Idee e società 55
Mercoledì 9 marzo 2011
Otto storie e uno sconosciuto nell’ultimo libro dello scrittore
Amos Oz
Attese ed enigmi
di LUIGI TASSONI
IL libro più recente dello scrittore
israeliano Amos Oz è un insieme
di otto racconti scritti come parti
di una medesima vicenda, con
delle individualità che s'innestano sulla linea continua di una collettività. “Scene dalla vita di un
villaggio” (Feltrinelli, pp.184,
Euro 16,00) dimostra come il genere del racconto sia oggi la maniera più adatta per puntellare i
momenti discontinui, frammentari e sospesi del mondo contemporaneo, molto meglio che nell'illusione della continuità e della
soluzione richieste al romanzo.
Ma il libro, naturalmente, ci racconta qualcosa di più.
Prima di tutto della presenza
dello sconosciuto che si insinua
nel corso monotono e familiare
dell'esistenza, e che fa pressione
sulla solitudine degli individui,
con una segreta intenzione: spazzare via il passato per costruire, a
proprio vantaggio, il futuro. E'
ciò che accade nel primo dei racconti di Oz, contrassegnato dal
senso dell'attesa, dell'abbandono, dell'inazione e contemporaneamente del radicamento. Chi ti
vorrebbe cambiare la vita, seppellendo il tuo passato, arriva subdolamente, come lo sconosciuto
che vuole far propria la vecchia
malandata fattoria di Arieh Zelnik, al limite del paese. Paradossalmente lo sconosciuto diventa
«ospite», e come in un racconto biblico, l'ospite non invitato si
sdraia accanto alla madre malata
di Arieh: «Eccoli tutti e tre: la signora padrona di casa, il figlio taciturno e lo sconosciuto che continuava ad accarezzarla e baciarla mormorando dolcemente che
tutto sarebbe andato per il meglio, carissima signora, tutto sarebbe stato bello qui, tutto si sarebbe sistemato» (p.23).
Se il racconto ha il tono di quelle lunghe attese silenziose delle
storie americane degli anni Trenta, in effetti si scopre nella semplice costruzione della frase di
Oz, tradotto da Elena Loewenthal, come una parabola paradossale sul fatto che lo straniero potrebbe essere nell'individuo a noi
più familiare, e viceversa, perché
dopotutto la familiarità è basata
sulla frequentazione, sulla convivenza, sulla condivisione, e sull'accettazione del sé e
dell'altro, ovvero comunque su una relazione. Un ipotetico finale per il racconto di
Oz, che come gli altri
del libro rimane sospeso sulla scena ultima, potrebbe ridursi a questa semplice
conseguenza:
l'estraneo diventa ospite, e l'ospite diventa
familiare semplicemente perché c'è,
perché è presente, come presente nella vita del figlio è la vecchia madre che lo vincola, lo limita, pur dando senso ad un'esistenza senza attrattiva alcuna.
E', dunque, la consuetudine a tenere legato l'uomo alla vita, ed è la
ritualità quotidiana nelle sue diverse accezioni a giustificare il livello sufficiente di una povera sopravvivenza, nella quale, come
scrive David Grossmann, l'uomo
commette l'errore di pensare all'altro come a un nemico da cui difendersi (“Con gli occhi del nemico”).
Storie senza storia: basta tutto
questo, sembra chiedersi ad ogni
pagina Amos Oz, a giustificare il
senso di una collettività, il senso
dello stare insieme? Badate bene
che l'estraneo, individuo o evento
e poi l'abbandona nel suo vuoto
mutismo, sospesa nell'angoscia
di questa presenza.
Dunque, il lettore non può che
essere colto anche lui dallo sgomento per i casi irrisolti di Oz. In
modo significativo essi si legano
anche ad una memoria che rischia di essere spazzata via dalle
urgenze del presente, come nella
storia dell'agente immobiliare
che vorrebbe comperare l'enorme casa con giardino, costruita
all'epoca della fondazione del villaggio, per demolirla e speculare
sul terreno edificabile.
Sarà la vecchissima casa, i suoi
odori, la sua atmosfera, le sue infinite stanze, a sedurlo, con la bella Yardena che, scalza, lo porta
con sé nell'enorme cantina, lo fa
sedere su una sedia a rotelle, immobile e prigioniero sereno in
uno spazio senza tempo: «E' uscita con la torcia, ha chiuso la porta
e io sono rimasto sulla sedia, immerso in una quiete profonda.
Sapevo che andava tutto bene, e
che non dovevo correre da nessuna parte» (p.112).
Attenzione: la storia è narrata
in prima persona dall'agente immobiliare, e ciò può rassicurare
un po' sul destino del narratore,
che non finisce in quella cantina,
e rimane aperto al finale che più
vi convince. Noi lettori non possiamo che farci sedurre dalle otto
rappresentazioni metaforiche di
Amos Oz, fino alla fine del libro
che tocca il picco della sua riflessiva inquietudine. Perché disegna uno scenario apocalittico, da
fine del mondo, di terra ribollente, di morti «per degenerazione
delle vie respiratorie», dove «tutti
figliano con tutti», dove l'umidità
invasiva popola di zanzare e insetti le stanze (p.179).
Questo mondo invivibile e reLo scrittore israeliano Amos Oz; in alto: la copertina del suo ultimo libro “Scene dalla vita di un villaggio”, composto da otto
pellente, prossimo al caos finale,
racconti
sembrerebbe sin troppo disgrache sia, si insinua proprio nella mancata. Il tono dolce e suadente drati con la montatura a giorno e ziato per occuparsi d'altro. E inconsuetudine dell'esistere come della narrazione di Oz indica pianse un poco. Qualche secondo vece non è così. In questa atmoospite inquietante che rimette in esattamente il suo contrario: l'in- appena. Nascose nel cassetto il lo- sfera di epidemia, veleni e morte,
gioco, dalle radici, la percezione quietudine, la perversione, l'ur- goro canguro di lana, andò a ti- che è comunque la consuetudine,
lo, che stanno dentro questa soli- rar fuori il bucato dall'asciuga- il vero evento è la comparsa di «un
del mondo.
biancheria e fin quasi a mezza- uomo sano e di bell'aspetto»
In controluce la narrazione pa- tudine della storia.
Del resto nelle abitudini del no- notte continuò a stirare e piegare (p.183), che viene additato come
cata e distesa dello scrittore israeliano nasconde un tranello, un stro scrittore che, come ci confida tutto, mettendo ogni cosa al suo nemico, seduttore di ragazze, ingranello che trapela dalla trama: il suo amico Abraham B. Yeho- posto. Infine si spogliò e andò a somma come un pericolo. Un pequella consuetudine, quella con- shua, «quando comincia a scrive- dormire. A Tel Ilan continuò a ricolo per chi è ormai destinato
tinuità di vita, quella monotonia, re se ne va di casa per almeno piovere a intermittenza per tutta all'autodistruzione? La consuesembrano essere una chimera, qualche giorno» (“Il lettore allo la notte» (pp.44-45). La lunga ci- tudine viene interrotta per poco:
l'uomo sparisce, e il
un profondo deside- specchio”), potremmo riconosce- tazione fa comprenbecchino dà la batturio che affonda nel re la cifra di una interruzione del- dere meglio al mio
ta finale: «I discorsi
passato
lontano, la piccola consuetudine quotidia- lettore il movimento
non servono a niendella
tanto da non appar- na, sotto la spinta di un evento so- incantatorio
te, comincia un altro
prosa di Oz, che cala
tenere più alla me- pravvenuto.
giorno torrido e biLa spinta del narrare è, in que- inesorabile sulla rimoria dilaniata della
sogna andare a lavostoria
israeliana sto caso, come un ospite scono- tualità quotidiana e
rare. Chi può lavorache, come dall'altra sciuto che si insinua e tenta la no- sullo svuotamento
re, lavori, fatichi e
parte palestinese di stra familiarità. L'inquietudine delle ragioni dell'attaccia. Chi non ce la
un crudele dramma di queste “Scene” si trova non nel tesa.
fa più, per favore,
Con lo stesso orecirrisolto, non trova fatto in sé ma nel momento in cui
che si degni di morisoluzione, non trova il fatto non si verifica; come, per chio attento dovremo
re. Chiusa la faccenesempio, nell'attesa paziente del- ascoltare in un altro
pace.
da» (p.184).
Amos Oz scrisse la dottoressa Ghili Steiner alla racconto il ritratto
Al termine del liqualche anno fa un fermata dell'autobus dal quale del vecchio padre, l'obro di Amos Oz ci aclibretto esemplare, dovrebbe scendere suo nipote che norevole Pesah Kecorgiamo che probache so ha goduto di invece non arriverà mai a desti- dem, che mantiene in
bilmente tutto il suo
servitù psicologica la
grande successo nel- nazione.
Il racconto dell'attesa si tra- figlia Rahel che lo ospita. Sotto villaggio somiglia al villaggio a
la scuola italiana, intitolato “Contro il fanatismo”. Nei brevi saggi sforma nell'incrocio di due soli- questa tensione che tiene lette- cui ciascuno di noi appartiene.
di quel libretto lo scrittore riper- tudini, quella della zia e quella del ralmente in vita il piccolo nucleo Pensavamo che le storie di Oz avcorre le ragioni umane di una nipote, fra altre solitudini, men- familiare, insieme a un paziente e venissero lontano da casa nostra,
convivenza, quelle che alimenta- tre una memoria tormentata ri- servizievole ospite che è uno stu- e invece ci attendono dietro l'anno l'estraneità fino all'odio, e spetto alla quale l'occasione per dente arabo, l'intruso scava pro- golo della strada. In questi racquelle che chiudono i limiti di un recuperare sarebbe stata buona, prio sotto la casa. Anche qui non conti sembra non esserci violenpaese (geografico e dell'anima) emerge con prepotenza negli sapremo mai chi o che cosa fa ru- za, la guerra sembra lontana (i
ad ogni possibile e pericolosa in- spazi quotidiani che aprono ad more nello scavare: si tratta di un caccia una sola volta passano soessa. Mentre sarebbe tragica l'in- rumore notturno, irregolare, di- pra le teste degli ignari partecitrusione.
Sintomaticamente “Scene dal- quietudine che sta nel non sapere scontinuo, subdolo, percepito panti ad una festa; p.168), e invela vita di un villaggio” parla di un che fine ha fatto il ragazzo (il rac- dapprima solo dal padre ottanta- ce non possiamo che chiamarla
paese, sempre lo stesso paese, nel conto non ce lo dice), tragica è in seienne, poi dalla figlia e dallo violenta la progressiva e invasiva
quale s'incontrano in occasioni effetti la fotografia di una gior- studente verso la fine del raccon- solitudine di un mondo che si isola e si annienta al ritmo delle ocdiverse i personaggi dei vari rac- nata piovosa al suo epilogo: «Si al- to.
Il rumore c'è, eppure è impossi- cupazioni quotidiane.
conti, e che però pare avere un zò e si piegò sul forno, tirò fuori il
Pensavamo di trovarci di fronconfine aperto, fatto di case con pesce e le patate, e buttò tutto nel- bile farlo cessare perché non si sa
da dove provenga esattamente né te a degli eventi inspiegabili, e inmuri trasparenti, dai quali è visi- l'immondizia.
Poi spense la stufetta, si sedette chi lo provochi. Il segnale pertur- vece abbiamo letto il racconto delbilissima l'impossibilità di una
felicità, o meglio di una felicità in cucina, si tolse gli occhiali qua- bante è insidioso, invade la notte la nostra impossibile normalità.
Il racconto
ha il tono
delle lunghe
attese
narrate
negli anni ’30
L’estraneo
diventa
ospite
e l’ospite
diventa
familiare
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