COURTESY ADEL ABDESSEMED/DAVID ZWIRNER. NEW YORK/LONDON (9)
Speciale Arte Intervista esclusiva con Adel Abdessemed
Il mondo brucia
ma io non
resto a guardare
Soldati, fiamme, detonatori. In Qatar l’artista
algerino porta un messaggio forte che c’interroga
sul nostro destino. Per cambiare rotta
Infanzia dorata e messaggi infuocati
A sinistra, Adel Abdessemed (1971, Costantina, Algeria) posa con alle spalle una famosa
opera creata con animali tassidermizzati. Sopra, in questo altorilievo in bronzo dorato
L’âge d’or sono raffigurati i suoi figli. Sotto, uno still del video Printemps, che rimanda alla
Primavera araba. In basso, Le Vase abominable.
di Francesca Pini
N
on ha paura di esporsi, di puntare il dito, di indignarsi. E non lo
fa dal pulpito lontano di Parigi,
dove vive e lavora, ma sul campo, con delle opere che non lasciano dubbi.
È arrivato ad affermare, pubblicamente, ad
Abu Dhabi, che il vero Islam è morto. E che
quello di oggi è anti-umano. Il mondo arabo dell’arte non si sottrae al confronto. E lo
dimostra questa personale di Adel Abdessemed che s’inaugura il 6 ottobre in Qatar, al
Mathaf, il museo di arte moderna di Doha.
Una mostra (curata da Pier Luigi Tazzi) che
non fa sconti alla realtà delle Primavere arabe, alla macchina del terrorismo, della guerra civile in Siria. Adel Abdessemed (algerino, nato nel ’71), artista di fama, conserva
quelle verità e convinzioni che rendono gli
uomini sensibili e coraggiosi in molte circostanze. Qualità umane respirate prima di
tutto in casa, fin dall’infanzia. Con un padre
che manteneva anche fratelli e sorelle arrivando così senza un quattrino a metà mese.
E con una mamma che, allora, cucinava solo
focacce con qualche oliva o spicchio di pomodoro, ma a fine mese – quando arrivava
la paga – faceva ricomparire in tavola i burek
alla carne, e i dolci. «Eravamo sempre felici,
anche quando mangiavamo poco», dice.
Sul fronte
Soldaten, disegni a carboncino,
a grandezza naturale (180 cm x
130 cm). L’artista racconta, senza
metafore, una cruda realtà che per
noi rimane solo televisiva. Al limite
del voyeurismo.
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Oggi, a sua volta padre, ha voluto fissare a
futura memoria il “periodo d’oro” dell’infanzia dei suoi quattro figli in un altorilievo,
in bronzo dorato, esposto in mostra. «Questo âge d’or non è astratto, non è una sublimazione, è una verità che vivo tutti i giorni
insieme a loro, e che contiene entusiasmo
per il futuro, però anche rimpianti per il
passato. Dai propri figli si apprende molto.
Brecht diceva di aver insegnato la politica a
sua madre, contrariamente a Barthes che
non insegnò nulla alla sua. La più grande
forma di libertà che voglio trasmettere ai
miei figli è quella di poter commettere degli
errori. Ho una piccola morale che mi arriva
direttamente dalla strada, quando vivevo a
Batna. Nella vita siamo solo degli invitati.
Non dobbiamo quindi saccheggiarla, ma
passarla agli altri, nelle condizioni migliori. Forse la Natura, un giorno, si sbarazzerà
di noi, visto che non l’abbiamo molto rispettata, del resto a essa non importa poi
nulla dell’Uomo, che rimpiazzerebbe con
qualcos’altro», dice l’artista. Altro momento
sentimentale è quella statua in mostra che
incarna sua moglie Julie, quasi canoviana
Venere, però di cristalli di sale. Ma qui poi
finisce la tregua degli occhi e della mente,
perché l’artista riparte dai temi scottanti.
Coltelli conficcati per terra, disegni di soldati a grandezza naturale. Siamo sul fronte,
ma sono battaglie diverse da quelle rinascimentali di Paolo Uccello. E poi il suo piede
che, in un video, distrugge un vero teschio
umano. «Sappiamo che potremmo cambiare il mondo giorno per giorno, se lo volessimo. Ho compreso molto presto che l’arte
non può rovesciare i governi, le dittature,
benché in una mia opera abbia fatto esplicito riferimento a Guernica. L’artista non
deve avere una strategia politica ma, sicuramente, uno scopo politico. Può insegnare,
incitare a vedere le cose da un punto di vista
diverso». Così ha fatto con quella scultura
raffigurante la tristemente nota ragazzina
vietnamita, nuda, colpita dal napalm. «Ho
usato una materia regale, preziosa quale
l’avorio trasformandola in un urlo, l’avorio
morto al quale ho restituito vita», spiega.
Uomo liquido. «Quando ero più giovane
non avevo i mezzi intellettuali per lottare
contro il genocidio in Ruanda, uno dei più
lunghi massacri della storia dell’umanità,
durato 17 anni e fatto a colpi di machete.
Se ben ricordo, contro quel genocidio non
si levarono le voci degli intellettuali, dei filosofi, per tutti era qualcosa di lontano, di
“africano” da far risolvere tra loro. Ricordo poi un altro episodio. Eravamo a Berlino quando gli Stati Uniti annunciarono il
bombardamento sull’Iraq. Non avendo per
scelta la tv a casa, siamo andati in un bar di
quelli dove si vedevano le partite. E quando hanno sganciato le bombe in diretta,
la gente ha applaudito. Per me è stato uno
choc. L’uomo contemporaneo non è più un
camaleonte che si adatta a tutto, è diventato
un uomo liquido». È così che oggi, verso la
Siria, siamo diventati spettatori passivi. Tra
le opere più dure di questa sua mostra, il video Printemps, in cui 14 galli vengono dati
alle fiamme (con le zampe cosparse di un
gel ignifugo, per farli rimanere illesi).
Abdessemed, spesso in cerca di una relazione con il feroce della vita (anche duettando
con un leone), coinvolge nelle sue opere an-
che animali, siano scimmie (Mémoire,
2012) o serpenti. Un uso dell’animalità,
quasi volesse ricordarci un nostro lato
oscuro. «Se io dialogo con gli animali è
anche per parlare delle nostre sofferenze. Davvero li considero come i miei
fratelli lontani. Per me non sono
delle metafore, dei simboli, come
fu nel caso di Beuys quando voleva spiegare un dipinto a una lepre morta. Fanno parte del mio
mondo fin da quando ero piccolo: a Batna c’erano asini, cani,
montoni, oggi la nostra società
tende a escluderli». Spesso ricorre anche all’imbalsazione,
una pratica sacrificale che non
lascia indifferenti. «Voglio sondare l’oscuro, sono come figure dormienti,
pronte a rianimarsi, voglio che l’osservatore
si confronti in maniera diretta con il senso
della morte. Non è qualcosa di negativo, ma
di positivo». Diversi sono le materie e i media che l’artista usa, ma per il disegno ha un
amore speciale. «Per me è un gesto primario, sensuale, erotico, di natura organica, che
associo a un’immagine sognata trasposta su
un foglio, un vero linguaggio che affonda in
un desiderio profondo. La mia sostanza. Per
me un’opera d’arte diventa importante nel
momento in cui va al di là dell’arte stessa.
Per parlare, appunto, dei disegni dell’uomo
preistorico nelle grotte di Lascaux, questo
pittore aveva addirittura costruito un’impalcatura per dipingere molto in alto, proprio
come poi avrebbe fatto Michelangelo per la Sistina. Quegli artisti avevano
già inventato un processo tecnico per
poter creare immagini che raccontassero con precisione ciò che vedevano nel
loro ambiente, come, per esempio,
la raffigurazione dei bisonti che
fanno pipì per tracciare un territorio». Nell’ultimo ripiano della
libreria, nel suo studio, c’è un
Corano, la Bibbia, Il Capitale di
Marx e il Vangelo, poi anche un
libro di Gheddafi e il libretto di
Mao. Questo mélange che cosa
vuol dire? «Che sono tutte delle
dottrine. Io non sono credente e
non ho dato alcuna educazione
religiosa ai miei figli. Mi ritengo
cosmico, Freud dice che un giorno l’uomo
potrebbe inventare una nuova religione...
Sono tutte religioni dogmatiche, con un Dio
geloso. Però rispetto le persone che hanno
una fede vera, perché questa impedisce loro
di ammazzare, violentare, rubare… nel mio
caso, ho bisogno di un dio sempre diverso, secondo i giorni… mi ritengo piuttosto
zoroastrista. C’è sempre una fiamma che
rimane accesa nei loro templi». E il riferimento a Nietzsche è per l’artista una costante: «Lui mette tutti contro tutti, ed è quello
che più mi interessa. Dove ho un problema
con questo filosofo è riguardo alla sua teoria
dell’eterno ritorno. Sarebbe terribile rivivere
la Crocefissione o Auschwitz».
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