che guardare all’esempio che giunge dall’Ungheria sia di gran lunga meglio che non ad altri “fenomeni”, apparsi all’orizzonte dell’identitarismo europeo. Fare un bilancio dei risultati ottenuti da questa vera rivoluzione nazionale è cosa facile. Basta, infatti, non documentarsi presso le fonti mediatiche e le gazzette prezzolate, che gridano all’involuzione democratica dell’Ungheria, al Questo perché per creare i presupposti per una VERA rivoluzione nazionale serve andare a colpire il cuore del liberismo, i suoi templi, i suoi tabernacoli e i suoi servi. 29 spagnolo rinnovato, lontano dalla polvere e dalle calcificazioni di uno sterile passatismo, ma rivolto ai fermenti sociali e politici che animavano tutta l’Europa di quel periodo straordinario. Il Governo Orban, il partito Fidesz e il grande movimento Jobbik hanno potuto conquistare consenso non soltanto con tematiche “facili”, ma soprattutto facendo comprendere al loro popolo chi è il nemico della nazione e come, soprattutto, combatterlo con dei risultati reali. Serve coraggio idealista unito al pragmatismo politico, non “sdoganamento” delle idee, o corsa all’immagine che piace alla gente che piace. Oggi, invece, la Spagna è sotto attacco su più fronti, menomata nella sua identità e nella sua stabilità sociale. I governi democratici, e l’indegna monarchia borbonica, hanno prostituito per anni la Spagna ai mercati speculativi, rendendola succube di un modello economico perverso che, pur vantando iniziali e temporanei benefici, ha scandalosamente ipotecato il futuro delle prossime generazioni di spagnoli in modo grave e ancora impunito. Il “miracolo economico” che i politici degli ultimi trent’anni hanno dato alla Spagna è stato il frutto di un’illusione drogata di finanza e di un benessere preso a debito. *Articolo scritto il 17 Ottobre 2013 per StampAlternativa, organo ufficiale del MTN Il rischio di disintegrazione della Spagna La Spagna è stata una delle più importanti realtà di Statonazione che l’Europa abbia avuto nel corso della storia. L’antica potenza e la sua secolare civiltà rappresentano senza dubbio un punto d’orgoglio per tutta la nostra Kultur continentale. I Governi Aznar (destra moderata) e Zapatero (sinistra socialista) hanno portato la Spagna verso il baratro economico in cui è rovinosamente caduta. La sua crisi come modello, invece, rappresenta un pericolo molto serio, e dovrebbe essere avvertito come un segnale chiaro di come il mondialismo apolide possa agire anche sfruttando istanze identitarie, magari anche comprensibili, oltre che finanziarie in senso stretto. Il “salvataggio” della Spagna, operato dalla ben nota troika nel 2012, ha avuto come contropartita la perdita ormai totale di sovranità nazionale. Madrid, in pratica, non è più libera di decidere del proprio destino, e il suo attuale governo è semplicemente un burattino nella mani dell’UE e del FMI, che regolarmente concedono un po’ di aiuto, in cambio di un sempre più accentuato asservimento della Spagna alle politiche neo liberiste. Nata dalla Reconquista contro il dilagare dell’espansione islamica nell’Occidente europeo, forgiata dalla guida della Casa d’Asburgo, la Spagna Sono ormai lontani i ha subìto un declino bei tempi della movida, lento nel suo essere e di quell’immagine di potenza, continentaspensieratezza che fale, durato oltre due ceva della Spagna una secoli, e attutito solasorta di giostra piena mente nel ‘900 dalla di opportunità, di ocparentesi di potere casioni per una vita midi Francisco Franco, gliore, in una nazione che ha sì evitato che florida, in cui la felicità prendesse piede una sembrava a portata di forma di anarco/statutti. linismo iberico ma, Il sogno in pochissimi come negativo risvolanni è diventato un to della medaglia, ha vero incubo, fatto di di fatto soffocato con Manifesto per l’unità della Spagna. disoccupazione a due le sue velleità tradicifre, oltre il 26%, di zionaliste e reazionasmantellamento dei diritti sociali, e di sacrifici richiesti rie, una vera rivoluzione nazionale moderna. solamente al popolo in nome del pareggio di bilancio. Al Il nostro pensiero e ammirazione vanno certamente alle popolo si richiedono sacrifici, ma non a chi, realmente, ha splendide figure di José Antonio Primo de Rivera e di Ra- portato la Spagna in questa indegna condizione d’insicumiro Ledesma Ramos; esempi di uno spirito nazionale rezza e di sudditanza ad agenti esterni. 30 Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo La Spagna potrebbe essere solo il primo di altri Stati-nazione da dissolvere e frammentare, in modo da poterne controllare i destini. Altrimenti non si spiegherebbe l’ambiguità dell’UE nel trattare il fenomeno del separatismo localistico spagnolo come pericoloso anche per la propria esistenza e stabilità. L’altro fronte vitale per la Spagna, forse quello più importante, è rappresentato dalla sua stessa sopravvivenza come Stato-nazione. Le politiche di decentramento politico e amministrativo, varate in un trentennio di democrazia, accompagnate dalle velleità autonomiste e indipendentiste di popoli interni alla compagine nazionale spagnola, hanno contribuito al formarsi di spinte centrifughe etnonazionaliste, che attualmente aggravano il quadro già precario dovuto alla crisi economica. Con sempre maggior veemenza si levano le istanze di gruppi politici organizzati che, in diverse regioni del Regno borbonico, pretendono libertà sempre maggiori, financo l’indipendenza da Madrid. Infatti, né la Commissione Europea né il Parlamento Europeo hanno mai levato la loro autorevole voce contro i fenomeni disgregativi sorti entro gli Stati-nazione dell’Unione, men che meno per la situazione spagnola, dimostrandosi sempre “dialoganti”. Suggerendo sovente ai governi centrali, come quello di Madrid appunto, di assecondare le manifestazioni di libertà locale e di autodeterminazione interni ai propri Stati. Strano è dunque costatare come proprio in questo frangente storico, delicato per l’intero continente, dove è in atto una gravissima congiuntura economica strutturale, non si cerchi di debellare fenomeni che potrebbero ulteriormente far degenerare le condizioni interne di nazioni già molto fragili. La Spagna vive una condizione a dir poco assurda a livello europeo, e di tutto ha bisogno, men che mai di una frattura politica e istituzionale interna, i cui effetti destabilizzanti potrebbero sfociare in qualche cosa che gli spagnoli hanno già vissuto in passato e che, forse, necessiterebbe solamente di un ritorno forte alle ragioni dell’Hispanidad per essere scongiurata; quell’Hispanidad di cui proprio l’Europa dovrebbe essere un geloso custode, visto che fa parte integrante del proprio retaggio identitario e di civiltà. Al tradizionale (assurdo e violento) separatismo basco, si sono aggiunti con il passare del tempo anche quelli “pittoreschi” della Catalogna e della Galizia. La loro pericolosità risiede nell’essersi abilmente innestati nel quadro complessivo della crisi economica della Spagna, e nella perdita di credibilità che le principali istituzioni nazionali, governo e monarchia, hanno subito a causa della loro manifesta incapacità di reagire a essa in modo adeguato; risolvendo le piaghe economiche e preservando la sacralità dell’indipendenza spagnola dagli interventi di “salvataggio” comunitari e del FMI. Non è dunque un caso che, con il progredire delle difficoltà economiche, la Spagna abbia visto rafforzarsi spinte secessioniste dalle più diverse sfumature; dall’aggressivo indipendentismo basco, fondato su “ragioni” pseudo storiche, all’autonomismo catalano, le cui motivazioni sono squisitamente economiche. Critica ragionata all’etnonazionalismo Come in una metaforica tenaglia, la crisi dello Stato-nazione spagnolo sta stritolando questa realtà tra la sudditanza alla troika e le spinte centrifughe regionali. L’esempio di quel che sta accadendo allo Stato-nazione spagnolo ci porta ora a fare delle considerazioni più ampie, che coinvolgono un fenomeno che serpeggia in molte zone dell’Europa occidentale, e di cui riteniamo importante la presa di consapevolezza in chi lotta per l’identitarismo. Proprio tali questioni localistiche certo non giovano all’uscita di Madrid dall’attuale difficile condizione storica in cui versa, ma ne incrementano gli effetti negativi, e il rischio di un’implosione della struttura nazionale iberica nel suo complesso. Qualche anno fa anche noi dell’Associazione Thule-Italia avevamo considerato l’etno-nazionalismo come un fattore importante contro l’omologazione culturale dilagante che, attraverso la globalizzazione, aveva trovato nuovi strumenti di disintegrazione del concetto di comunità. Oggi, seppur nella certezza ideologica di un valore intrinseco dell’identitarismo locale ed etnico/locale, riteniamo molto pericoloso l’affermarsi di un certo tipo di istanze centrifughe entro gli Stati-nazione dell’Europa comunitaria, in quanto vediamo il rischio di un loro utilizzo strumentale al fine dell’indebolimento della resistenza degli Stati-nazione, nel quadro già critico in cui versa l’intero A nostro giudizio, una Spagna sulla via della liquidazione come entità politica, smembrata in realtà medio/piccole autonome, o addirittura indipendenti da un potere centrale unificante, non potrà che essere perennemente sotto lo scacco degli attacchi finanziari speculativi apolidi, e succube del giogo imposto dagli organismi comunitari, il cui fine è, come già detto più volte in questo articolo, la privazione di sovranità dei popoli europei, in nome di un’unificazione omologante, gestita da strutture autoreferenziali. 31 continente. peggiore del male che vorrebbe andare a curare. Pur non volendo fare della dietrologia spicciola, temiamo che non sia del tutto sbagliato ritenere che i poteri istituzionali dell’UE possano consolidare il loro ruolo proprio attraverso le spaccature degli Stati-nazione principali: Spagna, come già ampiamente detto, ma anche Gran Bretagna, da sempre nazione scettica nei confronti dell’integrazione politica a colpi di cessione di sovranità, quindi forse da ridurre all’obbedienza, o l’Italia, con le sue fragilità strutturali e il mai risolto problema dell’armonizzazione tra settentrione e mezzogiorno. Un’Europa piegata dalla crisi economica, in cui gli Statinazione tradizionali fossero ulteriormente indeboliti nelle loro prerogative unitarie, aprirebbe la strada alla comparsa di tanti “nanetti da giardino”, incapaci di compiere scelte realmente indipendenti, che non andassero al di là della toponomastica, e quindi bisognosi di protezione “dall’alto”. Ogni gruppo politico localista, infatti, pone come prioritaria l’adesione di una eventuale neo/micro nazione regionale all’UE. Condizione evidentemente Questioni poi all’apindispensabile per poparenza minori, come ter reggere il confronquella del Tirolo o della to con un mondo mulCorsica, oppure l’instatipolare competitivo, bilità tra le due compodominato da potenze nenti etniche in Belgio le cui dimensioni sono — fiamminghi e valloni continentali (Cina, Sta—, potrebbero, somti Uniti, Russia, ecc.). mandosi, rappresentare Questo dato di fatto, se in un futuro prossimo si concretizzasse, conun grimaldello politico ferirebbe alle istituzioni per la cessione di sovracomunitarie un primato nità nazionale da parte indiscusso sia sulle neo/ di governi centrali a istimicro nazioni regionatuzioni “super partes”, li, sia su quel che resta come quelle dell’UE, degli Stati-nazione già che andrebbero così a esistenti, orbati di porcolmare a modo loro le Etnonazionalismo. zioni rilevanti del loro lacune nella gestione territorio. Fatto ancor delle criticità politiche più grave, e perfettamente realistico, sarebbe che le neo/ territoriali interne agli Stati-nazione. micro nazioni si vedrebbero costrette ben presto ad afDurante la scorsa estate fecero molto clamore sia la que- fidare all’UE molta della loro conquistata sovranità, per stione catalana, sia il prossimo referendum su di un’ipote- ragioni di sopravvivenza economica, in quanto realtà così tica indipendenza della Scozia da Londra. fragili sarebbero facile preda della speculazione apolide; quindi avrebbero bisogno di una copertura sovranazioIn entrambi i casi, le discussioni in seno alla Commissione nale, abbastanza autorevole politicamente e, per giunta, Europea e al Parlamento Europeo non vertevano tanto detentrice dell’emissione di moneta. sul contrasto a questi fenomeni disgregativi, quanto su come si potessero armonizzare i processi d’integrazione Il trionfo dell’etnonazionalismo sarebbe quindi effimero, di un eventuale neo Stato catalano o scozzese nell’ambi- in quanto verrebbero magari sciolte le sedicenti “cateto dell’UE o dell’area euro. Fatto salvo un certo legittimi- ne” che opprimono la libertà dei popoli a vantaggio dei smo di facciata, le istituzioni comunitarie non sembrano governi centrali nazionali, ci sarebbe la vittoria del reescludere, e non giudicano nemmeno destabilizzante, gionalismo in nome dell’identità locale e dell’autodeterl’eventuale disgregazione di uno Stato membro. minazione, ma si conferirebbe, per contro, una capacità di manovra politica alle istituzioni dell’Unione unica nel Sembra incredibile, ma è la verità. Basta leggere dietro le suo genere, e in grado di poter far aumentare il proprio righe dei comunicati ufficiali, o seguire i dibattiti su tali potere decisionale autoreferenziale, senza più il rischio di questioni per avvertire una certa ipocrisia di fondo. doversi scontrare con soggetti forti, in una dialettica alla Ecco quindi motivata la nostra critica nei riguardi dell’et- pari. nonazionalismo: esso potrebbe essere una medicina 32 Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo Il motto “Divide et impera” non potrebbe essere più calzante in un simile scenario. Noi siamo per uno Stato-nazione forte, in un’Europa rinnovata nello spirito, prima che nelle sue articolazioni politiche, economiche o sociali. Tuttavia, come già scrivemmo in altre occasioni, gli ideali devono concretizzarsi in modelli organizzativi, capaci di dare risposte certe a problematiche concrete. E saranno solamente i popoli a decidere se è tempo di cambiare radicalmente il corso della storia d’Europa, o diventare semplici oggetti del nuovo potere apolide che si sta imponendo a discapito della nostra grande civiltà. Per uno Stato-nazione forte in un’Europa nuova In conclusione, possiamo dire che l’attuale condizione complessiva in cui versa il Vecchio Continente è irta di pericoli, che pendono sulla testa di ogni europeo come una spada di Damocle. Il male sta all’origine; l’aver creato i presupposti per la nascita di un organismo sovranazionale privo di controllo diretto dagli Stati-nazione, che ha dimostrato di essere in grado di prendere consapevolezza del proprio ruolo, ormai importante e incontestabile, nella fase di crisi economica e di declino strutturale che ha colpito l’intero Occidente. L’Europa delle grandi realtà nazionali è oggi a rischio, così come quel processo di unificazione identitaria che ha avuto nello Stato-nazione il suo strumento principale. Senza che le classi politiche continentali avessero coscienza del pericolo incombente hanno proseguito ciecamente in questi anni del XX secolo nello smantellamento delle loro difese, privandosi della capacità di poter essere artefici del proprio destino, ed esponendo i loro popoli a quel che è successo fin qui. In nome di un’ideologia omologante e individualistica, sono state poste all’indice tutte quelle forze e quelle caratteristiche peculiari che in passato resero grandi le nazioni dell’Europa occidentale. Serve, e serve subito, una concreta inversione di rotta. Le forze disgregatrici che dominano le istituzioni dell’UE possono ormai contare sulle criticità economiche degli Stati-nazione per poter proseguire nella loro opera. Addirittura, secondo noi, potrebbero anche utilizzare fenomeni d’identitarismo locale per fiaccare le ultime resistenze dei singoli governi centrali. Purtroppo non vediamo nell’immediato, tranne che in qualche caso isolato, la capacità di coagulare i popoli verso nuove forme di patriottismo e di comunitarismo nazionalista. Tuttavia la nostra speranza in un mutamento nel corso degli eventi resta immutata, e l’azione politica che svolgiamo con abnegazione cerca, nel suo piccolo, di mantenere viva una certa idea di nazione e di Europa. Un’idea di nazione che non ha nulla di nostalgico o di retrivo. Un’idea di Europa lontana da tutto quello che è stato realizzato da classi dirigenti orbate di qualsiasi legittimità e prive di fede identitaria. 33 Thule Soci Céline secondo Céline Thule Soci Amore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea contro la Decadenza (ultima parte) Pasquale Piraino Giulio Cesare Andrea Evola nasce a Roma, il 19 Maggio proseguire quella lotta etica e morale da lui cominciata. del 1898. Fu una personalità estremamente poliedrica e Muore nel 1974 e, pur costretto sulla sedia a rotelle, vuole versata in ogni ambito dello scibile umano. Secondo la morire in piedi, pieno nello spirito di quella dignità e costoriografia ufficiale fu un fascista “nudo e crudo”, intellet- raggio che l’Uomo mantiene pure davanti a Dio: alcuni tuale influente negli ambienti del Fascismo italiano e del amici lo tengono eretto durante gli ultimi minuti della Nazionalsocialismo tedesco. Nulla di più falso, a detta sua vita di fronte alla finestra della sua stanza che guarda dello scrivente. Basta avere la pazienza di leggere qual- il colle Gianicolo. Esponiamo quindi alcuni capisaldi del che fonte dell’epoca per vedere che il nostro pensatore fu suo pensiero che si riagganciano al tema di questo scrituna personalità di spicco nell’epoca dei “fascismi”, ma co- to. Evola prende ispirazione dai testi vedici indù e dalla munque molto scomoda: gli ambienti culturali italiani lo scuola dello yoga tantrico, ampliandone però i contenuti guardavano con sospetto e quasi sopportandolo: proba- e fondendoli insieme con i capisaldi teorici e metafisici bilmente gli fu permesso di operare della filosofia idealista europea. Egli solo in virtù della sua amicizia con il crede fermamente in uno scorrere Duce Benito Mussolini, il quale certatemporale ciclico e non lineare: il mente ammirava e condivideva alcutempo e gli sviluppi storici non hanni aspetti del suo pensiero. In Germano un inizio ed una fine, ma seguono nia invece, Evola, per via delle sue invece un andamento circolare, cicliidee filolatine, fu da subito mal visto, co, del tutto simile a quello delle statanto che il Brigadeführer SS Karl Magioni; in particolare Evola riconosce ria Wiligut lo definì un “romano reacome corretta la visione indù delle zionario”, consigliandone al contemquattro ere dell’umanità: Età dell’Oro po l’allontanamento dal suolo (Satya Yuga), Età dell’Argento (Treta tedesco, riconoscendo non solo come Yuga), Età del Bronzo (Dvapara Yuga) non conforme agli standard culturali ed infine Età del Piombo (Kali Yuga). nazionalsocialisti la sua dottrina, ma Queste quattro ere si susseguono addirittura come nociva e pericolosa. all’interno della Grande Era (MahayuDocumenti ufficiali confermano ga). Il succedersi di queste ere rapquanto scritto. Evola quindi, lungi presenta un lento decadere della cidall’essere un propagandista o un soviltà umana, che parte dalla migliore stenitore dei due regimi, fu innanzicondizione, quella più vicina alle ditutto un libero pensatore, le cui idee vinità, nell’età dell’oro, per scivolare Julius Evola. collimavano in parte con gli standard lentamente, ma inesorabilmente, dei due sistemi culturali, ma che spesverso condizioni di stato animalesco so prendevano direzioni non gradite e diverse. Nel corso e di depravazione morale man man che ci si avvicina della sua vita produce un’opera culturale immensa ed all’era finale, all’età del piombo. Secondo i testi indù, l’età estremamente varia, oggi purtroppo dimenticata: nelle attuale è quella del piombo, la più bassa in assoluto, quelscuole si studiano i rigurgiti intellettuali partoriti da men- la nella quale gli dèi, sconcertati dalla condizione bestiale talità distorte (e storicamente disturbate) quali quelle di nella quale gli uomini sono scesi, si ritirano in luoghi seFeuerbach o di Engels e non si dedica nemmeno un mi- greti lasciando l’essere umano in balìa di se stesso. Da qui nuto per analizzare gli scritti di questo eclettico filosofo, parte l’analisi di Evola: secondo il pensatore italiano, l’uoche è stato letteralmente divorato dall’Industria Culturale mo originario non era un essere derivato dalla scimmia, adesso vigente. Vive nel secondo dopoguerra una vita da ma un dio caduto, un semidio, dotato di un’altissima intellettuale ignorato e recluso, arrivando comunque a componente spirituale che gli donava doti intellettive e fondare la “Fondazione Julius Evola per la difesa dei valo- poteri “magici” fuori dal comune. Ma con il proseguire dei ri di una cultura conforme alla Tradizione”, con lo scopo di tempi e il precipitare delle ere (dall’oro verso il piombo) 36 Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea egli perse la componente spirituale, aumentando invece quella materiale, sprofondando nella terra invece di ascendere al cielo, e impantanandosi in cose “umane, troppo umane”. Così il primo popolo di divini “dimenticò” il proprio retaggio (proprio come gli angeli del Graal prima descritti) e dovette abbandonare la propria patria polare, nordica, a causa di un cataclisma che sconvolse il mondo. È la diaspora degli Arii, dei Puri, degli abitanti dell’Ultima Thule. Il cataclisma fu attirato dalla loro stessa caduta, dall’avere abbassato il loro spirito puro come il Fuoco al livello della materia: non più dèi, divennero animali. Evola espone quindi un’analisi storica che verte su queste basi teoriche, dimostrando la falsità dell’evoluzionismo darwiniano e della teoria etnologica dell’ex oriente lux, analizzando inoltre le fasi di ascesa e caduta (sincroniche al ciclo delle ere) di tutti quei popoli che manifestano sintomi di un antico retaggio ancestrale Ariano, o per meglio dire Iperboreo. Evola spinge molto sul fatto che il dimenticare la propria origine divina, il non curare il proprio spirito, fa precipitare ancora di più nel regno della materia, rendendo l’uomo di fatto un animale, fisicamente ed intellettualmente. Questa caduta dell’Uomo (con la maiuscola per distinguere l’Uomo-Dio dall’uomo-bestia) è comunque inevitabile, poiché implicata dal susseguirsi delle ere. Come uscire allora da questa spirale degenerativa? Evola trovò risposta nei testi tantrici. Essi illustrano una pratica di Yoga sessuale, basato sull’unione di uomo e donna, di elemento maschile e femminile, al fine di ricreare l’Uno-Tutto, di riscoprire il divino all’interno del sé. Questi testi trovano una fortissima simbologia nell’unione di Shiva e della sua consorte Parvati (due divinità vediche). Tale scuola yoga si scisse in due distinte correnti di pensiero che pur partendo da idee originarie uguali arrivavano a metodologie pratiche molto diverse, anzi opposte, ma complementari: il Tantrismo della Mano Destra raccomandava un’unione esclusivamente spirituale e animica, ma non fisica, tra Uomo e Donna; quello della Mano Sinistra invece consigliava un’unione fisica, carnale, regolata però da alcune tattiche e precetti fondamentali. Evola ritenne come vincente la via della Mano Sinistra. Egli riteneva infatti che era tanto grave la caduta nelle profondità della materia che essa poteva essere combattuta solo mediante i suoi stessi mezzi materialistici e lontani dalla dimensione spirituale originaria. Egli crede che tanto per l’Uomo quanto per la Donna, la Purezza Divina originaria possa essere conquistata solo andando “a cavallo di una tigre”; l’energia sessuale sviluppata durante l’amplesso è effettivamente potentissima (proprio come una tigre) e permette ai due di aprire una sorta di via di fuga dalla materia e dal mondo sensibile, ma il rischio è molto elevato: chi cade dal dorso della tigre finisce sbranato dalla belva ed eguale fine (a livello animico) attende chi dimentica i precetti del tantrismo sinistro per godere dei semplici piacere fisici; il fine ultimo è utilizzare le pulsioni materiali per ridare salute allo Spirito e la spinta sessuale è come un fuoco che scioglie l’Animo dai ghiacci della materia che lo intrappolano. La fiamma va comunque domata, affinché non bruci chi la usa. L’ Uomo e la Donna capaci di seguire fino in fondo questa via (che potrebbe ricordare la cerimonia simbolica dell’Asag prima descritta) riottengono l’Egoità Assoluta, guadagnando la via d’uscita da questo mondo o piano e restaurando il proprio spirito: tornano nell’Iperuranio, insieme. Il fatto che Evola abbia del tutto perso ogni traccia di poesia o di sentimento d’Amor che prima si trovavano in tutte le espressioni dell’Idea non deve stupire il lettore: secondo il filosofo, la condizione in questi tempi è tanto critica che solo mezzi estremi possono dare a Uomo e Donna una possibilità di salvezza da questa terra desolata. Non c’è quindi più spazio per nessun sentimento, la lotta è tale che risulta necessario usare qualsiasi arma. Da qui l’importanza dell’amore fisico, seppur debitamente regolato e canalizzato. Si è descritto a grandissime linee il pensiero evoliano, focalizzando sulla parte che interessa il nostro scritto. Proseguiamo quindi con Miguel Serrano, il pensatore che a detta dello scrivente ha portato la teoria d’Amor al livello più alto che ci sia permesso apprendere in questa buia fase storica che l’Uomo è costretto ad affrontare. Miguel Serrano Fernández nasce a Santiago del Cile il 10 Settembre 1917. Da giovane simpatizza per l’estrema sinistra cilena, ma subito si appassiona al Nazionalsocialismo, iscrivendosi poi al Movimento nazionalsocialista cileno. Durante la seconda guerra mondiale vorrebbe partire per la Germania come soldato volontario, ma la partenza gli è negata. Dopo la sconfitta della Germania inizia l’attività diplomatica per il suo Paese che lo porterà a essere ambasciatore cileno in India, in Jugoslavia e in Austria. Lavorò inoltre presso l’Agenzia per l’energia atomica dell’ONU. Ma tutto questo , per quanto manifestazione di un intelletto finissimo, è nulla in confronto a quello che egli realizzò nel suo percorso di vita : dotato di una conoscenza immensa in tutti i campi dello scibile umano, viaggiò in Antartide alla ricerca delle misteriose oasi di acque temperate, strinse amicizia con personaggi di spicco dell’epoca: Léon Degrelle, Otto Skorzeny, HansUlrich Rudel, Saint-Loup, Hanna Reitsch, Julius Evola, Hermann Wirth, Wilhelm Landig, Ezra Pound, Indira Gandhi, Hermann Hesse, C.G. Jung e il Dalai Lama; fu scrittore, filosofo, esoterista, ricercatore, archeologo. La realtà è che egli visse la sua vita nel segno della Ricerca continua e del lavoro di perfezionamento interiore. Testimonianze di tutte le sue avventure in giro per il mondo e dei suoi numerosi studi rimangono nei suoi libri, testi di altissimo valore intellettuale e culturale, tradotti in decine di lingue europee e asiatiche. Nonostante fosse un fervente nazio37 nalsocialista e hitleriano dichiarato, fu tanto grande la quello femminile. Erano delle monadi o purusha (in sansua statura intellettuale che mai nessuno poté fermarlo o scrito), delle uova orfiche: degli esseri rotondi, circolari, mettergli il bavaglio per via della sua visione del mondo. nel senso di completi in sé e per sé. Ma un’entità maliPurtroppo neanche lui è sfuggito all’opera di insabbia- gna, il Demiurgo, cominciò a plagiare l’universo degli Dèì, mento che il sistema culturale vigente applica a tutti co- l’Iperuranio o Iperborea Celeste, utilizzando la Materia per loro che hanno un punto di vista eterodosso. Ma a Serra- imitarlo; facendo questo creava un universo finito (mano non interessava parlare alle masse, nella maniera più teriale e corpuscolare) all’interno di un universo infinito assoluta: egli condivideva appieno la visione fortemente (spirituale ed etereo) che fosse l’esatta copia del precearistocratica ed elitaria degli studi filosofici e culturali in dente, ma vuota e senza vita. Nelle monadi però accade generale; era fermamente convinto qualcosa che portò alla separazione che chiunque sentisse la Vocazione degli androgini: Lei abbandona Luiinteriore alla Verità avrebbe trovaLei e Lui abbandona LeiLui, cadendo to la strada per la Conoscenza inall’interno dell’universo maligno del dipendentemente dal fango intelDemiurgo: questo corrisponde esatlettuale e morale nel quale si vive. tamente alla distruzione dell’androMiguel Serrano morì il 28 febbraio gino nei miti platoniani. Il Maligno 2009 a Santiago del Cile, lottando crea inoltre degli esseri esternamenper i propri ideali aristocratici ed te simili agli Dèi, ma fatti di Materia elitari in un mondo che, secondo (come il dio del vecchio testamento lui, si avvicina sempre più a una creò Adam impastando il fango) e fine irrevocabile. Muore mentre animaleschi, privi di Spirito. La parte nella città infuriava una grandiosa caduta dell’Androgino si innamora tempesta: pur nel silenzio degli uodi questi corpi fatti di materia e vuomini, la Natura pianse la scomparsa ti, perdendosi così nell’universo dedi un Grande Maestro. miurgico (traccia di qualcosa di simiEsponiamo quindi la visione cole si trova nella Genesi, dove è scritto: smologica di Serrano in relazione “I figli di Dio si innamorarono delle alla dottrina d’Amor finora analizfiglie dell’Uomo”). Che cosa succede zata, tenendo a mente che il suo all’altra parte della Monade Originapensiero rappresenta una summa ria? Incalzata dall’Amore (non fisico, Miguel Serrano. non solo degli argomenti sinora ma spirituale) per la parte persa da esposti, ma in generale di miti, leguna parte e attaccata dall’avanzagende, tradizioni e religioni monre della Corruzione del Demiurgo diali di ogni tempo: Serrano, infatti, nei suoi viaggi en- dall’altra, si incarna anch’essa nel mondo sensibile per trò in contatto con diverse personalità religiose e studiò prendere parte a una guerra che da un lato è condotta praticamente tutti i miti e le religioni umane, cercando contro le forze maligne disgregatrici che plagiano l’Uniil filo comune (la Catena Aurea) che dietro le leggende verso Originario, dall’altro verso il ricongiungimento con collegasse tutte le manifestazioni del sapere umano. Nel il sé mancante, al fine di raggiungere di nuovo la complepensiero di Serrano si ritrovano quindi tracce dei miti tezza originaria. Ricercando però la parte persa, l’Androindù, ma anche greci, norreni, mithraici, ecc. Il sapere di gino “mutilato” crede di trovarla nelle opere materiali del Serrano inoltre è refrattario alla ragione meccanicistica, demiurgo: questo accade a causa del fatto che il princialla fredda razionalità: esso privilegia l’intuizione, che es- pio originale che scappò dalla monade si mischiò con i sendo personale non è spiegabile. Il lettore tenga sempre primi “golem d’argilla” del maligno. Inizia a procreare con a mente queste informazioni. loro, generando così una razza bastarda, per metà divina La visione cosmologica di Serrano implica una fortissima e per metà animale, menomata dalle capacità spirituali lotta tra Bene e Male, che assume i tratti di una vera guer- di partenza: è la razza degli Eroi, essere umani dotati di ra, con eserciti e schieramenti opposti. Secondo il poeta, capacità eccezionali: sono Adone, Achille, i Vira dei poemi in un originario universo incontaminato dalle leggi della epici indiani, ma anche Siegfried, Parzifal e altri ancora. fisica attuale (le leggi della meccanica classica, per inten- Ma l’imbastardimento proseguì, poiché il semidivino perderci) e dalla Materia, esistevano degli Dèì formati da una sisteva nel seguire l’amore fisico per le creature del Desostanza prettamente spirituale; queste divinità erano miurgo, dimenticandosi della sua origine divina e della degli androgini, chiamati LuiLei e LeiLui a seconda che sua Vera Compagna o del suo Vero Compagno, che è la all’interno dell’essere prevalesse il principio maschile o parte dell’Androgino lasciata nell’altro universo. Secondo 38 Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea Serrano, questo imbastardirsi porta da un lato all’abbassamento delle capacità intellettuali dell’individuo, che diventa sempre più un guscio vuoto, un animale nella mandria, dall’altro fa dimenticare le proprie origini divine. Egli non sente più il proprio spirito interiore, ma si riconosce come un ammasso materiale, un sacco di carne. Altro effetto collaterale è la trasformazione del proprio desiderio di cercare la completezza perduta del suo Io, che è il vero amore, nella ricerca all’infuori di sé, all’esterno: egli vede negli altri il riflesso della sua parte perduta. Così continua a perdere se stesso, imbastardendosi sempre più; il processo è eguale a quello della diluizione di una soluzione: si parte da una fase concentrata ricca in costituenti per arrivare a una diluita e povera rispetto alla concentrazione originale. Così Serrano spiega la teoria delle ere umane che anche lui come Evola approva pienamente. Il continuo imbastardimento provoca la decadenza delle civiltà, arrivando a un punto tale che da un’epoca perfetta si arriva a una estremamente corrotta. Miguel Serrano non si ferma a queste analisi, ma va molto oltre, analizzando come dovrebbe essere il rapporto ottimale tra Lui e Lei (scritte con le iniziali maiuscole, per indicare le parti divine originarie), affinché si possa restaurare la completezza del proprio Spirito, ritornando allo stato di gloria iniziale. Egli nota come in tutti i Miti del patrimonio culturale umano ci siano delle costanti che si ripetono periodicamente. In particolare, spesso le leggende raccontano di un Eroe che parte alla ricerca di qualcosa, ma non riesce a completare la sua missione sino a quando una donna non viene in suo aiuto. Esemplificativa è l’analisi prima esposta del Parzifal e della ricerca del Graal; non torneremo su questo, preferendo analizzare sinteticamente il mito di Giasone. Egli parte alla ricerca del Vello d’Oro, e non è casuale che egli ricerchi un oggetto costituito dall’aureo metallo: questo è l’oro alchemico del quale abbiamo trattato prima. Giasone non riesce a conquistare il Vello sino a quando non incontra Medea, che, innamorata di lui, gli dona gli strumenti e i mezzi per superare le prove che lo porteranno alla conquista del mitico oggetto. Ma il mito prosegue: Giasone procrea dei figli con Medea, tradendola in seguito per un’altra donna e abbandonandola: qui comincia la definitiva caduta dell’Eroe, consumandosi la sua tragedia che lo porta alla perdita di tutto ciò che aveva conquistato (regni, ricchezze, finanche i propri figli). I nuclei principali del mito di Giasone, appena esposti, sono comuni a moltissimi Miti facenti parte del patrimonio culturale mondiale. Cambia solo il finale: se l’Eroe riesce a mantenere la propria castità e la fedeltà verso la donna che lo aiuta il suo successo è totale (è il caso del Parzifal), ma se fallisce rompendo la castità o tradendo la donna la sua rovina è immediata (è il caso della coppia Giasone-Medea, oppure di Siegfri- ed-Brunhild). Secondo Serrano questi Miti esprimono in chiave simbolica alcuni concetti fondamentali: - l’Eroe non è un uomo qualunque, ma spesso è figlio di divini o vanta discendenza divina: questo indica che il Viaggio che egli intraprende non è per tutti, ma solo per coloro che hanno sangue divino nelle vene, per i discendenti di quell’antica razza di divinità che giunsero sulla terra. È quindi un Cammino altamente aristocratico, antidemocratico in senso lato. - Il Viaggio e la ricerca rappresentano il cammino di purificazione che l’Eroe deve affrontare per riscattare il proprio sangue imbastardito nella materia e riconquistare la sua condizione divina, esattamente come visto nel caso dell’Opus Alchemico. - L’Eroe da solo fallisce sempre: questo perché è incompleto, come incompleto era il Dio dal quale discende. Solo il rincontro con la sua controparte lo salva, o meglio con l’involucro materiale che la contiene. Essa gli dona i mezzi per riuscire nelle prove: in altre parole, gli dona la forza spirituale che deriva dalla completezza. Serrano nei suoi libri illustra vari esempi simili a questo, al lettore il compito di approfondire. Secondo lui comunque la castità va mantenuta, perché l’unione deve essere di tipo animico, spirituale. Continuando a generare figli materiali si continua a perdere la propria matrice originaria nel mondo dei sensi. Ma come raggiungere questa unione spirituale? Egli identifica il Tantrismo indiano come la via maestra, propendendo però, a differenza di Evola, per la Via della Mano Destra, quella simbolica, dove il contatto fisico tra amanti, tra Lui e Lei, non esiste, ma ognuno crea nella propria mente la propria controparte perduta. In altri termini la riscopre dentro il proprio sé. Non quindi tramite i mezzi della Materia, tipici della Via Sinistra, ma tramite il più potente mezzo Spirituale, ovvero l’Immaginazione Creativa, si riesce a creare l’Io Assoluto, l’Androgino Assoluto. Amore secondo Serrano è quindi una via eroica di combattimento, perché ricreando dentro il sé la completezza assoluta si recupera la perduta divinità, si recupera la Lei (o il Lui) che fu irretito dal Demiurgo, vincendo così la battaglia contro il maligno. Gli ostacoli per la propria redenzione sono però ovunque: in particolare è facile che si cada nell’errore di scambiare una persona qualsiasi per la propria metà perduta. L’Eroe in questo caso rischia di perdersi, cercando di interiorizzare una persona che non è la sua Compagna Originaria. L’unica sua fortuna può essere quella di accorgersi dell’errore compiuto. Per dimostrare quanto questi ragionamenti metafisici siano in realtà “più reali di qualsiasi cosa esistente” (per utilizzare le parole di Serrano), riporto un brano tratto da Michael, diario di un destino tedesco, scritto da Joseph Goebbels. Questo racconto fortemente autobiografico illustra il sentimento che Goebbels provò quando colei che egli credeva essere l’amore della sua vita in realtà si rivelò 39 ingabbia e limita. La visione serranesca abbraccia e incorpora in sé tutte le manifestazione dell’Idea d’Amore sino a ora analizzate, dando spiegazioni a tutti i lati oscuri inspiegati. Il cerchio è chiuso, credo di avere fornito al lettore tutti gli spunti per delle future ricerche personali, magari per rivedere conoscenze pregresse sotto un’ottica diversa. Si è voluto creare questo scritto per dimostrare come, nonostante la macchina mediatica ci bombardi costantemente con una certa visione delle tematiche sentimentali e amorose che abbassano l’uomo e la donna al livello bestiale, in realtà le cose non stiano così. Amore non è puro sesso o libido, ma altro, moltissimo altro. Amore è energia che ridà vigore e forza alla fiamma divina latente nell’uomo. Si può chiamare Teomorfosi, Iperuranio, Paradiso o in qualsiasi altro modo: la realtà è unica, cambia solo il nome del luogo mitico dal quale i Primi Divini vennero ed al quale l’uomo lotta per potere ritornare. Abbiamo attraversato qualche tappa saliente dello sviluppo storico e dialettico dell’Idea, dimostrando il moto spiraliforme del suo manifestarsi; si è partiti dall’amore in senso stretto (patetico, non nel significato dispregiativo del termine), per investire tutti i campi dello scibile umano: religione, filosofia, letteratura, storia, sino ad arrivare alla visione dicotomica dello scontro tra bene e male. Lo scrivente vuole infine sottolineare alcune cose. Per quanto la visione metafisica sin qui esposta può avere, per certi versi, dell’assurdo o del fantascientifico, la realtà delle teorie è fortemente sostenuta da prove scientifiche, matematicamente dimostrabili. Sull’esistenza di più universi paralleli la fisica quantistica si è già espressa: gli universi (il nostro per esempio) nascono quando due onde energetiche si scontrano, creando una interferenza sul piano dell’esistenza: per rendere più chiaro l’enunciato, l’esistenza è come un immenso mare in movimento; ogni volta che due onde si scontrano nasce la spuma marina, con annesse bolle: ecco, il nostro universo è solo una delle infinite bolle esistenti, ciascuna allocata in una dimensione in base al proprio livello energetico (il livello energetico può essere misurato in base alla lunghezza d’onda dell’energia, per esempio). Un essere, quindi, cambiando livello energetico potrebbe effettivamente cambiare dimensione. Sul processo alchemico della trasmutazione della Materia in Spirito invece la realtà è molto più semplice. Prendiamo l’esempio dell’elettrone, la più piccola particella subatomica nel sistema atomico classico. Esso è un corpuscolo dotato di massa propria (e carica elettrica) che possiamo immaginare come un piccolo pianetino in orbita attorno al nucleo atomico (questo è il modello atomico classico, ormai ritenuto superato, ma di immediata comprensione per tutti, utile inoltre ai fini del nostro ragionamento). Esperimenti hanno dimostrato che basta fornire sufficiente energia all’elettrone (tramite campi come una delle tante informi (o deformi) figure femminili che compaiono alla vista dell’uomo, distraendolo dalla vera ricerca e facendolo inabissare ancora di più nel pesante mondo materiale. Ecco il brano: “Ho molto amato Herta Holk. L’amo ancora e l’amerò per sempre. Ma non era la compagna che ti permette di resistere contro tutto. Credo che io non la troverò mai. […] Herta Holk è attratta dal nuovo, ma è ancora troppo legata a pregiudizi meschini, a vecchie concezioni. […] Lei si accontenta di una situazione intermedia. Fa compromessi, tiene più alla pace dell’anima che alla lotta e alla prospettiva di essere un vincitore invece che un vinto” (Michael, diario di un destino tedesco, Editrice Thule Italia). L’uomo che riesce a essere fedele alla propria Lei, alla parte di sé perduta, guadagna l’Egoità Assoluta, riconquista l’Io Totale o, per usare termini platonici, “mette le ali e torna nell’Iperuranio”. In questo modo si smaterializza il corpo che torna a essere Spirito puro e si torna nell’Antica Patria. E, secondo Serrano, nel mondo metafisico, in quello non sensibile, l’Uomo Assoluto (o Donna Assoluta) riesce a ritrovare la propria parte perduta che egli immaginò. Questo perché in realtà immaginare è ricordare: secondo il pensatore l’immaginazione creativa non fa altro che riportare alla luce una parte del sé precipitata nei meandri dell’io incosciente, che viene riportata al livello cosciente mediante la “scorciatoia” del finto crearla dal nulla. Si riesce a riscattare dal mondo della Materia la parte che il Demiurgo irretì, riportando poi entrambi (riuniti all’Interno dell’Io-Assoluto, completo, totale, dato dall’unione di maschile e femminile) nella patria originaria e incontaminata dalla meccanica demiurgica. Si chiude il cerchio e si vince la guerra. Quindi si capisce il senso altamente simbolico dell’amore cortese o dello stilnovismo dantesco: non importa chi sia realmente la donna fisica incontrata, ma semplicemente quello che lei rappresenta per il poeta, quello che risveglia in lui: il ricordo della sua Vera Compagna. Serrano in questi termini spiega anche l’amore dei Minnesӓnger, svelando chi è l’Amata che il poeta crea con i suoi scritti. La fedeltà verso Lei non è quindi solamente lealtà verso la donna che ispira, ma verso se stessi, ovvero verso la parte perduta del sé che una volta riconosciuta (ricordata) va coltivata interiormente nel proprio Spirito, così da ridarle vita nel senso ontologico del termine. Mediante le idee di Serrano si capisce meglio anche la trasformazione alchemica dell’androgino, come processo di raffinazione che implica la nascita del maschile e femminile all’interno dell’Io dell’alchimista. Risulta infine chiara anche la natura della forza incredibile che sostiene Parzifal nella sua ricerca o che salva Faust da dannazione certa: la presenza di Qualcuno che lottava per Lui, dandogli forza e valore anche da lontano, anche se sperduto come un diamante in mezzo a un deserto di sabbia. Lo Spirito potente di questi eroi vinceva i vincoli della materia, che 40 Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea M. Imbimbo, Viaggio nella filosofia, volume primo, Palumbo Editore. Platone, Simposio, Einaudi editore. Platone, Fedro, Einaudi editore. N. Sapegno, Antologia della divina Commedia, La nuova Italia. Dante Alighieri, Vita Nova, edizioni BUR. Autore ignoto, Mutus Liber, edizione fuori commercio posseduta dallo scrivente. Arnaldo da Villanova, Rosarium Philosophorum, edizione fuori commercio posseduta dallo scrivente. W. von Eschenbach, Parzival, Einaudi editore. J. W. Goethe, Faust, edizioni BUR. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, edizioni Mediterranee. M. Serrano, Adolf Hitler: l’ultimo avatara, volumi primo e secondo, edizioni Settimo Sigillo. J. Goebbels, Michael- Diario di un destino tedesco, editrice Thule Italia. magnetici per esempio) per fare in modo che esso esca dall’orbita atomica e viaggi nello spazio. A questo punto l’elettrone è come se perdesse la sua massa iniziale, trasformando la sua natura corpuscolare (materiale) in onda elettromagnetica: riesce a passare attraverso gli ostacoli, vibra come le radiazioni elettromagnetiche, produce luce. D’altronde la materia altro non è che energia “lentissima”, ovvero con una lunghezza d’onda molto bassa, mentre la luce è energia ad altissima lunghezza d’onda, energia “veloce”. Spirito (Luce) e Materia hanno quindi la stessa matrice di provenienza: Energia. Gli alchimisti con i loro mezzi non erano assolutamente andati tanto lontano rispetto a quanto gli scienziati moderni hanno enunciato grazie ai loro potenti mezzi. Riguardo infine alla doppia natura dell’uomo potrei citare miti o concetti religiosi (come Eva estratta da Adamo, o il Tao), ma preferisco richiamare le parole di una persona che mi ricordò come, nell’individuo maschile, i cromosomi sono X ed Y: uno maschile e uno femminile. Termino questo articolo scrivendo che, oltre le spettacolari visioni metafisiche che l’ispirazione d’Amore ha dato all’uomo, oltre i capolavori letterari, le dottrine filosofiche, le opportunità di ontologiche “di altri universi” o di smaterializzazioni delle masse, il messaggio che vorrei rimanesse dentro i cuori dei lettori sia quello di un’astiosa rivolta contro il degrado etico e morale attuale. Non si nasce per soddisfare poveri piaceri individualisti o per essere consumatori che, tra i tanti beni di consumo, acquistano anche il bene sessuale. Non siamo venuti alla vita per seguire oziosi canoni estetici dettati da mentalità contorte e malate. Ogni persona è chiamata a altro, ad una lotta che è perfezionamento morale e fisico, svolta in opposizione all’ambiente ormai sterile e decadente che ci circonda. Nell’analisi seguita resta come costante la compagnia della donna per l’uomo e quella dell’uomo per la donna. Insieme si riesce a vincere l’entropia che fa decadere l’attuale società umana, da soli non si riesce a concludere assolutamente nulla, anzi si accelera la discesa verso l’abisso. Non quindi nella sudditanza nei confronti dell’altro, né tantomeno nell’attuale commistione caotica dei ruoli sociali, ma in un’intima collaborazione che porta anche alla corretta divisione dei ruoli, tra maschile e femminile, nel pieno rispetto di entrambi, perché uno è assolutamente inutile senza l’altro. Ogni individualismo è condannato alla rovina assoluta. Bibliografia A. Oliverio Ferraris, Psicologia, Zanichelli Editore. R. Luperini, La scrittura e l’interpretazione, volume primo, tomo primo, Palumbo Editore. D. Del Corno, La letteratura greca, volume secondo. Principato Euripide, Le baccanti, edizioni BUR. 41 Altra Lettura 42 Altra Lettura 43 Altra Lettura “La razza ventura” di Edward Bulwer-Lytton Ultima puntata Quando io e Taë, lasciata la città, abbandonammo sulla sinistra la via principale e ci addentrammo fra i campi, la strana e solenne bellezza del paesaggio, rischiarato fino all’orizzonte da innumerevoli lampioni, affascinò i miei occhi, distraendomi per qualche tempo dall’ascolto di quanto mi andava dicendo il mio compagno. Dovunque vedevo svolgere le varie attività agricole per mezzo di macchine dalle forme per me nuove, e spesso assai eleganti; tra quella gente l’arte viene coltivata ai fini dell’utilità e si prodiga nell’adornare ed affinare le forme degli oggetti pratici. I metalli preziosi e le gemme sono così abbondanti che vengono profusi su cose dedicate all’uso più banale: e l’amore per l’utilità spinge i Vril-ya ad abbellire gli strumenti, accendendo la loro immaginazione in modo impensabile. In tutti i servizi, al coperto ed all’aperto, fanno grande uso di automi, così ingegnosi e sottomessi alle energie del vril, da sembrare veramente dotati di ragione. Era quasi impossibile distinguere le figure che vedevo intente a guidare od a sovrintendere i rapidi movimenti delle grandi macchine, dagli esseri umani dotati di intelligenza. Poco a poco, mentre procedevamo, la mia attenzione venne attratta dalle osservazioni acute e vivaci del mio compagno. L’intelligenza dei bambini, in questa razza, è meravigliosamente precoce, forse perché essi sono abituati a vedersi affidati, in così tenera età, gli utensili e le responsabilità dell’età adulta. Conversando con Taë, avevo la sensazione di parlare con un uomo superiore del mio mondo. Gli chiesi se era in grado di fornirmi una stima del numero delle comunità in cui si suddivide la razza dei Vril-ya. “Non esattamente”, rispose lui, “poiché si moltiplicano ogni anno, con l’emigrazione della popolazione sovrabbondante. Ma ho sentito dire da mio padre che, secondo i dati più recenti, vi sono un milione e mezzo di comunità che parlano la nostra lingua e adottano le nostre istituzioni e le nostre forme di vita e di governo, tuttavia con differenze di cui ritengo faresti meglio a chiedere precisazioni a Zee. Lei conosce queste cose meglio di tanti Ana. Un An s’interessa meno di una Gy alla cose che non lo riguardano direttamente; le Gy-ei sono creature curiose.” “E ogni comunità sì limita allo stesso numero di famiglie, o alla stessa consistenza della popolazione?”. “No. Alcune hanno popolazioni più esigue, altre più numerose, a seconda dell’ampiezza del territorio e dell’eccellenza dei loro macchinari. Ogni comunità stabilisce il proprio limite in base alle circostanze, badando sempre a far sì che non si crei una classe di poveri a seguito della pressione della popolazione sulle capacità produttive, e che lo Stato non diventi troppo grande per un governo simile a quello d’una famiglia ben ordinata. Immagino che nessuna comunità dei Vril-ya superi le trentamila famiglie. Ma, in generale, tanto più una comunità è piccola, purché vi siano abbastanza braccia per sfruttare le possibilità del territorio, e più è ricco ogni individuo, più grandi sono le somme che versa al tesoro pubblico... e soprattutto l’intera organizzazione politica è più tranquilla ed i prodotti dell’industria sono più perfetti. Lo Stato che tutte le tribù dei Vril-ya riconoscono come il più elevato, e che ha portato al pieno sviluppo l’energia del vril, è forse il più piccolo. Comprende solo quattromila famiglie, ma ogni spanna del suo territorio è coltivata con la perfezione di un giardino; i suoi macchinari sono migliori di quelli d’ogni altra tribù, e non vi è prodotto della sua industria che non sia richiesto, a prezzi altissimi, dalle altre comunità della nostra razza. Tutte le altre tribù prendono a modello questo Stato, ritenendo che potremmo raggiungere il più elevato livello di civiltà permesso ai mortali se potessimo unire il più alto grado di felicità permesso a quello più grande delle conquiste intellettuali; ed è chiaro che questo sarà tanto meno difficile quanto più piccola è la società. La nostra è già anche troppo grande.” Questa risposta mi spinse a riflettere. Ricordai il piccolo Stato di Atene che aveva solo ventimila liberi cittadini e che ancora oggi le nostre nazioni più potenti considerano guida e modello nel campo delle attività dell’intelletto. Ma Atene permetteva rivalità accanite e cambiamenti continui, e certo non era felice. Scuotendomi dalla fantasticheria in cui mi avevano gettato queste riflessioni, riportai il discorso sull’emigrazione. “Ma quando”, dissi, “un certo numero di persone, mi sembra ogni anno, accetta di lasciare la patria e di fondare altrove una nuova comunità, necessariamente deve trattarsi di poca gente, appena sufficiente, anche con l’aiuto delle macchine che porta con sé, per dissodare il terreno, costruire città e formare uno Stato civile, con le comodità ed i lussi cui tutti sono abituati.” “Ti sbagli. Tutte le tribù dei Vril-ya sono in costante comunicazione fra loro, ed ogni anno concordano quale percentuale di ciascuna sua unità si unisca agli emigranti di un’altra, in modo da formare uno Stato di sufficiente grandezza; ed il luogo dell’emigrazione viene scelto almeno un anno prima, ed i pionieri di ogni Stato vi si recano per spianare le rocce, imbrigliare le acque, e costruire le case. Perciò, quando gli emigranti si trasferiscono, trovano una città già pronta, ed una campagna almeno parzialmente 44 “La razza ventura” bonificata. La nostra dura vita da bambini ci induce ad amare i viaggi e l’avventura. Io stesso intendo emigrare, quando sarò maggiorenne.” “Gli emigranti scelgono sempre località disabitate e spoglie?”. “In generale sì, poiché rispettiamo il principio di non distruggere mai, se non quando è necessario per il nostro bene. Certo, non possiamo stabilirci nelle terre già occupate dai Vril-ya; e se prendiamo i terreni coltivati delle altre razze degli Ana, dobbiamo sterminarne i precedenti abitanti. Talvolta scegliamo zone desolate, e poi scopriamo che una razza di Ana turbolenta e rissosa, specialmente se amministrata del Koom-Posh o Glek-Nas, s’irrita per la nostra vicinanza, e attacca briga con noi; e allora naturalmente l’annientiamo, perché minaccia il nostro benessere; è impossibile venire infatti a patti con una razza così idiota che cambia continuamente la forma di governo. Il Koom-Posh”, disse il ragazzino, in tono enfatico, “è già abbastanza negativo, ma possiede ancora un po’ di cervello, e non è privo di cuore; ma nel Glek-Nas il cervello ed il cuore degli esseri si annientano, ed essi diventano tutti zanne, artigli e ventre.” “Ti esprimi con molta energia. Permettimi di informarti che io stesso sono cittadino di un Koom-Posh, e ne sono fiero.” “Non mi stupisco più”, rispose Taë, “nel vederti qui, tanto lontano dalla tua patria. Quali erano le condizioni della tua comunità, prima che diventasse un Koom-Posh?”. “Una colonia di emigranti, come quelle della tua tribù: ma era molto diversa da esse, poiché dipendeva dallo Stato da cui proveniva. Si liberò da quel giogo e, coronata di gloria eterna, divenne un Koom-Posh.“ “Gloria eterna? Da quanto tempo dura il Koom-Posh?”. “Da circa cent’anni.” “La durata della vita di un An... una comunità molto giovane. Tra molto meno di cent’anni il tuo Koom-Posh diventerà un Glek-Nas.“ “No: gli Stati più vecchi del mondo da cui provengo hanno tale fiducia nella sua durata che tutti modellano via via le loro istituzioni sulla nostra, e gli uomini politici più seri affermano che, inevitabilmente, tali vecchi Stati tenderanno a diventare a loro volta Koom-Posh.“ “I vecchi Stati?”. “Sì, i vecchi Stati.” “Hanno una popolazione molto piccola in rapporto al territorio produttivo?”. “Al contrario, hanno popolazioni assai numerose, in rapporto alla terra.” “Capisco! Sono davvero vecchi Stati! Così vecchi che andrebbero in rovina se non spedissero lontano la popolazione in eccesso come facciamo noi. Stati molto, molto vecchi! Ti prego, Tish, dimmi: ritieni saggio che i vecchi cerchino di fare le capriole come i bambini? E se chiedessi loro perché lo fanno, non rideresti nel sentirti rispondere che imitando i bambini sperano di diventare bambini anch’essi? La storia antica abbonda di esempi del genere, avvenuti molte migliaia di anni or sono: ed in ogni caso, i vecchi Stati che giocavano al Koom-Posh piombavano nel Glek-Nas. Poi, inorriditi, invocavano un padrone, come un vecchio rimbambito invoca l’infermiera; e dopo una successione di padroni o di infermiere quello Stato vecchissimo spariva dalla storia. Un vecchio Stato che si affida al Koom-Posh è come un vecchio che abbatte la casa cui è abituato, ma nell’abbatterla esaurisce le sue energie, e invece di ricostruirla riesce solo ad erigere una buffa capanna, in cui egli stesso ed i suoi successori non fanno altro che lagnarsi: ‘Come soffia il vento! Come tremano le pareti!’ “. “Mio caro Taë, posso giustificare i tuoi pregiudizi, che qualunque scolaretto educato in un Koom-Posh potrebbe agevolmente contestare, anche senza essere un esperto precoce di storia antica come te.” “Io non sono affatto un esperto. Ma uno scolaretto educato nel tuo Koom-Posh chiederebbe al trisnonno o alla trisnonna di camminare a gambe in aria? E se i poveri vecchi esitassero, direbbe forse: ‘Di che avete paura? Vedete, io lo faccio benissimo’?”. “Taë, non voglio discutere con un ragazzino della tua età. Ti ripeto, tengo conto della mancanza di quella cultura che solo un Koom-Posh può impartire”. “Ed io, a mia volta”, rispose Taë, con un’aria di soave ma altera cortesia, tipica della sua razza, “non solo tengo conto del fatto che non sei stato educato tra i Vril-ya, ma ti prego di perdonarmi l’insufficiente rispetto per le abitudini e le opinioni di un così amabile... Tish!”. Avrei dovuto precisare prima che venivo comunemente chiamato Tish dal mio ospite e dai suoi familiari; era un nome cortese, anzi affettuoso, per indicare un piccolo barbaro, e letteralmente significava Ranocchietto. I bambini lo usano per le specie domestiche di rana che tengono nei loro giardini. Eravamo giunti intanto sulle rive di un lago, e Taë si soffermò ad indicarmi le devastazioni perpetrate nei campi circostanti. “Il nemico si nasconde sicuramente in queste acque”, fece. “Osserva i branchi di pesci che affollano le sponde. I pesci più grossi stanno insieme a quelli più piccoli, che costituiscono la loro preda abituale e generalmente li evitano: tutti dimenticano l’istinto alla presenza di un nemico comune. Il rettile deve appartenere certamente alla razza dei Krek-a, una classe più famelica delle altre; si dice sia fra le poche specie superstiti dei più temuti abitatori del mondo in tempi anteriori alla creazione degli Ana. L’appetito di un Krek è insaziabile... si nutre tanto di vegetali quanto di animali; ma per le creature velocissime come i cervi è troppo lento nei movimenti. Il suo boccone preferito è un An, quando riesce a sorprenderlo 45 Altra Lettura alla sprovvista, e perciò gli Ana lo uccidono senza pietà ogni volta che penetra nei loro dominii. Ho sentito dire che, quando i nostri antenati bonificarono questo territorio, tali mostri ed altri simili erano numerosi, e poiché allora non era stato scoperto il vril, molti esponenti della nostra razza vennero divorati. Fu impossibile sterminare completamente questi animali prima della scoperta che costituisce la potenza della nostra razza e ne sostiene la civiltà. Ma quando imparammo gli usi del vril, tutti gli esseri a noi nemici vennero presto annientati. Peraltro, all’incirca una volta all’anno, uno di questi rettili enormi lascia le zone selvagge e spopolate; ricordo che uno di essi uccise una giovane Gy che faceva il bagno appunto in questo lago. Se fosse stata sulla riva ed armata del suo scettro, il mostro non avrebbe osato neppure rivelarsi, perché come tutte le creature selvatiche ha un istinto prodigioso, e sta lontano da coloro che sono armati dello Scettro Vril. Come facciano ad insegnare ai piccoli ad evitarli, anche se li vedono per la prima volta, è uno di quei misteri di cui devo chiedere la spiegazione a Zee, poiché io non la conosco. Finché resterò qui, il mostro non uscirà dal nascondiglio; ma dobbiamo indurlo a venirne fuori.” “Non sarà difficile?”. “Per nulla. Siediti su quella roccia, a circa cento passi dalla riva, mentre io mi ritiro più lontano. Fra poco il rettile ti vedrà o sentirà il tuo odore e, rendendosi conto che non sei armato di vril, uscirà per divorarti. Appena sarà uscito dall’acqua, per me sarà una facile preda”. “Vorresti dire che io devo fare da esca per quell’orribile mostro che potrebbe inghiottirmi in un istante? Ti prego di dispensarmi.” Il ragazzetto rise. “Non temere”, disse. “Basta che tu stia seduto immobile.” Invece di obbedire, spiccai un balzo e stavo per darmi alla fuga, quando Taë mi toccò leggermente sulla spalla, fissandomi negli occhi, e io mi sentii inchiodato sul posto. La forza di volontà mi aveva abbandonato. Docilmente, seguii il ragazzino fino alla roccia che mi aveva indicata, e sedetti in silenzio. Molti lettori conosceranno senza dubbio gli effetti dell’elettrobiologia, autentici o spurii. Nessun professore di questa scienza discussa era mai riuscito a influenzare i miei pensieri ed i miei movimenti; ma adesso ero una macchina in balìa della volontà di quel terribile ragazzino. Poi Taë spiegò le ali, prese il volo, e atterrò in un boschetto sul ciglio di una collina piuttosto lontana. Rimasi solo e, volgendo verso il lago gli occhi, con un’indescrivibile sensazione di orrore, li tenni fissi sull’acqua, affascinato. Trascorsero forse dieci o quindici minuti, che a me parvero secoli; poi la superficie tranquilla e splendente sotto la luce dei lampioni cominciò ad agitarsi al centro. Nello stesso tempo i branchi di pesci presso la sponda intuirono l’avvicinarsi del nemico. Li vidi fuggire precipitosamente qua e là; alcuni si gettarono addirittura sulla riva. Un solco lungo, scuro, ondulato, si aprì nelle acque, muovendosi, avvicinandosi sempre di più, fino a quando emerse l’enorme testa del rettile, con le fauci irte di zanne, gli occhi cupi fissi famelicamente su di me. Posò le zampe anteriori sulla sponda... poi il petto enorme, scaglioso come una corazza ai due lati, ed al centro coperto da pelle corrugata di un giallo scuro e velenoso; poi salì sulla terraferma in tutta la sua lunghezza, cento piedi o più dalla testa alla coda. Un altro passo di quelle zampe terribili l’avrebbe portato sul punto in cui mi trovavo. Un solo istante mi separava da quella lugubre incarnazione della morte, quando nell’aria balenò un lampo, e per un momento più breve di un respiro, avviluppò il mostro. Quando il bagliore svanì, davanti a me giaceva una massa annerita, carbonizzata, fumante, gigantesca ma informe, che si disgregava rapidamente in polvere e cenere. Io rimasi seduto, ammutolito, agghiacciato da una nuova sensazione di paura: quello che prima era orrore era divenuto sgomento. Sentii la mano del bambino sulla mia testa, e la paura mi abbandonò; l’incantesimo si ruppe e mi alzai. “Hai visto con quanta facilità i Vril-ya annientano i loro nemici,” fece Taë; e dirigendosi verso la riva, contemplò i resti fumanti del mostro e disse tranquillamente: “Ho ucciso animali più grandi, ma nessuno con altrettanto piacere. Sì, è davvero un Krek: quante sofferenze deve avere inflitto da vivo!”. Poi raccolse i poveri pesci che si erano gettati sulla spiaggia, e li restituì al loro elemento natio. *** Mentre tornavamo in città, Taë si avviò per un percorso diverso e più lungo, per mostrarmi quella che, usando un termine familiare, chiamerò “Stazione”: gli emigranti ed i viaggiatori usano partire da lì. In precedenza, avevo espresso il desiderio di vedere i veicoli dei Vril-ya. Constatai che erano di due tipi: uno per i viaggi di terra, l’altro per i viaggi aerei. I primi erano di ogni forma e dimensione: alcuni non più grandi di una normale carrozza, altri vere e proprie case mobili ad un piano, comprendenti diverse stanze arredate secondo il concetto di lusso e di comodità tipico dei Vril-ya. I veicoli aerei erano di materiali leggeri e non somigliavano affatto ai nostri aerostati, bensì alle nostre barche; erano muniti di timone ed avevano grandi ali al posto dei remi, ed una macchina centrale alimentata dal vril. Tutti i veicoli di terra ed aerei sono infatti azionati da quell’energia potente e misteriosa. Vidi un convoglio in partenza: aveva pochi passeggeri, e trasportava soprattutto merci. Era diretto ad una comunità vicina, poiché fra tutte le tribù dei Vril-ya gli scambi commerciali sono molto attivi. Posso osservare, a questo punto, che la loro moneta non consiste di metalli preziosi, 46 “La razza ventura” troppo comuni per venire utilizzati per un simile scopo. Le monete più piccole d’uso ordinario sono ricavate da una particolare conchiglia fossile, residuo relativamente scarso di qualche antico diluvio, o di altri cataclismi naturali che ne hanno sterminato la specie. È minuscola e piatta come un’ostrica, ed ha una lucentezza gemmea. Questa moneta circola fra tutte le tribù dei Vril-ya. Le transazioni commerciali più consistenti si svolgono, come da noi, per mezzo di accrediti e di sottili lastre metalliche corrispondenti alle nostre banconote. Approfitto dell’occasione per aggiungere che, nella tribù di cui fui ospite, le tasse erano considerevoli, in confronto alla popolazione. Ma non sentii mai nessuno lamentarsene, poiché le entrate fiscali venivano devolute a scopi d’utilità generale, necessari alla civiltà della tribù. Le spese per illuminare un territorio così vasto, provvedere all’emigrazione, mantenere gli edifici pubblici in cui si svolgevano le varie attività intellettuali del paese, dalla prima educazione dei bambini fino ai Dipartimenti dove il Collegio dei Saggi conduceva sempre nuovi esperimenti meccanici, erano molto ingenti e richiedevano considerevoli stanziamenti statali. Debbo aggiungere poi un particolare che mi sembrò molto singolare. Ho detto già che tutto il lavoro necessario per lo Stato viene svolto dai bambini e dai ragazzi fino all’età matrimoniabile. Lo Stato paga questo lavoro, corrispondendo retribuzioni assai più elevate di quelle in uso persino negli Stati Uniti. Secondo la teoria dei Vril-ya, ogni ragazzo, raggiungendo l’età del matrimonio e terminando il periodo di lavoro, deve aver guadagnato quanto basta per rendersi indipendente per tutta la vita. Come tutti i bambini debbono prestare servizio, quale che sia il patrimonio dei genitori, vengono del pari pagati egualmente, secondo l’età e la natura del lavoro svolto. Quando i genitori o gli amici decidono di trattenere un ragazzino al proprio servizio, sono tenuti a versare all’erario la stessa somma che lo Stato paga ai bambini al suo servizio; e la somma viene consegnata al giovane allo scadere del periodo lavorativo. Questa consuetudine, senza dubbio, contribuisce a rendere familiare e gradita la nozione dell’eguaglianza sociale; e se si può dire che tutti i bambini formano una democrazia, è altrettanto vero che tutti gli adulti formano un’aristocrazia. La squisita cortesia e la raffinatezza di modi dei Vril-ya, la generosità dei sentimenti, la libertà assoluta con cui possono seguire la loro vocazione, la bellezza dei rapporti domestici, in cui essi sembrano membri di un nobile ordine privi di diffidenza l’uno nei confronti dell’altro, tutto contribuisce a fare dei Vril-ya la più perfetta nobiltà che un discepolo politico di Platone o di Sidney21 potrebbe indicare quale ideale di una repubblica aristocratica. Dopo la spedizione che ho appena narrato, Taë venne a farmi visita spesso. Provava per me una simpatia che ricambiavo cordialmente. Anzi, poiché non aveva ancora dodici anni e non aveva iniziato il corso di studi scientifici che in quel paese concludono l’infanzia, mi sentivo intellettualmente meno inferiore, nei suoi confronti, di quanto mi sentissi nei riguardi dei membri più adulti della sua razza, in particolare le Gy-ei, e soprattutto Zee. I bambini dei Vril-ya, su cui pesano tanti doveri e tante responsabilità, in generale non sono allegri; ma Taë, nonostante la sua saggezza, aveva quel gioioso buon umore che spesso caratterizza l’uomo di genio. Nella mia compagnia trovava il piacere che nel mondo esterno un ragazzino della sua età trova nella compagnia di un cane o di una scimmietta. Si divertiva a cercare d’insegnarmi le consuetudini del suo popolo, proprio come un mio nipote si diverte ad insegnare al suo barboncino a camminare sulle zampe posteriori o a saltare il cerchio. Mi prestavo volentieri a tali esperimenti, ma non ottenevo mai il successo del barboncino. All’inizio tentai di abituarmi alle ali che anche i Vril-ya più giovani usano con l’agilità e la disinvoltura con cui i nostri bambini muovono le braccia e le gambe; ma i miei sforzi furono ricompensati soltanto da contusioni abbastanza serie da indurmi a rinunciare per la disperazione. Le ali, come ho già detto, sono molto grandi; arrivano al ginocchio, e quando non vengono usate sono tenute all’indietro in modo da formare un elegante mantello. Sono fatte con le piume di un uccello gigantesco piuttosto comune tra le alture rocciose del Paese: il colore è quasi sempre bianco, talora con striature rossicce. Sono fissate intorno alle spalle per mezzo di molle d’acciaio, leggere ma robuste e, quando vengono spiegate, le braccia s’infilano entro appositi cerchi, formanti una specie di salda membrana centrale. Quando si alzano le braccia, una fodera tubolare sotto la tunica si gonfia d’aria grazie ad un congegno meccanico, e l’afflusso aumenta o diminuisce a volontà a seconda del movimento delle braccia, così da conferire galleggiabilità alla persona. Le ali e l’apparato simile ad un pallone sono leggermente caricati di vril; e quando il corpo viene così sollevato verso l’alto, sembra perdere singolarmente di peso. Mi fu abbastanza facile alzarmi dal suolo; quando le ali erano spiegate, anzi, era praticamente impossibile non sollevarmi, ma poi venivano le difficoltà ed i pericoli. Non riuscivo a usare e ad orientare le ali, sebbene tra i miei simili venissi giudicato straordinariamente efficiente negli esercizi fisici, e fossi un nuotatore esperto. Riuscivo soltanto a compiere tentativi di volo goffi e confusi. Ero asservito alle ali, non erano le ali a servire me... non ero capace di controllarle; e quando, con una violenta tensione muscolare, causata, debbo ammetterlo, dalla paura, dominavo le loro evoluzioni e le portavo accosto al corpo, perdevo l’energia accumulata in esse e nelle vesciche, *** 47 Altra Lettura come quando l’aria esce da un aerostato, e precipitavo verso terra; agitandomi freneticamente mi salvavo dallo sfracellarmi, ma non dai lividi e dallo stordimento di una pesante caduta. Avrei comunque perseverato nei miei tentativi, se non fosse stato per il consiglio (o l’ordine) della scientifica Zee, che aveva seguito benevolmente i miei voli e che, nell’ultima occasione, lanciandosi sotto di me, mi aveva sorretto con le ali protese, impedendo così che mi spaccassi la testa sul tetto della piramide da cui eravamo partiti. “Mi rendo conto”, disse, “che i tuoi tentativi sono vani, non per colpa delle ali e dell’apparato, né per imperfezioni o malformazioni del tuo organismo, ma per un’irrimediabile carenza nella tua forza di volontà. Sappi che il rapporto tra la volontà e le energie del fluido assoggettato al dominio dei Vril-ya non fu stabilito dai primi scopritori, né realizzato in una sola generazione; è cresciuto costantemente come le altre proprietà della razza, ed è stato trasmesso uniformemente dai genitori ai figli, sino a diventare un istinto; ed un infante della nostra razza desidera inconsciamente ed intuitivamente volare, così come desidera camminare. Perciò usa le ali artificiali con la stessa sicurezza con cui un uccello usa le sue ali naturali. Non ci pensavo quando ti ho permesso di tentare l’esperimento con me, perché desideravo trovare in te un compagno. Rinuncerò all’esperimento, ora; la tua vita mi è cara”. Il volto e la voce della Gy si addolcirono, ed io mi sentii molto più allarmato che durante i voli. Ora che sto parlando delle ali, non dovrei omettere di ricordare una consuetudine delle Gy-ei, che mi sembra molto graziosa e tenera per il sentimento che esprime. Quando è ancora vergine, una Gy porta abitualmente le ali e prende parte agli sport aerei degli Ana, si avventura da sola nelle regioni più selvagge del suo mondo privo di Sole, e supera l’altro sesso per l’ardimento e l’altezza del volo, non meno che per la grazia dei movimenti. Ma dal giorno delle nozze non porta più le ali; le appende sopra il letto matrimoniale, e non le riprende più, a meno che i vincoli coniugali vengano spezzati dal divorzio o dalla morte. Quando Zee addolcì in tal modo la voce e lo sguardo, causandomi un profetico brivido d’apprensione, Taë, che ci aveva accompagnati nel volo ma che, fanciullescamente, si era divertito della mia goffaggine anziché mostrare comprensione per le mie paure, volteggiò sopra di noi, librato nell’aria immobile e radiosa sulle ali spiegate, e udendo le parole affettuose della giovane Gy, rise sonoramente e disse: “Se il Tish non riesce ad imparare l’uso delle sue ali, può esserti ancora compagno, Zee, perché tu puoi appendere le tue.” Da qualche tempo nella sapientissima e poderosa figlia del mio ospite, avevo notato quel sentimento gentile e protettivo che, alla superficie come nelle viscere della terra, la saggia Provvidenza ha dispensato alla metà femminile della razza umana. Ma l’avevo sempre attribuito a quell’affetto per gli “animali domestici” che una donna umana, a qualunque età, ha in comune con il bambino. Ora mi accorsi invece, dolorosamente, che il sentimento dimostratomi da Zee era ben diverso da quello che ispiravo a Taë. Una simile convinzione non mi diede affatto la compiaciuta soddisfazione che la vanità maschile trae solitamente da un lusinghiero apprezzamento dei suoi meriti personali da parte del gentil sesso; al contrario, m’ispirò paura. Eppure, fra tutte le Gy-ei della comunità, Zee non era solo la più sapiente e la più forte, ma anche, per riconoscimento generale, la più dolce, e senza dubbio era anche la più amata e popolare. Il desiderio di aiutare, soccorrere, proteggere, confortare, sembrava pervadere tutto il suo essere. Sebbene nel sistema sociale dei Vril-ya siano ignote le complicate infelicità originate dalla miseria e dalla colpa, nessun saggio aveva ancora scoperto nel vril un’energia capace di bandire il dolore dalla vita; e dovunque vi fosse dolore, tra la sua gente, Zee accorreva a svolgere la sua missione consolatrice. Un’altra Gy non riusciva ad ottenere l’amore dell’An per cui sospirava? Zee la cercava e usava tutte le risorse della sua conoscenza e tutte le consolazioni della sua simpatia, per alleviare un’angoscia tanto bisognosa d’una confidente. Nei rari casi in cui una malattia grave colpiva un bambino od un giovane, e in quelli ancora più rari in cui, nel duro e avventuroso apprendistato dei bambini, si verificava un incidente, Zee abbandonava gli studi e gli svaghi, e diveniva guaritrice ed infermiera. Volava spesso ai confini del territorio, dove i bambini montavano la guardia contro le forze ostili della natura o l’invasione di animali pericolosi, per avvertirli dei pericoli che la sua scienza prevedeva, e per aiutarli in caso di difficoltà. Anche nell’esercizio delle sue attività scientifiche dimostrava una grande benevolenza. Veniva a sapere di una nuova invenzione che poteva tornare utile al praticante di qualche arte speciale? Allora si affrettava a comunicargliela ed a spiegargliela. Qualche vecchio saggio del Collegio era stanco e perplesso per la fatica di uno studio astruso? Zee l’aiutava paziente, risolveva i dettagli, lo incoraggiava con il suo sorriso speranzoso, l’ispirava con luminosi suggerimenti, era per lui un buon genio. Mostrava la stessa tenerezza per le creature inferiori. So che spesso portava a casa animali malati o feriti, e li curava come una madre curerebbe il figlioletto. Molte volte mentre sedevo sul balcone, o giardino pensile, su cui si apriva la mia stanza, la vedevo innalzarsi nell’aria sulle ali radiose, e dopo pochi istanti gruppi di bambini, scorgendola dalle strade, la raggiungevano lanciandole lieti saluti, si raccoglievano *** 48 “La razza ventura” e le volteggiavano intorno, facendo di lei il centro di una gioia innocente. Quando passeggiavo con lei tra le rocce e le valli, fuori dalla città, i cervi la vedevano da lontano, o sentivano il suo odore, ed accorrevano premurosi a chiedere le sue carezze, o la seguivano fino a quando lei li congedava con un mormorio melodioso che gli animali avevano imparato a comprendere. Le vergini Gy-ei usano portare sulla fronte un cerchietto ornato di gemme simili ad opali, disposti a quattro punte, come stelle. Le gemme sono solitamente opache, ma quando vengono sfiorate dallo Scettro Vril brillano di una limpida fiamma che illumina senza bruciare: è un ornamento per le feste, ma serve anche come lampada durante i vagabondaggi allorché, spingendosi oltre la zona delle luci artificiali, si trovano ad attraversare territori bui. Talvolta, quando vedevo il viso pensoso e solenne di Zee illuminato da quell’alone, faticavo a crederla una creatura mortale, e piegavo la testa davanti a lei come fosse un essere celestiale. Ma neppure una volta il mio cuore aveva provato un sentimento d’amore umano per quello splendido, solenne ideale di femminilità. Nella razza cui appartengo, l’orgoglio dell’uomo influenza a tal punto le sue passioni che la donna perde ogni fascino ai suoi occhi se la riconosce in tutto superiore a lui. Ma per quale strana infatuazione l’impareggiabile figlia d’una razza che, per la supremazia dei poteri e la felicità delle condizioni, relegava ogni altra nella categoria della barbarie, si era degnata di onorarmi della sua preferenza? Come qualità personali, sebbene fossi ritenuto di bell’aspetto tra la mia gente, anche i più belli fra i miei compatrioti sarebbero apparsi insignificanti e scialbi accanto alla bellezza maestosa e serena che caratterizza l’aspetto dei Vril-ya. Era abbastanza probabile che la stessa differenza tra me e coloro che Zee frequentava abitualmente contribuisse a destare la sua fantasia, e come il lettore vedrà più avanti, questa causa potrebbe bastare a spiegare la predilezione accordatami da una giovane Gy, poco più che adolescente, e sotto tutti gli aspetti inferiore a Zee. Ma chiunque pensi alle tenere caratteristiche della figlia di Aph-Lin, può facilmente capire che la causa principale della mia simpatia per lei stava nel suo istintivo desiderio di confortare, proteggere, aiutare e, proteggendo, sostenere ed esaltare. Perciò, ripensandovi ora, mi spiego l’unica debolezza indegna della sua indole regale, che piegava la figlia dei Vril-ya ad un affetto femmineo per un individuo a lei tanto inferiore. Ma, qualunque fosse la causa, la coscienza di avere ispirato tale affetto mi riempiva di sgomento... un timore morale della sua stessa perfezione, dei suoi poteri misteriosi, delle diversità insuperabili tra la sua razza e la mia; ed a quel timore, debbo confessare a mia vergogna, si univa la paura più concreta ed ignobile dei pericoli cui mi avrebbe esposto la sua preferenza. Si poteva immaginare, sia pure per un momento, che i genitori e gli amici di una simile creatura potessero accettare senza indignazione e disgusto la prospettiva di un legame tra lei ed un Tish? Non potevano punirla, né confinarla o incarcerarla. I Vril-ya non riconoscono le leggi della forza, nella vita domestica come in quella politica; ma avrebbero potuto porre efficacemente fine all’infatuazione di Zee per me liquidandomi con un lampo di vril. In queste circostanze inquietanti, per fortuna, la mia coscienza ed il mio senso dell’onore erano immuni da rimproveri. Se la preferenza di Zee avesse continuato a manifestarsi, sarebbe stato chiaramente mio dovere parlarne al mio ospite, naturalmente con tutta la delicatezza che un uomo ben educato deve osservare confidando ad un altro il favore con cui una donna si degna di onorarlo. Così, in tal caso, mi sarei liberato dalla responsabilità e dal sospetto di aver fomentato i sentimenti di Zee; e la superiore saggezza del mio ospite avrebbe potuto probabilmente suggerire una via d’uscita per il mio pericoloso dilemma. Nel prendere tale decisione obbedii all’istinto normale dell’uomo civile e morale che, per quanto possa sbagliare, di solito preferisce la retta via nei casi in cui è chiaramente contrario ai suoi interessi, alle sue inclinazioni ed alla sua sicurezza scegliere la strada sbagliata. *** Come il lettore ricorderà, Aph-Lin non aveva favorito i miei rapporti con i suoi compatrioti. Sebbene fidasse nella mia promessa di astenermi dal dare informazioni sul mondo che avevo lasciato, ed ancor più nell’impegno di non interrogarmi, assunto da quanti mi conoscevano, non era del tutto sicuro che, se mi fosse stato permesso di frequentare gli estranei incuriositi dalla mia presenza, io sarei stato in grado di difendermi dalle loro domande. Quando uscivo, quindi, non ero mai solo; venivo sempre accompagnato da un familiare del mio ospite o dal mio giovane amico Taë. Bra, la moglie di Aph-Lin, si spingeva di rado oltre i giardini che circondavano la casa, e amava leggere la letteratura antica, più romanzesca ed avventurosa, che presentava immagini di una vita estranea alla sua esperienza ed interessante per la sua fantasia, una vita per la verità più simile a quella che noi conduciamo quotidianamente nel mondo esterno, colorata di sofferenze, peccati e passioni. Per lei quelle vicende erano ciò che per noi sono le favole delle Mille e una notte. Ma l’amore per la lettura non impediva a Bra di assolvere i suoi doveri quale padrona della casa più grande della città. Ogni giorno faceva il giro delle stanze, si assicurava che gli automi e gli altri apparecchi meccanici fossero in ordine, e che i numerosi bambini impiegati da Aph-Lin, nelle sue attività private e pubbliche, fossero scrupolosamente curati. Bra esaminava anche la contabilità patrimoniale, e provava grande gioia nell’aiu49 Altra Lettura tare il marito a svolgere le mansioni di amministratore del Dipartimento dell’Illuminazione; perciò i suoi impegni la trattenevano quasi sempre in casa. I due figli stavano completando gli studi al Collegio dei Saggi, ed il maggiore, che aveva una grande passione per la meccanica, soprattutto per gli automi ed i cronometri, aveva deciso di dedicarsi a questa attività; ora stava provvedendo alla costruzione di un negozio, o di un magazzino, destinato alla vendita delle sue invenzioni. Il figlio minore preferiva l’agricoltura e le attività rurali, e quando non frequentava il Collegio, dove studiava soprattutto le teorie agrarie, era molto impegnato nel mettere in pratica tale scienza nelle terre appartenenti al padre. Si può vedere come presso quel popolo vi è una completa eguaglianza sociale: un negoziante gode della stessa stima di un ricco proprietario terriero. Aph-Lin era il membro più facoltoso della comunità, eppure il suo primogenito preferiva aprire un negozio; e questa scelta non era giudicata disdicevole da nessuno. Il giovane aveva esaminato con grande interesse il mio orologio, il cui meccanismo era per lui una novità e si era dimostrato felicissimo quando glielo avevo regalato. Poco dopo, però, ricambiò il dono con gli interessi, offrendomi un orologio fatto da lui, che segnava sia il tempo del mondo esterno che quello dei Vril-ya. Ho ancora quell’orologio, che è stato molto ammirato dai migliori specialisti di Londra e di Parigi. È d’oro, con le lancette e le ore di diamanti, e suona le ore con accompagnamento di una melodia molto in voga tra i Vril-ya; è sufficiente caricarlo una volta ogni dieci mesi, e non si è mai guastato da quando lo possiedo. Poiché i due giovani fratelli erano occupati in queste attività, i miei compagni abituali, quando uscivo, erano il mio ospite o sua figlia. Ora, in armonia con le onorevoli conclusioni cui ero giunto, cominciai a trovare pretesti per non uscire solo con Zee, e approfittai dell’occasione in cui lei teneva una lezione al Collegio dei Saggi per pregare Aph-Lin di farmi visitare la sua residenza di campagna. Poiché si trovava piuttosto lontana e Aph-Lin non amava camminare, mentre io avevo rinunciato ad ogni tentativo di volare, partimmo a bordo di una delle barche aeree di proprietà del mio ospite. Il conducente era un bambino di otto anni che lavorava alle sue dipendenze. Il mio ospite ed io prendemmo posto sui cuscini; il movimento del veicolo mi parve molto agevole e comodo. “Aph-Lin”, dissi, “spero che tu non sarai irritato con me, se ti chiedo il permesso di viaggiare per qualche tempo, e di visitare altre tribù e comunità della tua razza illustre. Vorrei inoltre vedere quelle nazioni che non adottano le vostre istituzioni e che voi considerate selvagge. M’interesserebbe moltissimo notare quali differenze esistono fra loro e le razze considerate civili nel mondo da cui provengo.” “E’ assolutamente impossibile che ti rechi là solo”, rispose Aph-Lin. “Anche tra i Vril-ya saresti esposto a grandi pericoli. Certe caratteristiche di struttura e di colorito, e lo straordinario fenomeno della pelosità irsuta che ti cresce sulle guance e sul mento, indicandoti come una specie di An diverso dalla nostra razza da quelle barbare ancora esistenti, susciterebbe certo l’attenzione del Collegio dei Saggi in tutte le comunità Vril-ya che potresti visitare; e dipenderebbe dal temperamento di qualche saggio che tu venissi accolto con spirito ospitale, come è avvenuto qui, o finissi sezionato per scopi scientifici. Sappi che quando il Tur ti condusse nella sua casa, subito dopo il tuo arrivo, e Taë ti fece addormentare perché ti riprendessi dalla stanchezza e dal dolore, i saggi convocati dal Tur non erano d’accordo sul tuo conto: alcuni ti consideravano un animale innocuo, altri nocivo. Mentre eri inconscio, venne esaminata la tua dentatura, e risultò che eri non solo granivoro, ma anche carnivoro. Gli animali carnivori delle tue dimensioni vengono sempre uccisi, poiché hanno indole pericolosa e feroce. I nostri denti, come hai senza dubbio osservato, non sono simili a quelli degli esseri che si nutrono di carne. Zee ed altri filosofi sostengono, per la verità, che in tempi antichi gli Ana si nutrivano di carne, e dovevano avere dentature adatte allo scopo. In ogni caso, si sono modificate nella trasmissione ereditaria, adeguandosi al cibo di cui ora ci alimentiamo; e neppure i barbari, che ancora adottano le istituzioni turbolente e feroci del Glek-Nas, divorano la carne come belve. “Nel corso della discussione, fu proposto di sezionarti, ma Taë intercedette per te, e poiché il Tur, per dovere d’ufficio, è contrario a tutti gli esperimenti che contrastino con la nostra consuetudine di risparmiare la vita quando non sia chiaramente provato che è necessario toglierla per il bene della comunità, mandò a chiamare me che, essendo l’uomo più ricco dello Stato, ho il compito di offrire ospitalità agli stranieri venuti a lontano. Spettava a me decidere se eri uno straniero che si poteva accogliere senza pericolo. Se avessi rifiutato di accoglierti, saresti stato consegnato al Collegio dei Saggi, e preferisco non pensare a quale sarebbe potuta essere la tua sorte. “A parte i pericoli, potresti incontrare qualche bambino di quattro anni che ha appena ricevuto lo Scettro Vril e che, allarmato dal tuo strano aspetto, nell’impulso del momento, potrebbe ridurti in cenere. Lo stesso Taë stava per farlo, la prima volta che ti ha visto, se suo padre non gli avesse fermato la mano. Perciò ti dico che non puoi viaggiare solo: ma con Zee saresti al sicuro, e sono certo che ti accompagnerebbe volentieri a fare il giro delle vicine comunità dei Vril-ya... degli Stati selvaggi, assolutamente no. Glielo domanderò.” Poiché il mio scopo principale, nel proporre quel viaggio, era sfuggire Zee, mi affrettai ad esclamare: “No, ti prego, no. Rinuncio al mio progetto. Hai parlato abbastanza dei 50 “La razza ventura” pericoli per dissuadermi; e non ritengo giusto che una giovane Gy, affascinante come tua figlia, debba viaggiare in altre regioni senz’altro difensore che un Tish di forza e statura insignificanti.” Aph-Lin emise il sommesso suono sibilante che è quanto di più simile ad una risata si permetta un An adulto, poi rispose: “Perdona la mia ilarità per la tua osservazione che senza dubbio era intesa seriamente. Mi diverte assai l’idea di Zee, che ama proteggere gli altri al punto di venire chiamata ‘LA CUSTODE’ dai bambini, bisognosa di un difensore contro i pericoli causati dall’audace ammirazione dei maschi. Sappi che le Gy-ei, prima di sposarsi, sono abituate a viaggiare sole fra le altre tribù, per vedere se trovano un An che piaccia loro più di quelli conosciuti in patria. Zee ha già fatto tre di questi viaggi, ma finora il suo cuore è rimasto libero.” Mi si offriva così l’occasione che cercavo e, abbassando gli occhi, dissi con voce esitante. “Mio buon ospite, prometti di perdonarmi se quanto sto per dirti ti offenderà?”. “Basta che tu dica la verità, e non mi offenderò; se mi offendessi, toccherebbe a te perdonarmi.” “Bene, dunque, aiutami ad andarmene: per quanto mi sarebbe piaciuto vedere ancora le vostre meraviglie e godere della felicità del vostro popolo, lascia che ritorni al mio.” “Purtroppo non posso farlo; o comunque, non senza il permesso del Tur, che probabilmente non lo concederà. Tu non sei privo d’intelligenza; e forse, anche se non lo credo, hai tenuto nascosti i poteri distruttivi del tuo popolo, tanto che potresti ben presto attirare su di noi qualche pericolo; e se il Tur la pensasse così, sarebbe suo dovere ucciderti, o rinchiuderti in una gabbia per il resto della tua esistenza. Ma perché desideri abbandonare una società che, come tu stesso riconosci, è più felice della tua?”. “Oh, Aph-Lin! La mia risposta è semplice: perché non voglio, involontariamente, tradire la tua ospitalità; perché, a causa del capriccio che nel nostro mondo è proverbiale nel gentil sesso, e da cui neppure le Gy-ei sono esenti, la tua adorabile figlia potrebbe degnarsi di guardarmi come se fossi un An civile, benché io sia solo un Tish, e... e... e...”. “E corteggiarti per fare di te il suo sposo”, concluse gravemente Aph-Lin, senza dar segno di sorpresa o d’irritazione. “L’hai detto tu.” “Sarebbe una sfortuna”, riprese il mio ospite, dopo una pausa, “e ritengo che tu abbia agito giustamente avvertendomi. Come hai accennato, non è raro che una Gy nubile abbia gusti che ad altri appaiono capricciosi; ma non c’è nulla che possa indurre una giovane Gy ad un comportamento contrario a quello da lei prescelto. Possiamo soltanto cercare di ragionare con lei, e l’esperienza c’insegna che l’intero Collegio dei Saggi contenderebbe invano con una Gy nelle questioni relative alla sua scelta in amore. Mi addoloro per te, poiché tale matrimonio sarebbe contrario all’Aglauran, il bene della comunità, dato che i figli di tale connubio inquinerebbero la razza, e potrebbero addirittura venire al mondo con denti da animali carnivori, e questo non è ammissibile. Zee, in quanto Gy, non può essere controllata; ma tu, che sei un Tish, puoi venire distrutto. “Ti consiglio quindi di resistere alle sue insistenze; di dirle chiaramente che non puoi ricambiare il suo amore. Sono cose che avvengono di continuo. Molti Ana, sebbene corteggiati ardentemente da una Gy, la respingono e pongono fine alle sue insistenze sposando un’altra. Tu puoi fare la stessa cosa.” “No, poiché non posso sposare un’altra Gy senza danneggiare egualmente la comunità ed esporla al rischio di ritrovarsi con figli carnivori.” “È vero. Tutto ciò che posso dire, e lo dico con la tenerezza dovuta a un Tish, ed il rispetto dovuto a un ospite, francamente è questo: se cedi, finirai incenerito. Debbo lasciare a te la scelta del modo di difenderti. Forse avresti fatto meglio a dire a Zee che è brutta. Di solito questa affermazione, sulle labbra di colui che corteggia, basta ad agghiacciare anche la Gy più ardente. Ma ecco, siamo arrivati alla mia casa di campagna.” *** Confesso che la mia conversazione con Aph-Lin e l’estrema calma con cui si era dichiarato incapace di controllare il pericoloso capriccio della figlia ed aveva prospettato l’idea che la mia persona troppo seducente finisse ridotta in cenere a causa della fiamma amorosa di lei, mi tolsero il piacere che altrimenti avrei provato nell’ammirare la residenza di campagna del mio ospite e la sorprendente perfezione dei macchinari che provvedevano alle attività agricole. La casa aveva un aspetto diverso dall’edificio massiccio e un po’ cupo che Aph-Lin abitava in città, e che sembrava simile alle rocce da cui era stata ricavata la città. Le pareti della residenza di campagna erano formate da alberi situati a pochi metri l’uno dall’altro: gli interstizi erano riempiti dalla sostanza metallica trasparente che presso gli Ana sostituisce il vetro. Gli alberi erano tutti in fiore, e l’effetto era molto piacevole, anche se non d’ottimo gusto. Fummo accolti sulla veranda dagli automi, i quali ci condussero in una stanza quale non avevo mai visto, ma che avevo talora immaginato sognando nei giorni d’estate. Era un pergolato, per metà stanza e per metà giardino. Le pareti erano una massa di fiori rampicanti. Gli spazi che noi chiamiamo finestre erano aperti, poiché le lastre metalliche erano state fatte rientrare. Mostravano vari paesaggi: alcuni rivelavano parte dell’ampio pa51 Altra Lettura norama con i laghi e le rocce, altri piccoli tratti limitati, simili ai nostri vivai, pieni di filari di piante in fiore. Lungo i lati della camera c’erano aiuole inframmezzate da cuscini. Al centro c’era una cisterna ed una fontana di quel liquido che presumo fosse nafta. Era luminoso ed aveva un colore rosato, e da solo bastava a rischiarare la stanza con un tenue bagliore, senza bisogno di lampade. La fontana era cinta da un soffice tappeto di licheni, non verdi (non ho mai veduto questo colore nelle vegetazione del mondo sotterraneo), ma di un marrone riposante su cui l’occhio si posava con lo stesso senso di sollievo che dà, nel mondo esterno, la contemplazione del verde. Negli incavi che si aprivano sui vivai fioriti c’erano innumerevoli uccelli canori che, durante la nostra permanenza nella stanza, cantarono quelle melodie per cui vengono meravigliosamente addestrati. Il tetto era aperto. L’intera scena era incantevole per tutti i sensi: la musica degli uccelli, la fragranza dei fiori, e la bellezza in ogni suo aspetto. C’era un’atmosfera di serenità voluttuosa. Che posto ideale, pensai, per una luna di miele, se una Gy fosse stata un po’ meno terribilmente armata non solo dei diritti femminili, ma anche dei poteri dell’uomo! Ma quando si pensa ad una Gy, così colta, alta, maestosa, così superiore alla media delle donne com’era Zee... no, anche se non avessi temuto di venir ridotto in cenere, non avrei sognato lei in quel pergolato creato appositamente per i sogni dell’amore poetico. Gli automi ricomparvero, servendoci una di quelle bevande deliziose che presso i Vril-ya sostituiscono il vino. “In verità”, dissi, “è una residenza deliziosa, e non capisco perché tu non ti stabilisca qui, invece che nelle dimore più tetre della città.” “Nella mia qualità di responsabile dell’amministrazione della luce per la mia comunità, sono obbligato a risiedere soprattutto in città, e posso venire qui soltanto per brevi periodi.” “Ma poiché tu stesso mi hai detto che al tuo incarico non spettano onori, mentre comporta qualche preoccupazione, per quale motivo l’accetti?”. “Ognuno di noi obbedisce senza discutere al comando del Tur; egli ha detto: ‘Si richiede che Aph-Lin sia Commissario della Luce’, perciò non ho avuto scelta. Ma poiché ormai ho coperto questa carica per molto tempo, le preoccupazioni, che all’inizio non mi erano gradite, sono divenute, se non piacevoli, almeno sopportabili. Tutti noi siamo condizionati dalla consuetudine... anche la diversità tra la nostra razza ed i selvaggi non è altro che la continuità ereditaria delle consuetudini che finisce per entrare a far parte della nostra natura. Vi sono Ana che si riconciliano persino con le responsabilità della magistratura suprema; ma nessuno lo farebbe se i suoi doveri non fossero stati resi tanto lievi, o se le sue richieste venissero poste in discussione.” “Neppure se giudicaste tali richieste inopportune od ingiuste?”. “Non ci permettiamo di pensarla così, e per la verità ogni cosa procede come se tutti si governassero secondo una consuetudine antichissima.” “Quando il magistrato supremo muore o si ritira, in che modo gli trovate un successore?” “L’An che ha assolto per molti anni i doveri di magistrato supremo è la persona più indicata per scegliere qualcuno che possa comprendere i suoi compiti, ed è generalmente lui a nominare il successore.” “Magari suo figlio?”. “Molto di rado; infatti non è una carica desiderata e ricercata, e naturalmente un padre esita a costringere il figlio. Ma se il Tur rifiuta di compiere la scelta, per timore che si pensi ad un suo motivo di rancore nei confronti del prescelto, allora tre membri del Collegio dei Saggi tirano a sorte fra di loro per stabilire chi avrà il potere di eleggere il sommo magistrato. Noi riteniamo che il giudizio di un normale An sia migliore di quello di tre o più, per quanto possano essere saggi; perché fra tre persone potrebbero insorgere dispute, e quando vi sono dissidi le passioni obnubilano il giudizio. La scelta peggiore, compiuta da colui che non ha motivi di scegliere male, è meglio della scelta migliore effettuata da molti che hanno motivi per non scegliere bene.” “Nella politica, voi sovvertite le massime adottate nel mio Paese.” “E nel tuo Paese, siete tutti soddisfatti di coloro che vi governano?”. “Tutti? Certamente no; i governanti che piacciono di più ad alcuni piacciono pochissimo ad altri.” “Allora il nostro sistema è migliore del vostro.” “Per voi può essere così; ma secondo il nostro sistema, un Tish non verrebbe incenerito se una donna lo costringesse a sposarla: e, come Tish, aspiro a ritornare al mio mondo.” “Fatti coraggio, mio caro, piccolo ospite. Zee non può costringerti a sposarla. Può solo indurti a farlo. Non lasciarti tentare. Ora vieni a vedere la mia tenuta.” Uscimmo in un recinto fiancheggiato da capanni: infatti, sebbene gli Ana non tengano bestiame da macello, allevano certi animali per mungerne il latte e per tosarne il vello. I primi non somigliano alle nostre mucche, ed i secondi sono diversi dalle nostre pecore; non credo neppure che tali specie esistano nel mondo sotterraneo. I Vril-ya usano il latte di tre varietà di animali: uno somiglia all’antilope, ma è molto più grande, essendo alto come un cammello; gli altri due sono più piccoli e, sebbene siano piuttosto diversi fra loro, non assomigliano a nessuna creatura che io abbia veduto sulla superficie. Sono assai snelli e torniti; hanno il colore dei daini, musi molto miti e bellissimi occhi scuri. Il latte di questi tre animali è di52 “La razza ventura” verso per ricchezza e sapore. Di solito viene diluito con acqua, e insaporito con il succo di un frutto profumato: è molto nutriente e gradevole. L’animale la cui lana viene usata per gli abiti e molte altre cose, somiglia abbastanza alla capra italiana, ma è parecchio più grande; non ha le corna, né lo sgradevole odore delle nostre capre. Il vello non è fitto, ma lunghissimo e fine; ha vari colori, ma non è mai bianco, di solito ha toni ardesia o lavanda. Per gli indumenti viene tinto nei colori più adatti ai gusti di chi li porta. Questi animali erano molto domestici e venivano trattati con straordinaria premura ed affetto dai bambini (quasi tutte femmine) che li curavano. Visitammo poi immensi magazzini pieni di cereali e frutta. Posso osservare che il nutrimento principale di questo popolo consiste innanzi tutto d’una sorta di grano assai più grande del nostro, e che mediante la coltivazione viene continuamente portato a nuove varietà di sapori; ed in secondo luogo di un frutto grosso all’incirca quanto un piccolo arancio che, al momento della raccolta, è duro ed amaro. Viene poi conservato per molti mesi nei magazzini e diventa saporito e tenero. Il succo, di colore rossocupo, entra nella composizione di quasi tutte le salse. Vi sono molte varietà di frutti simili alle olive, da cui si estraggono olii deliziosi. C’è una pianta che somiglia un po’ alla canna da zucchero, ma ha un succo meno dolce e dal profumo delicato. Non vi sono api né altri insetti che producono miele, ma i Vril-ya fanno molto uso di una gomma dolce che scaturisce da una conifera non diversa dall’araucaria. Il suolo offre anche radici succulente e verdure, che le colture cercano di variare e migliorare al massimo. Non ricordo un solo pasto, tra questa gente, anche se limitato ai membri della famiglia, in cui non venisse introdotta qualche delicata novità in fatto di cibo. Come ho già osservato, la cucina è squisita, e così diversificata e nutriente che non si sente la mancanza di cibi animali, e la prestanza fisica dei Vril-ya basta a dimostrare che, almeno nel loro caso, la carne non è necessaria per favorire la muscolatura. Non esiste l’uva: le bevande estratte dai frutti sono analcoliche e rinfrescanti. Quella più comune, comunque, è l’acqua; nella scelta sono molto schizzinosi, e sanno distinguere subito la minima impurità. “Il mio secondo figlio trova grande piacere nell’aumentare la nostra produzione”, disse Aph-Lin mentre visitavamo i magazzini. “Perciò erediterà queste terre, che costituiscono la parte più cospicua della mia ricchezza. Per il primogenito tale eredità causerebbe fastidio ed afflizione.” “Tra voi vi sono molti figli convinti che ereditare una grande ricchezza sia un’afflizione?”. “Certamente; molti dei Vril-ya ritengono che un patrimonio superiore alla media sia un pesante fardello. Dopo l’infanzia, noi siamo piuttosto pigri, e non amiamo addossarci più preoccupazioni del necessario, ed una grande ricchezza ne dà molte. Per esempio, ci rende eligibili per le cariche pubbliche, che nessuno ama e che nessuno può rifiutare. Questo ci obbliga a interessarci continuamente degli affari dei compatrioti più poveri, per prevedere le loro esigenze ed evitare che cadano in miseria. Abbiamo un vecchio proverbio che dice: ‘Il bisogno del povero è la vergogna del ricco...’ “. “Perdonami se t’interrompo per un momento. Dunque, ammetti che persino tra i Vril-ya alcuni conoscono il bisogno e necessitano di aiuto?”. “Se per bisogno intendi la miseria prevalente in un Koom-Posh, tra noi non è possibile, a meno che un An, con dissennata prodigalità, abbia perduto tutti i suoi mezzi, non voglia o non possa emigrare, e abbia esaurito l’aiuto affettuoso dei parenti e degli amici, oppure rifiuti di accettarlo.” “Ebbene, allora, perché non prende il posto di un bambino o di un automa, e non diventa un operaio... un servitore?”. “No. Noi lo consideriamo uno sventurato dalla ragione menomata e, a spese dello Stato, lo alloggiamo in un edificio pubblico, dove gode delle comodità e del lusso che possono mitigare la sua afflizione. Ma un An non ama essere considerato privo di ragione, e perciò tali casi sono così infrequenti che l’edificio pubblico di cui ti ho parlato è oggi un rudere abbandonato; l’ultimo ospite fu un An che ricordo di aver visto nella mia infanzia. Sembrava non si fosse reso conto di aver perduto la ragione, e scriveva glaubs, poesia. Quando ho parlato di bisogni, mi riferivo ai desideri che talvolta un An può nutrire al di sopra dei suoi mezzi: uccelli canori costosi, o case più grandi, o giardini in campagna; e il modo più ovvio per soddisfarli consiste nel comprare da lui qualcosa che egli vende. Perciò gli Ana molto ricchi, come me, sono obbligati ad acquistare molte cose di cui non hanno bisogno, e vivono su scala grandiosa, anche se ne preferirebbero una più modesta. Per esempio, la grandezza della mia casa di città è fonte di grandi fastidi per mia moglie, e persino per me; ma sono costretto a tenere una residenza così grande e scomoda perché, essendo l’An più ricco della comunità, ho il compito di ospitare gli stranieri che ci fanno visita, e che vengono in gran folla due volte l’anno, quando vi sono certi festeggiamenti periodici, e tutti i parenti sparsi nei vari domini dei Vril-ya si riuniscono lietamente per qualche tempo. L’ospitalità su scala tanto ampia non è di mio gusto, perciò sarei stato più felice se fossi stato meno ricco. Ma tutti noi dobbiamo accettare la sorte assegnataci in questo breve transito nel tempo che chiamiamo vita. Dopotutto, cosa sono cento anni, più o meno, in confronto alle epoche che dovremo vivere dopo? Fortunatamente, ho solo un figlio che ama la ricchezza. Rappresenta una rara eccezione alla regola generale, ed ammetto di non capirlo...”. Dopo questa conversazione cercai di tornare sull’argo53 Altra Lettura mento che continuava a pesarmi sul cuore, cioè la possibilità di sottrarmi a Zee. Ma il mio ospite rifiutò educatamente di riprendere la discussione e chiamò la barca aerea. Durante il viaggio di ritorno ci venne incontro Zee, che, uscita dal Collegio dei Saggi e scoperta la nostra partenza, aveva spiegato le ali per venirci a cercare. Il suo volto maestoso, ma per me non affascinante, s’illuminò nel vedermi e, accostandosi alla barca ad ali spiegate, disse in tono di rimprovero ad Aph-Lin: “Oh, padre, ti è parso giusto rischiare la vita del tuo ospite, facendolo salire su un veicolo cui non è abituato? In seguito ad un movimento incauto, potrebbe precipitare: e ahimé, diversamente da noi, non ha le ali. Se precipitasse, morirebbe. Caro”, aggiunse, rivolgendosi a me con voce più dolce, “non hai pensato a me, rischiando una vita divenuta quasi parte della mia? Non essere mai più così avventato, a meno che io ti accompagni. Come mi hai spaventata!”. Sbirciai furtivamente Aph-Lin, aspettandomi che almeno rimproverasse indignato la figlia per quelle espressioni d’ansia e d’affetto che, in ogni circostanza, nel mondo esterno sarebbero state considerate sconvenienti sulle labbra d’una giovane donna se rivolte ad uomo che non fosse il fidanzato, anche se appartenente dello stesso rango. Ma nel mondo sotterraneo i diritti femminili sono così ben saldi (soprattutto il privilegio del corteggiamento), che Aph-Lin non avrebbe pensato di rimproverare la figlia più di quanto potesse pensare di disobbedire al Tur. In quel territorio, come aveva detto egli stesso, la consuetudine è tutto. Aph-Lin rispose in tono mite: “Zee, il Tish non ha corso alcun pericolo, e sono convinto che sappia benissimo badare a se stesso.” “Preferirei che lasciasse a me il compito di badare a lui. Oh, cuore del mio cuore, pensando al tuo pericolo ho compreso per la prima volta quanto ti amo!”. Nessun uomo si era mai sentito, credo, in una posizione altrettanto falsa. Quelle parole erano state pronunciate a voce alta, in modo che potesse udirle il padre di Zee ed un bambino che passava di lì in volo. Arrossii di vergogna per loro e per lei, e non seppi trattenermi dal rispondere indispettito: “Zee, o ti fai beffe di me, e questo non ti si addice poiché sono ospite di tuo padre, oppure le parole che hai pronunciato non sono tali che una giovane Gy possa rivolgere ad un An, anche di sua scelta, se egli non l’ha corteggiata con il consenso dei genitori di lei. Ed è tanto più disdicevole rivolgerle a un Tish che non ha mai presunto di sollecitare il tuo affetto, e non potrà mai guardarti con altri sentimenti che reverenza e timore!”. Aph-Lin mi fece nascostamente un cenno d’approvazione, ma non disse nulla. “Non essere così crudele!”, esclamò Zee, sempre con voce sonante. “Come può dominarsi un amore sincero? Credi che una giovane Gy nasconda un sentimento che l’esalta? Da che razza di Paese sei venuto?”. A questo punto Aph-Lin s’intromise gentilmente: “Fra i Tish-a i diritti del tuo sesso non sembrano riconosciuti, ed in ogni caso il mio ospite potrà conversare più liberamente con te se non sarà frenato dalla presenza di altri.” Zee non rispose ma, lanciandomi un’occhiata di affettuoso rimprovero, agitò le ali e volò verso casa. “Avevo fatto conto su qualche aiuto da parte del mio ospite”, dissi amaramente, “nei pericoli cui mi espone sua figlia.” “Ti ho dato tutto l’aiuto che potevo. Contraddire una Gy nei suoi affari di cuore significa rafforzare i suoi propositi: non ammette che un consiglio si frapponga tra lei ed il suo affetto.” *** Quando scendemmo dalla barca aerea, un bambino si avvicinò ad Aph-Lin, nell’atrio, riferendogli che era stato pregato di presenziare alle esequie di un parente morto di recente. Io non avevo mai visto cimiteri o sepolcreti in quel luogo e, lieto di un’occasione sia pure malinconica per procrastinare l’incontro con Zee, chiesi ad Aph-Lin se potevo assistere con lui alla sepoltura del suo parente; a meno che, naturalmente, fosse considerata una di quelle cerimonie sacre cui non sono ammessi gli stranieri. “La dipartita di un An per un mondo più felice,” rispose il mio ospite, “quando, come nel caso del mio parente, ha vissuto così a lungo in questo da perderne il piacere, è piuttosto una festa lieta e tranquilla che non una cerimonia sacra: perciò puoi accompagnarmi, se lo desideri.” Preceduti dal bambino messaggero, ci avviammo per la via principale e raggiungemmo una casa poco lontana. Fummo condotti in una stanza al piano terreno, dove trovammo parecchie persone radunate intorno al giaciglio su cui stava il defunto. Era un vecchio che, mi dissero, aveva superato i centotrent’anni. A giudicare dal sorriso sereno, si era spento senza soffrire. Uno dei figli, che adesso era diventato il capo della famiglia e sembrava nella più vigorosa maturità sebbene avesse passato la settantina, si fece avanti con volto lieto e disse ad Aph-Lin che, il giorno prima di morire, suo padre aveva visto in sogno la sua defunta Gy, ed era ansioso di ricongiungersi con lei, restituito alla giovinezza sotto il sorriso della Bontà Suprema. Mentre i due parlavano, la mia attenzione fu colpita da uno scuro oggetto metallico in fondo alla stanza. Era lungo circa tre metri, largo in proporzione, e tutto chiuso: ma sul lato superiore c’erano piccoli fori rotondi da cui filtrava una luce rossa. Dall’interno emanava un profumo intenso e dolce; e mentre mi chiedevo a quale scopo poteva 54 “La razza ventura” servire la macchina, tutti gli orologi della città suonarono i loro melodiosi rintocchi musicali; e quando quel suono cessò, una musica più gioiosa, ma di una gioia sommessa e tranquilla, echeggiò nella camera in uno squillo corale. In sintonia con quella melodia, tutti i presenti levarono la voce in un canto. Le parole dell’inno erano semplici. Non esprimevano dolore né un addio, ma piuttosto un saluto al nuovo mondo in cui il defunto aveva preceduto i viventi. Nella lingua dei Vril-ya, in effetti, l’inno funebre viene chiamato Canto natale. Poi il cadavere, coperto da un lungo sudario, venne sollevato premurosamente da sei parenti stretti e portato verso l’oggetto scuro che ho già descritto. Mi feci avanti per vedere cosa sarebbe accaduto. Venne sollevato un pannello scorrevole ad una estremità, il corpo fu deposto all’interno, su di un ripiano; lo sportello si chiuse, venne premuto un pulsante laterale e dall’interno uscì un fruscio improvviso. Ed ecco, lo sportello all’estremità opposta della macchina si abbassò, ed una manciata di polvere fumante cadde in una patera pronta ad accoglierla. Il figlio prese la patera e disse, secondo quella che (come appresi più tardi) era la formula consueta: “Vedete quant’è grande il Creatore: a questa polvere Egli aveva dato forma, vita ed anima. Egli non ha bisogno di questa poca polvere per rendere forma e vita ed anima al nostro caro che presto rivedremo.” Tutti i presenti chinarono il capo, premendosi una mano sul cuore. Poi una bambina aprì uno sportello della parete, ed io vidi in quel vano, i ripiani su cui erano posate numerose patere simili a quella retta dal figlio del morto: quelle, tuttavia, erano coperte. Una Gy si avvicinò al figlio portando un coperchio, e lo posò sulla coppa, facendo scattare una molla. Sul coperchio erano incisi il nome del defunto e queste parole: “A noi prestato” (seguiva la data di nascita) e “Ritolto a noi” (seguiva la data della morte). Lo sportello si chiuse con un suono musicale, e tutto finì. vostra consuetudine è orribile e ripugnante, e serve ad associare la morte a pensieri lugubri ed atroci. Inoltre, a mio parere, è importante conservare il ricordo del nostro parente od amico nella casa in cui viviamo. Così sentiamo meglio che egli vive ancora, sebbene non sia più visibile per noi. Ma in questo i nostri sentimenti, come in tutto il resto, sono dettati dalla consuetudine. Un saggio An non cambia le consuetudini come non le cambia una saggia Comunità, senza la più solenne deliberazione seguita dalla convinzione più ardente. Solo così il cambiamento cessa di essere volubilità, e una volta compiuto rimane per sempre.” Quando tornammo a casa, Aph-Lin convocò alcuni dei bambini al suo servizio e li mandò da vari suoi amici, invitandoli per le Ore Tranquille ad una festa in onore del ritorno del suo parente alla Bontà Suprema. Fu la riunione più affollata e gaia cui ebbi modo di assistere durante il mio soggiorno tra gli Ana, e durò fino alle Ore Silenziose. Il banchetto era stato apparecchiato in una grande sala riservata alle solennità. Era diverso dai nostri, e ricordava piuttosto i banchetti dell’epoca più sontuosa dell’Impero Romano. Non c’era una sola grande tavola, ma numerosi tavolini, ognuno dei quali era apparecchiato per otto ospiti. Si ritiene infatti che, se si supera questo numero, la conversazione languisce e l’amicizia si raffredda. Gli Ana non ridono mai forte, come ho già osservato, ma il suono lieto delle voci intorno alle varie tavole attestava gaiezza. Poiché i Vril-ya non hanno bevande stimolanti, e sono molto temperati nei cibi pur scelti e squisiti, il banchetto non durò a lungo. Le tavole sprofondarono nel pavimento, e cominciarono i trattenimenti musicali per coloro che li gradivano. Molti, tuttavia, si allontanarono; alcuni dei giovani presero il volo, poiché la sala non aveva tetto, e improvvisarono danze aeree; altri passeggiarono per i diversi appartamenti, esaminando gli oggetti curiosi che vi erano raccolti, o si riunirono in gruppi per dedicarsi a vari giochi: il prediletto è una complicata sorta di scacchi, cui partecipano otto persone. Mi mescolai alla folla, ma la costante compagnia dell’uno o dell’altro dei figli del mio ospite m’impedì di partecipare alle conversazioni: i due giovani avevano ricevuto dal padre l’incarico di tenermi lontano dalle domande indiscrete. Gli ospiti, peraltro, mi notarono appena; si erano abituati al mio aspetto, poiché mi vedevano spesso per la strada, e non suscitavo più la loro curiosità. Con mia grande gioia, Zee mi evitava, e cercava di suscitare la mia gelosia dimostrando una spiccata attenzione per un An giovane e bellissimo che (sebbene rispondesse ad occhi bassi ed arrossendo, secondo il moderno costume dei maschi avvicinati dalle femmine, e fosse timido e pudico come le giovanette lo sono in quasi tutto il mondo civile, eccettuate l’Inghilterra e l’America) era chiaramente affascinato dalla Gy, e pronto a balbettare un modesto “sì” *** Questa,” dissi io, con la mente piena di ciò che avevo visto, “questa, presumo, è la vostra forma consueta di esequie?”. “E’ la nostra forma invariabile,” rispose Aph-Lin. “Presso il tuo popolo, qual è?”. “Seppelliamo il corpo nella terra.” “Come! Degradare la forma che avete amato ed onorato, la moglie sul cui seno avete dormito, abbandonandola all’orrore della putrefazione?”. “Ma se l’anima continua a vivere, che importa se il corpo si consuma nella terra o viene ridotto ad un pizzico di polvere da quel terribile meccanismo, senza dubbio alimentato dall’energia del vril?”. “La tua risposta è giusta,” disse il mio ospite, “ed è inutile discutere nelle questioni del sentimento; ma per me la 55 Altra Lettura se lei gli avesse proposto di sposarla. Augurandomi fervidamente che lei lo facesse, e sempre più avverso all’idea di finire in cenere dopo aver visto con quanta rapidità un corpo umano poteva venire trasformato in un pizzico di polvere, mi divertii ad osservare il comportamento degli altri giovani. Ebbi la soddisfazione di vedere che Zee non era la sola assertrice dei più apprezzati diritti femminili. Ovunque volgessi gli occhi e gli orecchi, mi pareva che fosse la Gy a corteggiare, mentre l’An era sempre timido e riluttante. Le graziose arie d’innocenza che un An si dava nel venire così corteggiato, e la destrezza con cui evitava di rispondere direttamente a dichiarazioni d’affetto, o volgeva in scherzo i complimenti lusinghieri a lui rivolti, avrebbero fatto onore alla civetta più raffinata. I miei due accompagnatori erano spesso oggetto di tali seducenti attenzioni, ed entrambi si destreggiavano con tatto ed autocontrollo ammirevoli. Dissi al figlio maggiore, che preferiva le attività meccaniche alla direzione d’una grande proprietà terriera e che aveva un temperamento eminentemente filosofico: “Trovo difficile capire come alla tua età, sotto gli inebrianti effetti della musica, delle luci e dei profumi, tu possa mostrarti così freddo con quella Gy appassionata che ti ha appena lasciato, con gli occhi pieni di lacrime per la tua crudeltà.” Il giovane An rispose con un sospiro: “Mio caro Tish, la più grande sfortuna nella vita è sposare una Gy quando sei innamorato di un’altra.” “Oh! Sei innamorato di un’altra?”. “Ahimé, sì.” “E lei non ricambia il tuo amore?”. “Non so. Talvolta uno sguardo, una parola me lo fanno sperare; ma non mi ha mai detto apertamente di amarmi.” “Non le hai sussurrato all’orecchio che tu l’ami?”. “Oh, no! Cosa credi? Da che mondo provieni? Come potrei tradire la dignità del mio sesso? Come potrei essere così poco mascolino, così svergognato, da dichiarare il mio amore ad una Gy prima che questa l’abbia dichiarato a me?”. “Perdonami: non sapevo che spingessi tanto lontano il pudore del tuo sesso. Ma non accade mai che un An dica ad una Gy ‘Ti amo’, prima che lei l’abbia detto a lui?”. “Non posso affermare che nessun An l’abbia mai fatto: ma quando ciò avviene, lui è disonorato agli occhi degli Ana, e disprezzato segretamente dalle Gy-ei. Nessuna Gy ben educata gli darebbe ascolto; penserebbe che ha violato temerariamente i diritti del sesso più forte, oltraggiando il pudore che si addice al suo. È un vero tormento,” continuò l’An, “perché colei che amo non corteggia nessun altro, e non posso fare a meno di pensare che io le piaccio. Talvolta sospetto che non mi corteggi perché teme che avanzerei pretese irragionevoli circa le rinunce ai suoi diritti. Ma in tal caso, non può amarmi veramente, perché quando una Gy ama rinuncia a tutti i diritti.” “E questa giovane Gy è presente?”. “Oh, sì. E’ seduta laggiù, e parla con mia madre.” Guardai nella direzione indicatami e vidi una Gy vestita di rosso vivo: presso quel popolo, ciò indica che preferisce ancora restare nubile. Una Gy si veste di grigio, una tinta neutra, per indicare che sta cercando uno sposo; porpora scuro per far capire che ha già compiuto una scelta; porpora e arancione quando è fidanzata o sposata; celeste quando è divorziata o vedova e desidera risposarsi. Naturalmente, il celeste è un colore che si vede di rado. In una razza dove tutti sono bellissimi, è difficile trovare qualcuno che si distingua per bellezza. La prescelta del mio giovane amico mi sembrò possedesse un aspetto normale; ma sul suo volto c’era un’espressione che mi piacque più di quella delle altre Gy-ei in generale, perché mi pareva meno ardita, meno conscia dei diritti femminili. Notai che, mentre parlava a Bra, di tanto in tanto guardava di sottecchi il mio giovane amico. “Coraggio,” feci, “quella giovane Gy ti ama.” “Ah, ma se non me lo dirà, a che servirà anche se mi ama?”. “Tua madre sa del tuo affetto?”. “Forse sì. Non gliene ho mai parlato. Sarebbe poco virile confessare tale debolezza ad una madre. L’ho detto a mio padre; può che darsi che lui l’abbia rivelato a sua moglie.” “Mi permetti di lasciarti per un momento e di accostarmi a tua madre e alla tua amata? Sono sicuro che stanno parlando di te. Non esitare. Ti prometto che non mi lascerò interrogare fino a quando tornerò da te.” Il giovane An si posò una mano sul cuore, mi toccò leggermente la testa, e mi lasciò andare. Inosservato, mi portai furtivamente dietro sua madre e la sua prediletta, e ascoltai ciò che dicevano. Stava parlando Bra: “Non ci sono dubbi; o mio figlio, che è di età matrimoniabile, si lascerà convincere a sposare una delle molte corteggiatrici, oppure emigrerà lontano e non lo vedremo più. Se davvero gli vuoi bene, mia cara Lo, dovresti dichiararti.” “Gli voglio bene, Bra: ma non so se riuscirò davvero a conquistare il suo affetto. Ama le sue invenzioni ed i suoi orologi. Io non sono come Zee; sono così poco brillante che non potrei occuparmi dei suoi interessi preferiti, e allora si stancherebbe di me, allo scadere dei tre anni divorzierebbe, ed io non potrei mai sposare un altro... mai.” “Non è necessario intendersi d’orologi per sapersi rendere necessaria alla felicità di un An, al punto che lui preferirebbe rinunciare agli orologi piuttosto che divorziare dalla sua Gy. Vedi, mia cara Lo,” continuò Bra, “proprio perché noi siamo il sesso più forte, dominiamo l’altro, a patto che non mostriamo mai la nostra forza. Se tu fossi superiore a 56 “La razza ventura” mio figlio nell’inventare orologi ed automi, dovresti, una volta diventata sua moglie, lasciargli sempre credere che lo ritieni migliore di te in quell’arte. L’An ammette tacitamente la superiorità della Gy in tutto, fuorché nella sua specifica vocazione. Ma se lei lo supera in questo, o non mostra di ammirarlo per la sua competenza, non l’amerà a lungo; forse può arrivare persino a divorziare. Ma se una Gy ama veramente, impara presto ad amare ciò che è caro al suo An.” A queste parole, la giovane Lo non rispose. Abbassò lo sguardo pensosa; poi un sorriso le sfiorò le labbra. Si alzò, in silenzio, e passò tra la folla, fermandosi accanto al giovane An che l’amava. La seguii, per discrezione mi fermai però ad una certa distanza, e li osservai. Con mia sorpresa, fino a quando ricordai la tattica della timidezza adottata dagli Ana, l’innamorato parve accogliere le attenzioni di Lo con aria indifferente. Si allontanò persino, ma lei lo seguì; e poco dopo, entrambi spiegarono le ali e sparirono lassù, nell’aria luminosa. In quel momento, mi si avvicinò il magistrato supremo, che si mescolava alla folla senza divenire oggetto di manifestazioni particolari di deferenza o d’omaggio. Non avevo veduto il dignitario dal giorno in cui ero entrato nel mondo dei Vril-ya, e ricordando quanto mi aveva detto Aph-Lin, circa i suoi terribili dubbi sulla sorte da destinarmi, mi sentii scosso da un brivido alla vista del suo viso sereno. “Ho saputo molte cose sul tuo conto, straniero, da mio figlio Taë,” esordì il Tur, posando educatamente la mano sulla mia testa. “Ama molto la tua compagnia, e spero che le consuetudini del nostro popolo non ti dispiacciano.” Mormorai una risposta incomprensibile, che voleva essere una protesta di gratitudine per le gentilezze che avevo ricevuto dal Tur, e di ammirazione per i suoi compatrioti, ma la visione del coltello sezionatore mi brillava davanti all’occhio della mente e soffocava le mie parole. Una voce più dolce disse: “L’amico di mio fratello deve essere caro anche a me.” Alzai la testa e vidi una giovane Gy, che poteva avere sedici anni: stava accanto al magistrato e mi guardava con estrema benevolenza. Non aveva ancora finito di crescere, e non era più alta di me (cioè, un metro e ottanta centimetri); grazie a quella statura modesta, mi parve la Gy più incantevole che avessi veduto. Immagino che l’espressione dei miei occhi rivelasse quell’impressione, perché il suo volto divenne ancora più benevolo. “Taë mi ha detto”, proseguì lei, “che non ti sei ancora abituato alle ali. Questo mi addolora, perché mi sarebbe piaciuto volare insieme con te.” “Ahimè,” risposi, “non posso sperare di poter mai godere di tale felicità. Zee mi assicura che l’uso disinvolto delle ali è un dono ereditario, e dovrebbero trascorrere intere generazioni prima che uno della mia razza potesse lanciarsi nell’aria come un uccello”. “Non addolorarti troppo,” rispose l’amabile principessa. “Infatti, dopotutto, verrà un giorno in cui Zee ed io dovremo abbandonare le ali per sempre. Forse quando verrà quel giorno, saremmo liete se l’An da noi scelto fosse anch’egli privo d’ali.” Il Tur si era allontanato, perdendosi tra la folla. Cominciavo a sentirmi a mio agio con l’affascinante sorella di Taë, e la sbalordii alquanto con l’ardire del mio complimento, rispondendo che “nessun An da lei prescelto si sarebbe mai servito delle ali per volare lontano”. È così contrario alla consuetudine che un An dica cose del genere ad una Gy se questa non gli ha dichiarato il suo amore e non è stata accettata come fidanzata, che la fanciulla restò sconcertata per qualche istante. Tuttavia non mi parve dispiaciuta. Si riprese, e mi invitò ad accompagnarla in una delle sale meno affollate, ad ascoltare il canto degli uccelli. La seguii, e mi condusse in una stanza quasi deserta. Al centro, una fontana di nafta lanciava il suo zampillo; intorno c’erano soffici divani, e da un lato la parete si apriva su una voliera dove gli uccelli cantavano i loro cori melodiosi. La Gy sedette su un divano, ed io presi posto accanto a lei. “Taë mi ha detto”, esordì, “che Aph-Lin ha stabilito come legge della sua casa, che tu non venga interrogato circa il paese da cui provieni e le ragioni della tua visita. È vero?”. “Sì.” “Posso almeno, senza violare tale legge, chiedere se le Gy-ei del tuo Paese hanno il tuo stesso colorito pallido, e non sono più alte?”. “Non credo, o bella Gy, di violare la legge di Aph-Lin, per me vincolante, se rispondo a domande tanto innocenti. Le Gy-ei del mio Paese hanno un colorito assai più chiaro del mio, e la loro statura media è inferiore alla mia almeno di tutta la testa.” “Allora non sono forti come gli Ana, tra voi? Ma immagino che la loro superiore energia vril compensi questo straordinario svantaggio.” “Non usano l’energia del vril come fate voi. Tuttavia sono molto potenti, nel mio Paese, ed un An ha poche possibilità di essere felice, se non si lascia più o meno governare dalla sua Gy.” “Tu parli con sentimento,” disse la sorella di Taë, in tono un po’ triste ed un po’ petulante. “Sei sposato, naturalmente?”. “No... certamente no.” “Fidanzato?”. “Neppure fidanzato.” “Possibile che nessuna Gy ti abbia fatto proposte di matrimonio?”. “Nel mio Paese non è la Gy a farle: è l’An a dichiararsi per primo.” “Che strana inversione delle leggi di natura!”, esclamò la 57 Altra Lettura fanciulla. “E che mancanza di pudore nel tuo sesso! Ma tu non ti sei mai dichiarato, non hai mai amato una Gy più di un’altra?”. Mi sentii imbarazzato da quelle domande ingenue e dissi: “Perdonami, ma temo che stiamo cominciando a violare l’ingiunzione di Aph-Lin. Posso dire solo questo, in risposta, e poi, ti supplico, non chiedermi altro. Una volta, provai quella preferenza di cui parli; mi dichiarai, e la Gy mi avrebbe accettato volentieri, ma i suoi genitori rifiutarono il consenso.” “I genitori! Vuoi dire davvero che i genitori possono interferire nelle scelte delle loro figlie?”. “Sì, possono farlo, e lo fanno molto spesso.” “Non mi piacerebbe vivere in quel Paese,” disse la Gy, semplicemente. “Ma spero che tu non vi ritorni mai.” Chinai il capo in silenzio. La Gy mi rialzò con fare gentile, il volto con la destra e mi guardò teneramente. “Resta con noi,” disse. “Resta con noi e lasciati amare.” Tremo ancora oggi al pensiero di ciò che avrei potuto rispondere, al pericolo che avrei potuto correre di venir trasformato in cenere, quando la luce della fontana di nafta fu oscurata dall’ombra di un paio d’ali; e Zee scendendo dal tetto aperto atterrò accanto a noi. Non disse una parola ma, prendendomi il braccio con la mano possente, mi trascinò via, come fa una madre con il figlioletto capriccioso, e mi condusse in uno dei corridoi: poi, salendo su uno dei meccanismi che i Vril-ya preferiscono generalmente alle scale, raggiungemmo la mia stanza. Zee, allora, mi soffiò sulla fronte, mi toccò il petto con lo scettro, e io precipitai immediatamente in un sonno profondo. Quando mi svegliai, dopo diverse ore, e udii il canto degli uccelli nella vicina voliera, il ricordo della sorella di Taë, del suo aspetto dolce e delle sue parole carezzevoli tornò vivido alla mia mente, e per uno nato e cresciuto nella società del mondo esterno è così difficile liberarsi delle idee ispirate dalla vanità e dall’ambizione che mi accorsi di costruire istintivamente arditi castelli in aria. “Anche se sono un Tish,” pensai, “anche se sono un Tish, è chiaro che Zee non è l’unica Gy che la mia persona può attrarre. Evidentemente sono amato da UNA PRINCIPESSA, la prima fanciulla di questa terra, figlia del Monarca assoluto, la cui autocrazia qui cercano invano di camuffare con il titolo repubblicano di magistrato supremo. Se non fosse comparsa all’improvviso quell’orribile Zee, la Dama Reale mi avrebbe fatto una dichiarazione formale; e anche se Aph-Lin, che è solo un ministro subordinato, un semplice Commissario della Luce, minaccia di uccidermi se accetto la mano di sua figlia, un Sovrano, la cui parola è legge, potrebbe costringere la comunità ad abrogare la consuetudine che vieta le nozze con gli appartenenti ad una razza straniera e che contraddice la loro vantata eguaglianza sociale. “Non posso credere che sua figlia, la quale ha parlato con tanto incredulo disprezzo dell’interferenza dei genitori, non abbia influenza sufficiente sul regale padre per salvarmi dalla combustione cui mi condannerebbe Aph-Lin. E se avessi l’onore di simili nozze, chissà, forse il Monarca mi sceglierebbe come successore. Perché no? Ben pochi, in questa razza indolente di filosofi, amano il peso di tanta grandezza. Tutti sarebbero compiaciuti di vedere il potere supremo nelle mani di uno straniero che ha esperienza di altre e più vivaci forme d’esistenza; e, una volta prescelto, quante riforme potrei introdurre! Quante modifiche alla vita di questo reame piacevole ma troppo monotono potrei apportare! Io amo gli sport all’aria aperta. Dopo la guerra, il passatempo preferito dei re non è forse la caccia? Quante varietà di selvaggina abbondano in questi territori sotterranei! Come sarebbe interessante abbattere animali che nel mondo esterno si sono estinti prima del Diluvio! Ma come? Con il terribile vril, che non potrò mai usare efficacemente a causa di una carenza ereditaria? No: con un civile, comodo fucile, che questi meccanici ingegnosi potrebbero non solo costruire, ma anche perfezionare: ne ho visto sicuramente uno nel Museo. Come sovrano assoluto, anzi, rinnegherei completamente il vril, tranne in caso di guerra. “A proposito di guerra, è assurdo limitare un popolo così intelligente, così ricco e ben armato, ad un territorio sufficiente appena per dieci o dodicimila famiglie. Tale restrizione è solo un congegno filosofico, in contrasto con le aspirazioni della natura umana, come è stato tentato parzialmente nel mondo esterno, e con insuccesso totale, dal signor Robert Owen. Naturalmente non si fa guerra alle nazioni vicine altrettanto bene armate; ma ci sono le regioni abitate da razze che non conoscono il vril e che, per le istituzioni democratiche, assomigliano ai miei compatrioti americani. Si potrebbe invadere le loro terre senza offendere le nazioni del vril nostre alleate, ed estendersi fino alle regioni più lontane del mondo sotterraneo, regnando così su un impero dove il Sole non tramonta mai. (Nel mio entusiasmo, dimenticavo che in quel mondo il Sole non c’era). In quanto all’assurda idea di non concedere gloria e fama ad un individuo eminente perché gli onori causano concorrenza per assicurarseli, suscitano passioni scatenate e guastano la felicità della pace... ebbene, è contraria non solo alla natura umana ma anche a quella degli animali che, se addomesticabili, sono sensibili alla lode ed all’emulazione. Quale fama conquisterebbe un re che ampliasse il suo impero! Verrei considerato un semidio.” Pensando all’adozione delle credenze che, senza dubbio, noi cristiani accettiamo con fermezza ma non prendiamo mai in considerazione, decisi che la filosofia più illuminata mi obbligava ad abolire una religione pagana e superstiziosa in netto contrasto con il pensiero moderno e la realtà pratica. Riflettendo su questi vari progetti, sentivo che 58 “La razza ventura” in quel momento mi sarebbe piaciuto molto ravvivare il mio spirito con un buon bicchiere di whisky-and-water. Non bevo abitualmente alcolici, ma vi sono senza dubbio momenti in cui uno stimolante, accompagnato da un sigaro, accende l’immaginazione. Sì: certamente tra quelle erbe e quei frutti ne esisteva qualcuno da cui si poteva estrarre un piacevole liquido vinoso; e con una bistecca di cervo (ah, che offesa per la scienza rifiutare il cibo animale che i nostri migliori medici raccomandano ai succhi gastrici dell’umanità!) l’ora del pasto sarebbe trascorsa in modo certamente più lieto. E poi, al posto degli antiquati drammi rappresentati da bambini dilettanti, quando fossi divenuto re avrei introdotto la nostra opera moderna e i nostri corpi di ballo, per i quali avrei potuto trovare, nelle nazioni che avrei conquistato, giovani donne di statura meno formidabile e di muscolatura meno tremenda delle Gy-ei... non armate di vril e non intestardite a sposare un uomo contro la sua volontà. Ero completamente assorto nel pensiero di queste ed altre riforme politiche, sociali e morali, destinate ad arrecare al popolo del mondo sotterraneo le gioie della civiltà conosciuta dalle razze del mondo esterno, e non mi resi conto neppure che Zee era entrata nella stanza; me ne avvidi solo quando udii un profondo sospiro e, alzando gli occhi, la vidi ritta accanto al mio giaciglio. È superfluo aggiungere che, secondo i costumi di quel popolo, una Gy può, senza venir meno al decoro, far visita ad un An nella sua camera, mentre un An verrebbe giudicato sfrontato e immodesto al massimo se entrasse nella stanza di una Gy senza aver prima ottenuto il permesso. Per fortuna ero ancora completamente vestito come nel momento in cui Zee mi aveva deposto sul letto. Mi sentii tuttavia molto irritato e scandalizzato della sua visita e le chiesi in tono brusco cosa voleva. “Parla dolcemente, carissimo, ti supplico,” disse lei, “perché sono molto infelice. Non ho dormito, da quando ci siamo separati.” “Un debito senso di vergogna per la tua condotta nei confronti di un ospite di tuo padre dovrebbe bastare a scacciare il sonno dalle tue palpebre. Dov’è l’affetto che pretendi di provare per me, dov’è la cortesia di cui i Vrilya si vantano, se approfittando della forza fisica del tuo sesso, e dei detestabili, empi poteri conferiti dalle energie del vril ai tuoi occhi ed alle tue dita, mi hai esposto all’umiliazione di fronte ai tuoi visitatori, ed a Sua Altezza Reale... voglio dire, la figlia del vostro magistrato supremo, trascinandomi a letto come un bambino cattivo e facendomi addormentare senza chiedere il mio consenso?”. “Ingrato! Mi rimproveri le mie attestazioni d’amore? Pensi che, anche se non fossi stata tormentata dalla gelosia che accompagna l’amore fino a quando svanisce nella beata certezza di aver conquistato il cuore del prediletto, avrei potuto essere indifferente ai pericoli cui le audaci propo- ste di quella sciocca bambina potrebbero esporti?”. “Basta! Poiché sei tu a parlare di pericoli, forse è giusto dirti che quelli più immediati mi vengono da te, o almeno mi verrebbero se credessi al tuo amore ed accettassi la tua corte. Tuo padre mi ha detto chiaramente che in tal caso verrei ridotto in cenere senza alcun rimorso, come se fossi il rettile che Taë ha annientato con un lampo del suo scettro.” “Non devi permettere che queste paure raffreddino il tuo cuore,” esclamò Zee, gettandosi in ginocchio e avviluppando la mia destra nella sua grande mano. “E’ vero, certo, che non possiamo sposarci come coloro che appartengono alla stessa razza; è vero che l’amore tra noi deve essere puro come quello che, secondo la nostra fede, esiste tra gli innamorati ricongiunti nella nuova vita dopo la fine di questa. Ma non è una felicità abbastanza grande essere insieme, sposati nella mente e nel cuore? Ascoltami: ho appena lasciato mio padre: acconsente alla nostra unione a queste condizioni. Ho abbastanza influenza sul Collegio dei Saggi perché chieda al Tur di non interferire nella libera scelta d’una Gy, purché le sue nozze con l’esponente di un’altra razza siano soltanto un matrimonio di anime. Oh, pensi che il vero amore abbia bisogno di un’unione ignobile? Io non desidero solo essere al tuo fianco in questa vita, e partecipare alle tue gioie ed ai tuoi dolori; chiedo un legame che ci unisca per sempre nel mondo degli immortali. Mi rifiuti?”. Si era inginocchiata, mentre parlava, e l’espressione del suo volto era completamente cambiata: non c’era più severità, ed una luce divina, simile a quella degli immortali, s’irradiava dalla sua umana bellezza. Tuttavia m’incuteva timore come un angelo, anziché commuovermi come una donna; e dopo una pausa imbarazzata, balbettai espressioni evasive di gratitudine e cercai, con la massima delicatezza, di farle capire che la mia posizione sarebbe stata umiliante, se fossi divenuto un marito che non avrebbe mai potuto essere padre. “Ma,” disse Zee, “questa comunità non rappresenta tutto il mondo. No: e non tutte le popolazioni sono comprese nella lega dei Vril-ya. Per amor tuo rinuncerò al mio paese e alla mia gente. Voleremo insieme in una regione dove sarai al sicuro. Sono abbastanza forte per portarti in volo attraverso i deserti; sono abbastanza abile per aprire tra le rocce valli in cui costruiremo la nostra casa. La solitudine ed una capanna con te varrebbero per me più della società e dell’universo. Oppure preferisci tornare al tuo mondo della superficie, esposto all’incertezza delle stagioni, e illuminato soltanto dalle mutevoli sfere che, a quanto hai detto tu stesso, costituiscono il carattere capriccioso di quelle zone selvagge? In tal caso, parla, ed io aprirò la via al tuo ritorno, per essere la tua compagna lassù, compagna, là come qui, solo della tua anima, per giungere con te nel mondo in cui non vi è separazione né morte.” 59 Altra Lettura Non potei fare a meno di sentirmi profondamente commosso dalla tenerezza, così pura ed appassionata, con cui venivano pronunciate quelle parole, e dalla voce che avrebbe reso musicale anche i suoni più rozzi della lingua più rude. Per un momento, pensai che avrei potuto servirmi dell’aiuto di Zee per tornare rapidamente e senza rischi al mondo esterno. Ma una breve riflessione bastò a mostrarmi che sarebbe stato un modo ben meschino e disonorevole di ricambiare tanta devozione, se avessi allontanato dal suo popolo e dalla sua casa, dove ero stato trattato ospitalmente, una creatura che l’avrebbe trovato orribile, per il cui amore, sterile anche se spirituale, non sarei stato capace di rinunciare all’affetto più umano di compagne meno superiori a me. A questo sentimento di dovere nei confronti della Gy si univa quello nei confronti della razza cui appartenevo. Potevo azzardarmi ad introdurre nel mondo esterno una creatura dalle doti cosi formidabili... un essere che con un movimento dello scettro poteva ridurre New York ed il suo glorioso Koom-Posh in un pizzico di polvere? Se le avessi sottratto lo scettro, con la sua scienza avrebbe potuto facilmente costruirne un altro; e tutto il suo organismo era carico delle folgori mortali che armavano quel sottile strumento. Tanto pericolosa per le città e le popolazioni del mondo esterno, come poteva essere una compagna fidata per me, se il suo affetto fosse cambiato, o fosse stato amareggiato dalla gelosia? Questi pensieri, che richiedono tante parole per venire espressi, mi passarono rapidi per la mente e decisero la mia risposta. “Zee,” dissi con tutta la dolcezza possibile, posando rispettosamente le labbra sulla mano in cui era sparita la mia, “Zee, non so trovare la parole adatte per dirti quanto sono commosso ed onorato da un amore così disinteressato e generoso. Posso ricambiarlo solo con la più assoluta franchezza. Ogni nazione ha i suoi costumi. Le consuetudini della tua non ti permettono di sposarmi; quelle della mia sono altrettanto contrarie ad un’unione fra razze così diverse. D’altra parte, sebbene il coraggio non mi manchi tra il mio popolo o tra i pericoli che conosco, non posso, senza un brivido d’orrore, pensare a costruire una casa nel cuore di un tremendo caos, con tutti gli elementi della natura, il fuoco e l’acqua ed i gas mefitici, in guerra tra loro, e con la probabilità che prima o poi, mentre tu fossi occupata a squarciare le rocce o a trasmettere il vril alle lampade, io venissi divorato da un krek che le tue attività hanno disturbato. Io sono soltanto un Tish, e non merito l’amore di una Gy così intelligente, dotta e potente come te. Sì, non merito tale amore, perché non posso contraccambiarlo.” Zee mi lasciò la mano, si alzò, e distolse il viso per nascondere le sue emozioni; poi attraversò in silenzio la stanza e si fermò sulla soglia. All’improvviso, come spinta da un nuovo pensiero, tornò al mio fianco e disse bisbigliando: “Mi hai detto che avresti parlato con perfetta franchezza. E allora rispondi con perfetta franchezza a questa domanda: se non puoi amare me, ami un’altra?” . “Certamente no.” “Non ami la sorella di Tae?” “Non l’avevo mai vista prima di ieri sera.” “Non è una risposta. L’amore è più fulmineo del vril. Tu esiti a dirmelo. Non credere che sia soltanto la gelosia a indurmi a metterti in guardia. Se la figlia del Tur ti dichiarasse amore, se nella sua ignoranza confidasse al padre la preferenza e lo convincesse delle sue intenzioni di corteggiarti, egli non avrebbe altra scelta che richiedere la tua immediata eliminazione, poiché ha il compito di vegliare sul bene della comunità, e questo non permette ad una figlia dei Vril-ya di sposare un figlio dei Tish-a, nel senso di un matrimonio che non si limiti ad un’unione delle anime. Ahimé, in tal caso non avresti via di scampo. Lei non ha abbastanza forza per trasportarti in volo nell’aria; non conosce la scienza per creare una casa nelle località desolate e selvagge. Credimi: è la mia amicizia che ti parla, non la gelosia.” Con queste parole, Zee mi lasciò. E ricordandole, non pensai più a salire sul trono dei Vril-ya, né alle riforme politiche, sociali e morali che avrei potuto istituire nella mia qualità di Sovrano Assoluto. *** Dopo la conversazione con Zee che ho appena riferito, caddi in uno stato di profonda malinconia. L’interesse curioso con cui in precedenza avevo osservato la vita e le abitudini di quella meravigliosa comunità era svanito. Non potevo scacciare dalla mente la consapevolezza di trovarmi in mezzo a gente che, sebbene mite e cortese, poteva annientarmi da un momento all’altro, senza scrupoli né rimorsi. La vita virtuosa e pacifica che, sebbene tanto nuova per me, mi era sembrata così santa in confronto ai dissidi, le passioni ed i vizi del mondo esterno, cominciò ad opprimermi, a darmi un senso di cupezza e di monotonia. Anche la serena tranquillità dell’aria luminosa deprimeva il mio spirito. Aspiravo ad un cambiamento, fosse pure l’inverno, un temporale o l’oscurità. Cominciai a pensare che, quali che siano i nostri sogni di perfezione, le nostre irrequiete aspirazioni ad una sfera dell’essere migliore, più alta e serena, noi mortali del mondo esterno non siamo abituati né adatti a godere a lungo la stessa felicità che sognamo. Ed era curioso notare come la società dei Vril-ya riuscisse a unire ed armonizzare in un unico sistema quasi tutti i fini che i vari filosofi del mondo esterno hanno additato alle speranze umane quali ideali di un futuro utopistico. Era uno Stato in cui la guerra, con tutte le sue calamità, veniva ritenuta impossibile, in cui la libertà di ognuno 60 “La razza ventura” era garantita al massimo, senza quelle animosità che nel mondo esterno fanno dipendere la libertà dalla perpetua lotta. Qui la corruzione che degrada le democrazie era sconosciuta quanto i malcontenti che minano i troni delle monarchie. Qui l’eguaglianza non era un nome, era una realtà. I ricchi non erano perseguitati, poiché non erano invidiati. Qui i problemi connessi alle classi lavoratrici, fino a questo momento insolubili nel mondo esterno, dove provocano tanto risentimento, venivano risolti nel modo più semplice: si faceva completamente a meno di una classe lavoratrice a sé stante. Le invenzioni meccaniche, costruite in base a principi per me incomprensibili, azionate da un’energia infinitamente più potente e più agevole da usare di quelle dell’elettricità e del vapore, guidate da bambini le cui forze non venivano mai sfruttate eccessivamente, e che amavano la loro attività come uno sport ed un passatempo, bastavano a creare una ricchezza pubblica così volta al bene di tutti che non esistevano malcontenti. I vizi che corrompono le nostre città lì non esistevano. I divertimenti abbondavano, ma erano tutti innocenti, non conducevano all’ubriachezza, al disordine, alle malattie. Esisteva l’amore, ardente nel corteggiamento, ma una volta realizzato era fedele. L’adultero, il libertino, la prostituta erano fenomeni ignoti in quella comunità, al punto che per trovare le parole corrispondenti sarebbe stato necessario frugare una letteratura antiquata, composta millenni prima. Coloro che nel mondo esterno studiano le filosofie teoretiche sanno che tutte queste strane deviazioni dalla via della civiltà realizzano idee esposte, costruite, ridicolizzate e contestate, talvolta messe parzialmente alla prova, e tuttora esposte in libri fantastici, ma senza mai dare risultati pratici. Né questi erano tutti i passi verso la perfettibilità teorica compiuti dalla comunità. Cartesio riteneva che fosse possibile prolungare la vita dell’uomo, non all’infinito almeno su questa terra, ma intanto fino a quella che egli chiamava l’età dei patriarchi e che indicava tra i cento ed i centocinquant’anni. Ebbene, anche questo sogno dei saggi lì si era realizzato, al punto che il vigore della maturità durava anche dopo il secolo. A questa longevità si univa una benedizione anche più grande, la costante salute. Le malattie venivano eliminate con l’applicazione scientifica dell’energia, datrice di vita non meno che distruttrice, tipica del vril. Anche questa idea non è ignota sulla superficie, sebbene sia generalmente condivisa soltanto dagli entusiasti e dai ciarlatani, e promani da nozioni confuse sul mesmerismo, la forza odica, e così via. Trascurando i congegni tipo le ali, che, come ogni scolaretto sa, nel nostro mondo non sono state realizzate nonostante gli sforzi compiuti fin dai tempi mitici e preistorici, passo ora ad una questione molto delicata, di re- cente prospettata come essenziale alla perfetta felicità della nostra specie da due delle influenze più inquietanti e potenti della nostra società: la Donna e la Filosofia. Mi riferisco ai Diritti delle Donne. Ora, i nostri giuristi sostengono che è inutile parlare di diritti se non esistono i poteri corrispondenti per imporli; e nel mondo esterno, per una ragione o per l’altra l’uomo, nella sua forza fisica, nell’uso delle armi offensive e difensive, quando giunge ad un contesto personale, può sempre dominare le donne, come regola generale. Ma presso questo popolo non vi sono dubbi circa i diritti femminili perché, come ho detto, la Gy, dal punto di vista fisico, è più grande e forte dell’An; e poiché la sua volontà è anche più risoluta, ed essenziale nell’uso del vril, ella può usare su di lui, assai più di quanto sia possibile il contrario, l’energia mistica che l’arte sa estrarre dalle proprietà occulte della natura. Perciò tutto quello che le nostre filosofe femministe chiedono nel mondo esterno è accordato normalmente in questo Stato felice. Oltre ai poteri fisici, le Gy-ei (almeno in gioventù) possiedono un’acuta aspirazione alla cultura che supera quella del maschio; quindi sono loro gli eruditi, i professori... insomma, la parte colta della comunità. Naturalmente, in questa società la femmina, come ho dimostrato, conferma il suo privilegio più prezioso, quello di scegliere e corteggiare il compagno. Senza tale privilegio disprezzerebbe tutti gli altri. Ora, nel mondo esterno, noi presumeremmo non a torto che una femmina tanto potente e privilegiata, dopo averci intrappolati e sposati, fosse imperiosa e tirannica. Ma le Gy-ei non sono così; quando si sposano, appendono le ali al chiodo, e nessun poeta potrebbe immaginare, nella sua visione della felicità coniugale, compagne più amabili, compiacenti e docili, più comprensive, più disposte ad assecondare i gusti ed i capricci relativamente frivoli dei mariti. Infine, tra le caratteristiche più importanti dei Vril-ya, in confronto alla nostra umanità, e più importanti anche per i riflessi sulla loro vita e sulla pace dei loro Stati, vi è la fede universale nell’esistenza di una Divinità benevola e misericordiosa, ed in un mondo futuro in confronto alla cui durata un secolo o due sono momenti troppo brevi per sprecarli inseguendo la gloria, il potere o la ricchezza; ed a questa concordanza se ne unisce un’altra: poiché non possono conoscere nulla della natura della Divinità, a parte la sua suprema bontà, né del mondo futuro oltre il fatto della sua felice esistenza, la loro ragione impedisce le dispute accanite e le domande che non trovano risposta. In tal modo essi assicurano al loro Stato sotterraneo ciò che nessuna comunità ha mai conseguito sotto la luce delle stelle: tutte le gioie e le consolazioni d’una religione, senza i mali e le calamità causate dalle lotte tra una fede e l’altra. Sarebbe quindi assolutamente impossibile negare che 61 Altra Lettura l’esistenza dei Vril-ya sia, nel complesso, incommensurabilmente più felice di quella delle razze del mondo della superficie; realizzando i sogni dei nostri più ardenti filantropi, si avvicina piuttosto alla concezione poetica di un ordine angelico. Eppure, se prendeste mille esseri umani, scelti tra i migliori e più filosofi che potreste trovare a Londra, Parigi, Berlino, New York e persino Boston, e li collocaste come cittadini di questa beata comunità, sono convinto che in meno di un anno morirebbero di noia, o tenterebbero una rivoluzione contraria al bene dello Stato, e finirebbero ridotti in cenere su richiesta del Tur. Non voglio certo insinuare, con il mio racconto, un disprezzo ignorante verso la razza cui appartengo. Al contrario, mi sono sforzato di chiarire che i principi regolanti il sistema sociale dei Vril-ya vietano loro di produrre quegli esempi individuali di grandezza umana che adornano gli annali del mondo esterno. Dove non vi sono guerre non possono esservi generali, come un Annibale, un Washington, un Jackson, uno Sheridan; dove gli Stati sono così felici da non temere pericoli e da non desiderare cambiamenti, non possono produrre giuristi quali un Demostene, un Webster, un Sumner, un Wendell Holmes o un Butler; e dove una società raggiunge un livello morale dove non esistono crimini né affanni da cui la tragedia possa estrarre pietà e dolore, né vizi o follie su cui la commedia possa profondere una gaia satira, perde la possibilità di generare scrittori quali uno Shakespeare od un Molière, od una Beecher Stowe. Ma, non intendo disprezzare i miei simili del mondo esterno dimostrando fino a che punto le motivazioni che muovono le energie e le ambizioni degli individui in una società in lotta si placano o si annullano in una società che mira ad assicurare a tutti la calma, innocente felicità che noi attribuiamo agli immortali; e neppure, d’altra parte, voglio presentare la comunità dei Vril-ya come forma ideale di società politica, cui dovrebbero tendere i nostri sforzi riformatori. Al contrario, è perché noi nel corso dei secoli abbiamo mescolato gli elementi del carattere umano in modo che sarebbe per noi impossibile adottare i modi di vita dei Vril-ya, o riconciliare con essi le nostre passioni, che giunsi alla convinzione che questo popolo, benché in origine non solo appartenesse alla razza umana ma, come mi sembra chiaro dalle radici linguistiche, discendesse dagli stessi antenati della grande famiglia ariana da cui, in vari rivoli, è derivata la civiltà dominante del mondo, ed avendo, secondo i miti e la storia, attraversato fasi sociali simili alle nostre, si fosse ormai evoluto in una specie distinta con cui nessuna comunità del mondo esterno avrebbe potuto amalgamarsi; e che se i Vril-ya fossero usciti dai loro recessi sotterranei alla luce del giorno, secondo la tradizionale fede nel loro destino supremo, avrebbero annientato e sostituito le nostre varietà umane. Si può dire, siccome più di una Gy poteva concepire una predilezione per un tipo comune della razza del mondo esterno quale io sono, che, se anche i Vril-ya fossero usciti alla luce nel Sole, avremmo potuto salvarci dallo sterminio mediante la fusione delle razze. Ma si tratta di una convinzione troppo ardita. I casi di questa mesaillance sarebbero rari quanto i matrimoni misti tra gli emigranti anglosassoni ed i pellerossa. Né vi sarebbe tempo per stabilire rapporti di familiarità. I Vril-ya, uscendo alla superficie, e indotti dal fascino del cielo rischiarato dal Sole a formare colonie, comincerebbero subito la loro opera di distruzione, s’impadronirebbero dei territori già coltivati, e senza scrupolo eliminerebbero quanti si opponessero all’invasione. E considerando il loro disprezzo per le istituzioni del Koom-Posh o Governo Popolare, ed il valore pugnace dei miei amati compatrioti, credo che se i Vril-ya comparissero nella Libera America (che, essendo la parte migliore della terra abitabile, essi presceglierebbero senza alcun dubbio), e dicessero: “Prendiamo questa parte del globo; cittadini di un Koom-Posh, lasciate il posto allo sviluppo della specie dei Vril-ya”, i miei coraggiosi compatrioti combatterebbero, e nel volgere di una settimana non ne resterebbe vivo uno solo per reggere il vessillo a Stelle e Strisce. Vedevo poco Zee, tranne durante l’ora dei pasti, quando si riuniva tutta la famiglia, e si mostrava sempre riservata e taciturna. Perciò erano svaniti i timori dei pericoli causati da un affetto che non avevo incoraggiato né meritato, ma il mio avvilimento cresceva. Mi struggevo dal desiderio di tornare al mondo esterno, ma invano mi tormentavo il cervello cercando un modo di riuscirvi. Non potevo mai uscire da solo, e quindi non potevo neppure visitare il luogo in cui ero caduto, per vedere se era possibile risalire. E nelle Ore Silenziose, quando tutta la casa dormiva, non avrei potuto scendere dal piano dove si trovava la mia stanza. Non sapevo comandare gli automi che stavano ironicamente in attesa del mio cenno accanto alla parete, e non sapevo quali molle attivavano le piattaforme che sostituivano le scale. Oggi sono certo che tutto questo mi era stato nascosto di proposito. Oh, se avessi potuto imparare a servirmi delle ali, di cui poteva disporre ogni bambino, allora sarei fuggito dalla finestra, avrei raggiunto le rocce, e sarei salito attraverso il crepaccio che le pareti perpendicolari non permettevano di scalare! *** Un giorno, mentre ero solo nella mia stanza, rimuginando questi pensieri, Taë entrò in volo dalla finestra aperta e si posò sul divano accanto a me. Mi rallegravo sempre delle visite del ragazzo, in compagnia del quale, pur sentendomi umiliato, ero meno eclissato di quanto lo ero quando mi trovavo insieme agli Ana che avevano com62 “La razza ventura” pletato la loro educazione. E poiché ero autorizzato ad uscire insieme a lui, e desideravo rivisitare il luogo in cui ero sceso nel mondo sotterraneo, mi affrettai a chiedergli se era disposto ad una passeggiata fuori città. Il suo volto mi parve più serio del solito, quando rispose: “Sono venuto appunto per invitarti ad uscire.” Scendemmo per la strada, e non ci eravamo allontanati molto dalla casa quando incontrammo cinque o sei Gyei, che tornavano dai campi con cestelli pieni di fiori, cantando in coro. Una giovane Gy canta più spesso di quanto parli. Nel vederci si fermarono, si rivolsero a Taë con l’abituale tenerezza ed a me con la cortese galanteria che distingue le Gy-ei nel loro comportamento verso il nostro sesso debole. Posso osservare che, sebbene una vergine Gy sia così franca nel corteggiare il suo prediletto, non vi è nulla che si avvicini a quella maniera chiassosa con cui le giovani donne anglosassoni indicate con l’epiteto di “fast”, trattano i giovani gentiluomini che non dichiarano di amare. No: il contegno delle Gy-ei nei confronti dei maschi, abitualmente, è simile a quello degli uomini ben educati del nostro mondo verso le signore che essi rispettano ma non corteggiano: deferente, complimentoso, squisitamente educato... noi lo definiremmo “cavalleresco”. Rimasi certo un po’ sconcertato dalle molte frasi cortesi rivolte al mio amour propre da quelle giovani e gentili Gyei. Nel mondo da cui provengo, un uomo si sarebbe sentito trattato con ironia se avesse udito, come accadde a me, complimenti per la freschezza della mia carnagione, per la scelta dei colori dell’abbigliamento e per le conquiste che avevo fatto alla festa di Aph-Lin. Ma io sapevo già che tale linguaggio corrisponde a quello che i francesi chiamano banal; e dimostrava semplicemente, da parte delle Gy-ei, quel desiderio di apparire amabili che, nel mondo esterno, per il costume arbitrario e la trasmissione ereditaria è tipico degli uomini. E come nel nostro mondo una fanciulla ben educata, abituata a tali complimenti, capisce che non può ricambiarli senza sfidare il decoro, e non può trarre una grande soddisfazione nel riceverli, così io, che avevo imparato le buone maniere nella casa di un ricco e dignitoso Ministro di quella nazione, potevo soltanto sorridere e declinare graziosamente i complimenti che mi venivano rivolti. Mentre stavamo parlando, la sorella di Taë doveva averci visti dalle finestre’ del Palazzo Reale, situato all’ingresso della città, perché si lanciò in volo e discese al centro del gruppo. Si rivolse a me, pur con l’inimitabile deferenza di modi che ho chiamato “cavalleresca”, ma non senza una certa bruschezza di tono che sir Philip Sidney avrebbe definito “rustica” se usata con il sesso debole, e mi disse: “Perché non vieni mai a trovarci?” Mentre pensavo alla risposta più adatta da dare a tale domanda inattesa, Taë si affrettò a dire severamente: “Sorel- la, dimentichi che lo straniero appartiene al mio sesso. E le persone del mio sesso, gelose della loro reputazione e del loro pudore, non possono abbassarsi a correre dietro a voi.” La risposta fu accolta con evidente approvazione dalle giovani Gy-ei; ma la sorella di Taë sembrò molto umiliata. Povera creatura! Ed era una PRINCIPESSA, per giunta! Proprio in quel momento, un’ombra passò nello spazio tra me ed il gruppo; e voltandomi, vidi il supremo magistrato che si avvicinava a noi, con il passo silenzioso e maestoso tipico dei Vril-ya. Alla vista della sua espressione, mi riprese lo stesso terrore che avevo provato quando l’avevo incontrato per la prima volta. Su quella fronte, in quegli occhi, c’era quel qualcosa d’indefinibile che caratterizzava l’appartenenza ad una razza fatale per la nostra... la strana aria di serena immunità alle nostre passioni ed ai nostri affanni, di cosciente superiorità, pietosa ed inflessibile come quella di un giudice che pronuncia una condanna. Rabbrividii e, inchinandomi profondamente, strinsi il braccio del mio piccolo amico e lo trascinai avanti, in silenzio. Il Tur si mise davanti a noi, mi guardò per un istante senza parlare, poi volse tranquillamente lo sguardo verso la figlia e, con un grave cenno di saluto a lei ed alle altre Gy-ei, passò in mezzo al gruppo... sempre senza dire una parola. *** Quando Taë ed io ci trovammo soli sull’ampia strada che si estendeva dalla città fino al crepaccio da cui ero caduto in quella regione priva della luce delle stelle e del Sole, dissi sottovoce: “Mio piccolo amico, l’espressione del volto di tuo padre mi fa paura. Nella sua spaventosa serenità, mi pareva di aver visto la morte.” Taë non rispose subito. Sembrava agitato, come se si chiedesse con quali parole doveva addolcire una sgradita rivelazione. Finalmente disse: “Nessuno dei Vril-ya teme la morte: e tu?”. “La paura della morte è innata nella razza cui appartengo. Possiamo vincerla per senso di dovere e d’onore, e per amore. Possiamo morire per una verità, per la terra natia, o per coloro che ci sono più cari di noi stessi. Ma se la morte mi minaccia davvero, dove sono, qui, questi influssi contrari all’istinto naturale che imprime sgomento e terrore all’idea della separazione tra l’anima ed il corpo?”. Taë mi sembrò sorpreso, ma rispose con grande tenerezza nella voce: “Riferirò a mio padre ciò che hai detto. Lo supplicherò di risparmiarti la vita.” “Dunque ha già deciso di togliermela?”. “E’ colpa della follia di mia sorella,” rispose Taë, con una certa petulanza. “Ma questa mattina lei ha parlato a mio padre; dopo egli mi ha chiamato, in quanto sono preposto ai bambini che hanno l’incarico di eliminare gli esseri 63 Altra Lettura pericolosi per la comunità, e mi ha detto: ‘Prendi il tuo Scettro Vril, e cerca lo straniero che ti è divenuto caro. Che la sua fine sia rapida e indolore’. “ “Ed è per questo,” balbettai, scostandomi dal ragazzo, “è per assassinarmi che mi hai proditoriamente invitato ad uscire? No, non posso crederlo. Non posso crederti colpevole di un simile crimine.” “Non è un crimine uccidere coloro che minacciano il bene della comunità; lo sarebbe uccidere un insetto che non può farci alcun male.” “Se vuoi dire che minaccio il bene della comunità perché tua sorella mi onora della preferenza che un bimbo può provare per un giocattolo strano, non è necessario uccidermi. Lasciami tornare al popolo che ho abbandonato, passando per lo stesso crepaccio da cui sono disceso. Con un piccolo aiuto da parte tua potrei farlo anche ora. Tu, grazie alle ali, potresti fissare al cornicione roccioso dello strapiombo la corda che trovasti, e che senza dubbio hai conservato. Fai così: aiutami a raggiungere il punto da cui sono disceso, ed io scomparirò dal vostro mondo per sempre, come se fossi morto.” “Il precipizio da cui sei disceso! Guardati intorno: ci troviamo appunto dove si spalancava. Che cosa vedi? Solo roccia compatta. Il crepaccio è stato chiuso, per ordine di Aph-Lin, non appena fra te e lui si è stabilita una comunicazione mentre eri in trance, ed egli ha appreso dalle tue labbra la natura del mondo da cui sei venuto. Non ricordi quando Zee m’ingiunse di non chiederti nulla di te e della tua razza? Dopo averti lasciato, quel giorno, AphLin mi disse: ‘Non deve restare aperta alcuna strada fra la patria dello straniero e la nostra, altrimenti il male e la sofferenza del suo mondo scenderanno qui. Prendi con te i bambini del tuo gruppo, e insieme colpite le pareti della caverna con gli Scettri Vril, finché i frammenti riempiano ogni varco da cui potrebbe filtrare il chiarore delle nostre lampade’.” Mentre il bambino parlava, io guardavo inorridito le rocce davanti a me. Enormi ed irregolari, le masse di granito, che recavano tracce di bruciature dov’erano state staccate, si alzavano dal terreno alla volta, senza un interstizio! “Ogni speranza è perduta!”, mormorai, lasciandomi cadere sulle pietre. “E non rivedrò mai il Sole.” Mi coprii il volto con le mani, e pregai Colui la cui presenza avevo tanto spesso dimenticato sebbene i cieli attestassero la sua opera. Sentivo la sua’ presenza nelle viscere della Terra, nel mondo della tomba. Levai lo sguardo, traendo conforto e coraggio dalla preghiera, e fissando con un tranquillo sorriso il volto del ragazzo, dissi: “Ora, se devi uccidermi, colpisci.” Taë scosse il capo. “No,” rispose. “La richiesta di mio padre non è formulata in modo così ufficiale da non lasciarmi scelta. Parlerò con lui, e forse riuscirò a salvarti. È strano che tu non abbia quella paura della morte che noi cre- devamo fosse istintiva nelle creature inferiori, cui non è data la convinzione di un’altra vita. Tra noi, neppure un infante nutre tale paura. Dimmi, mio caro Tish,” continuò dopo una breve pausa, “ti allevierebbe il passaggio da questa forma di vita a quella che sta al di là del momento chiamato morte, se io partecipassi al tuo viaggio? In tal caso, chiederò a mio padre se posso venire con te. Io sono tra gli appartenenti alla nostra generazione destinati ad emigrare, a tempo debito, in regioni sconosciute entro questo mondo. Tanto varrebbe emigrare subito in regioni ignote di un altro mondo. La Bontà Suprema è là come qui, poiché è dovunque.” “Figliolo,” dissi, comprendendo dall’espressione di Taë che egli parlava seriamente, “è un crimine se tu mi uccidi; e sarebbe un crimine non meno grave se io ti dicessi: ‘Ucciditi’. La Bontà Suprema sceglie il momento per darci la vita, e il momento per togliercela. Torniamo indietro. Se, quando parlerai con tuo padre, desidera di farmi morire, dammi il più lungo preavviso possibile, affinché possa prepararmi.” Tornammo in città, scambiandoci poche parole. Non riuscivamo a capire l’uno il ragionamento dell’altro, ed io provavo per quel ragazzo dalla voce dolce e dal bel volto ciò che un condannato prova per il suo carnefice quando si dirige al suo fianco verso il luogo dell’esecuzione. *** Nelle ore destinate al riposo, che per i Vril-ya rappresentano la notte, fui tratto dal sonno agitato in cui ero piombato da poco da una mano posata sulla mia spalla. Sussultai, e vidi Zee ritta accanto a me. “Taci,” disse in un bisbiglio. “Nessuno deve sentirci. Credi che abbia smesso di vegliare sulla tua sicurezza soltanto perché non ho potuto conquistare il tuo amore? Ho visto Taë. Non è riuscito a convincere suo padre, il quale nel frattempo aveva conferito con i tre saggi di cui chiede il parere quando è in dubbio; e accettando il loro consiglio, ha ordinato che tu perisca quando il mondo si risveglierà. Io ti salverò. Alzati e vestiti.” Zee indicò un tavolo accanto al divano, su cui vidi gli abiti che avevo indosso quando avevo lasciato il mondo esterno, e che in seguito avevo abbandonato per portare gli indumenti più pittoreschi dei Vril-ya. La giovane Gy si diresse verso la finestra e uscì sul balcone, mentre io, stupito, mi affrettavo a indossare i vestiti. Quando la raggiunsi, il suo volto era pallido e rigido. Prendendomi per mano disse sottovoce: “Guarda come l’arte dei Vrilya ha illuminato il mondo in cui essi dimorano. Domani il mondo sarà buio, per me.” Mi trasse nella stanza senza attendere la risposta, poi mi condusse nel corridoio, da cui scendemmo nell’atrio. Percorremmo le vie deserte e ci avviammo per l’ampia strada in salite che si snodava 64 “La razza ventura” sotto le rocce. Lì, dove non esiste né giorno né notte, le Ore Silenziose sono indicibilmente solenni... lo spazio immenso illuminato artificialmente non mostra alcuna traccia di vita mortale. Per quanto i nostri passi fossero lievi, il loro suono colpiva l’orecchio, in disaccordo con l’universale silenzio. Sebbene Zee non lo dicesse, capivo che aveva deciso di aiutarmi a tornare al mondo esterno, e che eravamo diretti verso il luogo da cui ero disceso. Il silenzio mi contagiò. Ci avvicinammo al precipizio. Era stato riaperto: non presentava per la verità l’aspetto che aveva quando ne ero emerso, ma attraverso la muraglia di roccia che avevo osservato insieme a Taë, un nuovo crepaccio era stato prodotto, e lungo le pareti annerite brillavano ancora scintille e braci fumanti. Il mio sguardo, però, non poteva penetrare nella tenebra di quel vuoto, ed io mi fermai sgomento, chiedendomi come potevo compiere la scalata. Zee intuì il mio dubbio. “Non temere,” disse con un lieve sorriso. “Il tuo ritorno è sicuro. Ho cominciato questo lavoro all’inizio delle Ore Silenziose, quando tutti dormivano: credimi, non ho smesso prima di aver sgombrato la strada che porta al tuo mondo. Starò con te ancora un poco. Non ci separeremo se non quando dirai: ‘Vattene, perché non ho più bisogno di te’.” A queste parole, il cuore mi tremò per il rimorso. “Ah,” esclamai, “quanto vorrei che tu appartenessi alla mia razza, o io alla tua! Allora non direi mai ‘Non ho più bisogno di te’.” “Ti benedico per queste parole, e le ricorderò sempre, dopo che te ne sarai andato,” rispose teneramente la Gy. Durante questo breve dialogo, Zee aveva distolto il viso da me, chinando la testa sul petto. Poi si raddrizzò in tutta la sua maestosa statura e mi fronteggiò. Mentre si era sottratta al mio sguardo, aveva illuminato la coroncina che le cingeva la fronte e che adesso sfolgorava come un serto di stelle. Non solo il suo viso e la sua figura, ma tutta l’atmosfera intorno erano illuminati dal fulgore del diadema. “Ora,” disse, “abbracciami per la prima e l’ultima volta. No, così: coraggio, e tieniti saldo.” Mentre parlavo, la sua figura si dilatò e le immense ali si spiegarono. Aggrappato a lei, venni trasportato in alto, attraverso l’enorme crepaccio. La luce stellata della sua fronte rischiarava la tenebra intorno a noi. Rapida come un angelo che vola verso il cielo reggendo l’anima strappata alla tomba, così ascese la Gy, fino a quando udii in distanza il brusìo di voci umane ed i suoni dell’umana fatica. Ci fermammo sul fondo di una delle gallerie della miniera, ed in lontananza vedemmo brillare, rare e fioche, le lampade dei minatori. Mi sciolsi dall’abbraccio. La Gy mi baciò appassionatamente sulla fronte, ma con tenerezza materna, e mentre le lacrime le sgorgavano dagli occhi disse: “Addio per sempre. Tu non vuoi che ti segua nel tuo mondo... e non potrai mai tornare nel mio. Prima che la mia famiglia si ridesti, le rocce si saranno richiuse su questo precipizio, e non verranno riaperte da me, né da altri, forse per epoche lunghissime. Pensa qualche volta a me, e con bontà. Quando raggiungerò la vita che sta oltre questa, ti cercherò. Anche là, il mondo assegnato a te e al tuo popolo può essere cinto da rocce ed abissi che lo dividono da quello in cui raggiungerò quelli della mia razza che mi hanno preceduta, e forse non avrò il potere di aprirmi la strada per riconquistarti come l’ho aperta per perderti.” La sua voce tacque. Udii il fruscio delle ali, simile al frullo del volo di un cigno, e vidi i raggi del diadema stellato che si allontanavano nelle tenebre. Sedetti e restai immobile per qualche tempo, riflettendo dolorosamente. Poi mi alzai e mi avviai a passo lento verso il luogo in cui udivo muoversi gli uomini. I minatori che incontrai mi erano sconosciuti, e appartenevano ad un’altra nazione. Mi guardarono sorpresi, ma quando constatarono che non sapevo rispondere alle domande rivoltemi nella loro lingua, ripresero il lavoro e mi lasciarono passare. Alla fine, raggiunsi l’imboccatura della miniera, senza venir disturbato; fui soltanto interrogato da un funzionario che conoscevo, e che per fortuna era troppo indaffarato per parlare a lungo con me. Non tornai al mio alloggio, ed il giorno stesso mi affrettai ad abbandonare la località, dove non avrei potuto sottrarmi a domande cui non potevo dare risposte soddisfacenti. Tornai sano e salvo nel mio Paese, dove mi sono stabilito pacificamente ormai da molto tempo, dedicandomi agli affari, fino a quando, tre anni fa, mi sono ritirato con un discreto patrimonio. Ho frequentato poca gente e non ho quindi provato la tentazione di parlare dei viaggi e delle avventure della mia gioventù. Un po’ deluso, come la maggioranza degli uomini, in fatto di amore e di vita domestica, penso spesso alla giovane Gy, quando rimango sveglio a lungo la notte, e mi domando come ho potuto respingere un simile amore, nonostante i pericoli connessi e le condizioni che l’avrebbero vincolato. Tuttavia, più penso a quel popolo che, in regioni escluse alla nostra vista e ritenute inabitabili dai nostri esperti, sviluppa tranquillamente poteri immensamente superiori ai nostri, e virtù cui la nostra vita sociale e politica diviene sempre più ostile via via che - la civiltà avanza, e più devotamente prego il Cielo che trascorrano secoli prima che alla luce del Sole emergano i nostri inevitabili distruttori. Poiché tuttavia il mio medico mi ha detto francamente che sono afflitto da una malattia la quale, pur non essendo molto dolorosa e percettibile, può essermi fatale da un momento all’altro, ho ritenuto doveroso nei confronti dei miei simili mettere per iscritto questi avvertimenti sulla Razza Ventura. fine 65 Editrice Thule Italia Pubblicazioni dell’Editrice Thule Italia Novembre/Dicembre 2013: I libri: I calendari: Per info e ordini: http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/ 66 Associazione culturale Thule Italia SOSTIENI L’ASSOCIAZIONE CULTURALE THULE ITALIA • Sottoscrivendo l’abbonamento annuale alla Rivista. • Iscrivendoti come sostenitore all’Associazione previa lettura dello Statuto e Regolamento sul portale: http://thule-italia.com/wordpress/ • Acquistando i Monografici dell’Associazione e i Libri editi dalla Thule Italia Editrice sul portale: http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/ • Diffondendo i nostri contenuti ovunque ciò sia possibile.