tradizioni metapolitica storia esoterismo attualità
ASSOCIAZIONE CULTURALE
DIFESA DELLA TRADIZIONE - STORIA E CONTROSTORIA - GEOPOLITICA - RIFLESSIONI- ALTRE VOCI - ALTRA LETTURA
n ove m b re
/
d i cem b re
2 0 1 3
Sommario
Editoriale
Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire
di Gabriele Gruppo
3
Difesa della Tradizione
Ibis: saggezza e purezza
di Monica Mainardi
10
I Nibelungi
trascr. di Giacomo Tognacci e Sofia Gini
18
Geopolitica
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo
di Gabriele Gruppo
26
Thule Soci
Amore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea contro la Decadenza
di Pasquale Piraino
Altra Lettura
“La razza ventura” di Edward Bulwer-Lytton
bimestrale, anno X
progetto grafico e impaginazione
Marco Linguardo
Immagine di copertina
Veronica Piu
Redazione
Giacomo Tognacci
e-mail
[email protected]
36
44
Editoriale
Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire
L’ultimo numero annuale della rivista di Thule-Italia è, sotto certi aspetti, quello che per noi segna la simbolica chiusura di un argomento trattato lungo l’arco dei dodici mesi trascorsi; in cui porre dei punti fermi e passare oltre, traendo alcune debite conclusioni da quel che si è trattato nei diversi articoli, e in cerca poi di un nuovo fermento. Riteniamo, infatti, utile e rigenerativo dare sempre nuovi spunti a noi stessi e a coloro che ci seguono, soprattutto nella
parte della rivista da noi curata e che, con lungimiranza, è stata con il tempo battezzata dall’editore “Riflessioni”.
L’argomento del 2013 ha avuto come cardine due parole: resistenza e reazione.
Il nostro intento era quello di capire se, in una fase storica così critica, sussistessero forme ben definite di resistenza
e di reazione ancora vive in Europa occidentale, e in particolare nel popolo italiano, nella sua cultura, nella politica
antagonista, financo nelle dinamiche del sistema al potere vigente. Cercando di toccare un po’ tutti i punti che ritenevamo nevralgici.
Arduo sarebbe affermare che siamo riusciti nell’intento. Proprio in ragione della natura particolarmente sfuggente
del nostro contemporaneo, ci siamo ritrovati a dover spesso scrivere nell’incalzare di eventi che non permettevano
di stabilire con chiarezza nessun tipo di tesi, o di formulare una sintesi esaustiva. Inoltre, sarebbe stata necessaria
una polifonia di voci, anche confliggenti, che potessero far pesare su di un piatto di bilancia oggettivo le differenti
visioni del mondo, per compensare magari vicendevoli manchevolezze, o fornire un’impronta ideologica meno unidirezionale dell’argomento trattato, in ragione della sua complessa natura multiforme. Ma ormai sembra non essere
più necessario questo tipo di approfondimento, per noi invece necessario, in un’epoca di comunicazione veloce e
superficiale come l’attuale.
Tuttavia, consideriamo un nostro punto di forza il non aver inflazionato l’esposizione delle nostre riflessioni con capziosità superflue, che avrebbero deviato dalle due parole poste in oggetto; finalità che c’eravamo comunque posti
fin da principio.
Per prima cosa resta nostro punto fermo il quesito con cui partimmo all’inizio:
“Alle mutate condizioni di stabilità strutturale e di crescita organica dell’Occidente ci si pone di fronte un quesito: Esiste
ancora una capacità di reazione?”.
In linea di massima potremmo ben dire che il concetto di reazione al sistema, a oggi, non ha avuto nessuna manifestazione nel complesso dell’Occidente che possa rendergli onore, tranne forse che in qualche raro esempio.
Editoriale
Stiamo per entrare nel 2014 in condizioni peggiori
rispetto a 365 giorni fa, e nulla sembra presagire che
qualche cosa possa smentire le nostre ormai quotidiane previsioni sul collasso imminente.
In Italia addirittura viviamo tutti noi come in un micro
cosmo particolaristico, spesso incomprensibile all’estero. Siamo presi da uno strano ingranaggio esistenziale, come se partecipassimo tutti noi a un gigantesco
reality-show, in cui a
ogni gruppo organizzato, o nicchia sociale, corrisponde una
parte da recitare nel
modo più sguaiato e
appariscente possibile, ma nei fatti inconcludente, mentre la
grande maggioranza
del popolo italiano fa
da spettatore più o
meno passivo.
C’è un’immagine emblematica di quanto
vi stiamo dicendo:
un uomo, in maniche
di camicia e cravatta,
osserva dall’alto di una finestra, al sicuro da ogni coinvolgimento diretto, degli scontri tra forze dell’ordine
e dimostranti, durante una recente manifestazione a
Roma. L’uomo sembra bere o mangiare qualche cosa,
tranquillo, come se stesse comodamente a osservare
proprio questo reality-show dal vivo, di cui egli è spettatore e nulla più. Tranquillo, appunto, in ragione di
uno status quo che, forse, lo rende refrattario a qualsiasi
sconvolgimento epocale, o che vada semplicemente al
di là del suo raggio d’azione esistenziale.
stro pensiero, riguardo alle risultanze che potevamo sviscerare dal tema in oggetto. Eppure, ci siamo accorti che
è drammaticamente molto più significativo farvi comprendere quanto una foto possa rendere di più, rispetto
a mille analisi hegeliane. Qui non si tratta più di capire
quanto ancora siano presenti nel nostro popolo i concetti
di resistenza e di reazione, bensì se essi abbiano ancora
un senso o un esistere di fronte a un fattore umano/occidentale, non solamente italiano quindi, che
è succube di talmente
tanti stimoli eterodiretti, da essere ormai
diventato praticamente composto di un
materiale refrattario
all’etica
dell’azione,
corroborando invece
un’esistenza grigia e
artefatta, capace di
farlo vegetare fino alla
fine dei suoi giorni.
Un’altra metafora emblematica, che può far
comprendere l’insensatezza che ci circonda, è per noi rappresentata da una
piccola notizia; rimbalzata giusto su qualche quotidiano
emiliano nell’ottobre di quest’anno:
“Nuova protesta dei collettivi studenteschi di Bologna che,
verso mezzogiorno, hanno occupato simbolicamente la
mensa universitaria di piazza Puntoni, da loro definita «la
più cara d’Italia». Gli attivisti hanno allestito dentro i locali
una mensa «alternativa», offrendo un pasto completo (pasta con sugo di peperoni, insalata e pane), al prezzo di un
euro, contro i quasi sette di quella «ufficiale». All’ingresso e
all’interno sono stati affissi striscioni: «Occupymensa, pranzo sociale a un euro». In breve tempo si è formata una coda
di studenti per consumare il pranzo preparato dai ragazzi
dei collettivi”.
Saprà quell’uomo cosa sta succedendo?
Avrà maturato un suo pensiero in merito?
I dimostranti è anche per quell’uomo alla finestra che si
battono con le forze dell’ordine?
Fonte Ansa
Oppure prestano semplicemente il fianco al “gioco delle parti”, voluto dal sistema?
In tempi non molto lontani da quello in cui viviamo, le
università erano il laboratorio di sintesi di idee nuove, radicali e rivoluzionarie, capaci d’innestarsi nella società, e
dell’innestarsi di tali idee in una categoria umana molto
recettiva alla volontà di compiere mutamenti epocali.
Oggi le università sono come quel monastero benedettino descritto mirabilmente da Umberto Eco nel suo libro “Il nome della rosa”. Luoghi in cui il sapere è fine a se
stesso, dove l’erudizione è solamente interpretata come il
Domande semplici, banali, ma che rappresentano il
fulcro della questione. Domande che hanno delle risposte purtroppo immediate e in parte sconfortate, visto il corso degli eventi che stanno avendo questi anni
difficili.
Infatti, potremmo scrivere dottissimi distillati del no4
Cerchiamo di essere uomini e non rane da bollire
prolisso ripetersi di cose statiche e immutabili, in cui il si- principe del controllo diffuso e capillare; in quanto ormai
stema vigente ha un controllo presso che totale, assoluto, indispensabili per un gran numero di attività. Non ritee in cui v’è spazio solamente per un teatrino dell’assurdo niamo poi di nessuna utilità quelle manifestazioni di redove si coltivano immaturità etica e infantilismo politico. sistenza e di reazione al sistema vigente che non abbiano
Potranno sicuramente esserci dei “fiori nel deserto”, tutta- come fine l’abbattimento dei suoi princìpi universalistici e
via essi sono di fatto soverchiati numericamente da una progressisti. O che vogliano utilizzare certi strumenti per
compagine umana massificata, che si balocca in una con- innescare un processo rivoluzionario.
dizione d’estraneità alla vita reale e agli eventi che stanno Non esisterà mai una “rivoluzione”, nel senso genuino del
sconvolgendo questo inizio di secolo.
termine, che ponga tra i suoi obbiettivi la preservazione
L’esempio che vi abbiamo portato è per noi emblematico, di aspetti dell’ideale fondativo del sistema contro cui si è
significativo di una totale assenza di reazione all’attuale rivolta. Questo è il problema principale: attualmente non
situazione storica, e di rifugio in pseudo giochi di ruolo, esiste una sola alternativa al regime imperante, che ponga
da parte di quella che
in essere l’abbattimento
dovrebbe essere, invece,
di ogni suo pilastro ideun’avanguardia sociale e
ologico. Per questo moculturale di primo livello,
tivo, pur nell’abbondancosì come lo era un temza di premesse storiche,
po. Con particolare attennon vediamo fin qui né
zione all’Italia, possiamo
in Italia, né in gran parben dire che l’università
te dell’Occidente euronon è più un vivaio di
peo, un solo esempio di
fermenti creativi, ma uno
reazione significativa al
dei tanti luoghi d’intratsistema.
tenimento che il sistema
utilizza per addomestiDetto questo, che in
care le masse, e porle in
sintesi ha rappresenuna condizione di staticitato il corpo principale
tà esistenziale.
delle nostre riflessioni
Quello che costatiamo è
in quest’ultimo anno,
che, nonostante il perioabbiamo
comunque
do sia potenzialmente
tratto delle conclusioni
propizio per l’avvento
non soltanto negative,
di idee rivoluzionarie,
ma decisamente in conesse sono poste nell’imtrotendenza rispetto a
possibilità di attecchire
quello che potrebbe
proprio dal fatto che il
sembrare il nostro apAlla finestra.
potere vigente ha creato
proccio critico, e anche
i presupposti perché esse non possano attecchire in nes- velatamente pessimista.
sun luogo. Non esiste più connessione vera tra comunità
e uomo, tra diverse categorie sociali o culturali: siamo so- Per far comprendere il nostro pensiero, utilizzeremo inilamente di fronte a tanti recinti, divisi tra loro per settori e zialmente una metafora già nota a chi ci legge; quella delcircondati da muri di gomma impermeabili.
la rana bollita.
Nonostante la comunicazione e la diffusione d’informazioni siano ormai invasive, esse risultano pilotate abil- La nostra società occidentale è da decenni immersa come
mente dall’alto, come da una sapiente regia che nulla una rana in una pentola che s’è fatta via via sempre più
lascia al caso.
calda. Una condizione subdola, che se da una parte ha
Non è paranoia la nostra, e non coltiviamo certo le specu- fornito i presupposti per il benessere diffuso negli anni
lazioni sul “grande fratello”. Tuttavia ci riesce impossibile d’oro tra i due secoli, dall’altro sta mostrando il suo ripensare che il sistema non abbia la capacità di operare svolto pericoloso. Il sistema ha compreso da tempo che
scientificamente una sorta di apartheid individualistica, il graduale aumento della temperatura, che sta facendo
finalizzata al controllo della massa in ogni suo livello. Pro- venir meno gli aspetti positivi di questo “bagno”, non troprio le tecnologie di comunicazione, diffuse nel quotidia- va contrasti diffusi in chi c’è immerso, in quanto la società
no delle singole persone, rappresentano lo strumento mostra palesemente riflessi intorpiditi, e sovente teme
5
Editoriale
addirittura che il camServe solamente un
biamento possa signifierrore, uno soltanto, e
care la perdita di quelle
tutto quello che oggi
prerogative che hanno
sembra impossibile o
reso unica nel suo geutopistico potrà connere (in senso negativo,
cretizzarsi, diventare
ovviamente) la civiltà
reale, muovere i prodel consumismo. I popri passi, magari inpoli occidentali sencerti in principio, ma
tono ormai il pericolo
che saranno solamenimminente, ma sperano
te l’inizio di un nuovo
ancora che esso possa
cammino. Magari per
non presentarsi a chiepochi, ma quelli badere il conto.
steranno.
Il paradosso di questa
La storia non è fatta
metafora sta proprio
sempre di grandi nuIl futuro si decide in mensa.
nell’avere tutti gli elemeri.
menti ben visibili e ben
La storia è anche sopercepibili, ma dove il sistema al potere ha saputo abil- stanza e valore.
mente annichilire la rabbia che normalmente sarebbe
sfociata in una reazione, con la paura dell’ignoto che atta- Cerchiamo di essere uomini, e non semplicemente rane
naglia la nostra società borghese.
da bollire.
Questo dato di fatto ineccepibile ci ha però fatto molto
riflettere, in quanto restiamo convinti che nulla sia già
scritto, e che la storia dell’Europa occidentale non possa
essere soltanto ridotta a una mattanza di rane al vapore.
Siamo uomini, siamo esseri senzienti, e, pur nei limiti o
nelle condizioni in cui s’è trovata la civiltà di cui siamo ancora gli eredi, non riteniamo che possano esistere condizionamenti talmente efficaci da poter a lungo impedire
un capovolgimento delle nostre sorti.
Siamo uomini, non siamo rane.
Il sistema vigente potrà anche ambire a estirpare nell’Occidente europeo ogni capacità di resistenza al declino
che ci ha colpiti, e di reazione a coloro che hanno spinto
perché ciò avvenisse. Tuttavia crediamo fermamente che
l’europeo abbia ancora in sé i nervi capaci di ribellarsi a
un destino che non deve essere accettato come ineluttabile.
Molti dei nostri (apparentemente) simili potranno anche
aver abbandonato ogni istinto di conservazione della
propria stirpe, e della Kultur da essa scaturita: essi sono
già condannati al destino della rana bollita; ma esisterà
sempre, ne siamo certi, chi anche all’ultimo momento
avrà la forza di ridestarsi dal torpore, seguendo chi, forse,
in ragione di un fato imperscrutabile ha sempre sentito
come perverso e pervertito questo sistema. All’apparenza così potente e incontestabile, ma in realtà già sulla via
del fallimento, in quanto, come sosterremo sempre con
forza e ragione, esso non è frutto della forza divina, bensì
poggiante su gambe umane, molto umane, che potranno essere fermate.
6
http://thule-italia.com/wordpress/
http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/
http://www.thule-italia.com/Wordpress%20galleria/
7
Difesa della Tra
8
adizione
Difesa della Tradizione
9
Ibis: saggezza e purezza
Monica Mainardi
La famiglia degli ibis comprende un numero abbastanza
ampio di varietà. La specie più nota è certamente l’ibis sacro (Threskiornis aethiopicus), così denominato a motivo
del culto religioso di cui era fatto oggetto presso gli antichi Egizi: in Egitto, dove questa specie si è praticamente
estinta, l’ibis sacro era simbolo di Thoth, il dio della saggezza e della scrittura (l’ibis è raffigurato in molte pitture
murali e geroglifici, e se ne trovano numerosi esemplari
mummificati nei luoghi di sepoltura; in un solo gruppo
di tombe furono trovati oltre un milione e mezzo di questi uccelli). Ampiamente distribuito nell’Africa orientale
e sudorientale, in Madagascar e in Arabia meridionale,
l’ibis sacro è lungo 70 cm circa, ha zampe sviluppate ed
è caratterizzato dal lungo becco a lieve convessità superiore, nonché dal collo e dal capo neri, privi di penne,
contrastanti con il piumaggio completamente candido.
La simbolica degli antichi tenne conto di questi due colori
dell’ibis sacro – il bianco e il nero
– così come pure di alcuni suoi
atteggiamenti famigliari (Fig.
1). Gli egizi portavano grande
rispetto a questo animale, basti
pensare che i sacerdoti utilizzavano per i loro bagni solo acqua
in cui si fosse abbeverato un ibis
sacro. Questo gesto ha all’origine il fatto che l’ibis si ciba prevalentemente di serpenti, rettili
o carogne (e ciò lo rendeva un
animale utile e anche un essere
purificatore, in quanto ripuliva
Fig. 1 – L’ibis sacro degli l’ambiente non solo dalle caroantichi Egizi (da un’incisio- gne ma anche dai serpenti e dai
ne fornita da Jules Trousset
rettili, da sempre simboli negasul Nouveau Dictionnaire encyclopédique, Vol. III, tivi); ma quando ha necessità di
bere sceglie solo l’acqua più limpag. 332).
pida (e questo lo rendeva anche
assolutamente puro). La sua alimentazione particolare ha
portato inoltre a considerare quest’animale anche quale simbolo dell’uomo che si sbarazza della sua parte più
bassa e infima, materiale: sottolinea il passaggio dalla natura materiale a quella spirituale.
Simbolo della Saggezza, del Discernimento e della Purezza, le credenziali dell’ibis sacro come simbolo cui tribu-
tare gli onori divini erano: (a) le sue ali nere, che hanno
attinenza con l’oscurità primordiale, il caos; (b) la forma
triangolare di esse, poiché il triangolo è la prima forma
geometrica e il simbolo del mistero trinitario. Ancor oggi
alcune tribù Copte che vivono sulle rive del Nilo considerano l’ibis un uccello sacro. Con il cigno, l’oca, il coccodrillo, il loto, esso è consacrato all’Unità androgina, al di
sopra della quale era il Celato di Kneph. Essi, infatti, sono
il simbolo dell’Aria e dell’Acqua.
L’ibis sacro possedeva poi proprietà magiche. Khonsu, il
terzo elemento della triade tebana, veniva rappresentato con la fronte incoronata da una testa di ibis, decorata
dal disco lunare e da un diadema. Durante la cerimonia
d’iniziazione, uno degli ierofanti portava un cappuccio a
forma di ibis, che stava a simboleggiare Thoth, quale dio
della Sapienza e dell’Insegnamento Segreto.
Un particolare curioso di quest’uccello è che, quando nasconde il collo e la testa, egli assume una forma che rassomiglia a quella del cuore umano. Inoltre il suo passo è
lungo esattamente un cubito (la lunghezza utilizzata per
costruire i templi egizi).
Simile all’ibis sacro, troviamo l’ibis bianco (Threskiornis
melanocephalus), che è diffuso in India.
L’ibis eremita, o ibis calvo, (Geronticus eremita) vive invece
in zone montagnose dell’Africa settentrionale e dell’Asia
Minore, e occasionalmente in Spagna. Un tempo era ampiamente diffuso anche in alcune zone dell’Europa, tra
cui l’Italia nordorientale; ma si è però estinto nel sec. XVI
in Baviera e nel sec. XIX in Turchia. Esso si distingue per il
piumaggio nero a riflessi verdi, contrastante con il rosso
vivo della cute nuda del capo e con il bianco del collo. Anche l’ibis eremita è stato considerato un uccello sacro, o
comunque tenuto in grande considerazione in numerose
culture. Nell’Antico Egitto, era adorato, al pari dell’ibis sacro, come reincarnazione di Thoth, lo scriba degli dèi; e la
stessa parola Akh – termine che esprimeva la potenza e la
forza del dio attraverso il suo aspetto luminoso e trascendente – veniva rappresentata nei geroglifici con un ibis
eremita stilizzato, probabilmente in virtù dei riflessi metallici del piumaggio di questo uccello. Un collegamento,
questo con l’Akh, che in qualche modo gli fa assumere la
veste di simbolo della forza interiore che porta l’uomo a
percorrere il suo cammino iniziatico che lo induce a lavorare su se stesso e sul mondo che lo circonda fino ad
arrivare all’illuminazione, quindi al tornare a essere parte
10
Ibis: saggezza e purezza
della divinità.
Probabilmente erano ibis eremiti (o forse anche ibis sacri)
pure gli uccelli del lago Stinfalo di cui parla Erodoto: muniti sulle ali di piume metalliche, che potevano lanciare
come dardi verso le proprie vittime, essi furono protagonisti di una delle dodici fatiche di Eracle, che liberò da essi
il lago Stinfalo.
Nell’area della città di Bireçik sussiste invece la tradizione
che vuole che l’ibis eremita sia stato uno dei primi uccelli
che Noè lasciò scendere dall’Arca e pertanto viene considerato un simbolo di fertilità, anche alla luce del fatto che
il ritorno di questi uccelli dalle proprie migrazioni coincide con l’arrivo della bella stagione e quindi con la maturazione dei frutti della terra. L’ibis eremita viene inoltre
raffigurato sui francobolli di numerosi Paesi: Austria, Marocco, Algeria, Sudan, Siria, Turchia, Yemen (luoghi dove
l’animale ha vissuto o vive tuttora, oppure che frequenta
durante le migrazioni), isola di Jersey (dove è presente
una piccola popolazione di questi uccelli).
Tornando alle varie specie di ibis, troviamo poi l’ibis hadeda (Bostrichia hagedash), dal piumaggio bruno e dal
becco scuro, con ramo superiore rossastro, che è comunissimo in tutta l’Africa a sud del Sahara. L’ibis rosso (Guara guara=Eudocimus ruber), che abita le zone acquitrinose dell’America meridionale e che si differenzia per il bel
piumaggio di colore rosso scarlatto. Altre specie americane sono: l’ibis bianco (Eudocimus albus), con piumaggio
interamente bianco e faccia, becco e zampe rosse; e l’ibis
faccia bianca (Plegadis chihi), molto simile al mignattaio.
Come animale totemico, l’ibis insegna la socievolezza, la
comunicazione e a lavorare in gruppo. Stimola la saggezza e mostra come trovare la conoscenza. Porta illuminazione, ispirazione, intuizione, comprensione e chiarimento. La medicina dell’ibis insegna la pazienza e il suo potere
archetipico trasmette elementi protettivi. È annunciatore
di nuova ricchezza e di fertilità, favorisce l’abilità nel lavorare con incantesimi. E in alchimia quest’uccello è il messaggero delle fasi lunari: negli scritti alchemici egli venne
dipinto come una sorta di conciliatore dopo le avvenute
trasmutazioni.
Phta – regna sull’universo, e il suo volto è il sole. Gli egizi
chiamavano questo dio Amon, quando lo vedevano nei
panni del dominatore e del padrone sovrano del mondo; lo chiamavano Ra, quando ne volevano celebrare la
gloria; e lo chiamavano Phta, nel momento in
cui lo consideravano padre degli altri dèi, degli
uomini e di tutti gli altri esseri viventi. AmonRa-Phta aveva creato tutto attraverso il suo
Verbo, ma nell’opera di questo Verbo divino si
distinguevano due parti: quella del pensiero
creatore, che era il cuore divino, sede del pensiero e dell’intelligenza eterne; e quella dello
strumento di creazione, che era la lingua divina. Il cuore divino era incarna- Fig. 2 – L’insegna
to nella figura di Horus, il dio del dio Thoth-Ibis
dalla testa di falco. Mentre la (da Alexandre
lingua divina, che realizzava Moret, Mystères
égyptiens, A. Coattraverso la parola i concetti lin 1913).
divini, era rappresentata da
Thoth, il dio dalla testa di ibis.
Il falco divenne così il geroglifico rappresentativo di Horus, mentre l’ibis lo fu di Thoth; e l’insegna sacra
di Thoth venne sormontata da un ibis (Fig. 2).
Come divinità, Thoth comparve già nel periodo pre-dinastico, anche se il suo massimo culto verrà sviluppato a
Ermopoli (la “Città degli Otto”), capitale del 15° distretto
dell’Alto Egitto. Nella teogonia di Ermopoli, Thoth assunse un ruolo di grande rilevanza ed era considerato una
delle divinità creatrici del mondo: quale dio demiurgo fu
lui che depose l’uovo dal quale nacquero poi le altre divinità. Dio della scrittura, della scienza, della magia, della
conoscenza, della matematica, della geometria, fu lui che
inventò la divisione dell’anno in 365 giorni e giocò ruoli
molto importanti nella mitologia egizia: era, infatti, l’arbitro delle contese fra bene e male (venne anche posto a
presiedere il rito della pesatura del cuore, che doveva stabilire se il morto poteva o meno avere accesso all’aldilà),
inoltre aiutò Iside a riportare in vita Osiride, insegnandole
le giuste parole magiche.
Come divinità lunare (egli portava sempre sul capo una luna
crescente, e probabilmente era
un misto di almeno due divinità lunari precedenti – Fig.
3) era associato con il “sole
morto”, in quanto la luna compare raramente nella teologia
egizia. Come i cicli della luna
regolavano molti dei rituali
religiosi ed eventi civili della
Fig. 3 – Thoth con la testa di società egiziana, così Thoth fu
ibis incoronato con il disco e
la mezzaluna lunare. Tempio considerato anche il primo regolatore di tali attività. In quedi Ramsete II ad Antinoe.
L’ibis nell’Antico Egitto
L’ibis ha avuto una parte piuttosto piccola nella simbolica medievale dell’Occidente. E con un significato decisamente non positivo. In compenso, in Medio Oriente
ha rappresentato uno dei più nobili emblemi religiosi
dell’Antichità.
A promuoverlo al ruolo glorioso che ha ricoperto nell’emblematica dei popoli antichi furono i sacerdoti dell’Antico Egitto, al pari di quanto accadde con la fenice. Nella
teologia dell’Antico Egitto, un dio degli dèi – Amon-Ra11
sto contesto, vi era un legame simbolico anche con l’ibis
sacro, in quanto si credeva che questo uccello impiegasse tanti giorni a covare le uova quanti la luna ne impiega
per compiere ogni ciclo delle sue fasi. Poiché inoltre la
luna scompare per poi ricomparire periodicamente, l’ibis
sacro fu considerato anche il simbolo della rinascita e di
una nuova vita dopo la morte.
Il dio Thoth era, come abbiamo visto in precedenza, anche il Verbo, e si narrava che fosse stato lui a inventare la
scrittura. Sua compagna era la dea Seshat, la dea della Sapienza, che con lui divideva il compito di scrivere i nomi
e le imprese dei defunti, nonché i nomi dei sovrani, sulle
foglie dell’albero ished (secondo altre tradizioni, sposa di
Thoth fu anche la dea-rana Heket, la dea della fertilità e
della rigenerazione, che proteggeva le nascite ma anche
la rinascita del sole, vegliandolo durante il suo viaggio
notturno nell’Oltretomba). In questo senso l’ibis assunse
il ruolo di mediatore celeste, con l’incarico di fornire ai
sacerdoti l’interpretazione delle cose divine, ai sovrani la
saggezza e la moderazione e ai comuni mortali le ispirazioni positive. In pratica l’ibis-Thoth assunse il significato
di Parola-creatrice.
Tale considerazione si è mantenuta fino ai giorni nostri.
Tanto che l’ibis bianco ancora oggi viene considerato, tra
i contadini del Medio Oriente e del Nord Africa, un uccello benefico e benedetto, la cui presenza protegge e favorisce l’agricoltura. E la sua uccisione
viene considerata degna di disapprovazione.
Lo storico ebreo Flavio Giuseppe narra
che Mosè, recandosi in guerra contro
l’Etiopia, fece trasportare dalle sue armate un gran numero di ibis, al fine di
opporli ai moltissimi serpenti che infestavano quelle zone. E una scultura oggi
conservata ai Musei Vaticani glorifica
questo ruolo dell’ibis quale distruttore
di serpenti, mostrando l’uccello con la
testa, rivolta verso il cielo, che tiene nel
becco il suo nemico sconfitto e morto
Fig. 4 – Scultura antica rappresentante (Fig. 4).
un ibis (Musei Vati- E l’ibis è anche nemico dei rettili. Una
cani).
scultura egizia mostra un ibis che divora una lucertola e, secondo quanto
narra Orapollo, era diffusa la credenza che si riuscisse a
immobilizzare un coccodrillo solo toccandolo con la piuma di un ibis (6). Oltre al fatto che quest’uccello faceva
strage delle uova di coccodrillo, salvando così il Paese dal
rischio che il Nilo venisse eccessivamente infestato da
questi rettili. Anche per questi motivi nelle case dell’Antico Egitto era uso comune porre l’immagine venerata di
un ibis (Fig. 5).
L’ibis, distruttore di serpenti
Al di là di ogni rappresentazione simbolica, l’ibis faceva
parte di quella schiera di animali che gli Egizi tenevano in
grande considerazione in funzione dei servigi che rendevano. Come riferiva lo stesso Plutarco: “L’ibis è onorato in
Egitto perché distrugge i serpenti il cui morso è mortale”
(1).
Pomponio Mela racconta che ogni anno dei piccoli e velenosissimi serpenti si dirigevano verso l’Egitto, ma, all’entrata nel Paese, venivano uccisi e divorati dagli ibis (2).
E allo stesso modo parlano di questi eventi Erodoto, Diodoro Siculo, Marcellino e altri autori antichi. Eliano scrive,
nel suo Della natura degli animali: “L’ibis è per natura un
uccello molto aggressivo, oltremodo vorace, che mangia
schifosissimi cibi, se è vero, come dicono, che si nutre di
serpenti e di scorpioni. Ma quelli li digerisce senza difficoltà e questi li può defecare molto agevolmente. È molto
raro vedere un ibis malato. Questo uccello ficca il becco
dappertutto, non bada al sudiciume ma vi si aggira sopra, andando in cerca persino là di qualcosa da mangiare.
Quando però torna nella sua dimora prima si lava e si pulisce accuratamente”. E Plinio il Vecchio aggiunge che, durante il periodo in cui i serpenti uscivano dalla fanghiglia
del Nilo, gli Egizi invocavano religiosamente gli ibis (3) e
giungevano al punto di addomesticare questi uccelli (4);
e riporta anche il fatto che più volte i sacerdoti fermarono
epidemie di peste immolando agli dèi un ibis sacro(5).
Fig. 5 – Ibis amuleto in pasta di ceramica (Museo del Louvre, Parigi).
L’ibis, Thoth ed Ermete Trismegisto
Un altro aspetto delle concezioni religiose dell’Antico
Egitto metteva l’ibis sacro in relazione con Osiride, e faceva di lui uno dei simboli dell’idea di resurrezione di cui
anche la luna era emblema, in virtù del fatto che cresce,
risplende, decresce e sparisce, per poi riapparire ancora.
Analogamente, l’uomo cresce durante la sua giovinezza,
12
Ibis: saggezza e purezza
le parole della Tavola su una lastra verde di smeraldo con
la punta di un diamante e che Sara, moglie di Abramo,
l’avesse rinvenuta nella sua tomba (altre versioni indicano come scopritore Apollonio di Tiana oppure Alessandro il Grande). Il testo fu tradotto dall’arabo al latino nel
1250, e apparve in versione stampata per la prima volta
nel De Alchemia di Johannes Patricius (1541). Questo il testo della Tavola Smeraldina:
risplende di vigore nell’età adulta, decresce nella vecchiaia e infine muore, per rinascere in seguito a nuova vita.
Ma al defunto resuscitato necessita un ruolo definitivo.
Ecco così che l’ibis sacro – al pari dell’aquila, del grifone e
della pantera in altri Paesi – interviene per aiutare l’anima
a guadagnare il soggiorno permanente della Divinità. È,
infatti, sull’ala di Thoth-Ibis che gli dèi venuti sulla terra e
le anime dei giusti salgono verso il cielo. Egli era il veicolo
sacro e sicuro sulla strada della felicità eterna.
Presso i Greci questo ruolo psicopompo fu caratteristico
del dio Hermes, che gli alessandrini ellenizzati hanno avvicinato all’egizio Thoth, al punto da identificare l’uno con
l’altro. Hermes è il messaggero di Zeus, Thoth è lo scriba
di Osiride; Ermete è il dio della parola e Thot è il dio della
parola e della letteratura; entrambi accompagnano le anime dei defunti nell’oltretomba. Sia Hermes sia Thoth sono
inoltre, nelle loro rispettive culture, gli dèi della scrittura
e della magia. E a entrambi è collegato Ermete Trismegisto (dal greco antico Ἑρμῆς ὁ Τρισμέγιστος - l’aggettivo
“Trismegisto” è riferito alla triplice natura di Ermete: Dio,
Re e Filosofo), il personaggio leggendario dell’età ellenistica – esperto in magia, astronomia, astrologia, alchimia
e filosofia –, che fu venerato come maestro di sapienza; e
che fu ritenuto l’autore del Corpus hermeticum, una collezione di scritti (tra i quali il cosiddetto Libro di Thoth e la
Tavola Smeraldina) che rappresentò poi la fonte d’ispirazione del pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale. Le opere attribuite a Ermete Trismegisto furono molto
popolari anche tra gli alchimisti, che ritenevano il loro autore un “sapiente” realmente esistito e vissuto nell’Antico
Egitto. Secondo la modalità dell’evemerismo, Trismegisto
sarebbe stato il figlio del dio Hermes, mentre nella cabala, che fu ereditata dal Rinascimento, si immaginava che
fosse un personaggio contemporaneo di Mosè e che comunicasse ai suoi adepti una saggezza parallela a quella
del patriarca biblico. Per questo l’etimologia occultista ha
connesso i due personaggi creando il termine Thothmoses (Thoth + Mosè). Ermete Trismegisto avrebbe lasciato,
secondo Clemente di Alessandria, circa una quarantina
di libri; Giamblico attribuiva a Ermete decine di migliaia di opere, di grande antichità e immensa importanza,
anteriori persino a Pitagora e Platone, che avrebbero attinto da questi testi. Nei dialoghi Timeo e Crizia lo stesso
Platone riferisce che nel tempio di Neith a Sais vi fossero
stanze segrete contenenti registrazioni storiche possedute per novemila anni. E secondo Cirillo di Alessandria e
Marsilio Ficino, Platone avrebbe conosciuto in Egitto una
sapienza antica – quella di Ermete Trismegisto – risalente
all’epoca di Mosè. A questa figura leggendaria sembrano
essere attribuibili con una certa sicurezza: Il cratere della
sapienza, I Misteri Eleusini e la già citata Tavola Smeraldina,
chiamata così perché il testo era inciso su una lastra di
smeraldo. La tradizione vuole che Ermete avesse inciso
“È vero senza errore, è certo e verissimo.
“Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è
in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli
della cosa-una (di una cosa sola).
“Come tutte le cose sono sempre state e venute dall’Uno,
così tutte le cose sono nate per adattamento di questa
cosa unica.
“Il Sole ne è il Padre, la Luna è la Madre, il Vento l’ha portato nel suo ventre, la Terra è la sua nutrice. Il Padre di
tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui; la sua potenza è
illimitata se viene convertita in Terra.
“Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso, dolcemente, con grande industria. Ei rimonta dalla Terra al
Cielo, subito ridiscende in Terra, e raccoglie la forza delle
cose superiori e inferiori.
“Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo, epperciò ogni oscurità andrà lungi da te. È la forza forte di
ogni forza, perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà
ogni cosa solida.
“È in questo modo che il Mondo fu creato.
“Da questa sorgente usciranno innumerevoli adattamenti, il cui mezzo si trova qui indicato.
“È per questo motivo che io venni chiamato Ermete Trismegisto, perché possiedo le tre parti della filosofia del
Mondo.
“Ciò che ho detto dell’operazione del Sole è perfetto e
completo”.
La mummificazione dell’ibis
Quanto finora esposto basta a giustificare i grandi onori
che l’Antico Egitto tributava agli ibis, che venivano mummificati dopo la loro morte, al pari di quanto avveniva
con i falconi di Horus.
Erodoto narra che nessuno poteva uccidere un Ibis, in
quanto l’animale era l’incarnazione del dio Thoth, ma che
al momento della loro morte questi uccelli venissero seppelliti, soprattutto a Ermopoli (7). Ad Abydos essi erano
inumati nel tempio di Thoth; a Menfi venivano invece rinchiusi, sotto forma di mummie, dentro vasi conici. Questa
stessa pratica era seguita nei pozzi funerari di Saqqara,
noti anche come i “Pozzi degli uccelli”; e tutto ciò per un
13
ben determinato motivo, visto che esisteva un legame
simbolico tra l’ibis e il vaso geroglifico: entrambi erano
infatti emblema
del cuore umano.
Nelle
scritture
sacre degli Egizi, il cuore del
dio Un e quello
dell’uomo erano
raffigurati
con
un vaso (Figg. 6
e 7); e anche l’ibis
venne assunto
Fig. 6 e 7 – I vasi geroglifici egiziani, emble- come emblema
mi del cuore.
del cuore. Dice
Eliano: “Quando
l’ibis pone la testa
e il collo sotto l’ala, assume la sagoma di un cuore, e gli
Egizi d’altri tempi per raffigurare
in geroglifico l’Egitto usavano
la figura di un cuore” (8).
Nell’arte si trovano alcune raffigurazioni di ibis in questo atteggiamento simbolico, anche
se risalgono a un periodo molto tardo e non in Egitto: come
il gioiello (Fig. 8) del XIII secolo,
appartenuto al conte francese
Raoul de Rochebrune, che rappresenta un ibis bianco con la
testa reclinata in avanti, in una
posizione che gli fa assumere
la forma appena descritta da
Eliano.
Fig. 8 – Gioiello medievale che
Plutarco fece un ulteriore ac- mostra l’ibis araldico posiziocostamento: nel momento in
nato a forma di cuore.
cui si schiude l’uovo, il piccolo
ibis ha esattamente il peso che
avrebbe il cuore di un bambino appena nato (9). Forse è
per questo motivo che a Ermopoli sono stati riportati alla
luce anche ibis mummificati contenuti, invece che in vasi,
in contenitori a forma di piccoli corpi umani.
A questo proposito è importante ricordare che presso
gli antichi Egizi il cuore era la sede, la dimora e la fonte
dell’Intelligenza e del Pensiero, e quindi della Conoscenza
e della Saggezza. Con l’effige di quest’animale venivano
così realizzati anche amuleti (soprattutto per auspicare la
saggezza); e immagini di ibis venivano poste anche nelle
tombe e nei templi.
Il fatto che l’ibis fosse sacro, in quanto simbolo di Thoth,
non impedì neppure, soprattutto in età tolemaica, che
questi animali venissero allevati e uccisi come offerta votiva o per metterli nelle tombe per accompagnare i mor-
ti.
Di recente si è infine scoperta una curiosa usanza: quella
di nutrire “post mortem” gli ibis sacri. Secondo gli autori
di questa ricerca, pubblicata sul Journal of Archaeological Science, la TAC eseguita sulla mummia di un uccello di
2.500 anni fa mostra che il corpo dopo la morte fu riempito di cereali, affinché fosse in grado di affrontare la sua
missione ultraterrena di messaggero presso gli dèi. La ricostruzione tridimensionale basata sulla TAC di un altro
esemplare di ibis adulto mummificato trovato ad Abydos
mostra che il “pasto” post mortem dell’animale – a base
di lumache – venne inserito nel corpo attraverso un’incisione. In altre mummie sono stati invece ritrovati cereali
e piccoli vertebrati, come pesci.
Anche se oggi questi uccelli sono ormai estinti in Egitto,
nell’antichità venivano mummificati a milioni. Nel sito di
Tuna el-Gebel sono state trovate oltre 4 milioni di mummie di ibis. Si trattava di un’industria fiorente nell’Antico
Egitto: venivano prodotte come offerte votive e i fedeli
pagavano cifre anche molto elevate per procurarsele.
L’ibis nella prima simbolica
cristiana
La simbolica egizia di Thoth,
che identificava questo dio con
il Logos, suscitò grande interesse nei Greci alessandrini; anche
nel momento in cui si formò la
grande scuola cristiana di Alessandria, il Didascaleion, essa
non poté disconoscere gli elementi che avvicinavano ThothIbis al Logos ellenico e al Verbo Fig. 9 – Il Thoth-Ibis d’Egitdivino fatto uomo (Fig. 9).
to, Verbo divino (statuetLa caratteristica di simbolo del- ta conservata al Museo del
la resurrezione attribuita all’ibis, Louvre, Parigi).
il suo ruolo di vincitore sui serpenti, di “purificatore del mondo”, di conduttore delle anime verso il cielo lo avvicinarono alla figura del Salvatore, al pari
di altri animali quali il leone, la pantera,
l’aquila, la fenice e molti altri.
Le rappresentazioni dell’ibis nell’arte occidentale dei primi periodi dell’arte cristiana non sono tuttavia molto numerose. Lo si incontra però in alcuni casi come,
per esempio, su un amuleto gnostico (riFig. 10 – L’ibis su prodotto nella Fig. 10), su un avorio scolun amuleto gno- pito della Lombardia e su una lampada
stico.
14
Ibis: saggezza e purezza
del IV secolo, molto probabilmente cristiana, rinvenuta a
Poitiers nel 1914 (Fig. 11). In
varie opere artistiche l’ibis sostituisce la fenice quale simbolo di resurrezione. Una di
queste opere di “sostituzione”
dovrebbe essere quella che
si trova nel grande mosaico
della Basilica romana dei santi Cosma e Damiano, risalente
al pontificato di Felice VI, tra
il 526 e il 530 d.C. Il mosaico Fig. 11 – Lampada gallo-romamostra il Salvatore tra due na (proveniente da Poitiers;
Collezione Fr. Eygun).
gruppi di santi; egli è sollevato sulle nuvole e, accanto alla
sua testa, un grande trampoliere bianco avanza verso di lui in volo: l’uccello è
coronato con la stella monogrammatica del nome
sacro “Xristsos”, con la lettera X che si trova sulla croce (Fig. 12). Quest’uccello,
inizialmente preso per una
Fig. 12 – La stella del mosaico fenice, sembra essere piutnella Basilica dei santi Cosma e tosto un ibis bianco.
petiti) (Fig. 13) – anche dal fatto di essere stato tanto venerato nella religione pagana, in primis nell’Antico Egitto.
E, tra i vari fattori di questa interpretazione simbolica di
segno negativo, anche il fatto che il Deuteronomio classifica l’ibis, l’airone, la cicogna e il pellicano tra gli uccelli
impuri di cui gli Ebrei non devono mangiare le carni (10).
Tenuto per questi motivi in disparte dalla simbologia medievale, l’ibis, che nel frattempo si era quasi un po’ ovunque estinto, viene in un certo senso “riscoperto” nel 1555,
allorché Conrad Gessner ne schizza un’immagine sul suo
Historia animalium, definendolo però Corvo Sylvatico
(Fig. 14).
Damiano (a Roma).
L’ibis simbolo del cattivo cristiano nel Medioevo
Ma, dopo un primo periodo di benevolenza, la cristianità
non fu orientata positivamente verso l’ibis. E finì per vederlo come un simbolo negativo e malvagio: l’emblema
del cattivo cristiano. Nel Physiologus si legge infatti: “Secondo la legge l’ibis è impuro. Non sa nuotare ma ha la
propria dimora lungo le sponde dei fiumi e degli stagni,
e non può immergersi negli abissi dove nuotano i pesci
puri, ma soltanto dove vivono i pesciolini impuri”. E i vari
Bestiari occidentali tralasciano gli aspetti positivi del passato simbolico di quest’uccello, vedendo in esso solo l’emblema di vizi degradanti.
Probabilmente questa
demonizzazione gli derivò – oltre che dalle sue
abitudini alimentari non
del tutto salutari (tanto
che gli autori dei Bestiari lo posero a paragone
del cristiano che soddisfa con gola smisurata e Fig. 13 – L’ibis su una miniatura medievale (Biblioteca dell’Arsenale, Paimpudicizia i suoi vili aprigi).
Fig. 14 – L’ibis sull’Historia animalium di Conrad
Gessner (che lo definì però Corvo Sylvatico).
La riscoperta dell’ibis
Ma è nel Settecento che l’ibis torna in auge, grazie all’“Egittomania” che dilaga in quel tempo nella cultura europea,
assieme alla prima diffusione delle Logge Massoniche. E
che verrà ulteriormente corroborata, alla fine di quel secolo, dalla spedizione di Napoleone in Egitto.
Nel 1721, Jean Terrasson pubblicò un romanzo pseudoiniziatico, Séthos, falsamente tradotto dal greco, in cui le
antiche iniziazioni egiziane erano narrate in modo fantasioso, ma che conobbe un autentico successo e popola15
rizzò la nozione dei “misteri egizi”. Nel 1728, il compositore Jean-Philippe Rameau intitolò uno dei suoi balletti
La nascita di Osiride. Nel 1770, i tedeschi Johann Wilhelm
Bernhard Hymmen e Karl Friedrich Köppen pubblicarono un’imitazione del testo di Terrasson, altrettanto fantastica, il Crata Repoa, fondamentale per lo studio della
nascita e della simbologia della massoneria egizia. Nel
1777, Antoine Court de Gébelin, erudito e massone, parlò, nei suoi libri, dell’Egitto e dei suoi misteri. Ignaz Von
Borg, il Maestro Venerabile della Loggia di Mozart, nel
1789 fondò il Journal für Freimauer e sul primo numero
scrisse un lungo articolo sui misteri egizi, che probabilmente influenzò il librettista del Flauto Magico mozartiano, il confratello Emanuel Shikaneder. Nel 1795, il volume
L’ Origine de tous les cultes, ou de la Religion universelle di
Charles-François Dupuis, formalizzò e sistematizzò una
teoria che ebbe grande diffusione, quella della derivazione del rituale massonico da quelli dei Misteri antichi. Infine, nel 1784 a Parigi, avvenne la fondazione della Loggia
Madre dell’Adattamento dell’Alta Magia Egizia, da parte
del conte di Cagliostro, leggendaria figura di mago e di
terapeuta itinerante.
Dallo studio dei Misteri esoterici egizi si viene così a scoprire che “ibis” era la parola d’ordine per accedere al Sesto
grado (in totale erano sette) nell’antica società segreta
egizia di Crata Repoa, che inizialmente era riservata ai re
e ai sacerdoti. Il Sesto Grado rappresentava l’“Astronomo
di fronte alla porta degli dèi”, e la parola “Ibis” significava
“vigilanza”.
E l’ibis lo ritroviamo legato anche a Wolfgang Amadeus
Mozart e al suo Flauto magico. Chi si trovò seduto sulle
poltrone del Teatro viennese Auf der Wieden la sera della
“prima” dell’opera, il 30 settembre 1791, si sarà soffermato sicuramente sull’incisione che decorava il frontespizio
del libretto (Fig. 15). Opera di Ignaz Alberti, editore del
libretto dell’opera e fratello di loggia di Mozart nella “Zur
gekrönten Hoffnung”, agli occhi del profano quell’incisione sarà sembrata una delle tante riproduzioni di uno
scavo archeologico in Egitto, allora molto in voga. In realtà l’intera opera è immersa in un mondo di simboli che
traggono origine dai misteri dell’Egitto e, passando attraverso gli elementi fondamentali della cosmogonia esoterica, ci proiettano all’interno del rituale massonico. E quel
frontespizio del libretto non faceva eccezione. Sulla sinistra, una base di obelisco con simboli scolpiti; al centro,
una serie di archi che conduce a una parete provvista di
nicchie e a un portale immersi nella luce; dall’arco centrale pende una catena cui è appesa una stella a cinque
punte e sulla base destra campeggia un grosso vaso in
stile rococò alla cui base stanno due curiose figure accovacciate; in primo piano si vedono una cazzuola, un
compasso, una clessidra e frammenti di rovine, nonché la
testa di un uomo morto oppure svenuto. Vicino alla base
dell’obelisco è raffigurato un ibis che tiene nel becco un
serpente. L’ibis che, in quanto divoratore di serpenti e cavallette, ha nella tradizione egiziana un importante ruolo
come “liberatore” del Paese da questa piaga, in questo
specifico contesto potrebbe alludere simbolicamente a
una liberazione dalle pene dell’Inferno. Ma il serpente è
anche il simbolo dell’ignoranza nei culti isiaci, e l’ibis che
sconfigge l’ignoranza diventa così un “annuncio” dell’arrivo della sapienza, il cui archetipo è rappresentato, nelle
filosofie esoteriche, dal dio Thoth-Ermete Trismegisto: la
filosofia cosiddetta “ermetica” costituisce, infatti, il fondamento teorico dell’alchimia.
E come richiamo a uno dei significati simbolici che aveva
nell’Antico Egitto, nel Settecento l’ibis tornerà ad assumere anche un significato funerario, venendo utilizzato sui
monumenti funebri.
Fig. 15 – L’ibis sul frontespizio del libretto del Flauto magico di Mozart
(l’incisione, del 1791, era di Ignaz Alberti).
NOTE
(1) Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi.
(2) Pomponio Mela, De Chorographia, Edizioni di Storia e
letteratura.
(3) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X., Rizzoli.
(4) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 3, Rizzoli.
(5) Plinio il Vecchio, Storia naturale, vol. X, cap. 4, Rizzoli.
(6) Orapollo, I geroglifici, II, BUR.
(7) Cicerone, Sulla natura degli dèi, Mondadori.
(8) Erodoto, Le storie, Garzanti.
(9) Eliano, La natura degli animali, BUR.
(10) Plutarco, Questioni conviviali, IV, 5, 2, in Moralia, Loeb
Classical Library.
(11) Il Deuteronomio, XIV, 16, San Paolo Edizioni.
16
Ibis: saggezza e purezza
BIBLIOGRAFIA
Hahajah, La tavola di smeraldo, in Ibis, rivista bimestrale di
studi esoterici, n° 4-5-6 luglio/dicembre 1950.
Bestiari Medievali, Einaudi.
Mario Tosi, Dizionario delle Divinità dell’Antico Egitto,
Ananke.
Robert Graves, I miti greci, Longanesi.
Ermete Trismegisto, Corpus hermeticum, Rizzoli.
L’opera originale di Veronica Piu in copertina.
17
I Nibelungi
trascrizione di Giacomo Tognacci e Sofia Gini
I NIBELUNGI
(Rapsodia germanica)
Con mille graziosi complimenti, la principessa Kriemhilt
s’avanzò per ricever dama Brunhilt e il suo seguito.
Con le loro bianche mani, si videro gettar da parte le ciocche dei loro capelli, quando si scambiarono un bacio. Se
lo dettero con grande affetto.
La vergine Kriemhilt parlò amichevolmente.
- “Siate la benvenuta in questo Paese, per me, per mia madre e per tutti coloro che ci sono amici fedeli.”
E da una parte e dall’altra s’inchinarono.
E le donne s’abbracciarono a più riprese. Giammai si è
udito parlare d’una accoglienza tanto affettuosa quanto
quella fatta alla fidanzata da dama Uota e da sua figlia.
Parecchie volte esse baciarono le sue dolci labbra.
Quando le donne di Brunhilt furono tutte discese sulla
spiaggia, parecchi giovani guerrieri condussero per la
mano molte vergini riccamente vestite. Quelle nobili fanciulle circondarono Brunhilt.
Prima che tutti i saluti fossero finiti, passò una lunga ora.
Durante questo tempo fu baciata più d’una rosea bocca.
Le figlie del re stavano sempre una presso l’altra. E un gran
numero d’eroi famosi si compiacevano a contemplarle.
Essi le seguivano con lo sguardo, ben sapendo che non
potevano veder nulla di più bello che quelle due donne;
e lo si diceva senza esagerare, perché nella bellezza della
loro persona nulla era simulato, nulla era ingannatore.
Quelli che sapevano apprezzar le donne e le loro forme
graziose lodavano la bellezza della fidanzata di Gunther.
Ma i più saggi che le avevano meglio paragonate, dicevano che Kriemhilt era preferibile a Brunhilt.
Donne e vergini si avanzarono le une verso le altre.
Quante bellezze magnificamente vestite! Molte bandiere di seta e un gran numero di tende cuoprivano tutta la
campagna davanti a Worms.
I parenti del re si stringevano intorno a lui. Le due regine e
tutte le dame furono condotte nei punti riparati dal sole. I
guerrieri del Paese burgundo le accompagnavano.
Tutti gli ospiti erano venuti a cavallo. Si cozzavano brillantemente le lancie contro gli scudi, e il piano si cuoprì di
polvere, come se tutto il Paese fosse stato in fiamme.
I veri eroi si riconobbero presto.
Le dame guardavano i giuochi dei cavalieri. Credo che
Siegfrid passò e ripassò parecchie volte dinanzi ai padiglioni, cavalcando con la spada in mano. Egli conduceva
mille valorosi guerrieri dei Nibelungi.
Secondo il consiglio del re Hageno di Troneja, s’avanzò
e fece cessare amichevolmente il torneo, onde preservar
dalla polvere quelle belle fanciulle. Tutti gli stranieri lo se-
Edizione Sonzogno Biblioteca Universale databile fra il
1889 e il 1910...
X
Come Brunhilt fu ricevuta a Worms
Dall’altra parte del Reno, si vedeva il re, seguito da parecchi drappelli di cavalieri che si avvicinavano alla riva.
Le chinee destinate alle giovinette, che erano in buon numero, venivano condotte per la briglia.
Quelli che dovevano riceverle stavano pronti.
Quando i guerrieri dell’Islanda e del Nibelungen, cioè gli
uomini di Siegfrid, arrivarono sulle loro imbarcazioni, si
diressero rapidamente – e le loro braccia erano infaticabili – verso il punto in cui si trovavano gli amici del re dall’altra parte del fiume.
Sentite adesso come la regina Uota, la ricchissima, condusse la vergine fuor del castello e ne uscì anch’essa.
Parecchi cavalieri e molte giovinette fecero conoscenza
in quel giorno.
Il margravio Gère conduceva per la briglia il cavallo di Kriemhilt, ma soltanto fino alle porte del castello. Al di là,
Siegfrid, l’uomo prode, la servì affettuosamente. Era una
bella fanciulla. In seguito, ne fu ben ricompensato dalla
giovinetta.
Ortwin l’ardito cavalcava presso dama Uota. Un gran numero di cavalieri e di vergini li seguivano. Giammai, bisogna confessarlo, non s’erano vedute a simili ricevimenti
tante donne riunite.
Fino all’arrivo della barca, non pochi brillanti giuochi d’armi – si farebbe male a dimenticarlo – furono compiuti da
guerrieri famosi davanti alla bella Kriemhilt.
Allora vennero tolte dalla sella parecchie donne riccamente vestite.
Il re ed i suoi illustri ospiti avevano traversato il fiume. Ah!
davanti alle dame quali forti lancie volarono in frantumi!
Si udiva il fracasso di molti scudi violentemente urtati. Le
loro punte, riccamente ornate, risuonavano da lontano
sotto i colpi.
Le donne stavano vicino alla riva. Gunther discese dal vascello co’ suoi ospiti. Egli condusse da se stesso Brunhilt
per la mano.
Le magnifiche vesti e le splendide pietre preziose brillavano a gara.
18
I Nibelungi
guirono subito senza nessuna difficoltà.
Il signor Gernot parlò così:
- “Lasciate qui i vostri cavalli finché venga il fresco. Noi
andremo ad accompagnar le belle dame fino alla reggia,
onde quando il re vorrà salire a cavallo siate tutti pronti.”
Subito cessarono i passi d’arme. Lasciarono il piano per
ritirarsi sotto le tende, dove il tempo passò piacevolmente. I guerrieri stavano vicino alle dame da cui speravano
ottenere i favori. Così passarono le ore fino al momento
della partenza.
Prima del tramonto del sole, l’aria incominciò a rinfrescarsi e non si volle tardar di più. Dame e cavalieri cavalcarono verso il castello. Gli occhi si posavano con piacere sulle
attrattive delle belle donne.
Mostrando il loro coraggio, i buoni guerrieri corsero alcune lancie per le vesti, secondo l’uso del Paese, fino a che
non giunsero alla reggia, dove il re mise piede a terra. Ivi
le dame furono servite dai cavalieri come si conveniva ad
eroi di tanto valore.
Allora le regine si lasciarono. Dama Uota e sua figlia si ritirarono nei loro vasti appartamenti, accompagnate dal
loro seguito. Da tutte le parti echeggiavano alte grida
d’allegrezza.
Prepararono dei sedili. Il re voleva recarsi al banchetto co’
suoi ospiti. Accanto a lui si vedeva la bella Brunhilt. Nel
Paese del re, ella portava la corona. Oh! come era riccamente vestita!
Parecchi seggi principeschi erano collocati intorno a buone e larghe tavole, tutte coperte di vivande, secondo ciò
che ci hanno narrato. Non mancava nulla di quanto si poteva desiderare. Presso il re erano seduti parecchi convitati di gran lignaggio.
Gli scudieri reali portavano l’acqua nelle coppe d’oro rosso.
Prima che il capo del Reno avesse preso l’acqua, il signor
Siegfrid fece quanto aveva diritto di fare. Gli rammentò
la fede datagli e la promessa fattagli prima che avessero
veduto Brunhilt nella sua Patria, l’Islanda.
Egli disse:
- “Vi dovete ricordare di ciò che la vostra mano mi giurò:
che se giammai dama Brunhilt veniva in questo Paese, mi
dareste vostra sorella... Che sono divenuti i vostri giuramenti?... Io ho compiuto per voi in questo viaggio dure
fatiche.”
Il re rispose al suo ospite:
- “Voi mi avete avvertito con ragione, e la mia mano non
sarà spergiura. Vi ajuterò del mio meglio a riuscire in questo progetto d’unione.”
E pregò amichevolmente Kriemhilt d’intervenire al banchetto.
Essa entrò nella sala seguita da parecchie belle vergini,
ma dall’alto di un gradino Giselher gridò:
- “Fate tornar indietro coteste giovinette, perché bisogna
che mia sorella comparisca sola davanti al re.”
Kriemhilt fu condotta presso il re. Molti nobili cavalieri di
diversi Paesi riempivano la vasta sala. Li pregarono di rimanere ai loro posti. Già Brunhilt s’era recata al suo posto,
a tavola.
Essa ignorava quanto stava per accadere.
Allora il figlio di Dankrat disse al suo più prossimo parente:
- “Ajutatemi a far sì che mia sorella prenda Siegfrid per
isposo.”
E tutti ad una voce sclamarono:
- “Essa può farlo con onore.”
Il re Gunther disse:
- “O mia vezzosissima sorella, io spero che per la tua virtù
il mio giuramento sarà mantenuto. Io ti ho promessa ad
un eroe. Se egli diviene tuo sposo avrai adempito i miei
voti con gran fedeltà.”
La nobile vergine rispose:
- “Mio amatissimo fratello, non c’è bisogno alcuno che mi
preghiate. Voglio sempre fare quanto mi comanderete.
Sia dunque così. Io amerò volentieri, o signore colui che
mi date per isposo.”
Siegfrid arrossì di piacere e d’amore. L’eroe offrì il suo
omaggio a Kriemhilt.
Li fecero avvicinar l’una all’altro, nel circolo dei parenti, e
le dimandarono se ella accettava quell’uomo valoroso.
Un pudico imbarazzo di giovinetta la rese muta per un
istante. Ma per la felicità e la gioja di Siegfrid non lo respinse. Ed egli la prese per moglie, il nobile re del Niderlant.
Era fidanzato alla vergine, ed essa a lui. Siegfrid strinse
dolcemente fra le sue braccia la leggiadra fanciulla. Quindi baciò la nobile principessa al cospetto di quell’assemblea d’eroi.
Allora questi si divisero in due gruppi. In faccia all’ospite,
si vedevano assisi Siegfrid e Kriemhilt. Parecchi prodi uomini la servivano. I Nibelungi accompagnavano Siegfrid.
Dall’altro lato stavano seduti il re e Brunhilt. Quando essa
vide Kriemhilt accanto a Siegfrid (giammai provò tanta afflizione) cominciò a piangere. E lungo le sue rosee
guancie si vedevano scorrer le lagrime.
Il capo del Paese disse:
- “Che avete, sposa mia? Perché oscurar così il brillante
splendore de’ vostri occhi? Dovete invece rallegrarvi. Il
mio Paese, i miei castelli, e tutti i miei valorosi uomini vi
sono sottomessi.”
- “Ah! Ho ben ragione di piangere! Rispose la bella vergine. È per causa di vostra sorella che ho il cuore così amareggiato. La vedo seduta accanto al vostro uomo ligio, e
mi sento costretta a piangere nel vederla abbassata fino
a questo punto.”
Il re Gunther rispose:
- “Acquietatevi. In un altro momento vi dirò perché ho
19
dato mia sorella a Siegfrid. Ah! che essa possa vivere felice con quest’eroe!”.
- “Lo deplorerò eternamente, rispose lei, per la sua bellezza e la sua virtù. Se sapessi dove andare, fuggirei volontieri, e giammai mi assiderò a fianco vostro finchè non
mi avrete detto il perché Siegfrid è divenuto lo sposo di
Kriemhilt.”
Il re Gunther le disse:
- “Ebbene, ve lo dirò. Sappiate che egli possiede quanto
me un gran numero di castelli e un gran regno. Credetemi, è un re potente. Ecco perché gli ho dato in moglie la
bella e graziosa giovinetta.”
Qualunque cosa Gunther avesse potuto dirle, essa conservò sempre il suo fosco umore.
I prodi cavalieri lasciarono la tavola. Le loro giostre furono
tanto gagliarde che tutto il castello ne echeggiò. E nondimeno il re si annojava presso i suoi ospiti.
Egli pensava alle dolcezze che lo attendevano presso la
sua bella moglie. Il suo cuore si schiudeva alla speranza
che essa adempirebbe finalmente al suo debito d’amore.
E cominciò a guardare affettuosamente Brunhilt.
Gli ospiti furono pregati di cessar i tornei perché il re desiderava condur sua moglie alla camera nuziale. Kriemhilt
e Brunhilt s’incontrarono sui gradini della sala. Nessun
odio esisteva ancora fra esse.
Il loro seguito le accompagnò. I valletti riccamente vestiti
portavano le faci. I guerrieri dei due re si separarono. Si
vide un gran numero di buone spade accompagnar Siegfrid.
I capi giunsero nei loro appartamenti. Ognuno d’essi pensava vincer col suo amore la sua sposa vezzosa.
Questa idea rendeva più dolci i loro sentimenti. La felicità
di Siegfrid fu completa e senza limiti.
Quando fu coricato presso Kriemhilt, offrì teneramente
alla giovinetta il suo nobile amore, ed essa divenne come
la sua propria carne; certo lo meritava, quella donna tanto ricca di virtù.
Non vi dirò altro, di ciò che egli fece per lei.
Ma ascoltate il racconto di quel che successe a Gunther
con dama Brunhilt.
Più d’un bel cavaliere s’è trovato a più dolce festa vicino
ad altre donne.
La folla s’era ritirata. Dame e cavalieri erano tornati ai loro
alloggi. Il re si affrettò a chiudere la porta perché sperava
che quella bella persona sarebbe sua. Ma il momento in
cui ella diverrebbe sua moglie non era ancor giunto.
Ella si diresse verso il suo letto, con la sola sua bianca camicia di lino.
Il nobile cavaliere diceva fra sé: “Adesso sto per ottenere
ciò che ho per tanto tempo desiderato!”.
E certo essa doveva piacergli per la sua splendida bellezza.
Con la sua mano il nobile re, spense il lume, e quindi si
avvicinò alla giovine, il coraggioso guerriero. Poi le si coricò accanto. Grande fu la sua gioja! Egli strinse fra le sue
braccia la vergine degna d’amore.
Stava per prodigarle le più tenere carezze, ma Brunhilt
non glielo permise. Essa s’irritò terribilmente; e ciò lo desolò. Sperava trovar una felicità e non incontrava che inimicizia e odio.
Essa gli disse:
- “Nobile cavaliere, dovete rinunziare a quanto avete progettato, perché ciò non si compirà. Sappiatelo: vergine
sono e resterò. Fino a che non mi si sveli il segreto che vi
ho dimandato.”
Gunther cominciò a odiarla.
Volle ottener per forza il di lei amore e lacerò la sua camicia.
La potente donna diè prontamente di piglio ad una cintura d’oro e di seta con cui si stringeva la vita. Essa fece
gran male al re.
Gli legò i piedi e le mani; poi lo afferrò e lo appese ad un
gran chiodo infisso nella parete, onde non le turbasse più
il sonno; essa gli proibiva d’amarla.
La di lei forza era tanta che poco mancò non ne ricevesse
la morte.
E quello che avrebbe dovuto essere il padrone, incominciò a pregare:
- “Scioglietemi, nobilissima vergine. Io non tenterò più di
vincervi, o bella dama, e non verrò più a coricarmi tanto
vicino a voi.”
Ma essa s’inquietò poco del suo soffrire. Era mollemente coricata, e Gunther rimase appeso tutta la notte, fino
all’indomani quando l’alba venne a rischiarare la camera
nuziale.
Durante quel tempo, il piacere del re non fu grande.
- “Ditemi un po’ signor Gunther, non vi dispiacerebbe
punto che i vostri scudieri vi trovassero legato come siete, dalla mano d’una donna?”.
Così parlò la bella vergine. Ed il nobile cavaliere rispose:
- “Ciò non tornerebbe vantaggioso nemmeno a voi. Vi
confesso però che ne avrei poco onore. In nome delle
vostre virtù lasciatemi venir vicino a voi, e poiché il mio
affetto vi spiace, la mia mano non toccherà più le vostre
vesti.”
Allora essa lo sciolse e lo lasciò libero. Gunther entrò in
letto accanto a Brunhilt, ma stava tanto lontano che non
le toccava nemmeno la sua finissima camicia, perché
nemmen ciò ella avrebbe tollerato.
Le sue ancelle giunsero, recandole nuovi ornamenti; ne
avevano preparato un gran numero per quella mattinata
nuziale.
Quantunque tutti fossero allegri, il re rimaneva d’umor
cupo, e la generale allegria lo irritava.
Secondo l’antico costume che dovettero seguire, Gunther e Brunhilt non tardarono a recarsi alla cattedrale, ove
20
fu cantata la messa.
Anche il signor Siegfrid vi si recò. La folla numerosissima
vi si accalcava.
Ivi ricevettero gli onori reali loro dovuti; la corona e il mantello. Quando furono benedetti tutti quattro, si ammirò il
bell’effetto che facevano con la corona in testa.
Sappiate che un gran numero di guerrieri, seicento ed
anche più, ricevettero la spada, in onore del re. Vi furono
grandi feste nel Paese dei Burgundi; e si udivano cozzar le
lancie dei giovani guerrieri.
Le belle vergini stavano alle finestre. Esse guardavano
brillar da lungi gli scudi brillanti; ma il re si teneva in disparte da’ suoi uomini. Qualunque cosa facessero, lo si
vedeva camminar pensoso e triste.
Gli umori di Siegfrid e di Gunther erano ben differenti. Il
nobile cavaliere sapeva bene ciò che tormentava il re. Si
avanzò dunque verso di lui e gli domandò:
- “Che vi è mai successo? Fatemelo sapere.”
Gunther rispose al suo ospite:
- “Con questa donna ho introdotto in casa mia la vergogna e la sciagura. Quando ho voluto parlarle d’amore,
essa mi ha legato come un capretto. Poi trascinandomi
mi ha appeso ad un gran chiodo infisso nella parete. Vi
rimasi pieno d’angoscia tutta la notte, e soltanto a giorno
mi sciolse. Ed essa se ne stava mollemente coricata. Te lo
dico in segreto come ad un amico.”
Il forte Siegfrid rispose:
- “Ne sono afflitto vivamente. Ma te ne renderò padrone;
cessa di fomentare la tua collera. Farò in maniera che essa
sia sì strettamente unita teco, che d’ora innanzi essa non
ti ricuserà più mai l’amor suo.”
Queste parole consolarono Gunther che aggiunse:
- “Guarda adesso le mie mani; osserva come sono gonfie.
Mi ha domato come se fossi stato un bambino. Il sangue
scaturiva dalle mie unghie. Credevo proprio di morire.
- “Non temer nulla, gli rispose Siegfrid, tu la vincerai. Le
nostre notti non sono state simili. Tua sorella Kriemhilt è
ora come la mia carne. Bisogna che stanotte Brunhilt diventi tua moglie.”
Poi aggiunse:
“Stanotte, verrò nella tua camera, reso invisibile dall’effetto della mia Tarnkapp, in maniera che nessuno potrà
dubitar dell’astuzia. Lascia dunque che i tuoi valletti si rechino al loro alloggio. Spegnerò le faci in mano ai paggi,
e quello sarà il segno che sono arrivato e sono pronto a
venirti in aiuto. Costringerò questa donna ad accordarti il
suo amore, oppure ci lascierà la vita.”
- “Purché tu non le provi il tuo amore, rispose il re, puoi
fare ciò che vuoi alla mia cara sposa. Del resto ne sarò
contentissimo. Quand’anche tu dovessi ucciderla sarò
contento. È una donna terribile.”
- “Prometto sulla mia parola d’onore, disse Siegfrid, di non
provare amore di sorta. Preferisco la tua bellissima sorella
a tutte le donne che abbia mai vedute.”
Gunther credè senza secondi fini alle parole di Siegfrid.
In questo tempo i guerrieri si dedicavano ai piaceri ed ai
pericoli dei giuochi cavallereschi.
Si pose fine ai tornei, onde le donne potessero recarsi nella gran sala. I valletti facevano sgombrar la gente dinanzi
ad esse.
Cavalli ed uomini lasciarono la corte. Un vescovo conduceva ciascuna delle due principesse che si recarono alla
messa reale. Il seguito dei galanti cavalieri veniva dietro
ad esse.
Il re stava seduto accanto a sua moglie pieno di speranza.
Egli pensava senza tregua a ciò che Siegfrid gli avea promesso. Quel solo giorno parve a lui che durasse un mese
almeno.
La sua anima era completamente assorta nell’amor di
Brunhilt.
Aspettò con ansia che i convitati si alzassero da tavola.
La bella Brunhilt e Kriemhilt furono condotte verso i rispettivi appartamenti. Oh! Quali valenti spade si vedevano camminar dinanzi al re!
Il signor Siegfrid era teneramente seduto accanto alla sua
vezzosissima sposa. La sua gioja era grande e pura. Con le
bianche sue mani accarezzava quelle dell’eroe quando ad
un tratto questo disparve.
La regina ne rimase sbigottita e domandò alle sue ancelle
dove era andato il re. Ma niuno seppe dirglielo.
Egli era colà dove stavano i valletti con le faci, e cominciò
a spegnerle.
Gunther capì che Siegfrid era vicino a lui.
Il re sapeva quanto stava per succedere. Perciò dette
commiato alle dame e alle damigelle. Quando ciò fu fatto, il nobile principe andò a chiuder da se stesso la porta.
Poi mise i chiavistelli per di dentro.
Nascose quindi il lume sotto i parati del letto. E allora incominciò fra il forte Siegfrid e la bella vergine (così doveva essere) un terribile giuoco. Ciò faceva pena e piacere al
tempo stesso al re Gunther.
Siegfrid si coricò accanto alla regina. Essa gli disse:
- “Ora, signor Gunther, qualunque possa essere il vostro
desiderio statevene tranquillo, se non volete soffrir vergogna e dolore. Le mie mani sapranno ben punirvi.”
Siegfrid trattenne la sua voce e non rispose verbo.
Quantunque non lo vedesse, Gunther sentiva bene che
nulla di misterioso accadeva fra loro. Poco riposo si gustava su quel letto!
Siegfrid finse d’essere il potente re Gunther, e prese fra le
braccia la vergine degna d’amore. Ma essa lo gettò fuor
del letto, sopra una panca che era non lontano da lì, con
tanta forza che la sua testa picchiò con fracasso sopra
uno sgabello.
Con nuovo vigore l’uomo ardito si rialzò di sbalzo.
21
Voleva tentar meglio; ma gliene incolse male, quando si
provò a domarla. Io credo che alcuna donna non si difese
mai sì vigorosamente.
Siccome non voleva ritirarsi, la vergine gli gridò:
- “Non vi è permesso di lacerar la mia bianca camicia. Siete molto tracotante e ve ne pentirete.”
Ciò detto afferrò e strinse fra le sue braccia il valido eroe,
come aveva già fatto col re, desiderando riposar senza
molestia sul suo letto.
Voleva vendicarsi terribilmente, perché le aveva stracciata la camicia.
A che serviva la gran forza di Siegfrid in quel momento,
in cui essa spiegava la potenza superiore delle sue membra?
Lo trascinò con violenza – egli non poteva resisterle – e
lo spinse senza mercé contro un mobile che si trovava a
pié del letto.
- “Ohimè! pensò il guerriero. Se debbo perder qui la vita
per mano d’una vergine, d’ora innanzi le donne mostreranno ai loro mariti un umor più feroce di quello che hanno mostrato finora.”
Il re sentiva tutto, e tremava per tutte le membra.
Ma la vergogna assalì Siegfrid, che incominciò a non aver
più riguardo. Respinse Brunhilt con prodigioso vigore e
riprese con lei una lotta piena di angoscie.
Per quanto essa lo contenesse fortemente, la sua collera
ed anche il suo meraviglioso coraggio unito ad una forza
straordinaria gli vennero in ajuto.
Pervenne a rialzarsi malgrado Brunhilt.
La sua ansietà era grande. Di qui e di là si urtarono nella
camera chiusa.
Anche il re Gunther era in gran tormento. Ad ogni istante
egli doveva evitarli, da una parte e dall’altra. Essi lottarono così con tanta violenza, che fu veramente miracolo se
ne uscirono sani e salvi.
Il re gemeva sul pericolo di entrambi; ma temeva assai
più la morte di Siegfrid, perché essa aveva quasi tolto la
vita al guerriero. Se avesse osato sarebbe corso volontieri
in suo soccorso.
La lotta durò ancora lungamente e in grandissima furia.
Finalmente Siegfrid pervenne a ricondur la vergine sulla
sponda del letto, e per quanto gagliardamente ella si difendesse, le sue forze finirono per esaurirsi. Il re era agitato da mille diversi pensieri.
Il tempo gli parve lungo prima che Siegfrid potesse vincerla. Essa gli strinse le mani con tanta violenza che il
sangue gli spicciò fuor delle unghie. Era una tortura per
l’eroe. Nondimeno domò la nobile vergine, e la costrinse
a mutar l’irrevocabile risoluzione da lei presa.
Il re udiva tutto, quantunque non dicesse nulla.
Siegfrid la spinse sul letto e ve la calcò tanto fortemente
che essa gettò alte grida. Con la sua gran vigoria le faceva
terribilmente male.
Allora essa si portò la mano al fianco per prender la sua
cintura e legarlo. Ma il braccio dell’eroe la respinse con
tanta violenza, che le di lei membra scricchiolarono assieme a tutto il suo corpo.
La lotta era finita. Brunhilt divenne la moglie di Gunther.
Essa gli disse:
- “Nobile re, lasciami la vita e perdonami ciò che ti ho fatto. Mai più mi difenderò contro il tuo amore. Ho troppo
provato che sai domar le donne.”
Siegfrid lasciò la regina coricata e si ritirò, come se volesse spogliarsi. Le prese dal dito un anello d’oro senza che
la nobile regina se ne accorgesse, e le tolse anche la cintura.
Ignoro se lo facesse per orgoglio. La regalò a sua moglie,
e in seguito per causa di quella cintura successero grandi
disgrazie.
Il re e la bella vergine rimasero coricati l’uno a fianco
dell’altra.
Egli la trattò con gran tenerezza, e in maniera degna d’entrambi; ed essa dovette rinunziar alla sua collera e al suo
pudore.
Le sue tenerezze la fecero leggermente impallidire. Ma,
pur troppo, l’amore scacciò la sua gran forza.
E d’allora in poi non fu più forte d’un’altra donna; egli accarezzò con amore le sue attrattive impareggiabili. Sarebbe stato invano che Brunhilt avrebbe provato a resister
più oltre.
Ecco ciò che Gunther aveva ottenuto col suo affetto.
Rimase così pieno di soave passione vicino alla sua dilettissima moglie, fino alla prima luce del giorno.
Quanto a Siegfrid, egli era tornato nel suo appartamento,
ove fu ben ricevuto dalla sua bella sposa.
Indovinando la domanda che ella stava per dirigergli, egli
le nascose a lungo ciò che aveva portato per essa, fino a
che portando la corona, non fu arrivata nel suo Paese.
Al mattino il re si mostrò di molto miglior umore che non
era stato fino allora; e molti nobili uomini di diversi Paesi
si rallegrarono dell’allegria del re. Egli offrì i suoi doni a
tutti coloro che aveva invitati.
Le nozze durarono quindici giorni, e per tutto quel tempo
non cessò il rumor dei divertimenti ai quali ciascuno si
dedicava.
Si peserebbero difficilmente i tesori che il re spese in
quella occasione.
Secondo gli ordini del nobile Gunther, i suoi parenti distribuirono, per fargli onore, a parecchi prodi guerrieri,
abiti ed oro rosso, cavalli e denaro.
I capi che erano venuti si ritirarono soddisfattissimi.
E il re Siegfrid del Niderlant dette a’ suoi mille uomini tutte le vesti che aveva fatto portar seco, e dei bellissimi cavalli da sella. Potevano oramai viver da signori.
Prima che si fossero distribuiti tutti quei ricchi presenti,
il tempo parve lungo a coloro che desideravano tornar
22
nelle loro terre.
Giammai compagni d’armi furono meglio trattati. Così
finì la festa delle nozze e molti guerrieri partirono.
23
Geopolitica
Geopolitica
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del
nostro tempo
Gabriele Gruppo
Il problema della sovranità nazionale
che hanno nella speculazione l’unica ragion d’essere.
L’Europa occidentale è stata la terra di nascita del moderno concetto di Stato-nazione, un fenomeno organico
articolato e complesso, che ha avuto la capacità di plasmare l’identità dei popoli di tutto il Vecchio Continente,
rafforzarla, e dargli un ruolo ben preciso in quella grande
sequenza di eventi intercorsi tra il XVIII e il XX secolo, capaci di segnare la storia mondiale in modo indelebile.
Noi, quindi, affermiamo la validità di questo strumento
identitario, pur nelle sue condizioni a oggi non ottimali.
Mettiamo quindi subito in chiaro una cosa fondamentale: la nostra difesa del concetto di Stato-nazione non
è né dovuta ad anacronistici sentimenti patriottardi, né
tanto meno all’incapacità di porre una critica severa, ma
fondamentalmente
costruttiva, alle devianze che
In un susseguirsi di mutalo Stato-nazione ha intramenti politici, sociali ed ecopreso nell’ultima fase del
nomici profondi, spesso raXX secolo. In particolare
dicali, mai definitivi (la storia
al venir meno del suo ruoin sé non sarà mai definitiva),
lo di difensore dell’identiche hanno visto lo Stato-natà dei popoli, in nome di
zione strumento protagoniquei precetti mondialisti
sta, si può ben dire che esso
e progressisti, che hanLa
sovranità
perduta.
abbia saputo adempiere a
no minato le fondamenta
un dovere fondamentale:
stesse dell’identità delle
sviluppare l’identità dei popoli.
genti dell’Europa occidentale, ponendola per giunta al
servizio di fenomeni socialmente disgregativi e culturalAncora nei tempi nefasti in cui viviamo, pur nella situa- mente omologanti, che hanno contribuito non poco allo
zione a noi più vicina e contemporanea, che vede lo svilimento delle prerogative dei popoli a tutto vantagsvilimento del concetto di comunità a opera della glo- gio dell’economia postmoderna, e sulla sua involuzione
balizzazione e dell’individualismo, sua base filosofica, nell’ambito dei processi di globalizzazione dei mercati.
lo Stato-nazione europeo sta mostrando caratteristiche
di resistenza, anche nel quadro dell’Unione Europea, o Nonostante tutto però, nella nostra visione del mondo,
dell’affermarsi con sempre maggior chiarezza di un si- l’Europa occidentale ha ancora nello Stato-nazione un
stema geopolitico multipolare dove a contrapporsi sono baluardo di resistenza ai gruppi apolidi mondialisti, e
grandi agglomerati continentali, che hanno le sembianze uno strumento di reazione al tentativo operato da quedi moderne forme d’impero.
sti poteri di smantellare definitivamente le peculiarità dei
popoli, sostituendole con legislazioni universalistiche,
Comprendiamo benissimo le critiche che possono esse- che mirano a far prevalere il concetto neutro e astratto di
re mosse all’attuale condizione in cui versa il concetto cittadinanza; come nella miglior visione dell’illuminismo
di Stato-nazione euroccidentale, e nella sua applicazio- giacobino, della filosofia marxista, e della prassi neolibene pratica. Esso, infatti, sembra ormai imbrigliato nelle rista.
istituzioni comunitarie, e sottoposto, in certi casi, a una L’Unione Europea si sta rivelando, infatti, il peggior netutela imposta dall’alto da precisi organi sovranazionali, mico dell’identità dei popoli europei, e strumento della
Commissione Europea e Banca Centrale Europea, inter- disintegrazione di una Kultur e di una civiltà che sono stavenuti nell’ambito della crisi dei debiti Sovrani, che ha te grandiose dominatrici della storia per secoli, e di cui lo
colpito specialmente i cosiddetti PIIGS, quel poco invidia- Stato-nazione è risultato essere un frutto prezioso.
bile novero di nazioni, facenti parte dell’area euro, le cui
condizioni economiche instabili hanno prestato il fianco Per questo motivo riteniamo che il processo d’integrazioa un vero e proprio attacco organizzato contro tutta l’UE, ne comunitaria prima, e soprattutto l’attuale protagoniperpetrato dalle piazze finanziarie e da soggetti apolidi smo della Commissione Europea e della banca Centrale
26
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo
Europea in questi anni di crisi, abbiano contribuito alla
mortificazione delle ultime difese identitarie degli Statinazione, con il preciso intento di dissolvere la loro forza,
per creare dei semplici burattini eterodiretti.
ne continentale politica, che sembrava difficilissima in
tempi normali, si sta profilando sempre più nettamente
attraverso interventi emergenziali, dove gli Stati-nazione
saranno sempre più costretti a cedere le loro autonomie
decisionali principali, al fine di ottenere diverse tranches
in miliardi di euro, per la messa in sicurezza della loro credibilità finanziaria e per poter così attirare gli investitori
esteri, vitali nell’ambito della globalizzazione, ma letali
per la struttura economica di realtà molto indebolite, o
private di ogni indipendenza decisionale.
Proprio l’ingerenza recente degli organismi comunitari,
intervenuti per “salvare” nazioni in difficoltà per via della
crisi dell’area euro, ha di fatto sancito la cessione di cospicue porzioni di sovranità politica ed economica da parte
dei governi che hanno beneficiato di questi “salvataggi”,
dando l’avvio a un processo di mutamento dello Statonazione, che certo non si limiterà al semplice ambito
dell’emergenza finanziaria, ma potrà essere applicato
apertamente come norma di condotta del potere ormai conclamato
delle principali istituzioni dell’UE. Organismi, è
bene ricordarlo, posti al
di fuori di qualsiasi controllo politico, autoreferenziali, e animati dalla
volontà di cancellare le
specificità nazionali, in
nome appunto di precetti universalistici e neoliberisti.
Riteniamo però che in pericolo non sia solamente la sovranità di nazioni europee strutturalmente deboli, come
nel caso dei PIIGS, ma
che il rafforzamento di
un certo potere continentale e di sovrastrutture politiche e finanziarie non controllabili, proprio in ragione del loro
nuovo ruolo nell’ambito
della crisi dell’area euro,
potrà, a lungo andare,
essere capace di intaccare anche l’autonomia
di quegli Stati ancora ritenuti solidi; Germania e
Francia in primis.
Attualmente, l’opera di
smantellamento delle
Il nazionalismo ecosovranità nazionali semnomico tedesco e il riGermania.
bra essere più marcata
schio di logoramento
proprio presso quegli
nazionale
Stati che hanno beneficiato dei cosiddetti “salvataggi”;
Spagna, Grecia, Portogallo e, in misura minore ma non Il declino economico dell’Occidente si avvia a un nuovo
meno pericolosa, Italia e Irlanda. Tuttavia, l’intervento anno di recrudescenza, con pesanti contraccolpi sistemisuppletivo della Commissione Europea, della Banca Cen- ci. Sia l’America settentrionale sia l’Unione Europea non
trale Europea e del Fondo Monetario Internazionale, or- hanno preso consapevolezza che proprio globalizzazioganismo economico addirittura extraeuropeo, non sem- ne e finanza apolide hanno posto le fondamenta di quebra volto a una condizione temporanea, bensì ha tutti i sta loro fase discendente, e le classi dirigenti al potere tra
connotati per essere definitivo e irrevocabile. La debo- le due sponde del Nord Atlantico perseguono ancora con
lezza degli Stati colpiti dall’attacco finanziario, infatti, è ostinazione la via che ha portato al disastro. Questa conormai cronica e strutturale, se inquadrata nei parametri dizione andrà sicuramente ad aggravare il quadro econoneoliberisti, quindi essi avranno sempre bisogno di que- mico generale, e anche di quelle realtà del Vecchio Contisto supporto, che pone però vincoli pesanti alla ripresa nente che hanno retto fin qui meglio ai contraccolpi della
sociale e al benessere popolare, in quanto la sua attenzio- crisi. In particolare la Germania, sovente tacciata di trarre
ne è rivolta unicamente alla stabilità dei conti pubblici, e enormi vantaggi dalle disgrazie delle altre nazioni europee, non potrà reggere ancora per molto nel suo ruolo di
alla loro appetibilità per i mercati speculativi.
solitaria “locomotiva” d’Europa, e le prime crepe nella sua
In pratica, la corda servita per il salvataggio finisce per corazza potrebbero a breve palesarsi in modo pericoloso,
diventare un cappio, con cui entità sovranazionali deter- facendo così diminuire il suo potere contrattuale e il suo
minano le politiche interne di una nazione sovrana. Il fine primato di nazione indipendente proprio nel confronto
è evidente, se si considerano tutti i fattori e le dinamiche con le istituzioni comunitarie.
fin qui svoltesi all’ombra della crisi dell’area euro: l’unio27
rio.
Che Berlino abbia, nell’ambito della crisi dei debiti sovrani, fin qui fatto anche i propri interessi nazionali è fuor di
dubbio, ed è stata cosa a parer nostro legittima, anche se
riteniamo da sempre ingiusta una certa vulgata mediatica, che dipinge la Germania come unica responsabile
delle politiche di austerità interne all’Unione Europea, o
l’asservimento di intere nazioni ai diktat della troika UE/
BCE/FMI, nel quadro delle iniziative di “salvataggio”, sia
durante le fasi più acute degli attacchi speculativi sia del
successivo ruolo suppletivo per il riordino . La Germania è
l’unico Stato-nazione dell’area euro che abbia mantenuto
integre gran parte delle proprie prerogative economiche
e politiche, e questo, ne siamo certi, rappresenta un fattore positivo non solamente per la Germania, ma in grado
anche di porre un freno allo strapotere di entità prive di
controllo politico e di legittimazione popolare.
Siamo consapevoli che, nel caso d’implosione dell’euro, la
Germania subirebbe certo un duro colpo, ma non mortale.
Per Berlino addirittura si potrebbe profilare un più accentuato controllo del Vecchio Continente nel medio/lungo termine, senza più dover rendere conto alle regole imposte dal
partenariato comunitario”.
Ciò detto non possiamo negare che il logoramento prolungato, che sta caratterizzando questa fase della crisi
economica mondiale, possa in qualche modo intaccare
la solidità germanica e, quindi, porla in una condizione di
pericolosa interdipendenza proprio dai destini dell’area
euro.
Questo potrebbe portare, nel medio periodo, a una diminuita capacità da parte della Germania di contrastare
le spinte accentratrici delle istituzioni comunitarie, che
vedrebbero così spianata la strada per una riduzione
dell’indipendenza e della sovranità perfino di questa fondamentale nazione europea. Solida economicamente ma
politicamente ancora ricattabile per via del suo “passato
che non passa”. Lo spauracchio di un’Europa dominata
politicamente da Berlino è spesso trapelato proprio in
questi anni difficili; in cui, se da un lato la solidità tedesca
è stata garanzia per l’area euro, e fonte di rafforzamento
per la Banca Centrale Europea, dall’altro è stata mantenuta in vita l’artificiosa paura dell’espansionismo germanico che, a dire degli europeisti più ortodossi, potrebbe
essere debellato solamente riducendo l’indipendenza e
la sovranità della Germania, e dal suo assorbimento definitivo nell’alveo dei destini dell’Unione e della sua capacità di controllo sovranazionale. Per la Germania, quindi,
potrebbe non bastare più quella sorta di “nazionalismo”
economico che le ha garantito un primato e una concreta
importanza continentale in questi anni recenti, e proprio
un collasso economico rappresenterebbe un perfetto cavallo di Troia per il suo indebolimento come Stato-nazione, a tutto vantaggio dei poteri istituzionali dell’Unione,
che avrebbero così una pedina importante tra le mani, da
poter utilizzare qualora la crisi sociale europea dovesse in
qualche modo aggravarsi per via del prolungarsi della crisi, e occorresse cannibalizzare una struttura ancora forte,
ma non più indipendente politicamente, da utilizzare a
mo’ di “gendarme” dell’euro, e di “guardia del corpo” delle
tecnocrazie che dominano a Bruxelles e a Strasburgo.
L’economia tedesca risulta essere solida, nonostante tutto, e resta valido quel che scrivemmo nel 2012 nel nostro
articolo “La Germania alla conquista dell’Europa”.
“Quale nazione, in questa Europa, può vantare di avere una
casa automobilistica (la Volkswagen) leader mondiale, capace di mantenere alto il livello occupazionale in patria,
senza tuttavia rinunciare alle sfide dei mercati emergenti?
Solo la Germania.
Quale nazione, in questa Europa, ha differenziato il proprio
approvvigionamento energetico, rendendosi di fatto indipendente dalle eventuali turbolenze mediorientali e nordafricane? Solo la Germania, grazie alle quote sempre maggiori di energia proveniente da fonti rinnovabili, e dall’alleanza
con la Russia.
Quale nazione, in questa Europa, può dirsi finanziariamente solida? Solo la Germania.
Ecco perché riteniamo stucchevoli le lamentele verso il modus operandi che Berlino adotta nei confronti della crisi
dell’area euro.
C’è chi sostiene che, senza l’euro, la Germania cadrebbe a
terra, visto che ha beneficiato come nessun altro della moneta unica. Sarà pur vero, ma bisogna rammentare che,
senza la Germania, l’Unione Europea sarebbe entrata ancor
di più nella spirale discendente che sta ridimensionando il
ruolo dell’Occidente in tutto il pianeta. Magari immolandosi
per gli Stati Uniti, come vorrebbero le tante centrali di potere
filo-atlantiche ancora presenti nel Vecchio Continente, e che
hanno proprio nel Presidente della BCE un loro rappresentante.
Serve, alla nazione tedesca, non più la semplice nomea di
“virtuosa”, bensì un rinnovato orgoglio identitario, capace di liberare quelle forze positive che ancora albergano
in essa e nel suo nobile popolo.
Il rapporto di dipendenza tra UE e Germania è sicuramente
più favorevole per l’Unione, che può in ogni momento mettersi sotto le ali dell’aquila prussiana; mai avverrà il contra28
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo
La rivoluzione nazionale ungherese*
pericolo “fascista” ungherese, al risorgere dell’antisemitismo e baggianate simili.
A tre anni dalla sua ascesa al governo d’Ungheria Viktor
Orban e il suo partito, Fidesz, rappresentano per noi quel
modello ideale e serio di resistenza e reazione alla dissoluzione dei popoli d’Europa, delle loro specificità, dei
princìpi su cui si fonda la nostra civiltà.
“Orban è un dittatore!”. Tuonano le vestali del progressismo europeo.
“Orban sta facendo affondare l’economia ungherese”.
Rincarano i tromboni della finanza internazionale.
Dissoluzione voluta dal mondialismo economico apolide
e dal progressismo (pseudo)culturale d’ogni sfumatura
ideologica.
Eppure questo soggetto pericolosissimo piace al suo popolo, e da quel che sappiamo le manifestazioni del nazionalismo ungherese sono nutrite e compatte, mentre
i partiti dell’opposizione (socialisti e liberali) e le varie
ONG, che mestano sempre
nel torbido, possono vantare un seguito a dir poco
ridicolo.
Avendo noi sempre nutrito simpatie per il movimento
politico Jobbik, costatando
la solidità di questa realtà
nel corso della sua affermazione elettorale, vedevamo
Orban come una sorta di
nazionalista “moderato”,
con un passato da liberale e un programma che ci
sembrava poco coraggioso.
Invece, anno dopo anno, ci
siamo dovuti sinceramente
ricredere.
Il nuovo corso della politica ungherese è chiaro:
- Lotta contro la dipendenza economica dell’Ungheria dai finanziamenti internazionali.
Viktor Orban.
La politica espressa dal governo monocolore di Viktor Orban ha sterzato sempre più
verso iniziative di rottura con un certo tipo di “tradizione”
europea, che impone alle nazioni aderenti all’Unione Europea di seguire certi dettami ideologici ed economici.
Una rottura sempre più evidente, e sempre più profonda, che ha reso l’Ungheria una sorta di macchia nera
(è proprio il caso di dirlo) in mezzo al blu insignificante
dell’Unione Europea, una nazione ribelle, con un capo
demonizzato da tutti i media occidentali, anche oltre Atlantico, che anelano la sua caduta e il ritorno della terra
dei magiari nell’alveo della presentabilità democratica.
- Nazionalizzazione della
Banca Centrale, per poter
riavere piena sovranità monetaria.
- Iniziative di sostegno alla famiglia (quella normale).
- Pensioni più dignitose.
- Tutela dei lavoratori, in particolare contro gli abusi delle
multinazionali.
- Contrasto della criminalità (nomade e autoctona) e della corruzione.
Tutto questo è stato ottenuto in tre anni di governo, non
con mera propaganda ma con fatti concreti, e in un clima
di ostilità da parte dei cosiddetti “partners” europei, che
in tutto questo tempo non hanno mai perduto occasione
di tentare qualche ingerenza politica, per far deragliare il
nuovo corso d’Ungheria.
Problema: Viktor Orban, proprio perché ha osato sfidare
molti tabù, e ha di fatto evitato all’Ungheria la fine della
Grecia o del Portogallo, ha dalla sua parte il favore di milioni di ungheresi. Ogni tentativo di minare il suo governo
o il suo partito, da parte di nemici interni e internazionali,
non ha avuto successo fin qui, e il prestigio di cui gode
in patria può certo non fargli rimpiangere l’inimicizia di
molte cancellerie del Vecchio Continente, o quella dei
“fratelli maggiori”.
Noi crediamo che guardare all’esempio che giunge
dall’Ungheria sia di gran lunga meglio che non ad altri
“fenomeni”, apparsi all’orizzonte dell’identitarismo europeo.
Fare un bilancio dei risultati ottenuti da questa vera rivoluzione nazionale è cosa facile. Basta, infatti, non documentarsi presso le fonti mediatiche e le gazzette prezzolate,
che gridano all’involuzione democratica dell’Ungheria, al
Questo perché per creare i presupposti per una VERA rivoluzione nazionale serve andare a colpire il cuore del
liberismo, i suoi templi, i suoi tabernacoli e i suoi servi.
29
spagnolo rinnovato, lontano dalla polvere e dalle calcificazioni di uno sterile passatismo, ma rivolto ai fermenti
sociali e politici che animavano tutta l’Europa di quel periodo straordinario.
Il Governo Orban, il partito Fidesz e il grande movimento
Jobbik hanno potuto conquistare consenso non soltanto
con tematiche “facili”, ma soprattutto facendo comprendere al loro popolo chi è il nemico della nazione e come,
soprattutto, combatterlo con dei risultati reali. Serve coraggio idealista unito al pragmatismo politico, non “sdoganamento” delle idee, o corsa all’immagine che piace
alla gente che piace.
Oggi, invece, la Spagna è sotto attacco su più fronti, menomata nella sua identità e nella sua stabilità sociale.
I governi democratici, e l’indegna monarchia borbonica,
hanno prostituito per anni la Spagna ai mercati speculativi, rendendola succube di un modello economico perverso che, pur vantando iniziali e temporanei benefici, ha
scandalosamente ipotecato il futuro delle prossime generazioni di spagnoli in modo grave e ancora impunito. Il
“miracolo economico” che i politici degli ultimi trent’anni hanno dato alla Spagna è stato il frutto di un’illusione
drogata di finanza e di un benessere preso a debito.
*Articolo scritto il 17 Ottobre 2013 per StampAlternativa,
organo ufficiale del MTN
Il rischio di disintegrazione della Spagna
La Spagna è stata una delle più importanti realtà di Statonazione che l’Europa abbia avuto nel corso della storia.
L’antica potenza e la sua secolare civiltà rappresentano
senza dubbio un punto d’orgoglio per tutta la nostra Kultur continentale.
I Governi Aznar (destra moderata) e Zapatero (sinistra socialista) hanno portato la Spagna verso il baratro economico in cui è rovinosamente caduta.
La sua crisi come modello, invece, rappresenta un pericolo molto serio, e dovrebbe essere avvertito come un segnale chiaro di come il mondialismo apolide possa agire
anche sfruttando istanze identitarie, magari anche comprensibili, oltre che finanziarie in senso stretto.
Il “salvataggio” della Spagna, operato dalla ben nota troika nel 2012, ha avuto come contropartita la perdita ormai
totale di sovranità nazionale. Madrid, in pratica, non è più
libera di decidere del proprio destino, e il suo attuale governo è semplicemente un burattino nella mani dell’UE e
del FMI, che regolarmente concedono un po’ di aiuto, in
cambio di un sempre più accentuato asservimento della
Spagna alle politiche
neo liberiste.
Nata dalla Reconquista contro il dilagare dell’espansione
islamica nell’Occidente europeo, forgiata
dalla guida della Casa
d’Asburgo, la Spagna
Sono ormai lontani i
ha subìto un declino
bei tempi della movida,
lento nel suo essere
e di quell’immagine di
potenza, continentaspensieratezza che fale, durato oltre due
ceva della Spagna una
secoli, e attutito solasorta di giostra piena
mente nel ‘900 dalla
di opportunità, di ocparentesi di potere
casioni per una vita midi Francisco Franco,
gliore, in una nazione
che ha sì evitato che
florida, in cui la felicità
prendesse piede una
sembrava a portata di
forma di anarco/statutti.
linismo iberico ma,
Il sogno in pochissimi
come negativo risvolanni è diventato un
to della medaglia, ha
vero incubo, fatto di
di fatto soffocato con
Manifesto per l’unità della Spagna.
disoccupazione a due
le sue velleità tradicifre, oltre il 26%, di
zionaliste e reazionasmantellamento dei diritti sociali, e di sacrifici richiesti
rie, una vera rivoluzione nazionale moderna.
solamente al popolo in nome del pareggio di bilancio. Al
Il nostro pensiero e ammirazione vanno certamente alle popolo si richiedono sacrifici, ma non a chi, realmente, ha
splendide figure di José Antonio Primo de Rivera e di Ra- portato la Spagna in questa indegna condizione d’insicumiro Ledesma Ramos; esempi di uno spirito nazionale rezza e di sudditanza ad agenti esterni.
30
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo
La Spagna potrebbe essere solo il primo di altri Stati-nazione da dissolvere e frammentare, in modo da poterne
controllare i destini. Altrimenti non si spiegherebbe l’ambiguità dell’UE nel trattare il fenomeno del separatismo
localistico spagnolo come pericoloso anche per la propria esistenza e stabilità.
L’altro fronte vitale per la Spagna, forse quello più importante, è rappresentato dalla sua stessa sopravvivenza
come Stato-nazione.
Le politiche di decentramento politico e amministrativo,
varate in un trentennio di democrazia, accompagnate
dalle velleità autonomiste e indipendentiste di popoli
interni alla compagine nazionale spagnola, hanno contribuito al formarsi di spinte centrifughe etnonazionaliste,
che attualmente aggravano il quadro già precario dovuto alla crisi economica. Con sempre maggior veemenza
si levano le istanze di gruppi politici organizzati che, in
diverse regioni del Regno borbonico, pretendono libertà
sempre maggiori, financo l’indipendenza da Madrid.
Infatti, né la Commissione Europea né il Parlamento
Europeo hanno mai levato la loro autorevole voce contro i fenomeni disgregativi sorti entro gli Stati-nazione
dell’Unione, men che meno per la situazione spagnola,
dimostrandosi sempre “dialoganti”. Suggerendo sovente
ai governi centrali, come quello di Madrid appunto, di
assecondare le manifestazioni di libertà locale e di autodeterminazione interni ai propri Stati. Strano è dunque
costatare come proprio in questo frangente storico, delicato per l’intero continente, dove è in atto una gravissima
congiuntura economica strutturale, non si cerchi di debellare fenomeni che potrebbero ulteriormente far degenerare le condizioni interne di nazioni già molto fragili. La
Spagna vive una condizione a dir poco assurda a livello
europeo, e di tutto ha bisogno, men che mai di una frattura politica e istituzionale interna, i cui effetti destabilizzanti potrebbero sfociare in qualche cosa che gli spagnoli
hanno già vissuto in passato e che, forse, necessiterebbe
solamente di un ritorno forte alle ragioni dell’Hispanidad
per essere scongiurata; quell’Hispanidad di cui proprio
l’Europa dovrebbe essere un geloso custode, visto che
fa parte integrante del proprio retaggio identitario e di
civiltà.
Al tradizionale (assurdo e violento) separatismo basco, si
sono aggiunti con il passare del tempo anche quelli “pittoreschi” della Catalogna e della Galizia.
La loro pericolosità risiede nell’essersi abilmente innestati nel quadro complessivo della crisi economica della
Spagna, e nella perdita di credibilità che le principali istituzioni nazionali, governo e monarchia, hanno subito a
causa della loro manifesta incapacità di reagire a essa in
modo adeguato; risolvendo le piaghe economiche e preservando la sacralità dell’indipendenza spagnola dagli
interventi di “salvataggio” comunitari e del FMI.
Non è dunque un caso che, con il progredire delle difficoltà economiche, la Spagna abbia visto rafforzarsi spinte
secessioniste dalle più diverse sfumature; dall’aggressivo
indipendentismo basco, fondato su “ragioni” pseudo storiche, all’autonomismo catalano, le cui motivazioni sono
squisitamente economiche.
Critica ragionata all’etnonazionalismo
Come in una metaforica tenaglia, la crisi dello Stato-nazione spagnolo sta stritolando questa realtà tra la sudditanza alla troika e le spinte centrifughe regionali.
L’esempio di quel che sta accadendo allo Stato-nazione
spagnolo ci porta ora a fare delle considerazioni più
ampie, che coinvolgono un fenomeno che serpeggia in
molte zone dell’Europa occidentale, e di cui riteniamo
importante la presa di consapevolezza in chi lotta per
l’identitarismo.
Proprio tali questioni localistiche certo non giovano
all’uscita di Madrid dall’attuale difficile condizione storica
in cui versa, ma ne incrementano gli effetti negativi, e il
rischio di un’implosione della struttura nazionale iberica
nel suo complesso.
Qualche anno fa anche noi dell’Associazione Thule-Italia
avevamo considerato l’etno-nazionalismo come un fattore importante contro l’omologazione culturale dilagante
che, attraverso la globalizzazione, aveva trovato nuovi
strumenti di disintegrazione del concetto di comunità.
Oggi, seppur nella certezza ideologica di un valore intrinseco dell’identitarismo locale ed etnico/locale, riteniamo
molto pericoloso l’affermarsi di un certo tipo di istanze
centrifughe entro gli Stati-nazione dell’Europa comunitaria, in quanto vediamo il rischio di un loro utilizzo strumentale al fine dell’indebolimento della resistenza degli
Stati-nazione, nel quadro già critico in cui versa l’intero
A nostro giudizio, una Spagna sulla via della liquidazione
come entità politica, smembrata in realtà medio/piccole
autonome, o addirittura indipendenti da un potere centrale unificante, non potrà che essere perennemente sotto lo scacco degli attacchi finanziari speculativi apolidi, e
succube del giogo imposto dagli organismi comunitari,
il cui fine è, come già detto più volte in questo articolo,
la privazione di sovranità dei popoli europei, in nome di
un’unificazione omologante, gestita da strutture autoreferenziali.
31
continente.
peggiore del male che vorrebbe andare a curare.
Pur non volendo fare della dietrologia spicciola, temiamo che non sia del tutto sbagliato ritenere che i poteri istituzionali dell’UE possano consolidare il loro ruolo
proprio attraverso le spaccature degli Stati-nazione principali: Spagna, come già ampiamente detto, ma anche
Gran Bretagna, da sempre nazione scettica nei confronti
dell’integrazione politica a colpi di cessione di sovranità,
quindi forse da ridurre all’obbedienza, o l’Italia, con le sue
fragilità strutturali e il mai risolto problema dell’armonizzazione tra settentrione e mezzogiorno.
Un’Europa piegata dalla crisi economica, in cui gli Statinazione tradizionali fossero ulteriormente indeboliti nelle loro prerogative unitarie, aprirebbe la strada alla comparsa di tanti “nanetti da giardino”, incapaci di compiere
scelte realmente indipendenti, che non andassero al di
là della toponomastica, e quindi bisognosi di protezione
“dall’alto”.
Ogni gruppo politico localista, infatti, pone come prioritaria l’adesione di una eventuale neo/micro nazione
regionale all’UE. Condizione evidentemente
Questioni poi all’apindispensabile per poparenza minori, come
ter reggere il confronquella del Tirolo o della
to con un mondo mulCorsica, oppure l’instatipolare competitivo,
bilità tra le due compodominato da potenze
nenti etniche in Belgio
le cui dimensioni sono
— fiamminghi e valloni
continentali (Cina, Sta—, potrebbero, somti Uniti, Russia, ecc.).
mandosi, rappresentare
Questo dato di fatto, se
in un futuro prossimo
si concretizzasse, conun grimaldello politico
ferirebbe alle istituzioni
per la cessione di sovracomunitarie un primato
nità nazionale da parte
indiscusso sia sulle neo/
di governi centrali a istimicro nazioni regionatuzioni “super partes”,
li, sia su quel che resta
come quelle dell’UE,
degli Stati-nazione già
che andrebbero così a
esistenti, orbati di porcolmare a modo loro le
Etnonazionalismo.
zioni rilevanti del loro
lacune nella gestione
territorio. Fatto ancor
delle criticità politiche
più grave, e perfettamente realistico, sarebbe che le neo/
territoriali interne agli Stati-nazione.
micro nazioni si vedrebbero costrette ben presto ad afDurante la scorsa estate fecero molto clamore sia la que- fidare all’UE molta della loro conquistata sovranità, per
stione catalana, sia il prossimo referendum su di un’ipote- ragioni di sopravvivenza economica, in quanto realtà così
tica indipendenza della Scozia da Londra.
fragili sarebbero facile preda della speculazione apolide;
quindi avrebbero bisogno di una copertura sovranazioIn entrambi i casi, le discussioni in seno alla Commissione
nale, abbastanza autorevole politicamente e, per giunta,
Europea e al Parlamento Europeo non vertevano tanto
detentrice dell’emissione di moneta.
sul contrasto a questi fenomeni disgregativi, quanto su
come si potessero armonizzare i processi d’integrazione Il trionfo dell’etnonazionalismo sarebbe quindi effimero,
di un eventuale neo Stato catalano o scozzese nell’ambi- in quanto verrebbero magari sciolte le sedicenti “cateto dell’UE o dell’area euro. Fatto salvo un certo legittimi- ne” che opprimono la libertà dei popoli a vantaggio dei
smo di facciata, le istituzioni comunitarie non sembrano governi centrali nazionali, ci sarebbe la vittoria del reescludere, e non giudicano nemmeno destabilizzante, gionalismo in nome dell’identità locale e dell’autodeterl’eventuale disgregazione di uno Stato membro.
minazione, ma si conferirebbe, per contro, una capacità
di manovra politica alle istituzioni dell’Unione unica nel
Sembra incredibile, ma è la verità. Basta leggere dietro le
suo genere, e in grado di poter far aumentare il proprio
righe dei comunicati ufficiali, o seguire i dibattiti su tali
potere decisionale autoreferenziale, senza più il rischio di
questioni per avvertire una certa ipocrisia di fondo.
doversi scontrare con soggetti forti, in una dialettica alla
Ecco quindi motivata la nostra critica nei riguardi dell’et- pari.
nonazionalismo: esso potrebbe essere una medicina
32
Lo Stato-nazione europeo nella crisi del nostro tempo
Il motto “Divide et impera” non potrebbe essere più calzante in un simile scenario.
Noi siamo per uno Stato-nazione forte, in un’Europa rinnovata nello spirito, prima che nelle sue articolazioni politiche, economiche o sociali.
Tuttavia, come già scrivemmo in altre occasioni, gli ideali
devono concretizzarsi in modelli organizzativi, capaci di
dare risposte certe a problematiche concrete. E saranno
solamente i popoli a decidere se è tempo di cambiare
radicalmente il corso della storia d’Europa, o diventare
semplici oggetti del nuovo potere apolide che si sta imponendo a discapito della nostra grande civiltà.
Per uno Stato-nazione forte in un’Europa nuova
In conclusione, possiamo dire che l’attuale condizione
complessiva in cui versa il Vecchio Continente è irta di
pericoli, che pendono sulla testa di ogni europeo come
una spada di Damocle.
Il male sta all’origine; l’aver creato i presupposti per la nascita di un organismo sovranazionale privo di controllo
diretto dagli Stati-nazione, che ha dimostrato di essere
in grado di prendere consapevolezza del proprio ruolo,
ormai importante e incontestabile, nella fase di crisi economica e di declino strutturale che ha colpito l’intero Occidente.
L’Europa delle grandi realtà nazionali è oggi a rischio, così
come quel processo di unificazione identitaria che ha
avuto nello Stato-nazione il suo strumento principale.
Senza che le classi politiche continentali avessero coscienza del pericolo incombente hanno proseguito ciecamente in questi anni del XX secolo nello smantellamento
delle loro difese, privandosi della capacità di poter essere
artefici del proprio destino, ed esponendo i loro popoli a quel che è successo fin qui. In nome di un’ideologia
omologante e individualistica, sono state poste all’indice
tutte quelle forze e quelle caratteristiche peculiari che in
passato resero grandi le nazioni dell’Europa occidentale.
Serve, e serve subito, una concreta inversione di rotta.
Le forze disgregatrici che dominano le istituzioni dell’UE
possono ormai contare sulle criticità economiche degli
Stati-nazione per poter proseguire nella loro opera. Addirittura, secondo noi, potrebbero anche utilizzare fenomeni d’identitarismo locale per fiaccare le ultime resistenze
dei singoli governi centrali. Purtroppo non vediamo
nell’immediato, tranne che in qualche caso isolato, la capacità di coagulare i popoli verso nuove forme di patriottismo e di comunitarismo nazionalista. Tuttavia la nostra
speranza in un mutamento nel corso degli eventi resta
immutata, e l’azione politica che svolgiamo con abnegazione cerca, nel suo piccolo, di mantenere viva una certa
idea di nazione e di Europa.
Un’idea di nazione che non ha nulla di nostalgico o di retrivo.
Un’idea di Europa lontana da tutto quello che è stato realizzato da classi dirigenti orbate di qualsiasi legittimità e
prive di fede identitaria.
33
Thule Soci
Céline secondo Céline
Thule Soci
Amore: il Ricordo e il manifestarsi dell’Idea
contro la Decadenza
(ultima parte)
Pasquale Piraino
Giulio Cesare Andrea Evola nasce a Roma, il 19 Maggio proseguire quella lotta etica e morale da lui cominciata.
del 1898. Fu una personalità estremamente poliedrica e Muore nel 1974 e, pur costretto sulla sedia a rotelle, vuole
versata in ogni ambito dello scibile umano. Secondo la morire in piedi, pieno nello spirito di quella dignità e costoriografia ufficiale fu un fascista “nudo e crudo”, intellet- raggio che l’Uomo mantiene pure davanti a Dio: alcuni
tuale influente negli ambienti del Fascismo italiano e del amici lo tengono eretto durante gli ultimi minuti della
Nazionalsocialismo tedesco. Nulla di più falso, a detta sua vita di fronte alla finestra della sua stanza che guarda
dello scrivente. Basta avere la pazienza di leggere qual- il colle Gianicolo. Esponiamo quindi alcuni capisaldi del
che fonte dell’epoca per vedere che il nostro pensatore fu suo pensiero che si riagganciano al tema di questo scrituna personalità di spicco nell’epoca dei “fascismi”, ma co- to. Evola prende ispirazione dai testi vedici indù e dalla
munque molto scomoda: gli ambienti culturali italiani lo scuola dello yoga tantrico, ampliandone però i contenuti
guardavano con sospetto e quasi sopportandolo: proba- e fondendoli insieme con i capisaldi teorici e metafisici
bilmente gli fu permesso di operare
della filosofia idealista europea. Egli
solo in virtù della sua amicizia con il
crede fermamente in uno scorrere
Duce Benito Mussolini, il quale certatemporale ciclico e non lineare: il
mente ammirava e condivideva alcutempo e gli sviluppi storici non hanni aspetti del suo pensiero. In Germano un inizio ed una fine, ma seguono
nia invece, Evola, per via delle sue
invece un andamento circolare, cicliidee filolatine, fu da subito mal visto,
co, del tutto simile a quello delle statanto che il Brigadeführer SS Karl Magioni; in particolare Evola riconosce
ria Wiligut lo definì un “romano reacome corretta la visione indù delle
zionario”, consigliandone al contemquattro ere dell’umanità: Età dell’Oro
po l’allontanamento dal suolo
(Satya Yuga), Età dell’Argento (Treta
tedesco, riconoscendo non solo come
Yuga), Età del Bronzo (Dvapara Yuga)
non conforme agli standard culturali
ed infine Età del Piombo (Kali Yuga).
nazionalsocialisti la sua dottrina, ma
Queste quattro ere si susseguono
addirittura come nociva e pericolosa.
all’interno della Grande Era (MahayuDocumenti ufficiali confermano
ga). Il succedersi di queste ere rapquanto scritto. Evola quindi, lungi
presenta un lento decadere della cidall’essere un propagandista o un soviltà umana, che parte dalla migliore
stenitore dei due regimi, fu innanzicondizione, quella più vicina alle ditutto un libero pensatore, le cui idee
vinità, nell’età dell’oro, per scivolare
Julius Evola.
collimavano in parte con gli standard
lentamente, ma inesorabilmente,
dei due sistemi culturali, ma che spesverso condizioni di stato animalesco
so prendevano direzioni non gradite e diverse. Nel corso e di depravazione morale man man che ci si avvicina
della sua vita produce un’opera culturale immensa ed all’era finale, all’età del piombo. Secondo i testi indù, l’età
estremamente varia, oggi purtroppo dimenticata: nelle attuale è quella del piombo, la più bassa in assoluto, quelscuole si studiano i rigurgiti intellettuali partoriti da men- la nella quale gli dèi, sconcertati dalla condizione bestiale
talità distorte (e storicamente disturbate) quali quelle di nella quale gli uomini sono scesi, si ritirano in luoghi seFeuerbach o di Engels e non si dedica nemmeno un mi- greti lasciando l’essere umano in balìa di se stesso. Da qui
nuto per analizzare gli scritti di questo eclettico filosofo, parte l’analisi di Evola: secondo il pensatore italiano, l’uoche è stato letteralmente divorato dall’Industria Culturale mo originario non era un essere derivato dalla scimmia,
adesso vigente. Vive nel secondo dopoguerra una vita da ma un dio caduto, un semidio, dotato di un’altissima
intellettuale ignorato e recluso, arrivando comunque a componente spirituale che gli donava doti intellettive e
fondare la “Fondazione Julius Evola per la difesa dei valo- poteri “magici” fuori dal comune. Ma con il proseguire dei
ri di una cultura conforme alla Tradizione”, con lo scopo di tempi e il precipitare delle ere (dall’oro verso il piombo)
36
Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea
egli perse la componente spirituale, aumentando invece
quella materiale, sprofondando nella terra invece di
ascendere al cielo, e impantanandosi in cose “umane,
troppo umane”. Così il primo popolo di divini “dimenticò”
il proprio retaggio (proprio come gli angeli del Graal prima descritti) e dovette abbandonare la propria patria polare, nordica, a causa di un cataclisma che sconvolse il
mondo. È la diaspora degli Arii, dei Puri, degli abitanti
dell’Ultima Thule. Il cataclisma fu attirato dalla loro stessa
caduta, dall’avere abbassato il loro spirito puro come il
Fuoco al livello della materia: non più dèi, divennero animali. Evola espone quindi un’analisi storica che verte su
queste basi teoriche, dimostrando la falsità dell’evoluzionismo darwiniano e della teoria etnologica dell’ex oriente
lux, analizzando inoltre le fasi di ascesa e caduta (sincroniche al ciclo delle ere) di tutti quei popoli che manifestano sintomi di un antico retaggio ancestrale Ariano, o per
meglio dire Iperboreo. Evola spinge molto sul fatto che il
dimenticare la propria origine divina, il non curare il proprio spirito, fa precipitare ancora di più nel regno della
materia, rendendo l’uomo di fatto un animale, fisicamente ed intellettualmente. Questa caduta dell’Uomo (con la
maiuscola per distinguere l’Uomo-Dio dall’uomo-bestia)
è comunque inevitabile, poiché implicata dal susseguirsi
delle ere. Come uscire allora da questa spirale degenerativa? Evola trovò risposta nei testi tantrici. Essi illustrano
una pratica di Yoga sessuale, basato sull’unione di uomo
e donna, di elemento maschile e femminile, al fine di ricreare l’Uno-Tutto, di riscoprire il divino all’interno del sé.
Questi testi trovano una fortissima simbologia nell’unione di Shiva e della sua consorte Parvati (due divinità vediche). Tale scuola yoga si scisse in due distinte correnti di
pensiero che pur partendo da idee originarie uguali arrivavano a metodologie pratiche molto diverse, anzi opposte, ma complementari: il Tantrismo della Mano Destra
raccomandava un’unione esclusivamente spirituale e
animica, ma non fisica, tra Uomo e Donna; quello della
Mano Sinistra invece consigliava un’unione fisica, carnale, regolata però da alcune tattiche e precetti fondamentali. Evola ritenne come vincente la via della Mano Sinistra. Egli riteneva infatti che era tanto grave la caduta
nelle profondità della materia che essa poteva essere
combattuta solo mediante i suoi stessi mezzi materialistici e lontani dalla dimensione spirituale originaria. Egli
crede che tanto per l’Uomo quanto per la Donna, la Purezza Divina originaria possa essere conquistata solo andando “a cavallo di una tigre”; l’energia sessuale sviluppata durante l’amplesso è effettivamente potentissima
(proprio come una tigre) e permette ai due di aprire una
sorta di via di fuga dalla materia e dal mondo sensibile,
ma il rischio è molto elevato: chi cade dal dorso della tigre finisce sbranato dalla belva ed eguale fine (a livello
animico) attende chi dimentica i precetti del tantrismo
sinistro per godere dei semplici piacere fisici; il fine ultimo è utilizzare le pulsioni materiali per ridare salute allo
Spirito e la spinta sessuale è come un fuoco che scioglie
l’Animo dai ghiacci della materia che lo intrappolano. La
fiamma va comunque domata, affinché non bruci chi la
usa. L’ Uomo e la Donna capaci di seguire fino in fondo
questa via (che potrebbe ricordare la cerimonia simbolica dell’Asag prima descritta) riottengono l’Egoità Assoluta, guadagnando la via d’uscita da questo mondo o piano
e restaurando il proprio spirito: tornano nell’Iperuranio,
insieme. Il fatto che Evola abbia del tutto perso ogni traccia di poesia o di sentimento d’Amor che prima si trovavano in tutte le espressioni dell’Idea non deve stupire il
lettore: secondo il filosofo, la condizione in questi tempi è
tanto critica che solo mezzi estremi possono dare a Uomo
e Donna una possibilità di salvezza da questa terra desolata. Non c’è quindi più spazio per nessun sentimento, la
lotta è tale che risulta necessario usare qualsiasi arma. Da
qui l’importanza dell’amore fisico, seppur debitamente
regolato e canalizzato.
Si è descritto a grandissime linee il pensiero evoliano, focalizzando sulla parte che interessa il nostro scritto. Proseguiamo quindi con Miguel Serrano, il pensatore che a
detta dello scrivente ha portato la teoria d’Amor al livello
più alto che ci sia permesso apprendere in questa buia
fase storica che l’Uomo è costretto ad affrontare.
Miguel Serrano Fernández nasce a Santiago del Cile il
10 Settembre 1917. Da giovane simpatizza per l’estrema
sinistra cilena, ma subito si appassiona al Nazionalsocialismo, iscrivendosi poi al Movimento nazionalsocialista
cileno. Durante la seconda guerra mondiale vorrebbe
partire per la Germania come soldato volontario, ma la
partenza gli è negata. Dopo la sconfitta della Germania
inizia l’attività diplomatica per il suo Paese che lo porterà a essere ambasciatore cileno in India, in Jugoslavia e
in Austria. Lavorò inoltre presso l’Agenzia per l’energia
atomica dell’ONU. Ma tutto questo , per quanto manifestazione di un intelletto finissimo, è nulla in confronto a
quello che egli realizzò nel suo percorso di vita : dotato
di una conoscenza immensa in tutti i campi dello scibile
umano, viaggiò in Antartide alla ricerca delle misteriose
oasi di acque temperate, strinse amicizia con personaggi
di spicco dell’epoca: Léon Degrelle, Otto Skorzeny, HansUlrich Rudel, Saint-Loup, Hanna Reitsch, Julius Evola, Hermann Wirth, Wilhelm Landig, Ezra Pound, Indira Gandhi,
Hermann Hesse, C.G. Jung e il Dalai Lama; fu scrittore, filosofo, esoterista, ricercatore, archeologo. La realtà è che
egli visse la sua vita nel segno della Ricerca continua e
del lavoro di perfezionamento interiore. Testimonianze
di tutte le sue avventure in giro per il mondo e dei suoi
numerosi studi rimangono nei suoi libri, testi di altissimo
valore intellettuale e culturale, tradotti in decine di lingue
europee e asiatiche. Nonostante fosse un fervente nazio37
nalsocialista e hitleriano dichiarato, fu tanto grande la quello femminile. Erano delle monadi o purusha (in sansua statura intellettuale che mai nessuno poté fermarlo o scrito), delle uova orfiche: degli esseri rotondi, circolari,
mettergli il bavaglio per via della sua visione del mondo. nel senso di completi in sé e per sé. Ma un’entità maliPurtroppo neanche lui è sfuggito all’opera di insabbia- gna, il Demiurgo, cominciò a plagiare l’universo degli Dèì,
mento che il sistema culturale vigente applica a tutti co- l’Iperuranio o Iperborea Celeste, utilizzando la Materia per
loro che hanno un punto di vista eterodosso. Ma a Serra- imitarlo; facendo questo creava un universo finito (mano non interessava parlare alle masse, nella maniera più teriale e corpuscolare) all’interno di un universo infinito
assoluta: egli condivideva appieno la visione fortemente (spirituale ed etereo) che fosse l’esatta copia del precearistocratica ed elitaria degli studi filosofici e culturali in dente, ma vuota e senza vita. Nelle monadi però accade
generale; era fermamente convinto
qualcosa che portò alla separazione
che chiunque sentisse la Vocazione
degli androgini: Lei abbandona Luiinteriore alla Verità avrebbe trovaLei e Lui abbandona LeiLui, cadendo
to la strada per la Conoscenza inall’interno dell’universo maligno del
dipendentemente dal fango intelDemiurgo: questo corrisponde esatlettuale e morale nel quale si vive.
tamente alla distruzione dell’androMiguel Serrano morì il 28 febbraio
gino nei miti platoniani. Il Maligno
2009 a Santiago del Cile, lottando
crea inoltre degli esseri esternamenper i propri ideali aristocratici ed
te simili agli Dèi, ma fatti di Materia
elitari in un mondo che, secondo
(come il dio del vecchio testamento
lui, si avvicina sempre più a una
creò Adam impastando il fango) e
fine irrevocabile. Muore mentre
animaleschi, privi di Spirito. La parte
nella città infuriava una grandiosa
caduta dell’Androgino si innamora
tempesta: pur nel silenzio degli uodi questi corpi fatti di materia e vuomini, la Natura pianse la scomparsa
ti, perdendosi così nell’universo dedi un Grande Maestro.
miurgico (traccia di qualcosa di simiEsponiamo quindi la visione cole si trova nella Genesi, dove è scritto:
smologica di Serrano in relazione
“I figli di Dio si innamorarono delle
alla dottrina d’Amor finora analizfiglie dell’Uomo”). Che cosa succede
zata, tenendo a mente che il suo
all’altra parte della Monade Originapensiero rappresenta una summa
ria? Incalzata dall’Amore (non fisico,
Miguel Serrano.
non solo degli argomenti sinora
ma spirituale) per la parte persa da
esposti, ma in generale di miti, leguna parte e attaccata dall’avanzagende, tradizioni e religioni monre della Corruzione del Demiurgo
diali di ogni tempo: Serrano, infatti, nei suoi viaggi en- dall’altra, si incarna anch’essa nel mondo sensibile per
trò in contatto con diverse personalità religiose e studiò prendere parte a una guerra che da un lato è condotta
praticamente tutti i miti e le religioni umane, cercando contro le forze maligne disgregatrici che plagiano l’Uniil filo comune (la Catena Aurea) che dietro le leggende verso Originario, dall’altro verso il ricongiungimento con
collegasse tutte le manifestazioni del sapere umano. Nel il sé mancante, al fine di raggiungere di nuovo la complepensiero di Serrano si ritrovano quindi tracce dei miti tezza originaria. Ricercando però la parte persa, l’Androindù, ma anche greci, norreni, mithraici, ecc. Il sapere di gino “mutilato” crede di trovarla nelle opere materiali del
Serrano inoltre è refrattario alla ragione meccanicistica, demiurgo: questo accade a causa del fatto che il princialla fredda razionalità: esso privilegia l’intuizione, che es- pio originale che scappò dalla monade si mischiò con i
sendo personale non è spiegabile. Il lettore tenga sempre primi “golem d’argilla” del maligno. Inizia a procreare con
a mente queste informazioni.
loro, generando così una razza bastarda, per metà divina
La visione cosmologica di Serrano implica una fortissima e per metà animale, menomata dalle capacità spirituali
lotta tra Bene e Male, che assume i tratti di una vera guer- di partenza: è la razza degli Eroi, essere umani dotati di
ra, con eserciti e schieramenti opposti. Secondo il poeta, capacità eccezionali: sono Adone, Achille, i Vira dei poemi
in un originario universo incontaminato dalle leggi della epici indiani, ma anche Siegfried, Parzifal e altri ancora.
fisica attuale (le leggi della meccanica classica, per inten- Ma l’imbastardimento proseguì, poiché il semidivino perderci) e dalla Materia, esistevano degli Dèì formati da una sisteva nel seguire l’amore fisico per le creature del Desostanza prettamente spirituale; queste divinità erano miurgo, dimenticandosi della sua origine divina e della
degli androgini, chiamati LuiLei e LeiLui a seconda che sua Vera Compagna o del suo Vero Compagno, che è la
all’interno dell’essere prevalesse il principio maschile o parte dell’Androgino lasciata nell’altro universo. Secondo
38
Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea
Serrano, questo imbastardirsi porta da un lato all’abbassamento delle capacità intellettuali dell’individuo, che diventa sempre più un guscio vuoto, un animale nella mandria, dall’altro fa dimenticare le proprie origini divine. Egli
non sente più il proprio spirito interiore, ma si riconosce
come un ammasso materiale, un sacco di carne. Altro effetto collaterale è la trasformazione del proprio desiderio
di cercare la completezza perduta del suo Io, che è il vero
amore, nella ricerca all’infuori di sé, all’esterno: egli vede
negli altri il riflesso della sua parte perduta. Così continua
a perdere se stesso, imbastardendosi sempre più; il processo è eguale a quello della diluizione di una soluzione:
si parte da una fase concentrata ricca in costituenti per
arrivare a una diluita e povera rispetto alla concentrazione originale.
Così Serrano spiega la teoria delle ere umane che anche
lui come Evola approva pienamente. Il continuo imbastardimento provoca la decadenza delle civiltà, arrivando
a un punto tale che da un’epoca perfetta si arriva a una
estremamente corrotta.
Miguel Serrano non si ferma a queste analisi, ma va molto
oltre, analizzando come dovrebbe essere il rapporto ottimale tra Lui e Lei (scritte con le iniziali maiuscole, per indicare le parti divine originarie), affinché si possa restaurare
la completezza del proprio Spirito, ritornando allo stato
di gloria iniziale. Egli nota come in tutti i Miti del patrimonio culturale umano ci siano delle costanti che si ripetono periodicamente. In particolare, spesso le leggende
raccontano di un Eroe che parte alla ricerca di qualcosa,
ma non riesce a completare la sua missione sino a quando una donna non viene in suo aiuto. Esemplificativa è
l’analisi prima esposta del Parzifal e della ricerca del Graal; non torneremo su questo, preferendo analizzare sinteticamente il mito di Giasone. Egli parte alla ricerca del
Vello d’Oro, e non è casuale che egli ricerchi un oggetto
costituito dall’aureo metallo: questo è l’oro alchemico
del quale abbiamo trattato prima. Giasone non riesce a
conquistare il Vello sino a quando non incontra Medea,
che, innamorata di lui, gli dona gli strumenti e i mezzi per
superare le prove che lo porteranno alla conquista del
mitico oggetto. Ma il mito prosegue: Giasone procrea dei
figli con Medea, tradendola in seguito per un’altra donna e abbandonandola: qui comincia la definitiva caduta
dell’Eroe, consumandosi la sua tragedia che lo porta alla
perdita di tutto ciò che aveva conquistato (regni, ricchezze, finanche i propri figli). I nuclei principali del mito di
Giasone, appena esposti, sono comuni a moltissimi Miti
facenti parte del patrimonio culturale mondiale. Cambia
solo il finale: se l’Eroe riesce a mantenere la propria castità e la fedeltà verso la donna che lo aiuta il suo successo
è totale (è il caso del Parzifal), ma se fallisce rompendo
la castità o tradendo la donna la sua rovina è immediata
(è il caso della coppia Giasone-Medea, oppure di Siegfri-
ed-Brunhild). Secondo Serrano questi Miti esprimono in
chiave simbolica alcuni concetti fondamentali:
- l’Eroe non è un uomo qualunque, ma spesso è figlio di
divini o vanta discendenza divina: questo indica che il
Viaggio che egli intraprende non è per tutti, ma solo per
coloro che hanno sangue divino nelle vene, per i discendenti di quell’antica razza di divinità che giunsero sulla
terra. È quindi un Cammino altamente aristocratico, antidemocratico in senso lato.
- Il Viaggio e la ricerca rappresentano il cammino di purificazione che l’Eroe deve affrontare per riscattare il proprio sangue imbastardito nella materia e riconquistare la
sua condizione divina, esattamente come visto nel caso
dell’Opus Alchemico.
- L’Eroe da solo fallisce sempre: questo perché è incompleto, come incompleto era il Dio dal quale discende.
Solo il rincontro con la sua controparte lo salva, o meglio
con l’involucro materiale che la contiene. Essa gli dona i
mezzi per riuscire nelle prove: in altre parole, gli dona la
forza spirituale che deriva dalla completezza.
Serrano nei suoi libri illustra vari esempi simili a questo, al
lettore il compito di approfondire. Secondo lui comunque
la castità va mantenuta, perché l’unione deve essere di
tipo animico, spirituale. Continuando a generare figli materiali si continua a perdere la propria matrice originaria
nel mondo dei sensi. Ma come raggiungere questa unione spirituale? Egli identifica il Tantrismo indiano come la
via maestra, propendendo però, a differenza di Evola, per
la Via della Mano Destra, quella simbolica, dove il contatto fisico tra amanti, tra Lui e Lei, non esiste, ma ognuno
crea nella propria mente la propria controparte perduta.
In altri termini la riscopre dentro il proprio sé. Non quindi
tramite i mezzi della Materia, tipici della Via Sinistra, ma
tramite il più potente mezzo Spirituale, ovvero l’Immaginazione Creativa, si riesce a creare l’Io Assoluto, l’Androgino Assoluto. Amore secondo Serrano è quindi una via
eroica di combattimento, perché ricreando dentro il sé la
completezza assoluta si recupera la perduta divinità, si
recupera la Lei (o il Lui) che fu irretito dal Demiurgo, vincendo così la battaglia contro il maligno. Gli ostacoli per
la propria redenzione sono però ovunque: in particolare
è facile che si cada nell’errore di scambiare una persona
qualsiasi per la propria metà perduta. L’Eroe in questo caso
rischia di perdersi, cercando di interiorizzare una persona
che non è la sua Compagna Originaria. L’unica sua fortuna può essere quella di accorgersi dell’errore compiuto.
Per dimostrare quanto questi ragionamenti metafisici
siano in realtà “più reali di qualsiasi cosa esistente” (per
utilizzare le parole di Serrano), riporto un brano tratto da
Michael, diario di un destino tedesco, scritto da Joseph Goebbels. Questo racconto fortemente autobiografico illustra il sentimento che Goebbels provò quando colei che
egli credeva essere l’amore della sua vita in realtà si rivelò
39
ingabbia e limita. La visione serranesca abbraccia e incorpora in sé tutte le manifestazione dell’Idea d’Amore sino
a ora analizzate, dando spiegazioni a tutti i lati oscuri inspiegati.
Il cerchio è chiuso, credo di avere fornito al lettore tutti
gli spunti per delle future ricerche personali, magari per
rivedere conoscenze pregresse sotto un’ottica diversa.
Si è voluto creare questo scritto per dimostrare come,
nonostante la macchina mediatica ci bombardi costantemente con una certa visione delle tematiche sentimentali
e amorose che abbassano l’uomo e la donna al livello bestiale, in realtà le cose non stiano così. Amore non è puro
sesso o libido, ma altro, moltissimo altro. Amore è energia
che ridà vigore e forza alla fiamma divina latente nell’uomo. Si può chiamare Teomorfosi, Iperuranio, Paradiso o
in qualsiasi altro modo: la realtà è unica, cambia solo il
nome del luogo mitico dal quale i Primi Divini vennero ed
al quale l’uomo lotta per potere ritornare. Abbiamo attraversato qualche tappa saliente dello sviluppo storico e
dialettico dell’Idea, dimostrando il moto spiraliforme del
suo manifestarsi; si è partiti dall’amore in senso stretto
(patetico, non nel significato dispregiativo del termine),
per investire tutti i campi dello scibile umano: religione,
filosofia, letteratura, storia, sino ad arrivare alla visione
dicotomica dello scontro tra bene e male. Lo scrivente
vuole infine sottolineare alcune cose. Per quanto la visione metafisica sin qui esposta può avere, per certi versi,
dell’assurdo o del fantascientifico, la realtà delle teorie è
fortemente sostenuta da prove scientifiche, matematicamente dimostrabili. Sull’esistenza di più universi paralleli
la fisica quantistica si è già espressa: gli universi (il nostro
per esempio) nascono quando due onde energetiche si
scontrano, creando una interferenza sul piano dell’esistenza: per rendere più chiaro l’enunciato, l’esistenza è
come un immenso mare in movimento; ogni volta che
due onde si scontrano nasce la spuma marina, con annesse bolle: ecco, il nostro universo è solo una delle infinite bolle esistenti, ciascuna allocata in una dimensione in
base al proprio livello energetico (il livello energetico può
essere misurato in base alla lunghezza d’onda dell’energia, per esempio). Un essere, quindi, cambiando livello
energetico potrebbe effettivamente cambiare dimensione. Sul processo alchemico della trasmutazione della
Materia in Spirito invece la realtà è molto più semplice.
Prendiamo l’esempio dell’elettrone, la più piccola particella subatomica nel sistema atomico classico. Esso è un
corpuscolo dotato di massa propria (e carica elettrica)
che possiamo immaginare come un piccolo pianetino in
orbita attorno al nucleo atomico (questo è il modello atomico classico, ormai ritenuto superato, ma di immediata comprensione per tutti, utile inoltre ai fini del nostro
ragionamento). Esperimenti hanno dimostrato che basta
fornire sufficiente energia all’elettrone (tramite campi
come una delle tante informi (o deformi) figure femminili
che compaiono alla vista dell’uomo, distraendolo dalla
vera ricerca e facendolo inabissare ancora di più nel pesante mondo materiale. Ecco il brano: “Ho molto amato
Herta Holk. L’amo ancora e l’amerò per sempre. Ma non
era la compagna che ti permette di resistere contro tutto. Credo che io non la troverò mai. […] Herta Holk è attratta dal nuovo, ma è ancora troppo legata a pregiudizi
meschini, a vecchie concezioni. […] Lei si accontenta di
una situazione intermedia. Fa compromessi, tiene più alla
pace dell’anima che alla lotta e alla prospettiva di essere
un vincitore invece che un vinto” (Michael, diario di un destino tedesco, Editrice Thule Italia).
L’uomo che riesce a essere fedele alla propria Lei, alla parte di sé perduta, guadagna l’Egoità Assoluta, riconquista
l’Io Totale o, per usare termini platonici, “mette le ali e torna nell’Iperuranio”. In questo modo si smaterializza il corpo che torna a essere Spirito puro e si torna nell’Antica Patria. E, secondo Serrano, nel mondo metafisico, in quello
non sensibile, l’Uomo Assoluto (o Donna Assoluta) riesce
a ritrovare la propria parte perduta che egli immaginò.
Questo perché in realtà immaginare è ricordare: secondo
il pensatore l’immaginazione creativa non fa altro che riportare alla luce una parte del sé precipitata nei meandri
dell’io incosciente, che viene riportata al livello cosciente
mediante la “scorciatoia” del finto crearla dal nulla. Si riesce a riscattare dal mondo della Materia la parte che il
Demiurgo irretì, riportando poi entrambi (riuniti all’Interno dell’Io-Assoluto, completo, totale, dato dall’unione di
maschile e femminile) nella patria originaria e incontaminata dalla meccanica demiurgica. Si chiude il cerchio e si
vince la guerra. Quindi si capisce il senso altamente simbolico dell’amore cortese o dello stilnovismo dantesco:
non importa chi sia realmente la donna fisica incontrata,
ma semplicemente quello che lei rappresenta per il poeta, quello che risveglia in lui: il ricordo della sua Vera Compagna. Serrano in questi termini spiega anche l’amore dei
Minnesӓnger, svelando chi è l’Amata che il poeta crea con
i suoi scritti. La fedeltà verso Lei non è quindi solamente
lealtà verso la donna che ispira, ma verso se stessi, ovvero
verso la parte perduta del sé che una volta riconosciuta
(ricordata) va coltivata interiormente nel proprio Spirito,
così da ridarle vita nel senso ontologico del termine. Mediante le idee di Serrano si capisce meglio anche la trasformazione alchemica dell’androgino, come processo di
raffinazione che implica la nascita del maschile e femminile all’interno dell’Io dell’alchimista. Risulta infine chiara
anche la natura della forza incredibile che sostiene Parzifal nella sua ricerca o che salva Faust da dannazione certa: la presenza di Qualcuno che lottava per Lui, dandogli
forza e valore anche da lontano, anche se sperduto come
un diamante in mezzo a un deserto di sabbia. Lo Spirito
potente di questi eroi vinceva i vincoli della materia, che
40
Amore: il Ricordo e il manifestarsi del’Idea
M. Imbimbo, Viaggio nella filosofia, volume primo, Palumbo Editore.
Platone, Simposio, Einaudi editore.
Platone, Fedro, Einaudi editore.
N. Sapegno, Antologia della divina Commedia, La nuova
Italia.
Dante Alighieri, Vita Nova, edizioni BUR.
Autore ignoto, Mutus Liber, edizione fuori commercio
posseduta dallo scrivente.
Arnaldo da Villanova, Rosarium Philosophorum, edizione
fuori commercio posseduta dallo scrivente.
W. von Eschenbach, Parzival, Einaudi editore.
J. W. Goethe, Faust, edizioni BUR.
J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, edizioni Mediterranee.
M. Serrano, Adolf Hitler: l’ultimo avatara, volumi primo e
secondo, edizioni Settimo Sigillo.
J. Goebbels, Michael- Diario di un destino tedesco, editrice
Thule Italia.
magnetici per esempio) per fare in modo che esso esca
dall’orbita atomica e viaggi nello spazio. A questo punto
l’elettrone è come se perdesse la sua massa iniziale, trasformando la sua natura corpuscolare (materiale) in onda
elettromagnetica: riesce a passare attraverso gli ostacoli, vibra come le radiazioni elettromagnetiche, produce
luce. D’altronde la materia altro non è che energia “lentissima”, ovvero con una lunghezza d’onda molto bassa,
mentre la luce è energia ad altissima lunghezza d’onda,
energia “veloce”. Spirito (Luce) e Materia hanno quindi
la stessa matrice di provenienza: Energia. Gli alchimisti
con i loro mezzi non erano assolutamente andati tanto
lontano rispetto a quanto gli scienziati moderni hanno
enunciato grazie ai loro potenti mezzi. Riguardo infine
alla doppia natura dell’uomo potrei citare miti o concetti
religiosi (come Eva estratta da Adamo, o il Tao), ma preferisco richiamare le parole di una persona che mi ricordò
come, nell’individuo maschile, i cromosomi sono X ed Y:
uno maschile e uno femminile.
Termino questo articolo scrivendo che, oltre le spettacolari visioni metafisiche che l’ispirazione d’Amore ha dato
all’uomo, oltre i capolavori letterari, le dottrine filosofiche, le opportunità di ontologiche “di altri universi” o di
smaterializzazioni delle masse, il messaggio che vorrei
rimanesse dentro i cuori dei lettori sia quello di un’astiosa rivolta contro il degrado etico e morale attuale. Non
si nasce per soddisfare poveri piaceri individualisti o per
essere consumatori che, tra i tanti beni di consumo, acquistano anche il bene sessuale. Non siamo venuti alla
vita per seguire oziosi canoni estetici dettati da mentalità
contorte e malate. Ogni persona è chiamata a altro, ad
una lotta che è perfezionamento morale e fisico, svolta in
opposizione all’ambiente ormai sterile e decadente che ci
circonda. Nell’analisi seguita resta come costante la compagnia della donna per l’uomo e quella dell’uomo per la
donna. Insieme si riesce a vincere l’entropia che fa decadere l’attuale società umana, da soli non si riesce a concludere assolutamente nulla, anzi si accelera la discesa
verso l’abisso. Non quindi nella sudditanza nei confronti
dell’altro, né tantomeno nell’attuale commistione caotica
dei ruoli sociali, ma in un’intima collaborazione che porta anche alla corretta divisione dei ruoli, tra maschile e
femminile, nel pieno rispetto di entrambi, perché uno è
assolutamente inutile senza l’altro. Ogni individualismo è
condannato alla rovina assoluta.
Bibliografia
A. Oliverio Ferraris, Psicologia, Zanichelli Editore.
R. Luperini, La scrittura e l’interpretazione, volume primo,
tomo primo, Palumbo Editore.
D. Del Corno, La letteratura greca, volume secondo.
Principato Euripide, Le baccanti, edizioni BUR.
41
Altra Lettura
42
Altra Lettura
43
Altra Lettura
“La razza ventura” di Edward Bulwer-Lytton
Ultima puntata
Quando io e Taë, lasciata la città, abbandonammo sulla
sinistra la via principale e ci addentrammo fra i campi, la
strana e solenne bellezza del paesaggio, rischiarato fino
all’orizzonte da innumerevoli lampioni, affascinò i miei
occhi, distraendomi per qualche tempo dall’ascolto di
quanto mi andava dicendo il mio compagno.
Dovunque vedevo svolgere le varie attività agricole per
mezzo di macchine dalle forme per me nuove, e spesso
assai eleganti; tra quella gente l’arte viene coltivata ai fini
dell’utilità e si prodiga nell’adornare ed affinare le forme
degli oggetti pratici. I metalli preziosi e le gemme sono
così abbondanti che vengono profusi su cose dedicate
all’uso più banale: e l’amore per l’utilità spinge i Vril-ya ad
abbellire gli strumenti, accendendo la loro immaginazione in modo impensabile.
In tutti i servizi, al coperto ed all’aperto, fanno grande uso
di automi, così ingegnosi e sottomessi alle energie del
vril, da sembrare veramente dotati di ragione. Era quasi
impossibile distinguere le figure che vedevo intente a
guidare od a sovrintendere i rapidi movimenti delle grandi macchine, dagli esseri umani dotati di intelligenza.
Poco a poco, mentre procedevamo, la mia attenzione
venne attratta dalle osservazioni acute e vivaci del mio
compagno. L’intelligenza dei bambini, in questa razza, è
meravigliosamente precoce, forse perché essi sono abituati a vedersi affidati, in così tenera età, gli utensili e le
responsabilità dell’età adulta. Conversando con Taë, avevo la sensazione di parlare con un uomo superiore del
mio mondo. Gli chiesi se era in grado di fornirmi una stima del numero delle comunità in cui si suddivide la razza
dei Vril-ya.
“Non esattamente”, rispose lui, “poiché si moltiplicano
ogni anno, con l’emigrazione della popolazione sovrabbondante. Ma ho sentito dire da mio padre che, secondo
i dati più recenti, vi sono un milione e mezzo di comunità
che parlano la nostra lingua e adottano le nostre istituzioni e le nostre forme di vita e di governo, tuttavia con
differenze di cui ritengo faresti meglio a chiedere precisazioni a Zee. Lei conosce queste cose meglio di tanti Ana.
Un An s’interessa meno di una Gy alla cose che non lo
riguardano direttamente; le Gy-ei sono creature curiose.”
“E ogni comunità sì limita allo stesso numero di famiglie,
o alla stessa consistenza della popolazione?”.
“No. Alcune hanno popolazioni più esigue, altre più numerose, a seconda dell’ampiezza del territorio e dell’eccellenza dei loro macchinari. Ogni comunità stabilisce il
proprio limite in base alle circostanze, badando sempre
a far sì che non si crei una classe di poveri a seguito della
pressione della popolazione sulle capacità produttive, e
che lo Stato non diventi troppo grande per un governo
simile a quello d’una famiglia ben ordinata. Immagino
che nessuna comunità dei Vril-ya superi le trentamila
famiglie. Ma, in generale, tanto più una comunità è piccola, purché vi siano abbastanza braccia per sfruttare le
possibilità del territorio, e più è ricco ogni individuo, più
grandi sono le somme che versa al tesoro pubblico... e soprattutto l’intera organizzazione politica è più tranquilla
ed i prodotti dell’industria sono più perfetti. Lo Stato che
tutte le tribù dei Vril-ya riconoscono come il più elevato, e
che ha portato al pieno sviluppo l’energia del vril, è forse
il più piccolo. Comprende solo quattromila famiglie, ma
ogni spanna del suo territorio è coltivata con la perfezione di un giardino; i suoi macchinari sono migliori di quelli
d’ogni altra tribù, e non vi è prodotto della sua industria
che non sia richiesto, a prezzi altissimi, dalle altre comunità della nostra razza. Tutte le altre tribù prendono a
modello questo Stato, ritenendo che potremmo raggiungere il più elevato livello di civiltà permesso ai mortali se
potessimo unire il più alto grado di felicità permesso a
quello più grande delle conquiste intellettuali; ed è chiaro che questo sarà tanto meno difficile quanto più piccola è la società. La nostra è già anche troppo grande.”
Questa risposta mi spinse a riflettere. Ricordai il piccolo
Stato di Atene che aveva solo ventimila liberi cittadini e
che ancora oggi le nostre nazioni più potenti considerano guida e modello nel campo delle attività dell’intelletto. Ma Atene permetteva rivalità accanite e cambiamenti
continui, e certo non era felice. Scuotendomi dalla fantasticheria in cui mi avevano gettato queste riflessioni,
riportai il discorso sull’emigrazione.
“Ma quando”, dissi, “un certo numero di persone, mi sembra ogni anno, accetta di lasciare la patria e di fondare
altrove una nuova comunità, necessariamente deve trattarsi di poca gente, appena sufficiente, anche con l’aiuto
delle macchine che porta con sé, per dissodare il terreno,
costruire città e formare uno Stato civile, con le comodità
ed i lussi cui tutti sono abituati.”
“Ti sbagli. Tutte le tribù dei Vril-ya sono in costante comunicazione fra loro, ed ogni anno concordano quale percentuale di ciascuna sua unità si unisca agli emigranti di
un’altra, in modo da formare uno Stato di sufficiente grandezza; ed il luogo dell’emigrazione viene scelto almeno
un anno prima, ed i pionieri di ogni Stato vi si recano per
spianare le rocce, imbrigliare le acque, e costruire le case.
Perciò, quando gli emigranti si trasferiscono, trovano una
città già pronta, ed una campagna almeno parzialmente
44
“La razza ventura”
bonificata. La nostra dura vita da bambini ci induce ad
amare i viaggi e l’avventura. Io stesso intendo emigrare,
quando sarò maggiorenne.”
“Gli emigranti scelgono sempre località disabitate e spoglie?”.
“In generale sì, poiché rispettiamo il principio di non distruggere mai, se non quando è necessario per il nostro
bene. Certo, non possiamo stabilirci nelle terre già occupate dai Vril-ya; e se prendiamo i terreni coltivati delle altre razze degli Ana, dobbiamo sterminarne i precedenti
abitanti. Talvolta scegliamo zone desolate, e poi scopriamo che una razza di Ana turbolenta e rissosa, specialmente se amministrata del Koom-Posh o Glek-Nas, s’irrita
per la nostra vicinanza, e attacca briga con noi; e allora
naturalmente l’annientiamo, perché minaccia il nostro
benessere; è impossibile venire infatti a patti con una razza così idiota che cambia continuamente la forma di governo. Il Koom-Posh”, disse il ragazzino, in tono enfatico,
“è già abbastanza negativo, ma possiede ancora un po’ di
cervello, e non è privo di cuore; ma nel Glek-Nas il cervello
ed il cuore degli esseri si annientano, ed essi diventano
tutti zanne, artigli e ventre.”
“Ti esprimi con molta energia. Permettimi di informarti
che io stesso sono cittadino di un Koom-Posh, e ne sono
fiero.”
“Non mi stupisco più”, rispose Taë, “nel vederti qui, tanto
lontano dalla tua patria. Quali erano le condizioni della
tua comunità, prima che diventasse un Koom-Posh?”.
“Una colonia di emigranti, come quelle della tua tribù: ma
era molto diversa da esse, poiché dipendeva dallo Stato
da cui proveniva. Si liberò da quel giogo e, coronata di
gloria eterna, divenne un Koom-Posh.“
“Gloria eterna? Da quanto tempo dura il Koom-Posh?”.
“Da circa cent’anni.”
“La durata della vita di un An... una comunità molto giovane. Tra molto meno di cent’anni il tuo Koom-Posh diventerà un Glek-Nas.“
“No: gli Stati più vecchi del mondo da cui provengo hanno tale fiducia nella sua durata che tutti modellano via
via le loro istituzioni sulla nostra, e gli uomini politici più
seri affermano che, inevitabilmente, tali vecchi Stati tenderanno a diventare a loro volta Koom-Posh.“
“I vecchi Stati?”.
“Sì, i vecchi Stati.”
“Hanno una popolazione molto piccola in rapporto al territorio produttivo?”.
“Al contrario, hanno popolazioni assai numerose, in rapporto alla terra.”
“Capisco! Sono davvero vecchi Stati! Così vecchi che andrebbero in rovina se non spedissero lontano la popolazione in eccesso come facciamo noi. Stati molto, molto
vecchi! Ti prego, Tish, dimmi: ritieni saggio che i vecchi
cerchino di fare le capriole come i bambini? E se chiedessi
loro perché lo fanno, non rideresti nel sentirti rispondere che imitando i bambini sperano di diventare bambini
anch’essi? La storia antica abbonda di esempi del genere,
avvenuti molte migliaia di anni or sono: ed in ogni caso, i
vecchi Stati che giocavano al Koom-Posh piombavano nel
Glek-Nas. Poi, inorriditi, invocavano un padrone, come un
vecchio rimbambito invoca l’infermiera; e dopo una successione di padroni o di infermiere quello Stato vecchissimo spariva dalla storia. Un vecchio Stato che si affida
al Koom-Posh è come un vecchio che abbatte la casa cui
è abituato, ma nell’abbatterla esaurisce le sue energie, e
invece di ricostruirla riesce solo ad erigere una buffa capanna, in cui egli stesso ed i suoi successori non fanno
altro che lagnarsi: ‘Come soffia il vento! Come tremano le
pareti!’ “.
“Mio caro Taë, posso giustificare i tuoi pregiudizi, che
qualunque scolaretto educato in un Koom-Posh potrebbe
agevolmente contestare, anche senza essere un esperto
precoce di storia antica come te.”
“Io non sono affatto un esperto. Ma uno scolaretto educato nel tuo Koom-Posh chiederebbe al trisnonno o alla
trisnonna di camminare a gambe in aria? E se i poveri vecchi esitassero, direbbe forse: ‘Di che avete paura? Vedete,
io lo faccio benissimo’?”.
“Taë, non voglio discutere con un ragazzino della tua età.
Ti ripeto, tengo conto della mancanza di quella cultura
che solo un Koom-Posh può impartire”.
“Ed io, a mia volta”, rispose Taë, con un’aria di soave ma altera cortesia, tipica della sua razza, “non solo tengo conto
del fatto che non sei stato educato tra i Vril-ya, ma ti prego di perdonarmi l’insufficiente rispetto per le abitudini e
le opinioni di un così amabile... Tish!”.
Avrei dovuto precisare prima che venivo comunemente
chiamato Tish dal mio ospite e dai suoi familiari; era un
nome cortese, anzi affettuoso, per indicare un piccolo
barbaro, e letteralmente significava Ranocchietto. I bambini lo usano per le specie domestiche di rana che tengono nei loro giardini.
Eravamo giunti intanto sulle rive di un lago, e Taë si soffermò ad indicarmi le devastazioni perpetrate nei campi
circostanti. “Il nemico si nasconde sicuramente in queste
acque”, fece. “Osserva i branchi di pesci che affollano le
sponde. I pesci più grossi stanno insieme a quelli più piccoli, che costituiscono la loro preda abituale e generalmente li evitano: tutti dimenticano l’istinto alla presenza
di un nemico comune. Il rettile deve appartenere certamente alla razza dei Krek-a, una classe più famelica delle
altre; si dice sia fra le poche specie superstiti dei più temuti abitatori del mondo in tempi anteriori alla creazione
degli Ana. L’appetito di un Krek è insaziabile... si nutre tanto di vegetali quanto di animali; ma per le creature velocissime come i cervi è troppo lento nei movimenti. Il suo
boccone preferito è un An, quando riesce a sorprenderlo
45
Altra Lettura
alla sprovvista, e perciò gli Ana lo uccidono senza pietà
ogni volta che penetra nei loro dominii. Ho sentito dire
che, quando i nostri antenati bonificarono questo territorio, tali mostri ed altri simili erano numerosi, e poiché
allora non era stato scoperto il vril, molti esponenti della
nostra razza vennero divorati. Fu impossibile sterminare
completamente questi animali prima della scoperta che
costituisce la potenza della nostra razza e ne sostiene la
civiltà. Ma quando imparammo gli usi del vril, tutti gli
esseri a noi nemici vennero presto annientati. Peraltro,
all’incirca una volta all’anno, uno di questi rettili enormi
lascia le zone selvagge e spopolate; ricordo che uno di
essi uccise una giovane Gy che faceva il bagno appunto in questo lago. Se fosse stata sulla riva ed armata del
suo scettro, il mostro non avrebbe osato neppure rivelarsi, perché come tutte le creature selvatiche ha un istinto
prodigioso, e sta lontano da coloro che sono armati dello
Scettro Vril. Come facciano ad insegnare ai piccoli ad evitarli, anche se li vedono per la prima volta, è uno di quei
misteri di cui devo chiedere la spiegazione a Zee, poiché
io non la conosco. Finché resterò qui, il mostro non uscirà
dal nascondiglio; ma dobbiamo indurlo a venirne fuori.”
“Non sarà difficile?”.
“Per nulla. Siediti su quella roccia, a circa cento passi dalla
riva, mentre io mi ritiro più lontano. Fra poco il rettile ti
vedrà o sentirà il tuo odore e, rendendosi conto che non
sei armato di vril, uscirà per divorarti. Appena sarà uscito
dall’acqua, per me sarà una facile preda”.
“Vorresti dire che io devo fare da esca per quell’orribile
mostro che potrebbe inghiottirmi in un istante? Ti prego
di dispensarmi.”
Il ragazzetto rise. “Non temere”, disse. “Basta che tu stia
seduto immobile.”
Invece di obbedire, spiccai un balzo e stavo per darmi alla
fuga, quando Taë mi toccò leggermente sulla spalla, fissandomi negli occhi, e io mi sentii inchiodato sul posto.
La forza di volontà mi aveva abbandonato. Docilmente,
seguii il ragazzino fino alla roccia che mi aveva indicata,
e sedetti in silenzio. Molti lettori conosceranno senza
dubbio gli effetti dell’elettrobiologia, autentici o spurii.
Nessun professore di questa scienza discussa era mai riuscito a influenzare i miei pensieri ed i miei movimenti; ma
adesso ero una macchina in balìa della volontà di quel
terribile ragazzino. Poi Taë spiegò le ali, prese il volo, e atterrò in un boschetto sul ciglio di una collina piuttosto
lontana.
Rimasi solo e, volgendo verso il lago gli occhi, con un’indescrivibile sensazione di orrore, li tenni fissi sull’acqua,
affascinato. Trascorsero forse dieci o quindici minuti, che
a me parvero secoli; poi la superficie tranquilla e splendente sotto la luce dei lampioni cominciò ad agitarsi al
centro. Nello stesso tempo i branchi di pesci presso la
sponda intuirono l’avvicinarsi del nemico. Li vidi fuggire
precipitosamente qua e là; alcuni si gettarono addirittura sulla riva. Un solco lungo, scuro, ondulato, si aprì nelle
acque, muovendosi, avvicinandosi sempre di più, fino a
quando emerse l’enorme testa del rettile, con le fauci irte
di zanne, gli occhi cupi fissi famelicamente su di me. Posò
le zampe anteriori sulla sponda... poi il petto enorme,
scaglioso come una corazza ai due lati, ed al centro coperto da pelle corrugata di un giallo scuro e velenoso; poi
salì sulla terraferma in tutta la sua lunghezza, cento piedi
o più dalla testa alla coda. Un altro passo di quelle zampe
terribili l’avrebbe portato sul punto in cui mi trovavo. Un
solo istante mi separava da quella lugubre incarnazione
della morte, quando nell’aria balenò un lampo, e per un
momento più breve di un respiro, avviluppò il mostro.
Quando il bagliore svanì, davanti a me giaceva una massa annerita, carbonizzata, fumante, gigantesca ma informe, che si disgregava rapidamente in polvere e cenere.
Io rimasi seduto, ammutolito, agghiacciato da una nuova
sensazione di paura: quello che prima era orrore era divenuto sgomento.
Sentii la mano del bambino sulla mia testa, e la paura mi
abbandonò; l’incantesimo si ruppe e mi alzai. “Hai visto
con quanta facilità i Vril-ya annientano i loro nemici,” fece
Taë; e dirigendosi verso la riva, contemplò i resti fumanti del mostro e disse tranquillamente: “Ho ucciso animali
più grandi, ma nessuno con altrettanto piacere. Sì, è davvero un Krek: quante sofferenze deve avere inflitto da
vivo!”. Poi raccolse i poveri pesci che si erano gettati sulla
spiaggia, e li restituì al loro elemento natio.
***
Mentre tornavamo in città, Taë si avviò per un percorso
diverso e più lungo, per mostrarmi quella che, usando
un termine familiare, chiamerò “Stazione”: gli emigranti
ed i viaggiatori usano partire da lì. In precedenza, avevo
espresso il desiderio di vedere i veicoli dei Vril-ya. Constatai che erano di due tipi: uno per i viaggi di terra, l’altro
per i viaggi aerei. I primi erano di ogni forma e dimensione: alcuni non più grandi di una normale carrozza, altri
vere e proprie case mobili ad un piano, comprendenti
diverse stanze arredate secondo il concetto di lusso e di
comodità tipico dei Vril-ya. I veicoli aerei erano di materiali leggeri e non somigliavano affatto ai nostri aerostati, bensì alle nostre barche; erano muniti di timone ed
avevano grandi ali al posto dei remi, ed una macchina
centrale alimentata dal vril. Tutti i veicoli di terra ed aerei
sono infatti azionati da quell’energia potente e misteriosa. Vidi un convoglio in partenza: aveva pochi passeggeri,
e trasportava soprattutto merci. Era diretto ad una comunità vicina, poiché fra tutte le tribù dei Vril-ya gli scambi
commerciali sono molto attivi. Posso osservare, a questo
punto, che la loro moneta non consiste di metalli preziosi,
46
“La razza ventura”
troppo comuni per venire utilizzati per un simile scopo. Le
monete più piccole d’uso ordinario sono ricavate da una
particolare conchiglia fossile, residuo relativamente scarso di qualche antico diluvio, o di altri cataclismi naturali
che ne hanno sterminato la specie. È minuscola e piatta
come un’ostrica, ed ha una lucentezza gemmea. Questa
moneta circola fra tutte le tribù dei Vril-ya. Le transazioni
commerciali più consistenti si svolgono, come da noi, per
mezzo di accrediti e di sottili lastre metalliche corrispondenti alle nostre banconote.
Approfitto dell’occasione per aggiungere che, nella tribù
di cui fui ospite, le tasse erano considerevoli, in confronto
alla popolazione. Ma non sentii mai nessuno lamentarsene, poiché le entrate fiscali venivano devolute a scopi d’utilità generale, necessari alla civiltà della tribù. Le
spese per illuminare un territorio così vasto, provvedere
all’emigrazione, mantenere gli edifici pubblici in cui si
svolgevano le varie attività intellettuali del paese, dalla
prima educazione dei bambini fino ai Dipartimenti dove
il Collegio dei Saggi conduceva sempre nuovi esperimenti meccanici, erano molto ingenti e richiedevano considerevoli stanziamenti statali.
Debbo aggiungere poi un particolare che mi sembrò
molto singolare. Ho detto già che tutto il lavoro necessario per lo Stato viene svolto dai bambini e dai ragazzi
fino all’età matrimoniabile. Lo Stato paga questo lavoro,
corrispondendo retribuzioni assai più elevate di quelle in
uso persino negli Stati Uniti. Secondo la teoria dei Vril-ya,
ogni ragazzo, raggiungendo l’età del matrimonio e terminando il periodo di lavoro, deve aver guadagnato quanto
basta per rendersi indipendente per tutta la vita. Come
tutti i bambini debbono prestare servizio, quale che sia il
patrimonio dei genitori, vengono del pari pagati egualmente, secondo l’età e la natura del lavoro svolto. Quando i genitori o gli amici decidono di trattenere un ragazzino al proprio servizio, sono tenuti a versare all’erario la
stessa somma che lo Stato paga ai bambini al suo servizio; e la somma viene consegnata al giovane allo scadere
del periodo lavorativo. Questa consuetudine, senza dubbio, contribuisce a rendere familiare e gradita la nozione
dell’eguaglianza sociale; e se si può dire che tutti i bambini formano una democrazia, è altrettanto vero che tutti
gli adulti formano un’aristocrazia. La squisita cortesia e
la raffinatezza di modi dei Vril-ya, la generosità dei sentimenti, la libertà assoluta con cui possono seguire la loro
vocazione, la bellezza dei rapporti domestici, in cui essi
sembrano membri di un nobile ordine privi di diffidenza
l’uno nei confronti dell’altro, tutto contribuisce a fare dei
Vril-ya la più perfetta nobiltà che un discepolo politico di
Platone o di Sidney21 potrebbe indicare quale ideale di
una repubblica aristocratica.
Dopo la spedizione che ho appena narrato, Taë venne a
farmi visita spesso. Provava per me una simpatia che ricambiavo cordialmente. Anzi, poiché non aveva ancora
dodici anni e non aveva iniziato il corso di studi scientifici
che in quel paese concludono l’infanzia, mi sentivo intellettualmente meno inferiore, nei suoi confronti, di quanto mi sentissi nei riguardi dei membri più adulti della sua
razza, in particolare le Gy-ei, e soprattutto Zee. I bambini
dei Vril-ya, su cui pesano tanti doveri e tante responsabilità, in generale non sono allegri; ma Taë, nonostante la sua
saggezza, aveva quel gioioso buon umore che spesso caratterizza l’uomo di genio. Nella mia compagnia trovava il
piacere che nel mondo esterno un ragazzino della sua età
trova nella compagnia di un cane o di una scimmietta. Si
divertiva a cercare d’insegnarmi le consuetudini del suo
popolo, proprio come un mio nipote si diverte ad insegnare al suo barboncino a camminare sulle zampe posteriori o a saltare il cerchio. Mi prestavo volentieri a tali esperimenti, ma non ottenevo mai il successo del barboncino.
All’inizio tentai di abituarmi alle ali che anche i Vril-ya più
giovani usano con l’agilità e la disinvoltura con cui i nostri
bambini muovono le braccia e le gambe; ma i miei sforzi
furono ricompensati soltanto da contusioni abbastanza
serie da indurmi a rinunciare per la disperazione. Le ali,
come ho già detto, sono molto grandi; arrivano al ginocchio, e quando non vengono usate sono tenute all’indietro in modo da formare un elegante mantello. Sono
fatte con le piume di un uccello gigantesco piuttosto
comune tra le alture rocciose del Paese: il colore è quasi
sempre bianco, talora con striature rossicce. Sono fissate
intorno alle spalle per mezzo di molle d’acciaio, leggere
ma robuste e, quando vengono spiegate, le braccia s’infilano entro appositi cerchi, formanti una specie di salda
membrana centrale. Quando si alzano le braccia, una fodera tubolare sotto la tunica si gonfia d’aria grazie ad un
congegno meccanico, e l’afflusso aumenta o diminuisce
a volontà a seconda del movimento delle braccia, così da
conferire galleggiabilità alla persona. Le ali e l’apparato
simile ad un pallone sono leggermente caricati di vril; e
quando il corpo viene così sollevato verso l’alto, sembra
perdere singolarmente di peso.
Mi fu abbastanza facile alzarmi dal suolo; quando le ali
erano spiegate, anzi, era praticamente impossibile non
sollevarmi, ma poi venivano le difficoltà ed i pericoli. Non
riuscivo a usare e ad orientare le ali, sebbene tra i miei
simili venissi giudicato straordinariamente efficiente negli esercizi fisici, e fossi un nuotatore esperto. Riuscivo
soltanto a compiere tentativi di volo goffi e confusi. Ero
asservito alle ali, non erano le ali a servire me... non ero
capace di controllarle; e quando, con una violenta tensione muscolare, causata, debbo ammetterlo, dalla paura,
dominavo le loro evoluzioni e le portavo accosto al corpo, perdevo l’energia accumulata in esse e nelle vesciche,
***
47
Altra Lettura
come quando l’aria esce da un aerostato, e precipitavo
verso terra; agitandomi freneticamente mi salvavo dallo
sfracellarmi, ma non dai lividi e dallo stordimento di una
pesante caduta. Avrei comunque perseverato nei miei
tentativi, se non fosse stato per il consiglio (o l’ordine)
della scientifica Zee, che aveva seguito benevolmente i
miei voli e che, nell’ultima occasione, lanciandosi sotto di
me, mi aveva sorretto con le ali protese, impedendo così
che mi spaccassi la testa sul tetto della piramide da cui
eravamo partiti.
“Mi rendo conto”, disse, “che i tuoi tentativi sono vani, non
per colpa delle ali e dell’apparato, né per imperfezioni o
malformazioni del tuo organismo, ma per un’irrimediabile carenza nella tua forza di volontà. Sappi che il rapporto
tra la volontà e le energie del fluido assoggettato al dominio dei Vril-ya non fu stabilito dai primi scopritori, né
realizzato in una sola generazione; è cresciuto costantemente come le altre proprietà della razza, ed è stato trasmesso uniformemente dai genitori ai figli, sino a diventare un istinto; ed un infante della nostra razza desidera
inconsciamente ed intuitivamente volare, così come desidera camminare. Perciò usa le ali artificiali con la stessa
sicurezza con cui un uccello usa le sue ali naturali. Non ci
pensavo quando ti ho permesso di tentare l’esperimento
con me, perché desideravo trovare in te un compagno.
Rinuncerò all’esperimento, ora; la tua vita mi è cara”. Il volto e la voce della Gy si addolcirono, ed io mi sentii molto
più allarmato che durante i voli.
Ora che sto parlando delle ali, non dovrei omettere di
ricordare una consuetudine delle Gy-ei, che mi sembra
molto graziosa e tenera per il sentimento che esprime.
Quando è ancora vergine, una Gy porta abitualmente le
ali e prende parte agli sport aerei degli Ana, si avventura
da sola nelle regioni più selvagge del suo mondo privo di
Sole, e supera l’altro sesso per l’ardimento e l’altezza del
volo, non meno che per la grazia dei movimenti. Ma dal
giorno delle nozze non porta più le ali; le appende sopra
il letto matrimoniale, e non le riprende più, a meno che
i vincoli coniugali vengano spezzati dal divorzio o dalla
morte.
Quando Zee addolcì in tal modo la voce e lo sguardo,
causandomi un profetico brivido d’apprensione, Taë, che
ci aveva accompagnati nel volo ma che, fanciullescamente, si era divertito della mia goffaggine anziché mostrare
comprensione per le mie paure, volteggiò sopra di noi,
librato nell’aria immobile e radiosa sulle ali spiegate, e
udendo le parole affettuose della giovane Gy, rise sonoramente e disse: “Se il Tish non riesce ad imparare l’uso
delle sue ali, può esserti ancora compagno, Zee, perché
tu puoi appendere le tue.”
Da qualche tempo nella sapientissima e poderosa figlia
del mio ospite, avevo notato quel sentimento gentile e
protettivo che, alla superficie come nelle viscere della
terra, la saggia Provvidenza ha dispensato alla metà femminile della razza umana. Ma l’avevo sempre attribuito
a quell’affetto per gli “animali domestici” che una donna
umana, a qualunque età, ha in comune con il bambino.
Ora mi accorsi invece, dolorosamente, che il sentimento
dimostratomi da Zee era ben diverso da quello che ispiravo a Taë. Una simile convinzione non mi diede affatto
la compiaciuta soddisfazione che la vanità maschile trae
solitamente da un lusinghiero apprezzamento dei suoi
meriti personali da parte del gentil sesso; al contrario,
m’ispirò paura. Eppure, fra tutte le Gy-ei della comunità,
Zee non era solo la più sapiente e la più forte, ma anche,
per riconoscimento generale, la più dolce, e senza dubbio
era anche la più amata e popolare. Il desiderio di aiutare,
soccorrere, proteggere, confortare, sembrava pervadere
tutto il suo essere. Sebbene nel sistema sociale dei Vril-ya
siano ignote le complicate infelicità originate dalla miseria e dalla colpa, nessun saggio aveva ancora scoperto
nel vril un’energia capace di bandire il dolore dalla vita; e
dovunque vi fosse dolore, tra la sua gente, Zee accorreva
a svolgere la sua missione consolatrice.
Un’altra Gy non riusciva ad ottenere l’amore dell’An per cui
sospirava? Zee la cercava e usava tutte le risorse della sua
conoscenza e tutte le consolazioni della sua simpatia, per
alleviare un’angoscia tanto bisognosa d’una confidente.
Nei rari casi in cui una malattia grave colpiva un bambino
od un giovane, e in quelli ancora più rari in cui, nel duro
e avventuroso apprendistato dei bambini, si verificava un
incidente, Zee abbandonava gli studi e gli svaghi, e diveniva guaritrice ed infermiera. Volava spesso ai confini del
territorio, dove i bambini montavano la guardia contro le
forze ostili della natura o l’invasione di animali pericolosi,
per avvertirli dei pericoli che la sua scienza prevedeva, e
per aiutarli in caso di difficoltà.
Anche nell’esercizio delle sue attività scientifiche dimostrava una grande benevolenza. Veniva a sapere di una
nuova invenzione che poteva tornare utile al praticante
di qualche arte speciale? Allora si affrettava a comunicargliela ed a spiegargliela. Qualche vecchio saggio del
Collegio era stanco e perplesso per la fatica di uno studio
astruso? Zee l’aiutava paziente, risolveva i dettagli, lo incoraggiava con il suo sorriso speranzoso, l’ispirava con luminosi suggerimenti, era per lui un buon genio. Mostrava
la stessa tenerezza per le creature inferiori. So che spesso
portava a casa animali malati o feriti, e li curava come una
madre curerebbe il figlioletto. Molte volte mentre sedevo
sul balcone, o giardino pensile, su cui si apriva la mia stanza, la vedevo innalzarsi nell’aria sulle ali radiose, e dopo
pochi istanti gruppi di bambini, scorgendola dalle strade,
la raggiungevano lanciandole lieti saluti, si raccoglievano
***
48
“La razza ventura”
e le volteggiavano intorno, facendo di lei il centro di una
gioia innocente. Quando passeggiavo con lei tra le rocce
e le valli, fuori dalla città, i cervi la vedevano da lontano,
o sentivano il suo odore, ed accorrevano premurosi a
chiedere le sue carezze, o la seguivano fino a quando lei
li congedava con un mormorio melodioso che gli animali
avevano imparato a comprendere.
Le vergini Gy-ei usano portare sulla fronte un cerchietto
ornato di gemme simili ad opali, disposti a quattro punte, come stelle. Le gemme sono solitamente opache, ma
quando vengono sfiorate dallo Scettro Vril brillano di una
limpida fiamma che illumina senza bruciare: è un ornamento per le feste, ma serve anche come lampada durante i vagabondaggi allorché, spingendosi oltre la zona
delle luci artificiali, si trovano ad attraversare territori bui.
Talvolta, quando vedevo il viso pensoso e solenne di Zee
illuminato da quell’alone, faticavo a crederla una creatura mortale, e piegavo la testa davanti a lei come fosse
un essere celestiale. Ma neppure una volta il mio cuore
aveva provato un sentimento d’amore umano per quello
splendido, solenne ideale di femminilità. Nella razza cui
appartengo, l’orgoglio dell’uomo influenza a tal punto le
sue passioni che la donna perde ogni fascino ai suoi occhi
se la riconosce in tutto superiore a lui. Ma per quale strana infatuazione l’impareggiabile figlia d’una razza che,
per la supremazia dei poteri e la felicità delle condizioni,
relegava ogni altra nella categoria della barbarie, si era
degnata di onorarmi della sua preferenza? Come qualità
personali, sebbene fossi ritenuto di bell’aspetto tra la mia
gente, anche i più belli fra i miei compatrioti sarebbero
apparsi insignificanti e scialbi accanto alla bellezza maestosa e serena che caratterizza l’aspetto dei Vril-ya.
Era abbastanza probabile che la stessa differenza tra me e
coloro che Zee frequentava abitualmente contribuisse a
destare la sua fantasia, e come il lettore vedrà più avanti,
questa causa potrebbe bastare a spiegare la predilezione
accordatami da una giovane Gy, poco più che adolescente, e sotto tutti gli aspetti inferiore a Zee. Ma chiunque
pensi alle tenere caratteristiche della figlia di Aph-Lin,
può facilmente capire che la causa principale della mia
simpatia per lei stava nel suo istintivo desiderio di confortare, proteggere, aiutare e, proteggendo, sostenere ed
esaltare. Perciò, ripensandovi ora, mi spiego l’unica debolezza indegna della sua indole regale, che piegava la figlia
dei Vril-ya ad un affetto femmineo per un individuo a lei
tanto inferiore. Ma, qualunque fosse la causa, la coscienza
di avere ispirato tale affetto mi riempiva di sgomento... un
timore morale della sua stessa perfezione, dei suoi poteri
misteriosi, delle diversità insuperabili tra la sua razza e la
mia; ed a quel timore, debbo confessare a mia vergogna,
si univa la paura più concreta ed ignobile dei pericoli cui
mi avrebbe esposto la sua preferenza.
Si poteva immaginare, sia pure per un momento, che i
genitori e gli amici di una simile creatura potessero accettare senza indignazione e disgusto la prospettiva di
un legame tra lei ed un Tish? Non potevano punirla, né
confinarla o incarcerarla. I Vril-ya non riconoscono le leggi della forza, nella vita domestica come in quella politica;
ma avrebbero potuto porre efficacemente fine all’infatuazione di Zee per me liquidandomi con un lampo di vril.
In queste circostanze inquietanti, per fortuna, la mia
coscienza ed il mio senso dell’onore erano immuni da
rimproveri. Se la preferenza di Zee avesse continuato a
manifestarsi, sarebbe stato chiaramente mio dovere parlarne al mio ospite, naturalmente con tutta la delicatezza
che un uomo ben educato deve osservare confidando ad
un altro il favore con cui una donna si degna di onorarlo.
Così, in tal caso, mi sarei liberato dalla responsabilità e dal
sospetto di aver fomentato i sentimenti di Zee; e la superiore saggezza del mio ospite avrebbe potuto probabilmente suggerire una via d’uscita per il mio pericoloso
dilemma. Nel prendere tale decisione obbedii all’istinto
normale dell’uomo civile e morale che, per quanto possa
sbagliare, di solito preferisce la retta via nei casi in cui è
chiaramente contrario ai suoi interessi, alle sue inclinazioni ed alla sua sicurezza scegliere la strada sbagliata.
***
Come il lettore ricorderà, Aph-Lin non aveva favorito i
miei rapporti con i suoi compatrioti. Sebbene fidasse nella mia promessa di astenermi dal dare informazioni sul
mondo che avevo lasciato, ed ancor più nell’impegno di
non interrogarmi, assunto da quanti mi conoscevano,
non era del tutto sicuro che, se mi fosse stato permesso
di frequentare gli estranei incuriositi dalla mia presenza,
io sarei stato in grado di difendermi dalle loro domande.
Quando uscivo, quindi, non ero mai solo; venivo sempre
accompagnato da un familiare del mio ospite o dal mio
giovane amico Taë.
Bra, la moglie di Aph-Lin, si spingeva di rado oltre i giardini che circondavano la casa, e amava leggere la letteratura antica, più romanzesca ed avventurosa, che presentava immagini di una vita estranea alla sua esperienza ed
interessante per la sua fantasia, una vita per la verità più
simile a quella che noi conduciamo quotidianamente nel
mondo esterno, colorata di sofferenze, peccati e passioni.
Per lei quelle vicende erano ciò che per noi sono le favole
delle Mille e una notte. Ma l’amore per la lettura non impediva a Bra di assolvere i suoi doveri quale padrona della
casa più grande della città. Ogni giorno faceva il giro delle stanze, si assicurava che gli automi e gli altri apparecchi
meccanici fossero in ordine, e che i numerosi bambini impiegati da Aph-Lin, nelle sue attività private e pubbliche,
fossero scrupolosamente curati. Bra esaminava anche la
contabilità patrimoniale, e provava grande gioia nell’aiu49
Altra Lettura
tare il marito a svolgere le mansioni di amministratore del
Dipartimento dell’Illuminazione; perciò i suoi impegni la
trattenevano quasi sempre in casa.
I due figli stavano completando gli studi al Collegio dei
Saggi, ed il maggiore, che aveva una grande passione per
la meccanica, soprattutto per gli automi ed i cronometri,
aveva deciso di dedicarsi a questa attività; ora stava provvedendo alla costruzione di un negozio, o di un magazzino, destinato alla vendita delle sue invenzioni. Il figlio
minore preferiva l’agricoltura e le attività rurali, e quando
non frequentava il Collegio, dove studiava soprattutto le
teorie agrarie, era molto impegnato nel mettere in pratica tale scienza nelle terre appartenenti al padre. Si può
vedere come presso quel popolo vi è una completa eguaglianza sociale: un negoziante gode della stessa stima di
un ricco proprietario terriero. Aph-Lin era il membro più
facoltoso della comunità, eppure il suo primogenito preferiva aprire un negozio; e questa scelta non era giudicata disdicevole da nessuno.
Il giovane aveva esaminato con grande interesse il mio
orologio, il cui meccanismo era per lui una novità e si
era dimostrato felicissimo quando glielo avevo regalato.
Poco dopo, però, ricambiò il dono con gli interessi, offrendomi un orologio fatto da lui, che segnava sia il tempo del mondo esterno che quello dei Vril-ya. Ho ancora
quell’orologio, che è stato molto ammirato dai migliori
specialisti di Londra e di Parigi. È d’oro, con le lancette e
le ore di diamanti, e suona le ore con accompagnamento di una melodia molto in voga tra i Vril-ya; è sufficiente
caricarlo una volta ogni dieci mesi, e non si è mai guastato da quando lo possiedo. Poiché i due giovani fratelli
erano occupati in queste attività, i miei compagni abituali, quando uscivo, erano il mio ospite o sua figlia. Ora,
in armonia con le onorevoli conclusioni cui ero giunto,
cominciai a trovare pretesti per non uscire solo con Zee,
e approfittai dell’occasione in cui lei teneva una lezione
al Collegio dei Saggi per pregare Aph-Lin di farmi visitare
la sua residenza di campagna. Poiché si trovava piuttosto
lontana e Aph-Lin non amava camminare, mentre io avevo rinunciato ad ogni tentativo di volare, partimmo a bordo di una delle barche aeree di proprietà del mio ospite.
Il conducente era un bambino di otto anni che lavorava
alle sue dipendenze. Il mio ospite ed io prendemmo posto sui cuscini; il movimento del veicolo mi parve molto
agevole e comodo.
“Aph-Lin”, dissi, “spero che tu non sarai irritato con me, se
ti chiedo il permesso di viaggiare per qualche tempo, e
di visitare altre tribù e comunità della tua razza illustre.
Vorrei inoltre vedere quelle nazioni che non adottano le
vostre istituzioni e che voi considerate selvagge. M’interesserebbe moltissimo notare quali differenze esistono
fra loro e le razze considerate civili nel mondo da cui provengo.”
“E’ assolutamente impossibile che ti rechi là solo”, rispose
Aph-Lin. “Anche tra i Vril-ya saresti esposto a grandi pericoli. Certe caratteristiche di struttura e di colorito, e lo
straordinario fenomeno della pelosità irsuta che ti cresce
sulle guance e sul mento, indicandoti come una specie
di An diverso dalla nostra razza da quelle barbare ancora
esistenti, susciterebbe certo l’attenzione del Collegio dei
Saggi in tutte le comunità Vril-ya che potresti visitare; e dipenderebbe dal temperamento di qualche saggio che tu
venissi accolto con spirito ospitale, come è avvenuto qui,
o finissi sezionato per scopi scientifici. Sappi che quando
il Tur ti condusse nella sua casa, subito dopo il tuo arrivo, e Taë ti fece addormentare perché ti riprendessi dalla stanchezza e dal dolore, i saggi convocati dal Tur non
erano d’accordo sul tuo conto: alcuni ti consideravano un
animale innocuo, altri nocivo. Mentre eri inconscio, venne esaminata la tua dentatura, e risultò che eri non solo
granivoro, ma anche carnivoro. Gli animali carnivori delle tue dimensioni vengono sempre uccisi, poiché hanno
indole pericolosa e feroce. I nostri denti, come hai senza
dubbio osservato, non sono simili a quelli degli esseri che
si nutrono di carne. Zee ed altri filosofi sostengono, per
la verità, che in tempi antichi gli Ana si nutrivano di carne, e dovevano avere dentature adatte allo scopo. In ogni
caso, si sono modificate nella trasmissione ereditaria,
adeguandosi al cibo di cui ora ci alimentiamo; e neppure
i barbari, che ancora adottano le istituzioni turbolente e
feroci del Glek-Nas, divorano la carne come belve.
“Nel corso della discussione, fu proposto di sezionarti, ma
Taë intercedette per te, e poiché il Tur, per dovere d’ufficio, è contrario a tutti gli esperimenti che contrastino con
la nostra consuetudine di risparmiare la vita quando non
sia chiaramente provato che è necessario toglierla per il
bene della comunità, mandò a chiamare me che, essendo l’uomo più ricco dello Stato, ho il compito di offrire
ospitalità agli stranieri venuti a lontano. Spettava a me
decidere se eri uno straniero che si poteva accogliere
senza pericolo. Se avessi rifiutato di accoglierti, saresti
stato consegnato al Collegio dei Saggi, e preferisco non
pensare a quale sarebbe potuta essere la tua sorte.
“A parte i pericoli, potresti incontrare qualche bambino di
quattro anni che ha appena ricevuto lo Scettro Vril e che,
allarmato dal tuo strano aspetto, nell’impulso del momento, potrebbe ridurti in cenere. Lo stesso Taë stava per
farlo, la prima volta che ti ha visto, se suo padre non gli
avesse fermato la mano. Perciò ti dico che non puoi viaggiare solo: ma con Zee saresti al sicuro, e sono certo che
ti accompagnerebbe volentieri a fare il giro delle vicine
comunità dei Vril-ya... degli Stati selvaggi, assolutamente
no. Glielo domanderò.”
Poiché il mio scopo principale, nel proporre quel viaggio,
era sfuggire Zee, mi affrettai ad esclamare: “No, ti prego,
no. Rinuncio al mio progetto. Hai parlato abbastanza dei
50
“La razza ventura”
pericoli per dissuadermi; e non ritengo giusto che una
giovane Gy, affascinante come tua figlia, debba viaggiare
in altre regioni senz’altro difensore che un Tish di forza e
statura insignificanti.”
Aph-Lin emise il sommesso suono sibilante che è quanto di più simile ad una risata si permetta un An adulto,
poi rispose: “Perdona la mia ilarità per la tua osservazione
che senza dubbio era intesa seriamente. Mi diverte assai
l’idea di Zee, che ama proteggere gli altri al punto di venire chiamata ‘LA CUSTODE’ dai bambini, bisognosa di un
difensore contro i pericoli causati dall’audace ammirazione dei maschi. Sappi che le Gy-ei, prima di sposarsi, sono
abituate a viaggiare sole fra le altre tribù, per vedere se
trovano un An che piaccia loro più di quelli conosciuti in
patria. Zee ha già fatto tre di questi viaggi, ma finora il suo
cuore è rimasto libero.” Mi si offriva così l’occasione che
cercavo e, abbassando gli occhi, dissi con voce esitante.
“Mio buon ospite, prometti di perdonarmi se quanto sto
per dirti ti offenderà?”.
“Basta che tu dica la verità, e non mi offenderò; se mi offendessi, toccherebbe a te perdonarmi.”
“Bene, dunque, aiutami ad andarmene: per quanto mi
sarebbe piaciuto vedere ancora le vostre meraviglie e godere della felicità del vostro popolo, lascia che ritorni al
mio.”
“Purtroppo non posso farlo; o comunque, non senza il
permesso del Tur, che probabilmente non lo concederà. Tu non sei privo d’intelligenza; e forse, anche se non
lo credo, hai tenuto nascosti i poteri distruttivi del tuo
popolo, tanto che potresti ben presto attirare su di noi
qualche pericolo; e se il Tur la pensasse così, sarebbe suo
dovere ucciderti, o rinchiuderti in una gabbia per il resto
della tua esistenza. Ma perché desideri abbandonare una
società che, come tu stesso riconosci, è più felice della
tua?”.
“Oh, Aph-Lin! La mia risposta è semplice: perché non voglio, involontariamente, tradire la tua ospitalità; perché, a
causa del capriccio che nel nostro mondo è proverbiale
nel gentil sesso, e da cui neppure le Gy-ei sono esenti, la
tua adorabile figlia potrebbe degnarsi di guardarmi come
se fossi un An civile, benché io sia solo un Tish, e... e... e...”.
“E corteggiarti per fare di te il suo sposo”, concluse gravemente Aph-Lin, senza dar segno di sorpresa o d’irritazione.
“L’hai detto tu.”
“Sarebbe una sfortuna”, riprese il mio ospite, dopo una
pausa, “e ritengo che tu abbia agito giustamente avvertendomi. Come hai accennato, non è raro che una Gy
nubile abbia gusti che ad altri appaiono capricciosi; ma
non c’è nulla che possa indurre una giovane Gy ad un
comportamento contrario a quello da lei prescelto. Possiamo soltanto cercare di ragionare con lei, e l’esperienza
c’insegna che l’intero Collegio dei Saggi contenderebbe
invano con una Gy nelle questioni relative alla sua scelta in amore. Mi addoloro per te, poiché tale matrimonio
sarebbe contrario all’Aglauran, il bene della comunità,
dato che i figli di tale connubio inquinerebbero la razza, e potrebbero addirittura venire al mondo con denti
da animali carnivori, e questo non è ammissibile. Zee, in
quanto Gy, non può essere controllata; ma tu, che sei un
Tish, puoi venire distrutto.
“Ti consiglio quindi di resistere alle sue insistenze; di dirle chiaramente che non puoi ricambiare il suo amore.
Sono cose che avvengono di continuo. Molti Ana, sebbene corteggiati ardentemente da una Gy, la respingono
e pongono fine alle sue insistenze sposando un’altra. Tu
puoi fare la stessa cosa.”
“No, poiché non posso sposare un’altra Gy senza danneggiare egualmente la comunità ed esporla al rischio di
ritrovarsi con figli carnivori.”
“È vero. Tutto ciò che posso dire, e lo dico con la tenerezza dovuta a un Tish, ed il rispetto dovuto a un ospite,
francamente è questo: se cedi, finirai incenerito. Debbo
lasciare a te la scelta del modo di difenderti. Forse avresti
fatto meglio a dire a Zee che è brutta. Di solito questa
affermazione, sulle labbra di colui che corteggia, basta
ad agghiacciare anche la Gy più ardente. Ma ecco, siamo
arrivati alla mia casa di campagna.”
***
Confesso che la mia conversazione con Aph-Lin e l’estrema calma con cui si era dichiarato incapace di controllare
il pericoloso capriccio della figlia ed aveva prospettato
l’idea che la mia persona troppo seducente finisse ridotta in cenere a causa della fiamma amorosa di lei, mi tolsero il piacere che altrimenti avrei provato nell’ammirare la
residenza di campagna del mio ospite e la sorprendente
perfezione dei macchinari che provvedevano alle attività
agricole.
La casa aveva un aspetto diverso dall’edificio massiccio e
un po’ cupo che Aph-Lin abitava in città, e che sembrava
simile alle rocce da cui era stata ricavata la città. Le pareti della residenza di campagna erano formate da alberi
situati a pochi metri l’uno dall’altro: gli interstizi erano
riempiti dalla sostanza metallica trasparente che presso
gli Ana sostituisce il vetro. Gli alberi erano tutti in fiore,
e l’effetto era molto piacevole, anche se non d’ottimo
gusto. Fummo accolti sulla veranda dagli automi, i quali
ci condussero in una stanza quale non avevo mai visto,
ma che avevo talora immaginato sognando nei giorni
d’estate. Era un pergolato, per metà stanza e per metà
giardino. Le pareti erano una massa di fiori rampicanti.
Gli spazi che noi chiamiamo finestre erano aperti, poiché
le lastre metalliche erano state fatte rientrare. Mostravano vari paesaggi: alcuni rivelavano parte dell’ampio pa51
Altra Lettura
norama con i laghi e le rocce, altri piccoli tratti limitati,
simili ai nostri vivai, pieni di filari di piante in fiore. Lungo i
lati della camera c’erano aiuole inframmezzate da cuscini.
Al centro c’era una cisterna ed una fontana di quel liquido
che presumo fosse nafta. Era luminoso ed aveva un colore rosato, e da solo bastava a rischiarare la stanza con un
tenue bagliore, senza bisogno di lampade. La fontana era
cinta da un soffice tappeto di licheni, non verdi (non ho
mai veduto questo colore nelle vegetazione del mondo
sotterraneo), ma di un marrone riposante su cui l’occhio
si posava con lo stesso senso di sollievo che dà, nel mondo esterno, la contemplazione del verde. Negli incavi che
si aprivano sui vivai fioriti c’erano innumerevoli uccelli
canori che, durante la nostra permanenza nella stanza,
cantarono quelle melodie per cui vengono meravigliosamente addestrati. Il tetto era aperto.
L’intera scena era incantevole per tutti i sensi: la musica
degli uccelli, la fragranza dei fiori, e la bellezza in ogni
suo aspetto. C’era un’atmosfera di serenità voluttuosa.
Che posto ideale, pensai, per una luna di miele, se una
Gy fosse stata un po’ meno terribilmente armata non solo
dei diritti femminili, ma anche dei poteri dell’uomo! Ma
quando si pensa ad una Gy, così colta, alta, maestosa, così
superiore alla media delle donne com’era Zee... no, anche
se non avessi temuto di venir ridotto in cenere, non avrei
sognato lei in quel pergolato creato appositamente per i
sogni dell’amore poetico.
Gli automi ricomparvero, servendoci una di quelle bevande deliziose che presso i Vril-ya sostituiscono il vino.
“In verità”, dissi, “è una residenza deliziosa, e non capisco
perché tu non ti stabilisca qui, invece che nelle dimore
più tetre della città.”
“Nella mia qualità di responsabile dell’amministrazione
della luce per la mia comunità, sono obbligato a risiedere
soprattutto in città, e posso venire qui soltanto per brevi
periodi.”
“Ma poiché tu stesso mi hai detto che al tuo incarico non
spettano onori, mentre comporta qualche preoccupazione, per quale motivo l’accetti?”.
“Ognuno di noi obbedisce senza discutere al comando
del Tur; egli ha detto: ‘Si richiede che Aph-Lin sia Commissario della Luce’, perciò non ho avuto scelta. Ma poiché ormai ho coperto questa carica per molto tempo, le
preoccupazioni, che all’inizio non mi erano gradite, sono
divenute, se non piacevoli, almeno sopportabili. Tutti
noi siamo condizionati dalla consuetudine... anche la diversità tra la nostra razza ed i selvaggi non è altro che la
continuità ereditaria delle consuetudini che finisce per
entrare a far parte della nostra natura. Vi sono Ana che si
riconciliano persino con le responsabilità della magistratura suprema; ma nessuno lo farebbe se i suoi doveri non
fossero stati resi tanto lievi, o se le sue richieste venissero
poste in discussione.”
“Neppure se giudicaste tali richieste inopportune od ingiuste?”.
“Non ci permettiamo di pensarla così, e per la verità ogni
cosa procede come se tutti si governassero secondo una
consuetudine antichissima.”
“Quando il magistrato supremo muore o si ritira, in che
modo gli trovate un successore?”
“L’An che ha assolto per molti anni i doveri di magistrato
supremo è la persona più indicata per scegliere qualcuno
che possa comprendere i suoi compiti, ed è generalmente lui a nominare il successore.”
“Magari suo figlio?”.
“Molto di rado; infatti non è una carica desiderata e ricercata, e naturalmente un padre esita a costringere il figlio.
Ma se il Tur rifiuta di compiere la scelta, per timore che si
pensi ad un suo motivo di rancore nei confronti del prescelto, allora tre membri del Collegio dei Saggi tirano a
sorte fra di loro per stabilire chi avrà il potere di eleggere
il sommo magistrato. Noi riteniamo che il giudizio di un
normale An sia migliore di quello di tre o più, per quanto
possano essere saggi; perché fra tre persone potrebbero insorgere dispute, e quando vi sono dissidi le passioni
obnubilano il giudizio. La scelta peggiore, compiuta da
colui che non ha motivi di scegliere male, è meglio della
scelta migliore effettuata da molti che hanno motivi per
non scegliere bene.”
“Nella politica, voi sovvertite le massime adottate nel mio
Paese.”
“E nel tuo Paese, siete tutti soddisfatti di coloro che vi governano?”.
“Tutti? Certamente no; i governanti che piacciono di più
ad alcuni piacciono pochissimo ad altri.”
“Allora il nostro sistema è migliore del vostro.”
“Per voi può essere così; ma secondo il nostro sistema,
un Tish non verrebbe incenerito se una donna lo costringesse a sposarla: e, come Tish, aspiro a ritornare al mio
mondo.”
“Fatti coraggio, mio caro, piccolo ospite. Zee non può costringerti a sposarla. Può solo indurti a farlo. Non lasciarti
tentare. Ora vieni a vedere la mia tenuta.”
Uscimmo in un recinto fiancheggiato da capanni: infatti,
sebbene gli Ana non tengano bestiame da macello, allevano certi animali per mungerne il latte e per tosarne
il vello. I primi non somigliano alle nostre mucche, ed i
secondi sono diversi dalle nostre pecore; non credo neppure che tali specie esistano nel mondo sotterraneo. I
Vril-ya usano il latte di tre varietà di animali: uno somiglia
all’antilope, ma è molto più grande, essendo alto come
un cammello; gli altri due sono più piccoli e, sebbene siano piuttosto diversi fra loro, non assomigliano a nessuna
creatura che io abbia veduto sulla superficie. Sono assai
snelli e torniti; hanno il colore dei daini, musi molto miti
e bellissimi occhi scuri. Il latte di questi tre animali è di52
“La razza ventura”
verso per ricchezza e sapore. Di solito viene diluito con
acqua, e insaporito con il succo di un frutto profumato:
è molto nutriente e gradevole. L’animale la cui lana viene
usata per gli abiti e molte altre cose, somiglia abbastanza
alla capra italiana, ma è parecchio più grande; non ha le
corna, né lo sgradevole odore delle nostre capre. Il vello
non è fitto, ma lunghissimo e fine; ha vari colori, ma non
è mai bianco, di solito ha toni ardesia o lavanda. Per gli
indumenti viene tinto nei colori più adatti ai gusti di chi li
porta. Questi animali erano molto domestici e venivano
trattati con straordinaria premura ed affetto dai bambini
(quasi tutte femmine) che li curavano.
Visitammo poi immensi magazzini pieni di cereali e frutta. Posso osservare che il nutrimento principale di questo
popolo consiste innanzi tutto d’una sorta di grano assai
più grande del nostro, e che mediante la coltivazione
viene continuamente portato a nuove varietà di sapori;
ed in secondo luogo di un frutto grosso all’incirca quanto un piccolo arancio che, al momento della raccolta, è
duro ed amaro. Viene poi conservato per molti mesi nei
magazzini e diventa saporito e tenero. Il succo, di colore
rossocupo, entra nella composizione di quasi tutte le salse. Vi sono molte varietà di frutti simili alle olive, da cui si
estraggono olii deliziosi. C’è una pianta che somiglia un
po’ alla canna da zucchero, ma ha un succo meno dolce e dal profumo delicato. Non vi sono api né altri insetti
che producono miele, ma i Vril-ya fanno molto uso di una
gomma dolce che scaturisce da una conifera non diversa
dall’araucaria. Il suolo offre anche radici succulente e verdure, che le colture cercano di variare e migliorare al massimo. Non ricordo un solo pasto, tra questa gente, anche
se limitato ai membri della famiglia, in cui non venisse
introdotta qualche delicata novità in fatto di cibo. Come
ho già osservato, la cucina è squisita, e così diversificata
e nutriente che non si sente la mancanza di cibi animali,
e la prestanza fisica dei Vril-ya basta a dimostrare che, almeno nel loro caso, la carne non è necessaria per favorire
la muscolatura. Non esiste l’uva: le bevande estratte dai
frutti sono analcoliche e rinfrescanti. Quella più comune,
comunque, è l’acqua; nella scelta sono molto schizzinosi,
e sanno distinguere subito la minima impurità.
“Il mio secondo figlio trova grande piacere nell’aumentare la nostra produzione”, disse Aph-Lin mentre visitavamo
i magazzini. “Perciò erediterà queste terre, che costituiscono la parte più cospicua della mia ricchezza. Per il primogenito tale eredità causerebbe fastidio ed afflizione.”
“Tra voi vi sono molti figli convinti che ereditare una grande ricchezza sia un’afflizione?”.
“Certamente; molti dei Vril-ya ritengono che un patrimonio superiore alla media sia un pesante fardello. Dopo
l’infanzia, noi siamo piuttosto pigri, e non amiamo addossarci più preoccupazioni del necessario, ed una grande
ricchezza ne dà molte. Per esempio, ci rende eligibili per
le cariche pubbliche, che nessuno ama e che nessuno può
rifiutare. Questo ci obbliga a interessarci continuamente
degli affari dei compatrioti più poveri, per prevedere le
loro esigenze ed evitare che cadano in miseria. Abbiamo
un vecchio proverbio che dice: ‘Il bisogno del povero è la
vergogna del ricco...’ “.
“Perdonami se t’interrompo per un momento. Dunque,
ammetti che persino tra i Vril-ya alcuni conoscono il bisogno e necessitano di aiuto?”.
“Se per bisogno intendi la miseria prevalente in un Koom-Posh, tra noi non è possibile, a meno che un An, con
dissennata prodigalità, abbia perduto tutti i suoi mezzi,
non voglia o non possa emigrare, e abbia esaurito l’aiuto affettuoso dei parenti e degli amici, oppure rifiuti di
accettarlo.”
“Ebbene, allora, perché non prende il posto di un bambino o di un automa, e non diventa un operaio... un servitore?”.
“No. Noi lo consideriamo uno sventurato dalla ragione
menomata e, a spese dello Stato, lo alloggiamo in un edificio pubblico, dove gode delle comodità e del lusso che
possono mitigare la sua afflizione. Ma un An non ama essere considerato privo di ragione, e perciò tali casi sono
così infrequenti che l’edificio pubblico di cui ti ho parlato
è oggi un rudere abbandonato; l’ultimo ospite fu un An
che ricordo di aver visto nella mia infanzia. Sembrava non
si fosse reso conto di aver perduto la ragione, e scriveva
glaubs, poesia. Quando ho parlato di bisogni, mi riferivo ai
desideri che talvolta un An può nutrire al di sopra dei suoi
mezzi: uccelli canori costosi, o case più grandi, o giardini
in campagna; e il modo più ovvio per soddisfarli consiste
nel comprare da lui qualcosa che egli vende. Perciò gli
Ana molto ricchi, come me, sono obbligati ad acquistare
molte cose di cui non hanno bisogno, e vivono su scala
grandiosa, anche se ne preferirebbero una più modesta.
Per esempio, la grandezza della mia casa di città è fonte di
grandi fastidi per mia moglie, e persino per me; ma sono
costretto a tenere una residenza così grande e scomoda
perché, essendo l’An più ricco della comunità, ho il compito di ospitare gli stranieri che ci fanno visita, e che vengono in gran folla due volte l’anno, quando vi sono certi
festeggiamenti periodici, e tutti i parenti sparsi nei vari
domini dei Vril-ya si riuniscono lietamente per qualche
tempo. L’ospitalità su scala tanto ampia non è di mio gusto, perciò sarei stato più felice se fossi stato meno ricco.
Ma tutti noi dobbiamo accettare la sorte assegnataci in
questo breve transito nel tempo che chiamiamo vita. Dopotutto, cosa sono cento anni, più o meno, in confronto
alle epoche che dovremo vivere dopo? Fortunatamente,
ho solo un figlio che ama la ricchezza. Rappresenta una
rara eccezione alla regola generale, ed ammetto di non
capirlo...”.
Dopo questa conversazione cercai di tornare sull’argo53
Altra Lettura
mento che continuava a pesarmi sul cuore, cioè la possibilità di sottrarmi a Zee. Ma il mio ospite rifiutò educatamente di riprendere la discussione e chiamò la barca
aerea. Durante il viaggio di ritorno ci venne incontro Zee,
che, uscita dal Collegio dei Saggi e scoperta la nostra partenza, aveva spiegato le ali per venirci a cercare.
Il suo volto maestoso, ma per me non affascinante, s’illuminò nel vedermi e, accostandosi alla barca ad ali spiegate, disse in tono di rimprovero ad Aph-Lin: “Oh, padre, ti
è parso giusto rischiare la vita del tuo ospite, facendolo
salire su un veicolo cui non è abituato? In seguito ad un
movimento incauto, potrebbe precipitare: e ahimé, diversamente da noi, non ha le ali. Se precipitasse, morirebbe.
Caro”, aggiunse, rivolgendosi a me con voce più dolce,
“non hai pensato a me, rischiando una vita divenuta quasi parte della mia? Non essere mai più così avventato, a
meno che io ti accompagni. Come mi hai spaventata!”.
Sbirciai furtivamente Aph-Lin, aspettandomi che almeno
rimproverasse indignato la figlia per quelle espressioni
d’ansia e d’affetto che, in ogni circostanza, nel mondo
esterno sarebbero state considerate sconvenienti sulle
labbra d’una giovane donna se rivolte ad uomo che non
fosse il fidanzato, anche se appartenente dello stesso
rango.
Ma nel mondo sotterraneo i diritti femminili sono così
ben saldi (soprattutto il privilegio del corteggiamento),
che Aph-Lin non avrebbe pensato di rimproverare la figlia più di quanto potesse pensare di disobbedire al Tur.
In quel territorio, come aveva detto egli stesso, la consuetudine è tutto.
Aph-Lin rispose in tono mite: “Zee, il Tish non ha corso
alcun pericolo, e sono convinto che sappia benissimo badare a se stesso.”
“Preferirei che lasciasse a me il compito di badare a lui.
Oh, cuore del mio cuore, pensando al tuo pericolo ho
compreso per la prima volta quanto ti amo!”.
Nessun uomo si era mai sentito, credo, in una posizione
altrettanto falsa. Quelle parole erano state pronunciate a
voce alta, in modo che potesse udirle il padre di Zee ed
un bambino che passava di lì in volo. Arrossii di vergogna
per loro e per lei, e non seppi trattenermi dal rispondere indispettito: “Zee, o ti fai beffe di me, e questo non ti
si addice poiché sono ospite di tuo padre, oppure le parole che hai pronunciato non sono tali che una giovane
Gy possa rivolgere ad un An, anche di sua scelta, se egli
non l’ha corteggiata con il consenso dei genitori di lei.
Ed è tanto più disdicevole rivolgerle a un Tish che non ha
mai presunto di sollecitare il tuo affetto, e non potrà mai
guardarti con altri sentimenti che reverenza e timore!”.
Aph-Lin mi fece nascostamente un cenno d’approvazione, ma non disse nulla.
“Non essere così crudele!”, esclamò Zee, sempre con voce
sonante. “Come può dominarsi un amore sincero? Credi
che una giovane Gy nasconda un sentimento che l’esalta? Da che razza di Paese sei venuto?”.
A questo punto Aph-Lin s’intromise gentilmente: “Fra i
Tish-a i diritti del tuo sesso non sembrano riconosciuti,
ed in ogni caso il mio ospite potrà conversare più liberamente con te se non sarà frenato dalla presenza di altri.”
Zee non rispose ma, lanciandomi un’occhiata di affettuoso rimprovero, agitò le ali e volò verso casa.
“Avevo fatto conto su qualche aiuto da parte del mio
ospite”, dissi amaramente, “nei pericoli cui mi espone sua
figlia.”
“Ti ho dato tutto l’aiuto che potevo. Contraddire una Gy
nei suoi affari di cuore significa rafforzare i suoi propositi:
non ammette che un consiglio si frapponga tra lei ed il
suo affetto.”
***
Quando scendemmo dalla barca aerea, un bambino si
avvicinò ad Aph-Lin, nell’atrio, riferendogli che era stato
pregato di presenziare alle esequie di un parente morto
di recente.
Io non avevo mai visto cimiteri o sepolcreti in quel luogo
e, lieto di un’occasione sia pure malinconica per procrastinare l’incontro con Zee, chiesi ad Aph-Lin se potevo assistere con lui alla sepoltura del suo parente; a meno che,
naturalmente, fosse considerata una di quelle cerimonie
sacre cui non sono ammessi gli stranieri.
“La dipartita di un An per un mondo più felice,” rispose il
mio ospite, “quando, come nel caso del mio parente, ha
vissuto così a lungo in questo da perderne il piacere, è
piuttosto una festa lieta e tranquilla che non una cerimonia sacra: perciò puoi accompagnarmi, se lo desideri.”
Preceduti dal bambino messaggero, ci avviammo per la
via principale e raggiungemmo una casa poco lontana.
Fummo condotti in una stanza al piano terreno, dove trovammo parecchie persone radunate intorno al giaciglio
su cui stava il defunto. Era un vecchio che, mi dissero, aveva superato i centotrent’anni. A giudicare dal sorriso sereno, si era spento senza soffrire. Uno dei figli, che adesso
era diventato il capo della famiglia e sembrava nella più
vigorosa maturità sebbene avesse passato la settantina,
si fece avanti con volto lieto e disse ad Aph-Lin che, il
giorno prima di morire, suo padre aveva visto in sogno
la sua defunta Gy, ed era ansioso di ricongiungersi con
lei, restituito alla giovinezza sotto il sorriso della Bontà
Suprema.
Mentre i due parlavano, la mia attenzione fu colpita da
uno scuro oggetto metallico in fondo alla stanza. Era lungo circa tre metri, largo in proporzione, e tutto chiuso: ma
sul lato superiore c’erano piccoli fori rotondi da cui filtrava
una luce rossa. Dall’interno emanava un profumo intenso e dolce; e mentre mi chiedevo a quale scopo poteva
54
“La razza ventura”
servire la macchina, tutti gli orologi della città suonarono
i loro melodiosi rintocchi musicali; e quando quel suono
cessò, una musica più gioiosa, ma di una gioia sommessa
e tranquilla, echeggiò nella camera in uno squillo corale.
In sintonia con quella melodia, tutti i presenti levarono
la voce in un canto. Le parole dell’inno erano semplici.
Non esprimevano dolore né un addio, ma piuttosto un
saluto al nuovo mondo in cui il defunto aveva preceduto
i viventi. Nella lingua dei Vril-ya, in effetti, l’inno funebre
viene chiamato Canto natale. Poi il cadavere, coperto da
un lungo sudario, venne sollevato premurosamente da
sei parenti stretti e portato verso l’oggetto scuro che ho
già descritto. Mi feci avanti per vedere cosa sarebbe accaduto. Venne sollevato un pannello scorrevole ad una
estremità, il corpo fu deposto all’interno, su di un ripiano;
lo sportello si chiuse, venne premuto un pulsante laterale
e dall’interno uscì un fruscio improvviso. Ed ecco, lo sportello all’estremità opposta della macchina si abbassò, ed
una manciata di polvere fumante cadde in una patera
pronta ad accoglierla. Il figlio prese la patera e disse, secondo quella che (come appresi più tardi) era la formula
consueta: “Vedete quant’è grande il Creatore: a questa
polvere Egli aveva dato forma, vita ed anima. Egli non ha
bisogno di questa poca polvere per rendere forma e vita
ed anima al nostro caro che presto rivedremo.”
Tutti i presenti chinarono il capo, premendosi una mano
sul cuore. Poi una bambina aprì uno sportello della parete, ed io vidi in quel vano, i ripiani su cui erano posate
numerose patere simili a quella retta dal figlio del morto:
quelle, tuttavia, erano coperte. Una Gy si avvicinò al figlio
portando un coperchio, e lo posò sulla coppa, facendo
scattare una molla. Sul coperchio erano incisi il nome del
defunto e queste parole: “A noi prestato” (seguiva la data
di nascita) e “Ritolto a noi” (seguiva la data della morte).
Lo sportello si chiuse con un suono musicale, e tutto finì.
vostra consuetudine è orribile e ripugnante, e serve ad
associare la morte a pensieri lugubri ed atroci. Inoltre, a
mio parere, è importante conservare il ricordo del nostro
parente od amico nella casa in cui viviamo. Così sentiamo
meglio che egli vive ancora, sebbene non sia più visibile
per noi. Ma in questo i nostri sentimenti, come in tutto il
resto, sono dettati dalla consuetudine. Un saggio An non
cambia le consuetudini come non le cambia una saggia
Comunità, senza la più solenne deliberazione seguita
dalla convinzione più ardente. Solo così il cambiamento
cessa di essere volubilità, e una volta compiuto rimane
per sempre.”
Quando tornammo a casa, Aph-Lin convocò alcuni dei
bambini al suo servizio e li mandò da vari suoi amici, invitandoli per le Ore Tranquille ad una festa in onore del ritorno del suo parente alla Bontà Suprema. Fu la riunione
più affollata e gaia cui ebbi modo di assistere durante il
mio soggiorno tra gli Ana, e durò fino alle Ore Silenziose.
Il banchetto era stato apparecchiato in una grande sala
riservata alle solennità. Era diverso dai nostri, e ricordava
piuttosto i banchetti dell’epoca più sontuosa dell’Impero
Romano. Non c’era una sola grande tavola, ma numerosi tavolini, ognuno dei quali era apparecchiato per otto
ospiti. Si ritiene infatti che, se si supera questo numero, la
conversazione languisce e l’amicizia si raffredda. Gli Ana
non ridono mai forte, come ho già osservato, ma il suono
lieto delle voci intorno alle varie tavole attestava gaiezza. Poiché i Vril-ya non hanno bevande stimolanti, e sono
molto temperati nei cibi pur scelti e squisiti, il banchetto
non durò a lungo. Le tavole sprofondarono nel pavimento, e cominciarono i trattenimenti musicali per coloro che
li gradivano. Molti, tuttavia, si allontanarono; alcuni dei
giovani presero il volo, poiché la sala non aveva tetto, e
improvvisarono danze aeree; altri passeggiarono per i diversi appartamenti, esaminando gli oggetti curiosi che vi
erano raccolti, o si riunirono in gruppi per dedicarsi a vari
giochi: il prediletto è una complicata sorta di scacchi, cui
partecipano otto persone.
Mi mescolai alla folla, ma la costante compagnia dell’uno
o dell’altro dei figli del mio ospite m’impedì di partecipare alle conversazioni: i due giovani avevano ricevuto dal
padre l’incarico di tenermi lontano dalle domande indiscrete. Gli ospiti, peraltro, mi notarono appena; si erano
abituati al mio aspetto, poiché mi vedevano spesso per la
strada, e non suscitavo più la loro curiosità.
Con mia grande gioia, Zee mi evitava, e cercava di suscitare la mia gelosia dimostrando una spiccata attenzione
per un An giovane e bellissimo che (sebbene rispondesse
ad occhi bassi ed arrossendo, secondo il moderno costume dei maschi avvicinati dalle femmine, e fosse timido e
pudico come le giovanette lo sono in quasi tutto il mondo
civile, eccettuate l’Inghilterra e l’America) era chiaramente
affascinato dalla Gy, e pronto a balbettare un modesto “sì”
***
Questa,” dissi io, con la mente piena di ciò che avevo visto, “questa, presumo, è la vostra forma consueta di esequie?”.
“E’ la nostra forma invariabile,” rispose Aph-Lin. “Presso il
tuo popolo, qual è?”.
“Seppelliamo il corpo nella terra.”
“Come! Degradare la forma che avete amato ed onorato,
la moglie sul cui seno avete dormito, abbandonandola
all’orrore della putrefazione?”.
“Ma se l’anima continua a vivere, che importa se il corpo
si consuma nella terra o viene ridotto ad un pizzico di polvere da quel terribile meccanismo, senza dubbio alimentato dall’energia del vril?”.
“La tua risposta è giusta,” disse il mio ospite, “ed è inutile
discutere nelle questioni del sentimento; ma per me la
55
Altra Lettura
se lei gli avesse proposto di sposarla. Augurandomi fervidamente che lei lo facesse, e sempre più avverso all’idea
di finire in cenere dopo aver visto con quanta rapidità un
corpo umano poteva venire trasformato in un pizzico di
polvere, mi divertii ad osservare il comportamento degli
altri giovani.
Ebbi la soddisfazione di vedere che Zee non era la sola
assertrice dei più apprezzati diritti femminili. Ovunque volgessi gli occhi e gli orecchi, mi pareva che fosse
la Gy a corteggiare, mentre l’An era sempre timido e riluttante. Le graziose arie d’innocenza che un An si dava
nel venire così corteggiato, e la destrezza con cui evitava
di rispondere direttamente a dichiarazioni d’affetto, o
volgeva in scherzo i complimenti lusinghieri a lui rivolti,
avrebbero fatto onore alla civetta più raffinata. I miei due
accompagnatori erano spesso oggetto di tali seducenti
attenzioni, ed entrambi si destreggiavano con tatto ed
autocontrollo ammirevoli.
Dissi al figlio maggiore, che preferiva le attività meccaniche alla direzione d’una grande proprietà terriera e che
aveva un temperamento eminentemente filosofico: “Trovo difficile capire come alla tua età, sotto gli inebrianti
effetti della musica, delle luci e dei profumi, tu possa mostrarti così freddo con quella Gy appassionata che ti ha
appena lasciato, con gli occhi pieni di lacrime per la tua
crudeltà.”
Il giovane An rispose con un sospiro: “Mio caro Tish, la più
grande sfortuna nella vita è sposare una Gy quando sei
innamorato di un’altra.”
“Oh! Sei innamorato di un’altra?”.
“Ahimé, sì.”
“E lei non ricambia il tuo amore?”.
“Non so. Talvolta uno sguardo, una parola me lo fanno
sperare; ma non mi ha mai detto apertamente di amarmi.” “Non le hai sussurrato all’orecchio che tu l’ami?”.
“Oh, no! Cosa credi? Da che mondo provieni? Come potrei tradire la dignità del mio sesso? Come potrei essere
così poco mascolino, così svergognato, da dichiarare il
mio amore ad una Gy prima che questa l’abbia dichiarato
a me?”.
“Perdonami: non sapevo che spingessi tanto lontano il
pudore del tuo sesso. Ma non accade mai che un An dica
ad una Gy ‘Ti amo’, prima che lei l’abbia detto a lui?”.
“Non posso affermare che nessun An l’abbia mai fatto: ma
quando ciò avviene, lui è disonorato agli occhi degli Ana,
e disprezzato segretamente dalle Gy-ei. Nessuna Gy ben
educata gli darebbe ascolto; penserebbe che ha violato
temerariamente i diritti del sesso più forte, oltraggiando
il pudore che si addice al suo. È un vero tormento,” continuò l’An, “perché colei che amo non corteggia nessun
altro, e non posso fare a meno di pensare che io le piaccio. Talvolta sospetto che non mi corteggi perché teme
che avanzerei pretese irragionevoli circa le rinunce ai suoi
diritti. Ma in tal caso, non può amarmi veramente, perché
quando una Gy ama rinuncia a tutti i diritti.”
“E questa giovane Gy è presente?”.
“Oh, sì. E’ seduta laggiù, e parla con mia madre.”
Guardai nella direzione indicatami e vidi una Gy vestita di
rosso vivo: presso quel popolo, ciò indica che preferisce
ancora restare nubile. Una Gy si veste di grigio, una tinta
neutra, per indicare che sta cercando uno sposo; porpora
scuro per far capire che ha già compiuto una scelta; porpora e arancione quando è fidanzata o sposata; celeste
quando è divorziata o vedova e desidera risposarsi. Naturalmente, il celeste è un colore che si vede di rado.
In una razza dove tutti sono bellissimi, è difficile trovare
qualcuno che si distingua per bellezza. La prescelta del
mio giovane amico mi sembrò possedesse un aspetto
normale; ma sul suo volto c’era un’espressione che mi
piacque più di quella delle altre Gy-ei in generale, perché
mi pareva meno ardita, meno conscia dei diritti femminili. Notai che, mentre parlava a Bra, di tanto in tanto guardava di sottecchi il mio giovane amico.
“Coraggio,” feci, “quella giovane Gy ti ama.”
“Ah, ma se non me lo dirà, a che servirà anche se mi
ama?”.
“Tua madre sa del tuo affetto?”.
“Forse sì. Non gliene ho mai parlato. Sarebbe poco virile confessare tale debolezza ad una madre. L’ho detto a
mio padre; può che darsi che lui l’abbia rivelato a sua moglie.”
“Mi permetti di lasciarti per un momento e di accostarmi
a tua madre e alla tua amata? Sono sicuro che stanno parlando di te. Non esitare. Ti prometto che non mi lascerò
interrogare fino a quando tornerò da te.”
Il giovane An si posò una mano sul cuore, mi toccò leggermente la testa, e mi lasciò andare. Inosservato, mi portai furtivamente dietro sua madre e la sua prediletta, e
ascoltai ciò che dicevano.
Stava parlando Bra: “Non ci sono dubbi; o mio figlio, che
è di età matrimoniabile, si lascerà convincere a sposare
una delle molte corteggiatrici, oppure emigrerà lontano
e non lo vedremo più. Se davvero gli vuoi bene, mia cara
Lo, dovresti dichiararti.”
“Gli voglio bene, Bra: ma non so se riuscirò davvero a conquistare il suo affetto. Ama le sue invenzioni ed i suoi orologi. Io non sono come Zee; sono così poco brillante
che non potrei occuparmi dei suoi interessi preferiti, e
allora si stancherebbe di me, allo scadere dei tre anni divorzierebbe, ed io non potrei mai sposare un altro... mai.”
“Non è necessario intendersi d’orologi per sapersi rendere necessaria alla felicità di un An, al punto che lui preferirebbe rinunciare agli orologi piuttosto che divorziare dalla sua Gy. Vedi, mia cara Lo,” continuò Bra, “proprio perché
noi siamo il sesso più forte, dominiamo l’altro, a patto che
non mostriamo mai la nostra forza. Se tu fossi superiore a
56
“La razza ventura”
mio figlio nell’inventare orologi ed automi, dovresti, una
volta diventata sua moglie, lasciargli sempre credere che
lo ritieni migliore di te in quell’arte. L’An ammette tacitamente la superiorità della Gy in tutto, fuorché nella sua
specifica vocazione. Ma se lei lo supera in questo, o non
mostra di ammirarlo per la sua competenza, non l’amerà a lungo; forse può arrivare persino a divorziare. Ma se
una Gy ama veramente, impara presto ad amare ciò che
è caro al suo An.”
A queste parole, la giovane Lo non rispose. Abbassò lo
sguardo pensosa; poi un sorriso le sfiorò le labbra. Si alzò,
in silenzio, e passò tra la folla, fermandosi accanto al giovane An che l’amava. La seguii, per discrezione mi fermai
però ad una certa distanza, e li osservai. Con mia sorpresa,
fino a quando ricordai la tattica della timidezza adottata
dagli Ana, l’innamorato parve accogliere le attenzioni di
Lo con aria indifferente. Si allontanò persino, ma lei lo seguì; e poco dopo, entrambi spiegarono le ali e sparirono
lassù, nell’aria luminosa.
In quel momento, mi si avvicinò il magistrato supremo,
che si mescolava alla folla senza divenire oggetto di manifestazioni particolari di deferenza o d’omaggio. Non
avevo veduto il dignitario dal giorno in cui ero entrato nel
mondo dei Vril-ya, e ricordando quanto mi aveva detto
Aph-Lin, circa i suoi terribili dubbi sulla sorte da destinarmi, mi sentii scosso da un brivido alla vista del suo viso
sereno.
“Ho saputo molte cose sul tuo conto, straniero, da mio
figlio Taë,” esordì il Tur, posando educatamente la mano
sulla mia testa. “Ama molto la tua compagnia, e spero che
le consuetudini del nostro popolo non ti dispiacciano.”
Mormorai una risposta incomprensibile, che voleva essere una protesta di gratitudine per le gentilezze che avevo
ricevuto dal Tur, e di ammirazione per i suoi compatrioti,
ma la visione del coltello sezionatore mi brillava davanti
all’occhio della mente e soffocava le mie parole. Una voce
più dolce disse: “L’amico di mio fratello deve essere caro
anche a me.” Alzai la testa e vidi una giovane Gy, che poteva avere sedici anni: stava accanto al magistrato e mi
guardava con estrema benevolenza. Non aveva ancora
finito di crescere, e non era più alta di me (cioè, un metro
e ottanta centimetri); grazie a quella statura modesta, mi
parve la Gy più incantevole che avessi veduto. Immagino
che l’espressione dei miei occhi rivelasse quell’impressione, perché il suo volto divenne ancora più benevolo.
“Taë mi ha detto”, proseguì lei, “che non ti sei ancora abituato alle ali. Questo mi addolora, perché mi sarebbe piaciuto volare insieme con te.”
“Ahimè,” risposi, “non posso sperare di poter mai godere
di tale felicità. Zee mi assicura che l’uso disinvolto delle ali
è un dono ereditario, e dovrebbero trascorrere intere generazioni prima che uno della mia razza potesse lanciarsi
nell’aria come un uccello”.
“Non addolorarti troppo,” rispose l’amabile principessa.
“Infatti, dopotutto, verrà un giorno in cui Zee ed io dovremo abbandonare le ali per sempre. Forse quando verrà quel giorno, saremmo liete se l’An da noi scelto fosse
anch’egli privo d’ali.”
Il Tur si era allontanato, perdendosi tra la folla. Cominciavo a sentirmi a mio agio con l’affascinante sorella di Taë,
e la sbalordii alquanto con l’ardire del mio complimento,
rispondendo che “nessun An da lei prescelto si sarebbe
mai servito delle ali per volare lontano”. È così contrario
alla consuetudine che un An dica cose del genere ad una
Gy se questa non gli ha dichiarato il suo amore e non
è stata accettata come fidanzata, che la fanciulla restò
sconcertata per qualche istante. Tuttavia non mi parve
dispiaciuta. Si riprese, e mi invitò ad accompagnarla in
una delle sale meno affollate, ad ascoltare il canto degli
uccelli. La seguii, e mi condusse in una stanza quasi deserta. Al centro, una fontana di nafta lanciava il suo zampillo; intorno c’erano soffici divani, e da un lato la parete si
apriva su una voliera dove gli uccelli cantavano i loro cori
melodiosi. La Gy sedette su un divano, ed io presi posto
accanto a lei.
“Taë mi ha detto”, esordì, “che Aph-Lin ha stabilito come
legge della sua casa, che tu non venga interrogato circa il paese da cui provieni e le ragioni della tua visita. È
vero?”.
“Sì.”
“Posso almeno, senza violare tale legge, chiedere se le
Gy-ei del tuo Paese hanno il tuo stesso colorito pallido, e
non sono più alte?”.
“Non credo, o bella Gy, di violare la legge di Aph-Lin, per
me vincolante, se rispondo a domande tanto innocenti.
Le Gy-ei del mio Paese hanno un colorito assai più chiaro
del mio, e la loro statura media è inferiore alla mia almeno
di tutta la testa.”
“Allora non sono forti come gli Ana, tra voi? Ma immagino
che la loro superiore energia vril compensi questo straordinario svantaggio.”
“Non usano l’energia del vril come fate voi. Tuttavia sono
molto potenti, nel mio Paese, ed un An ha poche possibilità di essere felice, se non si lascia più o meno governare
dalla sua Gy.”
“Tu parli con sentimento,” disse la sorella di Taë, in tono
un po’ triste ed un po’ petulante. “Sei sposato, naturalmente?”.
“No... certamente no.”
“Fidanzato?”.
“Neppure fidanzato.”
“Possibile che nessuna Gy ti abbia fatto proposte di matrimonio?”.
“Nel mio Paese non è la Gy a farle: è l’An a dichiararsi per
primo.”
“Che strana inversione delle leggi di natura!”, esclamò la
57
Altra Lettura
fanciulla. “E che mancanza di pudore nel tuo sesso! Ma tu
non ti sei mai dichiarato, non hai mai amato una Gy più
di un’altra?”.
Mi sentii imbarazzato da quelle domande ingenue e dissi: “Perdonami, ma temo che stiamo cominciando a violare l’ingiunzione di Aph-Lin. Posso dire solo questo, in
risposta, e poi, ti supplico, non chiedermi altro. Una volta,
provai quella preferenza di cui parli; mi dichiarai, e la Gy
mi avrebbe accettato volentieri, ma i suoi genitori rifiutarono il consenso.”
“I genitori! Vuoi dire davvero che i genitori possono interferire nelle scelte delle loro figlie?”.
“Sì, possono farlo, e lo fanno molto spesso.”
“Non mi piacerebbe vivere in quel Paese,” disse la Gy,
semplicemente. “Ma spero che tu non vi ritorni mai.”
Chinai il capo in silenzio. La Gy mi rialzò con fare gentile, il
volto con la destra e mi guardò teneramente.
“Resta con noi,” disse. “Resta con noi e lasciati amare.”
Tremo ancora oggi al pensiero di ciò che avrei potuto rispondere, al pericolo che avrei potuto correre di venir trasformato in cenere, quando la luce della fontana di nafta
fu oscurata dall’ombra di un paio d’ali; e Zee scendendo
dal tetto aperto atterrò accanto a noi. Non disse una parola ma, prendendomi il braccio con la mano possente,
mi trascinò via, come fa una madre con il figlioletto capriccioso, e mi condusse in uno dei corridoi: poi, salendo
su uno dei meccanismi che i Vril-ya preferiscono generalmente alle scale, raggiungemmo la mia stanza. Zee, allora, mi soffiò sulla fronte, mi toccò il petto con lo scettro, e
io precipitai immediatamente in un sonno profondo.
Quando mi svegliai, dopo diverse ore, e udii il canto degli
uccelli nella vicina voliera, il ricordo della sorella di Taë,
del suo aspetto dolce e delle sue parole carezzevoli tornò
vivido alla mia mente, e per uno nato e cresciuto nella
società del mondo esterno è così difficile liberarsi delle
idee ispirate dalla vanità e dall’ambizione che mi accorsi
di costruire istintivamente arditi castelli in aria.
“Anche se sono un Tish,” pensai, “anche se sono un Tish, è
chiaro che Zee non è l’unica Gy che la mia persona può
attrarre. Evidentemente sono amato da UNA PRINCIPESSA, la prima fanciulla di questa terra, figlia del Monarca
assoluto, la cui autocrazia qui cercano invano di camuffare con il titolo repubblicano di magistrato supremo. Se
non fosse comparsa all’improvviso quell’orribile Zee, la
Dama Reale mi avrebbe fatto una dichiarazione formale; e
anche se Aph-Lin, che è solo un ministro subordinato, un
semplice Commissario della Luce, minaccia di uccidermi
se accetto la mano di sua figlia, un Sovrano, la cui parola
è legge, potrebbe costringere la comunità ad abrogare
la consuetudine che vieta le nozze con gli appartenenti
ad una razza straniera e che contraddice la loro vantata
eguaglianza sociale.
“Non posso credere che sua figlia, la quale ha parlato con
tanto incredulo disprezzo dell’interferenza dei genitori,
non abbia influenza sufficiente sul regale padre per salvarmi dalla combustione cui mi condannerebbe Aph-Lin.
E se avessi l’onore di simili nozze, chissà, forse il Monarca
mi sceglierebbe come successore. Perché no? Ben pochi, in questa razza indolente di filosofi, amano il peso
di tanta grandezza. Tutti sarebbero compiaciuti di vedere il potere supremo nelle mani di uno straniero che ha
esperienza di altre e più vivaci forme d’esistenza; e, una
volta prescelto, quante riforme potrei introdurre! Quante
modifiche alla vita di questo reame piacevole ma troppo
monotono potrei apportare! Io amo gli sport all’aria aperta. Dopo la guerra, il passatempo preferito dei re non è
forse la caccia? Quante varietà di selvaggina abbondano
in questi territori sotterranei! Come sarebbe interessante
abbattere animali che nel mondo esterno si sono estinti
prima del Diluvio! Ma come? Con il terribile vril, che non
potrò mai usare efficacemente a causa di una carenza
ereditaria? No: con un civile, comodo fucile, che questi
meccanici ingegnosi potrebbero non solo costruire, ma
anche perfezionare: ne ho visto sicuramente uno nel Museo. Come sovrano assoluto, anzi, rinnegherei completamente il vril, tranne in caso di guerra.
“A proposito di guerra, è assurdo limitare un popolo così
intelligente, così ricco e ben armato, ad un territorio sufficiente appena per dieci o dodicimila famiglie. Tale restrizione è solo un congegno filosofico, in contrasto con
le aspirazioni della natura umana, come è stato tentato
parzialmente nel mondo esterno, e con insuccesso totale,
dal signor Robert Owen. Naturalmente non si fa guerra
alle nazioni vicine altrettanto bene armate; ma ci sono
le regioni abitate da razze che non conoscono il vril e
che, per le istituzioni democratiche, assomigliano ai miei
compatrioti americani. Si potrebbe invadere le loro terre senza offendere le nazioni del vril nostre alleate, ed
estendersi fino alle regioni più lontane del mondo sotterraneo, regnando così su un impero dove il Sole non
tramonta mai. (Nel mio entusiasmo, dimenticavo che in
quel mondo il Sole non c’era). In quanto all’assurda idea
di non concedere gloria e fama ad un individuo eminente perché gli onori causano concorrenza per assicurarseli,
suscitano passioni scatenate e guastano la felicità della
pace... ebbene, è contraria non solo alla natura umana
ma anche a quella degli animali che, se addomesticabili,
sono sensibili alla lode ed all’emulazione. Quale fama
conquisterebbe un re che ampliasse il suo impero! Verrei
considerato un semidio.”
Pensando all’adozione delle credenze che, senza dubbio,
noi cristiani accettiamo con fermezza ma non prendiamo
mai in considerazione, decisi che la filosofia più illuminata
mi obbligava ad abolire una religione pagana e superstiziosa in netto contrasto con il pensiero moderno e la realtà pratica. Riflettendo su questi vari progetti, sentivo che
58
“La razza ventura”
in quel momento mi sarebbe piaciuto molto ravvivare il
mio spirito con un buon bicchiere di whisky-and-water.
Non bevo abitualmente alcolici, ma vi sono senza dubbio
momenti in cui uno stimolante, accompagnato da un sigaro, accende l’immaginazione. Sì: certamente tra quelle
erbe e quei frutti ne esisteva qualcuno da cui si poteva
estrarre un piacevole liquido vinoso; e con una bistecca
di cervo (ah, che offesa per la scienza rifiutare il cibo animale che i nostri migliori medici raccomandano ai succhi
gastrici dell’umanità!) l’ora del pasto sarebbe trascorsa in
modo certamente più lieto. E poi, al posto degli antiquati
drammi rappresentati da bambini dilettanti, quando fossi divenuto re avrei introdotto la nostra opera moderna e
i nostri corpi di ballo, per i quali avrei potuto trovare, nelle
nazioni che avrei conquistato, giovani donne di statura
meno formidabile e di muscolatura meno tremenda delle
Gy-ei... non armate di vril e non intestardite a sposare un
uomo contro la sua volontà.
Ero completamente assorto nel pensiero di queste ed altre riforme politiche, sociali e morali, destinate ad arrecare al popolo del mondo sotterraneo le gioie della civiltà
conosciuta dalle razze del mondo esterno, e non mi resi
conto neppure che Zee era entrata nella stanza; me ne
avvidi solo quando udii un profondo sospiro e, alzando
gli occhi, la vidi ritta accanto al mio giaciglio.
È superfluo aggiungere che, secondo i costumi di quel
popolo, una Gy può, senza venir meno al decoro, far visita
ad un An nella sua camera, mentre un An verrebbe giudicato sfrontato e immodesto al massimo se entrasse nella
stanza di una Gy senza aver prima ottenuto il permesso.
Per fortuna ero ancora completamente vestito come nel
momento in cui Zee mi aveva deposto sul letto. Mi sentii
tuttavia molto irritato e scandalizzato della sua visita e le
chiesi in tono brusco cosa voleva.
“Parla dolcemente, carissimo, ti supplico,” disse lei, “perché sono molto infelice. Non ho dormito, da quando ci
siamo separati.”
“Un debito senso di vergogna per la tua condotta nei
confronti di un ospite di tuo padre dovrebbe bastare a
scacciare il sonno dalle tue palpebre. Dov’è l’affetto che
pretendi di provare per me, dov’è la cortesia di cui i Vrilya si vantano, se approfittando della forza fisica del tuo
sesso, e dei detestabili, empi poteri conferiti dalle energie
del vril ai tuoi occhi ed alle tue dita, mi hai esposto all’umiliazione di fronte ai tuoi visitatori, ed a Sua Altezza Reale...
voglio dire, la figlia del vostro magistrato supremo, trascinandomi a letto come un bambino cattivo e facendomi
addormentare senza chiedere il mio consenso?”.
“Ingrato! Mi rimproveri le mie attestazioni d’amore? Pensi
che, anche se non fossi stata tormentata dalla gelosia che
accompagna l’amore fino a quando svanisce nella beata
certezza di aver conquistato il cuore del prediletto, avrei
potuto essere indifferente ai pericoli cui le audaci propo-
ste di quella sciocca bambina potrebbero esporti?”.
“Basta! Poiché sei tu a parlare di pericoli, forse è giusto
dirti che quelli più immediati mi vengono da te, o almeno
mi verrebbero se credessi al tuo amore ed accettassi la
tua corte. Tuo padre mi ha detto chiaramente che in tal
caso verrei ridotto in cenere senza alcun rimorso, come
se fossi il rettile che Taë ha annientato con un lampo del
suo scettro.”
“Non devi permettere che queste paure raffreddino il tuo
cuore,” esclamò Zee, gettandosi in ginocchio e avviluppando la mia destra nella sua grande mano. “E’ vero, certo,
che non possiamo sposarci come coloro che appartengono alla stessa razza; è vero che l’amore tra noi deve essere
puro come quello che, secondo la nostra fede, esiste tra
gli innamorati ricongiunti nella nuova vita dopo la fine di
questa. Ma non è una felicità abbastanza grande essere
insieme, sposati nella mente e nel cuore? Ascoltami: ho
appena lasciato mio padre: acconsente alla nostra unione
a queste condizioni. Ho abbastanza influenza sul Collegio
dei Saggi perché chieda al Tur di non interferire nella libera scelta d’una Gy, purché le sue nozze con l’esponente di
un’altra razza siano soltanto un matrimonio di anime. Oh,
pensi che il vero amore abbia bisogno di un’unione ignobile? Io non desidero solo essere al tuo fianco in questa
vita, e partecipare alle tue gioie ed ai tuoi dolori; chiedo
un legame che ci unisca per sempre nel mondo degli immortali. Mi rifiuti?”.
Si era inginocchiata, mentre parlava, e l’espressione del
suo volto era completamente cambiata: non c’era più severità, ed una luce divina, simile a quella degli immortali,
s’irradiava dalla sua umana bellezza. Tuttavia m’incuteva
timore come un angelo, anziché commuovermi come una
donna; e dopo una pausa imbarazzata, balbettai espressioni evasive di gratitudine e cercai, con la massima delicatezza, di farle capire che la mia posizione sarebbe stata
umiliante, se fossi divenuto un marito che non avrebbe
mai potuto essere padre.
“Ma,” disse Zee, “questa comunità non rappresenta tutto
il mondo. No: e non tutte le popolazioni sono comprese
nella lega dei Vril-ya. Per amor tuo rinuncerò al mio paese
e alla mia gente. Voleremo insieme in una regione dove
sarai al sicuro. Sono abbastanza forte per portarti in volo
attraverso i deserti; sono abbastanza abile per aprire tra le
rocce valli in cui costruiremo la nostra casa. La solitudine
ed una capanna con te varrebbero per me più della società e dell’universo. Oppure preferisci tornare al tuo mondo
della superficie, esposto all’incertezza delle stagioni, e illuminato soltanto dalle mutevoli sfere che, a quanto hai
detto tu stesso, costituiscono il carattere capriccioso di
quelle zone selvagge? In tal caso, parla, ed io aprirò la via
al tuo ritorno, per essere la tua compagna lassù, compagna, là come qui, solo della tua anima, per giungere con
te nel mondo in cui non vi è separazione né morte.”
59
Altra Lettura
Non potei fare a meno di sentirmi profondamente commosso dalla tenerezza, così pura ed appassionata, con
cui venivano pronunciate quelle parole, e dalla voce che
avrebbe reso musicale anche i suoni più rozzi della lingua
più rude. Per un momento, pensai che avrei potuto servirmi dell’aiuto di Zee per tornare rapidamente e senza
rischi al mondo esterno. Ma una breve riflessione bastò
a mostrarmi che sarebbe stato un modo ben meschino e
disonorevole di ricambiare tanta devozione, se avessi allontanato dal suo popolo e dalla sua casa, dove ero stato
trattato ospitalmente, una creatura che l’avrebbe trovato
orribile, per il cui amore, sterile anche se spirituale, non
sarei stato capace di rinunciare all’affetto più umano di
compagne meno superiori a me.
A questo sentimento di dovere nei confronti della Gy si
univa quello nei confronti della razza cui appartenevo.
Potevo azzardarmi ad introdurre nel mondo esterno una
creatura dalle doti cosi formidabili... un essere che con
un movimento dello scettro poteva ridurre New York ed
il suo glorioso Koom-Posh in un pizzico di polvere? Se
le avessi sottratto lo scettro, con la sua scienza avrebbe
potuto facilmente costruirne un altro; e tutto il suo organismo era carico delle folgori mortali che armavano
quel sottile strumento. Tanto pericolosa per le città e le
popolazioni del mondo esterno, come poteva essere una
compagna fidata per me, se il suo affetto fosse cambiato,
o fosse stato amareggiato dalla gelosia? Questi pensieri,
che richiedono tante parole per venire espressi, mi passarono rapidi per la mente e decisero la mia risposta.
“Zee,” dissi con tutta la dolcezza possibile, posando rispettosamente le labbra sulla mano in cui era sparita la
mia, “Zee, non so trovare la parole adatte per dirti quanto
sono commosso ed onorato da un amore così disinteressato e generoso. Posso ricambiarlo solo con la più assoluta franchezza. Ogni nazione ha i suoi costumi. Le consuetudini della tua non ti permettono di sposarmi; quelle
della mia sono altrettanto contrarie ad un’unione fra razze così diverse. D’altra parte, sebbene il coraggio non mi
manchi tra il mio popolo o tra i pericoli che conosco, non
posso, senza un brivido d’orrore, pensare a costruire una
casa nel cuore di un tremendo caos, con tutti gli elementi
della natura, il fuoco e l’acqua ed i gas mefitici, in guerra
tra loro, e con la probabilità che prima o poi, mentre tu
fossi occupata a squarciare le rocce o a trasmettere il vril
alle lampade, io venissi divorato da un krek che le tue attività hanno disturbato. Io sono soltanto un Tish, e non
merito l’amore di una Gy così intelligente, dotta e potente come te. Sì, non merito tale amore, perché non posso
contraccambiarlo.”
Zee mi lasciò la mano, si alzò, e distolse il viso per nascondere le sue emozioni; poi attraversò in silenzio la stanza
e si fermò sulla soglia. All’improvviso, come spinta da un
nuovo pensiero, tornò al mio fianco e disse bisbigliando:
“Mi hai detto che avresti parlato con perfetta franchezza. E allora rispondi con perfetta franchezza a questa domanda: se non puoi amare me, ami un’altra?” .
“Certamente no.”
“Non ami la sorella di Tae?” “Non l’avevo mai vista prima
di ieri sera.”
“Non è una risposta. L’amore è più fulmineo del vril. Tu
esiti a dirmelo. Non credere che sia soltanto la gelosia a
indurmi a metterti in guardia. Se la figlia del Tur ti dichiarasse amore, se nella sua ignoranza confidasse al padre la
preferenza e lo convincesse delle sue intenzioni di corteggiarti, egli non avrebbe altra scelta che richiedere la tua
immediata eliminazione, poiché ha il compito di vegliare
sul bene della comunità, e questo non permette ad una
figlia dei Vril-ya di sposare un figlio dei Tish-a, nel senso
di un matrimonio che non si limiti ad un’unione delle anime. Ahimé, in tal caso non avresti via di scampo. Lei non
ha abbastanza forza per trasportarti in volo nell’aria; non
conosce la scienza per creare una casa nelle località desolate e selvagge. Credimi: è la mia amicizia che ti parla,
non la gelosia.”
Con queste parole, Zee mi lasciò. E ricordandole, non
pensai più a salire sul trono dei Vril-ya, né alle riforme politiche, sociali e morali che avrei potuto istituire nella mia
qualità di Sovrano Assoluto.
***
Dopo la conversazione con Zee che ho appena riferito,
caddi in uno stato di profonda malinconia. L’interesse
curioso con cui in precedenza avevo osservato la vita e
le abitudini di quella meravigliosa comunità era svanito.
Non potevo scacciare dalla mente la consapevolezza di
trovarmi in mezzo a gente che, sebbene mite e cortese,
poteva annientarmi da un momento all’altro, senza scrupoli né rimorsi. La vita virtuosa e pacifica che, sebbene
tanto nuova per me, mi era sembrata così santa in confronto ai dissidi, le passioni ed i vizi del mondo esterno,
cominciò ad opprimermi, a darmi un senso di cupezza e di
monotonia. Anche la serena tranquillità dell’aria luminosa deprimeva il mio spirito. Aspiravo ad un cambiamento,
fosse pure l’inverno, un temporale o l’oscurità. Cominciai
a pensare che, quali che siano i nostri sogni di perfezione, le nostre irrequiete aspirazioni ad una sfera dell’essere
migliore, più alta e serena, noi mortali del mondo esterno
non siamo abituati né adatti a godere a lungo la stessa
felicità che sognamo.
Ed era curioso notare come la società dei Vril-ya riuscisse
a unire ed armonizzare in un unico sistema quasi tutti i
fini che i vari filosofi del mondo esterno hanno additato
alle speranze umane quali ideali di un futuro utopistico.
Era uno Stato in cui la guerra, con tutte le sue calamità,
veniva ritenuta impossibile, in cui la libertà di ognuno
60
“La razza ventura”
era garantita al massimo, senza quelle animosità che nel
mondo esterno fanno dipendere la libertà dalla perpetua lotta. Qui la corruzione che degrada le democrazie
era sconosciuta quanto i malcontenti che minano i troni delle monarchie. Qui l’eguaglianza non era un nome,
era una realtà. I ricchi non erano perseguitati, poiché non
erano invidiati. Qui i problemi connessi alle classi lavoratrici, fino a questo momento insolubili nel mondo esterno, dove provocano tanto risentimento, venivano risolti
nel modo più semplice: si faceva completamente a meno
di una classe lavoratrice a sé stante. Le invenzioni meccaniche, costruite in base a principi per me incomprensibili, azionate da un’energia infinitamente più potente
e più agevole da usare di quelle dell’elettricità e del vapore, guidate da bambini le cui forze non venivano mai
sfruttate eccessivamente, e che amavano la loro attività
come uno sport ed un passatempo, bastavano a creare
una ricchezza pubblica così volta al bene di tutti che non
esistevano malcontenti.
I vizi che corrompono le nostre città lì non esistevano. I
divertimenti abbondavano, ma erano tutti innocenti, non
conducevano all’ubriachezza, al disordine, alle malattie.
Esisteva l’amore, ardente nel corteggiamento, ma una
volta realizzato era fedele. L’adultero, il libertino, la prostituta erano fenomeni ignoti in quella comunità, al punto
che per trovare le parole corrispondenti sarebbe stato
necessario frugare una letteratura antiquata, composta
millenni prima.
Coloro che nel mondo esterno studiano le filosofie teoretiche sanno che tutte queste strane deviazioni dalla
via della civiltà realizzano idee esposte, costruite, ridicolizzate e contestate, talvolta messe parzialmente alla
prova, e tuttora esposte in libri fantastici, ma senza mai
dare risultati pratici. Né questi erano tutti i passi verso la
perfettibilità teorica compiuti dalla comunità. Cartesio riteneva che fosse possibile prolungare la vita dell’uomo,
non all’infinito almeno su questa terra, ma intanto fino
a quella che egli chiamava l’età dei patriarchi e che indicava tra i cento ed i centocinquant’anni. Ebbene, anche
questo sogno dei saggi lì si era realizzato, al punto che il
vigore della maturità durava anche dopo il secolo. A questa longevità si univa una benedizione anche più grande, la costante salute. Le malattie venivano eliminate con
l’applicazione scientifica dell’energia, datrice di vita non
meno che distruttrice, tipica del vril. Anche questa idea
non è ignota sulla superficie, sebbene sia generalmente
condivisa soltanto dagli entusiasti e dai ciarlatani, e promani da nozioni confuse sul mesmerismo, la forza odica,
e così via.
Trascurando i congegni tipo le ali, che, come ogni scolaretto sa, nel nostro mondo non sono state realizzate
nonostante gli sforzi compiuti fin dai tempi mitici e preistorici, passo ora ad una questione molto delicata, di re-
cente prospettata come essenziale alla perfetta felicità
della nostra specie da due delle influenze più inquietanti
e potenti della nostra società: la Donna e la Filosofia. Mi
riferisco ai Diritti delle Donne.
Ora, i nostri giuristi sostengono che è inutile parlare di
diritti se non esistono i poteri corrispondenti per imporli;
e nel mondo esterno, per una ragione o per l’altra l’uomo,
nella sua forza fisica, nell’uso delle armi offensive e difensive, quando giunge ad un contesto personale, può sempre dominare le donne, come regola generale. Ma presso
questo popolo non vi sono dubbi circa i diritti femminili
perché, come ho detto, la Gy, dal punto di vista fisico, è
più grande e forte dell’An; e poiché la sua volontà è anche più risoluta, ed essenziale nell’uso del vril, ella può
usare su di lui, assai più di quanto sia possibile il contrario,
l’energia mistica che l’arte sa estrarre dalle proprietà occulte della natura. Perciò tutto quello che le nostre filosofe femministe chiedono nel mondo esterno è accordato
normalmente in questo Stato felice. Oltre ai poteri fisici,
le Gy-ei (almeno in gioventù) possiedono un’acuta aspirazione alla cultura che supera quella del maschio; quindi
sono loro gli eruditi, i professori... insomma, la parte colta
della comunità.
Naturalmente, in questa società la femmina, come ho dimostrato, conferma il suo privilegio più prezioso, quello
di scegliere e corteggiare il compagno. Senza tale privilegio disprezzerebbe tutti gli altri. Ora, nel mondo esterno,
noi presumeremmo non a torto che una femmina tanto
potente e privilegiata, dopo averci intrappolati e sposati, fosse imperiosa e tirannica. Ma le Gy-ei non sono così;
quando si sposano, appendono le ali al chiodo, e nessun
poeta potrebbe immaginare, nella sua visione della felicità coniugale, compagne più amabili, compiacenti e docili, più comprensive, più disposte ad assecondare i gusti
ed i capricci relativamente frivoli dei mariti.
Infine, tra le caratteristiche più importanti dei Vril-ya, in
confronto alla nostra umanità, e più importanti anche
per i riflessi sulla loro vita e sulla pace dei loro Stati, vi è
la fede universale nell’esistenza di una Divinità benevola
e misericordiosa, ed in un mondo futuro in confronto alla
cui durata un secolo o due sono momenti troppo brevi
per sprecarli inseguendo la gloria, il potere o la ricchezza; ed a questa concordanza se ne unisce un’altra: poiché
non possono conoscere nulla della natura della Divinità,
a parte la sua suprema bontà, né del mondo futuro oltre
il fatto della sua felice esistenza, la loro ragione impedisce le dispute accanite e le domande che non trovano
risposta. In tal modo essi assicurano al loro Stato sotterraneo ciò che nessuna comunità ha mai conseguito sotto
la luce delle stelle: tutte le gioie e le consolazioni d’una
religione, senza i mali e le calamità causate dalle lotte tra
una fede e l’altra.
Sarebbe quindi assolutamente impossibile negare che
61
Altra Lettura
l’esistenza dei Vril-ya sia, nel complesso, incommensurabilmente più felice di quella delle razze del mondo della
superficie; realizzando i sogni dei nostri più ardenti filantropi, si avvicina piuttosto alla concezione poetica di un
ordine angelico. Eppure, se prendeste mille esseri umani, scelti tra i migliori e più filosofi che potreste trovare
a Londra, Parigi, Berlino, New York e persino Boston, e li
collocaste come cittadini di questa beata comunità, sono
convinto che in meno di un anno morirebbero di noia, o
tenterebbero una rivoluzione contraria al bene dello Stato, e finirebbero ridotti in cenere su richiesta del Tur.
Non voglio certo insinuare, con il mio racconto, un disprezzo ignorante verso la razza cui appartengo. Al contrario, mi sono sforzato di chiarire che i principi regolanti
il sistema sociale dei Vril-ya vietano loro di produrre quegli esempi individuali di grandezza umana che adornano
gli annali del mondo esterno. Dove non vi sono guerre
non possono esservi generali, come un Annibale, un Washington, un Jackson, uno Sheridan; dove gli Stati sono
così felici da non temere pericoli e da non desiderare
cambiamenti, non possono produrre giuristi quali un Demostene, un Webster, un Sumner, un Wendell Holmes o
un Butler; e dove una società raggiunge un livello morale
dove non esistono crimini né affanni da cui la tragedia
possa estrarre pietà e dolore, né vizi o follie su cui la commedia possa profondere una gaia satira, perde la possibilità di generare scrittori quali uno Shakespeare od un
Molière, od una Beecher Stowe.
Ma, non intendo disprezzare i miei simili del mondo
esterno dimostrando fino a che punto le motivazioni che
muovono le energie e le ambizioni degli individui in una
società in lotta si placano o si annullano in una società
che mira ad assicurare a tutti la calma, innocente felicità che noi attribuiamo agli immortali; e neppure, d’altra
parte, voglio presentare la comunità dei Vril-ya come forma ideale di società politica, cui dovrebbero tendere i nostri sforzi riformatori. Al contrario, è perché noi nel corso
dei secoli abbiamo mescolato gli elementi del carattere
umano in modo che sarebbe per noi impossibile adottare i modi di vita dei Vril-ya, o riconciliare con essi le nostre
passioni, che giunsi alla convinzione che questo popolo,
benché in origine non solo appartenesse alla razza umana ma, come mi sembra chiaro dalle radici linguistiche,
discendesse dagli stessi antenati della grande famiglia
ariana da cui, in vari rivoli, è derivata la civiltà dominante
del mondo, ed avendo, secondo i miti e la storia, attraversato fasi sociali simili alle nostre, si fosse ormai evoluto in una specie distinta con cui nessuna comunità del
mondo esterno avrebbe potuto amalgamarsi; e che se i
Vril-ya fossero usciti dai loro recessi sotterranei alla luce
del giorno, secondo la tradizionale fede nel loro destino
supremo, avrebbero annientato e sostituito le nostre varietà umane.
Si può dire, siccome più di una Gy poteva concepire una
predilezione per un tipo comune della razza del mondo
esterno quale io sono, che, se anche i Vril-ya fossero usciti
alla luce nel Sole, avremmo potuto salvarci dallo sterminio mediante la fusione delle razze. Ma si tratta di una
convinzione troppo ardita. I casi di questa mesaillance
sarebbero rari quanto i matrimoni misti tra gli emigranti anglosassoni ed i pellerossa. Né vi sarebbe tempo per
stabilire rapporti di familiarità. I Vril-ya, uscendo alla superficie, e indotti dal fascino del cielo rischiarato dal Sole
a formare colonie, comincerebbero subito la loro opera di
distruzione, s’impadronirebbero dei territori già coltivati,
e senza scrupolo eliminerebbero quanti si opponessero
all’invasione. E considerando il loro disprezzo per le istituzioni del Koom-Posh o Governo Popolare, ed il valore
pugnace dei miei amati compatrioti, credo che se i Vril-ya
comparissero nella Libera America (che, essendo la parte
migliore della terra abitabile, essi presceglierebbero senza alcun dubbio), e dicessero: “Prendiamo questa parte
del globo; cittadini di un Koom-Posh, lasciate il posto allo
sviluppo della specie dei Vril-ya”, i miei coraggiosi compatrioti combatterebbero, e nel volgere di una settimana
non ne resterebbe vivo uno solo per reggere il vessillo a
Stelle e Strisce.
Vedevo poco Zee, tranne durante l’ora dei pasti, quando
si riuniva tutta la famiglia, e si mostrava sempre riservata
e taciturna. Perciò erano svaniti i timori dei pericoli causati da un affetto che non avevo incoraggiato né meritato,
ma il mio avvilimento cresceva. Mi struggevo dal desiderio di tornare al mondo esterno, ma invano mi tormentavo il cervello cercando un modo di riuscirvi. Non potevo
mai uscire da solo, e quindi non potevo neppure visitare
il luogo in cui ero caduto, per vedere se era possibile risalire. E nelle Ore Silenziose, quando tutta la casa dormiva,
non avrei potuto scendere dal piano dove si trovava la
mia stanza. Non sapevo comandare gli automi che stavano ironicamente in attesa del mio cenno accanto alla
parete, e non sapevo quali molle attivavano le piattaforme che sostituivano le scale. Oggi sono certo che tutto
questo mi era stato nascosto di proposito. Oh, se avessi
potuto imparare a servirmi delle ali, di cui poteva disporre ogni bambino, allora sarei fuggito dalla finestra, avrei
raggiunto le rocce, e sarei salito attraverso il crepaccio che
le pareti perpendicolari non permettevano di scalare!
***
Un giorno, mentre ero solo nella mia stanza, rimuginando questi pensieri, Taë entrò in volo dalla finestra aperta
e si posò sul divano accanto a me. Mi rallegravo sempre
delle visite del ragazzo, in compagnia del quale, pur sentendomi umiliato, ero meno eclissato di quanto lo ero
quando mi trovavo insieme agli Ana che avevano com62
“La razza ventura”
pletato la loro educazione. E poiché ero autorizzato ad
uscire insieme a lui, e desideravo rivisitare il luogo in cui
ero sceso nel mondo sotterraneo, mi affrettai a chiedergli
se era disposto ad una passeggiata fuori città. Il suo volto
mi parve più serio del solito, quando rispose: “Sono venuto appunto per invitarti ad uscire.”
Scendemmo per la strada, e non ci eravamo allontanati
molto dalla casa quando incontrammo cinque o sei Gyei, che tornavano dai campi con cestelli pieni di fiori, cantando in coro. Una giovane Gy canta più spesso di quanto parli. Nel vederci si fermarono, si rivolsero a Taë con
l’abituale tenerezza ed a me con la cortese galanteria che
distingue le Gy-ei nel loro comportamento verso il nostro
sesso debole.
Posso osservare che, sebbene una vergine Gy sia così
franca nel corteggiare il suo prediletto, non vi è nulla che
si avvicini a quella maniera chiassosa con cui le giovani
donne anglosassoni indicate con l’epiteto di “fast”, trattano i giovani gentiluomini che non dichiarano di amare. No: il contegno delle Gy-ei nei confronti dei maschi,
abitualmente, è simile a quello degli uomini ben educati
del nostro mondo verso le signore che essi rispettano ma
non corteggiano: deferente, complimentoso, squisitamente educato... noi lo definiremmo “cavalleresco”.
Rimasi certo un po’ sconcertato dalle molte frasi cortesi
rivolte al mio amour propre da quelle giovani e gentili Gyei. Nel mondo da cui provengo, un uomo si sarebbe sentito trattato con ironia se avesse udito, come accadde a me,
complimenti per la freschezza della mia carnagione, per
la scelta dei colori dell’abbigliamento e per le conquiste
che avevo fatto alla festa di Aph-Lin. Ma io sapevo già che
tale linguaggio corrisponde a quello che i francesi chiamano banal; e dimostrava semplicemente, da parte delle
Gy-ei, quel desiderio di apparire amabili che, nel mondo
esterno, per il costume arbitrario e la trasmissione ereditaria è tipico degli uomini. E come nel nostro mondo una
fanciulla ben educata, abituata a tali complimenti, capisce che non può ricambiarli senza sfidare il decoro, e non
può trarre una grande soddisfazione nel riceverli, così io,
che avevo imparato le buone maniere nella casa di un ricco e dignitoso Ministro di quella nazione, potevo soltanto sorridere e declinare graziosamente i complimenti che
mi venivano rivolti.
Mentre stavamo parlando, la sorella di Taë doveva averci
visti dalle finestre’ del Palazzo Reale, situato all’ingresso
della città, perché si lanciò in volo e discese al centro del
gruppo. Si rivolse a me, pur con l’inimitabile deferenza di
modi che ho chiamato “cavalleresca”, ma non senza una
certa bruschezza di tono che sir Philip Sidney avrebbe
definito “rustica” se usata con il sesso debole, e mi disse:
“Perché non vieni mai a trovarci?”
Mentre pensavo alla risposta più adatta da dare a tale domanda inattesa, Taë si affrettò a dire severamente: “Sorel-
la, dimentichi che lo straniero appartiene al mio sesso. E
le persone del mio sesso, gelose della loro reputazione e
del loro pudore, non possono abbassarsi a correre dietro
a voi.”
La risposta fu accolta con evidente approvazione dalle
giovani Gy-ei; ma la sorella di Taë sembrò molto umiliata.
Povera creatura! Ed era una PRINCIPESSA, per giunta!
Proprio in quel momento, un’ombra passò nello spazio
tra me ed il gruppo; e voltandomi, vidi il supremo magistrato che si avvicinava a noi, con il passo silenzioso e
maestoso tipico dei Vril-ya. Alla vista della sua espressione, mi riprese lo stesso terrore che avevo provato quando
l’avevo incontrato per la prima volta. Su quella fronte, in
quegli occhi, c’era quel qualcosa d’indefinibile che caratterizzava l’appartenenza ad una razza fatale per la nostra... la strana aria di serena immunità alle nostre passioni ed ai nostri affanni, di cosciente superiorità, pietosa ed
inflessibile come quella di un giudice che pronuncia una
condanna. Rabbrividii e, inchinandomi profondamente,
strinsi il braccio del mio piccolo amico e lo trascinai avanti, in silenzio. Il Tur si mise davanti a noi, mi guardò per un
istante senza parlare, poi volse tranquillamente lo sguardo verso la figlia e, con un grave cenno di saluto a lei ed
alle altre Gy-ei, passò in mezzo al gruppo... sempre senza
dire una parola.
***
Quando Taë ed io ci trovammo soli sull’ampia strada che
si estendeva dalla città fino al crepaccio da cui ero caduto
in quella regione priva della luce delle stelle e del Sole,
dissi sottovoce: “Mio piccolo amico, l’espressione del volto di tuo padre mi fa paura. Nella sua spaventosa serenità,
mi pareva di aver visto la morte.”
Taë non rispose subito. Sembrava agitato, come se si
chiedesse con quali parole doveva addolcire una sgradita
rivelazione. Finalmente disse: “Nessuno dei Vril-ya teme
la morte: e tu?”.
“La paura della morte è innata nella razza cui appartengo.
Possiamo vincerla per senso di dovere e d’onore, e per amore. Possiamo morire per una verità, per la terra natia, o
per coloro che ci sono più cari di noi stessi. Ma se la morte
mi minaccia davvero, dove sono, qui, questi influssi contrari all’istinto naturale che imprime sgomento e terrore
all’idea della separazione tra l’anima ed il corpo?”.
Taë mi sembrò sorpreso, ma rispose con grande tenerezza nella voce: “Riferirò a mio padre ciò che hai detto. Lo
supplicherò di risparmiarti la vita.”
“Dunque ha già deciso di togliermela?”.
“E’ colpa della follia di mia sorella,” rispose Taë, con una
certa petulanza. “Ma questa mattina lei ha parlato a mio
padre; dopo egli mi ha chiamato, in quanto sono preposto ai bambini che hanno l’incarico di eliminare gli esseri
63
Altra Lettura
pericolosi per la comunità, e mi ha detto: ‘Prendi il tuo
Scettro Vril, e cerca lo straniero che ti è divenuto caro. Che
la sua fine sia rapida e indolore’. “
“Ed è per questo,” balbettai, scostandomi dal ragazzo, “è
per assassinarmi che mi hai proditoriamente invitato ad
uscire? No, non posso crederlo. Non posso crederti colpevole di un simile crimine.”
“Non è un crimine uccidere coloro che minacciano il bene
della comunità; lo sarebbe uccidere un insetto che non
può farci alcun male.”
“Se vuoi dire che minaccio il bene della comunità perché
tua sorella mi onora della preferenza che un bimbo può
provare per un giocattolo strano, non è necessario uccidermi. Lasciami tornare al popolo che ho abbandonato,
passando per lo stesso crepaccio da cui sono disceso. Con
un piccolo aiuto da parte tua potrei farlo anche ora. Tu,
grazie alle ali, potresti fissare al cornicione roccioso dello
strapiombo la corda che trovasti, e che senza dubbio hai
conservato. Fai così: aiutami a raggiungere il punto da
cui sono disceso, ed io scomparirò dal vostro mondo per
sempre, come se fossi morto.”
“Il precipizio da cui sei disceso! Guardati intorno: ci troviamo appunto dove si spalancava. Che cosa vedi? Solo
roccia compatta. Il crepaccio è stato chiuso, per ordine di
Aph-Lin, non appena fra te e lui si è stabilita una comunicazione mentre eri in trance, ed egli ha appreso dalle
tue labbra la natura del mondo da cui sei venuto. Non
ricordi quando Zee m’ingiunse di non chiederti nulla di te
e della tua razza? Dopo averti lasciato, quel giorno, AphLin mi disse: ‘Non deve restare aperta alcuna strada fra la
patria dello straniero e la nostra, altrimenti il male e la sofferenza del suo mondo scenderanno qui. Prendi con te i
bambini del tuo gruppo, e insieme colpite le pareti della
caverna con gli Scettri Vril, finché i frammenti riempiano
ogni varco da cui potrebbe filtrare il chiarore delle nostre
lampade’.”
Mentre il bambino parlava, io guardavo inorridito le rocce davanti a me. Enormi ed irregolari, le masse di granito,
che recavano tracce di bruciature dov’erano state staccate, si alzavano dal terreno alla volta, senza un interstizio!
“Ogni speranza è perduta!”, mormorai, lasciandomi cadere sulle pietre. “E non rivedrò mai il Sole.” Mi coprii il
volto con le mani, e pregai Colui la cui presenza avevo
tanto spesso dimenticato sebbene i cieli attestassero
la sua opera. Sentivo la sua’ presenza nelle viscere della
Terra, nel mondo della tomba. Levai lo sguardo, traendo
conforto e coraggio dalla preghiera, e fissando con un
tranquillo sorriso il volto del ragazzo, dissi: “Ora, se devi
uccidermi, colpisci.”
Taë scosse il capo. “No,” rispose. “La richiesta di mio padre
non è formulata in modo così ufficiale da non lasciarmi
scelta. Parlerò con lui, e forse riuscirò a salvarti. È strano
che tu non abbia quella paura della morte che noi cre-
devamo fosse istintiva nelle creature inferiori, cui non è
data la convinzione di un’altra vita. Tra noi, neppure un
infante nutre tale paura. Dimmi, mio caro Tish,” continuò
dopo una breve pausa, “ti allevierebbe il passaggio da
questa forma di vita a quella che sta al di là del momento
chiamato morte, se io partecipassi al tuo viaggio? In tal
caso, chiederò a mio padre se posso venire con te. Io sono
tra gli appartenenti alla nostra generazione destinati ad
emigrare, a tempo debito, in regioni sconosciute entro
questo mondo. Tanto varrebbe emigrare subito in regioni ignote di un altro mondo. La Bontà Suprema è là come
qui, poiché è dovunque.”
“Figliolo,” dissi, comprendendo dall’espressione di Taë
che egli parlava seriamente, “è un crimine se tu mi uccidi;
e sarebbe un crimine non meno grave se io ti dicessi: ‘Ucciditi’. La Bontà Suprema sceglie il momento per darci la
vita, e il momento per togliercela. Torniamo indietro. Se,
quando parlerai con tuo padre, desidera di farmi morire,
dammi il più lungo preavviso possibile, affinché possa
prepararmi.”
Tornammo in città, scambiandoci poche parole. Non riuscivamo a capire l’uno il ragionamento dell’altro, ed io
provavo per quel ragazzo dalla voce dolce e dal bel volto
ciò che un condannato prova per il suo carnefice quando
si dirige al suo fianco verso il luogo dell’esecuzione.
***
Nelle ore destinate al riposo, che per i Vril-ya rappresentano la notte, fui tratto dal sonno agitato in cui ero piombato da poco da una mano posata sulla mia spalla. Sussultai, e vidi Zee ritta accanto a me.
“Taci,” disse in un bisbiglio. “Nessuno deve sentirci. Credi
che abbia smesso di vegliare sulla tua sicurezza soltanto
perché non ho potuto conquistare il tuo amore? Ho visto
Taë. Non è riuscito a convincere suo padre, il quale nel
frattempo aveva conferito con i tre saggi di cui chiede il
parere quando è in dubbio; e accettando il loro consiglio,
ha ordinato che tu perisca quando il mondo si risveglierà. Io ti salverò. Alzati e vestiti.”
Zee indicò un tavolo accanto al divano, su cui vidi gli
abiti che avevo indosso quando avevo lasciato il mondo
esterno, e che in seguito avevo abbandonato per portare gli indumenti più pittoreschi dei Vril-ya. La giovane
Gy si diresse verso la finestra e uscì sul balcone, mentre
io, stupito, mi affrettavo a indossare i vestiti. Quando la
raggiunsi, il suo volto era pallido e rigido. Prendendomi
per mano disse sottovoce: “Guarda come l’arte dei Vrilya ha illuminato il mondo in cui essi dimorano. Domani
il mondo sarà buio, per me.” Mi trasse nella stanza senza
attendere la risposta, poi mi condusse nel corridoio, da
cui scendemmo nell’atrio. Percorremmo le vie deserte e
ci avviammo per l’ampia strada in salite che si snodava
64
“La razza ventura”
sotto le rocce. Lì, dove non esiste né giorno né notte, le
Ore Silenziose sono indicibilmente solenni... lo spazio
immenso illuminato artificialmente non mostra alcuna
traccia di vita mortale. Per quanto i nostri passi fossero
lievi, il loro suono colpiva l’orecchio, in disaccordo con
l’universale silenzio. Sebbene Zee non lo dicesse, capivo
che aveva deciso di aiutarmi a tornare al mondo esterno,
e che eravamo diretti verso il luogo da cui ero disceso. Il
silenzio mi contagiò.
Ci avvicinammo al precipizio. Era stato riaperto: non presentava per la verità l’aspetto che aveva quando ne ero
emerso, ma attraverso la muraglia di roccia che avevo osservato insieme a Taë, un nuovo crepaccio era stato prodotto, e lungo le pareti annerite brillavano ancora scintille
e braci fumanti. Il mio sguardo, però, non poteva penetrare nella tenebra di quel vuoto, ed io mi fermai sgomento,
chiedendomi come potevo compiere la scalata.
Zee intuì il mio dubbio. “Non temere,” disse con un lieve
sorriso. “Il tuo ritorno è sicuro. Ho cominciato questo lavoro all’inizio delle Ore Silenziose, quando tutti dormivano: credimi, non ho smesso prima di aver sgombrato la
strada che porta al tuo mondo. Starò con te ancora un
poco. Non ci separeremo se non quando dirai: ‘Vattene,
perché non ho più bisogno di te’.”
A queste parole, il cuore mi tremò per il rimorso. “Ah,”
esclamai, “quanto vorrei che tu appartenessi alla mia razza, o io alla tua! Allora non direi mai ‘Non ho più bisogno
di te’.”
“Ti benedico per queste parole, e le ricorderò sempre,
dopo che te ne sarai andato,” rispose teneramente la Gy.
Durante questo breve dialogo, Zee aveva distolto il viso
da me, chinando la testa sul petto. Poi si raddrizzò in tutta la sua maestosa statura e mi fronteggiò. Mentre si era
sottratta al mio sguardo, aveva illuminato la coroncina
che le cingeva la fronte e che adesso sfolgorava come
un serto di stelle. Non solo il suo viso e la sua figura, ma
tutta l’atmosfera intorno erano illuminati dal fulgore del
diadema.
“Ora,” disse, “abbracciami per la prima e l’ultima volta. No,
così: coraggio, e tieniti saldo.”
Mentre parlavo, la sua figura si dilatò e le immense ali si
spiegarono. Aggrappato a lei, venni trasportato in alto,
attraverso l’enorme crepaccio. La luce stellata della sua
fronte rischiarava la tenebra intorno a noi. Rapida come
un angelo che vola verso il cielo reggendo l’anima strappata alla tomba, così ascese la Gy, fino a quando udii in
distanza il brusìo di voci umane ed i suoni dell’umana fatica.
Ci fermammo sul fondo di una delle gallerie della miniera, ed in lontananza vedemmo brillare, rare e fioche, le
lampade dei minatori. Mi sciolsi dall’abbraccio. La Gy mi
baciò appassionatamente sulla fronte, ma con tenerezza
materna, e mentre le lacrime le sgorgavano dagli occhi
disse: “Addio per sempre. Tu non vuoi che ti segua nel
tuo mondo... e non potrai mai tornare nel mio. Prima che
la mia famiglia si ridesti, le rocce si saranno richiuse su
questo precipizio, e non verranno riaperte da me, né da
altri, forse per epoche lunghissime. Pensa qualche volta
a me, e con bontà. Quando raggiungerò la vita che sta
oltre questa, ti cercherò. Anche là, il mondo assegnato a
te e al tuo popolo può essere cinto da rocce ed abissi che
lo dividono da quello in cui raggiungerò quelli della mia
razza che mi hanno preceduta, e forse non avrò il potere
di aprirmi la strada per riconquistarti come l’ho aperta
per perderti.”
La sua voce tacque. Udii il fruscio delle ali, simile al frullo
del volo di un cigno, e vidi i raggi del diadema stellato che
si allontanavano nelle tenebre.
Sedetti e restai immobile per qualche tempo, riflettendo dolorosamente. Poi mi alzai e mi avviai a passo lento
verso il luogo in cui udivo muoversi gli uomini. I minatori che incontrai mi erano sconosciuti, e appartenevano
ad un’altra nazione. Mi guardarono sorpresi, ma quando
constatarono che non sapevo rispondere alle domande
rivoltemi nella loro lingua, ripresero il lavoro e mi lasciarono passare. Alla fine, raggiunsi l’imboccatura della miniera, senza venir disturbato; fui soltanto interrogato da un
funzionario che conoscevo, e che per fortuna era troppo
indaffarato per parlare a lungo con me. Non tornai al mio
alloggio, ed il giorno stesso mi affrettai ad abbandonare
la località, dove non avrei potuto sottrarmi a domande
cui non potevo dare risposte soddisfacenti. Tornai sano e
salvo nel mio Paese, dove mi sono stabilito pacificamente ormai da molto tempo, dedicandomi agli affari, fino a
quando, tre anni fa, mi sono ritirato con un discreto patrimonio. Ho frequentato poca gente e non ho quindi provato la tentazione di parlare dei viaggi e delle avventure
della mia gioventù. Un po’ deluso, come la maggioranza
degli uomini, in fatto di amore e di vita domestica, penso
spesso alla giovane Gy, quando rimango sveglio a lungo
la notte, e mi domando come ho potuto respingere un
simile amore, nonostante i pericoli connessi e le condizioni che l’avrebbero vincolato. Tuttavia, più penso a quel
popolo che, in regioni escluse alla nostra vista e ritenute inabitabili dai nostri esperti, sviluppa tranquillamente poteri immensamente superiori ai nostri, e virtù cui la
nostra vita sociale e politica diviene sempre più ostile via
via che - la civiltà avanza, e più devotamente prego il
Cielo che trascorrano secoli prima che alla luce del Sole
emergano i nostri inevitabili distruttori. Poiché tuttavia il
mio medico mi ha detto francamente che sono afflitto da
una malattia la quale, pur non essendo molto dolorosa e
percettibile, può essermi fatale da un momento all’altro,
ho ritenuto doveroso nei confronti dei miei simili mettere
per iscritto questi avvertimenti sulla Razza Ventura. fine
65
Editrice Thule Italia
Pubblicazioni dell’Editrice Thule Italia
Novembre/Dicembre 2013:
I libri:
I calendari:
Per info e ordini:
http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/
66
Associazione culturale Thule Italia
SOSTIENI
L’ASSOCIAZIONE CULTURALE THULE ITALIA
• Sottoscrivendo l’abbonamento annuale
alla Rivista.
• Iscrivendoti come sostenitore all’Associazione previa lettura dello Statuto e Regolamento sul portale:
http://thule-italia.com/wordpress/
• Acquistando i Monografici dell’Associazione e i Libri editi dalla Thule Italia Editrice
sul portale:
http://thule-italia.org/ThuleItaliaEditrice/
• Diffondendo i nostri contenuti ovunque
ciò sia possibile.
Scarica

Altra Lettura - Thule