1974 – La “Stella Polare”
di Giovanni Iannucci
Helsinki – 23 agosto 1974
Quella mattina ero appena arrivato a bordo e stavo entrando nel mio alloggio, che era anche il mio ufficio,
quando il telefono squillò. Era l’Ufficiale della Direzione Generale del Personale (Maripers) addetto ai
movimenti degli ufficiali inferiori, che entrò subito in argomento: “Buon giorno, Comandante, chi deside­
ra come suo Secondo?”. Non capii la domanda: il Secondo del Castore era sbarcato per frequentare il
corso presso l’Istituto di Guerra Marittima ed era stato sostituito dall’Ufficiale alle Armi, un anziano te­
nente di vascello, più che idoneo a ricoprire l’incarico con la nave che aveva iniziato una sosta per lavori.
Lo feci presente e la risposta fu: “Mi scusi, Comandante, non mi ero spiegato. non parlavo del Castore,
ma della Stella Polare. Certamente saprà che fra giorni ne assumerà il comando per la crociera estiva in
Nord Europa con gli Aspiranti dell’Accademia Navale.”
No, proprio non lo sapevo e mi feci passare il Capo Divisione al quale espressi, cortesemente ma con
fermezza, le mie vibrate rimostranze, cercando di indurlo a riconsiderare la decisione. Nulla da fare. Ci
furono giudizi lusinghieri sulle mie capacità marinaresche e veliche e sulle mie precedenti esperienze, ci
furono promesse di una successiva destinazione all’estero, ma la decisione sul comando della Stella
Polare veniva dall’alto e quindi fu irremovibile. Per comprendere perché si fosse arrivati ad assegnare a
me l’incarico bisogna andare indietro di un paio di anni.
Due crociere prima, fra il Comandante, Tenente di Vascello, ed il suo Secondo, di pochi anni meno anzia­
no di lui e di carattere molto diverso, non si può dire vi fossero stati rapporti idilliaci, come del resto sa­
rebbe stato prevedibile. Nel microcosmo della Stella Polare, in una crociera anche se di breve durata
rispetto a quelle del passato, due personalità così diverse cominciarono subito a fare scintille e l’incre­
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sciosa situazione si protrasse e non sfuggì all’attenzione dello Stato Maggiore della Marina (Maristat) che,
attribuendo il problema esclusivamente o quasi, all’insufficiente differenza di anzianità fra Comandante e
Secondo, decretò che, per il futuro, il grado del Comandante fosse elevato a Capitano di Fregata e che fos­
se comunque assicurata una notevole differenza di anzianità fra lui ed il suo Secondo.
La Direzione Generale del Personale si mise subito alla ricerca di un Comandante per la successiva cro­
ciera ed all’inizio, come appresi dopo, si pensò anche a me. Il Comando del Castore, assunto da poco,
indusse a cercare altrove. Il designato finì per essere un ottimo ufficiale, che tuttavia fece subito presente
di non avere una particolare esperienza di imbarcazioni a vela. Gli fu detto di non preoccuparsi, avrebbe
avuto con sé dei collaboratori eccezionali: un Secondo addirittura olimpionico della vela ed un Nostromo
con alcuni oceani sul Corsaro II alle spalle.
La realtà fu ben diversa. Il Secondo velico oppose un categorico rifiuto e fu sostituito da un giovane uffi­
ciale con poca esperienza, se non altro per l’età. Seguì a ruota il rifiuto dell’esperto Nostromo, sostituito
da un giovane Sergente Nocchiere. Oltre a questo inconveniente, la pianificazione della crociera destava
qualche perplessità: i poli geografici erano le Isole Canarie e Costanza, in Mar Nero, quelli temporali
all’incirca agosto e dicembre. La logica avrebbe suggerito di andare in Mar Nero in estate e alle Canarie in
inverno, ma l’itinerario prevedeva il contrario. Il Comandante fu eccezionale e, nonostante tutto, riuscì a
mantenere integri barca ed equipaggio fino a meno di un mese dal rientro in Italia, poi il disastro.
Una notte, bolinando con vento teso in prossimità della costa nord orientale della Grecia, cominciò a ma­
nifestarsi qualche problema ai garrocci della randa. Mentre si cercava di sistemare l’inconveniente, la
barca cominciò a scarrocciare, probabilmente ci fu un po’ di confusione e un ovvio errore di navigazione.
La Stella Polare finì in secco, ma proprio “hard aground”, per usare un’espressione britannica che rende
bene l’idea. Tutti i tentativi per tirarsi fuori fallirono e fu deciso di chieder assistenza. Di questa vicenda
fui informato quasi in tempo reale. La mattina dopo, arrivato a bordo, trovai sulla mia scrivania il mes­
saggio della Stella Polare. I miei operatori radio, al corrente della mia passione per la vela, l’avevano
intercettato durante la guardia notturna ed avevano pensato di informarmi subito.
Intanto, in quel tratto desolato della costa greca, la richiesta di soccorso aveva avuto l’effetto previsto e le
autorità marittime greche avevano messo in moto la macchina dei soccorsi. Nel frattempo, la Stella
Polare, pur rimanendo saldamente ancorata al fondo, che per fortuna era sabbioso, per effetto di vento e
corrente, si era girata con la poppa verso terra. Al rimorchiatore inviato in soccorso si presentò il proble­
ma di stabilire come tirarla fuori. Non essendovi punti sufficientemente resistenti dove dar volta al cavo di
rimorchio, fu deciso di passare una braga intorno a tutto lo scafo, tenendola alta a poppa con delle ritenute
per evitare che scivolasse sotto lo slancio. Sistemato tutto al meglio, il rimorchiatore cominciò ad alare
adagio, ma senza successo. L’imbarcazione sembrava inchiodata, ma bisognava tirarla fuori, anche perché
il tempo era in peggioramento ed il fallimento dell’operazione poteva comportare gravi danni alla Stella
Polare o addirittura la sua totale perdita. Il rimorchiatore aumentò, aumentò finché l’imbarcazione co­
minciò a muoversi, ma le ritenute a poppa iniziarono a cedere e la braga scese fino ad arrivare a due ele­
menti essenziali, timone ed elica, che furono letteralmente divelti dallo scafo. In Grecia furono eseguite
riparazioni limitate, sufficienti per mettere la barca in grado di rientrare in Italia, dove furono poi comple­
tati i lavori per riportarla allo stato originale.
Si trattava di un incidente grave, che tuttavia poteva accadere a tutti coloro che vanno a lungo per mare,
ma questa volta la decretazione del Capo di Stato Maggiore della Marina fu perfezionata con un’altra esi­
genza. Non solo il Comandante doveva essere un Capitano di Fregata, ma anche uno che avesse un’espe­
rienza specifica indiscutibile, almeno sulla carta.
E fu così che, per la mia nota passione per la vela, ma soprattutto per quella specifica esperienza che avrei
dovuto aver maturato a cominciare da Artica II e Mait II e poi nelle due lunghe crociere oceaniche sul
Corsaro II e nelle pur brevi occasioni di comando della stessa Stella Polare, concluse con la Middle Sea
Race del 1969, la scelta non poteva che cadere su di me, ormai libero dall’impegno di comando del
Castore, ai lavori di manutenzione e non più in attività.
Addio alla tranquilla estate con la nave ai lavori e addio pure alla lunga licenza ed alla ben diversa e più
rilassante crociera con la famiglia, che stavo già programmando. Marilena, come sempre nelle numerose
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occasioni precedenti, dopo il quanto mai legittimo mugugno, si rimboccò le maniche e si preparò a trasfe­
rirsi ancora una volta in Sicilia, ad Arcile, per passare l’estate vicino al mare.
Io mi precipitai sulla Stella Polare che stava completando i lavori in arsenale, poco distante dal Castore.
Ormai non c’era più tempo per controllare tutto quanto era già stato fatto, ma riuscii ugualmente a far
completare alcune cose come desideravo io e, in particolare, a stornare dal Corsaro, al quale erano desti­
nati, due coffee grinders Lewmar nuovi per sostituire i vecchi Sangermani, ormai vetusti e poco affidabili.
Del resto, noi andavamo in Nord Europa mentre il Corsaro rimaneva in Mediterraneo.
Mi dedicai poi all’equipaggio. A parte gli Aspiranti, che sarebbero stati scelti a cura dell’Accademia, do­
vevo garantirmi un buon equipaggio base ed in particolare un Secondo, un Commissario ed un Nostromo
di provate capacità ed esperienza. Trovai disponibilità da parte di Maripers, riuscii ad ottenere chi volevo
ed il Nostromo fu proprio quello che aveva evitato di imbarcare nella crociera precedente (1).
L’itinerario della crociera, dopo alcune modifiche che chiesi ed ottenni, era il seguente: Livorno, Malaga,
La Coruña, Portsmouth, Stoccolma, Helsinki, Cherbourg, Tangeri, Portoferraio, Livorno. Da La Coruña a
Portsmouth era prevista una regata, organizzata dalla Sail Training Association (STA). Il tutto in tre mesi.
Intanto era arrivata la conferma da Maripers che, dopo la Stella Polare, ci sarebbe stato il contentino: sarei
stato destinato all’estero, alla NATO in Belgio, presso il Supreme Headquarter Allied Powers Europe
(SHAPE). Sperando che la promessa fosse mantenuta e che non si ripetesse quanto accaduto nel 1967 con
la destinazione a La Maddalena, divenuta poi Taranto con pochi giorni di preavviso, Marilena ed io ci
concedemmo una capatina di tre giorni in Belgio per renderci conto di dove saremmo finiti.
Completati gli ultimi lavoretti, lasciammo La Spezia e ci trasfe­
rimmo a Livorno. Breve sosta per imbarcare gli Aspiranti ed il
4 luglio, dopo la graditissima visita a bordo del Comandante
dell’Accademia Navale, Ammiraglio Monassi (A fianco), di
nuovo in mare, diretti non a Malaga, ma a Marbella, come
appreso dagli ultimi contatti con Maristat, dal quale dipendeva­
no direttamente le unità in crociera all’estero.
Bonaccia, caldo torrido e trasferimento tutto a motore, che mi
diede la possibilità di illustrare subito e chiaramente agli Aspi­
ranti quali sarebbero stati i loro compiti. Sempre più convinto
che i principi formativi applicati in Accademia fossero carenti sul piano della responsabilizzazione e della
capacità di prendere decisioni in autonomia, assegnai a ciascuno di loro la conduzione di uno dei servizi di
bordo e, per un periodo iniziale, notai il loro smarrimento, che non mi sorprese. Poi, chi più rapidamente
chi meno, si adattarono tutti al nuovo metodo di lavoro conseguendo ottimi risultati. In un questionario che
compilarono a fine crociera, tutti espressero soddisfazione per l’autonomia loro concessa ed aggiunsero
che in tre anni di Accademia e due campagne navali di istruzione estive non si erano mai trovati a dover
prendere decisioni e ad agire d’iniziativa.
Arrivammo al largo di Marbella il 10 mattina, con un giorno di anticipo. ed incappammo nella prima
sorpresa. C’era solo un minuscolo porticciolo che, in mancanza di indicazioni più precise sul portolano e
non avendo una carta a grande scala, a giudicare dall’altezza degli alberi delle barche all’ormeggio, non
era cosa per noi che pescavamo ben tre metri. Avvicinandoci, lo scandaglio confermò quanto appreso dalla
carta nautica: già ad alcune centinaia di metri dalla costa il fondale era di soli quattro metri e continuava a
decrescere. Dopo vari tentativi, mi venne il dubbio che non fosse Marbella il primo porto della crociera,
sebbene confermato di nuovo da Maristat nel collegamento radio del giorno prima. Il tentativo di un ulte­
riore collegamento ebbe esito negativo e non rimaneva che contattare l’Addetto Navale a Madrid, certa­
mente al corrente della nostra destinazione. Poiché Malaga non era troppo distante, conveniva andare a
terra e telefonargli.
Entrammo in porto nel bel mezzo della siesta pomeridiana di quella calda giornata di luglio. Deserto asso­
luto! Solo un pescatore sulla banchina con la canna ed una specie di sombrero che sfidava la canicola.
Approfittammo subito per chiedergli chi aveva vinto il campionato mondiale di calcio che si era svolto in
Germania. La sera prima c’era stata la finale che naturalmente non avevamo potuto vedere, ma neanche
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sentire, nonostante tutti i tentativi con la radio. “Alemania, Alemania” fu la risposta. Ci rimanemmo tutti
un po’ male, anche i non fanatici del calcio, come me. L’Olanda di quegli anni giocava senza dubbio il
miglior calcio al mondo e tutti pensavamo che avrebbe meritato di vincere.
A terra, il Commissario ed io, superata qualche difficoltà per procurarci un po’ di pesetas e per trovare un
telefono, chiamammo l’Addetto Navale a Madrid. Lo trovammo per fortuna, letteralmente sulla porta di
casa. Stava uscendo, diretto all’aeroporto per venire a riceverci. Si meravigliò non poco che avessimo
cercato di andare a Marbella e ci disse che da tempo aveva comunicato a Maristat che la sosta sarebbe
stata a Puerto José Banus, un porto turistico ultimato qualche anno prima sulla Costa del Sol. L’aereo non
lo avrebbe aspettato e non c’era tempo per altri chiarimenti. Ci consigliò di rivolgerci alla locale Capita­
neria di Porto per avere tutte le informazioni necessarie e concluse con: “Buona navigazione. A domani.”
Ci immergemmo nuovamente nella calura diretti alla Capitaneria, per fortuna vicina, ma gli effetti della
siesta erano evidenti anche lì e nemmeno il Comandante di una nave militare italiana riuscì a suscitare
particolare attenzione, forse anche perché la tenuta in jeans e T­shirt che il Commissario ed io indossava­
mo non era proprio protocollare. Dopo una lunga attesa, apparve finalmente un ufficiale, evidentemente
assonnato, che si scusò per non poterci far consultare carte nautiche in quanto non aveva la chiave
dell’armadio dove erano custodite. Ci disse che Puerto Banus era a circa una decina di miglia a Ovest di
Estepona, località che avrebbe dovuto essere sulle nostre carte. Ringraziammo e ci incamminammo per
tornare a bordo.
Avevamo fatto solo un centinaio di metri, quando alle nostre spalle sentimmo: “Señor, Señor!” Ci
voltammo e vedemmo un marinaio che correva verso di noi. Ci raggiunse e precisò, ansimando e scu­
sandosi, che Puerto Banus era ….. ad Est e non ad Ovest di Estepona. A bordo, consultata la carta nautica
e visto che la distanza di Estepona da Malaga era poco più di una trentina di miglia, decisi di rimanere in
porto e partire a notte inoltrata per essere a destinazione la mattina presto. Ci ormeggiammo presso il lo­
cale club nautico, dove suscitammo la curiosità e l’ammirazione dei soci presenti e fummo generosa­
mente ospitati. Ottima cena, qualche ora di sonno e di nuovo in mare, dove regnava la solita calma piatta.
La mattina dopo, alle otto, entravamo a Puerto Banus e ci ormeggiavamo, ricevuti dall’Addetto Navale e
da personalità, civili e militari. Il porto suscitò la mia meraviglia. Avevo conosciuto alcuni porticcioli tu­
ristici in Costa Azzurra, nella crociera con Gianni e Mary Pera, su La Meloria nel 1968, ma non pensavo
che un’opera del genere potesse nascere in Spagna. In Italia, non per mancanza di denaro da investire o di
valide iniziative, ma per carenza legislativa, non era ancora possibile costruire un marina privato. Solo
due delle Regioni a statuto speciale, prima il Friuli Venezia Giulia, con Hannibal Marina nel 1966, e poi
la Sardegna con Porto Cervo Marina, appena iniziato, avevano provveduto a colmare il vuoto, grazie alla
loro autonomia legislativa. Gran parte dei capitali italiani destinati ai porti turistici finirono in Francia. Il
marina di Beaulieu, realizzato prevalentemente con investimenti reclamizzati e gestiti in Italia dalla Ga­
betti, ne è un chiaro esempio e non è il solo.
Puerto Banus, con i suoi quasi mille ormeggi, i servizi per
qualsiasi esigenza e le gradevoli strutture residenziali, ci
sembrava fantascienza in un paese allora ancora carente di infra­
strutture, collegamenti e servizi moderni. Evidentemente si era
compreso che il futuro dell’economia del Paese sarebbe dipeso
in misura sempre maggiore dal turismo. Apprendemmo che
l’inaugurazione del marina, nel maggio del 1970, era stata un
evento da mille e una notte che tutti ricordavano, anche per la
presenza di invitati famosi, provenienti da tutto il mondo.
Dopo quattro piacevoli giorni di sosta, ci mettemmo di nuovo in
mare. Davanti a noi una traversata che si annunciava lunga e
impegnativa, contro l’Aliseo portoghese che avremmo incontrato dopo Gibilterra e il Golfo di Cadice. E
fu così: una bolinata massacrante, sempre con almeno una mano di terzaroli e yankee e trinchetta di varie
dimensioni a prora. Soprattutto il mare era molto fastidioso e ci costringeva a fare una bolina larga ed
allungare il cammino per non fermarsi sulla cresta delle onde. Negli impatti più violenti, esclamavamo in
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coro: “San ….. Germani!”, grati a Cesare Sangermani, il patron del Cantiere che aveva costruito la barca,
assicurandosi personalmente, con la sua nota scrupolosità, che fossero accuratamente seguiti gli
“scantlings” stabiliti da Olin Stephens e che, nel dubbio, ci fosse semmai un millimetro in più e mai uno
in meno.
Quello che non resse, purtroppo, fu buona parte dei componenti
dell’attrezzatura più vecchi, anche se revisionati. Verricelli, pastecche, pas­
sascotte, bozzelli ed altro subirono un vero massacro e per fortuna nessuno
si fece male. La situazione che andava delineandosi era tuttavia partico­
larmente seria in quanto la sosta a La Coruña, per la sua brevità e per l’as­
senza di adeguata assistenza, non avrebbe consentito che qualche
intervento di tamponamento per poter partecipare alla regata, seppure
esercitando la dovuta cautela sui componenti dell’attrezzatura (A fianco,
alcuni dei danni).
Feci presente la situazione a Maristat e chiesi ed ottenni di fermarmi
qualche giorno di più a Portsmouth e recuperare il ritardo nella gamba
successiva, in modo da essere a Stoccolma nella data prevista. L’autorizza­
zione fu concessa e, per fortuna, anche quella di provvedere personalmente
alla ricerca del cantiere dal quale fare eseguire i lavori, che mi consentì di
contattare subito Camper & Nicholsons a Gosport, che era diretto da Peter Nicholson, il nostro skipper su
La Meloria nella Cowes – Dinard del 1967. Rispetto alla mia seconda crociera sul Corsaro nove anni pri­
ma, le radio di bordo erano più potenti e affidabili di quelle di allora e navigavamo relativamente vicini
alla costa portoghese che disponeva di buoni servizi radio marittimi in HF. Gli telefonai subito e fu
contento di sentirmi e molto disponibile. Nonostante il cantiere fosse più che impegnato, con mio grande
sollievo, promise che avrebbe provveduto con la necessaria rapidità agli interventi dei quali avevamo bi­
sogno. Saremmo stati certamente in buone mani, forse le migliori in senso assoluto.
In quella navigazione si verificò un caso simile a quello del dottore nella crociera sul Corsaro II del 1965.
Il giovane operatore radio e cuoco crollò, manifestando tutti i sintomi della naupatia incoercibile.
Abbandono totale e digiuno assoluto, senza nessun segno di superamento, nemmeno dopo il fatidico “se­
condo giorno”. Sempre grazie alla possibilità di comunicare, fu sufficiente interessare Maristat per la so­
stituzione e dopo un paio di giorni ricevemmo la conferma dell’invio di un sostituto a La Coruña.
Un bordo dopo l’altro, arrivammo finalmente a destinazione, ma con quasi due giorni di ritardo e tante
cose da fare nei tre giorni rimasti, in uno dei quali si celebrava anche una
festività locale. Fra l’altro, dovevamo imbarcare il “Decca Navigator” (2)
(A fianco) che avevamo ordinato a noleggio, un apparato piuttosto
ingombrante che trovò posto a fatica sotto il tavolo di carteggio. L’aveva­
mo ordinato perché ci sarebbe stato molto utile nella Manica, in Mar del
Nord ed in Baltico.
Com’era prevedibile, non vedemmo nulla di La Coruña, ma riuscimmo a
fare quasi tutto, lavorando letteralmente fino all’ultimo minuto, tanto che
arrivammo nell’area di partenza con il segnale di avviso della nostra clas­
se già a riva sull’imbarcazione del Comitato di Regata.
Era il 26 luglio, ma non faceva caldo, nonostante la bella giornata di sole.
C’erano 18 nodi di vento, mare formato e una gran confusione fra navi a vela e barche in regata in mezzo
ad una quantità di spettatori sui tipi più disparati di galleggianti. Nel bel mezzo di questa confusione, partì
la drizza del genoa pesante per il cedimento dell’impiombatura fra cavo d’acciaio e cavo di dacron. E’
comprensibile che si generasse un po’ di confusione, anche se l’equipaggio reagì con prontezza nella so­
stituzione della drizza e fu questione di un minuto o poco più avere il genoa di nuovo a riva ed a segno
sull’altra drizza.
Ero al timone e stavamo riacquistando velocità, quando sentii urlare dietro di me: “Ma che fate? Siete tutti
matti! Voglio tornare in Italia!” Era l’operatore radio appena imbarcato in sostituzione del collega nau­
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patico incoercibile. Aggrappato al pulpito di poppa, sembrava seriamente intenzionato a tuffarsi in mare.
La reazione, per un neofita della vela, era più che comprensibile, ma bisognava evitare il peggio. Feci un
cenno al dottore che comprese al volo. Trascinò dabbasso il giovane e lo mise a dormire con una genero­
sa iniezione di sedativo. Gli parlai il mattino seguente, dopo il lungo sonno. Mi disse che era stata una
reazione inconscia e che era de­
terminato a rimanere. Ben presto
si adattò alla vita di bordo e si
integrò bene, disimpegnando
egregiamente i suoi incarichi di
RT e di cuoco, ricadendo occasio­
nalmente vittima del mal di mare,
solo in condizioni particolarmente
dure, nelle quali continuò tuttavia, pur con qualche difficoltà, a ricevere i bollettini meteo e quasi sempre
anche a cucinare.
Fu una regata inizialmente ventosa, con una violenta burrasca al centro della Manica, vicino all’isola di
Guernsey, affrontata sotto spinnaker, mettendo a dura prova timonieri e vele. Non durò a lungo ed il resto
fu con venti leggeri e bonaccia. Ci vollero più di cinque giorni per percorrere le 560 miglia ed il nostro
tempo limite scadde a poco più di quattro miglia dal traguardo. Il regolamento della STA prevedeva co­
munque l’inserimento in classifica con una penalità variabile, in relazione alle miglia percorse a motore.
L’equipaggio, ormai rodato da quasi un mese di mare e soprattutto dagli estremi delle bonacce mediterra­
nee e della violenza dell’aliseo portoghese, si comportò egregiamente e riscuotemmo una brillante vitto­
ria nella nostra classe.
Era notte fonda quando arrivammo a Gosport e ci ormeggiammo ad una delle boe del cantiere Camper &
Nicholsons, in attesa di spostarci in banchina ed iniziare subito i lavori. Il mattino dopo, incontrai Peter
Nicholson e discutemmo l’elenco che avevo preparato, concordando gli interventi da effettuare. Parlare
finalmente con una persona con una mentalità pragmatica, che conosceva a fondo tutti i problemi delle
imbarcazioni a vela, fu un gran sollievo. Peter mi promise che, tenendo conto del weekend, il cantiere
avrebbe fatto tutto in cinque giorni lavorativi e l’8 agosto, con soli tre giorni di ritardo sul programma,
saremmo stati in grado di riprendere il mare per la lunga traversata fino a Stoccolma, dove eravamo attesi
per il 15: sette giorni per percorrere un migliaio di miglia via canale di Kiel. Un po’ di fortuna con il
vento e avremmo dovuto farcela.
Secondo l’ormai consolidato programma della STA, il venerdì sera ci fu il ballo per i giovani “Trainees”,
tradizionalmente una bolgia infernale dalla quale, per fortuna, i comandanti erano esentati. Il sabato, la
sfilata degli equipaggi, lo show della pattuglia acrobatica britannica, le famose “Red Arrows”, e la ceri­
monia della premiazione da parte di Sua Altezza Reale Filippo, Duca di Edimburgo, che si svolgeva se­
condo un cerimoniale molto particolare e significativo. Il premio veniva ritirato dalle mani del Duca dal
più giovane “Trainee” di bordo il quale correva poi a consegnarlo al suo Comandante. Per noi si trattò di
un bel piatto d’argento, offerto da una gioielleria locale. Seguivano nella giornata esibizioni di bande
musicali e, la sera, fuochi d’artificio.
Il giorno dopo, domenica, la conclusiva “Parade of Sail” per la quale mollammo gli ormeggi in tarda
mattinata ed uscimmo nel Solent, prendendo il nostro posto nella lunga fila di imbarcazioni che stava per
iniziare il percorso che si sarebbe concluso con gli onori al Duca di Edimburgo, a bordo dell’Her
Majesty’s Yacht Britannia, alla fonda davanti al Royal Yacht Squadron a Cowes.
Il Solent era gremito di imbarcazioni di tutti i generi. Sembrava di stare in una via di Napoli in un’ora di
punta del traffico e bisognava tenere gli occhi ben aperti per evitare pericolose collisioni. C’era un bel
vento e, con un po’ di acrobazie per rimanere al nostro posto, regolando la velocità, potemmo fare tutto il
percorso a vela, compresi, dopo aver reso gli onori, vari passaggi a pochi metri di distanza dal Vespucci.
Arrivato due giorni prima da Lisbona per partecipare alla manifestazione, sarebbe ripartito il giorno dopo
per Amburgo. Volevamo anche ringraziare dei preziosi doni per la nostra cambusa: soprattutto del buon
vino e dell’ottimo pane integrale a lunga conservazione, appena uscito dal forno di bordo. A sera, stanchi
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ma entusiasti per l’esaltante giornata trascorsa, eravamo di nuovo a Gosport, pronti a riprendere i lavori il
lunedì mattina.
Nell’esecuzione degli interventi richiesti, una mia decisione, presa a tutto vantaggio dell’amministrazione,
avrebbe creato un caso di burocrazia amministrativa letteralmente allucinante. Avevo deciso di sostituire
due verricelli Sangermani, ormai vetusti, che si bloccavano continuamente, nonostante le frequenti manu­
tenzioni e riparazioni, rese ormai quasi impossibili anche per mancanza di parti di rispetto. Nella nota la­
vori, ordinai due verricelli Lewmar 65 a tre velocità che costavano parecchi milioni di Lire, ma che
avrebbero finalmente garantito funzionalità e lunga vita. Una mattina venne a bordo Peter per dirmi che
aveva due verricelli come quelli che avevo ordinato, in pratica nuovi, appena sbarcati da un’imbarcazione
più grande della Stella Polare, sulla quale si erano subito rivelati di potenza insufficiente. Me li avrebbe
potuti cedere per metà del prezzo di vendita al cantiere, già scontato rispetto a quello di listino. Accettare
con gratitudine fu per me la cosa più naturale. Credevo che spendere bene il denaro dello Stato fosse un
mio preciso dovere.
Un mese circa dopo la fine della crociera, mi arrivò la prima lettera della Direzione di Commissariato che
mi chiedeva conto e ragione dell’assenza di una fattura del venditore relativa ai due verricelli, come pre­
visto dal comma X dell’articolo Y della legge Z. Risposi spiegando le circostanze che mi avevano indotto
a prendere quella decisione, ed i motivi, primo fra i quali quello di risparmiare denaro dello Stato, ma non
servì a nulla. Arrivarono altre lettere che citavano leggi, decreti e disposizioni ai quali non mi ero attenuto.
Poi, dopo settimane di bombardamento, il silenzio. Probabilmente la pratica era giunta finalmente nelle
mani di una persona di buon senso.
Il cantiere, forse anche grazie alla mia amicizia con Peter, mantenne le promesse alla lettera e l’otto ago­
sto, completati tutti gli interventi richiesti, eravamo di nuovo in mare con soli tre giorni da recuperare per
essere a Stoccolma nella data prevista dal programma. Con la fortuna che avemmo sarebbe stato possibile
recuperarne quasi il doppio! Il vento non mancò mai e consentì quasi sempre andature portanti. All’alba
dell’11 agosto, meno di tre giorni dopo aver lasciato Gosport, eravamo in prossimità dell’entrata di
Brunsbüttel del Nord Ostsee Kanal (3).
Le ultime miglia di navigazione notturna sul fiume Elba erano
state piuttosto pesanti per l’intenso traffico, il ventaccio in prora
ed una temperatura invernale, ma all’alba eravamo ormeggiati
all’ingresso della chiusa che immetteva nel canale. Il Commissario
ed io scendemmo a terra per le pratiche di transito e subito si pre­
sentarono i primi problemi. Non mancavano certo cartelli che pre­
sumo riportassero le necessarie informazioni, ma erano tutte
rigorosamente solo in lingua tedesca, che nessuno di noi due co­
nosceva abbastanza. Cercammo di chiedere informazioni ad un paio di marittimi. Purtroppo non parlava­
no inglese, ma compresero le nostre esigenze e ci fecero cenno di seguirli. Qualche centinaio di metri,
entrammo in un ufficio e, atteso il nostro turno, presentammo i documenti ad un assonnato funzionario
che, dopo averli esaminati, alzò gli occhi e ci fissò con disapprovazione, ripetendo più volte: “Klein
Schiff! Klein Schiff!”.
Era abbastanza chiaro che volesse dire che la nave era piccola ma, solo dopo un altro fiume di parole per
noi incomprensibili, accompagnate per fortuna da qualche gesto, capimmo che c’era un altro ufficio per le
piccole navi nella direzione che ci indicava. Piuttosto irritati, ci incamminammo di nuovo. Non preparati
al footing imprevedibile ed alla temperatura che saliva, cominciavamo a sentirci a disagio, ancora bardati
come eravamo per il freddo della notte sull’Elba. Arrivammo finalmente all’ufficio giusto, dove furono
esaminati i documenti e ci fu presentato il conto. Il Commissario tirò fuori di tasca un mazzetto di dollari
che suscitarono una strana reazione del funzionario. Alzò le braccia al cielo, fece un passo indietro ed
esclamò: “Nein! Nein! Deutsche Mark! Deutsche Mark!”
Non ci fu verso di fargli accettare i dollari, dovevamo cambiarli in Marchi tedeschi. Ci indicò un edicola
non troppo lontana dove avremmo potuto cambiare. Era ancora chiusa ma, per fortuna, era imminente
l’apertura e dopo un quarto d’ora eravamo di ritorno con i preziosi Marchi. Pagammo e chiedemmo a gesti
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se le formalità erano concluse. “Nein! Nein! Lockedirektor.” e ci indicò una specie di torre di controllo in
cima ad una lunga scala. Arrivammo su distrutti ed io ero pronto ad esprimere tutto il mio disappunto al
dirigente della chiusa, ma il suo atteggiamento cortese, il suo perfetto inglese ed anche qualche parola in
italiano, quando scoprì da dove venivamo, mi disarmarono del tutto e le mie rimostranze, che comunque
condivise scusandosi, furono molto civili e ridotte all’essenziale. Certo era quanto meno singolare che,
nonostante il denso traffico internazionale, per entrare e navigare nel canale fosse necessario conoscere il
tedesco e disporre di Marchi! Nel congedarci, ci augurò una buona navigazione e ci consegnò un libretto
sulle norme da osservare durante il transito nel canale. Gli diedi uno sguardo mentre ci incamminavamo
per tornare a bordo e rimasi di stucco: era in tedesco!
Poco dopo eravamo di nuovo a bordo e, passata la chiusa di Brunsbüttel, iniziammo la navigazione nel
Nord Ostsee Kanal. La giornata splendida, l’assenza di vento e la temperatura mite ci consentirono di go­
dere appieno del paesaggio, dominato dal verde intenso dal quale facevano capolino i tetti rossi delle ca­
se. Si navigava a pochi metri dalla riva ed appariva chiaro come tutto fosse ordinato, pulito e curato, così
diverso da casa nostra, anche se forse un po’ monotono. Alle
12.30 dell’11 agosto, sette ore dopo l’entrata nel canale, usciva­
mo dalla chiusa di Kiel­Holtenau ed entravamo in Baltico. Ci re­
stavano 500 miglia da percorrere in poco meno di quattro giorni e
solo tanta sfortuna o qualche evento straordinario avrebbero po­
tuto impedire che arrivassimo a Stoccolma nella data prevista.
Proprio la prima notte di navigazione ci andammo molto vicino!
Avevamo da poco lasciato la baia di Kiel, c’era una leggera
brezza da Est ed eravamo di bolina, mure a sinistra, sul bordo
verso terra. Mentre ci avvicinavamo lentamente alla costa, scorgemmo una nave, completamente oscu­
rata, che sembrava alla fonda. Giunti a qualche centinaio di metri di distanza, ci illuminò a giorno per
alcuni secondi con una potente fotoelettrica. Mi chiesi cosa potesse significare, ma al momento non seppi
dare una risposta. Dopo qualche minuto, a un paio di centinaia di metri dalla nave, che ormai aveva chia­
ramente l’aspetto di una unità da guerra, la fotoelettrica si accese di nuovo.
A quel punto, una possibile spiegazione cominciò a farsi strada nella mia mente. Scesi dabbasso e
controllai sulla carta nautica i confini di stato. Non sapevo che quello fra le due Germanie fosse così vici­
no a Kiel, ma era proprio così. Ci stavamo avvicinando alla costa della Germania Orientale ed era chiaro
che la nave svolgesse le funzioni di sentinella al limite delle acque territoriali. Diedi l’ordine di virare
immediatamente di bordo e ci dirigemmo di nuovo verso il largo. Provai una chiara sensazione di sollie­
vo. Certo che sarebbe stato un bel pasticcio se fossimo stati pescati dentro. Anche se a vela e disarmati,
eravamo sempre una nave militare del blocco opposto e, fra i paesi del Patto di Varsavia, la Germania
Orientale aveva sempre dimostrato di essere fra i più intransigenti in occasioni del genere.
A parte un po’ di bolina iniziale e qualche breve periodo di bonaccia, ci fu sempre vento che si mantenne
dai quadranti meridionali, mai troppo forte ma sufficiente per farci macinare miglia, quasi sempre sotto
spinnaker. Il tempo fu splendido e la temperatura ideale. Cominciammo ad apprezzare il Baltico, così di­
verso dal Mar del Nord. L’acqua del mare tornò ad essere quasi azzurra, tutti i colori divennero più sfu­
mati, più delicati e i crepuscoli, serale e mattinale, si allungarono sempre di più, fin quasi a fondersi l’uno
con l’altro, mentre procedevamo verso Nord, in vista delle
verdi coste delle isole di Öland e di Gotland, con la gra­
ziosa cittadina di Visby.
Arrivammo all’inizio del vasto arcipelago, che si estende
per molte miglia a Sud Est di Stoccolma, con quasi un
giorno di anticipo e andammo alla fonda vicino ad una
delle tante isole ed isolette, tutte verdissime, alcune con
una sola casetta e con l’ormeggio per il motoscafo o la
barca a vela, che sostituivano l’automobile. Una mezz’ora
dopo aver comunicato per radio la nostra posizione,
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fummo raggiunti da un motoscafo con l’Ufficiale di Collegamento, un giovane Tenente di Vascello,
sportivo come tutti gli Svedesi ed appassionato di vela, felice di essere su di una singolare nave da guerra.
Rimase a bordo con noi e la mattina dopo ci guidò nella gincana fra le isole fino al nostro ormeggio, a
Skeppsholmen, vicino al centro della città.
Come in tutti i porti del Nord Europa ed in particolare in quelli dei paesi scandinavi, il mattino dell’arrivo
era per me un incubo. C’erano le visite protocollari alle autorità, almeno tre o quattro per porto, nelle qua­
li, nonostante l’ora poco congeniale all’assunzione di alcool, almeno per me, veniva offerta in piccoli
bicchierini la Skåne Akvavit, una specie di grappa tipica dei paesi scandinavi ad alto contenuto alcoolico,
e non c’era scampo. Seduti davanti alla personalità, bisognava bere per forza guardandosi negli occhi, di­
re educatamente che era molto buona e riceverne subito un’altra dose. Rifiutare sarebbe stata una grave
maleducazione. Dopo le visite, tutte con lo stesso cerimoniale, è facile immaginare come mi sentissi. Do­
vevo correre ai ripari! Rientrato a bordo, trovavo ad attendermi una caffettiera piena che mi consentiva di
riacquistare quel po’ di lucidità necessaria per ricevere la restituzione delle visite. Per fortuna erano gene­
ralmente simultanee ed era quindi possibile tenere in mano il bicchiere di italianissimo Martini o Campari
e portarlo ogni tanto alle labbra, facendo solo finta di bere.
La permanenza a Stoccolma fu piuttosto monotona, soprattutto per il carattere e le abitudini degli Svede­
si, non particolarmente allegri ed espansivi. Ci fu tuttavia un’occasione molto interessante: la visita al
museo del Vasa, il vascello svedese che affondò nel 1628, meno di un miglio dopo aver lasciato
l’ormeggio per il viaggio inaugurale, appena incontrata una leggera brezza (4). Dopo sei giorni di sosta,
ci rimettemmo in mare per la più breve gamba della crociera, 240 miglia da percorrere comodamente in
tre giorni. Una bella traversata, tutta a vela con venticelli da Sud e tempo splendido. Puntualissimi, il
mattino del 23 agosto entravamo nella baia di Helsinki sotto spinnaker. Ammainata al momento giusto e,
senza toccare il motore, ci affiancammo con l’abbrivo alla banchina di Etelasätama.
Anche se non facente parte del Patto di Varsavia e teorica­
mente non allineata, la Finlandia era di fatto legata
all’Unione Sovietica da un trattato di amicizia, cooperazio­
ne e reciproca assistenza, che aveva inevitabilmente riflessi
sulla politica non solo economica, ma anche estera ed
interna del Paese. La Stella Polare era una nave militare di
un paese della NATO e quindi mi aspettavo una certa
freddezza nei rapporti. La realtà fu molto diversa. Forse
perché eravamo una piccola nave senza armi, che era arri­
vata fino lassù a vela, fummo accolti con un calore inatte­
so, solo in parte giustificato dal carattere spontaneo ed
espansivo dei Finlandesi, così diversi dagli altri Scandinavi non solo per le origini e per la lingua.
L’Addetto Navale italiano in Unione Sovietica, accreditato anche in Finlandia, che era venuto a riceverci
e che mi accompagnò nelle visite, si meravigliò molto dell’atteggiamento anti­sovietico e dell’insoffe­
renza alla situazione di subordinazione, entrambi dimostrati apertamente in varie occasioni.
Una delle più eclatanti si manifestò nel corso della visita al Comandante della guarnigione della capitale,
un anziano Colonnello dell’Esercito. Dopo la consueta cerimonia dei bicchierini e varie domande sulla
crociera, prima di congedarmi venne il momento della firma del “Guest Book”, un grosso volume con
un’originale e pesante copertina di legno grezzo, annerito dal tempo, che faceva bella mostra di sé sul ta­
volino fra di noi e che aveva già attirato la mia attenzione e la mia curiosità. Lo aprì alla pagina sulla qua­
le dovevo scrivere. Era la pagina di destra, già contrassegnata da una bella bandiera italiana. Su quella di
sinistra una bandiera rossa con falce e martello, seguita da alcune frasi in caratteri cirillici dell’ospite che
mi aveva preceduto. Scrissi un paio di belle frasi in inglese, firmai, richiusi il libro e gli chiesi l’origine di
quella copertina. Il volto gli s’illuminò e gli occhi cominciarono a brillare. Con evidente soddisfazione,
mi disse che si trattava di un regalo degli uomini della sua compagnia con i quali nell’ultima guerra era
entrato per decine di chilometri in territorio sovietico. Il legno proveniva dalle traversine di una ferrovia
che i suoi soldati avevano distrutto. Mi indicò poi un dipinto alle sue spalle con un uomo in uniforme. Mi
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disse che si trattava di un eroe nazionale e che l’uniforme era quella dei riservisti. Con tristezza concluse
che purtroppo quell’uniforme non era più consentita per disposizione dei Sovietici.
Il giorno dopo venne al cocktail a bordo e mi trasse da parte. Dalla sua tasca emerse uno splendido
coltello Fiskars, la marca locale famosa in tutto il mondo. Mi spiegò che si trattava del coltello che in
Lappland veniva usato per scuoiare le renne. Ci tenne però a precisare che quello originale era di acciaio
normale, mentre lui ne aveva preso per me uno di acciaio inossidabile perché ero un marinaio. E’ uno dei
più bei ricordi di quella crociera, che conservo ancora gelosamente.
Facemmo amicizia con alcuni ufficiali della riserva e fummo ospiti in un loro circolo in un posto incante­
vole, in mezzo ad un fitto bosco di betulle. Cerimoniale tipico finlandese: una sauna dopo l’altra, interca­
late da rapidi tuffi in una vicina propaggine del Baltico con sei gradi di temperatura dell’acqua e salinità
quasi zero. Tutti su e giù nudi come vermi e poi, finalmente rivestiti e adagiati in comode poltrone con
enormi boccali di birra. Ci parlarono della loro attività e ci confessarono che, anche senza poter più indos­
sare una divisa, erano segretamente ben organizzati, avevano piani di difesa, armi nascoste ed erano pronti
ad ogni evenienza per la difesa del Paese. Non ci dissero contro chi, ma i conflitti con la Svezia erano
ormai acqua passata ed era sottinteso che si trattava dell’Unione Sovietica.
Fummo ospiti anche alla FIAT, che aveva un ottimo mercato in Finlandia. Assistemmo alla “finlandizza­
zione” delle vetture che consisteva in vari accorgimenti per adeguarle alle rigide condizioni degli inverni
locali. Fra di essi, la catramatura integrale di tutte le parti inferiori per difenderle dal sale che veniva
sparso generosamente sulle strade nella stagione invernale per evitare, o quanto meno limitare, la forma­
zione del ghiaccio. Anche le “public relations” della Fiat si erano finlandizzate: dopo la visita, sauna,
birra ed ottimo buffet a base di prodotti della renna.
Fra le tante persone che conobbi, mi è rimasto impresso un no­
to scrittore e scenografo, famoso fra l’altro per un autorevole
ed esauriente trattato sulla sauna dalle sue antiche origini ai
tempi nostri. Persona interessante e sotto certi aspetti singolare,
era un esponente del “menage alla rovescia”. La moglie, un
alto funzionario pubblico, era molto occupata con il suo lavoro.
Avevano due figli, due bellissimi bambini, un maschio e una
femmina, biondissimi e con grandi occhi azzurri. Lei andava a
lavorare e lui pensava alla casa ed ai figli. Preparava i pasti, li
accompagnava a scuola, li andava a riprendere e faceva tutto
quanto necessario per loro e per la casa. Nonostante tutto, tro­
vava anche il tempo per scrivere e pensare alle sue attività
perché, diceva, tutto dipendeva dal sapersi organizzare, capaci­
tà che le donne avevano in misura inferiore agli uomini. Posse­
deva una delle tante isolette che fanno da corona alla costa sud occidentale finnica e mi invitò a passarvi
qualche giorno se fossi tornato in Finlandia, naturalmente in estate.
Dopo cinque giornate, dense di piacevoli eventi e interessanti conoscenze, il 28 agosto ci separammo a
malincuore dai “Napoletani della Scandinavia” (in senso positivo, naturalmente) che ci avevano accolto
con calore, direi quasi latino, e riprendemmo il mare per la prima gamba del ritorno, poco meno di 1200
miglia fino a Cherbourg, via Canale di Kiel.
Il Baltico ci offrì di nuovo i suoi interminabili, affascinanti crepuscoli e si dimostrò ancora una volta ge­
neroso con noi. Rispetto all’andata, il vento fu più variabile in direzione ed intensità, costringendoci a fre­
quenti cambi di vele, ma non mancò quasi mai e consentì andature portanti per buona parte del percorso,
con tutta la “biancheria” al vento: spinnaker, bolero, randa, vela di strallo e mezzana. Solo le ultime miglia
prima di arrivare a Kiel ed all’ingresso del canale furono una dura bolinata, ma con mare maneggevole.
A mezzogiorno del due settembre iniziammo le procedure di entrata. Questa volta, sapendo bene di essere
una “klein schiff” ed essendo doverosamente muniti di “Deutsche Mark”, le pratiche furono sbrigate in un
attimo e ben presto eravamo in navigazione nel canale. Tempo sempre buono e un venticello di intensità e
dalla direzione giuste per permetterci anche un’oretta a vela. Non sapevo se fosse permesso navigare a
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vela nel canale – il manualetto con la norme da osservare era rimasto per noi incomprensibile – ma era
un’occasione da non perdere, che ci offrì anche la bella scena di bianchissimi cigni che si alzavano in vo­
lo al nostro passaggio.
A sera uscimmo dalla chiusa di Brunsbüttel e ci ormeggiammo affiancati in banchina per una cena a terra
e una notte intera di riposo per tutti, prima di affrontare il Mar del Nord. Sapevamo bene che il tempo sta­
va peggiorando. C’era una profonda perturbazione atlantica in arrivo e ce la saremmo presa tutta. Del re­
sto, non si poteva attendere che passasse, sia per gli impegni di crociera, sia perché non ci era dato sapere
cosa avrebbe fatto il tempo dopo. La meteorologia di quei tempi – forse anche quella di oggi – non era in
grado di dircelo con sufficiente approssimazione.
Alla fine della cena, al meglio della cucina tedesca, ci fu una celebrazione per me inattesa. Avevo l’abitu­
dine di registrare tutte le navigazioni fatte e le miglia percorse, non quelle sulle “navi grigie” o sulle navi
a vela, ma solo quelle su imbarcazioni a vela, su di un “log book“ dal quale risultava che, proprio fra Kiel
e Brunsbüttel, avevo raggiunto le cinquantamila miglia. Non me ne ero ancora accorto, ma qualcuno
dell’equipaggio si. Con mia grande sorpresa, apparve una bottiglia di ottimo Champagne francese e fui
festeggiato a dovere.
Sapevo bene che in mare non si finisce mai di imparare. L’esperienza è certo un fattore cruciale e
cinquantamila miglia erano una bella cifra, ma in mare ed in particolare navigando a vela le variabili sono
tante, non ci sono mai due situazioni esattamente uguali fra di loro e rimane sempre qualcosa di nuovo da
sperimentare ed imparare. Quello che accadde qualche giorno dopo avrebbe offerto una chiara conferma
del mio pensiero.
Il mattino seguente, ben riposati, mollammo gli ormeggi ed iniziammo la navigazione sull’Elba. Il
tempaccio non si fece attendere e dopo qualche ora entravamo in Mar del Nord già terzarolati e con una
trinchettina ed un piccolo yankee a prora. Iniziammo a bolinare contro trenta e più nodi di vento da WSW
e la situazione non subì variazioni nei quattro giorni seguenti. Bolina, vento quasi sempre intorno ai trenta
nodi, che raramente scendeva fino a venti per brevi periodi e poi riprendeva come prima. Il mare variava
con la corrente: le onde, ripide e particolarmente fastidiose quando contro di essa, si allungavano dando
un po’ di respiro quando la direzione del vento e quella della corrente erano più o meno uguali. Nono­
stante tutto, l’avanzamento sulla rotta era accettabile, ma il peggio doveva ancora arrivare. Prima i due
generatori e il giorno dopo anche il motore di propulsione si rifiutarono di partire.
Mettemmo subito in atto drastiche misure per risparmiare
energia elettrica. Per fortuna, avevamo una buona scorta di
batterie per torce, radio ricevente e fanali di via di emergenza,
ma proprio questi ultimi si mostrarono inadeguati in quelle
condizioni. Durante la notte una nave in rotta di collisione non
ci vide, nonostante illuminassimo anche le vele e sparassimo
due very bianchi. Fummo costretti a virare di bordo e non fu
un’esperienza piacevole.
Il mattino del 7 settembre entravamo nella Manica, accolti da
vento in aumento fino a 40 nodi e mare molto vivo. Dopo il
problema del motore di propulsione e dei generatori che non
partivano e quindi dell’impossibilità di caricare le batterie,
anche alcuni elementi dell’attrezzatura, sottoposti a sollecitazio­
ni notevoli, cominciarono a dare sintomi di cedimento. Fra di
essi, il boma presentava delle incrinature e la culissa della base della randa cominciò a sollevarsi in vari
punti. Fu necessario ricorrere a numerose fasciature in cavo di dacron per evitare che saltasse del tutto.
A metà mattinata la situazione peggiorò ulteriormente. Il centro della depressione, ormai sul meridione
della Gran Bretagna, dai 969 Mb della mezzanotte (Estratto della carta isobarica al suolo del servizio
meteo della Marina francese) si era ulteriormente approfondito fino a 964, sembrava si fosse stabilizzato
e continuava a spostarsi verso WNW. Il vento raggiunse i 50 nodi con raffiche fino a 60, al fondo scala
dello strumento, ed osservammo più di una nave alla cappa o in evidente difficoltà.
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Era venuto il momento di decidere: era il caso di proseguire con
corti bordi di bolina, in una zona di mare ristretta con denso traffico
e bassifondi, in quelle condizioni meteo che non era previsto mi­
gliorassero, con i deboli fanali di emergenza e senza l’ausilio del
“Decca Navigator” che aveva subdolamente iniziato a dare i numeri
appena la tensione era scesa sotto i 12 volt? La risposta che mi die­
di fu “No!”. Nel primo pomeriggio, prima che arrivasse il buio, con
il vento ormai costantemente sul fondo scala dei 60 nodi, qualche
miglio prima di attraversare la rotta Calais – Dover, nelle vicinanze
del battello fanale di Sandettie, decisi di puggiare, filare in poppa e
tornare in Mar del Nord, tenendomi prudentemente lontano dalla
costa.
Ammainammo tutto il poco che c’era rimasto e tenemmo su solo
una piccola trinchetta con le due scotte entrambe cazzate a ferro.
Sarebbe servita solo per aiutare il timoniere a non farsi traversare
dal mare. Nel Pozzetto tre sole persone, quanto bastava per go­
vernare e tenere gli occhi aperti per avvistare in tempo quei pochi sfortunati che erano ancora per mare
come noi.
Con il mare in poppa, la situazione all’interno era radicalmente migliorata. Il movimento era diminuito e
soprattutto era molto meno violento, mentre il frangere del mare e l’ululato del vento, rumori assordanti in
coperta, arrivavano attutiti. Nonostante le condizioni fossero ancora tutt’altro che ideali per quel tipo di
lavoro, fu possibile intensificare le ricerche della causa dell’avaria nelle viscere della barca, fra casse,
valvole e tubolature. Il responso non tardò ad arrivare e fu disastroso: il gasolio era inquinato di acqua di
mare. Com’era potuto accadere? Al momento, data la situazione, non me lo chiesi nemmeno. L’unica cosa
certa era che non potevamo far nulla finché fossimo stati in mare, se non applicare misure ancora più dra­
stiche per conservare il più a lungo possibile quanto c’era ancora nelle batterie. L’unica concessione
all’economia di energia elettrica fu una rapida ed essenziale comunicazione radio a Maristat, certamente a
conoscenza delle condizioni meteo che stavamo fronteggiando, per tranquillizzarli e spiegare perché non
avrebbero ricevuto altri messaggi.
Il vento continuava a rimanere a fondo scala. Con la sola trinchetta, praticamente a secco di vele, faceva­
mo una media di 7 nodi mantenendoci ad una prudente distanza di una trentina di miglia dalla costa
olandese. Dentro, la vita continuava come sempre. La sera si cenò seduti a tavola; un pasto caldo e non
male. Il disastro accadde subito dopo, quando l’Aspirante Carlo Viola, di guardia in coperta, aprì lo
scorrevole del boccaporto principale e disse: “Quando venite a rile……” Avrebbe voluto concludere con
“rilevare?”, ma un frangente più micidiale del solito fece straorzare la barca ed una notevole massa
d’acqua si riversò a bordo colpendolo in pieno alla schiena e proiettandolo con il viso ed una mano sulla
consolle degli strumenti di dritta, che fu letteralmente divelta dalla tuga. La cintura di sicurezza evitò che
continuasse la corsa, rischiando di finire in mare.
A parte le sue condizioni, che furono la nostra prima preoccupazione, un buon metro cubo d’acqua aveva
trovato la strada verso l’interno, fino allora assolutamente asciutto. Il guaio fu che la paratia della sala
nautica fece da spartiacque e almeno un terzo dell’acqua fu dirottato su radio, strumenti, carte nautiche,
log book, cuccetta del Secondo e quant’altro si trovava nel piccolo locale. L’aspirante, che sembrava un
pugile che le avesse prese e date senza guantoni, fu messo a riposo e solo dopo l’arrivo in porto l’indagine
radiografica stabilì che non c’erano fratture.
Passai la notte in sala nautica, alla debole luce di una torcia, sistemata sulla fronte, ad asciugare quanto
possibile, con la compagnia, sulla radio a batterie del radiogoniometro e rilevatore B&G, dell’angelica vo­
ce femminile dell’operatrice olandese di Scheveningen Radio che ripeteva senza sosta qualcosa del gene­
re, cominciando con le aree: “ ….. Portland, Wight, Dover, Thames, Humber, German Bight, ….. “ e
proseguendo con: “South West strong gale to storm force 9 to 10”. Passava poi alla situazione dei segnala­
menti marittimi, con l’elenco di quasi tutti i battelli fanale che avevano arato e si trovavano da un miglio a
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un miglio e mezzo a NE della loro “charted position”. Conclu­
deva infine con una bella notizia sulla situazione della costa
olandese: “All buoyage system Dutch coast unreliable. Pilotage
unavailable”.
Nelle prime ore del mattino il vento, sempre da SW, cominciò a
dar segni di voler diminuire di intensità e finì per stabilizzarsi
sui 30 nodi. Rialzammo un po’ di vela e ci mettemmo di bolina,
ripercorrendo a zigzag la rotta che avevamo percorso in poppa.
Nella giornata il vento continuò a calare, il sole tornò a farsi ve­
dere e la sera eravamo in bonaccia fra Dover e Calais, pronti ad
una breve comunicazione radio per chiedere un rimorchio per
entrare in porto, quando cominciò a mettersi una bella brezza da
ESE. Spinnaker, bolero e vela di strallo andarono su in un bale­
no e cominciammo a macinare miglia verso Cherbourg, alla più che soddisfacente velocità di 8 nodi.
Nel pomeriggio del giorno dopo, 11 settembre, eravamo di nuovo in bonaccia in prossimità del porto. Ci
collegammo per radio, chiedemmo assistenza e poco dopo ci venne incontro un piccolo rimorchiatore
militare per portarci dentro. “Où étiez vous dans la tempête?” Chiese uno dei marinai, dando volta al cavo
di rimorchio. “A la mer!” risposi. “A la mer?” chiese incredulo e aggiunse: “Vous savez, ici dix­neuf
bateaux sont coulé dans le port.” Poco dopo eravamo ormeggiati alla Darse Transatlantique del grande
arsenale militare.
Arrivando a Cherbourg, con la tempesta ormai alle spalle, ma con un pesante ritardo di oltre tre giorni e
con avarie da riparare che imponevano una lunga sosta e quindi anche una variante alla parte finale della
crociera, mi aveva sfiorato il dubbio che avessi agito con troppa prudenza. Le parole del marinaio, i
giornali locali che ebbi occasione di leggere e che riportavano raffiche fino a 110 Km/ora a Cherbourg
(certamente anche più forti in mare aperto), il traffico marittimo nella Manica “paralizzato”, le cartine si­
nottiche di quei giorni, che ci procurò l’ufficio meteo della Marina francese, le notizie dei danni che ave­
va subito il Vespucci in Biscaglia e dell’affondamento del Morning Cloud, la barca del Primo Ministro
britannico Edward Heath, con la perdita di due membri dell’equipaggio (5), mi convinsero che avevo
preso la decisione giusta.
Di buona mattina, il giorno seguente, ricevemmo la visita di alcuni ingegneri civili dell’arsenale. Mi resi
subito conto che avevamo a che fare con persone di primissimo ordine. Sebbene non si trattasse di una
nave da guerra o mercantile, ma di un’imbarcazione a vela, e molti problemi erano di natura specialistica,
in poco più di mezz’ora avevamo concordato il da farsi e stabilito le modalità esecutive. Sul tempo ne­
cessario rimaneva qualche incertezza, che sarebbe stata rimossa solo quando fosse stato risolto il proble­
ma dell’inquinamento del gasolio, ma si riteneva di poter completare tutto in una settimana. Proposi a
Maristat di eliminare la sosta a Tangeri e fare una bella galoppata fino a Portoferraio, dove era prevista la
riunione delle Navi Scuola il 30 settembre. La proposta fu accolta, ma la possibilità di arrivare in tempo a
Portoferraio fu giudicata con molto scetticismo.
I lavori iniziarono subito e furono condotti in maniera esemplare
da maestranze anch’esse, come i dirigenti, di primissimo ordine.
Del resto, contrariamente a quanto accadeva da noi, l’arsenale di
Cherbourg aveva una lunga lista d’attesa di clienti civili per lavori
di manutenzione, riparazione ed anche costruzione di navi
mercantili. Proprio nei giorni della nostra sosta, fu varato un sotto­
marino nucleare, interamente progettato e costruito dall’arsenale.
Con molta professionalità e sollecitudine, furono completati tutti i
lavori necessari e riparati tutti i danni provocati dalla batosta che
avevamo subito. La causa dell’inquinamento del gasolio non fu
trovata, ma furono vuotate e che ripulite le casse, effettuati tutti i controlli e le verifiche possibili e ci fu
assicurato che non sarebbe accaduto di nuovo (Sopra: cocktail alla Prèfecture Maritime).
14
In linea con le previsioni dell’arsenale, il 18 settembre ci rimettevamo in mare per quella che la cancella­
zione della sosta a Tangeri aveva fatto diventare, con le sue 1740 miglia, la gamba più lunga della crociera
e che rappresentava anche una scommessa sulla presenza della Stella Polare alla riunione delle navi scuo­
la a Portoferraio. Ce la mettemmo tutta, ma avemmo anche una buona dose di fortuna. Appena usciti da
Cherbourg, un bel vento da levante ci portò sotto spinnaker fino a Ouessant dove girò cortesemente da
Nord, mentre noi accostavamo per Sud Ovest e si mantenne costante per tutto il Golfo di Biscaglia. Lungo
la costa portoghese fummo ripagati della massacrante bolinata
subita all’andata da un bel vento in poppa o al giardinetto che,
appena doppiato Capo Sagres, girò da ponente accompagnando­
ci fino a Gibilterra. Avevamo tenuto una media di quasi 200 mi­
glia al giorno ed ora dovevamo affrontare le incognite del
Mediterraneo. Dovemmo ricorrere spesso al motore, ma conti­
nuammo ad avere fortuna e nel pomeriggio del 29, con più di
mezza giornata di anticipo, davamo fonda nella rada di Porto­
ferraio, dove erano già Vespucci e San Giorgio. Avevamo vinto
la scommessa!
La più bella sorpresa fu trovare Marilena, con Valeria, Francesco e Paolo, che erano venuti ad accogliermi.
Li trovai in piena forma ed abbronzati dopo l’estate trascorsa al mare. I tre mesi di separazione mi erano
sembrati anche più lunghi e riabbracciarli fu una grande gioia. La sera, al tradizionale pranzo di fine
campagna, a bordo del San Giorgio, mi fu chiesto di illustrare brevemente la nostra vicenda nella tempesta
in Mar del Nord, dopo che il Comandante del Vespucci aveva parlato della loro esperienza e dei danni
subiti nella stessa occasione in Golfo di Biscaglia.
La mattina dopo salpammo e ci ormeggiammo in banchina per la visita alle navi scuola del Capo di Stato
Maggiore della Marina, Ammiraglio De Giorgi. Si trattenne
a lungo a bordo della Stella Polare e si congratulò con me
per le decisioni prese e con l’equipaggio per il comporta­
mento tenuto in condizioni particolarmente avverse. La sera
eravamo di nuovo in mare, in rotta per Livorno, dove ci
fermammo solo il tempo necessario per salutare e sbarcare
gli Aspiranti che, dopo una breve licenza, avrebbero ini­
ziato l’ultimo anno di Acca­
demia, sicuramente arricchiti,
soprattutto nel carattere, dopo
la crociera sulla Stella Polare.
Proseguimmo per La Spezia, dove ci ormeggiammo di punta alla Sezione
Velica a fianco del Corsaro II ed iniziammo subito le pratiche per lo sbarco e
la cessione del Comando.
La sera, grazie al coraggio ed allo spirito d’iniziativa di Marilena, invitammo
tutto l’equipaggio base a cena nel piccolo appartamento che avevamo preso
in affitto a La Spezia e che eravamo in procinto di lasciare. Fu una serata un
po’ affollata, ma piacevolissima. Le traversie che avevamo vissuto insieme e
l’atmosfera serena, che credo fossi riuscito ad instaurare a bordo, avevano
fatto nascere, al di là delle relazioni gerarchiche, una profonda amicizia ed
un forte sentimento di reciproca stima.
La nuova destinazione presso il Comando Supremo Alleato in Europa della NATO in Belgio, dal nome un
po’ complesso, era finalmente divenuta ufficiale: Executive Officer del Deputy Chief of Staff Logistics,
Armaments and Administration, un Ammiraglio di Squadra italiano.
Giovanni Iannucci
Milazzo, 27 giugno 2009
15
Note:
1)
La composizione dell’equipaggio della Stella Polare era la seguente: Capitano di Fregata Giovanni
Iannucci, Comandante, Tenente di Vascello Elio Cannarella, Ufficiale in Seconda e di Rotta, Tenente di
Vascello (CM) Antonio Sotgiu, Capo sevizio amministrativo e logistico, Guardiamarina (MD) Ugo Somigli,
Capo Servizio Sanitario, 2° Capo Nocchiere Gaetano Di Savino, Nostromo, 2° Capo RT. Giuseppe Sapia,
operatore radio e cuoco, Nocchiere Fulvio Costantini, marinaio. A Livorno imbarcarono gli Aspiranti
Guardiamarina della Terza Classe Umberto Donat, Paolo Forni, Pierluigi Fumagalli, Patrizio Malini,
Bruno Montuori, Claudio Villanis Ziani, Carlo Viola e l’Aspirante Guardiamarina (GN) Giuseppe Bailo
(Fotografie dei componenti in allegato).
2)
Il Decca era un sistema molto preciso di navigazione iperbolica, con portata relativamente limitata.
Fu sperimentato verso la fine della seconda guerra mondiale nelle acque costiere della Gran
Bretagna ed esteso, dopo il conflitto, a tutto il Mar del Nord e ad altre zone costiere. L’apparato
era piuttosto ingombrante e le navi che transitavano in acque servite dal sistema, o vi si
trattenevano per brevi periodi, preferivano limitarsi a noleggiarlo, grazie anche ad un eccellente
servizio, pronto ad intervenire per l’installazione e lo smontaggio in qualsiasi porto. Reso obsoleto
da altri sistemi di navigazione, il Decca cessò la sua attività nel 2000.
Lungo poco più di 50 miglia, il Nord Ostsee Kanal o Kiel Canal, collega il Mar del Nord al Mar
Baltico, consentendo di evitare il periplo della Danimarca e di risparmiare da 200 a 600 miglia di
navigazione, a seconda dei porti di provenienza e destinazione. Iniziato nel 1887 sotto il Kaiser
Guglielmo I, fu inaugurato dal suo successore, Guglielmo II, il 21 giugno 1895, dopo otto anni di
lavori ad un costo di 156 milioni di Marchi ai quali se ne aggiunsero, in seguito, altri 242 per
allargarlo, migliorare i servizi e portarlo alla funzionalità attuale.
Il Vasa fu recuperato nel 1961, dopo 333 anni, quasi intatto per la protezione offerta dalla sabbia e
dal fango dai quali era stato ricoperto. Nel 1974 era esposto in una specie di grande teca di vetro
nella quale veniva mantenuto un alto tasso di umidità per evitare lo sbriciolamento del legno. Era
ancora in corso il recupero di centinaia di reperti giacenti sul fondo, in prossimità del luogo dove
era stato il relitto e, per lo scafo, vi era un progetto per la stabilizzazione del legno con resine
epossidiche che avrebbe consentito l’eliminazione della teca. Molto interessanti gli atti del processo
al quale furono sottoposti i progettisti e gli ingegneri. Tutti coloro che ne capivano qualcosa erano
convinti che la colpa fosse del Re, Gustavo Adolfo di Svezia che, nonostante fosse stato
sconsigliato, aveva voluto una terza fila di cannoni sopra le due di progetto. La stabilità della nave
era notevolmente peggiorata ma, naturalmente, non si poteva incolpare il Re. Con ammirevoli
acrobazie, i giudici riuscirono ad assolverli senza che Sua Maestà venisse minimamente coinvolta.
Morning Cloud, era la terza imbarcazione con questo nome del Prime Minister Edward Heath.
Uno sloop di 45 piedi, progettato da Sparkman & Stephens e costruito in legno nel 1973 in Gran
Bretagna dal famoso cantiere Clare Lallow. Nello stesso anno aveva fatto parte della squadra
britannica dell’Admiral’s Cup. In questa tragica occasione, si trovava in navigazione da Burnham,
dove aveva partecipato alle regate della Burnham Week, a Cowes con un equipaggio di
trasferimento composto da sette persone esperte. Di notte, a circa sei miglia dal battello fanale di
Ower, mentre navigava con la sola randa con tre mani di terzaroli, venne coricata su di un fianco
da un frangente particolarmente violento e due membri
dell’equipaggio caddero in mare. Entrambi avevano la
cintura di sicurezza ed uno di essi fu recuperato, anche se con
qualche difficoltà. Per l’altro non ci fu nulla da fare per la
rottura del penzolo della cintura. Poco dopo, un secondo
frangente, più violento del primo, colpì la barca, scodellando
in mare un altro membro dell’equipaggio (figlioccio del
proprietario) che stava uscendo in coperta. Anche questa
volta i tentativi per recuperarlo furono vani e quando un
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terzo colpo di mare coricò la barca, che mise l’albero in acqua e stentò a rialzarsi, lo skipper si
rese conto che lo scafo aveva subito danni strutturali ed aveva comunque imbarcato un notevole
quantitativo d’ acqua. Giudicò che non fosse in grado di continuare in quelle condizioni e ordinò
di approntare la zattera autogonfiabile. Abbandonata la barca, i cinque superstiti, tre dei quali
piuttosto malridotti per contusioni e fratture, rimasero in balia del mare per cinque ore fino a
raggiungere terra all’alba, per fortuna in una zona sabbiosa della costa. Non erano riusciti a
lanciare alcun segnale di emergenza perché la forza del vento era tale che i razzi non riuscivano
ad alzarsi e si perdevano subito in mare.
(Sopra: fotografia pubblicata su di un articolo di un quotidiano francese dal titolo: “C’est tout
qu’il reste du “Morning Cloud”).
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Lo strano caso della "vedova inglese"
Ovvero la "dispersione" di una vasta e ricca collezione fotografico­
navale, dopo la scomparsa del suo curatore
di Maurizio Brescia
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Storia dei marinari e della pesca
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Notiziario del dicembre 2013