AUSER Volontariato di Forlì - Onlus
Associazione per l'Autogestione dei Servizi e la Solidarietà
XXII Concorso letterario
“DARE VITA AGLI ANNI”
Organizzato da AUSER Volontariato di Forlì – ONLUS
per racconti, poesie e racconti-testimonianza
SEZIONE SPECIALE
RESIDENZE PER ANZIANI
Elaborati Anno 2012
Indice
Residenza per Anziani “Paolo e Giselda Orsi Mangelli”, Forlì
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Matrimonio, Giuseppe Chiadini
La mia famiglia, Addolorata Compagnone
La grande sfida, Tonino Conti
Lavoro e hobby, Ezio Neri
I miei nipoti, Iviero Valli
Casa di riposo “Residenza Pietro Zangheri”, Forlì
- Una goccia d’acqua, Adele Babbini
- Il mio caro papà, Amina Benini
- Un’esperienza extra corporea, Piera Facibeni
- Figlio dei ricordi, Bruno Fiori
- Piacevoli aneddoti della mia vita, Amina Franchini
- La rondine infreddolita, Lidia Liverani
- Cara Giovanna, Maria Màgari
- Il terremoto del ’56, Ricciarda Perugini
- Alla divina Provvidenza, Ida Pierotti
- Preparativi di nozze, Domenica Prati
- Un simpatico ricordo, Chiara Raffaelli
- Il soufflé di Bice, Odette Reggiani
- Ragazzi scatenati e validi rimedi, Valentina Savini
- Cuore di mamma, Maria Assunta Tolomelli
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Residenza Sanitaria “Al Parco”, Forlì
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Arbeiten … Arbeiten … lavorare … Lavorare!,
Giovanni Ragazzini
Olio di fegato di merluzzo, Caterina Rinieri
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Casa Protetta “Madonna del Cantone”, Modigliana
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Io e la mia vita, M.L. D.
La mia avventura durante la guerra, A.P. “Il Gagno”
I ricordi di una vita, P.P.
Il libretto dei ricordi, E.S.
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Casa Protetta “San Vincenzo de’ Paoli”, Santa Sofia
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Amari profumi di una terra straniera, Aurora Lotti
Ringraziamenti
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Residenza per Anziani
“Paolo e Giselda Orsi Mangelli”
Forlì
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RICORDARE raccontando, fare affiorare i ricordi privilegiando la componente affettiva; parlare della propria esperienza di vita, condividendola con gli altri ma anche per riflettere su di essa!
É lo spirito che “anima” le storie raccolte: nei racconti i ricordi prendono la forma di storie e sono lo spunto per recuperare esperienze individuali significative, utili a valorizzare vissuti, personalità con caratteristiche uniche e irripetibili.
Raccontando, si rivelano dettagli che narrano di noi, della
nostra vita che si inserisce in quella di altri e di altri ancora, formando una “comunione” di esperienze in cui ciascuno (narratore e lettori) si sente coinvolto.
Le testimonianze rappresentano lo spaccato di un’epoca,
con usi e abitudini dimenticate che vale la pena recuperare
e tramandare.
Gli animatori della Casa di Riposo
P. e G. Orsi Mangelli
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MATRIMONIO
Giuseppe Chiadini
Quando mi sono sposato vivevo a Galeata.
Nella zona chiamata “Pantano” c’era la chiesa dell’unico prete che
conoscevo, naturalmente solo di vista.
Quando andai da lui a chiedere di celebrare le nozze, prima di accettare l’incarico mi chiese per quale partito votassi.
Quando gli risposi che votavo comunista, mi disse che era peccato
mortale e stando così le cose non poteva sposarmi.
Arrabbiato stavo già andando via quando mi chiese di tornare indietro, assicurandomi che avrebbe risolto il problema facendomi fare la
“confessione”, solo così avrebbe potuto sposarmi!
In realtà, ho sempre pensato che dopo la mia confessione il parroco
fu felice, soprattutto di potermi chiedere i soldi per il matrimonio.
Avevo 23 anni, era il 1947 e gli diedi 10 lire, che per l’epoca “erano
soldi”, duramente sudati da me che facevo il contadino.
Il giorno delle nozze i genitori mi regalarono un vestito di colore
chiaro, un classico giacca e cravatta a cui però non ero abituato: ricordo di avere tenuto la cravatta larga tutto il tempo perché mi dava
fastidio!
La conservo ancora nell’armadio.
Mia moglie era davvero bella ed elegante con camicia e gonna bianca, le scarpe avevano un po’ di tacco.
In chiesa erano venuti parenti e amici, che a fine messa ci fecero una
grande festa con il lancio del riso, applausi e il volo di una coppia di
“tortorine” bianche.
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La commozione era tanta in quei momenti.
Per il rinfresco andammo tutti a casa di parenti, che avevano preparato tagliatelle e tortelli fatti in casa “annaffiati” da un buon vino.
A fine serata ci trasferimmo a casa mia a ballare a suon di sassofono
e fisarmonica.
La festa fu riuscitissima, non posso lamentarmi!
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LA MIA FAMIGLIA
Addolorata Compagnone
La mia è una famiglia numerosa. Ho 3 figlie femmine e un maschio
ultimogenito che sono il mio orgoglio. Ho anche 7 nipoti che adoro e
che mi vengono a trovare spesso. Sono felice quando i miei parenti
mi vengono a fare visita perché con la mente ricordo spesso alcuni
episodi legati alla loro infanzia. Chi immaginava che una delle mie
nipoti Silvia, crescendo sarebbe diventata uno dei più bravi avvocati
di Roma! E pensare che quando era piccola, dormiva nella culla accanto al mio letto. Era l’unico luogo in cui si sentiva tranquilla quando i genitori erano assenti per lavoro e l’affidavano a me, alla nonna!
Simone e Beatrice, invece, sono i figli del mio ultimogenito. Beatrice
è la nipote più piccola, ha 6 anni ma non si direbbe proprio: è sveglia, vivace come non mai e ha proprio una bella parlantina! Ha un
linguaggio più esteso di quello degli altri bambini e a volte mi fa
quasi paura sentirla parlare! Suo fratello Simone ha 18 anni e proprio
quest’anno ha conseguito la maturità con buoni voti. Ancora non so
quale percorso sceglierà per il futuro, ma sono convinta che farà strada nella vita. Sono curiosa ed emozionata allo stesso tempo! Tutto
ciò che desidero sia per i miei nipoti che per i miei figli è che loro
siano in salute e che vivano la loro vita con onestà. E che si ricordino
sempre della loro nonna e mamma che stravede per loro!
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LA GRANDE SFIDA
Tonino Conti
Io, pugile dilettante, sto attraversando un buon momento agonistico,
quando la Federazione pugilistica organizza ad Ancona un avvenimento tra Aeronautica e Marina Militare. Sono chiamato in forza
all’Aeronautica e i miei dirigenti mi dicono che il mio rivale è un pugile di 30 anni di grande esperienza, che potrebbe essere un brillante
professionista, ma che da tempo permane nella stessa categoria perché gli piace vincere. Ha disputato molti incontri, pareggiandone
qualcuno, ma soprattutto vincendo. Un unico difetto: si allena poco
poiché, con la sua esperienza, conta comunque di vincere. I miei dirigenti visionano i suoi ultimi incontri e mi fanno capire che posso
farcela. Il mio allenatore, pugile di grande esperienza, un vero volpone nel suo campo, mi dice che Bisterzo (questo il nome del mio avversario) ha un potente destro con cui colpisce alla mascella, per cui
non dovrò mai scoprirmi da quel lato.
L’incontro inizia. Sono attento e vigile nonostante venga colpito da
tutte le parti. Io incasso gran parte dei pugni ricevuti sui guantoni. Mi
difendo e spesso incontro la disapprovazione del pubblico, che fischia e qualcuno urla: “Bisterzo, buttalo giù!”. Dopo cinque riprese,
vedo il mio rivale sudare, avere il fiato corto. Dal mio angolo mi urlano che mancano solo due riprese e mi incitano. Attacco a tutta birra, rimanendo sempre con la guardia coperta a destra. Nel mio rivale
vedo un pugile stanco, che si fa contare fino a otto per riprendere un
po’ di respiro. Manca una ripesa; gli spettatori tutti in piedi. Colpisco
a più non posso; il mio rivale è allo stremo e mi dà una testata. Interviene l’arbitro, che ferma momentaneamente l’incontro e ammonisce
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Bisterzo. Il mio rivale non riesce più a tenere alte le braccia per la fatica, fra poco dal suo angolo avrebbero gettato la spugna, ma per Bisterzo sarebbe una sconfitta troppo umiliante, per cui mi dà un’altra
testata e mi colpisce alla fronte. L’arbitro ferma la gara e decreta la
sconfitta di Bisterzo, squalificandolo anche per sei mesi dalle gare.
Gli spettatori che prima mi hanno coperto di fischi mi applaudono e
mi osannano comprendendo che la mia tattica è stata l’unica in grado
di sconfiggere il campione. Così gli ho impartito una lezione: nello
sport bisogna anche saper perdere!
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LAVORO E HOBBY
Ezio Neri
Non appena il caldo sole dell’estate si fa sentire, il mio primo pensiero va ai miei due nipoti, Matteo e Luca, lavoratori nell’azienda frutticola di famiglia. Eh sì, perché, mentre tutti gli altri vanno in vacanza,
ai miei nipoti tocca lavorare più degli altri: è l’estate la stagione in
cui si raccogliere la frutta! A luglio si comincia con le pesche, poi a
settembre si finisce con l’uva. C’è sempre un grandissimo traffico
nell’azienda in questo periodo, perché arrivano tantissimi camion per
farsi consegnare le cassette di frutta per poi distribuirle ai supermercati. Non per vantarmi, ma le pesche della nostra azienda sono davvero speciali, tanto che le vendiamo anche fuori regione e addirittura
all’estero!
La stima di frutta venduta ogni anno è di oltre 300 quintali: è davvero
una grande quantità e immensa è la soddisfazione dopo la grande fatica sostenuta!
In autunno e in inverno, per fortuna, i miei nipoti non sono così impegnati nell’azienda: l’unico lavoro è curare il terreno e gli alberi ma
esso non incide come in estate, per cui si possono dedicare ai loro
passatempi preferiti. Infatti, mio nipote Matteo adora andare a caccia.
E’ una passione che gli ho trasmesso io perché anch’io amavo molto
la caccia. Quando non ho più potuto farlo, gli ho regalato il mio fucile e quello del mio babbo, affinché potesse portare avanti la tradizione di famiglia.
A volte, io e lui facevamo a gara a chi avvistava per primo un animale e poi gli sparavamo: mio nipote ha proprio una mira eccellente e
raramente sbaglia un colpo!! Dopo ogni mattinata passata a cacciare,
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tornavamo a casa pieni dei “frutti” del nostro lavoro: pernici, fagiani,
cerbiatti, conigli, ecc.
E cosa c’è di meglio che gustarsi un bel piatto di pasta fatta in casa
col sugo prodotto dalle carni che noi avevamo orgogliosamente cacciato?
Anche a mio nipote Luca piace andare a caccia, ma predilige un altro
tipo di prodotto: i tartufi.
Quando ha in programma di andare nei boschi per raccogliere i tartufi, si sveglia la mattina prestissimo e parte insieme al suo cane che ha
veramente un fiuto eccezionale. Ne trova talmente tanti che si fa la
scorta per tutto l’anno e, se addirittura ne avanzano, li regala ai suoi
amici.
Con i miei nipoti scherzo e dico che cibo e soldi non mancano nella
loro famiglia, ma tutto è prodotto con fatica e dedizione: sono veramente orgoglioso di loro!
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I MIEI NIPOTI
di Iviero Valli
Quando penso ai miei nipoti mi viene da dire innanzitutto che sono
proprio dei “girandoloni”. Hanno tutti la loro vita fuori regione e solo
una vive nella mia stessa città. Il mio unico nipote maschio si chiama
Paolo; ha 30 anni e gestisce un bar nella città di Ostia. Ha fatto vari
lavori prima di arrivare a quello attuale e spero che adesso sia soddisfatto del suo impiego e che riesca a “campare”!
Un’altra nipote si chiama Stefania. Ha più o meno la stessa età di suo
cugino Paolo, ma c’è una differenza importante: Stefania vive in un
paesino vicino al lago di Garda ed è farmacista. Poiché è lontana, non
riesce a tornare a Forlì molto spesso e la vedo poco ma quando arriva, per prima cosa mi viene a trovare, poi passa a salutare le amiche a
cui è ancora legata. Sua sorella maggiore, Alessandra, è l’unica rimasta a Forlì. Ha 40 anni ed è un’impiegata in un’azienda della città.
Sono molto legato a tutti i miei nipoti, in particolare ad Alessandra
che ho visto crescere. Ci accomuna quasi lo stesso carattere e abbiamo fatto diverse esperienze insieme. Mi ricordo che, quando Alessandra era piccola, eravamo soliti andare con tutta la famiglia a fare
passeggiate e gite in montagna. Le nostre mete preferite erano le Dolomiti, Genova e anche la Campigna forlivese. Durante una di queste
nostre passeggiate in mezzo ai boschi delle Dolomiti, mia nipote, che
all’epoca aveva 3-4 anni, era insofferente perché doveva andare urgentemente in bagno. Le suggerii di appartarsi un momento vicino a
un tronco e lei mi obbedì. Dopo neanche 20 secondo, la sentii forte il
mio nome e la vidi avvicinarsi a me piena di eccitazione. Mi domandai cosa fosse successo, ma mi fece cenno di seguirla e poco dopo fu
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svelato il mistero: aveva trovato un fungo accanto all’albero dove si
era sistemata! Lo presi subito per accertarmi della specie e lo riconobbi: era della specie “mazza del tamburo” ed era pure commestibile! Da quella volta siamo sempre andati insieme a cercare funghi:
immensa era la soddisfazione di tornare dalla ricerca e mangiare un
bel piatto di tagliatelle con ragù di funghi!
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Casa di Riposo
“Residenza Pietro Zangheri”
Forlì
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Come ogni anno accogliamo con entusiasmo l'invito a partecipare al concorso letterario “Dare vita agli anni” promosso
dall'AUSER di Forlì.
Da quando si è formato, tra gli ospiti della Residenza Zangheri, il Gruppo V.I.T.A., dove V.I.T.A. Significa Vivere Insieme
Tanti Anni (nome che si è spontaneamente attribuito il gruppo), la condivisione e la socializzazione sono all'ordine del giorno. Infatti, gli ospiti che lo desiderano, quotidianamente si incontrano per svolgere insieme attività di vario genere, e il
concorso letterario ben si sposa con i nostri propositi, regalandoci un'occasione in più di confronto e dialogo.
Parlare di noi, del nostro vissuto, ci unisce, non fa che saldare
il legame di amicizia che si è creato negli anni. A volte il racconto di qualcuno ci commuove, altre volte fa nascere una
spontanea e contagiosa risata, ma la vita è così: si avvicendano momenti difficili ad altri piacevoli e pensiamo che condividerli e rielaborali in gruppo possa servirci a ridonare significato a noi stessi, a ciò che abbiamo fatto e a ciò che siamo diventati grazie alle nostre esperienze e alle nostre scelte. Come
si dice, siamo “biblioteche viventi” ed “opere in dinamico divenire”: ogni racconto è un quadro dipinto con i toni intensi
dell'individualità e siamo felici di trasmettere le nostre memorie, ciò che più intimamente ci definisce, all' AUSER in qualità di depositario delle nostre preziosità.
Gruppo V.I.T.A.
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UNA GOCCIA D’ACQUA
Adele Babbini
Era limpida goccia dondolante,
sul curvo ramoscel d’un biancospino
innamorata del sol di levante,
lo rinfrangeva in sé come un rubino;
cader non voleva, ma un uccellin,
volò sul ramoscel tremante:
cadde la goccia e lo smeraldo fino,
fu loto sotto il piè del viandante.
Oh! Chi gli rende i suoi perduti onori?
Come potrà tornare casta e tranquilla
a tremolar sui fiori?
Ben lo potrà nel divin sol che brilla a sé
Coi rinnovati ardori, l’anima umana
E la divina stella.
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IL MIO CARO PAPA’
Amina Benini
Il nome che porto è un regalo di mio padre, che mi volle chiamare
così poiché era appassionato di musica lirica e Amina è il nome della
prima donna dell’opera “La Sonnambula”.
Ho mille bellissimi ricordi di mio padre, che purtroppo morì molto
giovane in un incidente stradale: era in sella al suo motorino, carico
dei suoi amati burattini quando un’auto lo investì .
Mio padre di professione faceva il “compositore tipografo” e si dilettava anche a scrivere poesie in dialetto romagnolo, ma per arrotondare lo stipendio (aveva una moglie e sette figli da mantenere), creò
una simpatica compagnia teatrale composta da lui stesso, una delle
mie sorelle e naturalmente i burattini, che portava in giro per tutta la
Romagna, facendo divertire un pubblico di grandi e piccini grazie a
storielle e fiabe inventate da lui. Aveva un grande talento e una passione sfrenata per la scrittura … tutti lo conoscevano.
Mio padre faceva anche il fotografo in occasione di feste patronali o
fiere di paese. Quella volta in occasione della festa di S.Antonio a
Monte Paolo accadde qualcosa di singolare.
Come sempre aveva con sé la macchina fotografica, che allora era
uno strumento davvero ingombrante, cioè una grande cassetta, con il
cavalletto e le lastre per le foto.
Quando doveva fare una foto, si copriva la testa con un telo nero, copriva anche l’obiettivo e lo scopriva solo al momento dello scatto,
consistente nello spingere una “peretta” che faceva scattare un lampo
di luce.
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Le foto venivano poi sviluppate in cinque minuti, poiché nella cassetta di legno erano due scomparti contenenti acidi, dove si immergevano le foto, per poi lasciarle asciugare, indi venderle.
A Monte Paolo, il babbo aveva fatto varie foto ad una signora, che
guardandosi e vedendosi brutta disse:” Non sono io quella lì! Non
compro nessuna foto!” Eppure i vestiti erano proprio quelli che indossava, ma non ne volle sapere niente.
Mio padre tornò a casa molto dispiaciuto e ci raccontò che non le
volle neppure in regalo! Le sue parole furono:” An so stè padron ad
deglia, gneca par gnit!”
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UN’ESPERIENZA EXTRA CORPOREA
Piera Facibeni
È ormai passato molto tempo ma ricordo con chiarezza quello che
successe a mio marito.
Allora aveva 62 anni ed ebbe una perforazione all’ulcera; lo feci portare all’ospedale, ma aveva perso molto sangue e per tutta la mattina
seguente rimase in coma, io ero preoccupatissima.
I medici si adoperarono al meglio facendogli tre trasfusioni di sangue.
Nel pomeriggio finalmente riaprì gli occhi e quando mi vide per prima cosa mi disse: “Perché sono tornato di qua? Ero in un posto bellissimo, c’era una musica così soave e vedevo fiori meravigliosi ovunque!”
Credo che questa possa essere stata per lui un’esperienza, se pur breve dell’Al di là. Dopo qualche anno purtroppo morì e da 22 anni sono vedova, spero tanto che lui sia nel luogo luminoso e soave che aveva già visto e che si dedichi alle sue passioni appunto che erano
proprio la musica e i fiori.
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FIGLIO DEI RICORDI
Bruno Fiori
Io mi sento molto legato all’epoca storica del 1800, se potessi tornare
indietro vorrei vivere in quegli anni.
I miei genitori sono sempre stati per me un importante punto di riferimento, mia madre specialmente che è stata sempre con me e mia sorella. Con i suoi racconti mi faceva rivivere i momenti della Prima Guerra
Mondiale, quella del ’15-’18.
L’Italia contro l’Austria per la riconquista di Trento e Trieste.
Mio padre e mio zio hanno combattuto in quella guerra, e fortunatamente sono tornati a casa.
Mio zio era un ortolano dato che la sua famiglia curava un piccolo appezzamento di terreno a mezzadria. A lui non piaceva fare quel mestiere e quindi si arruolò spontaneamente. Mia madre diceva che era un
vagabondo; secondo me non sapeva cosa lo aspettava.
Quella fu una guerra di trincea, non come quella che seguì più tardi,
che fu di “movimento”.
I poveri soldati dovevano rimanere tutto il giorno mezzi sepolti appunto
in trincea, a contatto con fango e sporcizia. Erano al freddo e dovevano
sopportare la fame. Erano obbligati a sparare al nemico poco distante in
momenti prestabiliti della giornata.
Quando veniva la sera i soldati potevano comunicare col nemico, era un
momento di “amnistia”, si scambiavano sigarette e forse un po’ di calore umano. Poi all’alba, anche contro la loro volontà, erano costretti a
sparare pure a chi aveva diviso con loro magari un pezzetto di pane.
Chi disertava veniva fucilato.
Quando la guerra terminò mio zio fece ritorno a casa malato di tubercolosi e mia madre raccontava che fece tanta fatica ad ottenere la pensione di guerra.
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PIACEVOLI ANEDDOTI DELLA MIA VITA
Amina Franchini
Di cose brutte nella mia vita ne ho viste tante, durante la guerra ho
visto morire molte persone anche a me care, ma non mi va di parlarne. Ormai è stato detto molto su queste tragiche vicende, che hanno
segnato tutti noi. Vorrei invece raccontarvi degli episodi simpatici
della mia vita per sorridere un po’ insieme.
Da piccolina non ero molto propensa a salire a bordo dei mezzi di
trasporto altrui.
Quando avevo quattro anni andavo con la mia mamma e la zia a
pranzo da mia nonna. Dopo mangiato la nonna cercava sempre di
farmi fare il riposino pomeridiano, ma io ero sempre sfuggente. Quel
pomeriggio stranamente era riuscita a convincermi, ma ho fatto prendere a tutti un grande spavento. Quando mi sono svegliata la nonna
dormiva e la mamma e la zia erano uscite. In quel momento mi sono
ricordata che la settimana precedente eravamo andate tutte assieme in
un’osteria poco distante ed ho immaginato che fossero là anche quel
giorno. Senza svegliare la nonna, ho indossato il mio cappottino blu
da marinaretto con i bottoni dorati e con l’ancora che mi piaceva tanto, e sono uscita per andare a cercare la mamma. Dopo aver camminato per un po’ ho raggiunto quel posto ed ho chiesto alla signora:
“Dov’è la mia mamma?”. La poverina non era in grado di rispondere
perché non sapeva di chi stessi parlando! Fortunatamente c’era un signore che conosceva la mia mamma e si è gentilmente offerto di riportarmi a casa con il suo motore. Pover’uomo, quanto l’ho costretto
a pregare prima di acconsentire a salire sul suo motore! Arrivati a casa ha raccontato alla mamma, disperata perché non sapeva più dove
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cercarmi, che per convincermi aveva dovuto comprarmi un pacchetto
di caramelle. La mamma, dopo averlo ringraziato enormemente, mi
ha chiesto il motivo per cui non volevo proprio accettare il passaggio, ed io ho risposto: “Perché era brutto!”
Mia sorella, quando aveva dieci anni, si era appropriata di questo aneddoto per un tema scolastico. Nel quale si chiedeva di raccontare
una “vicenda particolare”, fingendo di essere lei la vera protagonista!
Finalmente posso raccontarlo io!
Poco tempo dopo si è verificata un’altra situazione simile. Avrò avuto cinque anni, ero uscita con la nonna per raggiungere a piedi la casa
di un amico del nonno che ci donava spesso delle cose da mangiare.
La strada era lunga e dopo un po’ mi ero stancata di camminare, per
cui la nonna aveva chiesto ad un ciclista di passaggio di caricarmi
sulla canna della bici. Ho fatto un bel tratto di strada a bordo di quella bici ma, ad un certo punto, sono voluta scendere a tutti i costi.
Quando mia nonna mi ha raggiunta, mi ha chiesto il motivo delle mie
insistenze ed io ho risposto che non volevo più stare lì. Quel signore
mi diceva di spostarmi sempre un po’ più indietro perché aveva la
gomma anteriore sgonfia, ma io, anche se ero piccola, avevo capito
che c’era qualcosa che non andava.
Un altro episodio che ricordo volentieri è riferito alla mia passione
per il lavoro ai ferri.
Ho fatto molti capi a maglia, soprattutto per mia figlia. Un giorno è
venuta da me supplicandomi di confezionarle una maglia che aveva
visto in una vetrina. Era di Enrico Coveri, veramente molto bella ma
anche difficile da rifare. Inizialmente ho cercato di svincolarmi ma
mia figlia Cinzia insisteva, poiché si era proprio innamorata di quella
maglia. Non so quante volte sono andata davanti alla vetrina a studiare quella maglia per capire come fosse fatta: era piena di ricami di
tutti i colori su un fondo nero. Alla fine sono riuscita nell’impresa.
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Una sera Cinzia ha indossato quel capo per andare ad una festa e lì
un ragazzo le si era avvicinato per chiederle dove l’avesse comprata.
Alla risposta che gliela avevo cucita io, il ragazzo ha detto di essere
un negoziante che vendeva proprio quelle maglie e che aveva capito
che non faceva parte di quelle del suo negozio, in quanto il cotone da
me usato era di qualità migliore: è stata un’enorme soddisfazione!
Successivamente mia figlia mi ha chiesto di fargliene un’altra uguale,
ma su fondo bianco.
A parer mio, però, era più bella la prima, dato che sul nero risaltavano di più i colori.
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LA RONDINE INFREDDOLITA
Lidia Liverani
Era una fredda mattina d'aprile quando, affacciata alla finestra della
cucina, vidi per strada una rondinella che non riusciva a volare. Preoccupata, dato che passavano delle auto, chiamai subito mio marito,
pregandolo di uscire a prenderla.
Quando la portò in casa era infreddolita e per scaldarla l'ho tenuta fra
le mie mani, ma il calore non bastava a farla riprendere, così prendemmo una scatola da scarpe, la scaldammo ben bene, facemmo
molti piccoli buchi e la posammo lì dentro chiedendo il coperchio.
L'abbiamo tenuta in casa fino a tarda mattinata, quando l'aria si era
un po' intiepidita. La rondine si stava riprendendo, poiché la sentivamo dimenarsi dentro la scatola. Volevamo quindi liberarla, ma sapevamo che le rondini spiccano il volo solo se si trovano in alto. Così
andammo dietro casa, sulla collina del parco di San Paolo, la misi sul
dito della mia mano e provai a darle una bella spinta verso l'alto incitandola al volo. La rondine partì, ma non riuscì a prendere quota e
sfiorò quasi il pavimento tanto il suo volo era basso. Ma da lì riuscì
in qualche modo a prendere forza e la vedemmo allontanarsi in cielo:
andava verso levante.
La seguii con lo sguardo finché la vista me lo permise e mi commossi quando la vidi lassù, sopra il campanile della chiesa. Immaginai
che stesse andando dai suoi piccolini che l'aspettavano.
In quel momento l'emozione era tanta che avrei scritto una poesia.
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CARA GIOVANNA
Maria Magari
Cara Giovanna,
ti ho conosciuto talmente poco, che il mio cuore è ancora incredulo
ma felice di saperti presente qui con me.
Quando mi vedevi era una grande gioia anche per te.
Cara Giovanna,
quando ti parlavo e ti accarezzavo, tu con il tuo sguardo e il tuo sorriso mi rispondevi con tanta dolcezza e amore: eri felice, almeno così
dimostravi.
Io ti sentivo vicina a me come una sorella e cercavo di alleviare le tue
pene: questo mi faceva sentire utile e stavo meglio anche con me
stessa.
Ho un carattere molto sensibile e mi ferisce chi mi manca di rispetto.
In quei momenti i pensieri si affollano nella mia mente e fanno tanto
rumore da farmi male, ma con te riuscivo a non pensarci.
Grazie per avermi donato la grande gioia di poterti stare accanto;
porterò questi ricordi sempre nel cuore.
Sono entrata in chiesa, felice di pregare per te con mia figlia Luisa,
abbiamo pianto tutte e due: Don Tito ha capito.
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IL TERREMOTO DEL ’56
Ricciarda Perugini
Mese di Giugno. Avevo appena appoggiato a terra Leandro di 10
mesi, che ancora non camminava, quando un violento scossone me lo
rimbalzò fra le braccia.
Il pavimento tremava e scappava di sotto i piedi: dove andava?
Era un sabato sera sul crepuscolo, mia madre era con me.
Il sole aveva ancora il coraggio di stare a vedere la seconda scossa,
che era la più temuta; quasi tramontava sullo sfondo della Campigna,
ma resisteva alla sfida della Terra: la sua distanza lo teneva al sicuro.
Incominciarono a cadere i quadretti, si ribaltavano sedie coi cuscini e
i giocattoli di gomma.
Leandro piangeva per il suo orsetto che era a terra.
Poi, o subito, cominciò a muoversi il neon, che appeso ad una catenella, prendeva sempre più slancio, come un acrobata al trapezio.
Per colmo di assurdità io pensavo alle oscillazioni, studiate da Galileo, ma senza un terremoto di base, perché poi il neon cadde, come
eccezione alla regola. Tutto scricchiolava.
Ci mettemmo sotto l’architrave del muro portante, ma il richiamo
delle scale venne subito a tentarci: erano a sbalzo, ma volevamo
scendere dal secondo piano.
Mia madre di corsa si faceva forza, urlando, io col coraggio dei disperati, la seguivo, in silenzio, staccando i piedi dal gradino, che parevano incollati.
La ringhiera a lato che risuonava, Leandro attaccato a me che ripeteva: “mambo, mambo …”, la sua unica voce era, per quei tremila scalini, un invito a proseguire.
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Toccato il fondo, le mie gambe non rispondevano più al cervello: che
fare, dove andare?
Ricordavo il terremoto di San Francisco, quando la terra si apriva,
inghiottiva persone e cose e poi si richiudeva.
Da noi non era mai capitato, ma come non pensarlo?
Quella situazione a prova di nervi durò un mese.
Leandro cresceva ed io continuavo ad essere ospite di chi aveva il
pianoterra, poi crollai e venni qui a Forlì, presso una signora trovata
da mio padre, che ci allestì in fretta una camera di emergenza: fu generosa ed ospitale.
Poi mi seguì mia sorella.
Leandro era badato a vista da noi, ma ci cadde due volte dal letto matrimoniale.
Silva con Monica era ospite della zia Adriana che abitava lì vicino.
Aurora mi indicò delle viuzze, per me segrete, che da via Bolognesi
mi portarono al mercato delle arance, in Piazza delle Erbe (Piazza
Cavour): il prezzo era buono, ma care le mie arance: quel labirinto
non lo ripeterei più.
Ho sempre incontrato nel mio cammino persone buone e gentili, anche se estranee pronte ad aiutarmi, ma io che sono timida, non ho
mai approfittato.
Aurora comunque era una lontana parente, da parte dei Berti, ma io
ancora non lo sapevo.
Ritornammo a casa quando la radio comunicò che le ultime scosse
erano ormai di assestamento, ma quali ultime? La terra continuò a
ballare per tutta l’estate.
Imparammo a convivere con le scosse giornaliere, a raccogliere quello che ci cadeva ai piedi senza piangere, a dormire vestiti coi materassi al piano terra, a fare il bagno con la porta aperta, a mangiare,
qualche volta chiudere il gas e scappare in ciabatte, a ritornare in si30
lenzio, sempre aspettando al scossa seguente, la più grossa che fedelmente arrivava.
Il nostro pensiero era sempre al vulcano di Bagno di Romagna: una
vera atomica inesplosa, che dava l’acqua termale ai suoi abitanti, ma
a noi solo danni: eravamo dei vicini noi Bidentini, sudditi medievali
di quelli della valle del Savio.
E poi non c’era ancora la diga di Ridracoli, che è nel territorio di Bagno, ma quando salterà sarà tutta nostra, per un diritto di locazione e
di cammino.
Nonostante ciò, rimaniamo abbarbicati a quella terra e ne sentiamo la
lontananza, anche si ci “sbatacchia come canne al vento”.
È il richiamo delle radici di nascita, che ci vuole con sé e che noi vogliamo sentire.
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ALLA DIVINA PROVVIDENZA
Ida Pierotti
Liberami dai ricordi nefandi
carichi di ironia devastante
Portami nelle pianure verdi
dove il sole fa crescere le gramigne
e la zizzania ai margini
Portami ricordi carichi
di promesse e perdoni
dove il cielo si unisce alla terra
in missione di amore e fratellanza
Ridonami i primi albori
fioriti di speranza
e “l’inconscio” dialoga con l’infinito
L’abbraccio Divino
freni il nostro ardire
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PREPARATIVI DI NOZZE
Domenica Prati
Ho conosciuto mio marito nel 1947, quando è ritornato dalla guerra.
Abbiamo passeggiato parecchie domeniche insieme, da Terra del Sole fino a Castrocaro.
Una sera finalmente, dopo aver ricevuto il permesso dalla mia famiglia, l’ho invitato in casa a conoscere i miei genitori e gli zii, tutti
l’hanno accolto con piacere.
I miei genitori si sono fermati un po’ con noi, poi ci hanno lasciati
soli e prima di andare a dormire ci hanno detto queste poche ma significative parole: “Siete grandi tutti e due, buona notte”.
Dopo tre anni abbiamo fissato la data del matrimonio.
Siamo andati a vedere insieme i mobili.
Mio zio poi venne con noi e scelse lui quelli più costosi: era il suo
regalo di nozze.
A Forlì abbiamo comprato la lana perché mia mamma ci facesse i
materassi.
Una sera poco prima della data importante venne mio marito a prendere il mio baule contente il corredo e lo portò a casa sua, dove saremmo andati ad abitare.
Le due sere seguenti venne a prendere i materassi; io li avevo arrotolati stretti stretti e messi in due sacchi, così mia cognata mi preparò il
letto.
Andammo dal Parroco per fissare la data, ma quel giorno doveva celebrare un altro matrimonio, così rimandammo al sabato dopo, per-
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ché si diceva che non si potevano celebrare due matrimoni lo stesso
giorno, in quanto uno sarebbe finito precocemente.
Arrivò finalmente il grande giorno e alle ore 5.30 del mattino ci presentammo in Chiesa a Terra del Sole. Io arrivai con mio zio e mio
marito Pietro con un suo amico, eravamo in quattro e dopo la messa
mio zio ed io siamo tornati a casa nostra e mio marito con l’amico si
diressero a casa loro in bicicletta poiché abitavano a San Varano.
Ognuno ha pranzato con le rispettive famiglie, come se niente di
nuovo fosse accaduto.
La sera di quel giorno mio marito venne a prendermi a casa con sua
sorella, io mi portai un piccolo bagaglio con le ultime cose e in bicicletta andai verso quella che sarebbe stata la mia nuova casa.
All’arrivo trovai mia suocera che mi aspettò per darmi il benvenuto
nella nuova famiglia.
Non ho nemmeno una foto di quel giorno, e chi poteva permettersi il
fotografo a quei tempi! Ma il ricordo è stampato nella mia memoria.
Il giorno dopo mia suocera organizzò per noi giovani sposi un bel
pranzo, lei cucinò l’arrosto ed io feci i passatelli.
Così son passati gli anni, lavoravo per la famiglia di mio marito facendomi carico anche dei compiti più pesanti, ma ero abituata e non
mi seccava, per questo mi hanno voluto tanto bene.
Ricordo che abbiamo festeggiato il nostro 50° anniversario di nozze:
feci io i centrini all’uncinetto per le bomboniere e andammo con tutti
i parenti al ristorante.
Mio marito ed io siamo stati insieme 60 anni e ci siamo voluti tanto
bene, forse più da vecchi che da giovani.
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UN SIMPATICO RICORDO
Chiara Raffaelli
Mio padre si chiamava Angelo Raffaelli, era conosciuto a Forlì come
“Angiolino”, per la sua esile figura, il berretto con la visiera calcata
sulla testa e gli spessi occhiali da vista. Dimesso nel vestire, ma
nell’animo arguto e nel temperamento inquieto. Gestiva una tipografia situata nel Palazzo Vescovile di Piazza Dante Alighieri a Forlì insieme ai miei due fratelli più grandi. Io in realtà ero la maggiore e
dopo di me c’erano altri sei fratelli. Frequentavo le scuole elementari
dalle Suore Dorotee; mi ricordo che usavo una cartella di cartone per
portare i libri. Mi piaceva moltissimo studiare, oggi mi avrebbero soprannominato”sgobbona”, tanto che mio padre quando mi trovava,
rincasando dal lavoro la sera, ancora alzata a studiare, mi rimproverava bonariamente: “Basta, vai a dormire, esageri!”
Delle suore porto con me un caro ricordo: mi hanno insegnato a studiare, a lavorare a maglia, a cucire e anche a suonare il pianoforte;
più volte suonavo il pianoforte a quattro mani con mio fratello che
continuò lo studio del piano, mentre io, purtroppo lasciai perdere.
Dopo il diploma da maestra elementare trovai subito un impiego alle
Poste e riuscivo a dedicarmi a mia madre e ai miei fratelli più piccoli.
Il tempo è volato!
Dunque, dicevo che la mia casa era adiacente al laboratorio di tipografia: dalla mia porta bastava scendere due gradini ed ero subito sul
posto di lavoro di mio babbo.
Più di una volta infatti mi ritrovavo a curiosare tra gli scaffali per apprendere e osservare: l’odore di piombo e di carta stampata era sem35
pre nell’aria; era inoltre entusiasmante vedere quelle letterine di
piombo che una alla volta davano forma a parole, poi a frasi, poi a
testi.
Allora avrò avuto dieci anni ed ho tenuto sempre per me questo ricordo buffo: quel giorno si stampava il “Momento” e, dopo aver discusso, rielaborato e corretto alcuni pensieri, bisognava comporli.
Mio padre era molto miope e per questo indossava un paio di spessi
occhialoni, ma ugualmente perdeva sempre le pinze che servivano a
prendere le lettere di piombo e Don Pippo, che vedeva ancor meno di
lui, per riuscire a trovarle recitava una “giaculatoria” (preghiera).
Era comico vederli, ma sapete, terminata la preghiera, trovavano
sempre le pinze e così riuscivano a concludere l’articolo da pubblicare. Erano una coppia simpaticissima!
Mi ricordo con affetto anche quando dalla finestra della tipografia,
quella che dava sul Cortile Vescovile, il Vescovo stesso chiamava
mio padre per farsi aggiornare sulle ultime notizie dei giornali.
Mio padre era un attento lettore di tutti i quotidiani e conosceva tante
notizie, così che nacque una profonda amicizia tra i due, giocavano
persino a carte insieme!
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IL SOUFFLE’ DI BICE
Odette Reggiani
Bice, mia mamma, era una bravissima cuoca. Da poco ci eravamo
trasferiti in Francia in una cittadina vicino a Parigi ed io mi incantavo
quando la vedevo preparare deliziosi pranzetti. La mamma era proprio speciale, sembrava che gli ingredienti nelle sue mani, per magia,
si animassero, così un dolce al cioccolato si trasformava in una “torta
alle praline”.
Un giorno la baronessa Charlot apprese delle qualità in cucina di Bice e la assunse come prima cuoca nella sua grande villa, ospitando
tutta la nostra famiglia nella dependance.
La contessa organizzava spesso feste ed era famosa per i suoi pranzi:
tutto merito di Bice! La sua specialità era il soufflé: quando mia
mamma li preparava, la baronessa andava personalmente in cucina e
non voleva camerieri, ma era lei stessa a servire ai suoi ospiti lo specialissimo soufflé: bello, vaporoso, impeccabile … il soufflé di Bice!
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RAGAZZI SCATENATI E VALIDI RIMEDI
di Valentina Savini
Il mio lavoro è iniziato al Collegio Tartagni nel 1968, ne sono uscita
nel 1975.
Avevo il ruolo di guardarobiera, ero con le suore e per loro eseguivo
le pulizie della Chiesa e del loro appartamento, tutto però senza essere in regola.
Poi alle suore subentrò il Comune e per un certo periodo il “Collegio
Tartagni” divenne il “ricovero” delle famiglie disagiate che abitavano
nel così detto “Casermone”.
La signora Belli in quell’occasione disse che dovevano ristabilire un
ruolo per me e mi offrirono la possibilità di fare la bidella e scelsi di
andare alle scuole elementari del Ronco.
Per avvicinarmi al posto di lavoro misi in vendita la mia casa e comprai un appartamento in zona.
Ho prestato servizio in quelle scuole elementari dal 1975 fino al
1991: mi sono trovata benissimo e sono sempre stata ben voluta e
stimata dai bambini e dai maestri.
Di quegli anni ho un ricordo particolare che voglio raccontare. I
bambini di seconda elementare erano molto vivaci, si era anche formato un piccolo gruppo, capitanato da Maurizio, che era davvero
scatenato. Un giorno combinarono un pasticcio con la carta igienica
nei bagni: usavano i rotoli per fare canestro negli sciacquoni che allora erano posizionati in alto ed avevano una catenella lunga che se tirata faceva scorrere l’acqua nel w.c. Usarono poi uno scopone non so
bene per fare cosa ma so che ruppero anche le finestre. Entrando li
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colsi sul fatto e Maurizio, il “capetto” disse: “Zitti, parla la bidella”.
“Bambini”, iniziai, “ho un segreto da confidarvi: voglio fare un patto
con voi!” Sentendosi grandi e importanti mi risposero: “Tu bidella
sei buona, ti ascoltiamo”. Io continuai:”Sentite, volete forse buttare
giù la scuola? Volete distruggere tutto? Se è così, ditemelo prima: io
almeno vado fuori e voi fate quello che volete!”
I bambini rimasero ammutoliti, uscirono dal bagno e tornando in
classe raccontarono tutto alla maestra.
Fui chiamata e la maestra mi interrogò: “E’ vero quello che mi hanno
detto i bambini? Tu lasci che loro distruggano quello che vogliono?”
Io risposi:”Sì, è tutto vero”; e la maestra ancora:”Valentina, da te non
me lo sarei mai aspettato!” Ed io:” L’ho fatto perché non voglio sgridare i bambini e non posso vedere le cose sciupate, così ho detto di
avvisarmi per non essere presente”.
La maestra allora davanti alla classe disse che avrebbe preso provvedimenti per farmi licenziare, ma i bambini contestarono quella decisione: chiesero scusa promettendo di non ripetere mai più atti simili
se io fossi rimasta la loro bidella.
Così fu: rimasi con loro, e non commisero più “bravate”.
Sono stata molto felice del successo raggiunto.
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CUORE DI MAMMA
Maria Assunta Tolomelli
Quando vivevo a Sant’Arcangelo con mio marito e i miei due figli,
avevamo una grande voliera in giardino con tanti canarini.
Ci facevano compagnia, era un piacere guardarli, davano allegria, in
particolare perché erano da poco nati tanti piccoli canarini e la
mamma se ne occupava con grande cura.
Una notte d’estate ci fu un forte temporale, sentivamo i tuoni e il cielo brillava di lampi.
Le gocce cadevano di sbieco grosse e rumorose spinte dal vento.
Il livello dell’acqua iniziò a salire anche sul fondo della voliera.
Quando se ne accorse, la mamma canarina iniziò a trasferire i suoi
piccoli uno alla volta prendendoli col becco, dalla base al trespolo.
Fece tanti viaggi quanti erano i suoi cuccioli infreddoliti e spaventati
che non riuscivano nemmeno a muoversi.
Al mattino seguente ci trovammo di fronte ad una spiacevole scena:
la mamma canarina era stesa immobile sul fondo della voliera annegata, stremata dalla fatica. Non era riuscita a salvarsi. Aveva fatto il
possibile e con successo aveva messo al sicuro tutti i suoi piccoli, ma
non aveva avuto la forza di spiccare l’ultimo volo. Ero contenta per i
piccoli, ma mi commossi per l’inaspettata umanità di quell’uccellino
e mi sono detta che davvero noi uomini dovremmo imparare tanto
dalla natura.
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Residenza Sanitaria
“Al Parco”
Forlì
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Tramandare i propri racconti ed ascoltare quelli degli altri
è un rituale da sempre presente in tutte le civiltà. La narrazione rende possibile lo scambio comunicativo fondamentale per l’instaurarsi delle relazioni umane e della socialità.
Noi che abbiamo condiviso questa esperienza direttamente
con gli ospiti abbiamo potuto ascoltare testimonianze vere e
dirette della storia più recente raccontate da persone che
ai grandi cambiamenti del secolo scorso hanno assistito di
persona.
Nel raccontarsi, abbiamo visto che l’anziano recupera il
ruolo di essere fonte e veicolo di esperienza, conoscenza,
saggezza e improvvisamente la sua figura cambia acquistando sempre più una dimensione attiva.
Le Animatrici
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ARBEITEN … ARBEITEN …
LAVORARE … LAVORARE!
Giovanni Ragazzini
Negli anni della Seconda Guerra Mondiale ero un ragazzo poco più
che ventenne arruolato come militare nell’esercito italiano per combattere una guerra che ancora oggi viene ricordata come il più grande
conflitto armato della storia.
Una guerra in cui anche la gente comune, i cosiddetti civili, si trovarono direttamente coinvolti perché le armi erano davvero potenti e
distruggevano tutto senza distinzioni, armi spesso indirizzate contro
obiettivi non militari come strategia di guerra.
Io mi sono salvato ma mai dimenticherò la paura provata in quel periodo e il terrore quando, i tedeschi padroni della situazione, ci presero, io e i miei compagni, e portati nel campo di concentramento di
Duisburg, in Germania.
“Che canaglie Burdél”!
Ricordo quel il viaggio della paura perché sapevo di essere portato in
un luogo dove avrei lavorato per loro, così avevo sentito dire, ma più
che altro mi domandavo se mai sarei stato così fortunato da arrivarci
vivo.
Arrivai e con me tanta altra forza lavoro.
Lavorare, lavorare e lavorare: questo è quello che ci ordinarono di
fare fin dall’inizio. Costruivamo le armi per la loro Nazione, le armi
che il loro esercito avrebbe usato per difendersi o per il prossimo attacco militare.
Ero diventato forza lavoro per chi avevo cercato di combattere e se
una cosa l’avevo imparata era che con loro non si scherzava.
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“Arbeiten … Arbeiten … Arbeiten”!
“Lavorare … Lavorare … Lavorare”!
Così facevamo per ben 12 ore, sudando e faticando, e senza dire una
parola, perché con loro non si poteva sgarrare.
Ci picchiavano, a volte senza un motivo preciso, e ho visto persone
morire perché, ripeto, gli errori non erano graditi.
Ore e ore di lavoro e solo 2 etti di pane per tirare avanti nella giornata. Sono stato prigioniero per due anni e quando la guerra finì tornammo a casa. Ricordo che passò un po’ di tempo, perché non ci lasciarono tornare subito.
Mi ritengo molto fortunato. Sì, ho vissuto quei momenti terribili ma
sono sopravvissuto, e una volta a casa ho potuto iniziare, di nuovo, a
vivere. Ho fatto della mia passione il mio lavoro e ho imparato ad affrontare ciò che succede con il sorriso.
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OLIO DI FEGATO DI MERLUZZO
Caterina Rinieri
Capisco che oggi molte cose sono cambiate, lo vedo e lo percepisco,
così ogni tanto ritorno nel passato e ridò vita a qualche mio ricordo,
perché è impossibile dimenticare.
Sono cresciuta tra la campagna di Predappio, in una famiglia semplice e la terra era il nostro lavoro per la vita.
Negli anni della Grande Guerra ero poco più che bambina e molti dei
miei ricordi sono legati a quel periodo.
Non dimenticherò mai la sveglia che, per me e i miei tre fratelli, era
davvero presto. Alle quattro di mattina eravamo già tutti pronti. La
scuola, infatti, distava da casa 1 km ad esagerare, ma prima era nostro compito andare nei campi per custodire le bestie e dare così una
mano al nonno. Dai campi poi non tornavamo più a casa, ma si correva direttamente a scuola. La mamma ricordo portava ai campi i
grembiuli, i panini e tutto l’occorrente e noi poi, in una fontanina lì
vicino, con cura ci lavavamo piedi, mani e viso.
A scuola arrivavo sempre un po’ stanca perché, ora che ci penso, la
mia giornata era già iniziata da qualche ora!
Un ricordo legato alla scuola, e ancora ben nitido nella mia mente, è
ciò che succedeva allo scattare delle ore dieci. A quell’ora la maestra,
per tutti coloro che avevano familiari in guerra, distribuiva l’olio di
fegato di merluzzo.
Impossibile dimenticare: il suo sapore era tutt’altro che piacevole
tanto che ci veniva detto di portare qualcosa di dolce da mangiare subito dopo nel tentativo di coprire o, almeno, nella speranza, di alleg-
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gerire il saporaccio. Di solito chi era molto fortunato portava con sé
un quadretto di zucchero, cioè uno intero tutto per sé. Io e mio fratello ne avevamo mezzo per ognuno, e già questo era tanto, visto che
c’era chi a volte non aveva niente. Per questo, ricordo con piacere,
come la maestra si sforzava di avere sempre qualcosa di dolce da offrire.
Ripensare alla scuola mi riporta alla mente il “sabato fascista”, dove
la giornata lavorativa del sabato veniva interrotta alle ore tredici per
permettere che venisse praticata la ginnastica e l’attività fisica, per
mantenersi in forma e per dare sfoggio della propria abilità.
Gonna nera, camicia bianca, scarpe e calzetti neri ed ecco che ero
pronta. Insieme ai miei fratelli, ma anche a tutti gli altri compagni,
prendevo la corriera che da Predappio Alta portava a Predappio, dove
tutto era pronto in onore di chi doveva arrivare … il Duce.
Ricordo le tantissime bandierine sventolare e noi bambini seduti sulle
scale ad aspettare “in festa” questo uomo così importante.
Un uomo piccolo ma tosto.
All’epoca, nell’ingenuità della mia età e del mio essere semplicemente una bambina, aspettavo con allegria questo momento, perché in
quell’occasione non c’era scuola e non dovevo fare tutti quei lavori.
In quell’aria di festa, mi sembrava di essere come in una gita e mi divertivo tanto.
In quel periodo mio padre era stato mandato come soldato a Cagliari
e a casa, in mancanza del “capo famiglia”, comandava il nonno. Era
un uomo esigente e potrei dire severo. Metteva in soggezione tutti,
persino la mamma, e difficilmente qualcuno lo contraddiceva.
Ricordo che in certe occasioni, per evitare una bella sgridata, io e i
miei fratelli dovevamo fare le cose senza farci vedere. Come quando,
tornati da scuola, ritornavamo nei campi per poi portare le mucche a
bere al fiume. C’era da camminare e il più delle volte eravamo stan46
chi quindi per il ritorno, attenti a non farci vedere dal nonno, ci attaccavamo alla coda degli animali e ci facevamo trascinare mettendo in
atto una sorta di gara divertendoci e risparmiando così un po’ di energie. Avevamo sempre paura del nonno, perciò eravamo diventati
bravi a non farci beccare.
Il nonno, quando non c’era da lavorare nei campi, ci faceva spazzare
intorno a tutta casa e ricordo che quando passava il padrone del terreno e ci vedeva al lavoro, gli diceva sempre: “Tu ammazzi i bambini
prima che crescano!”. Io e i miei fratelli lavoravamo tutto il giorno e
quando era il momento dei compiti capitava spesso di addormentarci
sui libri.
Quando fu bombardato il paese vicino a noi, il nonno decise di non
mandarci più a scuola per saperci, per quanto si poteva sperare o credere, più al sicuro.
Quando tornò a casa mio padre, lo ricordo tuttora come un momento
di grande gioia per tutti noi, anche per il nonno.
Al ritorno di mio padre, infatti il nonno, che in sua assenza si era fatto carico dell’intera famiglia, disse: “Oh finalmente posso mettere il
cuore in pace”.
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Casa Protetta
“Madonna del Cantone”
Modigliana
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Racconto di A. P.
A. P. è ospite nella nostra struttura da meno di un anno insieme
alla sua consorte. È una persona educata verso tutti, molto disponibile a un dialogo sereno. Per questo quando gli ho chiesto di
raccontarmi un po' della sua esperienza di partigiano la difficoltà
maggiore è stata trovare io il tempo da dedicare ad ascoltare e
trascrivere le sue storie, molto dettagliate ed emozionanti da ascoltare. Quello che diceva, io scrivevo in maniera lineare con il
bisogno di davvero pochi aggiustamenti. Da quello che ho capito,
il racconto che ne è venuto fuori è solo una minima parte dei suoi
ricordi.
Racconto di G. V.
I racconti di G. V. sono un collage di frammenti dei suoi ricordi di
cui mi ha fatto partecipe stimolato dalla mia curiosità di capire
quello che egli ha vissuto da bambino durante la guerra. Egli
spesso riporta di essere confuso ma quando si ferma a raccontare
un particolare della sua vita, guardandolo negli occhi sembra che
lo stia vivendo in quel momento.
Racconto di P. P.
Per P. P. ricordare la sua vita passata è sempre fonte di dolore,
per come le sono andate le cose fino ad arrivare alla sua situazione attuale. Eppure non si è tirata indietro quando le è stato
chiesto di scrivere un racconto, cosa che ha fatto autonomamente, nel quale ha condiviso momenti di vita teneri, anzi io direi
proprio belli nella loro semplicità.
Racconto di M.L. D.
Probabilmente M.L. D. si è già dimenticata di aver scritto di suo
pugno queste mini confessioni riguardo la sua vita passata, suo
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padre, lo sport e i luoghi che più le piacevano. Né io mi sarei aspettato pensieri così commoventi da lei che passa tutto il tempo
davanti la televisione isolandosi con disprezzo snobbante dagli altri. Ciò è stato possibile quando quasi per scherzo l’ho invitata a
scrivere una lettera d'amore.
Racconto di E. S.
Il caro E. S. purtroppo ci ha lasciato questo settembre. Fino alla
fine è stato di una lucidità estrema tanto da salutare il suo compagno di stanza prima di andarsene. Egli è stato una delle prime
persone così lucide che ho accolto durante il mio lavoro di animatore e forse la mia inesperienza non mi ha permesso di instaurare con lui un rapporto sereno e pacato. Spesso lo facevo
arrabbiare per la mia ingenuità. Comunque sta di fatto che all'inizio di quest'anno egli ha totalmente monopolizzato la mia proposta di scrivere un giornalino, facendolo diventare un suo personale progetto di trasmissione del ricordo della vita della generazione precedente la sua, quella di fine Ottocento inizio Novecento.
Di tutti i suoi scritti ne è uscito fuori il racconto più lungo che mi
sono permesso di articolare in capitoli per dargli un'unità organica e composita.
Gianluca Alberti
Animatore
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IO E LA MIA VITA
M.L.D.
Il più bel posto mai visto:
Ho girato il mondo ma dove sono stata meglio è a Capri: stupendo e
meraviglioso il porto, la città, il mare. Capri oltre il mare è bella per
il verde, gli alberi, i fiori e il suo cielo. Oltre tutto è un luogo molto
raffinato e ben frequentato. Il sole e il mare, tutto è incantevole, come pure chi lo frequenta: persone fini, eleganti, simpatiche e colte,
con le quali fare amicizia è molto gradevole. Vorrei proprio abitare a
Capri, così romantica e raffinata. Spero di tornare presto a Capri per
sognare nuovamente nel porto, romantico, con il suo cielo sempre sereno.
Essere giovani è stupendo perché, oltre alla forza fisica, c’è la forza
morale. E a Capri c’è tutto: eleganza, cultura e persone, come dicevo,
molto gradevoli. Con persone così vivi bene perché ti danno il calore
della loro meravigliosa presenza e amicizia. Capri ha tutto questo.
Inoltre il panorama è incantevole, ti dà il calore dell’essere. Spero di
tornare in questo porto che è cosa sentimentale e tenera. L’Italia è
tutta fantastica ma il luogo in cui sono il mare e il cielo azzurro, ti
dona tanta felicità.
Il rapporto con mio padre:
Quando mio padre è morto ho sofferto non solo perché non c’era più
fisicamente ma per la sua presenza meravigliosa: grande pittore e
sportivo, campione di lotta greco romana e un bravo giocatore di
tennis. Il tennis è uno sport stupendo, romantico, prima di passare al52
le lotte. Una lotta bella, sentimentale e affannosa. Io, felice, assistevo
alle sue gare con una grande emozione. Il babbo era combattivo ma
romantico e dolce con i suoi gesti romantici. Aveva una grande mano
di artista romantico e nella lotta era romantico e sentimentale. Ciao
babbo, ti penso sempre e il ricordo sarà sempre bello e romantico.
Ciao babbo, ti penso sempre con quel gestire romantico. Sempre ti
avrò alla mente per l’amore che ci univa. Ora è cosa lontana ma vivissima per i tuoi geti stupendi. Ciao babbo, sempre mi starai vicino
anche quando il sonno sarà eterno.
I miei ricordi amorosi:
Oggi purtroppo sono vecchia e certe sensazioni non si avvertono più.
Ma una volta mi piaceva molto amare un ragazzo della mia età. Che
bello era stringersi, baciarsi, abbracciarsi e dare a ciascuno tanta tenerezza, poi, al momento più emozionante, c’era l’orgasmo. Tutto
per sognare e dare al corpo felicità e voluttà, il tanto desiderato orgasmo, sensualità e il tremore della felicità che ogni tanto per fortuna
arriva. Orgasmo: che sensazione meravigliosa, così forte come il
cuore che batte all’infinito! Gioia, felicità, cose che ora non pervengono più. Però il pensiero e l’emozione esistono ancora ed è la felicità, nel pensiero e nel ricordo immenso di quei momenti di paradiso.
Ora sono sola e questi ricordi sono troppo lontani! Ma, per me,
l’amore del corpo assieme a quello della mente sono stupendi e sensualissimi e ancora tanto emozionanti.
Con il cuore che preme amare un giorno.
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LA MIA AVVENTURA DURANTE LA GUERRA
A.P. “Il Gagno”
Sono nato a Torino il primo febbraio del 1926. Durante la guerra al
nord, sotto la Repubblica di Salò, il maresciallo Graziani chiamò alle
armi per combattere affianco dei fascisti e dei tedeschi anche leve
molto giovani come la mia, quella del ’26, dei ragazzi di 18 anni o
anche più giovani. Chi rispondeva alla chiamata veniva spedito a lavorare in Germania per i tedeschi nell’industria della guerra. Se non
volevi andare dovevi nasconderti e in città non era possibile perché
c’erano le spie, a volte i tuoi stessi familiari. Quindi l’unica opzione
era fuggire in montagna con i partigiani. Questi si dividevano in tre
categorie contraddistinte dal colore del fazzoletto: rosso per i comunisti, bianco per i democristiani e azzurro per gli autonomi. Io ero tra
questi ultimi che erano i più militarizzati in quanto c’era una gerarchia di tenenti e ufficiali. Ricordo che chi ci comandava tutti era il
maggiore Mauri. Il mo nome di battaglia era “il Gagno”, che vuol dire in piemontese il ragazzo, perché ero il più piccolo.
Solo noi eravamo riforniti dagli americani di armi leggere (noi avevamo la mitragliatrice Steng mentre i fascisti i fucili Beretta che si
inceppavano più facilmente), munizioni, vestiti, alimenti, medicinali
… non mancavano neppure i preservativi. Tutto questo veniva lanciato di notte dagli aerei alleati in grossi involucri di lamiere robuste
per mezzo dei paracadute, che erano fatti di una seta speciale, stoffa
di qualità molto robusta: noi la utilizzavamo per fare delle camicie o
venderla ai civili in cambio di cibo o dei soldi importati dagli alleati,
le cosiddette Amlire, denaro di occupazione che aveva preso momen54
taneamente il posto della lira normale. Per capire se ci fosse stato il
lancio dei rifornimenti dovevamo prestare attenzione ad alcune frasi
apparentemente senza senso dette alla radio che in realtà erano dei
messaggi in codice. Erano frasi semplici come: “la Marinella non va
al lavatoio”, oppure “la Marinella va al lavatoio”. A seconda se essa
era affermativa o negativa noi capivamo le intenzioni dei nostri alleati stranieri.
Uno dei tanti episodi che ricordo è questo. Un giorno ci fu segnalato
da una nostra vedetta sopra un campanile l’arrivo di un camion tedesco. Decidemmo di andarlo a catturare. Ci recammo sul ponte del
fiume Tanaro e ci disponemmo con le armi spianate in attesa del camion. Era notte fonda. Quando vedemmo un veicolo con fari abbastanza grandi, noi iniziammo a sparargli contro. Il veicolo si fermò e
partì una cannonata che prese la centrale elettrica: si accesero tutte le
luci del paese. Quel camion era un carro armato tigre tedesco. Fece
retromarcia e dal di dietro vennero avanti una serie di autoblindo, auto corazzate più veloci con potenti mitragliatrici. Noi, senza neanche
dirlo, fuggimmo a gambe levate.
Trascorsi con i partigiani circa un anno, fino alla liberazione del 25
aprile, quando finì la guerra e noi tornammo alle nostre case ancora
armati, ma per poco perché poi dovemmo riconsegnare agli americani tutto l’equipaggiamento militare. Ma prima di ciò, quasi verso la
fine, fummo catturati a causa di una soffiata, nelle Langhe, una vallata con al centro il paese di Ciliè dove avevamo la base all’interno dei
resti del suo castello. La notte uscivamo per vedere se riuscivamo a
catturare qualche avamposto fascista e al ritorno ci fermavamo sempre presso una cascina ospitale. Lì fummo catturati dai tedeschi e deportati a Mondovì, in provincia di Cuneo, e da lì a Ceva. Fummo rinchiusi in un posto di guardia pieno più di pidocchi che di paglia, sorvegliati in un primo momento dai Cacciatori degli Appennini, che e55
rano soldati fascisti più umani, ma poi in seguito dalle Brigate Nere
che avevano il simbolo di morte sul cappello. Avvenne che il nostro
gruppo partigiano catturò sette fascisti e chiese lo scambio dei prigionieri. Ma noi eravamo trentuno in mano ai nemici, per questo furono liberati sette di noi, io ero il quinto, mentre gli altri vennero fucilati.
A Carrù, dove avvenne lo scambio dei sette prigionieri e la fucilazione degli altri, nella piazza principale c’è ancora la lapide con i nomi
dei miei compagni fucilati.
56
I RICORDI DI UNA VITA
P.P.
I ricordi sono quelle sensazioni che ci esplodono dentro all’improvviso quando meno uno se li aspetta e si collegano in qualche modo al
nostro presente.
Ricordo quando all’asilo andavano i ragazzi di campagna perché i
genitori erano impegnati nei lavoro dei campi e non potevano seguirli; ricordo che la borsa non era uno zainetto colorato e firmato ma
una cartella di finta pelle di cartone colorata in nero o marrone; dentro c’erano uno o due libri, uno o due quaderni, la penna e la matita, a
volte un cartoncino con un panino unto e bisunto ma squisito fatto da
due fette di pane, tre o quattro di mortadella e che costava 50 lire …
ma valeva molto di più! Serviva a scambiarlo con il compito fatto, o
fatto bene dal più bravo della classe, serviva ad aprire mille porte e,
se proprio non c’era altro scopo, chiudeva quel languorino che prendeva verso le undici del mattino.
Poi alle medie si era già tutti adulti, i più bulli arrivavano in motorino
e le più bulle aggrappate al motorino. Dava prestigio, poi, avere gli
occhiali da sole e non parliamo di aggeggi, oggi spariti, come radioline con auricolare da tenere sotto al banco durante la lezione, spille e
fermagli e accessori di abbigliamento da ragazze veramente adulte …
le calze poi!
Alle superiori si era già nell’Olimpo; vestiti firmati (chi poteva) perché, una volta a stagione, si andava a fare la spesa a Forlì, alcuni, ma
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pochi, persino a Bologna. All’improvviso comparvero strani orologi
che avevano il quadrante nero e pigiando un pulsante davano l’ora in
rosso luminoso, poi le calcolatrici, i dischi da suonare a casa nelle feste con gli amici: qui si rincorreva la trasgressione – anzi la perdizione assoluta!!! – si fumava una sigaretta!, si beveva un alcolico più
leggero del vino, tipo aperitivo, che però, poiché clandestino, era
squisito, e poi tutti in vacanza: chi poteva al mare o ai monti con la
famiglia; chi non poteva, in casa, a fare “il dolce niente”, nell’affetto
delle mura domestiche. Erano comunque vacanze bellissime e passavano in un baleno, poi si ricominciava.
Un giorno però, mi sono trovata che non c’era più la scuola da ricominciare ma altro, strano e diverso: la vita, il mondo, il lavoro, la società, i problemi veri da conquistare ad ogni passo!
Accidenti che botta! I genitori potevano fare poco; davanti c’ero io e
le facce che incontravo non erano benigne come quella della maestra
o dei compagni di classe, anzi!
Mi sono adattata, sposata, fatto e cresciuto un figlio, separata. Ora sto
aspettando di aggiustare la mia caduta dalle nuvole della vita per
riorganizzarmi: ci vorranno mesi, forse anni, forse mi troverò su una
sedia a rotelle a organizzare una ripresa ed un futuro, ma il passato,
l’esperienza di chi mi ha preceduto e quello che ho imparato mi aiuteranno a sognare il meglio possibile per me e per chi mi sta vicino
grazie ai bellissimi ricordi della mia vita passata!
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IL LIBRETTO DEI RICORDI
E.S.
Prefazione
Questo libretto è il nostro personale ricordo della vita di campagna di
fine Ottocento e prima metà del ’900, secondo quanto ci hanno raccontato i nostri nonni che l’hanno vissuta. Leggendo queste nostre
righe potrete ritrovare le attività e le usanze che si svolgevano quotidianamente nei campi, nelle aie, nelle stalle e in casa, le quali erano
già scomparse quando abbiamo vissuto noi. Ci sembra di fare un servizio utile alla memoria dell’umanità salvaguardare dall’oblio questi
ricordi che noi ci portiamo dentro.
Nelle nostre terre
Nel nostro paese, Modigliana, la seconda metà della produzione agricola era solo per uso famiglia, poiché non si faceva commercio se
non di qualche damigiana di vino, fiasco d’olio e olive, per chi aveva
la fortuna di averle. Anche i polli si allevavano solo per il consumo
della famiglia. Quando si aveva un bovino grasso lo si dava ai macellai del posto. D’inverno c’era anche qualche maiale grasso che si
vendeva ai macellai e ai pizzicagnoli, si chiamavano così coloro che
avevano un negozio alimentare. Come i polli anche le uova e il formaggio si produceva e si consumava in famiglia. Più che altro era il
parroco che si interessava di informare i paesani suonando le campane se c’era in giro un temporale o anche un incendio. Quando le si
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sentiva si andava da lui ed egli diceva cosa stava accadendo. Anche il
mezzo di trasporto era costituito da animali, o il cavallo o il mulo o
l’asino secondo le possibilità della famiglia. Chi aveva il podere
grande e quindi molte entrate disponeva del cavallo, chi aveva il podere piccolo del mulo. Per andare in paese se si possedeva un barroccino bene, se no si andava a piedi perché non c’era certo la corriera.
Le nostre colline si dividono in tre qualità di terra: c’è la creta, che
quando piove frana a valle e quando si è seccata per ararla occorrono
buoi grossi, perché è molto dura e anche gli devono essere appropriati. Poi c’è la terra rossa, che se non è stata calpestata da bagnata, si
lavora con un paio di buoi e un paio di vacche. Invece la terra vicino
al fiume si lavora anche solo con un paio di vacche, cioè animali più
deboli. In cima alle nostre colline c’è sempre qualche sorgente che va
giù a valle fino al fiume. Se la sorgente è attiva anche d’estate, lungo
il tragitto si faceva il bacino per abbeverare le bestie, un secondo bacino per il macero della canapa, un terzo bacino per il bucato. Per fare il bucato occorreva la cenere che si otteneva bruciando la legna nel
fuoco. La si separava poi dai carboni con una specie di setaccio. Si
metteva la cenere pulita sopra alla mastella, il recipiente dove erano
ammassati i panni da lavare, e si faceva bollire l’acqua che si versava
sopra la cenere. Quando il ranno (misto di acqua e cenere) era caldo e
bagnava i panni portava via lo sporco. Indi si procedeva al risciacquo
nell’acqua corrente, come quella di un fiume o di un fosso vicino al
fiume.
A differenza di oggi, il pane veniva preparato in casa. Il primo lavoro
era quello di setacciare la farina. Essa, posta sulla madia, veniva poi
impastata col lievito preventivamente messo a mollo in una pentola
perché si disfacesse e diventasse poltiglia. Si lasciavano prima lievitare i pani così ottenuti, poi si mettevano in forno.
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Le attività nei campi suddivise per mesi e stagioni
Gennaio, Febbraio, Marzo: Nel campo si iniziava a potare le viti
del vino bianco e legarle ai filari, nella piantata e nella vigna ai pali.
Con gli animali si cominciava a vangare la terra per piantare il granturco e tutte le piante primaverili. Si tagliava la legna per riscaldare
la casa e alimentare il forno per cuocere il pane. Chi non aveva la
macchia (il bosco) la tagliava nei confini dei campi. Per venderla si
radunava in cataste da un metro nei posti più adatti. Questi lavori si
finivano nel mese di Febbraio. Poi si potavano le viti del vino rosso a
buona luna e le piante da frutto come il melo, il pero, il prugno, il susino, ecc. Si seminavano i foraggi per il bestiame e si piantavano i piselli, i ceci, le fave, le patate, ecc. Si facevano le serre per la semina
degli ortaggi come pomodori e melanzane. Si diradavano i carciofi.
A Marzo si finivano tutti i lavori invernali e si iniziava a preparare la
terra per le piante primaverili: si seminava la cicoria, l’insalata, il
prezzemolo, il basilico, la cipolla, si piantava l’aglio, lo scalogno e
tanti altri ortaggi. Si raccoglievano tutti gli scarti delle potature invernali, se ne facevano fascine e si portavano a casa per il fuoco del
forno per la cottura del pane.
Aprile: Si piantava il granturco e i fagioli e si trapiantavano i pomodori, i peperoni, l’insalata e tutti gli ortaggi. Si levavano le erbacce
dal grano e si faceva la “comarera” in mezzo alla presa, che era quel
rettangolo di terra tra una piantata e l’altra.
Maggio: Si raccoglieva la foglia per il baco da seta. Si legava il fieno
e quando era pronto col carro in pianura e in collina con la treggia,
una specie di grande slittino, si riportava a casa per fare il pagliaio. Si
preparava il verderame per disinfettare le viti e si impolveravano con
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lo zolfo. Si levavano le erbacce del grano per la seconda volta. Si rilegavano la vigna e i tralci e si innaffiava nei filari della vigna.
In questo mese le contadine, tra le altre attività, potevano dedicarsi
alla mansione della “bigatera”, cioè al far nascere e allevava i bachi
da seta. Si iniziava con l’avvolgere il contenitore delle uova dei bachi
da seta, una bustina simile a quella del lievito di birra “Bertolini”, in
un panno di lana e col tenerlo sul petto una settimana per dargli il calore della pelle e far nascere i bachi. Appena nati li si metteva in un
contenitore quadrato un metro per un metro fatto con canne, sopra al
quale si poneva la foglia del gelso tagliata fine fine come le lasagnine
sottili da brodo. Lì i bachi stavano una settimana durante la quale
mangiavano il gelso. Per tre volte stavano in questi contenitori di un
metro per un metro, posti su un castello a venti centimetri uno
dall’altro. Dopo si collocavano su una stuoia lunga quattro metri e
larga due, che si stendeva sopra a dei bastoni. Finiti questi quattro
momenti, nell’ultimo detto “mangiano alla grande”, tra due stuoie si
posizionavano rami di ginestra tagliati lunghi 50 cm. Lì i bachi e andavano su per i rami, dove facevano la ragnatela per il fusello o bozzolo del baco. Dopo quindici giorni si staccavano i fuselli dalle ginestre, si pulivano, dopo aver levato le bave, si mettevano in una cesta
bianca di vimini sbucciati rivestita con un lenzuolo bianco e li si portava al mercato per la vendita. Li comprava chi ne aveva bisogno per
filare la seta nella filanda.
Giugno: A giugno per prima cosa si lavorava la canapa. La canapa è
simile a una canna qualunque, ma è più sottile e con altre foglie e ha
un legno che messo a bagno si macera deteriorandosi facilmente. Le
canne si mettono a terra stese al sole perché divengano secche. Si
fanno poi delle fascine legate in due posizioni, dalla parte sottile e
dalla parte grossa, indi si mettono a bagno, in vasche con uno sfogo
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di sotto perché quando il legno è marcio è necessario che l’acqua coli
via dal buco. Segue l’asciugatura al sole facendo piccole piramidi
con i fasci. Quando il legno si è seccato bisogna trinciarlo con la
grama, che è uno strumento formato da una parte appuntita detta maschio e una parte vuota detta femmina in mezzo alle quali viene messo il legno da trinciare. L’interno viene poi cardato, cioè lavorata affinché diventi un filo, con un pettine grosso e un pettine fine. Infine
si fanno i rigoli, trecce legate solo da una parte. Così la canapa è
pronta per metterla nella rocca per essere filata.
In questo mese c’era anche la mietitura del grano, un lavoro da adulti
esperti perché era facile tagliarsi una mano. Si preparavano i balzi
ossia dei lacci per legare i covoni. Il grano era di varie specie con
maturazione diversa. Con la legatura si formavano dei covoni di circa
trenta chili l’uno. Si facevano poi le poste, che consistevano di mettere sei covoni assieme accatastati. Dopo con il carro o con altri attrezzi (biroccio, treggia) a seconda della pendenza della terra, si creava il
barco nell’aia, lo spiazzo vicino casa. Il barco era una catasta alta tre
o quattro metri ed era fatta quadrata, tonda o rettangolare, a seconda
dell’usanze del contadino. Dopo di che veniva il giorno della trebbiatura: cioè si separavano i chicchi di grano dalla paglia con la macchina trebbiatrice. I semi si raccoglievano nei sacchi che venivano divisi
a metà tra padrone e contadino. Il contadino faceva tutto il lavoro
mentre il padrone possedeva il podere, per il quale pagava le tasse.
Luglio: Si segava il secondo taglio. Si dava lo zolfo e il verderame
alle viti. Si raschiava la terra nella vigna e si arava la terra per la semina dell’autunno. Si sfogliava l’olmo e l’acacia per raccogliere le
foglie da dare ai bovini. Poi con l’acacia si faceva i broconi per il sostegno delle viti della piantata. In questo mese c’era anche la segatura
del fieno e la raccolta dei frutti maturi come per esempio le ciliegie,
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le pesche, le pere, le susine, eccetera. Se si erano seccate delle viti
nelle piantate, al loro posto si faceva lo scasso, un buco un metro per
un metro, per piantare una nuova pianta di vite. Un’altra attività era
la segatura dello strame, che richiedeva una giornata. Lo strame è il
gambo della spiga di 20 o 30 cm dalla terra. Lo si tagliava con la fera
che ha una curvatura diversa dalla falce, più semicurva. Le donne rastrellavano quello che segavano gli uomini. Quando le donne avevano accumulato molto strame, un uomo con il forcale lo raccoglieva in
mucchi. Poi li portavano a casa per fare il pagliaio. Lo strame era usato come cibo per gli animali.
Agosto: Si dava per l’ultima volta il verderame alle viti e si finiva di
arare la terra. Si levavano le ultime foglie rimaste nel gambo del granoturco. Si tagliava la canapa e la si lavorava come già detto. Si segava l’erba spagna e il trifoglio da seme e lo si portava nell’aia per
trebbiare, così altre piante del campo e dell’orto: si stendevano e si
battevano con la “zercia”: «due bastoni di un metro, uno con un fermo in cima e l’altro con 10 cm di suola uniti». Poi si pulivano con il
vallo. Si raccoglieva la bietola e si faceva la stiva vicino alla stalla. Si
cominciava a raccogliere il granoturco per la sfogliatura, che avveniva nell’aia, la sera, con l’aiuto dei vicini di casa e di qualche paesano
che ne approfittava per parlare con qualche signorina. Finita la sfogliatura, si cenava a base di coniglio in tegame o di polenta. Si comincia l’aratura per seminare nel mese di novembre il grano. Le bestie si attaccano la mattina all’alba all’aratro fino alle nove, poi si rimettevano nella stalla a riposare tutto il giorno fino alle 17 per poi
riattaccarle e continuare il lavoro fino alle 21. Durante il giorno, si
prepara il mangiare adatto per gli animali come la foglia dell’olmo,
dell’acacia, foglie fresche ed energetiche.
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Settembre: Bisognava prepararsi per la vendemmia. Erano necessari
i bigonci, i tini, e la castellata: il bigoncio è un vaso con la capienza
di 50 chili; il tino sempre un recipiente in legno di tutte le dimensioni, e la castellata simile a un fuso, lunga due metri e con una capacità
di otto quintali. Quando si vendemmiava, la parte che spettava alla
proprietà andava nella castellata che veniva portata a fine vendemmia
nella cantina del padrone. Sempre a settembre si raccoglieva il granoturco e lo si portava nell’aia. Alla sera, come già detto sopra, si faceva la “sfoiera”, cioè si levava la foglia intorno alla pannocchia del
granoturco e la si buttava nell’aia. Il giorno dopo veniva il “frullo”,
una piccola macchina che funzionava con un volano azionato da due
contadini, usata per sgranare il granoturco, cioè per levare i chicchi
dalle pannocchie. A settembre si continuava la raccolta delle bietole,
per dar da mangiare d’inverno alle bestie.
Ottobre, Novembre e Dicembre: Si finiva di arare e si preparava il
terreno per la semina. Dopo si passava con l’erpice, uno strumento
per tagliare le zolle arate. La semina avveniva otto giorni prima di
novembre e otto giorni dopo il suo inizio “ot de prema di Sent e ot de
dop” (otto giorni prima di Ognissanti e otto giorni dopo). Finita la
semina si raccoglievano le castagne o maroni: si andava su negli alberi e con una pertica li si abbattevano, poi si faceva la “rizzera”, una
catasta di ricci. Li si lasciava lì per venti giorni o un mesetto, affinché si bagnassero con la pioggia e iniziassero ad aprirsi naturalmente.
Tolte le castagne dai ricci le si portavano a casa. Dalle castagne si ricavavano vari prodotti: si mangiavano le castagne bollite; si faceva la
marmellata, si macinavano per ottenere la farina per la polenta e per
le torte. Con il ditale da cucire si cucinavano anche dei piccoli dolci a
mo’ di caramella, mettendo nelle braci il ditale pieno di farina di castagne. Ormai a dicembre si raccoglievano le olive: si portavano al
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frantoio a macinare e si produceva l’olio per gli usi di casa. Sempre
nel mese di dicembre si preparava la legna per il riscaldamento nel
camino. Se rimaneva il tempo si cominciava a potare le viti.
Gli avvenimenti principali all’interno di una famiglia
La nascita di un figlio: Quando un figlio stava per nascere bisognava andare a prendere la “beglia” cioè l’ostetrica. Allora come mezzi
di trasporto c’erano solo il cavallo, il mulo o il somaro, o il calesse: a
seconda se la strada fosse più o meno facile da percorrere si usava il
calesse o si stava in groppa con la sella. La levatrice stava lì accanto
alla partoriente nella casa di lei finché non nasceva il bambino. Dopo pochi giorni c’era subito il battesimo, e se la parrocchia era lontana, il bambino andava al battesimo con altre persone perché la
mamma era ancora a letto. Non c’erano né rinfreschi, né pranzi, ma
solo la funzione religiosa.
La morte della moglie o del marito: Si faceva il lutto per un anno:
lei vestita di nero e lui aveva la fascia nera nel braccio o un nastrino
nero nell’occhiello della giacca.
Nella prima metà del ‘900
All’inizio del Novecento iniziarono a circolare le biciclette, che erano più comode ed economiche degli animali. Questo fu il primo segno di cambiamento che si poté notare a Modigliana che restava pur
sempre un paese agricolo. Ci fu una grande evoluzione nella moda
delle donne. Nei primi anni del Novecento le donne anziane avevano
le gonne lunghe fino ai piedi e portavano il corsetto, un indumento
rigido intorno alla vita con cordoni dietro che si tiravano per stringere e fare la vita sempre più sottile. Avevano una tasca intorno alla vi66
ta, che conteneva il fazzoletto, la scatola di tabacco da fiuto, le eventuali chiavi. I mutandoni si legavano a fine ginocchio. Poi avevano la
sottoveste e la veste cioè la gonna lunga. Le signorine avevano le
mutande strette lungo la coscia, sotto la sottoveste e il vestito che arrivava al ginocchio. Ma dopo la Prima guerra mondiale accorciarono
la sottoveste fino al fondoschiena e nell’orlo di dietro gli attaccarono
un pezzetto di circa quattro dita di tessuto che aveva due asole che
venivano abbottonate dal davanti della sottoveste come un body di
oggi, e c’era chi diceva che quella sì che era una rivoluzione.
Nella prima metà del Novecento c’erano i papalini, i repubblicani e i
socialisti. Anche Mussolini era un socialista. Si verificavano molti
disordini, ma solo botte, bastonate e pugni e mai morti. Più che altro
gli scontri accadevano la domenica quando uscivano dalla messa i
papalini: allora c’erano gli altri che li incontravano e coi quali si
scambiavano le botte. Ci fu anche l’episodio di una macchina trebbiatrice dei papalini: andò a trebbiare in un podere e i repubblicani
ribaltarono la macchina e le diedero fuoco. Dopo i repubblicani presero i papalini che erano lì e fecero fare loro un giro di scherno con
fischi per tutto il paese. Ma morti nessuno. Mussolini da socialista
passò a creare un partito da sé, il partito fascista, e fece la marcia su
Roma nel 1922 con cui conquistò il potere e divenne il dittatore
d’Italia. Nel 1940 entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler e,
dopo, la guerra. Il resto lo sapete meglio voi di me.
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Casa Protetta
“San Vincenzo de’ Paoli”
Santa Sofia
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La nostra ASP gestisce una serie di servizi che cercano di
dare risposte differenziate ai bisogni di utenti over 60. Infatti forniamo assistenza a domicilio, consegna del pasto, centro diurno, servizio residenziale per utenti autosufficienti e non autosufficienti, appartamenti per anziani ancora autonomi che decidono di vivere in un ambiente protetto, servizio di telesoccorso. In ogni ambito di intervento il nostro obiettivo è sempre stato promuovere e migliorare la qualità di vita della persona anziana. I tanti anni di
lavoro in questo settore ci hanno insegnato che ciò è possibile favorendo l'integrazione dell'anziano con il territorio di
riferimento, promuovendo le attività di scambio con l'ambito esterno, aprendo le nostre strutture al territorio.
Il racconto della propria storia di vita è sicuramente uno
dei più efficaci strumenti di interscambio sociale. Ecco perché la narrazione di Aurora è emozione, ricordo, condivisione, specchio attraverso il quale guardare anche la nostra
vita e riconoscersi.
Laura Lotti
Coordinatrice socio-assistenziale
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AMARI PROFUMI DI UNA TERRA STRANIERA
Aurora Lotti
Mi sono sposata a Torino, dopo la fine della Seconda guerra; io romagnola, mio marito torinese, due caratteri molto diversi e diametralmente opposti. Io chiacchierona, amante della compagnia, lui
molto silenzioso ed introverso, con un’infanzia infelice alle spalle,
perché figlio di genitori separati, allevato da una nonna molto anziana. Sposina giovane e ancora inesperta, mi sono ritrovata con due
suocere, la convivente di mio suocero, a Torino, e la vera mamma di
mio marito emigrata in Argentina che si era unita ad un altro uomo.
Questo è stato il vero dramma della mia vita!
Un giorno, arriva una lettera dall’Argentina, con la quale mia suocera
ci invitava a trasferirci al suo paese, dove aveva impiantato una piccola fabbrica che rendeva molto bene ed era in espansione. Mio marito si lascia convincere dalle aspettative di un lavoro sicuro e remunerativo e dalla voglia di riabbracciare finalmente sua madre. Anche se
non del tutto soddisfatta del grande cambiamento che sarebbe avvenuto nella nostra vita, pur di rimanere accanto all’uomo che avevo
sposato, accetto di partire; quindi cominciamo a preparare i numerosi
documenti necessari per emigrare. Nel frattempo mi accorgo di essere incinta. Sono felice del mio nuovo stato, pensando che anche la
nonna sarebbe stata contenta di avere un nipotino da coccolare.
Poco tempo dopo, senza preavviso, mia suocera arriva in Italia per
una visita ai parenti e al figlio che non vedeva da vent’anni. Alla notizia che aspettavo un bimbo, ha avuto una reazione del tutto inaspettata. Mi ha consigliato di abortire, in vista delle gravi difficoltà che
avrei incontrato durante il lungo viaggio. Questo comportamento mi
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addolorò moltissimo, avrebbe dovuto mettermi in allarme, ma io e
mio marito eravamo troppo felici e innamorati, fiduciosi l’uno
dell’altra, tanto che non abbiamo dato troppo peso ai suoi discorsi.
Intanto il mio pancione cresceva e si avvicinava il momento
dell’imbarco.
Un cugino di mio marito gentilmente ci accompagnò a Genova, bellissima città dove non ero mai stata prima. Nei giorni precedenti alla
partenza, abbiamo alloggiato in un albergo accogliente e luminoso,
“Il Belvedere”, da cui si vedeva il panorama della città. Ci sentivamo
come in luna di miele, non pensavamo ai giorni incerti che ci attendevano, paghi di stare insieme con il piccolo in arrivo.
È giunto il momento della partenza; all’ora stabilita dovevamo salire
a bordo di un grande bastimento, ancorato da diversi giorni nel porto.
Non mi decidevo a fare il grande passo, cercavo di ritornare indietro,
mi disperavo e piangevo. Mi si sono avvicinati due ufficiali di bordo,
molto gentili e affabili, mi hanno rassicurata e presa sottobraccio, accompagnandomi all’interno della nave. Mi sono guardata intorno: il
ponte era spazioso, come una piazza, la gente andava e veniva, marinai e inservienti erano tutti indaffarati per espletare le operazioni di
imbarco e per prepararsi alla partenza. Ci è stato assegnato il posto
per dormire (le donne da una parte e gli uomini dall’altra) e il posto a
tavola.
Finché la nave è rimasta nel porto mi sentivo un po’ più sollevata,
anche se il nodo alla gola rimaneva lì fermo per la gran voglia di
piangere e di scappare via. La nave si è mossa mentre i passeggeri
erano ancora a tavola, per cui quasi tutti avevano il mal di mare. Io
cercavo di stare ferma e zitta, sperando che il malessere passasse;
mio marito si è molto preoccupato e mi ha accompagnato in infermeria. All’imbarco i dottori mi avevano preventivamente consigliato di
stare ricoverata in infermeria durante la traversata; ma, dato che le
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condizioni di salute erano tornate alla normalità, mi hanno trattenuta
solo due giorni, poi sono tornata assieme agli altri passeggeri.
La nave si è fermata a Napoli, per far salire altri emigranti, poi è iniziato il viaggio vero e proprio. Quando abbiamo oltrepassato lo Stretto di Gibilterra, ho avvertito una forte emozione, una sensazione dolorosa di distacco dalle mie origini, di abbandono, di addio. Ci siamo
fermati alle isole Canarie e precisamente a Las Palmas; il paesaggio
bellissimo e incontaminato, il clima caldo e sereno hanno attenuato
per un po’ la mia pena. E’ iniziata la grande traversata che è durata
più di venti giorni, senza incontrare altre terre, solo l’oceano e il cielo.
Siamo arrivati in Brasile, a Rio de Janeiro; dalla nave vedevo il porto
prospiciente il mare, da cui si sollevavano gli aerei che sembravano
sfiorare l’acqua, in alto la statua del Cristo che ancor oggi s’innalza
maestoso sul porto, sospeso sulla vegetazione lussureggiante, che
sembrava mi aspettasse con le braccia aperte e mi invitasse a conoscere questa nuova terra. Ma io non mi sentivo bene e non ho potuto
visitare quella grandissima città, mentre mio marito è sceso a terra,
ha girato per il porto e mi ha comprato delle arance molto succose
che ho gustato con piacere per i restanti giorni del viaggio. Il mio
amatissimo marito, per farmi mangiare un po’ meglio, è andato a fare
lo sguattero nella cucina della prima classe, dove le pietanze erano
varie ed abbondanti, tanto che gli avanzi venivano buttati a mare,
perciò mi portava bocconcini prelibati che non riuscivo nemmeno a
consumare del tutto; così li distribuivo ad altri giovani squattrinati ed
emigranti come noi, i quali non finivano mai di ringraziarmi, mentre
divoravano con golosità quei cibi che non avevano mai assaggiato
prima. La loro riconoscenza, anche se temporanea, mi faceva sentire
un po’ più serena.
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Dopo aver sostato nel grande porto brasiliano di Santos, siamo arrivati a Montevideo; anch’io sono scesa per trascorrere una giornata in
modo diverso e per visitare la città.
Proprio all’ingresso del porto, notai una statua che rappresenta
l’emigrante, vestito dimessamente e con un fagottino sulla spalla, con
un’espressione nel viso mesta e addolorata; mi sono sentita umiliata
e triste, pensando di vivere in quel momento la stessa situazione. Ho
ripreso il viaggio sempre più amareggiata, consapevole di aver fatto
una scelta ardua e difficile.
Finalmente la nave ha attraccato a Buenos Aires: con il megafono
sono stati avvisati i passeggeri di prepararsi a scendere sulle passerelle; molti venivano chiamati per nome e invitati ad avviarsi verso i loro parenti che li attendevano ansiosi per riabbracciarli. A poco a poco
la nave si svuota; solo alcune coppie rimangono sul ponte e anche
noi, smarriti, guardavamo verso la riva per vedere se ci fosse qualcuno ad aspettarci. In quel momento ho compreso che non eravamo ben
accolti, ho cominciato a tremare e a piangere, a gridare che volevo
tornare in Italia, dalla mia famiglia. Mio marito cercava di calmarmi,
ma inutilmente; allora mi si è avvicinato un ufficiale della nave che
avevo conosciuto durante la navigazione, anche lui italiano, di un
paese vicino a Torino; con parole gentili mi rincuorava e mi faceva
forza, ma io mi aggrappavo al suo collo urlando che non volevo
scendere. Poi mi sono calmata, tutti i presenti sono stati gentili e
comprensivi con me, mio marito mi sosteneva dolcemente durante la
discesa. All’improvviso ho sentito pronunciare il mio nome. Mi sono
sentita rincuorata: era un parente, emigrato da tempo in Argentina,
che viveva a Buenos Aires con la sua famiglia. Ci accompagnò a casa sua, dove ci attendevano la giovane figlia e la moglie, che appena
ci incontrò, cominciò a piangere, dicendo che sognava sempre la sua
Madunina e la sua Milano e che aveva paura di non rivederle più. Ci
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offrirono un lauto pranzo, a base di pietanze italiane, ci riposammo in
casa loro e poi ci accompagnarono alla stazione per raggiungere Rosario Santa Fè, la città dove viveva la mamma di mio marito.
Verso le 23 arrivammo a Rosario: la stazione era deserta, nessuno era
venuto ad accoglierci. Ero sfinita dalla stanchezza, ma non mi lamentavo per non far preoccupare ulteriormente mio marito, che appariva
anche lui teso e provato dalle traversie del nostro lungo viaggio. Dopo un po’ ci raggiunse un ragazzo in bicicletta che ci chiese se eravamo parenti del convivente di mia suocera; alla nostra affermazione,
ci fece salire su un taxi, diede all’autista l’indirizzo. Il percorso non
finiva mai, il terreno era accidentato, la strada spesso interrotta da
solchi enormi, tanto che l’auto sobbalzava e vibrava tutta: temevo di
partorire in anticipo!
Finalmente, in una via, vedemmo da lontano una donna che faceva
cenno di fermarci: era mia suocera, la quale ci accompagnò in casa
chiedendoci se avevamo sete; in risposta dissi che avevamo un po’
fame, ma lei non ci offrì nemmeno un panino, solo un bicchier
d’acqua. Poi ci fece entrare in una camera, dove sfiniti, riposammo
fino al mattino. Il giorno dopo, su richiesta di mia suocera, mio marito ritornò a Buenos Aires, per ritirare i bagagli scaricati dal piroscafo.
Mentre attendevo il suo ritorno, mi sentivo spaesata, non riuscendo a
comprendere la lingua locale e stavo in un angolo zitta zitta, incapace
di comunicare il mio disagio.
Iniziò così la mia nuova vita, in casa di mia suocera, una donna che
continuava ad essere fredda e distante, anche se si sforzava di comportarsi in modo gentile, almeno con suo figlio. Mi rendevo utile nelle faccende si casa, occupandomi della cucina, preparavo i pasti per
tutta la famiglia, anche se mi pesava un po’ a causa della mia gravidanza.
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Tutto andò bene, per così dire, fino al giorno in cui avvertii i dolori
del parto; fui accompagnata in clinica e ricoverata in camera, ero sola, con una gran paura addosso. I dolori aumentavano, cominciai a
gridare, venne a visitarmi un’ostetrica che mi fece capire che il travaglio stava procedendo bene. Lei era figlia di emigranti italiani,
molto gentile e competente, mi fece molto coraggio e mi dava consigli appropriati su come dovevo comportanti per rendere il parto il più
normale possibile; in via eccezionale, fece assistere al lieto evento
mio marito, anche per aiutarmi a capire le sue parole in argentino. La
gioia che provai quando strinsi il mio piccolino tra le braccia fu immensa e divenne ancor maggiore vedendo che anche mio marito era
al colmo della felicità.
Nella clinica si sparse la voce che un’italiana aveva avuto un bimbo;
vennero diverse persone a trovarmi, tra cui un infermiere di Livorno;
parlavano della nostra Italia lontana e qualcuno piangeva ricordando
la propria città e i familiari. Aspettavo con ansia la visita di mia suocera; è venuta il penultimo giorno di degenza e in mano non aveva
nulla, né per me né per il neonato; allora mi sono fatta coraggio e le
ho chiesto una bevanda fresca, dato che c’erano 40 gradi all’ombra,
ma lei, noncurante delle mie necessità, ha messo sul comodino sei
caramelle e se n’è andata via. Ha pagato la clinica, ma non mi ha dato un peso in più per comperare qualcosa per me e per il bambino: e
pensare che mio marito lavorava tutto il giorno nella sua fabbrica, facendo anche lo straordinario, senza però ricevere una salario adeguato.
Ritornata a casa, le cose peggiorarono: il mangiare per me era molto
scarso, avevo sempre fame, mi riempivo di pane, ma senza companatico. Il mio piccolino piangeva sempre, ho capito che il mio latte non
gli bastava e io stavo male; allora mia suocera ha fatto venire a casa
“il curandero”, una sorta di mago che mi avrebbe guarita con le sue
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formule e pozioni. Ho detto che non credevo ai suoi poteri curativi e
che volevo un medico serio; la suocera si è arrabbiata, mi ha sgridata
dicendo che era lei che sborsava i pesos e quindi poteva scegliere da
chi farmi curare. In fondo, io avevo bisogno solo di mangiare in modo sano ed abbondante, per permettere al mio bambino di sfamarsi
con il mio latte.
Sulla nave avevamo fatto amicizia con una famiglia di Chivasso, diretta a San Nicolas, una città vicino a Rosario, dove noi dovevamo
stabilirci. Un giorno questo amico è venuto a trovarci per riallacciare
quell’amicizia, ma mia suocera non l’ha invitato ad entrare in casa
nonostante avesse capito che ci faceva piacere intrattenerci con lui,
l’ha fatto rimanere nel patio, senza offrirgli nemmeno un bicchier
d’acqua. Questa persona ha compreso il nostro disagio e la triste
condizione di isolamento in cui eravamo costretti a vivere, così ci ha
invitato a casa sua, spiegandoci dettagliatamente come e dove potevamo trovare il suo indirizzo. Mia suocera ci ha stupito: ci ha permesso di andare a San Nicolas pagando il biglietto ferroviario. Questi
amici sono stati molto gentili, ci hanno accolto ben volentieri, preparandoci un buon pranzo e chiacchierando piacevolmente con noi.
La sera siamo tornati a Rosario col treno, ma non avevamo denaro
per pagare il taxi, quindi abbiamo percorso tutto il tragitto verso casa
a piedi; io tenevo il piccolo stretto al petto, ma ero talmente stanca
che mi sono sentita mancare, sono stramazzata al suolo, procurandomi varie escoriazioni. Quando mi sono un po’ ripresa, ci siamo incamminati verso casa; appena mia suocera ci ha visto, ha esclamato:
“Come, non siete rimasti a San Nicolas?” Da queste parole ho capito
che non ci voleva più in casa sua.
Io e mio marito abbiamo pensato di andare a vivere per conto nostro,
anche in una stanza in affitto, ma lei non ce lo permetteva. Ero molto
dimagrita e stavo male, il convivente di mia suocera, impietosito per
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le mie condizioni di salute, ci ha consigliato di farmi visitare da uno
specialista. Il ginecologo che mi aveva assistita al parto, dopo una visita accurata, ha avvertito mio marito che, essendo io una persona
sensibile, necessitavo di cure, ma anche di un ambiente familiare più
sereno e soprattutto, possibilmente, di ritornare in Italia, “altrimenti
sarei finita male”. Di fronte a questa grave situazione, mia suocera si
è dichiarata pronta a pagare il viaggio di ritorno in Italia.
Avremmo dovuto di nuovo sostenere altre difficoltà, affrontare giorni
di fatica e di stress, sfidare ancora il destino per prepararci un nuovo
futuro, cambiare vita e lavoro, ma eravamo giovani e insieme, nella
nostra terra e vicino alla mia famiglia, ce l’avremmo fatta a superare
qualunque ostacolo.
In quel momento abbiamo capito che non potevamo più rimanere in
quel paese straniero, dove avevamo trovato solo incomprensioni e
stenti; non vedevamo l’ora di ripartire, per ritrovare le gioie della famiglia e gli affetti più sinceri.
Dopo neanche un anno sono di nuovo in Italia, nel porto di Genova:
appena scesa dalla nave mi sono inginocchiata al suolo e ho baciato
la mia terra, come ho visto spesso fare il papa Wojtyla in televisione.
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Ringraziamenti
Si ringrazia il Comune di Forlì per il Patrocinio e per la gentile
concessione della Sala Santa Caterina.
Si ringraziano i componenti delle Giurie per la preziosa e competente collaborazione.
Si ringraziano i partecipanti al Concorso per il loro valore, per
la capacità e disponibilità.
Si ringraziano le animatrici e gli animatori delle residenze.
Un grazie di cuore, infine, va all’ideatore del Concorso letterario “Dare vita agli anni”, Mario Vespignani, sempre vicino e presente.
Febbraio 2013
La Presidente del Concorso
Flavia Bugani
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forlì
22° Concorso Letterario
“Dare vita agli anni”
L’Associazione, iscritta al registro regionale del Volontariato,
opera prevalentemente con e per gli anziani – o, meglio – diversamente giovani.
Promuove, nell’ambito della cultura, l’incontro fra generazioni,
affinché l’anziano possa esprimere nella società le sue conoscenze e
capacità a favore del prossimo.
L’Auser è una “Associazione di Progetto” tesa alla valorizzazione delle persone e delle loro relazioni ed è ispirata ai principi di
equità sociale e di rispetto delle differenze, di tutela dei diritto, di
sviluppo delle opportunità e dei beni comuni.
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ANNI 2012 - Auser Forlì