APRILE 2012 – Meditazione mensile per Istituto “Santa Famiglia” BEATI I MITI La famiglia imita Gesù ¾ Mt 7,1-5: Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi, e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c'è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello. La mitezza è collegata in modo essenziale all’umiltà. È Gesù stesso che ci invita a fissare il nostro sguardo su di lui, perché per natura è «mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29). La manifestazione più commovente della mitezza e dell’umiltà di Gesù non sta solo nel dono della vita per noi (già gesto di grande valenza, imitato da mamme e papà e tanti missionari), ma in un gesto che poteva solo compiere un uomo che era anche Dio: Gesù per noi si è fatto peccato per liberarci dai peccati. Ha voluto su di sé il “giudizio di condanna” a motivo dei nostri peccati per pronunciare su di noi un “giudizio di salvezza”. A) LA GRAVITÀ DEL “GIUDICARE”. – Il brano del discorso della montagna, scelto a commento di questa beatitudine, pone in evidenza la gravità di questa tendenza: la facilità con cui si giudica e si condanna. La certezza con cui a volte trinciamo giudizi, sicuri di indovinare le ragioni per cui la persona ha agito, dice la gravità del “giudicare” per due ragioni: • presumiamo di dover decidere in un ambito che è unicamente di Dio. L’uomo non può avventurarsi nell’ambito del cuore se vuole evitare il pericoloso processo alle intenzioni; • resa ancor più grave questa presunzione dal fatto che Dio ha deciso di sospendere ogni “giudizio di condanna” durante la nostra esistenza terrena, perché il giudizio di condanna il Figlio di Dio l’ha accettato su se stesso per farci dono del “giudizio di salvezza”. Ecco la ragione della forte affermazione iniziale: Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi, e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. B) LA MITEZZA E L’UMILTÀ DI DIO. – La mitezza, quindi, è giustamente considerata un atteggiamento che, insieme all’umiltà, appartiene a pieno diritto al catalogo delle virtù umane e cristiane, poiché – diceva il moralista Bernhard Häring - «l’importanza della mitezza per la vita sociale è evidente». 1) Nell’esperienza del popolo di Dio, la mitezza e l’umiltà sono i due epiteti classici degli anawim, cioè dei “poveri di Jahvè”, i quali poggiano unicamente sul forte sostegno del Signore. In che modo? Perché il Signore è colui che vince il superbo proprio con l’onnipotenza della sua mitezza e della sua umiltà, e concede al mite e umile di cuore di confondere i superbi. L’esempio di san Massimiliano Kolbe… La mitezza e l’umiltà è la stessa armatura di Dio, che la creatura deve indossare se vuole vincere il superbo. 2) La vera grandezza di Dio è la mitezza e l’umiltà. François Varillon gesuita, esperto di formazione cristiana, scrive nel libro “Umiltà di Dio”: «Dio rivela ciò che è attraverso ciò che fa. In lui non è possibile scindere l’agire e l’essere. Ora se l’incarnazione è atto di umiltà significa che Dio è essere di umiltà. “Chi vede me, ha visto il Padre”. Vedendo Gesù lavare con umiltà i piedi di uomini, “vedo” Dio stesso eternamente e misteriosamente –1– servitore con umiltà nel più profondo della sua Gloria. L’umiltà di Cristo… manifesta nel tempo che l’umiltà è al centro della storia». Ecco perché Gesù afferma che i miti possederanno la terra. 3) Infine in Cristo siamo obbligati a contemplare l’assoluta Onni-Impotenza di Dio. È il Calvario che rivela la vera natura della Onnipotenza di Dio: il fallimento della croce è la vittoria definitiva nei confronti dei superbi e degli arroganti. Si intuisce una verità sconvolgente: il vero amore è mite e umile; non si può amare con orgoglio, perché in questa situazione l’amore diventa un possesso, non un dono. C) IL MITE E L’UMILE EREDITA LA TERRA. – Scrive Häring: «Possiamo chiamare Cristo la tenerezza incarnata… Cristo non è venuto per sottomettere a sé la terra per mezzo della spada… La sua pedagogia è dialogica, liberante, perché paziente e gentile». Mitezza ed umiltà: due facce della stessa medaglia; il che significa che non possiamo essere miti senza umiltà e non possiamo essere umili senza la mitezza. Ora l’espressione più bella della mitezza e dell’umiltà nel rapporto di coppia è la sottomissione vicendevole; nel rapporto con gli altri, nella vita comunitaria e civile, è la non-violenza, di cui proprio Gandhi, un credente che non s’è fatto cristiano a causa dei cristiani, si è fatto banditore offrendo la vita. 1) Nel rapporto di coppia, l’umiltà e la mitezza sono la radice da cui spunta come un fiore l’agape, cioè l’amore che, per volere di Dio, deve unire un uomo e una donna. È impossibile amare in modo gratuito, disinteressato, per sempre, senza l’umiltà. La manifestazione gioiosa e liberante è la sottomissione vicendevole, che Paolo illustra agli Efesini 5,21-33. Il brano paolino ha dato adito a sorrisini compiaciuti di superiorità degli uomini sulle donne; di conseguenza ha provocato rivendicazioni che, in successione alternata, portavano ora al predominio dell’uomo, ora a quello della donna; con la conseguente cancellazione della mitezza e dell’umiltà, considerate virtù dei perdenti. Invece, Paolo descrive i nuovi rapporti che, a motivo della venuta di Cristo, si instaurano tra marito e moglie. a) L’invito iniziale: «Siate sottomessi gli uni gli altri nel timore di Cristo» richiede da parte dei coniugi un forte cammino di umiltà; e se Paolo continua con il dire «La moglie sia sottomessa al marito», è puerile accusarlo di maschilismo per due ragioni: • anzitutto non dice che «il marito deve sottomettere la moglie», ma che «la moglie sia sottomessa al marito». È una sottomissione volontaria, che non esalta il marito, ma esalta l’amore, perché è nella natura dell’amore la mitezza e l’umiltà della sottomissione. • In secondo luogo il riferimento a Cristo («il marito ami la moglie come Cristo…»), afferma che la sottomissione del marito alla moglie deve essere così radicale e profonda da essere disposto a dare la vita per la moglie, come Cristo ha dato la vita per la Chiesa. Non dimentichiamo mai che l’azione attiva di sottomettere l’altro è solo di Dio; l’uomo, che pretende di sottomettere l’altro, compie un gravissimo peccato di idolatria; reso più grave dal fatto che Cristo stesso, il Dio fatto uomo, si è sottomesso volontariamente a noi assumendo la natura umana. Per questa ragione il marito e la moglie devono guardare all’umile per eccellenza per vivere tra di loro l’umiltà della sottomissione. Di conseguenza, la mitezza è l’umiltà dell’amore che trasuda dal volto, dai gesti che marito e moglie compiono e dalle parole che si dicono. L’arroganza è, invece, la superbia che traligna dal volto, dalle mani, da tutto il corpo. b) Il cammino di vicendevole sottomissione è possibile se marito e moglie coltivano un grande timore reverenziale verso Cristo. Lui solo è tutto in tutti. c) L’alimento indispensabile per vivere in pienezza questo “rapporto sponsale” all’in–2– segna della mitezza e dell’umiltà, è l’Eucaristia. “Abundantes divitiæ gratiæ suæ” (AD) 2) Nei rapporti sociali la mitezza e l’umiltà portano al rispetto. È questa una testimonianza quanto mai urgente se non vogliamo che il mondo si trasformi in una giungla in cui ci si divora a vicenda. Nel primo “Canto del Servo” Dio presenta il suo prediletto come modello di “non-violenza”. Scrive il profeta Isaia (42,1-3): «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni». In quale modo? Il servo: • «non griderà, né alzerà il tono»: parlerà più con la vita che con le parole. Sarà autorevole, mai autoritario. La virtù sociale dell’autorevolezza; • «...non farà udire in piazza la sua voce»: non ha bisogno di farsi vedere, di autoesaltarsi. Non accetterà mai la superbia come stile di vita, ma l’umiltà; • «...non spezzerà una canna incrinata»: nel rapporto con gli altri, rispetterà chi è debole; non darà mai al debole il colpo di grazia, ma si metterà accanto a lui con pazienza e amore. La virtù sociale della pazienza; • «...non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta»: farà sempre leva sul positivo per dar vita e incoraggiare la persona che forse sta spegnendosi per le sue negatività. La virtù sociale dell’ottimismo; • «...non verrà meno e non si abbatterà»: non si scoraggerà mai per gli insuccessi e le incomprensioni; non dirà mai «Tutto è inutile!» di fronte ad un insuccesso. Dirà unicamente – come ci invita Gesù – «Sono servo inutile!» (cf Lc 17,10). La virtù sociale dell’equilibrio. 3) Appare evidente il valore sociale della mitezza evangelica. Scrive Häring: «I rapporti umani, soprattutto nella vita economica, culturale, sociale, politica e internazionale, sono spesso avvelenati da una critica acida e violenta. E proprio perché manca quella benevolenza e quel rispetto che si manifestano nella gentilezza, spesso si arriva all’uso della violenza… Alcuni anni fa nei momenti dell’esplosione generale di contestazione, a un religioso abbastanza contaminato da questa tendenza, diedi come penitenza di astenersi durante un anno intero da ogni critica … Egli si convinse e osservò bene questa penitenza. Dopo alcuni mesi mi disse: “Non ho più bisogno di fare della critica acida, perché ora i confratelli mi ascoltano volentieri”» (Beatitudini, testimonianza e impegno sociale, pp. 19-20). Riflessioni personali o di coppia • • • • Qual è il dono che Gesù fa ai “miti e umili di cuore”? Leggete Mt 11,2829 e applicate ciò che Gesù dice alla vostra vita di famiglia. La società contemporanea sta affogando nel “processo alle intenzioni”. Per cogliere la gravità del “giudicare” alla luce delle parole di Gesù, cercate di comprendere la distinzione tra “costatare” e “giudicare”. Nell’amore la “sottomissione vicendevole” illumina il rapporto di coppia. Come la vivete? C’è tanto bisogno di rispetto nelle relazioni. Quali “virtù sociali” sono le più necessarie? –3– La “mirabile Famiglia Paolina” Il beato Giacomo Alberione afferma: «Tutti gli istituti considerati assieme formano la Famiglia Paolina: tutti gli istituti hanno comune origine...». Nella luce, che veniva dall’Ostia, intuisce che l’unità tra le dieci istituzioni ha la modalità della famiglia, in cui il vincolo non sarà quello del sangue, ma quello dello Spirito Santo. Ce ne fa gustare la bellezza quando afferma: «Considerando ora la piccola FP si potrebbe paragonarla a un corso d’acqua, che mentre procede si ingrossa, per la pioggia, per lo sgelo di ghiacciai, per varie piccole sorgenti. Le acque, così raccolte, vengono poi divise e incanalate per l’irrigazione di fertili pianure e produzione di energia, calore e luce. Egli ha piuttosto assecondato, quasi “subìto” (nel testo autografo questa parola è sottolineata per evidenziare la sensazione percepita in modo forte dall’autore), che non provocato la convergenza e la raccolta delle acque nelle valli: come poi ha assecondato il volere di Dio nella divisione delle acque in nazioni a beneficio di molti; attendendo che di nuovo i canali si riuniscano per entrare nel mare di una felice eternità» (AD 5-6). L’espressione «nel mare di una felice eternità» ci rivela la perennità del dono che Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo; e non saranno di certo difficoltà contingenti, anche se gravi, a vanificare questa volontà divina. A noi tocca essere fedeli, coscienti che al Signore non serve il numero, ma la nostra disponibilità senza riserve. Stupito egli stesso scrive con gioia: «Così intendo appartenere a questa mirabile Famiglia Paolina: come servo, ora ed in cielo; ove mi occuperò di quelli che adoperano i mezzi moderni e più efficaci di bene: in santità, in Cristo, in Ecclesia» (AD 3). È un’appartenenza che ha sapore di eternità, avvalorata dall’affermazione: «La Famiglia Paolina ebbe segni numerosi e chiari di essere stata voluta dal Signore e dell'intervento soprannaturale della sua sapienza e bontà» (AD 32). Difatti il beato Timoteo Giaccardo nel “Diario”, che abbraccia gli anni fondazionali, un libretto mirabile nella sua semplicità, scrive: «Stamane di nuovo parole profetiche del signor Teologo: “Non ho mai come stanotte e in questi giorni veduta così chiara la volontà di Dio. Egli vuole che vi siano pochi ma di buona volontà, energica e risoluta! Ah, se comprendeste l'altezza della nostra missione!”». Quindi, siamo “famiglia”, uniti da un vincolo che risulta più forte del vincolo del sangue: il vincolo dello Spirito santo. Non perdiamo mai il senso di appartenenza. Per informazioni sull’ISTITUTO SANTA FAMIGLIA: http://www.stpauls.it/istit/santafamiglia.htm –4–