Storie dall’arte - La guida rossa
La guida rossa
(prologo per sette racconti a colore)
Mio padre amava andare per chiese e musei
con la guida del Touring in una mano e me
nell'altra. Io ero piccola. Mio padre
leggeva a voce alta poi alzava la testa,
indicava qualcosa e ricominciava a
leggere, e io dovevo ascoltare, ferma e
senza parlare.
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Non riuscivo a capire il motivo per cui
dovessi stare accanto ai suoi pantaloni
facendo finta di capire ciò che per me
non aveva senso. Non avevo fatto nulla
per meritarmi una simile punizione,
soprattutto nei giorni di sole.
All'uscita, se ero stata buona, ossia se
non avevo dato segni di vita, il che era
considerato un chiaro sintomo
d’interesse, venivo premiata con un
gelato come se, dopo la tortura, venisse
offerto al condannato un po’ d'unguento
per lenire le ferite. Divisa fra
l'orgoglio che mi suggeriva di dire “Non
mi va” e la gola che m’induceva a
considerarlo una giusta ricompensa per il
sacrificio fatto, finivo per convincermi
che in fondo me l’ero meritato perché
dovendo stare buona, senza alcuna
possibilità di ribellione o di rifiuto,
ancora una volta c'ero riuscita.
Per sopravvivere durante quelle
interminabili ore di bontà, facevo il
gioco della "conta” che consisteva,
ovviamente, nel contare tutto: i quadri
in ogni sala, i passi fra l'entrata e
l'uscita, le persone con gli occhiali, …
insomma tutto, fino a che qualcosa non
faceva nove, come i miei anni, o
ventinove come il giorno della mia
nascita o sette che sarebbe nove meno
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due, dal momento che due meno nove non si
poteva fare.
Il gioco della "conta" veniva bene nelle
chiese perché i pavimenti erano colorati,
fatti di stelle e di rombi, di quadrati e
di volute, e se c'era qualche santo era
fatto anche lui di quadretti, aveva gli
occhi sbarrati, e di solito teneva in
mano un ramoscello d’ulivo e un libretto
che poteva somigliare a una guida ma non
sempre era rosso. I santi dei pavimenti,
non erano come quelli senza colore appesi
alle pareti delle cappelle con le
candele, che parlavano solo di peccati e
di inferno... che noia.
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Con la scusa di una preghiera talvolta
riuscivo ad allontanarmi dalla guida
rossa per inerpicarmi lungo le cornici
che racchiudevano tappeti di rombi
colorati come fossero sentieri. Camminavo
mettendo un piede davanti all’altro con
le braccia larghe come un acrobata sul
filo, come se quella fila di tarsie fosse
stata sospesa su un burrone. Mi
incantavano quelle forme colorate di
verde, di marrone rossiccio, di bianco e
di giallo, erano vive. All'uscita dalle
chiese di solito venivo apprezzata per
aver dimostrato un profondo sentimento
religioso (si sospettava finanche una
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vocazione!) oltre a un vivo interesse,
ragion per cui, insieme al gelato, mi
veniva comprato anche un pacchetto di
caramelle. Mai un giornaletto!
Mio padre morì e nessuno più prese in
mano la guida rossa, men che meno io. E
da quel giorno passarono anni prima che
mettessi di nuovo piede in un museo.
Capitai in una di quelle chiese con i
pavimenti belli in occasione di un
matrimonio. Nonostante fossi diventata
grande, se così si può dire, vi entrai
con una certa diffidenza, dal momento che
la memoria lo riconosceva come un luogo
di tortura. Superati i primi momenti
provai una sorta di piacere, ma lo
attribuii alla musica, agli addobbi e
alle circostanze che, di fatto, poco
avevano a che fare con architravi,
absidi, transetti e capitelli ... parole
che mi affiorarono nella mente come
retaggio di una vita passata.
Durante i miei viaggi, presi a entrare in
qualche chiesa anche se non si
celebravano matrimoni a patto, però, che
nessuno mi dicesse nulla. Non volevo
avere la benché minima cognizione del
secolo in cui era stata eretta,
dell'architetto che l'aveva progettata,
di chi l'aveva commissionata e perché.
Non sopportavo nemmeno la vista dei
numeri romani nelle bacheche disposte
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all'entrata che, oltre agli orari delle
messe, riportavano brevemente i cenni
storici. Io entravo e volevo solo
ascoltare i rumori delle sedie spostate
dalle vecchie bigotte, il trascinar di
passi del sacrestano e, se qualcuno lo
suonava, l'organo. Me ne stavo un po’
seduta. Poi mi alzavo guardandomi intorno
e facevo qualche passo in lungo e in
largo. Quando uscivo sapevo se quello era
un luogo che faceva bene o no.
Un giorno durante una di queste visite
fugaci avvenne la folgorazione. Vidi un
quadro, una pala d'altare che raffigurava
l'ennesima madonna fra angeli, santi e
apostoli. A quella vista, però, provai
una strana sensazione, fisica direi, ma
non solo. Fu un brivido a cui seguì
un'inquietudine che mi accompagnò nei
giorni successivi. Quel quadro non
rappresentava la Madonna, ma uno stato
dello spirito. Ringraziai mio padre per
essersi fatto detestare durante quelle
interminabili mattine trascorse tra
chiese e musei, fui riconoscente verso i
miei professori per essere stati tanto
illuminati da non avermi insegnato nulla
in tutti gli anni di scuola che
seguirono. Se le cose non fossero andate
così, probabilmente non avrei mai provato
quell'emozione. Avrei semplicemente
riconosciuto l'opera del pittore X,
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realizzata nel secolo Y, commissionata da
Z per una qualche occasione. Quel quadro
sarebbe stato inesorabilmente relegato
nel suo contesto storico e l'avrei forse
apprezzato come testimonianza di onori di
corte o di trame curiali e non, come
invece era, una presenza attiva. Santa
ignoranza.
L'emozione provata rimase a lungo dentro
di me, integra, come un'ampolla di luce.
Ero incredula di fronte a quello stato di
grazia che non avevo scelto e che non
avevo fatto nulla per meritarlo, neanche
la buona.
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Assunsi un'espressione fra il serafico e
l'ebete, tant’è che molti nutrivano il
sospetto che stessi vivendo un amore
travolgente o che avessi cominciato a
fare uso di stupefacenti.
"Ho visto la Madonna" rispondevo
semplicemente a chi mi faceva domande.
Col passare del tempo, quel sentimento
assunse toni più pacati e profondi. Mi
sentivo rinata, nata di nuovo e questa
volta con la convinzione (e da allora non
ho più cambiato idea) che finché sarei
riuscita a provare una simile emozione
sarei stata salva. Avevo conosciuto
l'arte.
Come ho detto ero appena nata, e quindi
non sapevo né leggere né scrivere. Non
sapevo parlare, né sapevo conoscere o
riconoscere. Cominciai a guardare le
figure. Compravo, e compro, cataloghi e
libri solo per guardare le figure, come
fanno i bambini. Descrivevo a voce alta
ogni quadro fotografato, ne osservavo le
proporzioni e le simmetrie, ne raccontavo
i colori, sentivo se erano caldi o
freddi, se erano morbidi o se
graffiavano.
Ebbe inizio uno stato di innamoramento
che si andava alimentando di piccole
abitudini, quali una mostra, un catalogo,
un articolo di giornale; ma, strano a
dirsi, nonostante questo stato di grazia,
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non riuscivo a ritenere informazioni
quali il secolo, la scuola, la maniera,
parole queste che si leggevano su quella
famosa guida rossa. Comunque era amore,
non una cotta, e la consapevolezza che di
quell’amore non si poteva morire era
sempre più forte. Riserve e pregiudizi,
se mai ce ne fossero stati, caddero
definitivamente un giorno d'inverno nel
cuore di Parigi. Ero nel centro Pompidou
quando un altoparlante annunciò che una
guida attendeva all'entrata quei
visitatori che avessero desiderato un
approccio migliore con l'arte moderna.
Andai ovviamente. Trovai un ragazzotto
vestito tutto di nero, con il golf dal
collo alto infilato nei pantaloni, i
capelli un po’ lunghi e gli occhi
azzurri. Forse erano grigi, ma non ha
importanza.
"Benvenuti", disse allo sparuto gruppo di
persone che si era radunato, "siamo ai
primi del novecento e nel mondo stanno
accadendo grandi cose”.
Parlò della conoscenza, di ciò che si
conosce e che si riconosce, di come si
presenta e si rappresenta l'uomo
"moderno", dei mezzi che ha per
esprimersi e per descriversi, di cosa
cerca e di cosa ha bisogno. Questo era
l’oggetto dell'arte moderna. Almeno così
mi sembrò di capire.
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Ci portò davanti a un quadro di Braque e
sentii lo strazio della forma oltre
l'apparenza, poi ci riunì intorno a una
tela di Pollock e fui sicura che quei
graffiti fossero i suoi stessi pensieri,
fluiti lungo il braccio e il pennello,
che avevano trovato pace sulla tela
bianca.
Non fu folgorazione perché quella c'era
già stata, ma presa di coscienza. Da quel
ragazzo in nero e con gli occhi azzurri
imparai che la storia dell'uomo è scritta
sulla tele (spesso nella vita ho scoperto
l’acqua calda!).
All'uscita raggiunsi gli amici che mi
attendevano in un bar. Mi guardarono con
occhi inquisitori mentre eccitata
ordinavo un bicchiere di vino. Non
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potendo dire ancora una volta di aver
visto la Madonna commentai laconica:
"Esperienza indimenticabile”.
Così hanno preso vita questi sette
racconti, che per me sono la
testimonianza di sette incontri d'amore.
E come ogni incontro d'amore lascia
odori, sensazioni e ricordi che sono
qualcosa di diverso dalla persona
incontrata, così questi racconti non
hanno la pretesa di “parlar d'arte” ma di
quello che l'arte mi ha dato.
Alcuni pittori di cui ho "guardato" le
figure hanno scritto qualcosa, e questo
qualcosa è stato lo spunto per raccontare
una storia. Di altri non so se hanno
scritto o detto, ma ciò che ho visto è
bastato.
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