VINCENZO
BELLINI
LA SONNAMBULA
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Commissario straordinario
Carlo Fuortes
Direttore musicale
Daniele Rustioni
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Collegio Revisori dei Conti
Presidente
Giovanni Argondizza
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Membri effettivi
Marco Aldo Amoruso
Ruggiero Pierno
INDICE
La sonnambula in breve
di Anna Cepollaro
pag.19
La sonnambula in brief
di Anna Cepollaro“
TRAMA D’AUTORE
di Guido Paduano “
La sonnambula
di Gioacchino Lanza Tomasi “
Prolegomeni a una lettura della ‘Sonnambula’
di Francesco Degrada “
La verità del sogno: La Sonnambula
di Guido Paduano “
Visto da lontano
Passeggiatina sonnambolica di Pierre Enckell “
QUARTA PARETE
La sonnambula che è una bambola... di Gianfranco Capitta “
VISIONI
Spazi di transito di Stefania Aluigi “
FLATUS VOCIS
I ruoli vocali ne ‘La Sonnambula’ di Federico Vizzaccaro “
POLVERE D’ARCHIVIO
La Signora Pasta di Stendhal “
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27
29
37
49
67
75
79
89
95
INTERVISTE PARALLELE
di Mauro Mariani “
105
IL LIBRETTO
La sonnambula di Felice Romani “
115
LA SONNAMBULA
Il soggetto “
con GUIDA ALL’ ASCOLTO
di Alessandro Taverna “
GLI ARTISTI
Biografie e organici “
110
117
161
VINCENZO
BELLINI
LA SONNAMBULA
sabato 14 settembre martedì 17 settembre
giovedì 19 settembre domenica 22 settembre
martedì 24 settembre
/ ore 20.30
/ ore 20.30
/ ore 20.30
/ ore 18.00
/ ore 20.30
Il disegno del manifesto - Marco Sauro
LA SONNAMBULA
melodramma in due atti
di Vincenzo Bellini (1801-1835)
libretto di Felice Romani (1788-1865)
tratto da “La Somnambule” di Eugène Scribe e Germain Delavigne
e da “La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur”
di Eugène Scribe e Pierre Aumer
prima rappresentazione: Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831
Daniele Callegari direttore
Giorgio Barberio Corsetti regia
scene e costumi video
disegno luci coreografie
Cristian Taraborrelli
Gianluigi Toccafondo
Marco Giusti
Roberto Aldorasi
assistente regia Fabio Cherstich
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
PERSONAGGI
Il Conte Rodolfo Teresa Amina
Elvino Lisa Alessio Un notaro Paolo Pecchioli
Sara Allegretta
Jessica Pratt
John Osborn
Alessandra Marianelli
Francesco Verna
Raffaele Pastore
Mimi
Ivan Dell’Edera , Fabrizio Lombardo, Anna Moscatelli
Maurizio Semeraro, Italia Aiuola
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
maestro del coro Franco Sebastiani
Produzione Fondazione Petruzzelli
Nuovo allestimento
Scene
Laboratorio Fondazione
Petruzzelli
Elementi scultorei in
resina: Tecno Scena srl
Guidonia Roma
Poltrone: Gaetano
Viterbo Arredamenti Bari
Videoproiezioni
TVI srl Roma
Attrezzeria
Laboratorio Fondazione
Petruzzelli
Costumi
Il Costume Roma
Annamode 68 srl Roma
Parrucche
Roberto Paglialunga
Roma
Calzature
Pompei 2000 Roma
9
La sonnambula, foto di scena
LA SONNAMBULA in breve
di Anna Cepollaro
Il tono espressivo della musica di Sonnambula è
da definirsi propriamente religioso: religione del
sentimento, degli affetti, della fraterna e partecipe
comunità degli spiriti con il mondo degli uomini e della
natura. Religione dei valori contemplati con lo stesso
rimpianto e la stessa struggente malinconia che è la
vita e la sostanza della più alta poesia leopardiana. La
scena dell’azione è un sognato paesaggio dell’anima;
e i personaggi diventano momenti e aspetti
complementari di un malinconico vagheggiamento di
un mondo perduto
È la splendida descrizione di Francesco Degrada del
melodramma in due atti di Vincenzo Bellini andato in
scena al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo 1831, e subito
rappresentato a Londra in luglio e a Parigi in ottobre.
La fretta con cui La sonnambula è composta, tra il gennaio
e i primi giorni di marzo del 1831, è dovuta ai tanti impegni
del librettista Felice Romani e ai ripensamenti di Bellini, che
in un primo momento scrive musiche per Ernani, dall’opera
teatrale di Victor Hugo, il cui soggetto a Parigi era stato
accolto come ‘scabroso’. Ma, per quanto preoccupato del
pericolo che l’opera subisca tagli e divieti, Bellini aspira
piuttosto a scrivere una cosa nuova, che si differenzi dalle
sue creazioni precedenti, visto che un suo lavoro, I Capuleti
e i Montecchi, aveva aperto la stagione della Scala proprio
quell’anno. Inoltre, il compositore vuole prendere le distanze
dalle tematiche che Donizetti, suo rivale più prossimo,
adopera in Anna Bolena, che il 26 dicembre aveva inaugurato
il Carcano con gli stessi interpreti, il tenore Giovanni Battista
Rubini e il soprano Giuditta Pasta, che avrebbero vestiti i
panni dei ruoli principali de La sonnambula.
Infine, proprio il soprano può aver espresso il desiderio di
un soggetto diverso da quelli fino ad allora interpretati. “La
Pasta qual Semiramide inarrivata, qual portentoso Tancredi,
qual Nina assai pregevole, aveva un solo posto nella sua
corona di lauro che il pastorale e sentimentale affetto della
Sonnambula ha ora compiutamente occupato e con vero
suo trionfo”, scrive, pochi giorni dopo la prima, un critico del
10
Annus mirabilis
Nel 1831 il Belgio,
ottenuta l’indipendenza
dai Paesi Bassi, adotta
la sua costituzione
eleggendo Leopoldo I
come re; a Torino muore
Carlo Felice e gli succede
il nipote Carlo Alberto;
Mazzini va in esilio; in
Vaticano il conclave si
conclude con l’elezione di
Mauro Alberto Cappellari
come Papa Gregorio XVI;
a New York va in scena
Il Gladiatore di Robert
Montgomery Bird; nasce
Ippolito Nievo; muore
Hegel; Mendelssohn
compone il Concerto per
pianoforte n. 1 in sol
maggiore; a Milano va
in scena la prima della
Norma di Bellini; viene
pubblicato Notre-Dâme
de Paris di Victor Hugo;
in America la prima
locomotiva a carbone
compie la traversata della
Pennsylvania; Michael
Faraday mostra al mondo
il primo trasformatore
elettrico e James Clark
Ross scopre la posizione
del Polo Nord Magnetico
nella Penisola di Boothia;
viene fondata l’Università
dell’Alabama e la New
York University; Darwin
intraprende il suo storico
viaggio a bordo dell’HMS
Beagle; il London Bridge
viene aperto al traffico.
11
La sonnambula, foto di scena
“Corriere delle Dame”.
Parte della musica composta per Ernani Bellini la riutilizza
in questo nuovo lavoro. Capovolta la tendenza che vedeva
il balletto prendere spunto da argomenti operistici, il
soggetto deriva dal ballet-pantomime di Ferdinand Hérold
La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur,
rappresentato all’Opéra di Parigi tre anni prima, e a sua volta
basato sulla comédie-vaudeville in due atti La Somnambule
di Eugène Scribe e Germain Delavigne, che aveva trionfato al
Théâtre du Vaudeville di Parigi il 6 dicembre 1819.
Il tema del sonnambulismo è di casa in teatro già dal
Seicento: memorabile la passeggiata di Lady Macbeth
nell’omonima tragedia di Shakespeare, quando la
spaventosa regina cammina nel sonno strofinandosi le mani
e svelando oscuri avvenimenti attraverso pezzi sconnessi
di dialoghi immaginari. Dalla seconda metà dell’Ottocento
anche la musica si appropria delle possibilità sceniche del
sonnambulismo. Nel 1824 alla Scala viene rappresentata
Amina ovvero l’innocenza perseguitata di Giuseppe Rastrelli
su libretto di Felice Romani, che qualche anno dopo
riprenderà il soggetto per offrirlo a Bellini.
Amina dormendo “giunge presso alla ruota camminando
sopra una trave mezzo fracida che piega sotto di lei” indica
il libretto. Grandi voci hanno interpretato la rischiosa
passeggiata della fanciulla dormiente, da Maria Malibran
a Giuseppina Strepponi, da Adelina Patti a Jenny Lind, da
Toti Dal Monte a Maria Callas, da Renata Scotto a Joan
Sutherland, dimostrando sempre il suo enorme potere
emotivo.
Fin dalle scene iniziali, la musica della Sonnambula stabilisce
l’atmosfera della storia, e lo sviluppo drammatico procede
a ritmo sostenuto grazie all’incredibile scrittura vocale di
Bellini, esemplificata dalla mirabile aria finale di Amina, “Ah,
non credea mirarti”. Aria che, tra l’altro, taluni hanno voluto
considerare progenitrice o figlia della canzone napoletana
Fenesta ca lucive, nella quale sono riconoscibili elementi
melodici sì presenti nella Sonnambula, ma anche nel Mosè di
Rossini e che, probabilmente, testimoniano semplicemente
del gusto dell’epoca.
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La SONNAMBULA in BRIEF
di Anna Cepollaro
The expressive tone of the music of La Sonnambula
can be defined as truly religious: evoking the religion
of the emotions, of love, of the active, fraternal
community of the spirits with the world of man and
nature; the religion of values contemplated with the
same regret and the same heartrending melancholy
that is the life and essence of Leopardi’s most sublime
poetry. The action is set in a dreamlike landscape
of the soul; and the characters become moods and
perspectives that complement a melancholic yearning
for a lost world.
This is Francesco Degrada’s splendid description of Vincenzo
Bellini’s two-act melodrama, which opened at Milan’s Teatro
Carcano on 6 March 1831; it was then performed in London
in July and in Paris in October of the same year.
The haste with which La sonnambula was written, between
January and the first days of March, was in part due to the
many commitments of the librettist Felice Romani and in
part to Bellini himself, who had actually begun writing music
for Ernani, a work based on a play by Victor Hugo that had
been described as “scabrous” when it opened in Paris;
although worried about the risk that the opera might be cut
or banned, Bellini was eager to write something new that
would stand apart from his previous works, one of which, I
Capuleti e i Montecchi, had opened the season at La Scala
that same year. Moreover, the composer wanted to distance
himself from the themes that Donizetti, his closest rival, had
used in Anna Bolena, which had opened at the Carcano on
26 December with the same performers, the tenor Giovanni
Battista Rubini and the soprano Giuditta Pasta, who would go
on to play the leading roles in La sonnambula.
In fact, it may have been the soprano herself who expressed
the desire to take on a subject different from anything she
had attempted before. “After her incomparable rendering
of Semiramide, her marvellous Tancredi and her exquisite
Nina, Pasta’s laurel crown was lacking only one branch, but
with her triumphant performance in the role of the pastoral,
15
La sonnambula, foto di scena
romantic Sonnambula, that crown is now complete,” was
the verdict of a critic writing for the “Corriere delle Dame”
a few days after the premiere. Bellini reused some of the
music he had writtten for Ernani in this new work. Reversing
the tendency of ballet to draw inspiration from opera, he
took his subject from Ferdinand Hérold’s ballet-pantomime
La Somnambule ou L’arrivée d’un couveau seigneur, which
had been performed at the Paris Opéra three years earlier,
and was in turn based on a two-act comédie-vaudeville, La
Somnambule, by Eugène Scribe and Germain Delavigne that
had been a triumphant success on its opening at the Théâtre
du Vaudeville in Paris on 6 December 1819. The theme of
somnambulism had been popular in the theatre since the
17th century: one striking example is Shakespeare’s fearsome
Lady Macbeth who, rubbing her hands as she walks in her
sleep, reveals through her disjointed contribution to an
imaginary dialogue the terrible events that have happened.
From the second half of the 19th century, music too began to
exploit the dramatic possibilities of somnambulism. In 1824
La Scala put on Giuseppe Rastrelli’s Amina ovvero l’innocenza
perseguitata. The libretto was by Felice Romani, who a few
years later would take up the same subject and offer it to
Bellini. The sleeping Amina “reaches the wheel by walking
along a half-rotten beam that bends under her weight”
says the libretto. Great artists who have retraced the risky
steps of the sleeping girl in this powerfully emotional scene
include Maria Malibran, Giuseppina Strepponi, Adelina Patti,
Jenny Lind, Toti Dal Monte, Maria Callas, Renata Scotto and
Joan Sutherland. Right from the opening scenes, the music
of La sonnambula evokes the atmosphere of the story. This
unfolds at a brisk pace thanks to Bellini’s incredible music,
of which Amina’s final aria “Ah, non credea mirarti” is such
a wonderful example. The aria has been thought by some,
incidentally, either to have inspired or to have been inspired
by the Neapolitan song Fenesta ca lucive, in which there
are melodic echoes not only of La sonnambula, but also of
Rossini’s Mosè, though in fact they are probably nothing
more than an indication of the tastes of the time.
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17
La sonnambula, foto di scena
TRAMA D’AUTORE
di Guido Paduano
Amina, una ragazza di campagna, sta felicemente per sposarsi
col suo innamorato (Elvino), senz’altri turbamenti che il
rancoroso dispetto della precedente fidanzata di lui, l’ostessa
Lisa, quando il paese è messo in subbuglio dall’arrivo di un
aristocratico cittadino: il signore del castello, Rodolfo, che
rientra nei luoghi della sua infanzia. Egli sembra guardare
con interesse sospetto alla sposa, e al gelosissimo sposo
sembra, del tutto a sproposito, che l’interesse sia ricambiato.
Il sospetto diventa certezza, lacerazione, abbandono quando
la sposa viene trovata nella camera d’albergo di Rodolfo,
il quale tuttavia è in grado di spiegare: Amina soffre di
sonnambulismo: non è altri che lei, nel suo vagare notturno,
il fantasma di cui tutto il villaggio favoleggia con sgomento.
Nella stanza di Rodolfo è dunque entrata incoscientemente,
e si è rivolta a lui sognando un dialogo con Elvino. La
spiegazione è presa come un’interessata menzogna, ed Elvino
si accinge a sposare Lisa per ripicca (se non fosse che anche
Lisa viene accusata, e lei giustamente, dello stesso peccato),
quando sulla scena compare Amina. Il turbamento l’ha
spossata, e ora nel sonno esprime indubitabilmente il suo
dolore e il suo amore. Avviene la riappacificazione e Amina
risvegliata si trova felice, acclamata dai suoi compaesani.
19
La sonnambula, foto di scena
LA SONNAMBULA
di Gioacchino Lanza Tomasi
Ricevuta la commissione dell’opera di carnevale per il
Carcano, Bellini e i suoi consulenti, la Pasta, la Turina e
Romani, si erano messi al lavoro già nell’estate del 1830.
Si ritrovarono tutti nelle ville della Pasta e della Turina
affacciate sul lago dì Como. Il soggetto prescelto era stato
lo Hernani di Victor Hugo. La tragedia era andata in scena
il 25 febbraio di quello stesso 1830 alla Comédie Francaise,
suscitando una “battaglia” da cui data in Francia la nascita
del teatro romantico. Sul finire dell’autunno il progetto viene
abbandonato. Bellini fa menzione in una lettera del 3 gennaio
1831 di interferenze da parte della censura: esse sarebbero
la causa dell’abbandono dello Hernani su suggerimento di
Romani che non vuol “compromettersi”. Invero la battaglia
di Hernani è inserita dagli storici nel clima liberale della
vicina rivoluzione di luglio. Bellini aveva nel frattempo
composto un paio di solfeggi privi di testo (a metà novembre
Romani ancora non gli aveva consegnato un solo verso) che
confluiranno poi nella Sonnambula. Scrisse anche alcuni
frammenti su alcuni versi del Romani dove si parla di un re
di Spagna. Pare che Bellini nutrisse anche apprensione per
la commissione dell’Anna Bolena a Donizetti. Romani ne era
il librettista ed è probabile che, una volta scartato il dramma
di Hugo, Bellini desiderasse evitare ogni affinità e mettere
in musica un soggetto di timbro completamente diverso.
Pare che la Pasta, protagonista di entrambe le opere, fosse
dello stesso avviso e da queste concomitanze di opinioni e di
impedimenti discenderebbe la scelta di un’opera idillio, un
tema che riportava Bellini ai tempi dei suoi studi ed amori
paiselliani, in particolare al modello della Nina, tema di
esercitazione prediletto dallo Zingarelli. Bellini era occupato
nel dicembre 1830 con la presentazione dei Capuleti alla
Scala e Romani con la versificazione dell’Anna Bolena per
il Carcano, e di conseguenza La Sonnambula non venne
iniziata che all’anno nuovo. Romani trasse l’argomento da
un ballet-pantomime di Scribe e Auber, messo in musica da
Hérold e andato in scena all’Opéra nel 1827. Come osserva
20
21
Franca Cella altra cosa era per Romani avere a disposizione
un dramma, o la successione di didascalie e prescrizioni
mimiche in cui si articola il libretto di una pantomima. In un
caso egli adempiva sostanzialmente al compito di traduttore
e riduttore, nell’altro l’invenzione poetica doveva spaziare
liberamente all’interno del clima prescritto. La particolarità
della fonte si traduce qui in un progetto affatto singolare.
La Sonnambula ha infatti tratti formali specifici, unici nel
quadro del melodramma romantico italiano, e decisamente
influenzati dall’origine ballettistica. Franca Cella fa rimarcare
il taglio, il clima da pas des deux del finale in dissolvenza
del primo quadro “Son geloso del zefiro errante”, e più in
generale tipica del balletto pantomima è la divina naiveté
della partitura. Un’opera progetto quindi, perché l’idillio non
rientrava fra i generi melodrammatici praticati attorno al
1830, tanto più che La Sonnambula, proprio per la sua origine
di ballet-pantomime, si distacca anche dalla articolazione
drammaturgica delle precedenti partiture larmoyantes che
ne sono l’antefatto in campo operistico. Ne consegue che
la soluzione formale de La sonnambula andava in buona
parte inventata, e tale si presenta la partitura, composta da
pochi pezzi chiusi, raccordati da ampie sequenze di ariosi
melismatici e di pezzi di carattere (pantomime e danze) il
cui timbro venne avvertito sin dai primi recensori come una
reminiscenza paesistica degli amati laghi lombardi.
Passiamo in rassegna i primi numeri della celebre partitura e
vediamo come essi si inseriscano nella elencazione tipologica
suggerita: Coro d’introduzione - lever de rideau e danza di
carattere; Cavatina di Lisa “Tutto è gioia, tutto è festa” - passo
a solo dell’antagonista; Stretta dell’Introduzione e coro “In
Elvezia non v’ha rosa” - corps de ballet, danza di carattere.
Bisogna arrivare al Recitativo e Cavatina di Amina “Come
per me sereno” per rinvenire una forma specificatamente
melodrammatica, ed anche qui il ritorno nella cabaletta ad
una fioritura belcantistica, sostanzialmente innovativa nella
sua intenzione di carattere, sollecita la memoria virtuosistica
22
Leggere
La scarsità della
letteratura critica su La
Sonnambula rispecchia
il ritardo generale degli
studi belliniani che fino
agli anni ‘80 del secolo
scorso hanno prodotto
in prevalenza scritti
di natura biografica.
Cionondimeno, la giovane
figura del catanese ha
affascinato “spiriti illustri”
come Heine e persino
Wagner e Stravinskij,
che hanno scritto su di
lui pagine vibranti. Sul
capolavoro belliniano
si segnala: l’ampio
saggio di Francesco
Degrada, Prolegomeni
a una lettura della
‘Sonnambula’ contenuto
in Il melodramma italiano
dell’Ottocento. Studi e
ricerche per Massimo
Mila, a cura di Giorgio
Pestelli, Torino, Einaudi,
della variazione di danza. L’intento, il progetto prescrive
in Sonnambula le soluzioni formali più che in ogni altra
opera del romanticismo italiano. La consueta ripetizione
della frase melodica è abbandonata per una più efficace
caratterizzazione degli amanti. Il primo duetto Amina-Elvino
ha una varietà di articolazione durchkomponiert quale non
si ritroverà fino al duetto Violetta-Germont nel secondo atto
della Traviata.
L’inserto del soprano “Ah! vorrei trovar parola” sorge con la
stessa totale alterità nella risposta che caratterizza il “Non
sapete” o il “Dite alla giovine” di Violetta. L’effetto magico
di tali partiture si coglie specialmente nella sorpresa, nella
devianza di un genere teatrale quale il melodramma italiano
per solito tanto torpido ad uscire dalle sue convenzioni,
e che nei casi illustrati lo fa senza cedere ad un impulso
sperimentale, sollecitato in profondità da motivazioni interne
al personaggio rappresentato.
Il carattere che accomuna La Straniera e La sonnambula
risiede nella impalpabilità del segno. Sono partiture sospese
sul vuoto, disegnate in un rapporto fra vocalità, armonia,
timbro che più esile non potrebbe darsi. Partiture che si
esauriscono nel tratto che disegna il personaggio, i suoi
affetti ed il suo comportamento, e da cui il “pezzo”, ad
esempio il concertato del finale primo, luogo deputato in cui
il compositore deve dimostrare la sua capacità professionale
nel disegnare il nodo avviluppato che nell’opera buffa
segnava il conflitto delle passioni o la babele delle lingue
che separa i protagonisti, emerge con subita pregnanza.
Nella Straniera questa sottolineatura drammaturgica plasma
il segno del rondò finale “Or sei pago o ciel tremendo”;
nella Sonnambula si rivela nella solitudine disperata della
protagonista, sola contro tutti nel Quintetto concertato
“D’un pensiero e d’un accento”. Anche di questo Quintetto
Verdi dovette sovvenirsi al tempo della Traviata. La voce di
Violetta percorre come quella di Amina il grande concertato
della dichiarazione d’innocenza “Alfredo, Alfredo di questo
1977; l’articolo di
Bruno Cagli, Il risveglio
magnetico e il sonno
della ragione. Variazioni
sulla calamità, l’oppio
e il sonnambulismo,
contenuto in “Studi
musicali”, XIV, 1985 che
radica la straordinaria
fortuna di tematiche
legate al sonnambulismo
nell’atteggiamento
avidamente voyeuristico
del pubblico ottocentesco;
infine l’interessante
saggio di Emanuele
Senici, Landscape
and Gender in Italian
Opera. The Alpine Virgin
from Bellini to Puccini,
Cambridge, Cambridge
University Press, 2005,
incentrato sui maggiori
esempi operistici di figure
femminili “alpine”.
23
La sonnambula, foto di scena
core”. Amina e Violetta sovrastano, sull’organetto del ritmo
a terzine, la folla sconvolta, stabiliscono nella fissazione
affettiva del pezzo chiuso la catarsi dell’olocausto femminile.
La stagione del 1831 al Carcano segnò anche la fortuna
definitiva della scena di pazzia. Tanto la Bolena che
La sonnambula si chiudono sulla scena di delirio della
protagonista, tòpos assoluto della fragilità femminile,
giocato sulla reminiscenza accorata, descrittiva, della felicità
sentimentale e sul successivo progetto di libertà (l’alternanza
aria-cabaletta allo stato genuino, quale alternanza di
sofferenza passata e possibile prospettiva di felicità), né è
rilevante che la fine delle due eroine abbia segno opposto, in
terra o in ciel, si sarebbe detto nel gergo melodrammatico,
il senso della questione resta la bontà in trionfo. Quanto
teatro barocco, auto sacramental, è alle spalle di ogni
teatro fondato sull’apologo, quasi la costruzione dell’epica
melodrammatica si sia sviluppata nell’Europa moderna per
successive sedimentazioni di esempi di valore. Piuttosto
va qui sottolineata la distanza stilistica, che è poi distanza
di spessore, fra i due compositori che si troveranno tante
volte affiancati, e in quegli anni, e nella sopravvivenza e
popolarità delle “pazzie” fino ai giorni nostri - il caso di
Bolena e Sonnambula si ripete quattro anni più tardi con
Puritani e Lucia. I caratteri di riforma, quel tratto che faceva
definire Bellini “il Lutero della musica italiana” in una
Enciclopedia delle scienze musicali stampata a Lipsia nel
1835, va individuato non tanto nel contributo del musicista
alla affermazione del gusto romantico, quanto nel suo
specifico tentativo di superarlo e quindi di evaderne. Nessuna
melodia “lunga, lunga, lunga”, secondo la definizione di
Verdi, è più caratteristica di questa peculiarità del suo stile
del celeberrimo “Ah! non credea mirarti”. Undici battute di
melodia senza quadratura nella sezione A in la minore, altre
quattordici fino alla cadenza, di cui invano si cercherebbe una
schematizzazione interna nella sezione B in do maggiore, con
due sole iterazioni della figura melodica “Ah! non credea”
25
e “Che un giorno sol durò”, accompagnate alla ripetizione
sconsolata del testo sono il tratto di un compositore estraneo
affatto alla regola delle simmetrie e dei precedenti su cui
si basa ogni convenzione, di un compositore in cerca di
una articolazione della parola cantata come principale
veicolo della propria arte che non ha precedenti né prima
né dopo di lui. Laddove nella Bolena di Donizetti le forme si
evolvono nell’ambito della tradizione dell’opera romantica
del secondo e terzo decennio dell’Ottocento, Bellini, nel
cercare una assoluta rispondenza fra musica, testo ed idillio,
afferma più che altro l’originalità che lo distingue. Quando
Romani ripercorrerà i tempi della Sonnambula addurrà quale
riferimento culturale l’Aminta del Tasso, limbo atemporale
di un genere poetico, un limbo che dell’opera è al tempo
stesso limite e pregio. Straniera e Sonnambula sono le opere
strumentalmente più castigate del compositore. Quando i
colori e i passi concertanti in orchestra sembrarono qualità
irrinunciabili non si mancò di farne carico al compositore e se
ne ascrisse la causa a una carenza di capacità professionali.
Il necrologio di Hector Berlioz parla espressamente di un
talento “peu versé dans la science harmonique et á peu
près étranger a celle de l’instrumentation”. Il rammarico per
questa sobrietà appare anche in Richard Wagner, forse il
maggior ammiratore del musicista, o almeno colui che seppe
valutare appieno il suo contributo ad un’opera riformata. E
bisogna attendere un famoso saggio di Ildebrando Pizzetti,
pubblicato nel 1915, perché questa caratteristica venisse
considerata una scelta deliberata affatto consona allo stile
belliniano, ed ancora una volta nella storia dell’opera si tornò
a parlare del mito delle origini, cioè della tragedia dei greci.
La Sonnambula andò in scena al Carcano il 6 marzo 1831.
Le previsioni davano la prima per metà febbraio, ma Bellini
e Romani erano come di consueto in ritardo. L’esecuzione
è rimasta negli annali dell’interpretazione come un esito
perfetto, fatto raro in tempi di gestioni impresariali, di
ritardi dei poeti e dei musicisti, di ristrettezze economiche,
26
di malattie degli artisti scritturati. La Sonnambula rimase
nella storia dell’interpretazione per la sua preparazione
coordinata in ogni dettaglio. La Pasta fu salutata come la più
grande attrice cantante di tutti i tempi, Rubini come il tenore
belliniano d’elezione, lodatissimo anche il basso Mariani, le
scene del Sanquirico si adoperano ancora oggi.
(da G. Lanza Tomasi, Vincenzo Bellini, Palermo, Sellerio, 2001)
27
La sonnambula, foto di scena
Prolegomeni a una lettura
della ‘Sonnambula ‘
di Francesco Degrada
Il tono espressivo della musica della Sonnambula è da definirsi
propriamente religioso: religione del sentimento, degli affetti,
della fraterna e partecipe comunità degli spiriti con il mondo
dell’uomo e della natura. Religione dei valori contemplati
con lo stesso rimpianto e la stessa struggente malinconia
che è la vita e la sostanza della più alta poesia leopardiana.
La scena dell’azione è un sognato paesaggio dell’anima; e i
personaggi divengono momenti e aspetti complementari
di un malinconico vagheggiamento di un mondo perduto.
Si comprende, pertanto, come essi possano coinvolgere,
interamente e senza riserve, la personalità artistica e morale
di Bellini, che nel loro esile dramma può rivivere una sua
intima e sofferta vicenda spirituale.
La poesia di Sonnambula, infatti, vive tutta nel nostalgico
anelito a una realtà di ingenua e incontaminata purezza, a
un mondo di forme e di valori contemplati con la struggente
consapevolezza che essi possono rivivere solo nella magica
illusione dell’arte; favola, o meglio, romantica Träumerei
che proietta al di là delle dilanianti contraddizioni del reale il
sogno di un mitico eliso, esperito e reso nella dimensione di
una bruciante quanto vana tensione verso qualcosa di
definitivamente perduto, di irrecuperabile.
È chiaro, allora, perché la favola sembra rimandare
continuamente ad altro da sé, perché i suoi personaggi
e le sue situazioni possono assurgere a un valore
emblematico, divenire indici di una realtà più complessa e
profonda, che di tanto ne trascende l’empirica limitatezza.
Così la storia amorosa dei due protagonisti, Elvino ed
Amina, perde il carattere di delicato e sin manierato idillio
pastorale per assumere quello di un intenso e purissimo
legame di anime, nel quale rivivono valori ancestrali tipici
di una tradizione squisitamente meridionale e cattolica: la
poesia del matrimonio, della famiglia, la tenera pietà per gli
estinti la cui muta presenza aleggia benedicente sui viventi,
colloca le due figure in un’atmosfera che non si esiterebbe
a definire religiosa, non immemore di accenti foscoliani.
Laddove l’elemento di contorno, il coro, la stessa prospettiva
29
paesistica delineano, in forma delicatamente allusiva, una
mitica concordanza tra uomo e società, tra mondo umano e
mondo naturale — nella quale trovano pace e risoluzione i
brucianti conflitti dell’anima romantica. Non sarà inutile, al
proposito, rimarcare con le parole dello stesso Bellini l’ardente
temperie emozionale — priva di qualsiasi riserva o schermo
critico — che caratterizzava l’ascolto della Sonnambula da
parte del pubblico contemporaneo: “Mio caro Florimo,
mi affretto a darti In novella che iersera la Sonnambula ha
fatto un fanatismo al Teatro Italiano. Rubini e la Grisi hanno
cantato con tale passione e slancio che non vi fu persona in
tutto l’immenso uditorio che non sparse lagrime, o non restò
commossa. Il finale del primo atto particolarmente fece un
effetto magico, largo e stretta. Alla metà di questa il pubblico
non si poteva più frenare; pareva che i nervi di tutti fossero
stati tocchi da elettricismo. Figurati alla fine dell’atto che
strepiti! Il secondo atto non fece meno piacere, né mancò di
commuovere tutti alle lagrime. Io mi trovava nel palco della
contessa Manhes, ove erano cinque persone; non ti parlo
dell’aria di Rubini, che si volle sino replicato il largo, ma nella
scena di lei tutte cinque piangevano come ragazze. Francesi
ed Italiani finalmente iersera hanno provato delle sensazioni
eguali a quelle che si sono provate sinora in Italia nell’assistere
alle mie musiche”.
È stata autorevolmente sottolineata quale dote caratteristica
di Bellini “l’intuito infallibile dell’ambiente”, per cui “egli
sente e coglie con invidiabile lucidità l’atmosfera richiesta dal
luogo e dal tempo dell’azione, dalla qualità dei personaggi,
dalla stessa scenografia, che per lui vive nel complesso del
dramma come un valore spirituale”. È vero d’altronde che “i
personaggi belliniani vivono non in un’atmosfera fittizia di
palcoscenico, fatta di luci di ribalta, coristi di melodramma
e scenari di cartapesta, bensì immersi nella vita stessa, in
una collettività umana che ha parvenze ben definite e con la
quale essi intrecciano una rete impercettibile di rapporti e di
reazioni reciproche”. Se analizziamo le componenti stilistiche
che entrano in gioco nella delineazione dell’ambiente
30
specialissimo e dell’atmosfera particolarissima della
Sonnambula, dobbiamo rilevare che il ricorso al “brillante” e
al “caratteristico”, legato alle più facili formule e ai più scontati
stilemi di una ben definita tradizione melodrammatica (quella
dell’opera italiana di mezzo carattere), è relegato nello sfondo
o preferibilmente utilizzato in quelle situazioni in qualche
modo obbligate e convenzionali (come l’Introduzione e il
Finale, per esempio) avvertite sia dal musicista sia, del resto,
dal suo pubblico, come qualcosa di estraneo alla sostanza più
intima del lavoro.
Tra queste pagine (non necessariamente più modeste sotto
il profilo estetico o inessenziali all’equilibrio espressivo
dell’insieme, e niente affatto da emarginare o da isolare
mentalmente secondo la metodologia dell’accertamento
meccanico della poesia e della non poesia) sono da
annoverare senz’altro, insieme con la tarantella iniziale
spensieratamente bandistica, la “canzone” che il coro “
in tuona ” ad onore di Amina “In Elvezia non v’ha rosa”,
o ancora certe cadenze del canto dei villici che si recano
a porgere omaggio al Conte. O infine quella sorta di
baldanzosa fanfaretta di Amina, introduttiva del “Tutti” finale
“Ah non giunge uman pensiero”, non a caso, una melodia
in senso proprio archetipica ed esemplare nei confronti
della successiva tradizione melodrammatica donizettiana
e verdiana. Concepita da Bellini come “qualche cosa che
innalzasse la Pasta e la sollevasse ai sette cieli”, fu realizzata
dunque, come un brillante exploit belcantistico confezionato
tenendo d’occhio esplicitamente alcune precise regole del
più scoperto gioco teatrale; che Bellini non s’accontentasse
anche in questo caso di un testo purchessia, ma tempestasse
di richieste sino alla sera della prova generale dell’opera
il povero Romani (che già gli aveva fornito una decina di
diverse redazioni dell’aria) tanto da provocarne un’esasperata
reazione, è significativo dell’importanza annessa dal musicista
al tessuto verbale dei suoi lavori.
Ma questo filone di brillante verve teatrale, sempre tenuta
però su un registro di estrema raffinatezza formale, costituisce
31
non più di una venatura, sia pure a momenti rilevata e
vistosa, di un marmo che ha la raccolta perfezione ma anche
il palpitante pulsare di vita di una scultura greca. Qui, nella
commossa e — si diceva — quasi religiosa idealizzazione di
tono squisitamente romantico di un mondo insieme popolare
e fanciullesco nei suo disarmato candore, attuata a diversi
livelli significativi, attraverso diversificate soluzioni linguistiche
miracolosamente convergenti alla creazione di una singolare
coerenza di tono e d’atmosfera, è da individuare il cuore più
segreto della Sonnambula.
Si coglierà questo tono, anzitutto, in certi momenti del
discorso corale, stillante nell’eufonia soave delle armonie,
volentieri cullate su lunghi pedali o mosse su relazioni
volutamente elementari, morbide e sin languide dolcezze che
si vorrebbero definire addirittura bussottiane. Dove le terze
argentee dei registri femminili (secondo un gesto ricorrente
in tutta l’opera), richiamano con tenerezza struggente certi
luoghi di un melodizzare corale italiano o forse meglio
tipicamente padano, del quale chi scrive ha potuto cogliere
negli anni d’infanzia, la risonanza estrema: tenerezza che l’eco
dei corni in sesta riecheggia nel congedo commosso.
Si osservi, a riprova, il coro d’introduzione al secondo atto: è
possibile rilevarvi, nella stesura librettistica, un’intonazione
ironico-affettuosa, con la divertita caratterizzazione dei villici,
impacciati e goffi nell’esternare la pietosa sollecitudine circa
le sorti della “meschina” che ha messo inconsapevolmente
a repentaglio il proprio onore. Bellini ne ha fatto un delizioso
pastello romantico, nel quale si indovina anche nella
pronunciata stilizzazione del segno, l’idealizzazione di canti
giuntigli da favolose lontananze, tra il leggero vaporare di
brume azzurrine, nei suoi soggiorni vissuti in abbandono dei
sensi e di ardente esaltazione dei sentimenti, nel paesaggio
incantato del lago di Como. Proprio per questo, non deve
essere lasciato cadere totalmente, a patto di non interpretarlo
in senso semplicistico e banale, il suggerimento della Branca
circa le suggestioni che Bellini potè ricavare dall’ambiente
nel quale prese forma la musica della Sonnambula: la villa
32
Passalacqua a Moltrasio, ove il musicista era ospite dei Turina.
Alla sera il Bellini, quando il sole co’ suoi raggi
infocati indorava ancora la cima dei circostanti
monti, si compiaceva di adagiarsi in una navicella e
di vogare sulle quiete onde del lago, lasciandovisi
cullare mollemente in un co’ suoi pensieri. Rapito
dall’incanto di quelle rive, di quelle valli, di quei monti,
ove una ricca cultura ne feconda i declivi {sic}, quel
clima temperato, quel cielo splendidissimo, quella
natura tutta vaghezza e sorriso, ove l’uomo respira
liberamente e dimentica le contrarietà della vita,
immerso in un’estasi inenarrabile, il giovane entusiasta
sentiva la sua anima trasportarsi oltre le sfere celesti
verso la sorgente eterna di ogni bellezza, e porvisi. Al
sabato sera era per lui uno spasso seguire le contadine
operaie quando raccolte in un battello ritornavano
alle loro case dalle filande cantando or tenere or gaie
canzoni, non meno vinto dalle attrattive di quelle
cantilene che dal desiderio di studiarvi sopra. Già il
Maestro aveva osservato gl’innocenti costumi e le
sincere affezioni di quei villici; ed i luoghi incantevoli,
spiranti tutti poesia e armonia destavano nella mente
sua esaltata dei pensieri musicali soavissimi, dei veri
idilli, che andava scrivendo nel portafogli.
In questi sfondi paesistici miracolosamente recuperati per
via di pura suggestione fonica, non si avvertirà nulla della
rusticità furbesca o dell’arguzia sapida del donizettiano Elisir
d’amore, anche se potranno essere non invocati invano
i nessi di quel “discorso lombardo” sul quale ha scritto
con tanta consentaneità di ragioni umane Gianandrea
Gavazzeni; beninteso, le mitiche terre dei gelsi e delle filande
si indovineranno attraverso la stilizzazione estrema del
segno, l’idealizzazione astrattizzante — anche se di impronta
anticlassicistica, almeno nella musica — isolate affatto dalla
concretezza realistica e dall’impegno morale inseparabile,
33
mettiamo, dalle poetiche dei romantici lombardi. Ha scritto
con la consueta acutezza Giulio Gonfalonieri che nella
Sonnambula le peculiarità del libretto trassero Bellini “a
concretare un paesaggio sonoro compiuto in ogni sua parte,
a inventare la musica di un’ideale sito agreste ed a rompere
quei ritegni che avevano trattenuto, lì ai confini dello stesso
sito, i vecchi Piccinni e Paisiello e Cimarosa. Senza dirette
allusioni, ma per arcano contatto con i segreti dello spirito,
egli fa si che la campagna della Sonnambula, il villaggio di
Amina, siano e non possano essere se non campagne, se
non villaggi italiani. Forse di un’italianità che nessuno ha mai
incontrato viaggiando, desto, per la penisola; ma che molti
si sono figurata, chiudendo gli occhi dopo aver osservato i
paesaggi; rifugiandosi nel silenzio dopo aver udito le parole
e le voci”; o anche, potremmo aggiungere, rimemorando
le immagini della più illustre tradizione letteraria e poetica
nazionale. Si noterà come il paesaggio suggerito per via
allusiva, più che non esibito facendo ricorso alla fisicità di
scene e fondali (che dovrebbero essere tenute nelle odierne
riproposte dell’opera su un registro di discrezione estrema), è
sempre un paesaggio segnato da una presenza umana. Non le
solitudini palpitanti di un misterioso, inquietante pullulare di
vita, mettiamo, di un Freischütz, ma la rassicurante dolcezza
di una natura che l’umano intervento ha domato e plasmato.
Sono sostanzialmente ancora i pascoli e i campi cantati
da Virgilio, nel cui abbraccio cercava in quegli stessi anni
conforto la “sensibilité maladive” di un eroe di Berlioz
(Symphonie Fantastique, 3). Qui la campagna ha tuttavia
la luminosità incantata degli sfondi dei pittori italiani del
Rinascimento: là suggestione sonora non è affidata come
nel citato luogo berlioziano alla voce querula delle ance, ma
alla patriarcale, agreste poesia del corno, forse secondo non
dimenticate suggestioni del Tell rossiniano.
E arriviamo al momento della massima tensione, al vero
Hohepunkt drammatico dell’opera (ogni melodramma ne
ha uno proprio, non importa quale ne sia la temperatura,
essendo questa misura, come tutte le misure, relativa). Nella
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Sonnambula questo momento arriva nella scena ultima,
quando Amina, in stato di sonnambulismo, rischia di perdere
la vita tra le pale del mulino, e infine, scampato il pericolo, il
coro esclama sommessamente la propria gioia: ed ecco si ode
il risuonare dolcissimo (ed è un vero spunto — e non il solo —
di fascinazione timbrica) di uno scampanio ovattato di bronzi
benedicenti.
Non si sottolineerà mai abbastanza il senso favoloso e arcano
di queste evocazioni, attuate con mezzi di estrema varietà,
ferma restando la mirabile unità di tono che il quadro,
nella sua interezza, possiede. Si osservi per esempio nella
scena quinta dell’atto primo il duetto Amina-Elvino: “Ah,
vorrei trovar parole...”. Basterà qui un ritmo rilevato,
impreziosito dal calore della tonalità e dal sapore pungente
dell’intervallo di terza diminuita (Mi bequadro / Sol bemolle)
in corrispondenza dell’impiego (o meglio diremmo ormai:
della citazione) dell’accordo di sesta napoletana (su un giro
armonico caratteristicamente indugiante sulla dominante,
abbandonata con una sospirante cadenza d’inganno e di
nuovo subito riproposta, carezzata si direbbe, con un accordo
di settima sul quarto grado alterato) — per far emergere
una dimensione insieme arcaica e ‘ingenua’, anche se d’una
‘ingenuità’ costruita e a suo modo letterarissima come può
confermare e contrario, e paradossalmente, l’esplicita
banalità del successivo sviluppo melodico nella tonalità
del relativo maggiore (secondo un uso delle alternanze
modali tipico di Bellini) anch’esso rispondente a una sua
caratterizzante funzione espressiva e a suo modo propriamente drammatica.
Talora questa ‘connotazione popolare’ è suggerita con mezzi
ancor più delicatamente allusivi, in contesti affatto estranei
e apparentemente contraddittori; in una delle melodie
più alte della Sonnambula, una di quelle melodie “lunghe,
lunghe, lunghe” per dirla con Verdi, nelle quali sembra
sublimarsi la tradizione più aulica e illustre del canto italiano,
un controcanto in seste di un corno sembrerà aprire spazi
incontaminati di ‘natura’, tanto limpidi e trasparenti — si
35
diceva — quanto leggendari e misteriosi sono quelli evocati
dai magici squilli weberiani e schubertiani.
Più oltre, ed è un gesto ricorrente nell’opera, lo stesso
procedimento, in sé frusto e scontato dell’accompagnamento
per seste, attinge la medesima allusività nell’incantato alone
timbrico del quale la voce di Amina circonda, velandola di
una luminescenza argentea, la melodia affidata ad Elvino. È
evidente che solo con un’operazione analitica e forzando una
sintesi perfettamente realizzata sul piano stilistico-espressivo,
è possibile isolare astrattamente questa componente del
linguaggio della Sonnambula: che rifiuta, ovviamente,
la tecnica della citazione o dell’encausto, caratteristica
della tradizione comica napoletana, per procedimenti più
mediati e raffinati, fondati sulle capacità di suggestione di
gesti organicamente solidali alle sue più intime disposizioni
stilistiche; non a caso, per l’unica melodia chiaramente
riferibile a un contesto popolareggiante (non certo popolare)
— la presunta citazione di Fenesta ca lucive nell’aria di Amina
“Ah non credea mirarti”, si ha il ragionevole sospetto che
la pagina belliniana ne costituisca la fonte, piuttosto che la
ripresa.
Lo sfondo della Sonnambula fa riferimento a un mondo
‘comico’ (nel senso etimologico del termine) popolato da
personaggi che con l’eccezione del Conte Rodolfo il Romani
avrebbe detto ignobili, svincolati cioè dal mondo regale del
dramma per musica. Tuttavia la loro connotazione sociale
avviene solo in senso negativo e in maniera nominalistica;
il loro lessico, i loro costumi, il loro modo di essere e di
agire li inserisce in una tradizione di fatto aulica e cortese.
Si comprende allora come in Bellini questa tensione
romantica all’ingenuo, all’incontaminato, a quell’insieme
di disposizioni d’abbandono aurorale e innocente verso la
vita che la cultura del primo Ottocento volentieri identificò
come proprie dell’infanzia e dello spirito popolare, si dia
come pura aspirazione, anelito vago privo di ogni consistenza
realistica e pratica. In questo senso, esse non possono che
rifuggire da ogni troppo netta e determinata caratterizzazione:
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tendono infatti a un colore, a un’atmosfera, a una Stimmung,
infine,entro la quale si inseriscono — e dalla quale a loro volta
prendono vita e contorni — i personaggi.
(…) Giuditta Pasta (che — non dimentichiamo — aveva tra
i suoi ruoli preferiti quello di protagonista della Nina
pazza per amore del Paisiello) portò nell’interpretazione
dell’incantevole protagonista belliniana almeno un
riflesso della sua tendenza alla stilizzazione scenica di
ascendenza neoclassica, quella che Bellini chiamava la
sua predisposizione al “sublime tragico” tanto ammirata da
Stendhal, e soprattutto l’organica disposizione al vocalismo
belcantistico. I recensori della prima esecuzione parlarono
infatti di un’occasione splendida offerta dal musicista
all’interprete per “far pompa di un genere di canto...
nuovissimo” nonché di “fioriture difficilissime e sorprendenti”.
Indipendentemente dalle pratiche estemporanee della
fioritura virtuosistica legate alla prassi esecutiva dell’epoca, la
componente belcantistica costituisce nella Sonnambula una
sorta di ‘trasparente’, che vela le caratteristiche specifiche
dei singoli personaggi, offrendoli in un’uniformità di aspetti
e di movenze che hanno spesso fatto parlare, come già si è
accennato, di una strutturale antidrammaticità dell’opera.
Riteniamo non occorra insistere su questo fossile critico di
ascendenza natural-positivistica incredibilmente riaffiorante
anche ai nostri giorni nonostante tutte le esperienze teatrali
novecentesche di segno opposto. Comunque, come si
potrà rimproverare Bellini di non aver fatto del bozzettismo
spicciolo, di non averci consegnato l’equivalente di una stampa
romantica di sapore campagnolo? Che in tutt’altra direzione
si muovesse la sua fantasia, lo si coglie ad apertura di sipario,
nelle poche battute di introduzione alla cavatina di Lisa, che
ci dicono subito, nella loro intensa temperatura lirica, nel loro
malinconico abbandono, nelle aristocratiche movenze, quali
mai ostesse circolino per questo “villaggio della Svizzera”.
Alle quali ostesse bisognerà addirittura rammentare, dopo un
compiacente “a piacere” concesso su una nota acuta e filata,
di non indulgere a troppo languide e sospirose svenevolezze,
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mediante un discreto “in tempo” posto su un vocalizzo da
prima donna (e quasi da “parte seria”).
Che l’inganno della Sonnambula – come in genere delle opere
di Bellini – risieda nella magica fascinazione della voce e che
a questo aspetto siano subordinati tutti gli altri aspetti del
linguaggio è diventata una di quelle affermazioni tanto ovvie
da necessitare una messa a punto. Certo nella Sonnambula
straordinaria è la risonanza, la virtualità espressiva che
assume la voce, anche quando venga esibita, come spesso
accade con squisita sensibilità teatrale, nella sua nuda
purezza. E nei recitativi, prima ancora che nelle arie, sembra
di cogliere allo stato nascente, pur nella stretta adeguazione
tra prosodia testuale e prosodia musicale, quella “concezione
dinamicamente attiva... tutt’altro che elegiaca e sospirosa,
bensì agonistica sino all’eroico” propria della ritmica di Bellini,
e cioè del segreto motore della sua vocalità. Le capacità
formanti di questo strumento d’elezione della fantasia
belliniana sono tali che possono far passare in secondo piano
alcune intuizioni preziose, giocate su altri livelli.
(…) Ma l’indugiare su questo o quel brano, su questa o
quella particolarità tecnica della Sonnambula può essere in
qualche modo riduttivo e limitativo nei confronti della sua
singolare armoniosità e circolarità di struttura, sottolineata
da espliciti richiami e riprese interne, che culminano —
secondo la tradizione delle situazioni di delirio dell’opera
seria — nella grande rimemorazione della seconda scena
del sonnambulismo: dove il ricorrere di alcune delle più
intense melodie dell’opera, che incarnano i motivi chiave
della vicenda, sembra riassumere nel sogno di Amina, in una
serie di gesti musicali ed espressivi veramente conclusivi ed
emblematici, il senso dell’opera.
Unica figura che sembra incrinare questo gioco di circolate
melodie e non far corpo totalmente con la scrittura
equilibratissima dell’insieme per quel tanto di approssimativo
e di provvisorio che è in lui implicito, è il Conte Rodolfo. Il
Baldacci ha notato con molta finezza che
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il suo si identifica col punto di vista dell’autore e dello
spettatore. La sua superiorità è d’ordine... intellettuale
per il piedestallo d’onniscienza sul quale è posto nei
confronti dell’azione narrativa; è d’ordine morale
poiché, pur potendo approfittare d’Amina senza che
nessuno osi muovergli rimprovero, si astiene dal
farlo; è anche d’ordine culturale poiché mentre i villici
credono nel “tremendo fantasma” ... egli cerca di
disingannarli, ben sapendo che i fantasmi sono orpelli
del Medioevo.
Anche se la sua dimensione musicale sembra esaurirsi nella
melodia tenerissima della sua aria di sortita “Vi ravviso, o
luoghi ameni...”, pure il suo ruolo si avverte sempre come
un momento centrale dell’interpretazione belliniana della
vicenda. Egli rappresenta propriamente l’elemento di crisi e
di frattura di questo mondo ingenuo sapientemente ricreato
da Bellini, il momento della coscienza, della fine dolorosa del
sogno e dell’illusione. Bellini supera la mera funzione pratica
attribuita al personaggio dal Romani; semplificandone il
peso nella trama dell’opera ne ispessisce la dimensione
significativa, facendone un elemento dialettico nell’economia
dell’intreccio e, per quello che la sua figura obiettivamente
può concedere, una proiezione del proprio io. La sua presenza
si avverte nella limpida atmosfera della favola come un’ombra,
un’impercettibile stonatura che tuttavia non è essa stessa
priva di un suo significato, di un suo specifico spessore
espressivo.
Il miracolo della Sonnambula è quello di richiudersi
circolarmente su se stessa, riportando ciascuno dei propri
elementi al nucleo più profondo della sua storia interiore e
segreta.
(da F. Degrada, Il palazzo incantato: studi sulla tradizione del melodramma
dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979)
39
La sonnambula, foto di scena
La verità del sogno
La Sonnambula
di Guido Paduano
All’indomani della prima milanese della Sonnambula
(6 marzo 1831), il recensore dell’“Eco” scriveva tra l’altro:
“il trasformare la maestà della Semiramide e la sensibilità
profonda dell’Anna Bolena nelle semplici ed ingenue
grazie d’una giovane contadinella, in modo sì mirabile,
era impresa riserbata a Madama Pasta”. A proposito della
rappresentazione scaligera del 1955, diretta da Bernstein
con la regia di Visconti e la memorabile Amina della Callas,
Fedele D’Amico teneva a ricordare che “Sonnambula e Norma
furono scritte per la stessa cantante, Giuditta Pasta, e tutt’e
due le parti cantava la Malibran, come le canta oggi, unica,
la Callas”. Il confronto tra Amina e le eroine di Rossini e
Donizetti suona provocatorio, giacché all’iperbolica distanza
sociale corrisponde, prima e più che un’opposizione di registri
stilistici, un’opposizione tra due forme di protagonismo,
una che comporta l’occultamento e l’altra l’esibizione del
narcisismo come volontà di potenza e coinvolgimento nelle
aspre dialettiche del potere. Non è meno provocatorio il
confronto con Norma, dove opposizioni dello stesso tipo
sono esaltate dall’identità del regime compositivo, stante la
strettissima vicinanza cronologica tra le due opere.
Eppure noi sentiamo infallibilmente che queste impressioni
d’ascolto colgono l’autenticità del messaggio testuale, al di là
dei problemi di estensione e di timbro della vocalità, e anche
dell’abilità performativa delle cantanti; almeno nel caso di
Maria Callas, del resto, sappiamo bene che la sua grandezza
è consistita nella enucleazione e nell’espressione di grandi
direttrici di senso, latenti nel melodramma italiano sotto
la stanchezza delle abitudini e sotto gli smalti virtuosistici.
Ma anche senza di lei, e senza cessare di rimpiangerla, ci
accorgiamo che la musica della Sonnambula perentoriamente
richiede di essere presa sul serio come Norma o Anna Bolena,
nel senso che non meno di quelle mette in gioco eventi e
valori decisivi per la comprensione della condizione umana e
dell’immagine di essa che viene elaborata nell’autocoscienza
culturale. Quando avremo precisato che questi medesimi
eventi e valori sono veicolati attraverso un’identificazione
40
41
con l’esperienza della protagonista, senza nessuna delle
operazioni di distanziamento o alienazione che identificano i
registri del comico, avremo dato a mio parere un’attendibile
definizione del genere tragedia, cui non è essenziale invece
(non lo è mai stata) l’opposizione tra lieto e triste fine. (…)
Che cosa c’è in questa vicenda di tragico, cioè di essenziale
e problematico? La risposta “niente”, che si può essere
tentati di dare, è sostenibile solo ammettendo che la musica
sia un discorso perfettamente autosignificante, rispetto
al quale la situazione teatrale sarebbe un puro pretesto.
Questa posizione, che pure nella critica belliniana ha avuto
diritto di cittadinanza, è insostenibile in rapporto a tutte le
categorie strutturali, funzionali, semantiche, storiche del
teatro musicale in genere e del melodramma italiano in
particolare; ancora più in particolare, è incompatibile con la
prassi compositiva di Bellini e con il ruolo di Romani. Come
ha chiaramente detto il maggiore studioso di Bellini, Friedrich
Lippmann, La Sonnambula non si costituisce nonostante il
libretto, ma a partire dalle “situazioni drammaticamente
mosse” che esso contiene. Qualificare questo discorso
mediante un accertamento delle funzioni testuali, delle loro
strategie e delle loro gerarchie, è quello che mi propongo
di fare; anticiperò tuttavia subito la mia risposta, la quale,
giovandosi dei benefici della tautologia, sostiene che
quanto c’è di essenziale e problematico nella Sonnambula è
propriamente l’esperienza del sonnambulismo.
Non a dimostrazione di questo assunto, ma solo a preventiva
giustificazione della sua praticabilità, vorrei ricordare
l’attenzione dedicata da Ernesto De Martino ai fenomeni che
come questo, o come la trance e l’ipnotismo, comportano
l’esercizio delle facoltà psichiche in un regime sensoriale
alterato; dalla sua analisi risulta che essi comportano
altresì una ridefinizione dell’identità individuale e della
rappresentazione del mondo; i confini fluttuanti tra
queste due realtà sono vissuti con enorme investimento
emotivo, come “rischio di non esserci” e come ambiguità di
affermazione e di distruzione.
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Venendo all’opera di Bellini, converrà innanzitutto notare che
il tema del sonnambulismo ha effettivamente il ruolo decisivo
nella strutturazione del plot: se questo, ridotto a estrema
formalizzazione, consiste in un doppio movimento, prima di
alterazione e poi di ristabilimento della felicità amorosa, che
prima crea e poi colma angosciose distanze, la responsabilità
di entrambi sta appunto nella particolare e ricorrente
condizione di Amina: la manifestazione dell’io attraverso
il sogno, che in tal modo è resa pubblica, è prima fonte di
equivoco e poi soluzione di esso, venendole riconosciuto un
indiscusso valore di verità. E in effetti entrambi, equivoco
e verità, ineriscono essenzialmente a questa esperienza,
confermando l’ipotesi che in essa sia una ricchezza ambigua
e inquietante. La garanzia di verità risiede nella possibilità di
estrinsecare i contenuti psichici con tutta la libertà permessa
dal codice onirico, e cioè senza nessuno dei condizionamenti
e delle censure operanti nel vivere sociale e nell’elaborazione
dell’immagine che consciamente si trasmette di se stessi. Il
rischio di equivoco è invece legato alle modalità espressive
dell’inconscio: poiché la sua attività è indipendente
dai principi della logica classica (d’identità e di non
contraddizione), e tratta gli oggetti di investimento emotivo
alla stregua di una realtà totalizzante e infinita, gli oggetti
stessi non hanno lo statuto preciso che compete loro nella
realtà empirica: nella fattispecie per Amina qualunque uomo,
ma forse semplicemente qualunque entità sentita come altro
da sé, è nel sogno Elvino — e questa crea gli inconvenienti
che sappiamo. Tuttavia l’interesse maggiore non risiede a
mio parere nell’aspetto oggettivo del sonnambulismo, cioè
nelle sue conseguenze, bensì nei modi di realizzazione, cioè
nell’itinerario di vita interiore che esso disegna e nel suo
rapporto con la vita consueta, caratterizzata dalla vigilanza
e dalla interrelazionalità. Se si preferisce, tra le relazioni che
organizzano il microcosmo psichico e quelle che nelle loro
cooperazioni e interferenze formano il quadro semiotico
del dramma. L’elaborazione della realtà condotta nel
sonnambulismo di Amina può definirsi con l’aiuto di termini
43
contrastivi che hanno grande rilievo nella civiltà musicale
contemporanea: penso alla scena della pazzia in Lucia di
Lammermoor e al ricorrente delirio di Elvira in cui culminerà
la ricerca belliniana sugli aspetti più tormentati e inquietanti
della psiche, e specialmente della psiche femminile. Le
visioni di Lucia, Amina ed Elvira sono tutte incentrate su un
unico idolo ossessivo, concepito come sede di appagamento
universale dell’immaginario femminile: la festa di nozze. Ne
viene di conseguenza il ripetersi e sovrapporsi di movenze
stilistiche e di fattori lessicali (…)
Naturalmente, se è vero che il sonnambulismo è fenomeno
praticamente privo di rilevanza patologica, c’è da aspettarsi
che la distanza tra esso e la realtà sia ben altrimenti
colmabile che non nel caso della pazzia: e in effetti, mentre
l’esplorazione visionaria di Lucia è una via che non ha ritorno,
e il ritorno di Elvira passa per la violenza paradossalmente
benefica di un trauma (la condanna a morte di Arturo),
Amina si trova alla fine a trapassare dal sogno alla realtà per
confini aperti e illusionisticamente, dolcemente confusi. Su
questo trapasso, che è la cosa più straordinaria dell’opera
e con piena pertinenza occupa il finale, tornerò poi; ma
va detto che esso è il punto terminale di uno svolgersi del
discorso solipsistico come parte dell’esperienza vitale e non
già come suo chiaroscuro, alternativa, rovesciamento — le
funzioni che si possono attribuire alle due scene di pazzia
sopra citate. In Lucia e nei Puritani la realtà dolorosa viene
globalmente negata opponendole un mondo di delirante
luminosità, non toccato dall’angoscia, frutto immediato e
assoluto del desiderio; nella Sonnambula il desiderio esprime
con altrettanta forza la sua richiesta di felicità, ma i modi
in cui la formula mostrano coscienza delle difficoltà e degli
ostacoli, generati dal fatto che l’alterità dell’oggetto d’amore
è comunque irriducibile all’io, e ne vivono la dialettica con
pena, attesa, speranza. Sia pure esprimendosi in termini
grossolani, non si andrà troppo lontano dalla verità se si dice
che nella Sonnambula l’inconscio affronta gli stessi problemi
che si presentano alla coscienza, e allo stesso modo, nel
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rispetto cioè della griglia che ospita e determina la vita della
coscienza: la scansione del tempo.
Con ciò intendo dire due cose distinte tra loro: la prima è che,
essendo come s’è detto le visioni, visioni non di stati psichici
ma di processi e conflitti, esse sono ordinate nel regime di
mutabilità biunivocamente connesso al tempo; la seconda
è che l’inconscio serba memoria della coscienza, e dunque
le visioni non evocano dal nulla, o se si vuole dall’acronicità
assoluta del desiderio, la loro dialettica, ma ereditano una
situazione compromessa dagli eventi della vita di relazione.
Diciamo anzi progressivamente compromessa, se è vero che
la seconda scena di sonnambulismo registra, nel medesimo
quadro di opposizione tra il desiderio e le avversità, gli
sviluppi e i deterioramenti accaduti nell’intervallo dalla
precedente. Se il primo punto autorizza a definire la struttura
delle visioni come drammatica (e non sarebbe improprio
parlare di psicodrammi), il secondo chiarisce che in essi si
realizza la stessa struttura drammatica che come spettatori
siamo chiamati a fruire unitariamente. Considerando più
concretamente le due scene in questione, vediamo che il
rapporto sintagmatico tra sogno e veglia viene garantito dalla
prima fase di Amina sonnambula, dopo l’invocazione “Elvino,
Elvino!”: “geloso / Saresti ancor dello straniero?”. Ancora:
il sogno non ripete, ma riprende e prosegue la situazione
conflittuale che si era prodotta tra lei e l’amato a motivo
dell’interferenza di Rodolfo, poi espansa e addolcita nel
duetto “Son geloso del zefiro errante” e risolta nell’unisono
“Mai più dubbi, timori mai più”, all’uscita del quale sta una
promessa profetica: “pur nel sonno il mio cuor ti vedrà”. L’io
onirico in ciò più realistico della dedizione manifestata nel
duetto — sa bene di non poter contare sulla scomparsa dei
“dubbi” e dei “timori”; e li mette in scena con un preciso
déjà vu, che riprende prima di tutto la tonalità globale
dell’angoscia (sottolineata dal ripetersi della didascalia
“con pena”), e poi i topoi dell’innocenza offesa, l’apostrofe
“ingrato”, e la professione d’amore “non t’adoro? / Il mio ben
non sei tu?” (versus “Amo te solo, il sai”). Più preziosamente,
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La sonnambula, foto di scena
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ancora, la solitudine strutturale del sonnambulismo fa
rivivere lo stizzoso silenzio di Elvino (“Elvino, e me tu lasci/
Senza un tenero addio?”, versus “Non rispondi?”). Poi
Amina “comincia a serenarsi” e passa alla rappresentazione
solare delle nozze: la gioia che parla in essa si oppone
alla precedente “pena” con un’impressionante crescita
d’intensità, certo avallata dalla struttura cantabile, se la frase
“O madre mia, m’aita” sembra comunicare una passione
dolorosa, è perché rappresenta quell’insostenibilità della
gioia che Amina, conscia, aveva predicato nella cabaletta
iniziale: “Egli è il cor che i suoi contenti / Non ha forza a
sostener”. Confrontata con essa, può mostrare utilmente,
io credo, quale dislivello di autenticità e profondità passi
tra la manifestazione sociale e quella segreta dell’io. Da
questa prima scena possiamo dunque già concludere che La
Sonnambula rappresenta a due livelli la sua semplicissima,
quasi nucleare azione, originata dalla minaccia dell’infelicità
e risolta nel trionfo della felicità: al primo livello, che
comporta la rappresentazione di rapporti interumani banali,
irrimediabilmente impoveriti dalla loro idoleggiata semplicità
(tornerò su questo punto), segue la mise en abîme della
medesima realtà: un teatro di secondo grado che situa la
sua scena non nelle dolcezze bucoliche, svizzere o padane
che siano, ma nell’universalità della psiche, e ne parla il
linguaggio categorico, dove non esistono piccole ferite e
la gelosia è degnissima figura di morte, dove l’invocazione
“madre mia” non concerne propriamente la molinara Teresa
— con la sua solida affettività e partigianeria, capace di
moralismi aggressivi e di ironia acida, una specie di Agnese
manzoniana — ma il corrispettivo nostalgico dell’originario
smarrimento umano.
Il risveglio di Amina fa esplodere, come sappiamo, il
conflitto con Elvino e i paesani, ma anche un conflitto
di molta più violenza e respiro che coinvolge la persona
della sognatrice, e nell’estremizzazione dei suoi termini ne
minaccia la coerenza. Da un lato infatti la sua condizione
è di onnipotenza: assumendo dentro di sé la crisi, ha in
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sé la capacità di portarla a compimento e di coronarla nel
lieto fine (il più tradizionale, le nozze). Dall’altro lato è di
impotenza, cecità indifesa. Lungi dall’avere il controllo del
mondo, Amina non ha il controllo di sé, e l’oscurità che
concerne il sé, lo spazio (“Dove son”), le azioni (“Che mai
feci?”), il rapporto con gli altri (“Chi mi vi ha spinto?”), pesa
come una condanna all’incomprensione e alla separatezza, e
dunque all’infelicità. I termini di questo conflitto non hanno
niente di sorprendente, sono anzi iscritti nella definizione
stessa di inconscio a seconda che se ne elabori un’immagine
autarchica o una bisognosa di riconoscimento sociale;
ma sorprendente è la loro resa musicale, drammaturgica,
semiotica: basti pensare al persuasivo nitore con cui è
costruito il contrasto tra il predominio che la voce di Amina
ha nella scena del sonnambulismo (esaltato dal rispettoso
distanziamento di Rodolfo), e la sua posizione di dolorosa
eccentricità nel concertato finale del primo atto, che culmina
capovolgendo il ruolo della figura musicale dell’unisono:
quando Amina ed Elvino cantano insieme “Non è questa,
ingrato core”, la solidarietà vocale, altrove rassicurante,
esprime al contrario la lontananza e l’incompatibilità delle
loro angosce. Similmente possiamo dire che nel primo atto
l’identità dei progetti vitali elaborati nella veglia e nel sogno
si stabilisce attraverso una stridente incomunicabilità dei
due universi. Nel secondo atto, invece, essi si intersecano
e si identificano. La seconda e la più grande scena di
sonnambulismo ha una struttura opposta alla prima per ciò
che concerne l’estensione relativa del positivo e del negativo:
mentre infatti la prima risolveva rapidamente, in un sia pur
intensissimo declamato, le distonie e le disforie dell’amore,
per approdare al cantabile estatico della gioia, e da quello
ripiombare nell’incubo del risveglio, la scena finale attraversa
con cristallina sofferenza tutto il percorso della lacerazione,
affidandone l’espressione al cantabile “Ah! non credea
mirarti” poi dal profondo dell’angoscia risale alla speranza
con la febbrile velocità di frasi spezzate: ma la cabaletta che
corrisponde, rovesciandone la situazione emotiva, a “Ah! non
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credea mirarti”, sta al di là del sogno e chiude l’opera (“Ah!
non giunge uman pensiero”). Come sappiamo, la situazione
è precipitata e il sogno di Amina la riflette, agganciandosi
a ben precisi elementi di realtà: il matrimonio con Lisa
che Elvino ha inopinatamente deciso e sta per attuare.
L’insistenza su questo punto crea un contraltare angoscioso
al sogno beato delle nozze: il tempio è ancora il luogo dello
psicodramma, ma il senso della cerimonia è atrocemente
rovesciato. Insieme ad esso si capovolgono due simboli
dell’unione felice: l’anello che Elvino le ha tolto, le viole
ricevute da lui e riposte nel seno e ora appassite. Il canto sul
fiore — di estenuata dolcezza e bellezza — segna tuttavia la
transizione verso il nuovo e definitivo cammino della felicità.
Dovremmo anzi dire che l’ultima frase “Ma ravvivar l’amore /
Il pianto mio non può”, dal momento che avvia la successiva
impennata della speranza (“E s’egli a me tornasse?”), va
definita come negazione freudiana: tanto poco l’attività
onirica è espressione grezza del desiderio, che conosce le
più complesse interazioni tra inconscio e coscienza. Ma,
prima che si chiuda la compatta elegia del dolore, è già
avvenuto il fatto decisivo: nel cerchio solipsistico di Amina è
entrato Elvino, non l’immagine sognata ma la persona fisica
di Elvino, e su uno dei nuclei tematici dell’aria di Amina ha
cantato: “No, più non reggo”. Molto a ragione Lippmann
insiste sul fatto che l’inserzione della frase di Elvino nell’aria
fu una scelta di Bellini, correttiva del libretto che collocava
la stessa frase all’inizio del successivo recitativo (dove in
effetti sta ancora, ripetuta), perché significa rivendicare alla
volontà compositiva determinante non solo il momento di
massima commozione, ma il vertice dell’azione drammatica.
E a questo punto infatti che avviene in maniera primaria
il ricongiungimento di Amina ed Elvino, che ora cantano
in parole diverse lo stesso fecondo dolore (esattamente al
contrario di ciò che avveniva nel finale del primo atto). Il
linguaggio della musica esprime con la sua illimitata ricchezza
figurale ciò che in termini di comportamento avverrà subito
dopo: Elvino si avvicina ad Amina, che ancora sognando
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riceve da lui l’anello e gli rivolge le parole, già citate prima,
che potremmo considerare una celebrazione laica del
matrimonio (“Ancor son tua, tu sempre mio” — appena sarà
da notare come questa nuova fioritura di felicità sognata
conservi, attraverso il termine “ancor”, l’impronta della
memoria). Poi anche Teresa si avvicina ad Amina, e solo dopo
Rodolfo decreta: “De’ suoi diletti in seno/ Ella si desti”.
Lo scioglimento dunque avviene in sogno e dopo il risveglio
è soltanto ratificato. L’interattività tra la persona che sogna
e gli altri è garantita nello statuto del sonnambulismo
quale pedantescamente lo traccia Rodolfo (“V’han certuni
che dormendo / Vanno intorno come desti, / Favellando,
rispondendo / Come vengono richiesti”), ma ben altro
è naturalmente il suo senso e il suo messaggio. Il sogno
determina la realtà esterna e stabilisce ciò che per essa ha
valore di verità. “Seconda il suo pensier”, dice Rodolfo a
Elvino come si potrebbe dire davanti a una devianza mentale:
ma ciò che Elvino compie per “secondare” le imperative
richieste del sogno di Amina, è la sostanza della propria
autentica volontà, che già una volta si era manifestata nella
consegna solenne di quello stesso anello, e successivamente
era stata pervertita dalla stupidità e dalla cecità che
imperversano nei rapporti umani. Anche l’alternativa tra
onnipotenza e impotenza è risolta in senso solarmente
affermativo, ma non senza attraversare, con un ultimo
tenero brivido, l’uscita dal sonno, che resta nonostante
tutto problematica. Le prime reazioni di Amina svegliata
non sono differenti dall’altro e terribile risveglio (“Dove son
io? che veggo?” versus “Dove son? chi siete voi?”), ma il
disagio che accompagna il recupero dell’identità razionale
esprime una commovente preghiera: “Ah... per pietade... /
Non mi svegliate voi”. Amina crede di sognare ancora, anzi di
sognare di sognare, perché solo un sogno di secondo grado
consente una valutazione del sogno quale è implicita nella
sua frase. Ed è una valutazione ambivalente, perché implica
insieme appassionato coinvolgimento e coscienza della sua
inanità, certezza che i sogni non possono resistere al risveglio.
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Invece proprio questo avviene, e il paradossale primato
dell’interiorità chiude in forme scintillanti la certezza che
essa, rielaborando e rappresentando sul suo palcoscenico i
contenuti dell’angoscia, possa vincerla o almeno esorcizzarla.
Esattamente come la esorcizza l’istituzione teatrale.
Ma La Sonnambula non è anche uno stucchevole idillio,
una regressione verso l’infantilismo arcadico, una nostalgia
di primitività nutrita di false coscienze e ancorata alla
angusta contentezza di sé che Friedrich Nietzsche bollava
a fuoco con parole come “trastullamento fantasticamente
balordo”? In tutta franchezza, io non credo si possa negare
che sia in parte anche questo, ma mi pare necessario
determinare correttamente il profilo e l’estensione di
questa parte, e soprattutto la sua funzionalità rispetto a
quella che ci è apparsa la tematica centrale. Come sempre,
il mito dell’Arcadia si nutre di due nuclei simbolici: la
bellezza della natura intesa come “paesaggio spirituale” e
l’interesse per la condizione umana che convenzionalmente
si reputa vicina all’elementarità della natura, perché priva
delle complicazioni e mediazioni della cultura. Sul primo
punto, l’ambientazione paesaggistica della Sonnambula
è ispirata a una gentile sobrietà, priva di insistenze
oleografiche. Si pensi alla tenuità dell’accompagnamento
orchestrale che illustra le parole di Teresa “il sol tramonta”,
riproducendo il suono delle cornamuse. Lo spazio della
descrizione naturale è ristrettissimo, rispetto per esempio
al Guglielmo Tell (naturalmente, non perché il Guglielmo
Tell sia a sua volta una “pastorelleria”: ma là l’indugio sui
temi naturistici è funzionale a una struttura che oppone
il libero respiro dell’uomo sulla terra alla tirannia cupa e
tempestosa). Ma, soprattutto, nella Sonnambula il valore
simbolico dell’ambientazione naturale non consiste nel fatto
che la serenità del mondo determini nell’animo umano
la “tranquilla giocondità”, ancora per usare le parole di
Nietzsche, bensì l’iter è quello opposto: la dimensione
interiore informa di sé i contorni del mondo esterno.
Così dice Amina nell’aria di entrata:
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Come per me sereno
Oggi rinacque il dì!
Come il terren fiorì
Più bello e ameno!
Mai di più lieto aspetto
Natura non brillò:
Amor la colorò
Del mio diletto.
E ancora, in risposta alla gelosia di Elvino:
Son, mio bene, del zefiro amante
Perché ad esso il tuo nome confido;
Amo il sol, perché teco il divido,
Amo il rio, perché l’onda ti dà.
Al di là dell’insistenza tematica, sta alla vicenda successiva,
come ben sappiamo, avvalorare questa gerarchia. è invece
sul versante antropologico di questa Arcadia che si verifica
lo scadimento. Sono stati infatti fortemente banalizzati
ambedue i termini dell’opposizione città-campagna in cui
essa si orienta. La peculiarità contadina pertinentizzata è
fondamentalmente l’ingenuità, intesa in senso negativo
come incapacità di comprensione razionale e proclività a
farsi ingannare dalle apparenze: lo sdoppiamento del tema
del sonnambulismo consente di presentare due versanti
simmetrici di questo atteggiamento, credere il falso e
disconoscere il vero. I paesani sono convinti dell’esistenza
reale del fantasma e non credono alla smitizzazione di
Rodolfo (“Ve la dipinge, ve la figura / La vostra cieca
credulità”), opponendogli che “non è fola”. Tutt’al contrario,
è fola per loro la spiegazione dell’innocenza di Amina
data dal Conte (“A tai fole non crediamo: / Un che dorme
e che cammina! / No, non è, non si può dar”). Questo
secondo aspetto della loro ottusità è più insistito perché
drammaturgicamente più rilevante, ed anche perché più
sapidamente ironico: qui infatti la loro ignoranza riposa sulla
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La sonnambula, foto di scena
presunzione di un giudizio razionalistico. Ancor maggiore
rilievo gli è conferito dal fatto che l’ottusità entra in conflitto
con i valori di lealismo cieco nei confronti dell’autorità
(Baldacci ha parlato di sanfedismo), che trascorre largamente
per il villaggio, raggiungendo il culmine nel coro iniziale del
secondo atto e nella successiva entrata: “Buone nuove! /
Dice il Conte ch’ella è onesta, / Ch’è innocente, e a noi già
muove”. Ma neanche questa acquiescenza bonacciona
basta a fare accettare ai paesani lo scandalo della verità.
Bisognerà tenere il massimo conto del fatto che questa
sordità e refrattarietà del milieu era drammaturgicamente
e simbolicamente necessaria all’azione. Senza i pregiudizi
e la miopia del villaggio, non si sarebbe creata o si sarebbe
anonimamente risolta la crisi. Ciò che più importa, la distanza
tra Amina e la comunità cui appartiene consente l’isolamento
della protagonista sia nel senso dell’astrazione che in quello
dell’emarginazione, e sappiamo quanto l’uno e l’altro
contribuiscano alla semantica dell’opera. Peraltro, la distanza
è risultata eccessiva. Eccessiva almeno per il fatto di non
essere illuminata dalla luce coerente dell’ironia; al contrario,
bisogna confessare che il comico affiorante nella Sonnambula
è per lo più involontario, richiedendosi che tra Amina e i
suoi compaesani si presupponga una corrente di affettività e
di solidarietà emotiva. Ma se Amina, a differenza di Lucia e
di Elvira, ha come prima immagine delle sue nozze l’affetto
collettivo (“Oh come lieto è il popolo / Che al tempio ne fa
scorta!”), i suoi compaesani la ricambiano di buona volontà
inconcludente, fatua, volubile.
Il guasto peggiore si è ripercosso nella costruzione del
personaggio di Elvino, cui vengono messe in bocca parole,
melodie, atteggiamenti della maggiore intensità e nobiltà,
e alcune delle arie tenorili più belle che si conoscano. Ciò in
base al teorema melodrammatico per cui la coppia solidale
in atto o in prospettiva condivide lo steso livello di nobiltà
e di profondità espressiva. D’altro canto, non è la sola
incredulità, strutturalmente necessaria, che omologa Elvino al
piccolo mondo paesano, piccolo nella superficialità emotiva
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non meno che nella limitatezza culturale e intellettuale.
Lo vediamo infatti uscire di scena (“disperato”, sottolinea
la didascalia) dopo la splendida melodia di “Ah! perché
non posso odiarti”, e rientrarvi sposo promesso di Lisa e
addirittura rievocare “il bel nodo che pria”. Dal punto di
vista della legittimità psicologica, la ripicca può essere atto
“disperato”o se vogliamo anche tragico; tuttavia il testo
drammatico e musicale non attiva le contraddizioni potenziali
della situazione, e di fatto si limita ad approfittare del
cambio di scena per far passare sotto silenzio l’incoerenza,
che non è di comportamenti, ma di livelli emotivi e dunque
stilistici. Nella stessa superficialità è più gravemente
coinvolto il Conte, degna controparte cittadina e illuministica
dell’ignoranza paesana. In questo caso, tuttavia, si scorge
più chiaramente l’origine delle distonie compositive del
travagliato processo redazionale per cui originariamente
Rodolfo doveva essere il padre dell’orfanella Amina,
riconosciuto alla fine per il perfezionamento del tripudio
universale. Poiché questa soluzione è stata scartata, il
personaggio di Rodolfo ha sofferto di un calo di motivazione.
Uno dei risultati è stato quello di trasformare l’impegno
affettivo della paternalità in paternalismo, che si ritrova
altresì a essere da sempre la pecca caratteristica del cittadino
verso la campagna; così vediamo Rodolfo alternare due
atteggiamenti complementari: da un lato, una noiosa
superiorità didascalica, appena salvata dall’utilità della
funzione registica da lui esercitata nel finale, dall’altro uno
slancio ammirativo verso il mondo altro. Esso ha però appena
il tempo di manifestarsi nelle forme leopardiane di “Vi
ravviso, o luoghi ameni ” — un’aria approfondita peraltro dal
fascino di un mistero inesistente — che precipita nel crasso
compiacimento borghese, idolo polemico di Nietzsche:
Quella giovine sposa
È assai leggiadra, e quella cara ostessa
È un po’ ritrosa, ma mi piace anch’essa.
A parte il fatto che di Lisa lo spettatore ha avuto tutt’altra
impressione, la conclusione della climax nella lode indistinta
della bellezza femminile confina il mancato padre nello
statuto volgare del libertino di provincia; come se, non
avendo una reale consistenza di personaggio, fosse stato
adattato a giustificare l’immagine che gli altri si formano
di lui. Non lo nobilita neppure il conflitto intimo per cui in
presenza di Amina sonnambula, prima dibatte, poi nega,
poi afferma, poi definitivamente respinge il desiderio
di approfittare di lei; il monologo spezzato in cui queste
alternative si presentano è troppo evidentemente subalterno,
come ho detto prima, al discorso di Amina.
Comunque sia, rinunciare all’agnizione del padre è stata da
parte di Bellini un’invenzione felicissima; in tal modo è stata
salvaguardata alla vicenda emotiva di Amina quella semplicità
che non ha nulla a che fare con l’ingenuità laccata dei pastori,
ed è invece rigorosa purità dell’amore e del dolore visti come
componenti essenziali dell’animo umano.
(da G. Paduano, Il giro di vite. Percorsi dell’opera lirica, Firenze, La Nuova
Italia, 1992)
Davver non mi dispiace
D’essermi qui fermato: il luogo è ameno,
L’aria eccellente, gli uomini cortesi,
Amabili le donne oltre ogni cosa.
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VISTO DA LONTANO
PASSEGGIATINA SONNAMBOLICA
di Pierre Enckell
Verso i quattro o cinque anni il piccolo Mathieu, che non
ha mai dato preoccupazioni ai genitori ed è un bambino
facile e simpatico, comincia ad avere incubi terrificanti che
di notte gli strappano forti urla. Occorre balzare giù dal
letto e provare a calmarlo, farlo riaddormentare, fugare le
misteriose visioni che lo terrorizzano. La cosa può verificarsi
diverse notti di seguito, e talvolta persino più volte a notte. La
mattina i genitori, ancora turbati dal loro spavento notturno,
constatano che Mathieu è come al solito sorridente e
rilassato, e non serba il minimo ricordo degli eventi. Qualche
tempo dopo, svegliati da pianti, scoprono Mathieu fuori dal
letto, in piedi in un angolo della sua stanza, mentre tenta, così
pare, di proseguire il proprio cammino attraverso il muro. Il
bambino non si lascia distogliere facilmente da quel tentativo
di progressione ostinata. Sconvolti, i genitori scoprono che
Mathieu è sonnambulo. (Loro dicono: “È sonnambulo” come
se dicessero: “È daltonico” oppure “È mancino”.) Come
fare per mettere fine a quelle manifestazioni sconcertanti?
Cambiare regime alimentare? Somministrare blandi
tranquillanti la sera? Orientare diversamente il letto? Niente
ha effetto. A qualche settimana di calma può succedere
una nuova serie di notti agitate. “Deve interiorizzare le
proprie angosce”, si dicono i genitori, che possiedono
qualche nozione di psicologia. Sì, ma quali? Nessun segnale
evidente è presente nella vita da sveglio del bambino.
Consultata, la psicologa scolastica si diffonde in generalità,
ma non propone alcuna soluzione. Una notte Mathieu si
ritrova, tutto tremante, sul balcone. I genitori si prendono
un bello spavento. Portano il figlio da un vero specialista,
a cui raccontano l’intera sequenza di paure. Il dottore li
ascolta, a capo chino. Poi, in tono lievemente sospettoso,
chiede loro: “Ma perché volete che la cosa finisca?” Stizziti,
disorientati, i genitori escono dallo studio medico insieme a
Mathieu, il quale non ha capito granché di quella visita, ma
si mostra, come sempre, docile e di buonumore. Soltanto
dopo ripensano alla domanda del dottore. È il loro benessere
a essere sconvolto da quei terrori notturni, non quello
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di Mathieu. Anzi, forse è proprio il contrario. Se lo sfogo
notturno, di cui Mathieu non ricorda mai nulla al risveglio,
servisse proprio a garantire l’equilibrio e il buon carattere
del bambino? Che si tratti del modo più facile e indolore
che abbiamo di liberarci di quanto ci turba? Un giorno,
tempo dopo, i genitori si sono detti: “Ma vedi, è da un po’
che Mathieu non ha incubi.” Qualche altra manifestazione
spettacolare di sonnambulismo c’è anche stata; poi, però,
più niente. Mathieu è cresciuto. L’ho incontrato; è un
ragazzino sano, allegro, accomodante. I suoi genitori mi
hanno raccontato, sorridendo a metà, le loro paure passate.
Mathieu li stava a sentire con aria divertita, come se la storia
riguardasse qualcun altro.
Il sonnambulo è assolutamente innocente
Al pari dello stato ipnotico cui assomiglia, il sonnambulismo
colpisce molto più i testimoni che il soggetto interessato.
È dall’esterno, infatti, che ci vengono racconti, paure,
stupori. Il sonnambulo è assolutamente innocente. Se
mai esiste nocività, questa è provocata, come nell’opera
di Bellini, dall’ambiente che lo circonda. Strana malattia il
sonnambulismo: ha effetti su coloro che non ne sono affetti!
Eppure è così. Nelle storie di sonnambulismo la
drammatizzazione sopraggiunge per intervento di terzi
(qualcuno sveglia il dormiente che cammina in mirabile
equilibrio lungo una grondaia, facendolo precipitare), oppure
per un difetto di diagnosi (qualcuno interpreta gli atti del
dormiente come se fossero compiuti da svegli). Di fronte agli
automatismi inconsapevoli del sonnambulo, loro mettono
in atto lucidità superiore e giudizio ponderato… fallendo
miseramente. La domanda apparentemente paradossale
del medico di poc’anzi aveva una giustificazione. Secondo
le migliori fonti, la parola sonnambulo è apparsa per la
prima volta nel 1688, nel numero di ottobre della rivista
“Nouvelles de la République des Lettres”. Dare un nome
significa cominciare a capire. Forse da sempre uomini e
donne hanno camminato nel sonno e fatto strani discorsi;
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molto probabilmente tali comportamenti venivano spiegati
ricorrendo a cause sovrannaturali, spiriti malefici, doni
misteriosi, possessioni divine o diaboliche: ancora una volta,
casi di giudizi difettosi. Verso la fine del XVII secolo, tuttavia,
si rinuncia gradualmente a bruciare le streghe e ci si rende
conto che il sonnambulismo non dipende né da Dio, né dal
diavolo. Questo contribuisce a renderlo banale. Pochi decenni
dopo, eccolo apparire su un palcoscenico di Parigi. Commedia
in un atto, Il sonnambulo viene rappresentato alla ComédieFrançaise a partire dal 19 gennaio 1739. C’è divergenza
d’opinioni circa l’identità dell’autore: vengono citati il conte
di Pont-de-Veyle, il conte di Caylus e un tale Sollé, segretario
del conte di Maurepas; ciononostante, l’opera è stata scritta
senz’altro in un ambiente di grandi signori in qualche misura
libertini, amanti dello scherzo. Si tratta di un’opera deliziosa,
scrive il cavaliere di Mouhy, “il cui personaggio principale
è divertentissimo”. Per Mme de Graffigny “si tratta di una
farsa stravagante in cui accadono cose divertenti”. Una storia
di equivoci, insomma, senza alcuna evocazione di potenze
sovrannaturali. Ecco che nasce l’interpretazione comica
del sonnambulismo, interpretazione che si perpetuerà fino
ai giorni nostri grazie ai vignettisti, i quali rappresentano
personaggi in camicia da notte, occhi chiusi e braccia protese.
Un ecclesiastico sonnambulo
Le prime osservazioni cliniche risalgono alla stessa
epoca. Tra queste spicca quella di un uomo di Chiesa, che
apparentemente non credeva alle forze del male. La si trova
nell’Encyclopédie di Diderot:
L’arcivescovo di Bordeaux mi ha raccontato che,
all’epoca in cui si trovava in seminario, aveva
incontrato un giovane ecclesiastico sonnambulo.
Curioso di conoscere la natura di quella malattia,
tutte le sere si recava nella sua stanza non appena
questi si addormentava. Una notte, in pieno inverno,
il giovane immaginò di passeggiare in riva a un fiume
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e di vedere un bambino caderci dentro rischiando di
annegare. Il giovane si lancia prontamente sul suo
letto, nella postura di chi è intento a nuotare. Del
nuotatore imita tutti i movimenti e, dopo essersi
fiaccato un po’ con questo esercizio, in un angolo
del letto sente l’ingombro di una coperta, crede che
sia il bambino, con una mano lo afferra e con l’altra
torna a nuoto sulla sponda del presunto fiume; lì posa
l’involto ed esce dall’acqua tremando e battendo i
denti, quasi uscisse davvero da un fiume gelato. Agli
astanti dice che sta gelando e che è lì lì per morire di
freddo, che ha tutto il sangue ghiacciato; chiede un
bicchiere di acquavite per scaldarsi; in mancanza di
quella, i presenti gli danno l’acqua che si trovava nella
stanza; lui la assaggia, si rende conto dell’inganno e
chiede con maggiore insistenza un po’ di acquavite,
facendo notare il grande pericolo che corre; gli viene
portato un bicchiere di liquore; lui lo beve con piacere
e dice di provare grande sollievo. Ciononostante non
si sveglia, si rimette a letto e riprende a dormire più
calmo di prima.
Stando sempre al vescovo, il giovane in questione sembra
essere uno dei primi ad aver praticato una certa forma di
scrittura automatica.
L’ecclesiastico si alzava, prendeva un po’ di carta,
ideava e scriveva sermoni. Finita una pagina, la
rileggeva ad alta voce dall’inizio alla fine (se così si può
chiamare un’azione fatta senza l’ausilio degli occhi). Se
c’era qualcosa che non gli piaceva, la cancellava e ci
scriveva sopra le correzioni con molta oculatezza. Ho
visto con i miei occhi l’inizio di un sermone scritto nel
sonno: mi è parso organizzato piuttosto bene e scritto
correttamente.
È facile constatare che siamo ancora lontani dai surrealisti le
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cui composizioni automatiche avevano ben altro carattere:
l’inconscio, evidentemente, è strettamente connesso al
contesto storico e culturale. O forse l’arcivescovo abbelliva
leggermente i fatti?
Di pertinenza medica
Nonostante tutto, poco tempo dopo il sonnambulismo
acquista una dimensione nuova. Un medico tedesco, Franz
Anton Mesmer (Mozart l’ha conosciuto quando questi
esercitava a Vienna) arriva a Parigi con una teoria magnetica
che fa subito furore. Avvalendosi di una messinscena
elaborata, Mesmer induce nei pazienti trance o accessi
di sonnambulismo destinati a guarirli dai mali più svariati
(dalla cecità all’iperattività della milza). L’intera Parigi si
appassiona a Mesmer, alle sue tinozze magnetiche e alle sue
stanze imbottite. Forse si tratta di un fluido misterioso che
agisce, magari qualcosa di simile all’elettricità i cui effetti, per
l’appunto, gli scienziati francesi indagano proprio in quegli
anni; oppure è qualcosa di paragonabile alla forza che fa
salire in cielo le mongolfiere, anche quelle contemporanee
di Mesmer? La terapia dell’ipnosi, come diremmo noi oggi,
è aspramente combattuta dai medici del tempo. Vero è che
sui suoi effetti si narrano storie straordinarie: coloro che vi
si sono sottoposti vedono attraverso i muri, comunicano
a distanza, entrano in contatto con il mondo dei morti…
Viene nominata una commissione scientifica (tra i cui
membri figurano Lavoisier, Benjamin Franklin e il dottor
Guillotin, prossimo a diventare celebre per qualcos’altro); la
commissione giunge alla conclusione, razionale, che il fluido
mesmerico non esiste. La cosa non convince i sostenitori del
mesmerismo (o del “magnetismo animale”), destinati ad
avere numerosi successori. Il sonnambulismo, però, è ormai
diventato di pertinenza medica. Nelle opere di Ippocrate (De
morbo sacro), Aristotele, Diogene Laerzio si cercano esempi
antichi che giustifichino tale studio; si analizzano casi; si
propongono teorie. Gli italiani sembrano particolarmente
interessati all’argomento: verso la fine del XVIII secolo e
63
l’inizio del XIX, la bibliografia comprende i nomi di Muratori,
Soave, Porati, Pigatti, Reghellini. In Francia è Alexandre
Bertrand (1795-1831), dottore della Facoltà di Medicina di
Parigi ed ex allievo dell’École Polytechnique, a pubblicare
nel 1823 un ampio Trattato di sonnambulismo. Bertrand
riconosce quattro specie: il sonnambulismo essenziale,
“in individui che, peraltro, sembrano godere di un’ottima
salute”; il sonnambulismo sintomatico, “nel decorso di alcune
malattie di cui si può considerare il sintomo o la crisi”; il
sonnambulismo artificiale, “nel trattamento del magnetismo
animale”; il magnetismo estatico, infine, “contagioso per
imitazione, in tutte le persone sottoposte allo stesso influsso”.
Storie inverosimili
Nel suo libro ci sono storie straordinarie come quella di Mlle
Adélaïde Lef… che, all’età di diciannove anni, precipita in
uno stato di eccessiva debolezza inframmezzato da accessi di
mania.
Si rotolava su se stessa come un cilindro, si stringeva
e torceva le membra, imitava il verso di numerosi
animali, tentava di strappare tutto ciò che la circondava,
saliva con agilità fino a grandi altezze, recitava svariati
brani poetici che non aveva mai affidato alla propria
memoria e, una volta terminato l’accesso, non serbava
alcuna idea di quanto aveva fatto.
Dal canto suo Mlle Julie, anche lei affetta da fenomeni
straordinari, inizia a fare profezie, a indicare la terapia da
seguire (sanguisughe) e a conversare, da addormentata, con
il proprio medico curante:
IO – Devo scrivere ciò che dice?
LEI – L’hai già scritto.
IO – Dove l’ho scritto?
LEI – Sul mobiletto di tua moglie, nella stanza accanto.
IO – Quante righe sono?
64
LEI – Due paragrafi: il primo di sedici righi e mezzo, il secondo
di quindici e mezzo.
Il medico va a cercare il foglio, conta i righi e constata con
stupore che Mlle Julie ha detto la verità.
IO – Come fa a sapere tutto ciò?
LEI – Una voce interiore me lo dice qui [La fanciulla indicava il
proprio stomaco].
Nessun compositore ha scelto Adélaïde o Mlle Julie come
protagoniste della sue opere, ed è senz’altro un peccato:
è facile immaginare il vantaggio che si trarrebbe da
queste osservazioni cliniche. Tuttavia i trattati medici non
rappresentano la lettura preferita dei librettisti, i quali
preferiscono le opere teatrali. Quella su cui si è basato
Romani, librettista di Bellini, è La sonnambula, commedia
in due atti di Scribe e Delavigne, rappresentata per la prima
volta al Théâtre du Vaudeville nel 1819. La storia è un po’
sciocca e molto francese. Il signor Dormeuil vuol far sposare
la figlia Cécile a Frédéric. Cécile è una figlia ubbidiente ma,
durante il sonno, va a trovare Gustave, davanti al quale recita
un dolente monologo: “Cécile è molto infelice!... È finita…
Sono sposata…”, facendo capire a Gustave che è lui che ama.
Nell’andar via, dimentica un fazzoletto. Piccolo equivoco.
Frédéric finisce col capire la situazione e offre la propria
fidanzata a Gustave, il quale risponde: “Ah, amico mio! Come
riuscirò mai a mostrarti riconoscenza per il tuo generoso
sacrificio?” Bisogna supporre, per la felicità della coppia,
che il matrimonio metterà fine alle visite notturne di Cécile
agli uomini: conclusione implicita che vale anche per l’Amina
dell’opera. Quanto alla povera Mlle Adélaïde, di cui abbiamo
evocato poc’anzi le stravaganze, guarì grazie a quattordici
bagni di mare – seguiti da un matrimonio. E se in fondo fosse
servita davvero da modella ai drammaturghi?
(P. Enckell, Petite promenade somnambulique, pubblicato su “L’Avant-Scène
Opéra”, n. 178, 1 luglio 1997, trad. Ida Porfido)
65
La sonnambula, foto di scena
QUARTA PARETE
la sonnambula
che è una bambola...
di Gianfranco Capitta
Come ogni pietra preziosa, anche La Sonnambula può
assumere facce molto diverse a seconda della prospettiva
da cui la si guardi. È una fiaba certo, incantevole e dolce,
che dopo qualche piccolo brivido di paura concede un happy
end impagabile. Ma è anche una storia inquietante: usando
la voga molto romantica della responsabilità tra sonno e
veglia, ci porta nel mistero delle azioni di cui rispondere, della
volontà, dell’inconscio. Manca più di mezzo secolo ancora
all’inizio degli studi attorno alla psicanalisi, ma l’immaginario
dei lettori e degli spettatori, al passaggio tra diciottesimo e
diciannovesimo secolo, si è già turbato tra il sogno e la veglia,
in cui hanno compiuto gesti decisivi personaggi come Il
Principe di Homburg e la Marchesa von O…, due protagonisti
di narrazioni di Heinrich von Kleist che ancora ci affascinano
e ci dividono. Perché nessuno dei due si pente, né rinnega,
quello che ha fatto nel sogno, sia esso un figlio o un attacco
sbagliato sul campo di battaglia (seppur rivelatosi poi
vittorioso per tutta la guerra): sa e ribadisce però di averlo
fatto “fuori” della propria coscienza. E restano tra le storie
più affascinanti della letteratura di tutti i tempi. Come se
fossero sonnambuli appunto. E riuscissero a vivere con totale
pienezza le azioni compiute col cuore, appena ‘mascherato’
dal sonno.
Una condizione che nel ‘900 si è in qualche modo ‘degradata’
nei baracconi circensi in cui incauti spettatori si prestavano
ad essere ipnotizzati da ‘maghi’ spregiudicati e senza scrupoli
che davano comandi ai malcapitati, con o senza complici
compiacenti. E vengono in mente Eduardo De Filippo con
il suo Sik Sik, e l’ironia dolceamara di Federico Fellini, la
cui Cabiria (indimenticabile Giulietta Masina) addirittura si
innamora del suo Oscar da avanspettacolo, assurto, in giacca
di lamé e aria furbesca, a protagonista delle sue omonime
e malinconiche Notti. Che finiscono poi col rosicchiare una
coscia di pollo nascosta nel bagno dell’abitazione di lui.
Il cinema americano invece, sempre tentato dalla ‘magìa’
in celluloide di misteri e fantasmi, ha usato diverse volte il
66
GUARDARE
Storico il film in bianco
e nero diretto da Mario
Lanfranchi e prodotto
dalla VAI DVD nel 1956.
Nel cast Anna Moffo,
Danilo Veda e Plinio
Clabassi. Bruno Bartoletti
conduce orchestra e
coro della RAI di Milano.
Tra le videoregistrazioni
più recenti di spettacoli
live da non trascurare
sono: la coproduzione
RAI – Maggio Musicale
Fiorentino con la
direzione di Daniel Oren
ed Eva Mei nel ruolo
della protagonista
(TDK DVWW, 2004);
la rappresentazione
newyorkese del
Metropolitan diretta
da Evelino Pidò con
Natalie Dessay e Juan
Diego Florez (Decca,
2010); la produzione del
Teatro Lirico di Cagliari
67
La sonnambula, foto di scena
sonnambulismo in memorabili ‘bianco&nero’ anni Quaranta
e Cinquanta. I film, fino ai primi anni Sessanta, sono pieni di
sognanti fanciulle dai capelli dorati, che amano e fremono
in una condizione di vera trance, almeno cinematografica.
Corrispettivo molto feuilleton (e talvolta stucchevole) di
quella condizione di “ebetudine stuporosa” in cui prende
corpo una situazione patologica di disagio. Come ci ha
insegnato Ernesto De Martino dalle sue spedizioni in
terra di Puglia, le persone morse dalla taranta sui campi,
assumevano quell’atteggiamento di assenza preparandosi
alle crisi terapeutiche di sfrenata danza, la notte di san Paolo
che di tarante e scorpioni è sempre stato il protettore nella
devozione e nell’iconografia cattoliche.
Son tutti tasselli diversi, di differente rilevanza e ovviamente
autonomi, delle visioni che il sonnambulismo evoca e stimola
nel nostro immaginario. La Sonnambula è invece una favola
lieve, anche se Bellini e il suo grande librettista Felice Romani
dovettero attutire i toni di certi incontri troppo ravvicinati,
dove poteva ardere un sulfureo odore di incesto tra l’ingenua
Amina e il conte che si rivelerà suo stretto parente. Ma grazie
anche alla sicurezza drammaturgica del testo originario
(un vaudeville prima divenuto poi una trama coreografica)
opera del mestiere affilato di Eugène Scribe e Germaine
Delavigne, la favola dell’opera di Bellini è un carillon di delizie,
che diventano pagine musicali robuste e indimenticabili,
prendendosi il peso e il merito delle volute del racconto.
Un racconto ben articolato e complesso, per il quale la regia
di Giorgio Barberio Corsetti ha preparato (assieme a Cristian
Taraborrelli) scenografie essenziali quanto prodigiose, che
permettono all’ambiente di triplicarsi restando identico.
Unica differenza la scala di grandezza di quel mobilio: quando
sarà minima sarà agita da pupazzi, quando normale sarà
locanda, quando gigante costituirà e sostituirà le montagne
svizzere (quelle che per Bellini erano davvero “l’altro
mondo”).
68
con la regia di Hugo
de Ana e un ottimo
cast vocale (Simone
Alaimo, Eglise Gutierrez,
Antonino Siragusa) le
cui proiezioni visive sono
un tributo a Luchino
Visconti (Dynamic,
2008). La passione per
La Sonnambula del
sommo regista milanese
si espresse anche nella
citazione delle sue arie
in capolavori del cinema
come La terra trema
(1948) e Il Gattopardo
(1962). A proposito di
cinema, degno di nota
è anche l’omonimo
film in bianco e nero di
Piero Ballerini (1942)
che riconduce la genesi
de La Sonnambula alla
storia d’amore tra Bellini
e Giuditta Turina, per
l’appunto sonnambula.
69
Robert Fleury,
Il dottor Philippe Pinel a la Salpêtrière, 1878
VISIONI
SPAZI DI TRANSITO
di Stefania Aluigi
Tra il Settecento e l’Ottocento all’interno della comunità
medica europea si diffuse uno spiccato interesse verso il
mesmerismo, il metodo di cura delle malattie studiato da
Anton Mesmer che si basava sullo studio del “magnetismo”
di minerali e viventi, vale a dire la presenza in ogni essere di
un fluido vitale capace di determinare influenze notevoli. Più
nel dettaglio, seguendo la teoria di Paracelso, riuscendo a
indurre il sonno profondo con l’utilizzo di ferri magnetizzati,
teorizzò la presenza di uno spirito vitale capace di sprigionarsi
dalle mani e dagli occhi.
Così l’ipnotismo e altri episodi di dissociazione della
personalità divennero fenomeni che occuparono un’altissima
percentuale delle pubblicazioni scientifiche della prima metà
dell’Ottocento. Sia la catalessi che il sonnambulismo erano
considerate forme di “isteria“ e venivano curate con rimedi
che prevedevano l’uso di flussi magnetici.
La Salpêtrière, costruita per volere di Luigi XIV allo scopo di
eliminare dalla vista il degrado dalla città, contava ai tempi
della Rivoluzione 8000 donne di cui molte affette da malattie
mentali e tenute alle catene. Fu grazie ai medici Pinel e
Charcot che a metà Ottocento le pazienti furono liberate da
quelle insalubri condizioni e curate secondo una terapia che
tenesse in primo piano il recupero e il rispetto della persona.
Il primo corso sulle malattie nervose fu molto seguito e qui a
Parigi si riunirono studenti da tutta Europa per frequentare
le lezioni di quella che sarà la moderna neurologia; lo stesso
Sigmund Freud chiese una borsa di studio per poter assistere
alle lezioni.
Di notevole interesse sono le immagini di archivio del centro
psichiatrico che documentano le attività svolte all’interno
di questi spazi dove la sperimentazione volta alla cura dei
pazienti si svolgeva di pari passo con la ricerca universitaria.
La fisiologia del sonno era già stata al centro degli studi di
Mesmer che, nel 1778, da Vienna si era rifugiato a Parigi
dove però venne condannato dagli ambienti accademici
70
André Fleury,
Una lezione clinica
del Prof. Charchot
a la Salpêtrière, 1890,
particolare
71
Jenny Lind,
La sonnambula, 1847
sia prima che dopo la Rivoluzione. Egli per primo osservò
con continuità le sottili metamorfosi dei sensi durante il
sonnambulismo artificiale o indotto e la natura complessa
degli stati che agiscono al di sotto del livello della coscienza.
Nel 1823 Alexandre Bertrand pubblicò a Parigi un trattato
sul sonnambulismo dopo avere tenuto il suo primo corso
pubblico di magnetismo. Erano oramai emerse con evidenza
all’osservazione scientifica zone della psiche umana oscure
e primitive, dirompenti e fuori dal controllo della sfera
razionale.
Nell’opera di Vincenzo Bellini, per la prima volta nella
storia del melodramma, apparirà la figura archetipica della
donna sonnambula. Il tema dell’inconscio e del subliminale
percorrerà in parallelo sia l’iconografia ottocentesca che, in
misura più laterale e accennata, la scena teatrale.
L’aspetto piuttosto evidente di tale percorso è che sempre
questi fenomeni siano stati sottilmente ricondotti all’universo
femminile e difficilmente a quello maschile; come se gli spazi
dell’altrove abitati dalla psiche irrequieta avessero trovato più
ascolto nel corpo della donna. Qui la loro dimora.
Osserviamo ora più da vicino come il processo di
raffigurazione-specchiamento sia avvenuto e quali atmosfere
dell’immaginario siano state evocate.
Come ci ricorda l’antropologa Clara Gallino nel suo accurato
saggio dedicato al sonnambulismo,
l’inascoltato corpo della donna - quotidiano oggetto
di controllo sociale – diventa oggetto di cura e
sollecitudine, protagonista lui stesso di una vicenda
salvifica. Ma non sarà mai un corpo liberato e
completamente vissuto. Piuttosto, nel modello della
sonnambula si inseguirà un’immagine di libertà
impossibile nel reale, un sogno di evasione dal fardello
della carne, per fuggire lontano in viaggi sempre più
metafisici...
72
Joan Sutherland ne
La Sonnambula,
Teatro La Scala, 1962
Domestica magnetizzata,
stampa d’epoca, Archivio
iconografico del Verbano
Cusio
Il soprano svedese
Jenny Lind nel ruolo
di Amina, 1847,
stampa d’epoca
73
Randolph Rogers,
La sonnambula, 1863-64
Tale escamotage letterario va decodificato proprio in questa
direzione: come modalità di possibile uscita dal modello
di costume sociale convenzionale. In questo spazio di
estasi, specie se ispirata dalla musica, la sonnambula si
esprime in atteggiamenti sensuali, si lascia andare a gesti o
comportamenti che sveglia eviterebbe accuratamente.
Quando nel 1831 debuttò l’opera di Vincenzo Bellini, scritta
durante un soggiorno nella oggi perduta villa Passalacqua di
Montrasio, sulle rive del lago di Como, il pubblico del Teatro
Carcano di Milano molto apprezzò lo spettacolo.
Quando la dolce e delicata Amina, creatura diafana e
sognante, appare in scena, tra il sonno e la veglia, come un
bianco fantasma evocando il diletto sposo, ecco che il gioco
tra realtà e irrealtà, tra vero e falso, si incarna nel tessuto
del dramma. L’opera gioca su questa lateralità, in un breve
passaggio apre le porte alla pazzia d’amore.
Nel 1872 si terrà persino al Teatro Valle una serata dedicata
agli esperimenti di magnetismo condotta da Francesco Guidi,
poeta e librettista d’opera nonchè studioso di pratiche di
ipnosi.
Lo spazio teatrale ospita la messa in scena di uno
‘spettacolo’ tra scienza e medicina dove la protagonista è,
ovviamente, una giovane fanciulla sonnambula; di lì a poco
si susseguiranno analoghe performance pubbliche dedicate
alle sperimentazioni di magnetismo. In Italia tali pratiche si
diffusero attraverso la cultura popolare piuttosto che presso
gli ambienti intellettuali e accademici.
Le pazienti del dottor Charcot fotografate durante le loro
crisi acute di isteria hanno raccontato il delicato aspetto della
teatralità della sofferenza, che nella sua gestualità fatta di
spasmi incontrollati trasforma il corpo della donna in oggetto
depauperato e svilito, addirittura deformato.
Nelle arti visive succederà l’opposto: qui, nella riproduzione
dello stato di alienazione o di altri fenomeni di alterazioni
psichiche, prevarrà l’adozione dell’estasi mistica come
modello simbolico di rappresentazione. Alla donna viene
Johann Heinrich Füssli,
Lady Macbeth, 1784
Veduta di Villa Lucini
Passalacqua, Montrasio,
Como, cartolina d’epoca
John Everett Millais,
La Sonnambula, 1881
75
Joan Sutherland,
La sonnambula, 1963
restituito il suo status di essere contemplativo e ascetico in
linea con il repertorio iconografico di natura religiosa.
Le rappresentazioni pittoriche che riprendono la figura
della donna in stato di sonnambulismo potrebbero essere
annunciate in maniera eloquente dal quadro di Füssli del
1784 che ritrae Lady Macbeth, altro esempio di eroina in
stato di visione. Impossibile non soffermare il nostro sguardo
anche sui suoi due quadri più celebri e studiati, L’incubo e Il
silenzio, che esprimono entrambi le connessioni con le sfere
simboliche dell’inconscio.
Il materiale magmatico e misterioso del sogno e della
sofferenza psichica tenta di aprirsi un suo spazio moderno di
rappresentazione, il non-detto cerca un accenno sul piano
estetico.
La statua assorta scolpita da Rogers un secolo dopo, al
contrario, si sofferma sulla delicatezza dell’incarnato
femminile che rivolge lo sguardo a terra come se l’altrove ci
sfuggisse per sempre e non potesse essere visibile. Il richiamo
alla plasticità classica è evidente: in modo particolare
all’Ermafrodito dormiente conservato a Parigi e alla testa di
Hypnos, dio del sonno, ora a Roma.
Nel 1881 il pittore inglese John Everett Millais, in pieno
clima preraffaellita, dipinge un quadro, a tratti misterioso ed
inquietante, di una giovane donna in stato di sonnambulismo.
La figura, vestita di una tunica bianca, con lo sguardo fisso e
sfuggente, percorre a piedi nudi un sentiero che costeggia il
mare. L’atmosfera in prossimità dell’alba circonda la creatura
di un alone misterioso e la proietta oltre i confini della
realtà. Il paesaggio che accoglie il suo esitante incedere è
impalpabile e reale allo stesso tempo, quasi sospeso entro
un’aura ultraterrena. Lo stesso artista, ricordiamolo, aveva
ritratto la figura di Ofelia in uno dei dipinti più conosciuti e
noti al pubblico.
édouard Rosset-Granger ancora nel 1897 ci permette di
concludere il nostro viaggio nell’immaginario legato al
sonno e alla sua declinazione nella figura femminile. Nel suo
76
Hypnos,
marmo di epoca romana,
provenienza Tivoli
77
Ermafrodito dormiente,
copia romana da un originale di epoca ellenistica,
particolare
dipinto il profilo della donna insonne appare da uno sfondo
buio sorreggendo con la mano destra una lampada accesa
finemente decorata; la sua luce fioca illumina un lembo della
veste bianca che in quel punto preciso scivola sulla spalla.
I profili notturni della mente, gli stati di semi-veglia hanno
affascinato gli artisti di ogni tempo, ma è soprattutto tra
Ottocento e i primi del Novecento che abbiamo visto
profilarsi un’acuta esigenza di sondare le aree meno visibili
del reale e di attraversare l’ombra e il mistero legati anche
alla creazione artistica.
Il corpo della sonnambula, nel suo segreto letargo, diviene
così il teatro di una estasi simbolica che lascia intravedere il
possibile, il volto altro dell’umano. La veglia diurna con la sua
razionale visione del mondo accanto alla natura magmatica
del materiale psichico che emerge dallo stato di trance del
mondo notturno.
Il tema dell’instabilità emotiva della donna, il suo dimorare
in modo inconsueto e mobile il reale, hanno trovato così
nella personificazione della sonnambula una trama simbolica
perfetta.
édouard Rosset-Granger,
La sonnambula, 1897
78
79
La sonnambula, foto di scena
FLATUS VOCIS
I RUOLI VOCALI NE ‘LA Sonnambula’
di Federico Vizzaccaro
“T’assicuro che Rubini e la Pasta sono due angioli che hanno
entusiasmato quasi alla follia l’intiero pubblico”.
Così Bellini scriveva all’amico Augusto Lamperi in una lettera
del 21 marzo 1831, trascorse due settimane dalla prima
rappresentazione della Sonnambula al Carcano di Milano.
Per i ruoli principali, Elvino ed Amina, il compositore aveva
affidato le parti a due dei cantanti più in voga del periodo,
Giovanni Battista Rubini e Giuditta Pasta, una sorta di
garanzia per il successo dell’opera. Quest’ultima creava per la
prima volta un ruolo per Bellini (fallito il progetto per Ernani,
poi fu anche Norma e Beatrice), mentre Rubini aveva già
creato due ruoli importanti: Fernando (ovvero Gernando,
nella prima versione) in Bianca e Fernando e Gualtiero nel
Pirata.
La Sonnambula, nona delle dodici opere composte dal
musicista catanese, si colloca al centro del suo intero arco
creativo. In essa il suo stile compositivo giunge alla completa
maturazione, ottenendo la perfetta sintesi di effusione lirica
e declamazione espressiva. Con questo dramma privato, di
ambientazione idilliaco-pastorale, Bellini raggiunge infatti un
livello più alto di unità e di coerenza del discorso drammatico,
e approfondisce - per mezzo della musica - la psicologia dei
personaggi e dei loro sentimenti. Dal punto di vista della
vocalità, diversi studiosi e critici hanno posto in risalto due
caratteristiche fondamentali di quest’opera: l’impiego del
canto fiorito, superiore rispetto alle altre sue opere, ma
inteso in modo diverso rispetto al belcanto di Rossini (senza
sfoggio di acrobazie vocali, ma una coloratura sempre
elegante e leggera); la predilezione per la parte mediana
dell’estensione vocale nei recitativi e nelle forme chiuse, con
canto spianato o sillabico.
Giuditta Pasta ne era l’interprete ideale, e il ruolo fu
creato pensando proprio alle abilità della cantante: una
gamma espressiva completa, la voce ampia e scura, ricca di
armonici, ma anche agile e capace di una tecnica portentosa
(perfezionatasi con la pratica nelle parti virtuosistiche
delle opere di Rossini). Lo stesso Bellini, in una lettera
81
del 1° settembre 1831, le aveva attribuito un “carattere
enciclopedico”. Il ruolo di Amina, infatti, richiede particolari
qualità tecniche e timbriche: la scrittura vocale da una parte
impegna la gamma centrale dell’estensione sopranile, con
melodie che si sviluppano per gradi congiunti e nelle quali
i toni raggiungono apici opposti, dall’intensità malinconica
alla leggerezza dell’entusiasmo; dall’altra richiede passaggi
di agilità notevole, con fioriture ed ampi salti, e con linee
melodiche che raggiungono la tessitura sovracuta. Quirino
Principe descrive perfettamente l’essenza di questa dualità:
Quella di Amina è la parte più accentuatamente
melismatica che Bellini abbia composto per un
soprano. […] Quel suo patrimonio di abilità così
acquisito si fuse con l’idillico ruolo di “ingenua” a lei
assegnato in Sonnambula, rendendola magistrale,
per esempio, nei rapidi scatti ascendenti in relazione
espressiva con le idee di palpito e sobbalzo esistenti
nel moderato “Sovra il sen la man mi posa, palpitar,
balzar lo senti” che segue l’andante cantabile
iniziale della cavatina “Come per me sereno” (in La
Sonnambula, Milano, Mursia, 1991, p. 89).
Nella cabaletta della cavatina di Amina, con la sua notevole
lunghezza e le generose coloriture, la voce della Pasta fu
di certo valorizzata al massimo. È l’aria finale, però, che
si colloca come punto culminante dell’opera; il cantabile
è caratterizzato da una di quelle melodie “lunghe lunghe
lunghe”, come le aveva definite Verdi una lettera del 1898,
il cui incipit “Ah! non credea mirarti” fu poi inciso sulla
tomba di Bellini. Quest’aria, con la sua cabaletta dall’effetto
che Friedrich Lippmann ha definito di “gioia saltellante”, è
divenuta poi un cavallo di battaglia per i soprani leggeri o
di coloratura, travisando così il pensiero di Bellini: quando
nel 1955 Maria Callas cantò per la prima volta la parte di
Amina, come ha scritto sagacemente Rodolfo Celletti, “non si
trattò di un esproprio ai danni dei soprani leggeri, ma d’una
legittima riappropriazione” (La vocalità in Sonnambula, in La
82
Ascoltare
Se vi fu una ‘Bellini
Renaissance’ poco dopo
la metà del secolo scorso
la si deve non soltanto
agli studi musicologici ma
anche al sorgere di astri
della lirica come Maria
Callas, Montserrat Caballé
e Joan Sutherland. Ne è
pregevole testimonianza
l’incisione live del debutto
scaligero della Callas con
la direzione di Leonard
Bernstein e la regia di
Luchino Visconti (Myto,
1955). Memorabile
anche la registrazione in
studio con la Sutherland e
Luciano Pavarotti nel ruolo
di Elvino, la direzione di
Richard Bonynge, il London
Opera Chorus e la National
Philharmonic Orchestra
(Decca, 1980). Tra le
registrazioni più recenti si
segnala: l’edizione Virgin
Classics con una Natalie
Dessay in splendida
forma, un Francesco Meli
dolcemente manierato e
la flessibile direzione di
Evelino Pidò alla guida
Sonnambula, Milano, Teatro alla Scala - Mondadori, 1986,
p. 45). Solo quando la parte fu interpretata dalla ‘Divina’,
dunque, si ebbe la riunificazione delle due tipologie canore in
un unico soprano definito “drammatico di agilità”.
La scelta del primo interprete di Elvino si pone in perfetta
analogia con quella della protagonista femminile. Giovanni
Battista Rubini, in quel momento all’apice del successo, è
considerato uno dei più celebri tenori del primo Ottocento.
Voce chiara e brillante, lontana da quelle tinte baritonali che
caratterizzavano i tenori dell’epoca, si innalzava facilmente
verso il registro sovracuto ed era capace di attenuarsi, leggera
ed elegante, nei momenti di più intenso lirismo. La parte di
Elvino incontra difficoltà tecniche elevate, portandosi nella
regione acuta, ad esempio, nel duetto “Son geloso del zefiro
errante”; nell’aria del secondo atto, “Tutto è sciolto”, il tenore
deve inoltre mantenere una vocalità tesa e concitata (anche
qui con incursioni nel registro acuto). Parimenti ardua è la
seguente cabaletta, tanto che nel 1834 Bellini ne modificò per lo stesso Rubini - la seconda parte (dove riprende il testo
della prima strofa), abbassando la tonalità di un semitono.
Anche le parti vocali dei ruoli comprimari presentano delle
difficoltà notevoli dal punto di vista esecutivo, tanto che
richiedono dei cantanti esperti: in particolare il ruolo di Lisa,
per quanto fino alla metà del Novecento i teatri fossero restii
a ingaggiare voci di prim’ordine (ne seguirono spesso tagli
e semplificazioni della parte). A Lisa, personaggio brillante,
sono infatti assegnate due arie con “da capo” piuttosto
impegnative, con passaggi di agilità e un’estensione che
giunge al Do sovracuto; la prima interprete dell’antagonista di
Amina fu Elisa Taccani.
Se la parte di Rodolfo è meno ostica dal punto di vista della
tecnica vocale, il cantante che è chiamato ad interpretarla
deva possedere doti di bravo attore e comprendere a fondo
la forza espressiva del personaggio, al quale Bellini affida
eleganti melodie che richiedono una vocalità calda. Per la
‘prima’ della Sonnambula fu ingaggiato un altro celebre
cantante, il basso Luciano Mariani (aveva cantato come Oroe
nella ‘prima’ assoluta della Semiramide di Rossini, e fu in
di coro e orchestra
dell’Opéra de Lyon (2006)
e la singolare incisione
con il mezzosoprano
Cecilia Bartoli nel ruolo
di Amina firmata dalla
Decca a conclusione
delle celebrazioni per il
bicentenario dalla morte
di Maria Malibran. Molte
delle cadenze intonate
dalla Bartoli infatti
sono quelle della diva
ottocentesca. Sul podio,
Alessandro De Marchi.
Orchestra La Scintilla di
Zurigo (2008).
83
seguito anche il primo don Alfonzo in Lucrezia Borgia), anche
se inizialmente Bellini aveva pensato a Filippo Galli, altro
grande cantante, ma all’epoca già d’età avanzata.
Tra gli altri interpreti della ‘prima’ si ricordano il
mezzosoprano Felicita Baillou-Hilaret, che fu Teresa (la cui
parte è molto presente nei concertati); il basso Lorenzo
Biondi, nella parte di Alessio, ruolo rilevante soprattutto dal
punto di vista drammaturgico; infine il tenore Antonio Crippa,
che fu il Notaro.
Il successo della Sonnambula è ben documentato dalle
recensioni che seguirono la ‘prima’: un critico della “Gazzetta
privilegiata” di Milano, ad esempio, scrisse:
Una tinta di pastorale melodia, di quella melodia che va al
cuore perché sentita, perché dal sentimento prod”otta e
perché cantata con tutta l’espressione dell’animo, ecco a
parere nostro i pregi di questa novella produzione. […] La
Pasta e Rubini cantano certamente in modo ammirabile.
Ma è nelle successive rappresentazioni che si stratificò
e ratificò il consenso per l’opera che è divenuta uno dei
capisaldi della storia del teatro in musica. Numerosi, infatti,
gli allestimenti che già nel corso del secolo XIX contribuirono
all’affermazione internazionale di questo melodramma,
a partire dalla ‘prima’ – seppur contestata – alla Scala,
nel 1834, che vide protagonisti Maria Malibran (Amina) e
Antonio Poggi (Elvino). Fu uno degli episodi che accesero la
mitica contesa tra la Pasta, in quel momento la più acclamata
cantante dell’epoca, e la giovane cantante spagnola (la
quale aveva già interpretato la medesima parte a Londra e a
Bologna), astro nascente che ne minacciava il primato proprio
sul suolo lombardo.
In seguito, complice anche l’ambientazione bucolica, le
interpretazioni dell’opera scivolarono man mano verso colori
più sbiaditi e lo spessore vocale si alleggerì, condensandosi
nelle regioni sonore più acute; tuttavia moltissimi sono
gli allestimenti storici di particolare rilievo. Si ricordano
(considerando solo i due ruoli principali): Rosalbina Carradori
84
Allan e Luigi Duprez (Firenze, 1832), Annetta Brambilla,
sostituita poi da Santina Ferlotti Sangiorgi (Torino, 1836), Elisa
Hoffmann e Italo Gardoni (Milano, 1843), Carlotta Marchisio
e Antonio Giuglini (Milano, 1850, 1855 e 1860), Adelina
Patti e Ernesto Nicolini (Milano, 1873). E nel secolo scorso:
Toti Dal Monte e Enzo De Muro Lomanto (Firenze, 1932);
Toti Dal Monte e Tito Schipa (Milano, 1935); Margherita
Carosio e Ferruccio Tagliavini (Firenze, 1942). Nel 1955 si
ebbe il già citato allestimento con Maria Callas e Cesare
Valletti, diretti da Bernstein con la regìa di Visconti (la
registrazione dell’evento è oggi disponibile anche in CD; con
la Callas, oltre questa, esistono almeno altre tre incisioni in
commercio). Giungendo a tempi più recenti si ricordano le
interpretazioni di Renata Scotto con Nicola Monti (Milano,
1959) e poi con Alfredo Kraus (Venezia, 1961); lo stesso Kraus
poi fu protagonista dell’opera con Joan Sutherland (Milano,
1962). Tra le interpreti di Amina si distinguono anche June
Anderon, Rosetta Pizzo, Ileana Cotrubas, Cecilia Gasdia e
Mariella Devia; Cesare Valletti, Nicolai Gedda, Nicola Monti,
Luca Canonici come Elvino. Tutti straordinari interpreti, come
sempre accade per le opere di repertorio, ma interpretazioni
molto diverse, che certo risentono delle forti personalità
di ognuna di queste grandi voci, oggi impresse nelle tante
incisioni disponibili su disco e CD; qualche nome, invece, non
è stato qui contemplato, e non a caso. Tra le ultime incisioni
disponibili, infine, si segnalano altre due ‘coppie vocali’
interessanti: Cecilia Bartoli e Juan Diego Flórez (2008), e
ancora quest’ultimo con Natalie Dessay (2009).
Una menzione particolare per l’allestimento del 1980
con Joan Sutherland insieme a Luciano Pavarotti, Nicolai
Ghiaurov, Isobel Buchanan e la intelligente direzione di
Richard Bonyange, con la National Philharmonic Orchestra: la
voce dal timbro ampio, lucente e duttile della Sutherland, con
un legato perfetto nelle lunghe melodie belliniane, si fonde
perfettamente con quella di Pavarotti, dolce e squillante
insieme, combinazione di tecnica magistrale ed espressività
intensa.
85
La sonnambula, foto di scena
POLVERE D’ARCHIVIO
LA SIGNORA PASTA
di Stendhal
Io cedo qui alla tentazione di fare il ritratto della Signora
Pasta. Si può ben dire che non c’è al mondo impresa più
difficile. Il linguaggio musicale è insolito e ingrato. Ad ogni
momento vi mancano i termini adatti. E quand’anche avessi
la fortuna di trovarne per esprimere il mio pensiero, forse
presenterò al lettore un pensiero poco chiaro. D’altra parte
non c’è un dilettante che non disponga di una frase fatta
sulla Signora Pasta, e sarà malcontento di non trovarla qui.
A confronto della giusta ammirazione che questa grande
cantante ispira al pubblico, il lettore più benevolo troverà il
suo ritratto scolorito, molto al di sotto di ciò che s’attendeva.
Rossini non ha mai scritto per la Signora Pasta. Il caso gli
fece incontrare l’amabile e graziosa Marcolini e compose
per lei La pietra di paragone. Poi la magnifica Colbran e
scrisse l’Elisabetta; e infine il terribile e appassionato Galli,
e potemmo ammirare dei personaggi quali il Fernando della
Gazza Ladra e il Maometto del Maometto Secondo.
Se la fortuna avesse offerto a Rossini una attrice giovane,
bella, ricca d’anima e di intelligenza, e tale da non allontanarsi
mai dal gesto della semplicità, più vera e soave, e pur sempre
fedele alle forme del bello ideale e più puro; se coi suoi
straordinari talenti pel teatro Rossini incontrasse una voce
che riproducesse tra noi i rapimenti che sapevano darci i
cantanti della vecchia scuola, una voce che sapesse render
commovente la più semplice parola di un recitativo, o i cui
potenti accenti forzassero i cuori più ribelli a condividere
l’emozione che esprimono le sue grandi arie; senza dubbio
noi vedremmo Rossini dimenticare la sua indolenza, studiare
la voce della Signora Pasta, e cercar di scrivere nelle sue
corde...
Ispirato dai talenti della sua prima donna, Rossini
ritroverebbe l’ardore che l’infiammava al suo debutto, e i
canti deliziosi e semplici che determinarono la sua gloria.
Quali capolavori non verrebbero ad illuminare la sala del
Lauvois! Con quale rapidità Parigi assumerebbe nell’opinione
europea il rango di Milano o di Napoli!
86
87
Dopo aver udito la preghiera di Romeo e Giulietta,
prova decisiva per il talento di una cantatrice; dopo aver
riconosciuto come la signora Pasta sappia cantare di
portamento, di come sfumi la sua voce o accentui, leghi
e sostenga con levigatezza un lungo periodo musicale,
non dubito affatto che Rossini non esisterebbe affatto
a sacrificarle una parte del suo sistema, e a diradare la
sua foresta di piccole note che sovraccaricano ora le sue
cantilene.
Pienamente convinto della saviezza e del buon gusto di cui la
signora Pasta fa prova nelle fioriture del suo canto, e sapendo
come l’effetto degli abbellimenti è più sicuro se nasca
dall’emozione e dall’invenzione spontanea del cantante,
Rossini si rimetterebbe subito all’ispirazione della grande
cantante, per i suoi ornamenti.
I veri dilettanti che vanno al Teatro Lauvois non perché
questo teatro sia di moda, ma perché ci trovano delle
emozioni profonde e sono sensibili, almeno lo spero, ad
ogni genere di bellezza come ad ogni specie di gloria,
rifletteranno a quello che potrebbero provare se, abituati a
non udire dalla tribuna altro che discorsi scritti, si trovassero
di colpo davanti un Mirabeau o un generale Foy, con tutto
l’abbandono del loro genio. Orbene, la differenza non è meno
grande tra una cantante che canti nel miglior modo possibile
una musica scritta per un’altra e che non le lascia alcuna
libertà, alcun mezzo di far luce alla sua ispirazione, e la stessa
cantante che esegue cantilene composte per la sua voce, vale
a dire non soltanto nelle sue corde, ma anche nel colore e
nella fisionomia generale del suo talento.
Tra tutte le opere che la signora Pasta ha cantato da quando è
a Parigi, io vedo soltanto il secondo e il terzo atto del Romeo
che convengano press’a poco alle condizioni della sua voce
e al suo modo di condurla. Cercando in tutti i lavori in cui
ha avuto parte, stenterei a trovare tre pezzi che riempiano
esattamente tali condizioni necessarie; eppure la signora
Pasta incanta tutti i cuori con musiche che ad ogni momento
88
contraddicono alla sua voce e le chiedono degli sforzi estremi
d’abilità. Non s’è mai incontrato, io credo, una cantante la
quale abbia meritato ed acquistato gloria in tali condizioni
sfavorevoli. Immaginate ora, voi che sapete amare il vero
incanto della musica, un Rossini che componga con coscienza
per una simile interprete!
Allora soltanto si potrebbe misurare esattamente il valore
reale della signora Pasta. Quanto guadagnerebbe il suo amor
proprio, se ora che Parigi l’ha fatta conoscere al mondo,
essa si ponesse a percorrere i vari teatri d’Italia! Se potesse
cantare tre o quattro volte all’anno delle opere nuove, e
composte apposta per la sua voce, non dubito che in due o
tre anni il suo talento ci tornerebbe moltiplicato. Colla fama
di cui già gode, pensate come i maestri starebbero attenti a
compiacerla, e studierebbero, per conformarvisi, la natura
della sua voce e il suo modo di porgerla!
Io domando ora al lettore di raddoppiare la sua pazienza; dal
mio canto, mi sforzerò di essere lucido, e prometto d’esser
corto.
La voce della signora Pasta ha una considerevole estensione.
Essa rende in modo ancora sonoro il la sotto il rigo, e si alza
fino al do diesis e al re acuto. La signora Pasta possiede il raro
vantaggio di poter cantare la musica di contralto come quella
di soprano. Oserei dire, malgrado la mia poca dottrina, che la
sua voce è di mezzo-soprano. Il maestro che scrivesse per lei
dovrebbe porre la tessitura ordinaria dei suoi canti nella voce
di mezzo soprano e servirsi poi, di passata, di tutte le altre
corde di un organo cosi ricco. Molte di esse sono non soltanto
belle ma producono una vibrazione sonora e magnetica la
quale, io credo, per una miscela d’effetti fisici non ancora
spiegati, s’impadronisce con la rapidità del fulmine dell’anima
degli spettatori.
Noi giungiamo così ad una particolarità molto singolare della
voce della signora Pasta; essa non è di un solo metallo, come
si direbbe in Italia; e questa differenza nei suoni di una stessa
voce è uno dei più potenti mezzi d’espressione di cui sa
89
valersi questa ottima cantante.
Gli italiani dicono, di una voce siffatta, che possiede
parecchi registri, vale a dire diverse fisionomie, secondo le
diverse parti della scala in cui si situa. Quando molt’arte, e
soprattutto una sensibilità squisita, non servissero di guida
nell’uso dei diversi registri, essi sembrerebbero soltanto i
segni di una ineguaglianza vocale, e formerebbero un difetto
urtante, che respingerebbe per la sua durezza ogni piacere
musicale. La Todi, Pacchiarotti, e un gran numero di cantanti
di prim’ordine hanno dimostrato come si possa mutare in
bellezza un apparente svantaggio, e trarne degli effetti di
seducentissima originalità. La storia dell’arte tenderebbe anzi
a far credere che non è con una voce ugualmente argentina
ed inalterabile in tutte le note della sua estensione che
si ottiene un canto davvero patetico. Mai una voce di un
timbro inalterabile potrà giungere a quei suoni velati, in certo
senso soffocati, che dipingono con tanta forza e verità certi
momenti di profonda agitazione e di appassionata angoscia.
Alcuni melomani che acconsentirono ad ammettermi nella
loro società, a Trieste, m’hanno spesso ripetuto che la Todi,
una delle ultime cantanti del gran secolo, aveva una voce e
un talento molto vicini a quella della signora Pasta.
La Todi dovette gareggiare con un autentico miracolo dell’arte
e della natura: la Mora; questa non possedeva soltanto una
voce estremamente bella e molta bravura, ma era ancora
notevole per l’ottima scuola e la molta espressione. Tuttavia
col suffragio della gente nata per l’arte e che, dopo qualche
anno, riesce a far condividere al pubblico la sua maniera di
vedere, la Todi vinse la sua rivale; il suo canto era stato più
spesso l’eco dei loro sentimenti.
Con strabiliante abilità la signora Pasta unisce la voce di testa
a quella di petto; essa possiede l’arte suprema di cavare una
gran quantità di effetti gradevoli e piccanti dall’unione delle
due voci. Per ravvivare il colore di una frase melodica o per
cambiare istantaneamente una sfumatura, essa impiega il
falsetto fin nelle corde medie, oppure lo alterna colle note di
90
petto. Essa usa questo artificio con la stessa facilità di fusione,
nelle tonalità medie come in quelle più acute.
La voce di testa, invece, ha un carattere opposto, è brillante,
rapida, pura, facile, di un’ammirevole leggerezza. Nella scala
discendente essa può smorzare il canto, fino a rendere quasi
dubbia l’esistenza dei suoni.
Ci volevano tali colori così commoventi all’anima della
signora Pasta, e quei mezzi vocali così potenti, perché potesse
raggiungere la forza d’espressione che le conosciamo,
espressione sempre autentica e, benché moderata dalle
regole del bello ideale, sempre piena di energia ardente e di
forza, che elettrizza tutto il teatro. Ma quant’arte c’è voluta,
quanti studi assidui, perché l’amabile cantante riuscisse a
trarre effetti sublimi da due voci così opposte!
La sua arte va sempre perfezionandosi, gli effetti che ne
ottiene sono sempre più strabilianti, la potenza del suo
talento sugli spettatori non può che aumentare; da tempo,
ormai, la voce della signora Pasta ha vinto tutti gli ostacoli
fisici che potevano opporsi al sorgere del piacere musicale;
oggi essa seduce l’orecchio degli uditori come ne elettrizza
le anime. Essi le devono, a ogni nuova opera, le emozioni
più vivaci, o nuove sfumature dello stesso piacere. Essa
possiede l’arte di imprimere un colore musicale nuovo,
non tanto coll’accento delle parole o colla sua recitazione
tragica, ma proprio come cantante, alle parti in apparenza più
insignificanti, per esempio quella di Elcia nel Mosè.
Come tutte le voci umane, quella della signora Pasta
incontra a tratti certe posizioni malcomode di cui non riesce
a vincere la difficoltà, o dove perde il potere, così abituale
in lei, di produrre il piacere musicale e, mediante il piacere
dell’orecchio, l’incanto dei cuori. Queste occasioni, benché
rare, ci fanno desiderare ancora più vivamente di poterla
udire, almeno una volta, in un’opera scritta per la sua voce.
Credo sia impossibile indicare un abbellimento messo in
atto dalla signora Pasta, che non abbia tutte le grazie della
buona scuola, e non possa servire come modello. Assai
91
Disegno di Gianluigi Toccafondo
moderata nell’uso delle fioriture, essa le impiega soltanto
per aumentare la forza dell’espressione; e notate che le
sue fioriture durano soltanto il tempo durante il quale le
sono utili. Non ho mai incontrato nel suo canto quei lunghi
abbellimenti che rammentano un po’ la distrazione dei grandi
oratori, e durante i quali sembra che il cantante si dimentichi
o, cammin facendo, cambi di pensiero. Il pubblico citerà in
vece mia quei cantanti rinomati, nei quali quel difetto così
divertente da osservare si riproduce spesso. Io non intendo
turbare il piacere dei semi-intenditori che vedo applaudire
con entusiasmo tali abbellimenti. Spesso un gorgheggio
comincia in modo leggero e rapido, in stile buffo, per finire
tosto in tono tragico, o serio; oppure, dopo aver cominciato
con tutta la gravità possibile, non sapendo più che fare a
metà strada, ecco il cantore buttarsi nella leggerezza buffa.
La stessa mancanza d’anima ispira al cantante un siffatto
errore, e impedisce allo spettatore di accorgersene. è
codesto uno dei mezzi più acconci per giudicare gli amatori
dal gusto artefatto. Quando sento applaudire tali gorgheggi
nella Gazza ladra e nel Tancredi, ricordo l’aneddoto di un
signore ben conosciuto che lavorava col suo re, e durante
un’ora gli leggeva una lunga relazione sulle attribuzioni
della sua carica; il re pareva trovar piacere a quella lettura,
apparentemente noiosa; in realtà, il signore teneva il foglio
a rovescio e non sapeva leggere. Tale, ai miei occhi, un
dilettante che applaudisce con trasporto un abbellimento a
doppio senso, che comincia a dire bianco per finire col dire
nero. La situazione del personaggio è o triste o gaia; nei due
casi l’applauso è assurdo.
(…) Avrei dieci passi da notare in ognuna delle interpretazioni
della signora Pasta. Le dodici battute che essa canta
nel Tancredi, quando appare sul carro dopo la morte di
Orbassano, non sono nulla, come musica; eppure, quale
mirabile sfumatura! Come il suo canto è diverso da ogni
altro! Come ci si trova quella calma triste che procede da una
vittoria che non dà la felicità a Tancredi, poiché non prova
92
93
l’innocenza di Amenaide! Come vi si discerne l’assenza della
vita e dell’animazione che sostenevano il giovane guerriero
prima dei combattimento, quando l’infiammava, la necessità
di vincere per salvare la vita d’Amenaide, quando il dubbio
sulla vittoria gli impediva di vedere tutto l’orrore della sua
sorte!
Per la signora Pasta, la stessa nota in due situazioni diverse
non ha, per così dire, lo stesso suono.
Qui sta la sublimità del canto! Ho assistito trenta volte al
Tancredi, il suo canto segue così da presso le ispirazioni
attuali del suo cuore che, per esempio, il tremar Tancredi vien
detto da lei a volte con dolce ironia, altre volte coll’inflessione
del valoroso che vuole rassicurare la persona che teme; a
volte ancora è di sgradevole sorpresa, già accompagnata
dal risentimento; ma Tancredi pensa che è Amenaide che
parla, e la sfumatura della collera fa posto ad sorriso della
riconciliazione.
(…) Potrei fare una lunga enumerazione di tutte le difficoltà
che la natura ha opposte alla signora Pasta, e che ha dovuto
vincere perché la sua anima potesse, per mezzo del canto,
elettrizzare quella degli spettatori. Noi la vediamo riportare
ogni giorno nuovi trionfi, e avvicinarsi alla perfezione.
Ogni sua tappa è contrassegnata da una di quelle piccole
creazioni, di cui ho parlato dianzi. M’ero fatto dettare da un
dotto musicista una enumerazione che sopprimo, perché
esigerebbe una cultura tecnica per essere compresa; non
è quale anàtomo ma quale pittore che voglio parlare della
bellezza e, nella mia ignoranza, non son certo i dotti che
voglio addottrinare...
Si è chiesto alla signora Pasta chi sia stato il suo maestro
di recitazione. Essa non ne ha avuto altri che un cuore
atto a sentire vivacissimamente le minime sfumature della
passione, e una ammirazione appassionata, fino a sfidare
il ridicolo, per il bello ideale. A Trieste, un bimbetto di tre
anni le si avvicina, e le chiede l’elemosina per sua madre
che è cieca, e la fa sciogliere in lagrime, lì sul porto, dove
94
passeggiava con qualche amico; e gli dà tutto quel che
aveva con sé. Gli amici parlano di carità, lodano la bontà
del suo cuore. Come ebbe asciugato le sue lagrime: “Io
non accetto le vostre lodi — rispose. Questo bimbo mi ha
chiesto l’elemosina in modo sublime. Ho visto in un batter
d’occhio tutte le disgrazie della madre, la miseria della casa;
la mancanza di vestiti, il freddo di cui soffrono. Sarei davvero
una grande attrice se, nel caso, sapessi trovare un gesto
esprimente una profonda disgrazia con altrettanta verità”.
Mille osservazioni di questo genere, di cui la signora Pasta
ebbe coscienza dall’età di sei anni e che ricorda distintamente
e di cui, al bisogno, si serve sulla scena, hanno fermato il
suo talento, le han servito da modello. Ho sentito dire che la
signora Pasta deve molta riconoscenza a De Marini, uno dei
primi attori italiani, e alla sublime Pallerini, l’attrice formata
da Viganò per recitare nei suoi balletti le parti di Mirra, di
Desdemona, della Vestale.
Come cantante la signora Pasta è troppo giovane per aver
potuto vedere sulla scena la Todi, Pacchiarotti, Marchesi,
Crescentini; essa non ha mai avuto l’occasione di ascoltarli
al pianoforte; pure i melomani che li hanno uditi dicono
che sembra la loro allieva. Per il canto, essa non è obbligata
che alla signora Grassìni, colla quale ha cantato durante una
stagione a Brescia.
(da Stendhal, Vita di Rossini, trad. B. Revel, Firenze, Passigli, 1983)
95
Disegno di Gianluigi Toccafondo
INTERVISTE PARALLELE
di Mauro Mariani
Quando Bellini scrisse La Sonnambula, nel 1831, si era in
pieno romanticismo ed egli stesso aveva contribuito da
protagonista all’affermazione di questa nuova sensibilità
sulle scene italiane, con opere come Il Pirata, La Straniera e
I Capuleti e i Montecchi, molto tempestose, cupe, tragiche.
La Sonnambula invece è diversa, è un tenero idillio dalle
atmosfere arcadiche, che quasi ci riporta al Settecento, e
tutto il suo pathos scaturisce da un caso di sonnambulismo,
che pare un pretesto piuttosto esile, più adatto a un balletto
(infatti è da lì che proviene questo soggetto) che a un
melodramma. Eppure la vena lirica di Bellini stende una
delicata patina romantica anche su questa vicenda. Qual
è esattamente, secondo Lei, il rapporto tra quest’opera e il
romanticismo?
Callegari
“La collocherei a pieno titolo nel romanticismo, sebbene ci
siano inevitabilmente alcuni aspetti legati ai cliché dell’epoca,
per esempio una cabaletta può avere un accompagnamento
brillante ed euforico mentre il testo esprime tutt’altro. Ma
quello di Sonnambula è un romanticismo diverso da quello
appassionato ed eroico che sarà il carattere del melodramma
italiano dell’Ottocento. Ha un carattere sfumato, sognante,
nebbioso, irreale: su questo il regista ed io abbiamo trovato
un accordo perfetto.”
Barberio Corsetti
“Il tema del sonnambulismo era molto caro ai romantici,
perché vi vedevano una zona mediana tra sogno e veglia,
che si stacca dalla realtà e apre uno spiraglio per entrare
nel profondo della psiche umana. Anche il luogo in cui la
vicenda si volge non appartiene alla realtà ma è totalmente
immaginario, non è veramente la Svizzera di cui si dice nel
libretto. Anche il tempo è irreale, sospeso, indeterminato:
io ho scelto l’Ottocento, perché volevo un tempo lontano
da noi, ma non troppo lontano. La stessa Amina è un
96
97
personaggio singolare, una trovatella di cui non si sa nulla,
ammirata da tutti per la sua innocenza, che conserva
qualcosa di infantile. A quell’età tutti gli oggetti sembrano
avere dimensioni diverse dalla realtà: ho immaginato che i
mobili reali siano replicati sia in scala ingigantita, diventando
le montagne di questa Svizzera immaginaria, sia in scala
miniaturistica, per rappresentare il mondo ideale e appunto
infantile di Amina, che viene sempre guastato dalla realtà. A
questo si aggiunge una dimensione onirica, determinata dai
cartoni animati di Gianluigi Toccafondo.”
La drammaturgia della Sonnambula è molto lineare e anche
l’orchestrazione è semplicissima, secondo alcuni perfino
elementare, tanto che Bellini è stato anche accusato di non
saper orchestrare. Però si sa che in campo artistico fare
cose semplici è spesso più delicato e difficile che fare cose
complesse. Quali sono le difficoltà che direttore e regista
incontrano in quest’opera?
Callegari
“Ho già diretto La Sonnambula una prima volta nel 1995 ma,
riprendendola ora a quasi vent’anni di distanza, mi sono reso
conto che l’orchestrazione è a suo modo perfetta, non poteva
essere che così, perché è totalmente funzionale a quel che
Bellini ricercava prima di ogni altra cosa, cioè la purezza e la
trasparenza della melodia. Le difficoltà per il direttore sono
non tanto quelle solite, come la scelta dei tempi nelle arie,
ma si annidano soprattutto nei recitativi, che spesso sono
delle vere trappole: è proprio su questi momenti che ho
focalizzato il mio lavoro, cercando il giusto equilibrio perché i
recitativi non si allentino e non cadano.”
Barberio Corsetti
“È vero che a un primo approccio la trama appare
estremamente elementare ma poi, entrando più dentro, ci si
accorge che non è affatto così semplice e si capisce che dietro
98
Navigare
Il web offre poche
occasioni di
approfondimento
specifico sull’opera
belliniana, eccezion
fatta per i pregevoli
libretti scaricabili dal
sito del Teatro La Fenice
di Venezia (www.
archiviostoricolafenice.
org) e per le recensioni
della storica
rappresentazione
scaligera del marzo 1955
(www.luchinovisconti.
org/pagine/
opere_1_vis/scheda.
asp?id_opera=46&id_
genere=14). Viceversa
svariati sono gli spunti
di riflessione su aspetti
collaterali dell’opera.
Ad esempio, sul tema
del sonnambulismo, di
grande attualità all’epoca
di Bellini, si trovano
pagine tanto di carattere
storico (come quella che
al primo livello ce ne sono altri, e su quelli io ho lavorato.
Come ho già accennato, quest’opera si svolge in uno strano
luogo tra realtà e sonno e, se si riesce a restare su quel
livello, acquista un’altra dimensione, quasi vertiginosa. Vorrei
aggiungere che c’è anche qualcosa di non detto, che bisogna
saper leggere al di sotto del testo. È adombrata anche la
possibilità di un incesto, perché il Conte, quando Amina in
stato di sonnambulismo entra nella sua camera da letto, è
tentato per un momento di approfittare della situazione:
ebbene, sappiamo dalla prima versione del libretto che il
Conte è il padre di Amina, anche se questo punto fu eliminato
nella redazione definitiva.”
La Sonnambula è un culmine del “bel canto”, basti pensare
che i primi interpreti furono Giuditta Pasta e Giovan Battista
Rubini e che negli anni immediatamente seguenti divenne un
cavallo di battaglia di Maria Malibran e Jenny Lind. Oggi però
non è più possibile pensare a uno spettacolo che si risolva
esclusivamente con le voci dei cantanti e anche orchestra e
scena devono concorrere in modo determinante a creare uno
spettacolo organico e completo. Cosa possono fare direttore
e regista per valorizzare gli aspetti di loro competenza, senza
d’altra parte sacrificare il ruolo protagonistico della voce?
riporta il contenuto di
una conferenza tenuta
sull’argomento da
Rudolf Steiner presso
l’Architektenhaus di
Berlino nel 1904: www.
larchetipo.com/2010/
dic10/), quanto letterario
(vedasi l’articolo di
Marino Niola, Donne
ai confini della realtà,
consultabile sul sito
de “La Repubblica”) o
antropologico. A tal
proposito di particolare
interesse, vista la
prossimità socio-culturale
dell’area in oggetto con
i luoghi belliniani, può
risultare il saggio sulla
tradizione popolare
salentina dell’‘800: www.
fondazioneterradotranto.
it/2012/10/14/oppio-eoppiacei-nella-tradizionepopolare-salentina.
Callegari
“Si deve partire dal presupposto che per fare questo
tipo di repertorio è necessario poter contare su cantanti
che abbiano familiarità con questo stile vocale - e qui al
Petruzzelli li abbiamo - e capiscano che bel canto non
significa esibizionismo e virtuosismo pirotecnico ma emettere
un suono nella forma più sublime possibile. Compito del
direttore è trovare un accompagnamento orchestrale degno
di tale bellezza. Quel che io cerco di fare è nobilitare anche
quei momenti orchestrali che talvolta sono sottovalutati e
presi sotto gamba, come i passaggi ripetitivi, in cui secondo
me ogni singola nota deve essere suonata con attenzione
99
particolare e in modo diverso dalle altre.”
(Barberio Corsetti)
“In generale credo che il regista prima di tutto debba amare
l’opera e poi debba capire che in un’opera del periodo del
“bel canto” si deve mettere in scena la musica, non il libretto.
Il regista deve sentire lo slancio che parte dalla musica e
provare lo stesso fervore che animava i giovani musicisti
(Bellini non aveva trent’anni all’epoca della Sonnambula)
che scrissero le opere dell’Ottocento italiano. Il bel canto è
affascinante soltanto se è anche un modo di raccontare il
personaggio, non deve diventare un fattore esclusivamente
atletico, altrimenti non mi interessa più. Il virtuosismo è un
elemento imprescindibile di queste opere, ma i personaggi
della Sonnambula vanno al di là dell’aspetto puramente
virtuosistico, sono innanzitutto molto umani: è in questo
che il pubblico trova qualcosa capace di coinvolgerlo ancora
profondamente, non nel virtuosismo fine a se stesso”.
Uno spettatore del 2013 cosa può trovare nella Sonnambula
che gli parli direttamente e riesca ancora a toccare la
sensibilità moderna?
Callegari
“Bisogna partire dalla considerazione che oggi la
maggior parte del pubblico che frequenta i teatri d’opera
è strettamente legata a certe tradizioni e non cerca
necessariamente qualcosa che incida sull’attualità. Quindi
dalla Sonnambula il pubblico non si aspetta messaggi forti,
ma viene ad ascoltarla per apprezzare i suoi momenti di pura
bellezza, godendo le meravigliose melodie di Bellini, senza
scervellarsi per cercarvi delle cose che non ci sono.”
Barberio Corsetti
“Quella della Sonnambula è in fondo una vicenda eterna
e sempre attuale. Vi si può riconoscere una storia di
formazione, in quanto la protagonista alla fine non è più
quella dell’inizio: Amina cresce e questo avviene, come
sempre, attraverso una forte delusione. Anche Elvino è
un carattere più interessante di quanto potrebbe apparire
a prima vista, è la tipica figura maschile concentrata su
se stessa, non si domanda mai nulla di Amina e mai si
preoccupa veramente di lei. Questo meccanismo di passioni
estremamente semplici riceve vita dalla musica e può ancora
coinvolgere lo spettatore.”
Disegno di Gianluigi Toccafondo
101
LA SONNAMBULA
IL SOGGETTO
L’azione è ambientata in un villaggio della Svizzera, in epoca
imprecisata.
ATTO PRIMO
La piazza del villaggio; da un lato l’osteria di Lisa, dall’altro
il mulino di Teresa. I contadini festeggiano con cori le nozze
del ricco possidente Elvino con Amina, orfana adottata da
Teresa. Fra il generale tripudio Lisa non ha pace: si lamenta a
causa del suo amore privo di speranza per Elvino. Frattanto
ella ignora l’amore che Alessio nutre nei suoi confronti. Attendendo lo sposo, Amina risponde felice agli amici del villaggio.
Dopo il notaio giunge finalmente Elvino, che offre la fede ad
Amina. L’idillio è interrotto dall’inatteso arrivo di una carrozza
con il conte Rodolfo. Figlio del defunto signore del villaggio,
quest’ultimo - di ritorno dopo molti anni di assenza - non
viene riconosciuto e preferisce mantenersi incognito. Prende
dimora nella locanda di Lisa, e rivolge i suoi complimenti alla
giovane sposa, suscitando la gelosia di Elvino. Nell’osteria il
conte Rodolfo fa la corte a Lisa, che sembra ben disposta; sopraggiunge in quello Amina, addormentata, vestita di bianco,
che ripete il nome dello sposo e descrive la visione, che la
pervade, della prossima cerimonia nuziale; quindi si corica
sul divano. Lisa si nasconde, Rodolfo rimane sconcertato e
incerto sul da farsi, ma proprio in tal frangente entra la folla
dei paesani, venuti a rallegrarsi col conte - del quale hanno
scoperto l’identità - per accompagnarlo al castello. Tutti in
tal modo vedono Amina, addormentata nella camera di Rodolfo. Svegliatasi, la giovane cerca di giustificarsi e protesta la
propria innocenza, ma nessuno le crede. Elvino, in preda alla
gelosia, la ripudia.
ATTO SECONDO
Un gruppo di paesani si reca dal conte affinché egli prenda
le difese di Amina; quest’ultima, frattanto, accompagnata da
Teresa, incrocia in Elvino, che vaga senza meta in preda al dolore e ancora innamorato di lei.
Presso il mulino di Teresa, Lisa, approfittando della situazione creatasi, sta per sposare Elvino, che ha accettato il
matrimonio nonostante le reiterate assicurazioni del conte
sull’innocenza di Amina. Il borgo è nuovamente in festa, ma
quando Lisa ed Elvino passano davanti alla casa di Teresa,
quest’ultima accusa Lisa di aver commesso lo stesso atto di
Amina, dichiarando di aver trovato un suo velo nella camera
di Rodolfo; Elvino è ingelosito e incollerito: rifiuta anche queste nozze.
D’improvviso, sul cornicione del tetto di casa appare Amina,
addormentata, confermando così le parole pronunciate dal
conte a suo discapito. Amina, sempre in preda al sonnambulismo, scende sulla strada cantando il suo amore per Elvino;
quest’ultimo, ricreduto e pentito, la prende fra le sue braccia.
La festa ricomincia e si preparano finalmente le nozze.
Disegno di Gianluigi Toccafondo
103
LA SONNAMBULA
THE THEME
The events take place in a village in Switzerland at an unspecified time.
ACT I
The village square: on one side Lisa’s tavern, on the other Teresa’s mill. The peasants are singing to celebrate the marriage
of the rich landowner Elvino to Amina, an orphan adopted
by Teresa. In the general rejoicing Lisa cannot find peace: she
com- plains because of her unrequited love for Elvino. In the
meantime she ignores the love which Alessio cherishes towards her. While awaiting the bridegroom, Amina happily answers her village friends. Elvino finally arrives after the notary
and offers the wedding ring to Amina. The idyll is broken by
the unexpected arrival of a carriage bearing Count Rodolfo,
the son of the late Lord of the village, who, after many years
absence, is not recognized and prefers to remain incognito.
He takes up lodgings in Lisa’s inn and pays compliments to
the young bride, thus arousing Elvino’s jealousy.
In the tavern, Count Rodolfo pays court to Lisa who seems
quite willing; at that moment Amina arrives, asleep, dressed
in white, repeating the name of the bride- groom and describing the vision she has of the coming wedding ceremony;
then she lies down on the couch. Lisa hides, Rodolfo remains
disconcerted and uncertain as to what to do, but right in this
predicament the crowd of villagers enters to congratulate the
Count - whose identity they have discovered - and accompany him to the castle. In this way everyone sees Amina, asleep
in Rodolfo’s room. On waking, the young girl tries to justify
herself and pleads her own innocence but nobody believes
her. Elvino, seized by jealousy, repudiates her.
ACT II
A group of peasants go to see the Count to persuade him to
defend Amina who, in the meantime, accompanied by Teresa,
crosses the path of Elvino who is wandering aimlessly, griefstricken and still in love with her.
At Teresa’s mill, Lisa, taking advantage of the new situation, is
about to marry Elvino who has accepted the marriage despite
the Count’s repeated assurances that Amina is innocent. The
village is celebrating once again but when Lisa and Elvino
pass in front of Teresa’s house, the latter accuses Lisa of having committing the same act as Amina, declaring that she
has found a wedding veil of hers in Rodolfo’s room; Elvino is
angry and jealous and rejects this marriage too.
Suddenly the sleeping Amina appears on the edge of the
roof, thus confirming the words spoken by the Count in her
defence. Amina, still sleepwalking, comes down into the
street singing her love for Elvino; the latter, repentant and
with a change of heart, takes her in his arms. The festivities
start once again and preparations are finally made for the
wedding.
Disegno di Gianluigi Toccafondo
105
il libretto
LA SONNAMBULA
di Felice Romani
107
LA SONNAMBULA
Melodramma in due atti
Primo Atto
Guida all’ascolto
di Alessandro Taverna
[Introduzione]
1. Introduzione
Nessuna ouverture
anticipa l’avvio
dell’azione. A introdurre
all’atmosfera della
Sonnambula è semmai
il risalto ottenuto
dagli interventi di uno
strumento dell’orchestra
scelto a suggerire il clima
dominante.
Il corno è lo strumento
chiamato ad assolvere
a una funzione
fondamentale in tutta la
partitura.
Una fanfara sottovoce
degli ottoni segna l’avvio
dell’opera con un disegno
di terzine che anticipa il
clima festoso di questa
introduzione; le terzine
ricompaiono una seconda
volta, precedute da un
arabesco disegnato dai
clarinetti.
Con gli strumenti della
banda collocati sul palco
il sentimento della natura
creerà una tinta peculiare
nel clima festoso che
pervade questo inizio.
Libretto di Felice ROMANI
Musica di Vincenzo BELLINI
Prima esecuzione:
Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831
Personaggi
1.
Il Conte Rodolfo
signore del villaggio / basso
Scena prima
Piazza d’un villaggio. Da un lato un’osteria, dall’altro un
mulino, in fondo colline praticabili. All’alzarsi del sipario
odonsi da lungi suoni pastorali e voci lontane che gridano:
“Viva Amina!” Sono gli abitanti del villaggio che vengono
a festeggiare gli sponsali di lei. Esce Lisa dall’Osteria, indi
Alessio dai colli.
Teresa
Molinara / mezzosoprano
Amina
orfanella raccolta da Teresa, fidanzata ad Elvino / soprano
[Coro]
Elvino
ricco possidente del villaggio / tenore
coro
Viva Amina! viva ancor!
Lisa
ostessa, amante di Elvino / soprano
Alessio
contadino, amante di Lisa / basso
Un Notaro / tenore
Contadini e contadine
La scena è in un villaggio della svizzera.
[Cavatina]
2.
LISA
Tutto è gioia, tutto è festa...
sol per me non v’ha contento,
e per colmo di tormento
son costretta a simular.
O beltade a me funesta,
che m’involi il mio tesoro,
mentre io soffro, mentre moro,
pur ti deggio accarezzar!
ALESSIO
Lisa! Lisa!...
LISA
(per partire)
Oh l’importuno!
ALESSIO
Ah! tu mi fuggi!...
LISA
Fuggo ognuno.
ALESSIO
Ah! non sempre, o bricconcella,
fuggirai da me così.
Per te pure, o Lisa bella,
108
2. “Tutto è gioia,
tutto è festa”
Nel rallentando degli
archi si fa intuire subito
un’ombra di tristezza,
in netto contrasto con
gli slanci gioiosi del
coro fuori scena. Se
una cavatina assolve il
compito di presentare
un personaggio e il
109
giungerà di nozze il dì.
(durante il colloquio di Lisa e di Alessio, i suoni si sono fatti
più vicini, e più forti le acclamazioni)
Scena seconda
Scendono dalle colline Villani e Villanelle, tutti vestiti da
festa, con strumenti villerecci e canestri di fiori. Giungono
al piano.
CORO Viva Amina!
ALESSIO Viva!
suo carattere, Bellini
v’infonde il dispetto
provato da Elisa, vistasi
preferire Amina e
costretta a nascondere
i propri sentimenti di
dispetto per la sorte
che arride alla rivale.
Il controcanto solitario
di Elisa sarà infine
sovrastato dalla canzone
intonata dal coro che
nell’insistito sillabato
svela la sua natura
semplice.
tutta luce, tutta amor.
Ma pudica, ma ritrosa,
quanto è vaga, quanto è bella:
è innocente tortorella,
è l’emblema del candor.
[Insieme]
LISA
(Ah! per me sì lieti canti
destinati un dì credei:
crudo amor, che sian per lei
non ho cor di sopportar.)
ALESSIO
(avvicinandosi a Lisa)
(Lisa mia, sì lieti canti
risuonar potran per noi,
se pietosa alfin tu vuoi
dare ascolto al mio pregar.)
LISA
(indispettita)
(Anch’esso! Oh dispetto!)
CORO Viva ancor!
ALESSIO E CORO
Te felice e avventurato
più d’un prence e d’un sovrano,
bel garzon, che la sua mano
sei pur giunto a meritar.
Tal tesoro amor t’ha dato
di bellezza e di virtude
che quant’oro il mondo chiude,
che niun re potria comprar.
ALESSIO
Qui schieràti... più d’appresso...
LISA
(Ah! la rabbia mi divora!...)
[Insieme]
(ricominciano gli evviva)
ALESSIO E CORO La canzone preparata intuonar di qui si può.
Scena terza
Amina, Teresa e detti
LISA (Ogni speme è a me troncata: la rivale trionfò.)
[Recitativo e Cavatina]
[Coro]
ALESSIO E CORO
In Elvezia non v’ha rosa
fresca e cara al par d’Amina:
è una stella mattutina,
110
3
AMINA Care compagne, e voi,
teneri amici, che alla gioia mia
tanta parte prendete, oh come dolci
scendon d’Amina al core
3. “Care compagne”
Nove battute di recitativo
sui cui risuona per la
prima volta la voce di
111
i canti che v’inspira il vostro amore!
CORO
Vivi felice! è questo
il comun voto, o Amina.
AMINA
A te, diletta,
tenera madre, che a sì lieto giorno
me orfanella serbasti, a te favelli
questo, dal cor più che dal ciglio espresso,
dolce pianto di gioia, e quest’amplesso.
(con tenero accento)
Compagne... teneri amici...
Ah! madre... ah! qual gioia!
AMINA
Come per me sereno
oggi rinacque il dì!
Come il terren fiorì
più bello e ameno!
Mai di più lieto aspetto
natura non brillò;
amor la colorò
del mio diletto.
CORO
Sempre, o felice Amina,
sempre per te così
fiori il cielo i dì
che ti destina...
AMINA (abbraccia Teresa, e prendendole una mano, se l’avvicina
al core)
Sovra il sen la man mi posa,
palpitar, balzar lo senti:
egli è il cor che i suoi contenti
non ha forza a sostener.
TERESA E CORO
Di tua sorte avventurosa
112
Amina. Siglata da una
fioritura, la frase di
Amina offre una sorta di
anticipazione psicologica
della giovane. Accolta da
un intervento del coro,
la fanciulla esprime i
propri sentimenti nel
Cantabile sostenuto assai.
In partitura è segnata
l’indicazione “col canto”
per clarinetti e corni.
L’ingresso felpato degli
archi sembra suggerire
ai personaggi come
muoversi sulla scena.
Amina si sprofonda nel
canto con cui Bellini la
solleva progressivamente
dal peso della forza di
gravitazione, facendole
toccare insistentemente
- e senza dare la
sensazione di sforzo - le
note più alte del registro
da soprano.
Terzine di clarinetti e
di corni preparano una
morbida cadenza prima
che attacchi la cabaletta.
Bellini la immagina
non come una semplice
occasione di spericolato
virtuosismo per le doti
della cantante, ma come
un innalzamento emotivo
che porta la commozione
del personaggio a sfiorare
l’estasi e lo smarrimento.
teco esulta il cor materno:
non potea favor superno riserbarlo a ugual piacer.
[Recitativo e Duetto con coro]
ALESSIO Io più di tutti, o Amina,
teco mi rallegro. Io preparai la festa,
io feci la canzone; io radunai
de’ vicini villaggi i suonatori.
AMINA
E grata a’ tuoi favori,
buon Alessio, son io.
Fra poco io spero
ricambiarteli tutti, allor che sposo
tu di Lisa sarai, se, come è voce,
essa a farti felice ha il cor disposto.
ALESSIO
La senti, o Lisa?
LISA No, non sarà sì tosto.
ALESSIO Sei pur crudele!
TERESA E perché mai?
LISA
L’ignori?
Schiva son io d’amori;
mia libertà mi piace.
AMINA
Ah! tu non sai
quanta felicità riposta sia
in un tenero amor.
LISA
Sovente amore
ha soave principio e fine amaro.
113
TERESA Vedi l’ipocrisia!
ELVINO
Siate voi tutti, o amici,
al contratto presenti.
CORO Viene il Notaro.
(il Notaro si dispone a stendere il contratto)
NOTARO
Elvin, che rechi alla tua sposa in dono?
Scena quarta
Il Notaro e detti.
ELVINO
I miei poderi,
la mia casa, il mio nome,
ogni bene di cui son possessore.
AMINA Il Notaro? Ed Elvino non è presente ancor?
NOTARO
Di pochi passi
io lo precedo; in capo al bosco
io lo mirai da lungi.
NOTARO
E Amina?...
AMINA
Il cor soltanto.
CORO
Eccolo
ELVINO
Ah! tutto è il core!
AMINA
Caro Elvino! alfin tu giungi!
Scena quinta
Elvino e detti.
ELVINO Perdona, o mia diletta,
il breve indugio. In questo dì solenne
ad implorar ne andai sui nostri nodi
d’un angelo il favor: prostrato al marmo
dell’estinta mia madre! “Oh! benedici
la mia sposa!” le dissi. “Ella possiede
tutte le tue virtudi; ella felice
renda il tuo figlio qual rendesti il padre.”
Ah! lo spero, ben mio, m’udì la madre.
AMINA
Oh! fausto augurio!
TUTTI
E van esso non fia.
114
(mentre la madre sottoscrive, e con essa i testimoni, Elvino
presenta l’anello ad Amina)
4.
ELVINO
Prendi: l’anel ti dono
che un dì recava all’ara
l’alma beata e cara
che arride al nostro amor.
Sacro ti sia tal dono
come fu sacro a lei;
sia de’ tuoi voti e miei
fido custode ognor.
CORO
Scritti nel ciel già sono,
come nel vostro cor.
ELVINO
Sposi or noi siamo.
4. “Prendi: l’anel ti
dono”
Con l’arrivo di Elvino, il
cantabile è raddoppiato
dal corno in orchestra
a riportare al clima
idilliaco dominante fin
dall’inizio. Una sfumatura
psicologica nel carattere
del giovane è però
sottilmente manifestata
nel trattamento musicale
riservatogli da Bellini,
consistente in un leggero
sfasamento fra i gesti
musicali del tenore e
quelli della sua promessa,
115
AMINA
Sposi!... oh! tenera parola!
ELVINO
Cara! nel sen ti posi
(le dà un mazzetto)
questa gentil viola.
AMINA
Puro, innocente fiore!
(lo bacia)
ELVINO
Ei mi rammenti a te.
AMINA
Ah! non ne ha d’uopo il core.
ELVINO
Ei mi rammenti a te.
AMINA E ELVINO
Dal dì che univa
i nostri cori un dio,
con te rimase il mio,
il tuo con me restò.
AMINA
Ah! vorrei trovar parole
a spiegar com’io t’adoro!
Ma la voce, o mio tesoro,
non risponde al mio pensier.
ELVINO
Tutto, ah! tutto in quest’istante
parla a me del foco ond’ardi:
io lo leggo ne’ tuoi sguardi,
nel tuo riso lusinghier!
L’alma mia nel tuo sembiante
vede appien la tua scolpita,
e a lei vola, è in lei rapita
di dolcezza e di piacer!
116
nel ritardo con cui
procede l’incontro delle
due voci. La gelosia
di Elvino rivolta ai
venti sarà destinata
ad amplificarsi, a
dismisura, nel procedere
dell’azione. Valendosi di
una consolidata strategia
dell’era del belcanto,
l’aria di Elvino - dove la
tessitura del tenore nelle
intenzioni originarie di
Bellini raggiungeva il si
bemolle, poi abbassato
- prevede l’ingresso
della voce di Amina. E le
notazioni psicologiche
recate in partitura
perseverano nella loro
sottigliezza: “Ah vorrei
trovar parole” – è molto
più che una dichiarazione
d’amore che si arrende
all’incapacità di trovare
espressione. Infatti
Bellini lascia un indizio
eloquente in quanto essa
è dolorosamente segnata
dalla tonalità in minore.
TERESA, ALESSIO E CORO
Ah! così negli occhi vostri
core a core ognor si mostri:
legga ognor qual legge adesso
l’un nell’altro un sol pensier.
LISA
(Il dispetto in sen represso
più non valgo a sostener.)
[Recitativo e Cavatina]
ELVINO
Domani, appena aggiorni,
ci recheremo al tempio e il nostro imene
sarà compiuto da più santo rito.
Al genïal convito
tutti quanti io vi attendo e a lieta danza
nel mio vicin podere.
(odesi suon di sferza e calpestio di cavalli)
Qual rumore!
CORO (accorrendo)
Cavalli!
AMINA
Un forestiere.
Scena sesta
Rodolfo e due Postiglioni.
RODOLFO (dal fondo)
Come noioso e lungo
il cammin mi sembrò!
(s’avanza)
Distanti ancora dal castel siam noi?
117
Disegno di Gianluigi Toccafondo
LISA
Tre miglia, e giunti
non vi sarete fuor che a notte oscura,
tanto alpestre è la via. Fino a domani
qui posar vi consiglio.
RODOLFO
E lo desìo. Avvi albergo al villaggio?
LISA
Eccovi il mio.
RODOLFO
(esaminando l’osteria)
Quello?
TUTTI
Quello.
RODOLFO
Ah! lo conosco.
LISA
Voi, signor?
TUTTI
(Costui chi fia?)
RODOLFO
Il mulino... il fonte... il bosco... e vicin la fattoria!...
5.
RODOLFO
(Vi ravviso, o luoghi ameni,
in cui lieti, in cui sereni
sì tranquillo i dì passai
della prima gioventù!
Cari luoghi, io vi trovai,
ma quei dì non trovo più!)
TUTTI
(Del villaggio è conscio assai:
quando mai costui vi fu?)
RODOLFO
Ma fra voi, se non m’inganno,
118
5. “Vi ravviso, O
LUOGHI AMENI”
L’ingresso del Conte
che si imbatte nei
preparativi delle nozze
potrebbe richiamare una
scena del burlador di
Siviglia, quando costui si
imbatte nello sposalizio
di Zerlina e Masetto.
Ma Rodolfo non è Don
Giovanni. Il cantabile
119
oggi ha luogo alcuna festa.
TUTTI
Fauste nozze qui si fanno.
RODOLFO
E la sposa? è quella?
(accennando Lisa)
TUTTI (additando Amina)
È questa.
RODOLFO (ad Amina)
È gentil, leggiadra molto...
Ch’io ti miri. (Oh!... il vago volto!...)
Tu non sai con quei begli occhi
come dolce il cor mi tocchi,
qual richiami ai pensier miei
adorabili beltà.
Era dessa, qual tu sei,
sul mattino dell’età.
LISA
(Ella sola è vagheggiata!)
ELVINO
(Da quei detti è lusingata!)
CORO
(Son cortesi, son galanti gli abitanti di città.)
[Recitativo e Coro]
ELVINO
Contezza del paese avete voi, signor?
che accompagna
il suo ingresso in
scena è curiosamente
arrendevole: frasi lunghe
tracciate dagli archi,
soprattutto violini,
punteggiate dai legni,
lo immergono in una
prolungata fantasticheria.
Non è sogno, ma il
sopraggiungere dei
ricordi che guidano i suoi
passi e anche il suo canto.
Rodolfo ritrova i luoghi
della sua giovinezza e il
gonfiarsi del suo cuore
è reso concretamente
dall’espandersi di una
frase lunga, protratta, in
crescendo.
Solo l’accorgersi della
presenza di Amina
muta improvvisamente
l’atmosfera di prolungato
abbandono ai ricordi,
con l’insorgere di un
tempo più veloce. Nella
condotta vocale è ben
raffigurato il risvegliarsi
dell’eccitazione di quel
libertino in potenza che
si cela sotto le vesti del
Conte.
È morto or son quattr’anni!
RODOLFO
E ne ho dolore!
Egli mi amò qual figlio...
TERESA
Ed un figlio egli avea; ma dal castello
sparve il giovane un dì, né più novella
n’ebbe l’afflitto padre.
RODOLFO
A’ suoi congiunti
nuova io ne reco e certa. Ei vive.
LISA
E quando
alla terra natìa farà ritorno?
CORO
Ciascun lo brama.
RODOLFO
Lo vedrete un giorno.
(odesi il suono delle cornamuse che riducono gli armenti
all’ovile)
TERESA
Ma... il sol tramonta: è d’uopo
prepararsi a partir.
AMINA, LISA, ELVINO E CORO
Partir?...
(Teresa fa che tutti a lei s’avvicinino)
RODOLFO
Vi fui da giovinetto
col signor del castello.
TERESA
(con gran mistero)
Sapete che l’ora s’avvicina in cui si mostra
il tremendo fantasma.
TERESA
Oh! il buon signore!
CORO
E vero! è vero!
120
121
RODOLFO
Qual fantasma?
Sol tratto tratto da valle fonda
la Strige immonda urlando va.
AMINA, LISA, TERESA, ELVINO E CORO
È un mistero
un oggetto d’orror!
RODOLFO
Vorrei vederla, o presto o tardi,
vorrei vederla, scoprir che fa.
RODOLFO
Follie!
TUTTI
Dal ricercarla il ciel vi guardi!
Saria soverchia temerità.
TERESA E CORO
Che dite? Se sapeste, signor...
[Recitativo e Duetto]
RODOLFO
Narrate.
RODOLFO
Basta così. Ciascuno
si attenga al suo parer. Verrà stagione
che di siffatte larve
fia purgato il villaggio.
CORO
Udite.
6.
CORO
A fosco cielo, a notte bruna,
al fioco raggio d’incerta luna,
al cupo suono di tuon lontano
dal colle al pian un’ombra appar.
In bianco avvolta lenzuol cadente,
col crin disciolto, con occhio ardente,
qual densa nebbia dal vento mossa,
avanza, ingrossa, immensa par.
RODOLFO
Ve la dipinge, ve la figura
la vostra cieca credulità.
TERESA, AMINA E ELVINO
Ah! non è fola, non è paura:
ciascun la vide: è verità.
CORO
Dovunque inoltra a passo lento,
silenzio regna che fa spavento;
non spira fiato, non move stelo;
quasi per gelo il rio si sta.
I cani stessi accovacciati,
abbassan gli occhi, non han latrati.
122
perturbante, semmai lo
sfiora, lo circoscrive con
un effetto che sembra
far equivalere la realtà al
sogno.
6. “A fosco cielo, a
notte bruna”
Il coro di popolani
descrive le apparizioni
notturne, un segreto
confidato quasi sottovoce
e messo fermamente
in ridicolo dagli
interventi del Conte.
La Sonnambula non si
spinge oltre la soglia
del sovrannaturale e
queste apparizioni che
procurano terrore sono
colte musicalmente
soltanto nel riflesso dello
spavento evocato con
quell’insistente sillabato e
quelle frasi brevi doppiate
dall’accompagnamento
orchestrale. E in questo,
come in altri casi della
partitura, la musica di
Bellini non incarna il
TERESA
Il ciel lo voglia!
Questo, o signore, è universal desìo.
RODOLFO
Ma del viaggio mio
riposarmi vorrei, se me ‘l concede
la mia bella e cortese albergatrice.
TUTTI
Buon riposo, signor...
CORO
Notte felice.
RODOLFO
(ad Amina)
Addio, gentil fanciulla;
fino a domani addio... T’ami il tuo sposo
come amarti io saprei.
ELVINO
(con dispetto)
Nessun mi vince
in professarle amore...
123
RODOLFO
Felice te se ne possedi il core!
(parte con Lisa; il coro si disperde)
Scena settima
Elvino e Amina.
AMINA
Elvino!... E me tu lasci
senza un tenero addio?
ELVINO
(con ironia)
Dallo straniero
ben tenero l’avesti.
AMINA
È ver: commosso
in lasciarmi ei sembrò. Da quel sembiante
ottimo cor traspare...
ELVINO
E cor d’amante.
AMINA
Parli tu il vero o scherzi?...
(con voce tremante)
Qual sorge dubbio in te?
ELVINO
T’infingi invano.
Ei ti stringea la mano,
ei ti facea carezze...
AMINA
Ebben...
ELVINO
Discare
non t’eran esse, e ad ogni sua parola
s’incontravano i tuoi negli occhi suoi.
124
Gioia ne avevi.
AMINA
(con pena)
Ingrato! e dir me ‘l puoi?...
Occhi non ho né core
fuor che per te. Non ti giurai mia fede?
Non ho l’anello tuo?
ELVINO
Sì...
AMINA
Non t’adoro?
Il mio ben non sei tu?
ELVINO
Sì... ma...
AMINA
Prosegui.
Saresti tu geloso?
ELVINO
Ah! sì, lo sono...
AMINA
Di chi?
ELVINO
Di tutti.
AMINA
Ingiusto cor!
ELVINO
Perdono!
ELVINO
Son geloso del zefiro errante
che ti scherza col crine, col velo;
fin del sol che ti mira dal cielo,
fin del rivo che specchio ti fa.
125
AMINA
Son, mio bene, del zefiro amante,
perché ad esso il tuo nome confido;
amo il sol perché teco il divido,
amo il rio, perché l’onda ti dà.
ELVINO
Ah! perdona all’amore il sospetto!
AMINA
Ah! per sempre sgombrarlo déi tu.
ELVINO
Sì, per sempre.
AMINA
E il prometti?
ELVINO
Il prometto.
AMINA E ELVINO
Mai più dubbi? Timori mai più?
AMINA E ELVINO
Ah! costante nel tuo seno
sia la fede che amore avvalora!
E sembiante a mattino sereno
per noi sempre la vita sarà.
(si allontanano; sempre con crescente tenerezza)
[Insieme]
AMINA
Mio caro, addio!
ELVINO
Mia cara, addio!
(si avvicinano)
ELVINO
A me pensa.
126
AMINA
E tu ancora.
AMINA E ELVINO (abbracciandosi)
Pur nel sonno il mio cor ti vedrà.
(partono)
Scena ottava
Stanza nell’osteria. Di fronte una finestra, da un lato
porta d’ingresso: dall’altro un gabinetto. Avvi un sofà e un
tavolino.
Rodolfo, indi Lisa.
[Recitativo e Finale I]
RODOLFO
Davver, non mi dispiace
d’essermi qui fermato: il luogo è ameno,
l’aria eccellente, gli uomini cortesi,
amabili le donne oltre ogni cosa.
Quella giovine sposa
è assai leggiadra... E quella ostessa?
È un po’ ritrosa, ma mi piace anch’essa.
Eccola: avanti, avanti,
mia bella albergatrice.
LISA
Ad informarmi
veniva io stessa se l’appartamento
va a genio al signor conte.
RODOLFO
Al signor conte!
(Diamine! son conosciuto!)
LISA
Perdonate,
ma il sindaco lo accerta, e a farvi festa
tutto il villaggio aduna.
Io ringrazio fortuna
che a me prima di tutti ha conceduto
127
Bozzetto di scena
il favor di offrirvi il mio rispetto.
RODOLFO
Nelle belle mi piace un altro affetto.
E tu sei bella, o Lisa,
bella davvero...
LISA
Oh! il signor conte scherza.
RODOLFO
No, non ischerzo: e questi furbi occhietti
quanti cori han sorpresi e ammaliati?
LISA
No, non conosco finora innamorati.
RODOLFO
Tu menti, o bricconcella.
Io ne conosco...
LISA (avvicinandosi)
Ed è?...
RODOLFO
Se quel foss’io, che diresti, o carina?
LISA
Io... che direi?...
Signor... no ‘l crederei.
In me non è beltà degna di tanto...
Un merito ho soltanto:
quello di un cor sincero.
RODOLFO
E questo è molto...
(strepito alla finestra)
RODOLFO
Ma qual rumore ascolto?
LISA
(Mal venga all’importuno!)
128
129
RODOLFO
Donde provien?
Amo te solo, il sai...
RODOLFO
Destisi.
LISA
Che non mi vegga alcuno.
AMINA
(tenera)
Prendi...
La man ti stendo... un bacio imprimi in essa,
pegno di pace.
(fugge e nella fretta perde il fazzoletto; Rodolfo lo
raccoglie e lo getta sul sofà)
Scena nona
Si spalanca la finestra. Comparisce Amina: è coperta di
una semplice veste bianca. Ella dorme: è sonnambula; e
s’avanza lentamente in mezzo alla stanza.
7.
RODOLFO
Che veggio? Saria questo
il notturno fantasma? Ah! non m’inganno...
Quest’è la villanella
che dianzi agli occhi miei parve sì bella.
AMINA
Elvino!... Elvino!...
RODOLFO
Dorme.
AMINA
Non rispondi?
RODOLFO
È sonnambula.
AMINA
(con sorriso scherzoso)
Geloso saresti ancora dello straniero?
Ah parla!... Sei tu geloso?
RODOLFO
Deggio destarla?
AMINA (con pena)
Ingrato! a me t’appressa...
130
7. “Che veggio?”
Amina sogna e finisce
nel letto di un altro.
Amina sogna di finire
nel letto di un altro.
Due frasi destinate a
sovrapporsi in questa
scena della Sonnambula.
Più inquietanti ancora
sono le frasi musicali
predisposte in partitura.
L’ingresso di Amina
nella camera dell’osteria
dove alloggia il Conte è
accompagnato da un
pizzicato degli archi con
cui rendere concreto
il procedere furtivo
della donna preda del
sonnambulismo. E’ anche
uno dei momenti in cui il
melodramma belliniano
svela l’ascendenza
pantomimica e
ballettistica della vicenda.
I fiati introducono
ad una scena dove
il melodramma
RODOLFO
Ah! non si dèsti... Alcun
a turbarmi non venga in tal momento.
(va a chiudere la finestra)
LISA (dal gabinetto)
Amina! O traditrice!
(parte non veduta l’aspetto di Amina mostrasi lieto
RODOLFO
(correndo ad Amina, si arresta)
Oh ciel!... che tento?
ottocentesco cede agli
impulsi inconsci. Amina
sogna la sua notte di
nozze: la cerimonia è
stata appena consumata
e l’incertezza del Conte,
irrisoluto a destare
e no la donna, rivela
una sottile ambiguità.
Destare Amina significa
interrompere il protrarsi
dell’illusione in cui si trova
la donna; costringerla ad
accettare un’altra realtà,
proibirle il piacere che
lei nel sogno si accinge
a provare. Il risveglio di
Amina, sopraffatto dai
timpani che insorgono,
conduce al finale, dove
il coro interviene con le
voci dei personaggi a
disegnare la sorpresa
generale e le progressive
e contraddittorie reazioni
di ciascuno.
AMINA (sogna il momento della cerimonia)
Oh come lieto il popolo
che al tempio ne fa scorta!
RODOLFO
In sogno ancor quell’anima
è nel suo bene assorta.
AMINA
Ardon le sacre tede.
RODOLFO
Essa all’altar si crede!
AMINA
Oh madre mia, m’aïta;
131
non mi sostiene il piè!
RODOLFO
No, non sarai tradita,
alma gentil, da me.
(Amina sogna che il sacro ministro le domanda il
giuramento d’amore Amina alza la destra)
AMINA
Cielo, al mio sposo io giuro
eterna fede e amor!
RODOLFO
Giglio innocente e puro,
conserva il tuo candor!
AMINA
Elvino!... alfin sei mio!
RODOLFO
Fuggasi.
AMINA
Tua son io.
Abbracciami. Oh! contento
che non si può spiegar!
RODOLFO (si ferma; indi risoluto)
Ah se più resto, io sento
la mia virtù mancar.
Rodolfo va per uscire dalla porta: ode rumore di gente;
parte per la finestra donde è venuta Amina, e la chiude.
Ella, sempre dormendo, si corica sul sofà.
Scena decima
Contadini d’ambo i sessi, Sindaci e Alessio.
ALESSIO E CORO
(di dentro)
Osservate. L’uscio è aperto.
Senza strepito inoltriam.
132
Tutto tace: ei dorme certo.
Lo destiam, o no ‘l destiam?
Perché no? ci vuol coraggio.
Presentarsi, o uscir di qua.
Dell’ossequio del villaggio
malcontento ei non sarà.
(si avvicinano)
Avanziam. Ve’ ve’! mirate,
a dormir colà s’è messo.
Appressiam.
(si accorgono di Amina, e tornano indietro)
Ah! fermate:
non è desso, non è desso, no.
Al vestito, alla figura,
è una donna... donna, sì.
(reprimendo le risa)
È bizzarra l’avventura.
Come entrò? che mai fa qui?
Scena undicesima
Teresa, Elvino, Lisa e detti.
ELVINO
(di dentro)
È menzogna.
CORO
Alcun s’appressa.
LISA (addita Amina)
Mira e credi agli occhi tuoi.
ELVINO
Cielo! Amina!
TERESA E CORO
Amina! dessa!
Bozzetto di scena
133
AMINA (svegliandosi)
Dove son?... chi siete voi?
(vedendo Elvino)
Ah! mio bene!
(corre a lui)
ELVINO (respingendola)
Traditrice!...
AMINA
Io!...
ELVINO
Ti scosta.
AMINA
Oh! me infelice!
Che feci io mai?
AMINA
Oh mio dolor!
AMINA
D’un pensiero e d’un accento
rea non son, né il fui giammai.
Ah! se fede in me non hai,
mal rispondi a tanto amor.
ELVINO
Voglia il cielo che il duol ch’io sento
tu provar non debba mai!
Ah! te ‘l mostri s’io t’amai
questo pianto del mio cor.
TERESA
Deh! L’udite, in un sol momento
il rigor eccede omai.
ELVINO
E ancor lo chiedi?...
ALESSIO E CORO
Il tuo nero tradimento
è palese e chiaro assai.
In qual cor fidar più mai,
se quel cor fu mentitor?
ALESSIO E CORO
Dove sei tu ben lo vedi.
(in questo frattempo, Teresa ha raccolto sul sofà il
fazzoletto di Lisa, e lo ha posto al collo di Amina)
AMINA
Qui!... perché?... chi mi v’ha spinta?...
ELVINO
Non più nozze: al nuovo amante
sconoscente, io t’abbandono...
ELVINO
(con rabbia concentrata)
Il tuo core ingannator.
ALESSIO E CORO
Non più nozze.
AMINA (si getta nelle braccia della madre Teresa si copre il volto co’ le mani)
Madre! oh! madre!
AMINA
Oh! crudo istante!
Deh! m’udite! io rea non son.
LISA E CORO
Ah! sei convinta!
ELVINO
Togli a me la tua presenza: la tua voce orror mi fa.
ELVINO
Va’! spergiura!...
AMINA
Nume amico all’innocenza,
134
Bozzetto di scena
135
Secondo Atto
svela tu la verità.
AMINA E ELVINO
Non è questa, ingrato core,
non è questa la mercede
ch’io sperai da tanto amore,
che aspettai da tanta fede...
Ah! m’hai tolta in un momento
ogni speme di contento...
Ah! penosa rimembranza
sol di te mi resterà.
[Insieme]
LISA, ALESSIO E CORO
Non più nozze, non più imene:
sprezzo, infamia a lei conviene.
Di noi tutti all’odio eterno,
al rossor la rea vivrà.
TERESA
Ah! se alcun non ti sostiene,
se favor nessun t’ottiene,
sventurata, il sen materno
chiuso a te non resterà.
Tutti escono minacciando Amina: ella cade fra le braccia
di Teresa.
Cala il sipario.
Scena prima
Ombrosa valletta fra il villaggio e il castello.
Coro di Contadini e Contadine.
[Coro]
8.
CORO
Qui la selva è più folta ed ombrosa.
Qui posiamo vicini al ruscello.
Lunga ancora, scoscesa, sassosa
è la via che conduce al castello.
Sempre tempo per giungere avremo,
pria che sorga dal letto il signore.
Riflettiam. - Quando giunti saremo,
che direm per toccare il suo cor?...
Eccellenza!... direm con coraggio...
signor conte... la povera Amina
era dianzi l’onor del villaggio,
il desìo d’ogni villa vicina...
Ad un tratto è trovata dormente
nella stanza che voi ricettò...
Difendetela, s’ella è innocente,
aiutatela, s’ella fallò.
A tai detti, a siffatti argomenti...
ei si mostra commosso, convinto:
noi preghiamo, insistiam riverenti...
ei ci affida, ei promette, abbiam vinto...
Consolati al villaggio torniamo:
in due passi, in due salti siam qua.
Alla prova!... da bravi! partiamo...
la meschina protetta sarà.
8. “Qui la selva”
Come era accaduto nel
quadro d’apertura del
primo atto, sono gli
interventi dei corni - “a
voce spiegata” come
indicato espressamente
da Bellini - a ristabilire
l’atmosfera naturale,
stavolta più sfumata.
Il coro esprime lo
smarrimento e, con
l’incresparsi della
melodia, anche la
preoccupazione dei
contadini, concentrati a
preparare il discorso da
tenere al Conte in difesa
di Amina. Ancora una
volta il sillabato adottato
da Bellini è efficacissimo
a rendere la natura
semplice, impressionabile
degli abitanti del
villaggio.
(partono)
Scena seconda
Amina e Teresa.
AMINA
Reggimi, o buona madre; a mio sostegno
sola rimani tu.
TERESA
Fa’ core. Il conte
136
137
dalle lagrime tue sarà commosso. Andiamo.
AMINA
Ah! no... non posso:
il cor mi manca e il piè. - Vedi? - Siam noi
presso il poder d’Elvino. - Oh! quante volte
sedemmo insieme di questi faggi all’ombra,
al mormorar del rio! - L’aura che spira
dei giuramenti nostri anco risuona...
Gli obliò quel crudele! ei m’abbandona!
TERESA
Esser non puote, il credi,
ch’ei più non t’ami. Afflitto è forse anch’esso,
afflitto al par di te... Miralo: ei viene
solitario e pensoso...
AMINA
A lui mi ascondi... rimaner non oso.
Scena terza
Elvino, e dette in disparte.
AMINA
Vedi, o madre... è afflitto e mesto...
Forse... ah! forse ei m’ama ancor.
ELVINO
Tutto è sciolto. Oh dì funesto!
Più per me non v’ha conforto.
Il mio cor per sempre è morto
alla gioia ed all’amor.
AMINA (si avvicina ad Elvino)
M’odi, Elvino...
ELVINO (si scuote)
Tu... e tant’osi?...
AMINA
Deh!... ti calma...
138
ELVINO
Va’! Spergiura!
Tu m’hai tolto ogni conforto.
AMINA
Sono innocente. Io te ‘l giuro:
colpa alcuna in me non è.
ELVINO (amaramente)
Pasci il guardo e appaga l’alma
dell’eccesso de’ miei mali:
il più triste de’ mortali
sono, o cruda, e il son per te.
VOCI (lontane)
Viva il conte!
AMINA
Ah! t’arresta.
ELVINO
No: si fugga.
AMINA
Per pietade!
ELVINO
Va’! Mi lascia.
Scena quarta
Coro e detti.
CORO
Buone nuove!
Dice il conte ch’ella è onesta,
che è innocente, e a noi già move.
ELVINO
Egli! oh! rabbia!
Bozzetto di scena
139
AMINA, TERESA E CORO
Ah! placa l’ira...
LISA
Lasciami: aver compreso
assai dovresti che mi sei noioso.
ELVINO
L’ira mia più fren non ha.
(le toglie l’anello)
ALESSIO
Non isperar che sposo
Elvin ti sia. Dell’onestà d’Amina
sarà convinto in breve, e allora...
AMINA
Ah! il mio anello... oh! madre!...
(Teresa sostiene Amina quasi spirante)
LISA
E allora
mi sarai più rincrescioso ancora.
CORO
(ad Elvino)
Mira!... A tal colpo morirà. Crudel!
9.
ELVINO
(si presenta ad Amina vivamente commosso)
Ah! perché non posso odiarti,
infedel, com’io vorrei!
Ah! del tutto ancor non sei
cancellata dal mio cor.
Possa un altro, ah! possa amarti
qual t’amò quest’infelice!
Altro voto, o traditrice,
non temer dal mio dolor.
CORO
Ah! crudel, pria di lasciarla,
vedi il conte, al conte parla.
Ei di rendere è capace
a te pace, a lei l’onor.
Elvino parte disperato.
Teresa tragge seco Amina da un’altra parte.
Scena quinta
Villaggio. In fondo al teatro si scorge il mulino di Teresa:
un torrente ne fa girare la ruota.
Lisa seguitata da Alessio.
[Scena e Aria]
140
traccia di Amina. Ma
proprio l’impossibilità di
riuscirvi viene suggerita
dalle frasi sempre più
accese e rimarcate dalle
linee ascendenti dei legni.
ALESSIO
Deh! Lisa, per pietà... cambia consiglio,
non mi trattar così. Che far d’un uomo
che ti sposa soltanto per dispetto?
9. “Ah! perché non
posso odiarti”
L’apparizione di Elvino
sembra richiamata dalla
presenza di Amina e dal
suo più riposto desiderio,
“forse m’ama ancor”.
E infatti nel cantabile la
melodia è accompagnata
dal corno a dare ancora
più pregnanza alle parole
del giovane. E’ la melodia
a suggerire le parole
stesse, lo stato d’animo.
Pochi gli abbellimenti
nella linea del canto, a
dare un segno tangibile
della desolazione in cui
versa il giovane.
L’evoluzione del pensiero
di Elvino è segnato dal
passaggio alla cabaletta
con cui Bellini coglie il
desiderio di cancellare
dalla propria mente ogni
LISA
Mi è più caro d’un sciocco, io te l’ho detto.
ALESSIO
No, non lo sposerai. Porrò sossopra
tutto il villaggio: invocherò del conte
l’autorità, pria ch’io sopporti in pace
d’esser da te schernito in questa guisa.
VOCI
(di dentro)
Lisa è la sposa.
LISA E ALESSIO
Che?...
VOCI
(di dentro)
La sposa è Lisa.
Scena sesta
Contadini, Contadine e detti.
CORO
A rallegrarci con te veniamo,
141
di tua fortuna ci consoliamo.
A te fra poco, d’Amina in loco,
la man di sposo Elvin darà.
LISA
10. De’ lieti auguri a voi son grata,
con gioia io veggo che son amata;
e la memoria del vostro amore
giammai dal cor non m’uscirà.
CORO
La bella scelta a tutti è cara,
ciascun ti loda, t’esalta a gara,
ognun ti prega prosperità.
ALESSIO
(Qual uom da tuono colpito io sono:
parole il labbro trovar non sa.)
Scena settima
Elvino e detti.
[Recitativo e Quartetto con coro]
LISA
E fia pur vero, Elvino,
che alfin dell’amor tuo degna mi credi?
ELVINO
Sì, Lisa. Si rinnovi
il bel nodo di pria: l’averlo sciolto
perdona a un cor sedotto
da mentita virtù.
LISA
Perdono tutto.
Ora che a me ritorni
più non penso al passato: altro non veggo
che il ridente avvenir che alfin mi aspetta.
ELVINO
Vieni: tu, mia diletta,
mia compagna sarai. La sacra pompa
142
già nel tempio si appresta.
Non si ritardi.
10. “De’ lieti auguri”
Strategico l’uso dei
virtuosismi vocali da
parte di Bellini, stavolta
eseguiti quasi a freddo,
con lo scopo di dare
una connotazione quasi
artificiale ai sentimenti
della ragazza che
colleziona trilli, già
pregustando la vittoria
sulla rivale
TUTTI
Andiam.
Scena ottava
Rodolfo e detti.
RODOLFO
Elvino, t’arresta.
LISA
(Il conte!)
ALESSIO
(A tempo ei giunge.)
RODOLFO
Ove t’affretti?
ELVINO
Al tempio.
RODOLFO
Odimi prima.
Degna d’amor, di stima
è Amina ancor: io della sua virtude,
come de’ pregi suoi,
mallevador esser ti voglio.
ELVINO
Voi!... Signor!...
ELVINO
Signor conte, agli occhi miei
negar fede non poss’io.
RODOLFO
Ingannato, illuso sei:
io ne impegno l’onor mio.
ELVINO
Nella stanza a voi serbata
143
non la vidi addormentata?
ELVINO E CORO
Andiam.
RODOLFO
La vedesti, Amina ell’era...
ma svegliata non v’entrò.
CORO
A tai fole non crediamo.
Un che dorme e che cammina!
No, non è, non si può dar.
LISA, ELVINO E CORO
Come dunque? In qual maniera?
11.
RODOLFO
Tutti udite.
Scena nona
Teresa e detti.
LISA, ELVINO E CORO
Udiamo un po’.
TERESA
Piano, amici; non gridate;
dorme alfin la stanca Amina:
ne ha bisogno, poverina,
dopo tanto lagrimar.
RODOLFO
V’han certuni che dormendo
vanno intorno come dèsti,
favellando, rispondendo
come vengono richiesti,
e chiamati son sonnambuli
dall’andar e dal dormir.
LISA, ELVINO E CORO
E fia vero? - e fia possibile?
RODOLFO
Un par mio non può mentir.
ELVINO
No, non fia: di tai pretesti
la cagione appien si vede.
RODOLFO
Sciagurato! e tu potresti
dubitar della mia fede?
ELVINO (senza badare a Rodolfo)
Vieni, o Lisa.
LISA
Andiam.
144
11. “V’han certuni”
Movimentato numero
musicale che è segnato
dall’ingresso del Conte,
giunto a difendere l’onore
di Amina. Non creduto,
Rodolfo se ne risente.
Con il sopraggiungere
di Teresa il quadro è
completo. L’atmosfera
di incertezza prende
il sopravvento su
tutti. Musicalmente il
disegno che si insinua a
sorreggere le voci sembra
concepito apposta per
lasciare in un equilibrio
precario, con un canone
irrisolto, un contrappunto
che volutamente non
tiene e lascia tutti
sorpresi.
LISA, ELVINO E CORO
Sì, tacciamo, ah! sì, tacciam...
TERESA
Lisa! Elvino!... che vegg’io?
Dove andate in questa guisa?
LISA
A sposarci.
TERESA
Voi! gran dio!
E la sposa... è Lisa?...
ELVINO
È Lisa.
LISA
Sì, e lo merto: io non fui colta
sola mai, di notte in volta;
né trovata io fui rinchiusa
nella stanza di un signor.
TERESA
Menzognera! a questa accusa
più non freno il mio furor.
145
Questo vel fu rinvenuto
nella stanza del signor.
ALESSIO E CORO
Ah che pensar non so...
ELVINO E CORO
Di chi è mai?... chi l’ha perduto?
ELVINO
Signor?... che creder deggio?
Ella pur mi tradì!
TERESA (accennando Lisa)
Ve lo dica il suo rossore.
(Elvino lascia la mano di Lisa mortificato)
ELVINO E CORO
Lisa!
TERESA
Lisa. Il signor conte
mi smentisca se lo può.
LISA
(Io non oso alzar la fronte!)
TUTTI
(Che pensar, che dir non so.)
[Insieme]
ELVINO
(Lisa mendace anch’essa!
Rea dell’istesso errore!
Spento è nel mondo amore,
più fé, più onor non v’ha.)
TERESA E RODOLFO
(In quella fronte impressa
chiara è la colpa e certa.
Soffra: pietà non merta
chi altrui negò pietà.)
LISA
(Cielo! a tal colpo oppressa,
voce non trovo e tremo.
Quanto al mio scorno estremo
la mia rival godrà!)
146
RODOLFO
Quel ch’io ne pensi
manifestar non vo’. Sol ti ripeto,
sol ti sostengo, che innocente è Amina,
che la stessa virtù offendi in essa.
ELVINO
Chi fia che il provi?
RODOLFO
Chi? - Mira: ella stessa.
Scena ultima
Vedesi Amina uscire da una finestra del mulino: ella
passeggia, dormendo, sull’orlo del tetto; sotto di lei la
ruota del mulino, che gira velocemente, minaccia di
frangerla se pone il piede in fallo. Tutti si volgono a lei
spaventati. Elvino è trattenuto da Rodolfo.
TUTTI (sbigottiti con grido soffocato)
Ah!
RODOLFO
Silenzio: un sol passo,
un sol grido l’uccide.
TERESA
Oh figlia!
ELVINO
Oh Amina!
(tutti con voce repressa finché non si svegli Amina)
Bozzetto di scena
147
TUTTI
Scende... Bontà divina,
guida l’errante piè!
ELVINO, RODOLFO, ALESSIO E CORO
Tenero cor!
AMINA (inginocchiandosi)
Gran dio,
non mirar il mio pianto: io gliel’ perdono.
Quanto infelice io sono
felice ei sia... Questa d’un cor che more
è l’ultima preghiera...
(Amina giunge presso alla ruota camminando sopra una
trave mezzo fracida che piega sotto di lei)
TUTTI
Trema... vacilla...
(si spezza la trave sotto il piede di Amina)
CORO
Oh detti! oh amore!
TUTTI
Ahimè!...
(grido soffocato di terrore; Amina si rimette)
TUTTI
(meno Rodolfo)
È salva!...
AMINA (si guarda la mano come cercando l’anello di Elvino)
L’anello mio... l’anello...
Ei me l’ha tolto... Ma non può rapirmi
l’immagin sua... Sculta... ella è qui, qui... nel petto.
(si toglie dal seno i fiori ricevuti da Elvino)
Né te d’eterno affetto
tenero pegno, o fior... né te perdei...
ancor ti bacio... ma... inaridito sei.
Amina si avanza in mezzo al palco.
[Scena e Aria]
RODOLFO
Coraggio... è salva!
12.
AMINA
Oh!... se una volta sola
rivederlo io potessi, anzi che all’ara
altra sposa ei guidasse!...
RODOLFO
(ad Elvino)
Odi?
TERESA
A te pensa, parla di te.
AMINA
Vana speranza!... Io sento
suonar la sacra squilla... Al tempio ei move...
Ah! l’ho perduto... e pur... rea non son io.
148
12. “Oh!... se una
volta sola”
Il finale è un melodramma
nel melodramma. E
un quadro musicale
dove le risorse vocali
contano quanto quelle
pantomimiche. La scena
del sonnambulismo,
è fatta coincidere da
Bellini con una scena
della follia, genere che
appartiene agli archetipi
del teatro musicale. Il
sonnambulismo che
aveva ispirato nelle fonti
francesi un vero e proprio
AMINA
Ah! non credea mirarti
sì presto estinto, o fiore;
passasti al par d’amore,
che un giorno sol durò.
(piange sui fiori)
Potria novel vigore
il pianto mio recarti...
Ma ravvivar l’amore
il pianto mio non può.
ELVINO
No, più non reggo.
AMINA
E s’egli
a me tornasse!... Oh! torna, Elvino.
numero coreografico,
una pantomina, qui
accoglie tutta la vicenda
dell’opera attraverso le
reminescenze musicali
che si fanno largo e fanno
procedere il canto di
Amina. “Ah non credea
mirarti” dà la sensazione
di seguire le pulsazioni
brevi, lente e dolorose
del pensiero di Amina.
Il sonnambulismo rende
pudico e riservato il
suo smarrimento. Ogni
frase degli archi indica
un ulteriore passo
della giovane e la sua
solitudine si potrebbe
leggere nell’abbandono
al canto, mai riflesso
dagli altri strumenti, che
semmai orientano il suo
pensiero.
Questo Andante potrebbe
durare all’infinito.
Proprio come se Bellini
riuscisse a rendere quella
sospensione del tempo
riscontrabile nel sonno.
Il risveglio rovescia di
colpo la situazione, con
il riconoscimento di
Elvino che infila l’anello
al dito della giovane in
segno di riconciliazione.
E il virtuosismo
agilissimo della
cabaletta, spericolato
nella moltiplicazione di
gruppetti di note acute,
è la traduzione musicale
più schietta, senza alcuna
zona d’ombra, della gioia
che invade Amina.
149
RODOLFO
(ad Elvino)
Seconda il suo pensier.
AMINA
A me t’appressi? Oh gioia!
L’anello mio mi rechi?
RODOLFO
(ad Elvino)
A lei lo rendi.
(Elvino rimette l’anello ad Amina.)
AMINA
Ancor son tua: tu sempre mio... M’abbraccia...
(Rodolfo fa avvicinare Teresa ad Amina)
AMINA
Tenera madre... io son felice appieno!
(Elvino è prostrato ai piedi di Amina, e Teresa l’abbraccia)
RODOLFO
De’ suoi diletti in seno ella si dèsti.
CORO
Viva Amina! viva ancor!
AMINA (alla voce di Elvino, si scopre gli occhi, lo guarda, il
conosce, indi si getta fra le sue braccia)
Oh! gioia!... oh! gioia!... io ti ritrovo, Elvino!
TUTTI
(meno Amina)
Innocente e a noi più cara,
bella più del tuo soffrir,
vieni al tempio e a piè dell’ara
incominci il tuo gioir.
AMINA
Ah! non giunge uman pensiero
al contento ond’io son piena:
a’ miei sensi io credo appena;
tu m’affida, o mio tesor.
Ah mi abbraccia, e sempre insieme
sempre uniti in una speme,
della terra in cui viviamo
ci formiamo un ciel d’amor.
TUTTI
(meno Amina)
Innocente e a noi più cara,
bella più del tuo soffrir,
vieni al tempio e a piè dell’ara
incominci il tuo gioir.
AMINA (svegliandosi)
Oh! ciel!...
Ove son io?... che veggo?...
(si copre gli occhi co’ le mani)
Ah! per pietà,
non mi svegliate voi!
ELVINO (con gran passione incalzante)
No: tu non dormi...
Il tuo sposo, il tuo amante è a te vicino.
150
Bozzetto di scena
151
GLI ARTISTI
Daniele Callegari
direttore
Milanese di nascita e di formazione musicale,
all’inizio degli anni Novanta si è imposto
all’attenzione dei più importanti teatri italiani,
divenendo uno dei direttori più acclamati della
sua generazione. Dal 1998 al 2001 è stato
Direttore Principale al Wexford Opera Festival
e dal 2002 al 2008 è stato “Chief Conductor”
alla De Filharmonie (Royal Flanders
Philharmonic Orchestra) di Antwerpen.
Ha diretto in alcune fra le maggiori istituzioni
concertistiche del mondo: Orchestre National
d’Île-de-France, Orchestre National de
Belgique, Philharmonique de Monte-Carlo,
Orchestra della Monnaie di Bruxelles,
Rotterdam Philharmonic Orchestra, Orchestre
National de France, Orchestre National de
Lille, Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI,
Orchestra Sinfonica dell’Accademia Nazionale
di Santa Cecilia, Münchner Rundfunkorchester,
Tokyo Philharmonic Orchestra, Orchestra
Sinfonica “G. Verdi” di Milano, Orchestra
della Deutsche Oper di Berlino, Orchestra
della Staatsoper di Berlino e Orchestra della
Bayerische Staatsoper di Monaco, Danish
Radio Symphony Orchestra.
Viene regolarmente invitato in alcuni dei
maggiori teatri e delle più prestigiose sale
concertistiche del mondo, tra cui Metropolitan
e Carnegie Hall di New York, Wiener
Staatsoper, Opéra Bastille de Paris, Canadian
154
Giorgio Barberio Corsetti
regia
Opera di Toronto, Washington Opera, San
Diego Opera, Bayerische Staatsoper di
Monaco, Deutsche Oper e Staatsoper di
Berlino, La Monnaie di Bruxelles, Gran Teatre
del Liceu di Barcelona, New National Theatre
di Tokyo, Opéra de Montecarlo, Capitole de
Toulouse, Teatro alla Scala, Israeli Opera di
Tel Aviv, Opernhaus Zurich, Maggio Musicale
Fiorentino, Teatro Regio di Parma, La Fenice
di Venezia.
Ha inaugurato la stagione 2012/13 con Il
trovatore al MET Opera di New York ed ha poi
diretto Cavalleria rusticana e I pagliacci alla
Den Norske Opera di Oslo, Aida alla San Diego
Opera e L’elisir d’amore al Liceu di Barcellona.
Nell’ambito dell’attività sinfonica ha diretto
l’Orchestra de I Pomeriggi Musicali di Milano
e la Slovenian Philharmonic Orchestra di
Ljubljana.
Ha inciso per Deutsche Grammophon e Foné.
Giorgio Barberio Corsetti è regista teatrale e
di lirica in Italia e all’estero. è stato direttore
della Biennale Teatro di Venezia dal 1999
al 2001, consulente di Musica per Roma
per danza e teatro dal 2005 al 2009, ha
diretto per sei anni il Festival di nuovo circo
“Metamorfosi” a Roma, ha collaborato come
consulente e direttore artistico al FestiVAL
di Villa Adriana a Tivoli, ha ideato e curato
il Festival “Vertigine”, dedicato al teatro
emergente italiano.
Nel corso degli anni ha diretto numerosissimi
spettacoli teatrali ispirati ad autori classici
e contemporanei quali Ovidio, Kafka,
Shakespeare, Barker, Dimitriades, in Italia e
nei maggiori teatri europei tra cui Théâtre
de l’Odéon, Théâtre du Châtelet, Comédie
Française.
Ha diretto, inoltre, numerose opere liriche
in Italia e all’estero e prosegue con la
progettazione su scala internazionale con
la sua compagnia e con altri teatri europei
(Venezia, Parma, Teatro alla Scala, Mariinsky
Theatre).
L’attività di direttore artistico e di regista
di questi anni gli ha permesso di acquisire
una profonda conoscenza delle strutture
per la cultura e degli artisti contemporanei
di teatro, danza, danze di strada e del nuovo
circo, nonché di innovare la ricerca teatrale
attraverso l’uso costante di nuove tecnologie.
Tutte forme di espressione che raccontano il
mondo in cui viviamo, le sue forme e le sue
tensioni. Nel 1976 ha fondato la compagnia
teatrale La Gaia Scienza che è poi diventata
nel 2001 Fattore K, in omaggio a Franz Kafka,
di cui ha curato vari adattamenti teatrali.
155
Franco Sebastiani
maestro del coro
Cristian Taraborrelli
scene e costumi
Gianluigi Toccafondo
video
Nato a Trento, ha studiato Ingegneria
presso l’Università di Bologna e
contemporaneamente composizione,
musica corale, strumentazione e direzione
d’orchestra al Conservatorio “G.B. Martini”
di Bologna.
Dal 1980 al 1984 ha insegnato al
Conservatorio bolognese e dal 1998 al 2007
al Conservatorio di Adria.
Dal 1982 al 2001 è stato maestro
suggeritore e altro maestro del coro del
Teatro Comunale di Bologna, partecipando
alle stagioni liriche e alle tournée in
Giappone del ’93 e del ’98. È stato maestro
del coro al Teatro Valli di Reggio Emilia, al
Comunale di Bologna, al Teatro Alighieri
di Ravenna, al Teatro Verdi di Salerno, al
Teatro dell’Opera di Roma, alla Maison
Radio France di Parigi e a Fort Worth negli
Stati Uniti.
Ha diretto concerti e allestimenti di opere
liriche in Italia e in Europa, è stato più volte
assistente di direttori d’orchestra, tra cui P.
Maag, G. Gelmetti e R. Muti.
In qualità di direttore ha preso parte
a diverse edizioni delle Feste Musicali
del Comunale di Bologna e del Ravenna
Festival.
È stato più volte presidente di commissione
nei concorsi per strumenti dell’orchestra al
È nato a Roma nel 1970. Si muove tra il teatro
di ricerca, l’opera e la messa in scena di eventi
multimediali. Considerato un talento della sua
generazione, ha collaborato con i compositori:
L. Bacalov (Estaba la madre, Y Borges cuenta
que), G. Dazzi (Le luthier de Venice), F.
De Rossi Re (Biancaneve ovvero il perfido
candore), L. Francesconi (Gesualdo considered
as murderer), A. Guarnieri (Medea) e F. Vacchi
(Il letto della storia).
Nel 2009 in Francia ha ricevuto il “Prix du
Syndicat de la Critique” per la migliore
scenografia di Gertrude (le Cri) di H. Barker,
messa in scena da G. Barberio Corsetti per
il Théàtre de l’Odéon di Parigi. Per lo stesso
spettacolo ha ricevuto la nomination per la
migliore scenografia al Premio Molière.
Nel 2009 ha inaugurato il Rossini Opera
Festival firmando costumi e scenografie di
Zelmira.
Nel 2011 ha esordito alla Scala di Milano con
Turandot. Ha curato la regia dell’opera Lalla
Rûkh ovvero Guancia di Tulipano di G. Spontini
e A. Corghi al Festival Pergolesi Spontini di Jesi.
Ha realizzato scenografie e costumi per Maria
di Rohan, La voce umana, La Cenerentola,
Milton et la Julie di Spontini, Tosca, L’Orfeo,
Falstaff, Candide, La bohème, La pietra del
paragone, La rondine, Don Carlo, Luisa Miller,
L’elisir d’amore.
Collabora con numerosi teatri in Italia e in
Europa: il Teatro Nazionale di Strasburgo,
il Teatro dell’Opéra di Rennes, Théâtre du
Châtelet di Parigi, il Teatro dell’Opera di
Strasburgo, il Teatro dell’Opera di Mälmo,
l’Opéra de Lausanne e il Mariinsky Theatre di
San Pietroburgo.
È nato a San Marino nel 1965. Ha studiato
all’Istituto d’arte di Urbino, vive a Bologna.
Dal 1989 realizza cortometraggi di
animazione: La coda, La pista, La pista del
maiale; dal 1992 con ArteFrance: Le criminel,
Pinocchio, La piccola Russia, Briganti senza
leggenda; nel 2000 il cortometraggio dedicato
a Pasolini: Essere morti o essere vivi è la
stessa cosa.
Dal 1993 realizza sigle televisive per la Rai:
Tunnel, Rai di tutto di più, Carosello, Stracult;
sigle e loghi animati per il cinema: More
cinema more Europa, Biennale di Venezia,
Scott free, Fandango, Cineteca Bologna e spot
pubblicitari: Levi’s, Sambuca Molinari.
Dal 1999 disegna le copertine per Fandango
libri. Principali libri illustrati: Pinocchio
da Carlo Collodi (Logos), Il richiamo della
foresta di Jack London (Mondadori), Jolanda
la figlia del corsaro nero di Emilio Salgari
(Corraini), La favola del pesce cambiato di
Emma Dante (L’arboreto), Antonio Delfini: la
malapoesia (D406), Padre Marella di Alberto
Sebastiani (Bup), Rue Morgue di Edgar Allan
Poe (Corraini). Ha disegnato l’immagine per:
Galassia Gutenberg 1998, Santarcangelo
dei teatri 2001-2002, Rimini 2003, Ert 2004,
Teatro di Roma 2006, Università Urbino 2013.
Nel 1998 le sequenze animate per il film Le
monde à l’envers di Rolando Colla.
Nel 2004 ha disegnato le scene per Iliade di
Alessandro Baricco. Nel 2007 è stato l’aiuto
regista di Matteo Garrone per il film Gomorra.
Nel 2010 ha realizzato i titoli animati per il film
Robin Hood di Ridley Scott.
156
Teatro Carlo Felice di Genova.
È autore di revisioni e trascrizioni
di partiture di opere inserite nella
programmazione del Comunale di Bologna.
Dal 2001 al 2003 ha ricoperto la carica
di segretario artistico del Teatro Verdi di
Trieste.
157
158
Marco Giusti
disegno luci
Roberto Aldorasi
coreografie
Paolo Pecchioli
basso
Sara Allegretta
soprano
è nato il 12 gennaio 1977 a Moruzzo in
provincia di Udine.
Nel 2006 ha conseguito il diploma in regia
teatrale alla scuola Paolo Grassi di Milano.
Ha iniziato a collaborare con Gabriele Amadori
di cui è diventato assistente e che segue nelle
attività di lighting designer e scenografo in
produzioni quali Magic Flute Tableau Vivant,
coproduzione Unesco.
Collabora con DMT Biennale di Venezia e con
il Rossini Opera Festival, dove ha acquisito una
importante formazione nell’ambito del teatro
musicale.
Si dedica alla formazione sulle luci seguendo
compagnie Off e collabora come resident
lighting designer a festival musicali come
Folk Est, No Boarders Music Festival, Sexto
’Nplugged.
Ha realizzato le luci per Les adieux prodotto da
Napoli Teatro Festival e Css Udine, spettacolo
con integrazione 3D per la regia di Benedetto
Sicca.
Sempre per il Css Udine ha realizzato le luci
di Pieri da Brazzaville, per la regia di Gigi
dall’Aglio.
Ha creato le luci negli spettacoli diretti da
Giorgio Barberio Corsetti: Nineteen Mantras
all’Auditorium Parco della Musica a Roma;
Pop’pea e I was looking at the ceiling and Then
I Saw the Sky entrambi al Théâtre du Châtelet
di Parigi.
Nato ad Avellino nel 1981, ha studiato
etnocoreologia e antropologia teatrale.
Ha proseguito gli studi in Danimarca, all’Odin
Teatret, dove ha lavorato alle performance UrHamlet e Medeas Bryllup, dirette da Eugenio
Barba.
In Danimarca ha collaborato con The
Jasonites, site-specific theatre group e ha
fondato nel 2006 la compagnia Questifantasmi
& Sons, i cui lavori sono stati rappresentati in
Danimarca, Italia, Francia, Polonia, Grecia,
Regno Unito, USA, Brasile, Colombia, Senegal,
Siria e in Libano.
Con le sue performance collabora con il MADI
Museum of Dallas.
È stato assistente di Giorgio Barberio Corsetti
in La Guerra di Kurukshetra, di F. Niccolini e
coreografo in Don Carlos, nel 2012, al Teatro
Mariinsky.
Nato a Firenze, ha studiato tecnica vocale
con illustri maestri. Dopo l’esordio come
Don Tritemio ne Il filosofo di campagna si è
affermato nel panorama internazionale con
Mustafà de L’italiana in Algeri, suo cavallo di
battaglia.
Ha debuttato con successo nel ruolo di Don
Magnifico ne La Cenerentola, di Osmin ne
Il ratto dal serraglio alla Pittsburgh Opera,
di Raimondo in Lucia di Lammermoor alla
Washington Opera, di Nourabad ne Les
pêcheurs de perles al Filarmonico di Verona, di
Maometto in Maometto II all’Opera di Istanbul.
Acclamato interprete di Colline ne La bohème al
Festival Pucciniano di Torre del Lago e di Alidoro
ne La Cenerentola a Washington, Tenerife,
Dublino, Cosenza, Sassari e per la Münchner
Rundfunk Orchester con incisione Sony.
È stato Gessler in Guglielmo Tell al
Concertgebouw di Amsterdam, Fra’ Melitone
ne La forza del destino al Festival di Macerata,
Bartolo ne Il barbiere di Siviglia a Beirut,
Damasco e Seoul, il re in Aida nei maggiori
teatri italiani e a Mosca.
Il suo repertorio operistico include: Il turco in
Italia (Selim), Semiramide (Assur), Il barbiere
di Siviglia (Don Basilio), Il signor Bruschino
(Gaudenzio), Tancredi (Orbazzano), Il viaggio
a Reims (Don Pruzenzio), Così fan tutte
(Don Alfonso), Le nozze di Figaro (Figaro),
Don Pasquale, L’elisir d’amore (Dulcamara),
Chérubin (Filosofo), La sonnambula (Conte
Rodolfo), Luisa Miller (Conte di Walter),
Ernani (Silva), Nabucco (Zaccaria), Macbeth
(Banquo), Cleopatra (Cesare), Carmen
(Escamillo), Der Vampyr (Sir Humphrey
Davenaut).
Ha debuttato nel 1998 in diversi teatri europei:
a Grenoble, Nantes, Cordoba, Burgos, Murcia,
Granada, Saragozza, al Grand Théâtre
di Ginevra (La bohème) e all’Alte Oper di
Francoforte con Les Huguenots (2002).
Sempre più intensa è da allora la sua presenza
nei teatri e nei festival italiani, fra cui il Teatro
alla Scala di Milano (Messa Solenne in re
minore di L. Cherubini, ripresa al Festival di
Saint-Denis di Parigi, al Festival di Salisburgo
e al Maggio Musicale Fiorentino, diretta da
R. Muti; Iphigénie en Aulide di C.W.Gluck,
per la regia di Y. Kokkos e Les Dialogues des
carmélites, per la regia di R. Carsen e con la
direzione di Muti).
Si è anche esibita al Festival della Valle
d’Itria (in numerose produzioni fra cui Les
Huguenots, con la direzione di R. Palumbo),
al Teatro Verdi di Sassari (Turandot di Busoni
e Andrea Chénier), al Teatro Massimo di
Palermo (Moses und Aron), al Teatro La Fenice
di Venezia (Te Deum di Caldara, Petite Messe
Solennelle, Parsifal, Mitridate di Porpora), allo
Sferisterio di Macerata (in varie produzioni
fra cui Les contes d’Hoffmann nel ruolo di
Giulietta, con la direzione di Chaslin e per la
regia di P.L. Pizzi).
Si ricordano infine le sue partecipazioni al
Teatro Comunale di Bologna (La traviata e
Falstaff), al Carlo Felice di Genova (Il turco in
Italia), al Lirico di Cagliari (Aida) e al Maggio
Musicale Fiorentino (la prima mondiale di
Natura viva di M. Betta).
È tornata al Petruzzelli dopo aver preso parte
anche a Das Rheingold e Götterdämmerung.
159
160
Jessica Pratt
soprano
John Osborn
tenore
Alessandra Marianelli
soprano
Francesco Verna
baritono
Ha intrapreso la sua carriera vincendo
numerosi concorsi e borse di studio presso
istituzioni prestigiose quali, tra le altre, la
Wiener Staatsoper, il Teatro dell’Opera e
l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di
Roma.
Ha studiato e si è perfezionata con il Maestro
Gelmetti, con Renata Scotto e Lella Cuberli
e nel maggio 2013 ha ricevuto il prestigioso
Premio Internazionale “La Siola d’Oro” Lina
Pagliughi.
Dal 2007, anno del suo debutto all’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia, Jessica Pratt è
stata ospite dei più prestigiosi teatri e festival
internazionali, quali Wiener Staatsoper,
Deutsche Oper di Berlino, Teatro alla Scala di
Milano, Covent Garden di Londra, Comunale
di Bologna, As.Li.Co., Maggio Musicale
Fiorentino, Opernhaus di Zurigo, San Carlo di
Napoli, Carlo Felice di Genova, Petruzzelli di
Bari, Teatro dell’Opera di Roma, Israeli Opera,
La Fenice di Venezia, Rossini Opera Festival
di Pesaro, Festival Internacional de Ópera
Alejandro Granda di Lima, Caramoor Festival.
Nel suo vasto repertorio operistico spiccano
Lucia di Lammermoor, I puritani, Rigoletto,
Le convenienze ed inconvenienze teatrali,
La Juive, Armida, Roméo et Juliette, La
sonnambula, Il flauto magico, Adelaide di
Borgogna, Ciro in Babilonia, Don Giovanni,
Candide, Guillaume Tell (cantato a Lima
con J. D. Florez), I Capuleti e i Montecchi, La
bohème, Demetrio e Polibio, Africaine.
Ha vinto il Metropolitan Opera National
Counsel Auditions, l’Opera Index Awards, ha
meritato il primo posto all’Operalia Concours
International de Voix d’Opera “Plácido
Domingo” Competition, ed ha conseguito il
diploma al Metropolitan Opera Young Artists
Development Program. Ha vinto il Premio
“Aureliano Pertile” ad Asti ed il Premio
“Goffredo Petrassi”.
Prestigiosi i nomi dei direttori d’orchestra con
cui ha collaborato: A. Pappano, R. Bonynge,
M. Minkowski, R. Abbado e Z. Mehta.
Ha lavorato in molti ed importanti teatri:
Metropolitan Opera, Wiener Staatsoper, Lyric
Opera di Chicago, Maggio Musicale Fiorentino,
Opéra National di Parigi, San Francisco Opera,
Opernhaus Zürich, La Monnaie di Bruxelles,
San Carlo di Napoli, Salzburger Festspiele,
Teatro alla Scala di Milano, Accademia di
Santa Cecilia di Roma, Royal Opera House di
Londra e Teatro Colón di Buenos Aires.
Il suo vasto repertorio include Guillaume Tell,
La donna del lago, Otello e Armida di Rossini;
Norma, I puritani e La sonnambula di Bellini;
Les vêpres siciliennes, Rigoletto, La traviata e
Falstaff di Verdi; L’elisir d’amore, Don Pasquale,
Roberto Devereux e Lucia di Lammermoor di
Donizetti; Die Entführung aus dem Serail, Die
Zauberflöte, Così fan tutte e Don Giovanni di
Mozart; titoli del repertorio francese quali Les
pêcheurs de perle, La Juive, Les Huguenots,
Les Contes d’Hoffmann di Offenbach e Manon
di Massenet; canta anche Messiah di Händel,
Carmina Burana di Orff, Te Deum di Bruckner e
Stabat Mater di Rossini.
Nata nel 1986, ha debuttato nel 2002 come
Barbarina nelle Nozze di Figaro al Teatro Verdi
di Pisa. Tra le voci più promettenti della sua
generazione, è stata ospite di importanti teatri
quali il Maggio Musicale Fiorentino, il Carlo
Felice di Genova, il Comunale di Bologna,
l’Opera di Roma, il Filarmonico di Verona, il
Regio di Torino, il Verdi di Trieste, il Real di
Madrid, l’Opéra di Montecarlo, l’Ópera de
Bilbao, la Monnaie di Bruxelles e istituzioni
musicali come il Rossini Opera Festival di
Pesaro, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
e il Festival Mozart di La Coruña.
Ha collaborato con i direttori R. Abbado,
Bartoletti, Carignani, López-Cobos, Mariotti,
Mehta, Noseda, Ono, Palumbo, Renzetti,
Rovaris, Soudant, Zedda e con i registi D.
Abbado, H. De Ana, P.L. Pizzi, F. Tiezzi e F.
Zeffirelli.
Nel 2010 ha debuttato negli Stati Uniti nel
Don Giovanni con la Saint Paul Chamber
Orchestra diretta da R. Abbado; tra i successi
delle recenti stagioni si ricordano: Musetta ne
La bohème a Firenze; Cherubino ne Le nozze
di Figaro a Madrid; Roméo et Juliette (Juliette)
a Genova; Carmen (Micaela) allo Sferisterio
Opera Festival a Macerata e al Regio di Torino;
La sonnambula a Montecarlo; La fuga in
maschera a Jesi e a Napoli; Ricciardo e Zoraide
a Bad Wildbad; la Petite messe solennelle di
Rossini al Lingotto di Torino e Ein deutsches
Requiem a Roma.
Nei prossimi mesi sarà impegnata in Così fan
tutte a Cagliari, Orfeo ed Euridice a New York,
Il mondo della luna a Montecarlo.
Nato a Paternò, si è perfezionato in canto
lirico con Sara Pastorello. A diciannove anni ha
vinto il premio speciale “Giovane Promessa”
al Concorso Bellini di Caltanissetta e si è
classificato secondo al “R. Leoncavallo” di
Montalto Uffugo. Nel 2002 ha vinto il concorso
“F. Cilea” di Reggio Calabria. Ha debuttato
nel ruolo di Uberto ne La serva padrona di
Pergolesi al Teatro Municipal di Santiago de
Cali in Colombia. Nel 2003 si è aggiudicato il
“Concorso per Giovani Cantanti Lirici Comunità
Europea di Spoleto” debuttando nel ruolo di
Figaro ne Le nozze di Figaro.
Nel 2006 ha debuttato al Teatro alla Scala
(Figaro ne Le nozze di Figaro e Masetto nel
Don Giovanni). Si è esibito anche nei Teatri
del Circuito lombardo (L’elisir d’amore), al
Rossini Opera Festival (Il viaggio a Reims),
a La Fenice di Venezia (Le roi de Lahore), al
Malibran di Venezia e al Comunale di Bologna
(La bohème), al Maggio Musicale Fiorentino (Il
campanello e Il cappello di paglia di Firenze),
al Carlo Felice di Genova (Il campanello, La
bohème, Roméo et Juliette, Turandot e Don
Giovanni).
Ha collaborato con i direttori Zubin Mehta,
Fabio Luisi, Yuri Temirkanov, Marcello Viotti,
Gustavo Dudamel, Gerard Korsten, Kazushi
Ono, Sergio Alapont, Maurizio Arena, Daniele
Callegari, Fabrizio Maria Carminati e con i
registi Giorgio Pressburger, Maurizio Scaparro,
Peter Mussbach, Jean-Louis Grinda, Lorenzo
Mariani, Andrea Cigni, Stefano Vizioli, Mario
Pontiggia, Franco Ripa di Meana e Luca
Ronconi.
161
Orchestra del Teatro Petruzzelli
Coro del Teatro Petruzzelli
MAESTRO DEL CORO
direzione musicale
Franco Sebastiani
Daniele Rustioni
VIOLINI I
Pacalin Pavaci**
Paolo Manzionna
Enrico Vacca
Aniello Alessandrella
Raffaele Fuccilli
Vigilio Aristei
Giacomo Bianchi
Stefano Delle Donne
Sabina Morelli
Matilde Ditaranto
Luigi Presta
Elena Di Felice
VIOLINI II
Maria Saveria Mastromatteo*
Carmine Marcello Rizzi
Stefania Di Lascio
Milena De Magistris
Piermarco Benzi
Marcello Alemanno
Antonio Maggiolo
Domenico Passidomo
Silvia Grasso
Maria Giuseppa Parisi
VIOLE
Jonathan Cutrona*
Antonio Buono
Luca Pellegrino
Cecilia Iacomini
Michela Carnevale
Giuseppe Rutigliano
Anna Maria Losignore
Federica Di Schiena
VIOLONCELLI
Andrea Waccher *
Maria Cristina Mazza
Marco Schiavone
Astorino Giovanni
Chirizzi Ubaldo
Claudia Fiore
162
CONTRABBASSI
Alessandro Terlizzi*
Francesco Saverio Piccarreta
Daniele De Pascalis
Silvia Muci
FLAUTI
Raffaele Bifulco*
Simone De Franceschi
OBOI
Raffaele Bifulco*
Simone De Franceschi
CLARINETTI
Michele Naglieri*
Daniele Galletto
Banda sul palco
OTTAVINO
Simone De Franceschi
CLARINETTI
Mark LaRegina
Andrea Zecchillo
Fabrizio Miglietta
TROMBONI
Gianfranco Cipriani
Francesco Chìsari
CIMBASSO
FAGOTTI
Nicola Di Grigoli
CORNI
PERCUSSIONI
Matteo Morfini*
Mauro Leonardo
Vittorio Schiavone*
Francesca Bonazzoli
Fabio Chillemi
Giuseppe Smaldino
CORNI
Antonio Pirrotta
Michelangelo Cotugno
Michele Acquafredda
TROMBE
Ettore Luigi Rivarola*
Giuseppe Frioni
TROMBONI
Calogero Ottaviano*
Giuseppe Zizzi
Domenico Toteda
TIMPANI
Raffaele Collazzo*
PERCUSSIONI
Giuseppe Costa*
Maestri collaboratori
Lucia Conca
Antonella Poli
Christian Ugenti
Soprani
Rossella Antonacci
Annamaria Bellocchio
Grazia Berardi
Francesca Bicchierri
Daniela Diomede
Ester Facchini
Roberta Mantegna
Maria Meerovich
Roberta Scalavino
Anna Schiavulli
Maria Silecchio
Eun -Kyoung Suh
Mezzosoprani e Contralti
Michela Arcamone
Emmanuela Capece
Teresa Caricola
Concetta D’Alessandro
Caterina Daniele
Giuliana Di Mitrio
Francesca Lanzolla
Stefania Lenoci
Maria Leone
Giovanna Padovano
Olga Anatolievna Podgornaya
Serena Scarinzi
Tenori
Alessandro Cosentino
Giuseppe Cacciapaglia
Nicola Domenico Cuocci
Sebastiano Giotta
Donato Lillo Tarì
Giuseppe Maiorano
Antonio Manfreda
Pantaleo Metta
Francesco Napoletano
Raffaele Pastore
Marcello Recca
Vito Tralli
Bassi e Baritoni
Cataldo Cannillo
Giovanni Francesco Cappelluti
Rocco Cavalluzzi
Francesco Colaianni
Francesco De Candia
Graziano De Pace
Roberto Galanto
Francesco Paolo Morelli
Antonio Muserra
Carlo Provenzano
Saverio Sangiacomo
Giacomo Selicato
Ispettore del coro
Roberta Peroni
Archivista
Leonardo Smaldone
Ispettore
dell’orchestra
Anahì Dworniczak
** spalla
* prima parte
163
OPERA
BALLETTO
SINFONICA
STAGIONE 2013
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CREDITI E CONTATTI
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Traduzioni in lingua inglese Paul Jarvis
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