VINCENZO BELLINI LA SONNAMBULA Commissario straordinario Carlo Fuortes Direttore musicale Daniele Rustioni Collegio Revisori dei Conti Presidente Giovanni Argondizza Membri effettivi Marco Aldo Amoruso Ruggiero Pierno INDICE La sonnambula in breve di Anna Cepollaro pag.19 La sonnambula in brief di Anna Cepollaro“ TRAMA D’AUTORE di Guido Paduano “ La sonnambula di Gioacchino Lanza Tomasi “ Prolegomeni a una lettura della ‘Sonnambula’ di Francesco Degrada “ La verità del sogno: La Sonnambula di Guido Paduano “ Visto da lontano Passeggiatina sonnambolica di Pierre Enckell “ QUARTA PARETE La sonnambula che è una bambola... di Gianfranco Capitta “ VISIONI Spazi di transito di Stefania Aluigi “ FLATUS VOCIS I ruoli vocali ne ‘La Sonnambula’ di Federico Vizzaccaro “ POLVERE D’ARCHIVIO La Signora Pasta di Stendhal “ 23 27 29 37 49 67 75 79 89 95 INTERVISTE PARALLELE di Mauro Mariani “ 105 IL LIBRETTO La sonnambula di Felice Romani “ 115 LA SONNAMBULA Il soggetto “ con GUIDA ALL’ ASCOLTO di Alessandro Taverna “ GLI ARTISTI Biografie e organici “ 110 117 161 VINCENZO BELLINI LA SONNAMBULA sabato 14 settembre martedì 17 settembre giovedì 19 settembre domenica 22 settembre martedì 24 settembre / ore 20.30 / ore 20.30 / ore 20.30 / ore 18.00 / ore 20.30 Il disegno del manifesto - Marco Sauro LA SONNAMBULA melodramma in due atti di Vincenzo Bellini (1801-1835) libretto di Felice Romani (1788-1865) tratto da “La Somnambule” di Eugène Scribe e Germain Delavigne e da “La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur” di Eugène Scribe e Pierre Aumer prima rappresentazione: Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831 Daniele Callegari direttore Giorgio Barberio Corsetti regia scene e costumi video disegno luci coreografie Cristian Taraborrelli Gianluigi Toccafondo Marco Giusti Roberto Aldorasi assistente regia Fabio Cherstich assistente scene e costumi Roberta Monopoli PERSONAGGI Il Conte Rodolfo Teresa Amina Elvino Lisa Alessio Un notaro Paolo Pecchioli Sara Allegretta Jessica Pratt John Osborn Alessandra Marianelli Francesco Verna Raffaele Pastore Mimi Ivan Dell’Edera , Fabrizio Lombardo, Anna Moscatelli Maurizio Semeraro, Italia Aiuola Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli maestro del coro Franco Sebastiani Produzione Fondazione Petruzzelli Nuovo allestimento Scene Laboratorio Fondazione Petruzzelli Elementi scultorei in resina: Tecno Scena srl Guidonia Roma Poltrone: Gaetano Viterbo Arredamenti Bari Videoproiezioni TVI srl Roma Attrezzeria Laboratorio Fondazione Petruzzelli Costumi Il Costume Roma Annamode 68 srl Roma Parrucche Roberto Paglialunga Roma Calzature Pompei 2000 Roma 9 La sonnambula, foto di scena LA SONNAMBULA in breve di Anna Cepollaro Il tono espressivo della musica di Sonnambula è da definirsi propriamente religioso: religione del sentimento, degli affetti, della fraterna e partecipe comunità degli spiriti con il mondo degli uomini e della natura. Religione dei valori contemplati con lo stesso rimpianto e la stessa struggente malinconia che è la vita e la sostanza della più alta poesia leopardiana. La scena dell’azione è un sognato paesaggio dell’anima; e i personaggi diventano momenti e aspetti complementari di un malinconico vagheggiamento di un mondo perduto È la splendida descrizione di Francesco Degrada del melodramma in due atti di Vincenzo Bellini andato in scena al Teatro Carcano di Milano il 6 marzo 1831, e subito rappresentato a Londra in luglio e a Parigi in ottobre. La fretta con cui La sonnambula è composta, tra il gennaio e i primi giorni di marzo del 1831, è dovuta ai tanti impegni del librettista Felice Romani e ai ripensamenti di Bellini, che in un primo momento scrive musiche per Ernani, dall’opera teatrale di Victor Hugo, il cui soggetto a Parigi era stato accolto come ‘scabroso’. Ma, per quanto preoccupato del pericolo che l’opera subisca tagli e divieti, Bellini aspira piuttosto a scrivere una cosa nuova, che si differenzi dalle sue creazioni precedenti, visto che un suo lavoro, I Capuleti e i Montecchi, aveva aperto la stagione della Scala proprio quell’anno. Inoltre, il compositore vuole prendere le distanze dalle tematiche che Donizetti, suo rivale più prossimo, adopera in Anna Bolena, che il 26 dicembre aveva inaugurato il Carcano con gli stessi interpreti, il tenore Giovanni Battista Rubini e il soprano Giuditta Pasta, che avrebbero vestiti i panni dei ruoli principali de La sonnambula. Infine, proprio il soprano può aver espresso il desiderio di un soggetto diverso da quelli fino ad allora interpretati. “La Pasta qual Semiramide inarrivata, qual portentoso Tancredi, qual Nina assai pregevole, aveva un solo posto nella sua corona di lauro che il pastorale e sentimentale affetto della Sonnambula ha ora compiutamente occupato e con vero suo trionfo”, scrive, pochi giorni dopo la prima, un critico del 10 Annus mirabilis Nel 1831 il Belgio, ottenuta l’indipendenza dai Paesi Bassi, adotta la sua costituzione eleggendo Leopoldo I come re; a Torino muore Carlo Felice e gli succede il nipote Carlo Alberto; Mazzini va in esilio; in Vaticano il conclave si conclude con l’elezione di Mauro Alberto Cappellari come Papa Gregorio XVI; a New York va in scena Il Gladiatore di Robert Montgomery Bird; nasce Ippolito Nievo; muore Hegel; Mendelssohn compone il Concerto per pianoforte n. 1 in sol maggiore; a Milano va in scena la prima della Norma di Bellini; viene pubblicato Notre-Dâme de Paris di Victor Hugo; in America la prima locomotiva a carbone compie la traversata della Pennsylvania; Michael Faraday mostra al mondo il primo trasformatore elettrico e James Clark Ross scopre la posizione del Polo Nord Magnetico nella Penisola di Boothia; viene fondata l’Università dell’Alabama e la New York University; Darwin intraprende il suo storico viaggio a bordo dell’HMS Beagle; il London Bridge viene aperto al traffico. 11 La sonnambula, foto di scena “Corriere delle Dame”. Parte della musica composta per Ernani Bellini la riutilizza in questo nuovo lavoro. Capovolta la tendenza che vedeva il balletto prendere spunto da argomenti operistici, il soggetto deriva dal ballet-pantomime di Ferdinand Hérold La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur, rappresentato all’Opéra di Parigi tre anni prima, e a sua volta basato sulla comédie-vaudeville in due atti La Somnambule di Eugène Scribe e Germain Delavigne, che aveva trionfato al Théâtre du Vaudeville di Parigi il 6 dicembre 1819. Il tema del sonnambulismo è di casa in teatro già dal Seicento: memorabile la passeggiata di Lady Macbeth nell’omonima tragedia di Shakespeare, quando la spaventosa regina cammina nel sonno strofinandosi le mani e svelando oscuri avvenimenti attraverso pezzi sconnessi di dialoghi immaginari. Dalla seconda metà dell’Ottocento anche la musica si appropria delle possibilità sceniche del sonnambulismo. Nel 1824 alla Scala viene rappresentata Amina ovvero l’innocenza perseguitata di Giuseppe Rastrelli su libretto di Felice Romani, che qualche anno dopo riprenderà il soggetto per offrirlo a Bellini. Amina dormendo “giunge presso alla ruota camminando sopra una trave mezzo fracida che piega sotto di lei” indica il libretto. Grandi voci hanno interpretato la rischiosa passeggiata della fanciulla dormiente, da Maria Malibran a Giuseppina Strepponi, da Adelina Patti a Jenny Lind, da Toti Dal Monte a Maria Callas, da Renata Scotto a Joan Sutherland, dimostrando sempre il suo enorme potere emotivo. Fin dalle scene iniziali, la musica della Sonnambula stabilisce l’atmosfera della storia, e lo sviluppo drammatico procede a ritmo sostenuto grazie all’incredibile scrittura vocale di Bellini, esemplificata dalla mirabile aria finale di Amina, “Ah, non credea mirarti”. Aria che, tra l’altro, taluni hanno voluto considerare progenitrice o figlia della canzone napoletana Fenesta ca lucive, nella quale sono riconoscibili elementi melodici sì presenti nella Sonnambula, ma anche nel Mosè di Rossini e che, probabilmente, testimoniano semplicemente del gusto dell’epoca. 13 La SONNAMBULA in BRIEF di Anna Cepollaro The expressive tone of the music of La Sonnambula can be defined as truly religious: evoking the religion of the emotions, of love, of the active, fraternal community of the spirits with the world of man and nature; the religion of values contemplated with the same regret and the same heartrending melancholy that is the life and essence of Leopardi’s most sublime poetry. The action is set in a dreamlike landscape of the soul; and the characters become moods and perspectives that complement a melancholic yearning for a lost world. This is Francesco Degrada’s splendid description of Vincenzo Bellini’s two-act melodrama, which opened at Milan’s Teatro Carcano on 6 March 1831; it was then performed in London in July and in Paris in October of the same year. The haste with which La sonnambula was written, between January and the first days of March, was in part due to the many commitments of the librettist Felice Romani and in part to Bellini himself, who had actually begun writing music for Ernani, a work based on a play by Victor Hugo that had been described as “scabrous” when it opened in Paris; although worried about the risk that the opera might be cut or banned, Bellini was eager to write something new that would stand apart from his previous works, one of which, I Capuleti e i Montecchi, had opened the season at La Scala that same year. Moreover, the composer wanted to distance himself from the themes that Donizetti, his closest rival, had used in Anna Bolena, which had opened at the Carcano on 26 December with the same performers, the tenor Giovanni Battista Rubini and the soprano Giuditta Pasta, who would go on to play the leading roles in La sonnambula. In fact, it may have been the soprano herself who expressed the desire to take on a subject different from anything she had attempted before. “After her incomparable rendering of Semiramide, her marvellous Tancredi and her exquisite Nina, Pasta’s laurel crown was lacking only one branch, but with her triumphant performance in the role of the pastoral, 15 La sonnambula, foto di scena romantic Sonnambula, that crown is now complete,” was the verdict of a critic writing for the “Corriere delle Dame” a few days after the premiere. Bellini reused some of the music he had writtten for Ernani in this new work. Reversing the tendency of ballet to draw inspiration from opera, he took his subject from Ferdinand Hérold’s ballet-pantomime La Somnambule ou L’arrivée d’un couveau seigneur, which had been performed at the Paris Opéra three years earlier, and was in turn based on a two-act comédie-vaudeville, La Somnambule, by Eugène Scribe and Germain Delavigne that had been a triumphant success on its opening at the Théâtre du Vaudeville in Paris on 6 December 1819. The theme of somnambulism had been popular in the theatre since the 17th century: one striking example is Shakespeare’s fearsome Lady Macbeth who, rubbing her hands as she walks in her sleep, reveals through her disjointed contribution to an imaginary dialogue the terrible events that have happened. From the second half of the 19th century, music too began to exploit the dramatic possibilities of somnambulism. In 1824 La Scala put on Giuseppe Rastrelli’s Amina ovvero l’innocenza perseguitata. The libretto was by Felice Romani, who a few years later would take up the same subject and offer it to Bellini. The sleeping Amina “reaches the wheel by walking along a half-rotten beam that bends under her weight” says the libretto. Great artists who have retraced the risky steps of the sleeping girl in this powerfully emotional scene include Maria Malibran, Giuseppina Strepponi, Adelina Patti, Jenny Lind, Toti Dal Monte, Maria Callas, Renata Scotto and Joan Sutherland. Right from the opening scenes, the music of La sonnambula evokes the atmosphere of the story. This unfolds at a brisk pace thanks to Bellini’s incredible music, of which Amina’s final aria “Ah, non credea mirarti” is such a wonderful example. The aria has been thought by some, incidentally, either to have inspired or to have been inspired by the Neapolitan song Fenesta ca lucive, in which there are melodic echoes not only of La sonnambula, but also of Rossini’s Mosè, though in fact they are probably nothing more than an indication of the tastes of the time. 16 17 La sonnambula, foto di scena TRAMA D’AUTORE di Guido Paduano Amina, una ragazza di campagna, sta felicemente per sposarsi col suo innamorato (Elvino), senz’altri turbamenti che il rancoroso dispetto della precedente fidanzata di lui, l’ostessa Lisa, quando il paese è messo in subbuglio dall’arrivo di un aristocratico cittadino: il signore del castello, Rodolfo, che rientra nei luoghi della sua infanzia. Egli sembra guardare con interesse sospetto alla sposa, e al gelosissimo sposo sembra, del tutto a sproposito, che l’interesse sia ricambiato. Il sospetto diventa certezza, lacerazione, abbandono quando la sposa viene trovata nella camera d’albergo di Rodolfo, il quale tuttavia è in grado di spiegare: Amina soffre di sonnambulismo: non è altri che lei, nel suo vagare notturno, il fantasma di cui tutto il villaggio favoleggia con sgomento. Nella stanza di Rodolfo è dunque entrata incoscientemente, e si è rivolta a lui sognando un dialogo con Elvino. La spiegazione è presa come un’interessata menzogna, ed Elvino si accinge a sposare Lisa per ripicca (se non fosse che anche Lisa viene accusata, e lei giustamente, dello stesso peccato), quando sulla scena compare Amina. Il turbamento l’ha spossata, e ora nel sonno esprime indubitabilmente il suo dolore e il suo amore. Avviene la riappacificazione e Amina risvegliata si trova felice, acclamata dai suoi compaesani. 19 La sonnambula, foto di scena LA SONNAMBULA di Gioacchino Lanza Tomasi Ricevuta la commissione dell’opera di carnevale per il Carcano, Bellini e i suoi consulenti, la Pasta, la Turina e Romani, si erano messi al lavoro già nell’estate del 1830. Si ritrovarono tutti nelle ville della Pasta e della Turina affacciate sul lago dì Como. Il soggetto prescelto era stato lo Hernani di Victor Hugo. La tragedia era andata in scena il 25 febbraio di quello stesso 1830 alla Comédie Francaise, suscitando una “battaglia” da cui data in Francia la nascita del teatro romantico. Sul finire dell’autunno il progetto viene abbandonato. Bellini fa menzione in una lettera del 3 gennaio 1831 di interferenze da parte della censura: esse sarebbero la causa dell’abbandono dello Hernani su suggerimento di Romani che non vuol “compromettersi”. Invero la battaglia di Hernani è inserita dagli storici nel clima liberale della vicina rivoluzione di luglio. Bellini aveva nel frattempo composto un paio di solfeggi privi di testo (a metà novembre Romani ancora non gli aveva consegnato un solo verso) che confluiranno poi nella Sonnambula. Scrisse anche alcuni frammenti su alcuni versi del Romani dove si parla di un re di Spagna. Pare che Bellini nutrisse anche apprensione per la commissione dell’Anna Bolena a Donizetti. Romani ne era il librettista ed è probabile che, una volta scartato il dramma di Hugo, Bellini desiderasse evitare ogni affinità e mettere in musica un soggetto di timbro completamente diverso. Pare che la Pasta, protagonista di entrambe le opere, fosse dello stesso avviso e da queste concomitanze di opinioni e di impedimenti discenderebbe la scelta di un’opera idillio, un tema che riportava Bellini ai tempi dei suoi studi ed amori paiselliani, in particolare al modello della Nina, tema di esercitazione prediletto dallo Zingarelli. Bellini era occupato nel dicembre 1830 con la presentazione dei Capuleti alla Scala e Romani con la versificazione dell’Anna Bolena per il Carcano, e di conseguenza La Sonnambula non venne iniziata che all’anno nuovo. Romani trasse l’argomento da un ballet-pantomime di Scribe e Auber, messo in musica da Hérold e andato in scena all’Opéra nel 1827. Come osserva 20 21 Franca Cella altra cosa era per Romani avere a disposizione un dramma, o la successione di didascalie e prescrizioni mimiche in cui si articola il libretto di una pantomima. In un caso egli adempiva sostanzialmente al compito di traduttore e riduttore, nell’altro l’invenzione poetica doveva spaziare liberamente all’interno del clima prescritto. La particolarità della fonte si traduce qui in un progetto affatto singolare. La Sonnambula ha infatti tratti formali specifici, unici nel quadro del melodramma romantico italiano, e decisamente influenzati dall’origine ballettistica. Franca Cella fa rimarcare il taglio, il clima da pas des deux del finale in dissolvenza del primo quadro “Son geloso del zefiro errante”, e più in generale tipica del balletto pantomima è la divina naiveté della partitura. Un’opera progetto quindi, perché l’idillio non rientrava fra i generi melodrammatici praticati attorno al 1830, tanto più che La Sonnambula, proprio per la sua origine di ballet-pantomime, si distacca anche dalla articolazione drammaturgica delle precedenti partiture larmoyantes che ne sono l’antefatto in campo operistico. Ne consegue che la soluzione formale de La sonnambula andava in buona parte inventata, e tale si presenta la partitura, composta da pochi pezzi chiusi, raccordati da ampie sequenze di ariosi melismatici e di pezzi di carattere (pantomime e danze) il cui timbro venne avvertito sin dai primi recensori come una reminiscenza paesistica degli amati laghi lombardi. Passiamo in rassegna i primi numeri della celebre partitura e vediamo come essi si inseriscano nella elencazione tipologica suggerita: Coro d’introduzione - lever de rideau e danza di carattere; Cavatina di Lisa “Tutto è gioia, tutto è festa” - passo a solo dell’antagonista; Stretta dell’Introduzione e coro “In Elvezia non v’ha rosa” - corps de ballet, danza di carattere. Bisogna arrivare al Recitativo e Cavatina di Amina “Come per me sereno” per rinvenire una forma specificatamente melodrammatica, ed anche qui il ritorno nella cabaletta ad una fioritura belcantistica, sostanzialmente innovativa nella sua intenzione di carattere, sollecita la memoria virtuosistica 22 Leggere La scarsità della letteratura critica su La Sonnambula rispecchia il ritardo generale degli studi belliniani che fino agli anni ‘80 del secolo scorso hanno prodotto in prevalenza scritti di natura biografica. Cionondimeno, la giovane figura del catanese ha affascinato “spiriti illustri” come Heine e persino Wagner e Stravinskij, che hanno scritto su di lui pagine vibranti. Sul capolavoro belliniano si segnala: l’ampio saggio di Francesco Degrada, Prolegomeni a una lettura della ‘Sonnambula’ contenuto in Il melodramma italiano dell’Ottocento. Studi e ricerche per Massimo Mila, a cura di Giorgio Pestelli, Torino, Einaudi, della variazione di danza. L’intento, il progetto prescrive in Sonnambula le soluzioni formali più che in ogni altra opera del romanticismo italiano. La consueta ripetizione della frase melodica è abbandonata per una più efficace caratterizzazione degli amanti. Il primo duetto Amina-Elvino ha una varietà di articolazione durchkomponiert quale non si ritroverà fino al duetto Violetta-Germont nel secondo atto della Traviata. L’inserto del soprano “Ah! vorrei trovar parola” sorge con la stessa totale alterità nella risposta che caratterizza il “Non sapete” o il “Dite alla giovine” di Violetta. L’effetto magico di tali partiture si coglie specialmente nella sorpresa, nella devianza di un genere teatrale quale il melodramma italiano per solito tanto torpido ad uscire dalle sue convenzioni, e che nei casi illustrati lo fa senza cedere ad un impulso sperimentale, sollecitato in profondità da motivazioni interne al personaggio rappresentato. Il carattere che accomuna La Straniera e La sonnambula risiede nella impalpabilità del segno. Sono partiture sospese sul vuoto, disegnate in un rapporto fra vocalità, armonia, timbro che più esile non potrebbe darsi. Partiture che si esauriscono nel tratto che disegna il personaggio, i suoi affetti ed il suo comportamento, e da cui il “pezzo”, ad esempio il concertato del finale primo, luogo deputato in cui il compositore deve dimostrare la sua capacità professionale nel disegnare il nodo avviluppato che nell’opera buffa segnava il conflitto delle passioni o la babele delle lingue che separa i protagonisti, emerge con subita pregnanza. Nella Straniera questa sottolineatura drammaturgica plasma il segno del rondò finale “Or sei pago o ciel tremendo”; nella Sonnambula si rivela nella solitudine disperata della protagonista, sola contro tutti nel Quintetto concertato “D’un pensiero e d’un accento”. Anche di questo Quintetto Verdi dovette sovvenirsi al tempo della Traviata. La voce di Violetta percorre come quella di Amina il grande concertato della dichiarazione d’innocenza “Alfredo, Alfredo di questo 1977; l’articolo di Bruno Cagli, Il risveglio magnetico e il sonno della ragione. Variazioni sulla calamità, l’oppio e il sonnambulismo, contenuto in “Studi musicali”, XIV, 1985 che radica la straordinaria fortuna di tematiche legate al sonnambulismo nell’atteggiamento avidamente voyeuristico del pubblico ottocentesco; infine l’interessante saggio di Emanuele Senici, Landscape and Gender in Italian Opera. The Alpine Virgin from Bellini to Puccini, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, incentrato sui maggiori esempi operistici di figure femminili “alpine”. 23 La sonnambula, foto di scena core”. Amina e Violetta sovrastano, sull’organetto del ritmo a terzine, la folla sconvolta, stabiliscono nella fissazione affettiva del pezzo chiuso la catarsi dell’olocausto femminile. La stagione del 1831 al Carcano segnò anche la fortuna definitiva della scena di pazzia. Tanto la Bolena che La sonnambula si chiudono sulla scena di delirio della protagonista, tòpos assoluto della fragilità femminile, giocato sulla reminiscenza accorata, descrittiva, della felicità sentimentale e sul successivo progetto di libertà (l’alternanza aria-cabaletta allo stato genuino, quale alternanza di sofferenza passata e possibile prospettiva di felicità), né è rilevante che la fine delle due eroine abbia segno opposto, in terra o in ciel, si sarebbe detto nel gergo melodrammatico, il senso della questione resta la bontà in trionfo. Quanto teatro barocco, auto sacramental, è alle spalle di ogni teatro fondato sull’apologo, quasi la costruzione dell’epica melodrammatica si sia sviluppata nell’Europa moderna per successive sedimentazioni di esempi di valore. Piuttosto va qui sottolineata la distanza stilistica, che è poi distanza di spessore, fra i due compositori che si troveranno tante volte affiancati, e in quegli anni, e nella sopravvivenza e popolarità delle “pazzie” fino ai giorni nostri - il caso di Bolena e Sonnambula si ripete quattro anni più tardi con Puritani e Lucia. I caratteri di riforma, quel tratto che faceva definire Bellini “il Lutero della musica italiana” in una Enciclopedia delle scienze musicali stampata a Lipsia nel 1835, va individuato non tanto nel contributo del musicista alla affermazione del gusto romantico, quanto nel suo specifico tentativo di superarlo e quindi di evaderne. Nessuna melodia “lunga, lunga, lunga”, secondo la definizione di Verdi, è più caratteristica di questa peculiarità del suo stile del celeberrimo “Ah! non credea mirarti”. Undici battute di melodia senza quadratura nella sezione A in la minore, altre quattordici fino alla cadenza, di cui invano si cercherebbe una schematizzazione interna nella sezione B in do maggiore, con due sole iterazioni della figura melodica “Ah! non credea” 25 e “Che un giorno sol durò”, accompagnate alla ripetizione sconsolata del testo sono il tratto di un compositore estraneo affatto alla regola delle simmetrie e dei precedenti su cui si basa ogni convenzione, di un compositore in cerca di una articolazione della parola cantata come principale veicolo della propria arte che non ha precedenti né prima né dopo di lui. Laddove nella Bolena di Donizetti le forme si evolvono nell’ambito della tradizione dell’opera romantica del secondo e terzo decennio dell’Ottocento, Bellini, nel cercare una assoluta rispondenza fra musica, testo ed idillio, afferma più che altro l’originalità che lo distingue. Quando Romani ripercorrerà i tempi della Sonnambula addurrà quale riferimento culturale l’Aminta del Tasso, limbo atemporale di un genere poetico, un limbo che dell’opera è al tempo stesso limite e pregio. Straniera e Sonnambula sono le opere strumentalmente più castigate del compositore. Quando i colori e i passi concertanti in orchestra sembrarono qualità irrinunciabili non si mancò di farne carico al compositore e se ne ascrisse la causa a una carenza di capacità professionali. Il necrologio di Hector Berlioz parla espressamente di un talento “peu versé dans la science harmonique et á peu près étranger a celle de l’instrumentation”. Il rammarico per questa sobrietà appare anche in Richard Wagner, forse il maggior ammiratore del musicista, o almeno colui che seppe valutare appieno il suo contributo ad un’opera riformata. E bisogna attendere un famoso saggio di Ildebrando Pizzetti, pubblicato nel 1915, perché questa caratteristica venisse considerata una scelta deliberata affatto consona allo stile belliniano, ed ancora una volta nella storia dell’opera si tornò a parlare del mito delle origini, cioè della tragedia dei greci. La Sonnambula andò in scena al Carcano il 6 marzo 1831. Le previsioni davano la prima per metà febbraio, ma Bellini e Romani erano come di consueto in ritardo. L’esecuzione è rimasta negli annali dell’interpretazione come un esito perfetto, fatto raro in tempi di gestioni impresariali, di ritardi dei poeti e dei musicisti, di ristrettezze economiche, 26 di malattie degli artisti scritturati. La Sonnambula rimase nella storia dell’interpretazione per la sua preparazione coordinata in ogni dettaglio. La Pasta fu salutata come la più grande attrice cantante di tutti i tempi, Rubini come il tenore belliniano d’elezione, lodatissimo anche il basso Mariani, le scene del Sanquirico si adoperano ancora oggi. (da G. Lanza Tomasi, Vincenzo Bellini, Palermo, Sellerio, 2001) 27 La sonnambula, foto di scena Prolegomeni a una lettura della ‘Sonnambula ‘ di Francesco Degrada Il tono espressivo della musica della Sonnambula è da definirsi propriamente religioso: religione del sentimento, degli affetti, della fraterna e partecipe comunità degli spiriti con il mondo dell’uomo e della natura. Religione dei valori contemplati con lo stesso rimpianto e la stessa struggente malinconia che è la vita e la sostanza della più alta poesia leopardiana. La scena dell’azione è un sognato paesaggio dell’anima; e i personaggi divengono momenti e aspetti complementari di un malinconico vagheggiamento di un mondo perduto. Si comprende, pertanto, come essi possano coinvolgere, interamente e senza riserve, la personalità artistica e morale di Bellini, che nel loro esile dramma può rivivere una sua intima e sofferta vicenda spirituale. La poesia di Sonnambula, infatti, vive tutta nel nostalgico anelito a una realtà di ingenua e incontaminata purezza, a un mondo di forme e di valori contemplati con la struggente consapevolezza che essi possono rivivere solo nella magica illusione dell’arte; favola, o meglio, romantica Träumerei che proietta al di là delle dilanianti contraddizioni del reale il sogno di un mitico eliso, esperito e reso nella dimensione di una bruciante quanto vana tensione verso qualcosa di definitivamente perduto, di irrecuperabile. È chiaro, allora, perché la favola sembra rimandare continuamente ad altro da sé, perché i suoi personaggi e le sue situazioni possono assurgere a un valore emblematico, divenire indici di una realtà più complessa e profonda, che di tanto ne trascende l’empirica limitatezza. Così la storia amorosa dei due protagonisti, Elvino ed Amina, perde il carattere di delicato e sin manierato idillio pastorale per assumere quello di un intenso e purissimo legame di anime, nel quale rivivono valori ancestrali tipici di una tradizione squisitamente meridionale e cattolica: la poesia del matrimonio, della famiglia, la tenera pietà per gli estinti la cui muta presenza aleggia benedicente sui viventi, colloca le due figure in un’atmosfera che non si esiterebbe a definire religiosa, non immemore di accenti foscoliani. Laddove l’elemento di contorno, il coro, la stessa prospettiva 29 paesistica delineano, in forma delicatamente allusiva, una mitica concordanza tra uomo e società, tra mondo umano e mondo naturale — nella quale trovano pace e risoluzione i brucianti conflitti dell’anima romantica. Non sarà inutile, al proposito, rimarcare con le parole dello stesso Bellini l’ardente temperie emozionale — priva di qualsiasi riserva o schermo critico — che caratterizzava l’ascolto della Sonnambula da parte del pubblico contemporaneo: “Mio caro Florimo, mi affretto a darti In novella che iersera la Sonnambula ha fatto un fanatismo al Teatro Italiano. Rubini e la Grisi hanno cantato con tale passione e slancio che non vi fu persona in tutto l’immenso uditorio che non sparse lagrime, o non restò commossa. Il finale del primo atto particolarmente fece un effetto magico, largo e stretta. Alla metà di questa il pubblico non si poteva più frenare; pareva che i nervi di tutti fossero stati tocchi da elettricismo. Figurati alla fine dell’atto che strepiti! Il secondo atto non fece meno piacere, né mancò di commuovere tutti alle lagrime. Io mi trovava nel palco della contessa Manhes, ove erano cinque persone; non ti parlo dell’aria di Rubini, che si volle sino replicato il largo, ma nella scena di lei tutte cinque piangevano come ragazze. Francesi ed Italiani finalmente iersera hanno provato delle sensazioni eguali a quelle che si sono provate sinora in Italia nell’assistere alle mie musiche”. È stata autorevolmente sottolineata quale dote caratteristica di Bellini “l’intuito infallibile dell’ambiente”, per cui “egli sente e coglie con invidiabile lucidità l’atmosfera richiesta dal luogo e dal tempo dell’azione, dalla qualità dei personaggi, dalla stessa scenografia, che per lui vive nel complesso del dramma come un valore spirituale”. È vero d’altronde che “i personaggi belliniani vivono non in un’atmosfera fittizia di palcoscenico, fatta di luci di ribalta, coristi di melodramma e scenari di cartapesta, bensì immersi nella vita stessa, in una collettività umana che ha parvenze ben definite e con la quale essi intrecciano una rete impercettibile di rapporti e di reazioni reciproche”. Se analizziamo le componenti stilistiche che entrano in gioco nella delineazione dell’ambiente 30 specialissimo e dell’atmosfera particolarissima della Sonnambula, dobbiamo rilevare che il ricorso al “brillante” e al “caratteristico”, legato alle più facili formule e ai più scontati stilemi di una ben definita tradizione melodrammatica (quella dell’opera italiana di mezzo carattere), è relegato nello sfondo o preferibilmente utilizzato in quelle situazioni in qualche modo obbligate e convenzionali (come l’Introduzione e il Finale, per esempio) avvertite sia dal musicista sia, del resto, dal suo pubblico, come qualcosa di estraneo alla sostanza più intima del lavoro. Tra queste pagine (non necessariamente più modeste sotto il profilo estetico o inessenziali all’equilibrio espressivo dell’insieme, e niente affatto da emarginare o da isolare mentalmente secondo la metodologia dell’accertamento meccanico della poesia e della non poesia) sono da annoverare senz’altro, insieme con la tarantella iniziale spensieratamente bandistica, la “canzone” che il coro “ in tuona ” ad onore di Amina “In Elvezia non v’ha rosa”, o ancora certe cadenze del canto dei villici che si recano a porgere omaggio al Conte. O infine quella sorta di baldanzosa fanfaretta di Amina, introduttiva del “Tutti” finale “Ah non giunge uman pensiero”, non a caso, una melodia in senso proprio archetipica ed esemplare nei confronti della successiva tradizione melodrammatica donizettiana e verdiana. Concepita da Bellini come “qualche cosa che innalzasse la Pasta e la sollevasse ai sette cieli”, fu realizzata dunque, come un brillante exploit belcantistico confezionato tenendo d’occhio esplicitamente alcune precise regole del più scoperto gioco teatrale; che Bellini non s’accontentasse anche in questo caso di un testo purchessia, ma tempestasse di richieste sino alla sera della prova generale dell’opera il povero Romani (che già gli aveva fornito una decina di diverse redazioni dell’aria) tanto da provocarne un’esasperata reazione, è significativo dell’importanza annessa dal musicista al tessuto verbale dei suoi lavori. Ma questo filone di brillante verve teatrale, sempre tenuta però su un registro di estrema raffinatezza formale, costituisce 31 non più di una venatura, sia pure a momenti rilevata e vistosa, di un marmo che ha la raccolta perfezione ma anche il palpitante pulsare di vita di una scultura greca. Qui, nella commossa e — si diceva — quasi religiosa idealizzazione di tono squisitamente romantico di un mondo insieme popolare e fanciullesco nei suo disarmato candore, attuata a diversi livelli significativi, attraverso diversificate soluzioni linguistiche miracolosamente convergenti alla creazione di una singolare coerenza di tono e d’atmosfera, è da individuare il cuore più segreto della Sonnambula. Si coglierà questo tono, anzitutto, in certi momenti del discorso corale, stillante nell’eufonia soave delle armonie, volentieri cullate su lunghi pedali o mosse su relazioni volutamente elementari, morbide e sin languide dolcezze che si vorrebbero definire addirittura bussottiane. Dove le terze argentee dei registri femminili (secondo un gesto ricorrente in tutta l’opera), richiamano con tenerezza struggente certi luoghi di un melodizzare corale italiano o forse meglio tipicamente padano, del quale chi scrive ha potuto cogliere negli anni d’infanzia, la risonanza estrema: tenerezza che l’eco dei corni in sesta riecheggia nel congedo commosso. Si osservi, a riprova, il coro d’introduzione al secondo atto: è possibile rilevarvi, nella stesura librettistica, un’intonazione ironico-affettuosa, con la divertita caratterizzazione dei villici, impacciati e goffi nell’esternare la pietosa sollecitudine circa le sorti della “meschina” che ha messo inconsapevolmente a repentaglio il proprio onore. Bellini ne ha fatto un delizioso pastello romantico, nel quale si indovina anche nella pronunciata stilizzazione del segno, l’idealizzazione di canti giuntigli da favolose lontananze, tra il leggero vaporare di brume azzurrine, nei suoi soggiorni vissuti in abbandono dei sensi e di ardente esaltazione dei sentimenti, nel paesaggio incantato del lago di Como. Proprio per questo, non deve essere lasciato cadere totalmente, a patto di non interpretarlo in senso semplicistico e banale, il suggerimento della Branca circa le suggestioni che Bellini potè ricavare dall’ambiente nel quale prese forma la musica della Sonnambula: la villa 32 Passalacqua a Moltrasio, ove il musicista era ospite dei Turina. Alla sera il Bellini, quando il sole co’ suoi raggi infocati indorava ancora la cima dei circostanti monti, si compiaceva di adagiarsi in una navicella e di vogare sulle quiete onde del lago, lasciandovisi cullare mollemente in un co’ suoi pensieri. Rapito dall’incanto di quelle rive, di quelle valli, di quei monti, ove una ricca cultura ne feconda i declivi {sic}, quel clima temperato, quel cielo splendidissimo, quella natura tutta vaghezza e sorriso, ove l’uomo respira liberamente e dimentica le contrarietà della vita, immerso in un’estasi inenarrabile, il giovane entusiasta sentiva la sua anima trasportarsi oltre le sfere celesti verso la sorgente eterna di ogni bellezza, e porvisi. Al sabato sera era per lui uno spasso seguire le contadine operaie quando raccolte in un battello ritornavano alle loro case dalle filande cantando or tenere or gaie canzoni, non meno vinto dalle attrattive di quelle cantilene che dal desiderio di studiarvi sopra. Già il Maestro aveva osservato gl’innocenti costumi e le sincere affezioni di quei villici; ed i luoghi incantevoli, spiranti tutti poesia e armonia destavano nella mente sua esaltata dei pensieri musicali soavissimi, dei veri idilli, che andava scrivendo nel portafogli. In questi sfondi paesistici miracolosamente recuperati per via di pura suggestione fonica, non si avvertirà nulla della rusticità furbesca o dell’arguzia sapida del donizettiano Elisir d’amore, anche se potranno essere non invocati invano i nessi di quel “discorso lombardo” sul quale ha scritto con tanta consentaneità di ragioni umane Gianandrea Gavazzeni; beninteso, le mitiche terre dei gelsi e delle filande si indovineranno attraverso la stilizzazione estrema del segno, l’idealizzazione astrattizzante — anche se di impronta anticlassicistica, almeno nella musica — isolate affatto dalla concretezza realistica e dall’impegno morale inseparabile, 33 mettiamo, dalle poetiche dei romantici lombardi. Ha scritto con la consueta acutezza Giulio Gonfalonieri che nella Sonnambula le peculiarità del libretto trassero Bellini “a concretare un paesaggio sonoro compiuto in ogni sua parte, a inventare la musica di un’ideale sito agreste ed a rompere quei ritegni che avevano trattenuto, lì ai confini dello stesso sito, i vecchi Piccinni e Paisiello e Cimarosa. Senza dirette allusioni, ma per arcano contatto con i segreti dello spirito, egli fa si che la campagna della Sonnambula, il villaggio di Amina, siano e non possano essere se non campagne, se non villaggi italiani. Forse di un’italianità che nessuno ha mai incontrato viaggiando, desto, per la penisola; ma che molti si sono figurata, chiudendo gli occhi dopo aver osservato i paesaggi; rifugiandosi nel silenzio dopo aver udito le parole e le voci”; o anche, potremmo aggiungere, rimemorando le immagini della più illustre tradizione letteraria e poetica nazionale. Si noterà come il paesaggio suggerito per via allusiva, più che non esibito facendo ricorso alla fisicità di scene e fondali (che dovrebbero essere tenute nelle odierne riproposte dell’opera su un registro di discrezione estrema), è sempre un paesaggio segnato da una presenza umana. Non le solitudini palpitanti di un misterioso, inquietante pullulare di vita, mettiamo, di un Freischütz, ma la rassicurante dolcezza di una natura che l’umano intervento ha domato e plasmato. Sono sostanzialmente ancora i pascoli e i campi cantati da Virgilio, nel cui abbraccio cercava in quegli stessi anni conforto la “sensibilité maladive” di un eroe di Berlioz (Symphonie Fantastique, 3). Qui la campagna ha tuttavia la luminosità incantata degli sfondi dei pittori italiani del Rinascimento: là suggestione sonora non è affidata come nel citato luogo berlioziano alla voce querula delle ance, ma alla patriarcale, agreste poesia del corno, forse secondo non dimenticate suggestioni del Tell rossiniano. E arriviamo al momento della massima tensione, al vero Hohepunkt drammatico dell’opera (ogni melodramma ne ha uno proprio, non importa quale ne sia la temperatura, essendo questa misura, come tutte le misure, relativa). Nella 34 Sonnambula questo momento arriva nella scena ultima, quando Amina, in stato di sonnambulismo, rischia di perdere la vita tra le pale del mulino, e infine, scampato il pericolo, il coro esclama sommessamente la propria gioia: ed ecco si ode il risuonare dolcissimo (ed è un vero spunto — e non il solo — di fascinazione timbrica) di uno scampanio ovattato di bronzi benedicenti. Non si sottolineerà mai abbastanza il senso favoloso e arcano di queste evocazioni, attuate con mezzi di estrema varietà, ferma restando la mirabile unità di tono che il quadro, nella sua interezza, possiede. Si osservi per esempio nella scena quinta dell’atto primo il duetto Amina-Elvino: “Ah, vorrei trovar parole...”. Basterà qui un ritmo rilevato, impreziosito dal calore della tonalità e dal sapore pungente dell’intervallo di terza diminuita (Mi bequadro / Sol bemolle) in corrispondenza dell’impiego (o meglio diremmo ormai: della citazione) dell’accordo di sesta napoletana (su un giro armonico caratteristicamente indugiante sulla dominante, abbandonata con una sospirante cadenza d’inganno e di nuovo subito riproposta, carezzata si direbbe, con un accordo di settima sul quarto grado alterato) — per far emergere una dimensione insieme arcaica e ‘ingenua’, anche se d’una ‘ingenuità’ costruita e a suo modo letterarissima come può confermare e contrario, e paradossalmente, l’esplicita banalità del successivo sviluppo melodico nella tonalità del relativo maggiore (secondo un uso delle alternanze modali tipico di Bellini) anch’esso rispondente a una sua caratterizzante funzione espressiva e a suo modo propriamente drammatica. Talora questa ‘connotazione popolare’ è suggerita con mezzi ancor più delicatamente allusivi, in contesti affatto estranei e apparentemente contraddittori; in una delle melodie più alte della Sonnambula, una di quelle melodie “lunghe, lunghe, lunghe” per dirla con Verdi, nelle quali sembra sublimarsi la tradizione più aulica e illustre del canto italiano, un controcanto in seste di un corno sembrerà aprire spazi incontaminati di ‘natura’, tanto limpidi e trasparenti — si 35 diceva — quanto leggendari e misteriosi sono quelli evocati dai magici squilli weberiani e schubertiani. Più oltre, ed è un gesto ricorrente nell’opera, lo stesso procedimento, in sé frusto e scontato dell’accompagnamento per seste, attinge la medesima allusività nell’incantato alone timbrico del quale la voce di Amina circonda, velandola di una luminescenza argentea, la melodia affidata ad Elvino. È evidente che solo con un’operazione analitica e forzando una sintesi perfettamente realizzata sul piano stilistico-espressivo, è possibile isolare astrattamente questa componente del linguaggio della Sonnambula: che rifiuta, ovviamente, la tecnica della citazione o dell’encausto, caratteristica della tradizione comica napoletana, per procedimenti più mediati e raffinati, fondati sulle capacità di suggestione di gesti organicamente solidali alle sue più intime disposizioni stilistiche; non a caso, per l’unica melodia chiaramente riferibile a un contesto popolareggiante (non certo popolare) — la presunta citazione di Fenesta ca lucive nell’aria di Amina “Ah non credea mirarti”, si ha il ragionevole sospetto che la pagina belliniana ne costituisca la fonte, piuttosto che la ripresa. Lo sfondo della Sonnambula fa riferimento a un mondo ‘comico’ (nel senso etimologico del termine) popolato da personaggi che con l’eccezione del Conte Rodolfo il Romani avrebbe detto ignobili, svincolati cioè dal mondo regale del dramma per musica. Tuttavia la loro connotazione sociale avviene solo in senso negativo e in maniera nominalistica; il loro lessico, i loro costumi, il loro modo di essere e di agire li inserisce in una tradizione di fatto aulica e cortese. Si comprende allora come in Bellini questa tensione romantica all’ingenuo, all’incontaminato, a quell’insieme di disposizioni d’abbandono aurorale e innocente verso la vita che la cultura del primo Ottocento volentieri identificò come proprie dell’infanzia e dello spirito popolare, si dia come pura aspirazione, anelito vago privo di ogni consistenza realistica e pratica. In questo senso, esse non possono che rifuggire da ogni troppo netta e determinata caratterizzazione: 36 tendono infatti a un colore, a un’atmosfera, a una Stimmung, infine,entro la quale si inseriscono — e dalla quale a loro volta prendono vita e contorni — i personaggi. (…) Giuditta Pasta (che — non dimentichiamo — aveva tra i suoi ruoli preferiti quello di protagonista della Nina pazza per amore del Paisiello) portò nell’interpretazione dell’incantevole protagonista belliniana almeno un riflesso della sua tendenza alla stilizzazione scenica di ascendenza neoclassica, quella che Bellini chiamava la sua predisposizione al “sublime tragico” tanto ammirata da Stendhal, e soprattutto l’organica disposizione al vocalismo belcantistico. I recensori della prima esecuzione parlarono infatti di un’occasione splendida offerta dal musicista all’interprete per “far pompa di un genere di canto... nuovissimo” nonché di “fioriture difficilissime e sorprendenti”. Indipendentemente dalle pratiche estemporanee della fioritura virtuosistica legate alla prassi esecutiva dell’epoca, la componente belcantistica costituisce nella Sonnambula una sorta di ‘trasparente’, che vela le caratteristiche specifiche dei singoli personaggi, offrendoli in un’uniformità di aspetti e di movenze che hanno spesso fatto parlare, come già si è accennato, di una strutturale antidrammaticità dell’opera. Riteniamo non occorra insistere su questo fossile critico di ascendenza natural-positivistica incredibilmente riaffiorante anche ai nostri giorni nonostante tutte le esperienze teatrali novecentesche di segno opposto. Comunque, come si potrà rimproverare Bellini di non aver fatto del bozzettismo spicciolo, di non averci consegnato l’equivalente di una stampa romantica di sapore campagnolo? Che in tutt’altra direzione si muovesse la sua fantasia, lo si coglie ad apertura di sipario, nelle poche battute di introduzione alla cavatina di Lisa, che ci dicono subito, nella loro intensa temperatura lirica, nel loro malinconico abbandono, nelle aristocratiche movenze, quali mai ostesse circolino per questo “villaggio della Svizzera”. Alle quali ostesse bisognerà addirittura rammentare, dopo un compiacente “a piacere” concesso su una nota acuta e filata, di non indulgere a troppo languide e sospirose svenevolezze, 37 mediante un discreto “in tempo” posto su un vocalizzo da prima donna (e quasi da “parte seria”). Che l’inganno della Sonnambula – come in genere delle opere di Bellini – risieda nella magica fascinazione della voce e che a questo aspetto siano subordinati tutti gli altri aspetti del linguaggio è diventata una di quelle affermazioni tanto ovvie da necessitare una messa a punto. Certo nella Sonnambula straordinaria è la risonanza, la virtualità espressiva che assume la voce, anche quando venga esibita, come spesso accade con squisita sensibilità teatrale, nella sua nuda purezza. E nei recitativi, prima ancora che nelle arie, sembra di cogliere allo stato nascente, pur nella stretta adeguazione tra prosodia testuale e prosodia musicale, quella “concezione dinamicamente attiva... tutt’altro che elegiaca e sospirosa, bensì agonistica sino all’eroico” propria della ritmica di Bellini, e cioè del segreto motore della sua vocalità. Le capacità formanti di questo strumento d’elezione della fantasia belliniana sono tali che possono far passare in secondo piano alcune intuizioni preziose, giocate su altri livelli. (…) Ma l’indugiare su questo o quel brano, su questa o quella particolarità tecnica della Sonnambula può essere in qualche modo riduttivo e limitativo nei confronti della sua singolare armoniosità e circolarità di struttura, sottolineata da espliciti richiami e riprese interne, che culminano — secondo la tradizione delle situazioni di delirio dell’opera seria — nella grande rimemorazione della seconda scena del sonnambulismo: dove il ricorrere di alcune delle più intense melodie dell’opera, che incarnano i motivi chiave della vicenda, sembra riassumere nel sogno di Amina, in una serie di gesti musicali ed espressivi veramente conclusivi ed emblematici, il senso dell’opera. Unica figura che sembra incrinare questo gioco di circolate melodie e non far corpo totalmente con la scrittura equilibratissima dell’insieme per quel tanto di approssimativo e di provvisorio che è in lui implicito, è il Conte Rodolfo. Il Baldacci ha notato con molta finezza che 38 il suo si identifica col punto di vista dell’autore e dello spettatore. La sua superiorità è d’ordine... intellettuale per il piedestallo d’onniscienza sul quale è posto nei confronti dell’azione narrativa; è d’ordine morale poiché, pur potendo approfittare d’Amina senza che nessuno osi muovergli rimprovero, si astiene dal farlo; è anche d’ordine culturale poiché mentre i villici credono nel “tremendo fantasma” ... egli cerca di disingannarli, ben sapendo che i fantasmi sono orpelli del Medioevo. Anche se la sua dimensione musicale sembra esaurirsi nella melodia tenerissima della sua aria di sortita “Vi ravviso, o luoghi ameni...”, pure il suo ruolo si avverte sempre come un momento centrale dell’interpretazione belliniana della vicenda. Egli rappresenta propriamente l’elemento di crisi e di frattura di questo mondo ingenuo sapientemente ricreato da Bellini, il momento della coscienza, della fine dolorosa del sogno e dell’illusione. Bellini supera la mera funzione pratica attribuita al personaggio dal Romani; semplificandone il peso nella trama dell’opera ne ispessisce la dimensione significativa, facendone un elemento dialettico nell’economia dell’intreccio e, per quello che la sua figura obiettivamente può concedere, una proiezione del proprio io. La sua presenza si avverte nella limpida atmosfera della favola come un’ombra, un’impercettibile stonatura che tuttavia non è essa stessa priva di un suo significato, di un suo specifico spessore espressivo. Il miracolo della Sonnambula è quello di richiudersi circolarmente su se stessa, riportando ciascuno dei propri elementi al nucleo più profondo della sua storia interiore e segreta. (da F. Degrada, Il palazzo incantato: studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979) 39 La sonnambula, foto di scena La verità del sogno La Sonnambula di Guido Paduano All’indomani della prima milanese della Sonnambula (6 marzo 1831), il recensore dell’“Eco” scriveva tra l’altro: “il trasformare la maestà della Semiramide e la sensibilità profonda dell’Anna Bolena nelle semplici ed ingenue grazie d’una giovane contadinella, in modo sì mirabile, era impresa riserbata a Madama Pasta”. A proposito della rappresentazione scaligera del 1955, diretta da Bernstein con la regia di Visconti e la memorabile Amina della Callas, Fedele D’Amico teneva a ricordare che “Sonnambula e Norma furono scritte per la stessa cantante, Giuditta Pasta, e tutt’e due le parti cantava la Malibran, come le canta oggi, unica, la Callas”. Il confronto tra Amina e le eroine di Rossini e Donizetti suona provocatorio, giacché all’iperbolica distanza sociale corrisponde, prima e più che un’opposizione di registri stilistici, un’opposizione tra due forme di protagonismo, una che comporta l’occultamento e l’altra l’esibizione del narcisismo come volontà di potenza e coinvolgimento nelle aspre dialettiche del potere. Non è meno provocatorio il confronto con Norma, dove opposizioni dello stesso tipo sono esaltate dall’identità del regime compositivo, stante la strettissima vicinanza cronologica tra le due opere. Eppure noi sentiamo infallibilmente che queste impressioni d’ascolto colgono l’autenticità del messaggio testuale, al di là dei problemi di estensione e di timbro della vocalità, e anche dell’abilità performativa delle cantanti; almeno nel caso di Maria Callas, del resto, sappiamo bene che la sua grandezza è consistita nella enucleazione e nell’espressione di grandi direttrici di senso, latenti nel melodramma italiano sotto la stanchezza delle abitudini e sotto gli smalti virtuosistici. Ma anche senza di lei, e senza cessare di rimpiangerla, ci accorgiamo che la musica della Sonnambula perentoriamente richiede di essere presa sul serio come Norma o Anna Bolena, nel senso che non meno di quelle mette in gioco eventi e valori decisivi per la comprensione della condizione umana e dell’immagine di essa che viene elaborata nell’autocoscienza culturale. Quando avremo precisato che questi medesimi eventi e valori sono veicolati attraverso un’identificazione 40 41 con l’esperienza della protagonista, senza nessuna delle operazioni di distanziamento o alienazione che identificano i registri del comico, avremo dato a mio parere un’attendibile definizione del genere tragedia, cui non è essenziale invece (non lo è mai stata) l’opposizione tra lieto e triste fine. (…) Che cosa c’è in questa vicenda di tragico, cioè di essenziale e problematico? La risposta “niente”, che si può essere tentati di dare, è sostenibile solo ammettendo che la musica sia un discorso perfettamente autosignificante, rispetto al quale la situazione teatrale sarebbe un puro pretesto. Questa posizione, che pure nella critica belliniana ha avuto diritto di cittadinanza, è insostenibile in rapporto a tutte le categorie strutturali, funzionali, semantiche, storiche del teatro musicale in genere e del melodramma italiano in particolare; ancora più in particolare, è incompatibile con la prassi compositiva di Bellini e con il ruolo di Romani. Come ha chiaramente detto il maggiore studioso di Bellini, Friedrich Lippmann, La Sonnambula non si costituisce nonostante il libretto, ma a partire dalle “situazioni drammaticamente mosse” che esso contiene. Qualificare questo discorso mediante un accertamento delle funzioni testuali, delle loro strategie e delle loro gerarchie, è quello che mi propongo di fare; anticiperò tuttavia subito la mia risposta, la quale, giovandosi dei benefici della tautologia, sostiene che quanto c’è di essenziale e problematico nella Sonnambula è propriamente l’esperienza del sonnambulismo. Non a dimostrazione di questo assunto, ma solo a preventiva giustificazione della sua praticabilità, vorrei ricordare l’attenzione dedicata da Ernesto De Martino ai fenomeni che come questo, o come la trance e l’ipnotismo, comportano l’esercizio delle facoltà psichiche in un regime sensoriale alterato; dalla sua analisi risulta che essi comportano altresì una ridefinizione dell’identità individuale e della rappresentazione del mondo; i confini fluttuanti tra queste due realtà sono vissuti con enorme investimento emotivo, come “rischio di non esserci” e come ambiguità di affermazione e di distruzione. 42 Venendo all’opera di Bellini, converrà innanzitutto notare che il tema del sonnambulismo ha effettivamente il ruolo decisivo nella strutturazione del plot: se questo, ridotto a estrema formalizzazione, consiste in un doppio movimento, prima di alterazione e poi di ristabilimento della felicità amorosa, che prima crea e poi colma angosciose distanze, la responsabilità di entrambi sta appunto nella particolare e ricorrente condizione di Amina: la manifestazione dell’io attraverso il sogno, che in tal modo è resa pubblica, è prima fonte di equivoco e poi soluzione di esso, venendole riconosciuto un indiscusso valore di verità. E in effetti entrambi, equivoco e verità, ineriscono essenzialmente a questa esperienza, confermando l’ipotesi che in essa sia una ricchezza ambigua e inquietante. La garanzia di verità risiede nella possibilità di estrinsecare i contenuti psichici con tutta la libertà permessa dal codice onirico, e cioè senza nessuno dei condizionamenti e delle censure operanti nel vivere sociale e nell’elaborazione dell’immagine che consciamente si trasmette di se stessi. Il rischio di equivoco è invece legato alle modalità espressive dell’inconscio: poiché la sua attività è indipendente dai principi della logica classica (d’identità e di non contraddizione), e tratta gli oggetti di investimento emotivo alla stregua di una realtà totalizzante e infinita, gli oggetti stessi non hanno lo statuto preciso che compete loro nella realtà empirica: nella fattispecie per Amina qualunque uomo, ma forse semplicemente qualunque entità sentita come altro da sé, è nel sogno Elvino — e questa crea gli inconvenienti che sappiamo. Tuttavia l’interesse maggiore non risiede a mio parere nell’aspetto oggettivo del sonnambulismo, cioè nelle sue conseguenze, bensì nei modi di realizzazione, cioè nell’itinerario di vita interiore che esso disegna e nel suo rapporto con la vita consueta, caratterizzata dalla vigilanza e dalla interrelazionalità. Se si preferisce, tra le relazioni che organizzano il microcosmo psichico e quelle che nelle loro cooperazioni e interferenze formano il quadro semiotico del dramma. L’elaborazione della realtà condotta nel sonnambulismo di Amina può definirsi con l’aiuto di termini 43 contrastivi che hanno grande rilievo nella civiltà musicale contemporanea: penso alla scena della pazzia in Lucia di Lammermoor e al ricorrente delirio di Elvira in cui culminerà la ricerca belliniana sugli aspetti più tormentati e inquietanti della psiche, e specialmente della psiche femminile. Le visioni di Lucia, Amina ed Elvira sono tutte incentrate su un unico idolo ossessivo, concepito come sede di appagamento universale dell’immaginario femminile: la festa di nozze. Ne viene di conseguenza il ripetersi e sovrapporsi di movenze stilistiche e di fattori lessicali (…) Naturalmente, se è vero che il sonnambulismo è fenomeno praticamente privo di rilevanza patologica, c’è da aspettarsi che la distanza tra esso e la realtà sia ben altrimenti colmabile che non nel caso della pazzia: e in effetti, mentre l’esplorazione visionaria di Lucia è una via che non ha ritorno, e il ritorno di Elvira passa per la violenza paradossalmente benefica di un trauma (la condanna a morte di Arturo), Amina si trova alla fine a trapassare dal sogno alla realtà per confini aperti e illusionisticamente, dolcemente confusi. Su questo trapasso, che è la cosa più straordinaria dell’opera e con piena pertinenza occupa il finale, tornerò poi; ma va detto che esso è il punto terminale di uno svolgersi del discorso solipsistico come parte dell’esperienza vitale e non già come suo chiaroscuro, alternativa, rovesciamento — le funzioni che si possono attribuire alle due scene di pazzia sopra citate. In Lucia e nei Puritani la realtà dolorosa viene globalmente negata opponendole un mondo di delirante luminosità, non toccato dall’angoscia, frutto immediato e assoluto del desiderio; nella Sonnambula il desiderio esprime con altrettanta forza la sua richiesta di felicità, ma i modi in cui la formula mostrano coscienza delle difficoltà e degli ostacoli, generati dal fatto che l’alterità dell’oggetto d’amore è comunque irriducibile all’io, e ne vivono la dialettica con pena, attesa, speranza. Sia pure esprimendosi in termini grossolani, non si andrà troppo lontano dalla verità se si dice che nella Sonnambula l’inconscio affronta gli stessi problemi che si presentano alla coscienza, e allo stesso modo, nel 44 rispetto cioè della griglia che ospita e determina la vita della coscienza: la scansione del tempo. Con ciò intendo dire due cose distinte tra loro: la prima è che, essendo come s’è detto le visioni, visioni non di stati psichici ma di processi e conflitti, esse sono ordinate nel regime di mutabilità biunivocamente connesso al tempo; la seconda è che l’inconscio serba memoria della coscienza, e dunque le visioni non evocano dal nulla, o se si vuole dall’acronicità assoluta del desiderio, la loro dialettica, ma ereditano una situazione compromessa dagli eventi della vita di relazione. Diciamo anzi progressivamente compromessa, se è vero che la seconda scena di sonnambulismo registra, nel medesimo quadro di opposizione tra il desiderio e le avversità, gli sviluppi e i deterioramenti accaduti nell’intervallo dalla precedente. Se il primo punto autorizza a definire la struttura delle visioni come drammatica (e non sarebbe improprio parlare di psicodrammi), il secondo chiarisce che in essi si realizza la stessa struttura drammatica che come spettatori siamo chiamati a fruire unitariamente. Considerando più concretamente le due scene in questione, vediamo che il rapporto sintagmatico tra sogno e veglia viene garantito dalla prima fase di Amina sonnambula, dopo l’invocazione “Elvino, Elvino!”: “geloso / Saresti ancor dello straniero?”. Ancora: il sogno non ripete, ma riprende e prosegue la situazione conflittuale che si era prodotta tra lei e l’amato a motivo dell’interferenza di Rodolfo, poi espansa e addolcita nel duetto “Son geloso del zefiro errante” e risolta nell’unisono “Mai più dubbi, timori mai più”, all’uscita del quale sta una promessa profetica: “pur nel sonno il mio cuor ti vedrà”. L’io onirico in ciò più realistico della dedizione manifestata nel duetto — sa bene di non poter contare sulla scomparsa dei “dubbi” e dei “timori”; e li mette in scena con un preciso déjà vu, che riprende prima di tutto la tonalità globale dell’angoscia (sottolineata dal ripetersi della didascalia “con pena”), e poi i topoi dell’innocenza offesa, l’apostrofe “ingrato”, e la professione d’amore “non t’adoro? / Il mio ben non sei tu?” (versus “Amo te solo, il sai”). Più preziosamente, 45 La sonnambula, foto di scena 46 47 ancora, la solitudine strutturale del sonnambulismo fa rivivere lo stizzoso silenzio di Elvino (“Elvino, e me tu lasci/ Senza un tenero addio?”, versus “Non rispondi?”). Poi Amina “comincia a serenarsi” e passa alla rappresentazione solare delle nozze: la gioia che parla in essa si oppone alla precedente “pena” con un’impressionante crescita d’intensità, certo avallata dalla struttura cantabile, se la frase “O madre mia, m’aita” sembra comunicare una passione dolorosa, è perché rappresenta quell’insostenibilità della gioia che Amina, conscia, aveva predicato nella cabaletta iniziale: “Egli è il cor che i suoi contenti / Non ha forza a sostener”. Confrontata con essa, può mostrare utilmente, io credo, quale dislivello di autenticità e profondità passi tra la manifestazione sociale e quella segreta dell’io. Da questa prima scena possiamo dunque già concludere che La Sonnambula rappresenta a due livelli la sua semplicissima, quasi nucleare azione, originata dalla minaccia dell’infelicità e risolta nel trionfo della felicità: al primo livello, che comporta la rappresentazione di rapporti interumani banali, irrimediabilmente impoveriti dalla loro idoleggiata semplicità (tornerò su questo punto), segue la mise en abîme della medesima realtà: un teatro di secondo grado che situa la sua scena non nelle dolcezze bucoliche, svizzere o padane che siano, ma nell’universalità della psiche, e ne parla il linguaggio categorico, dove non esistono piccole ferite e la gelosia è degnissima figura di morte, dove l’invocazione “madre mia” non concerne propriamente la molinara Teresa — con la sua solida affettività e partigianeria, capace di moralismi aggressivi e di ironia acida, una specie di Agnese manzoniana — ma il corrispettivo nostalgico dell’originario smarrimento umano. Il risveglio di Amina fa esplodere, come sappiamo, il conflitto con Elvino e i paesani, ma anche un conflitto di molta più violenza e respiro che coinvolge la persona della sognatrice, e nell’estremizzazione dei suoi termini ne minaccia la coerenza. Da un lato infatti la sua condizione è di onnipotenza: assumendo dentro di sé la crisi, ha in 48 sé la capacità di portarla a compimento e di coronarla nel lieto fine (il più tradizionale, le nozze). Dall’altro lato è di impotenza, cecità indifesa. Lungi dall’avere il controllo del mondo, Amina non ha il controllo di sé, e l’oscurità che concerne il sé, lo spazio (“Dove son”), le azioni (“Che mai feci?”), il rapporto con gli altri (“Chi mi vi ha spinto?”), pesa come una condanna all’incomprensione e alla separatezza, e dunque all’infelicità. I termini di questo conflitto non hanno niente di sorprendente, sono anzi iscritti nella definizione stessa di inconscio a seconda che se ne elabori un’immagine autarchica o una bisognosa di riconoscimento sociale; ma sorprendente è la loro resa musicale, drammaturgica, semiotica: basti pensare al persuasivo nitore con cui è costruito il contrasto tra il predominio che la voce di Amina ha nella scena del sonnambulismo (esaltato dal rispettoso distanziamento di Rodolfo), e la sua posizione di dolorosa eccentricità nel concertato finale del primo atto, che culmina capovolgendo il ruolo della figura musicale dell’unisono: quando Amina ed Elvino cantano insieme “Non è questa, ingrato core”, la solidarietà vocale, altrove rassicurante, esprime al contrario la lontananza e l’incompatibilità delle loro angosce. Similmente possiamo dire che nel primo atto l’identità dei progetti vitali elaborati nella veglia e nel sogno si stabilisce attraverso una stridente incomunicabilità dei due universi. Nel secondo atto, invece, essi si intersecano e si identificano. La seconda e la più grande scena di sonnambulismo ha una struttura opposta alla prima per ciò che concerne l’estensione relativa del positivo e del negativo: mentre infatti la prima risolveva rapidamente, in un sia pur intensissimo declamato, le distonie e le disforie dell’amore, per approdare al cantabile estatico della gioia, e da quello ripiombare nell’incubo del risveglio, la scena finale attraversa con cristallina sofferenza tutto il percorso della lacerazione, affidandone l’espressione al cantabile “Ah! non credea mirarti” poi dal profondo dell’angoscia risale alla speranza con la febbrile velocità di frasi spezzate: ma la cabaletta che corrisponde, rovesciandone la situazione emotiva, a “Ah! non 49 credea mirarti”, sta al di là del sogno e chiude l’opera (“Ah! non giunge uman pensiero”). Come sappiamo, la situazione è precipitata e il sogno di Amina la riflette, agganciandosi a ben precisi elementi di realtà: il matrimonio con Lisa che Elvino ha inopinatamente deciso e sta per attuare. L’insistenza su questo punto crea un contraltare angoscioso al sogno beato delle nozze: il tempio è ancora il luogo dello psicodramma, ma il senso della cerimonia è atrocemente rovesciato. Insieme ad esso si capovolgono due simboli dell’unione felice: l’anello che Elvino le ha tolto, le viole ricevute da lui e riposte nel seno e ora appassite. Il canto sul fiore — di estenuata dolcezza e bellezza — segna tuttavia la transizione verso il nuovo e definitivo cammino della felicità. Dovremmo anzi dire che l’ultima frase “Ma ravvivar l’amore / Il pianto mio non può”, dal momento che avvia la successiva impennata della speranza (“E s’egli a me tornasse?”), va definita come negazione freudiana: tanto poco l’attività onirica è espressione grezza del desiderio, che conosce le più complesse interazioni tra inconscio e coscienza. Ma, prima che si chiuda la compatta elegia del dolore, è già avvenuto il fatto decisivo: nel cerchio solipsistico di Amina è entrato Elvino, non l’immagine sognata ma la persona fisica di Elvino, e su uno dei nuclei tematici dell’aria di Amina ha cantato: “No, più non reggo”. Molto a ragione Lippmann insiste sul fatto che l’inserzione della frase di Elvino nell’aria fu una scelta di Bellini, correttiva del libretto che collocava la stessa frase all’inizio del successivo recitativo (dove in effetti sta ancora, ripetuta), perché significa rivendicare alla volontà compositiva determinante non solo il momento di massima commozione, ma il vertice dell’azione drammatica. E a questo punto infatti che avviene in maniera primaria il ricongiungimento di Amina ed Elvino, che ora cantano in parole diverse lo stesso fecondo dolore (esattamente al contrario di ciò che avveniva nel finale del primo atto). Il linguaggio della musica esprime con la sua illimitata ricchezza figurale ciò che in termini di comportamento avverrà subito dopo: Elvino si avvicina ad Amina, che ancora sognando 50 riceve da lui l’anello e gli rivolge le parole, già citate prima, che potremmo considerare una celebrazione laica del matrimonio (“Ancor son tua, tu sempre mio” — appena sarà da notare come questa nuova fioritura di felicità sognata conservi, attraverso il termine “ancor”, l’impronta della memoria). Poi anche Teresa si avvicina ad Amina, e solo dopo Rodolfo decreta: “De’ suoi diletti in seno/ Ella si desti”. Lo scioglimento dunque avviene in sogno e dopo il risveglio è soltanto ratificato. L’interattività tra la persona che sogna e gli altri è garantita nello statuto del sonnambulismo quale pedantescamente lo traccia Rodolfo (“V’han certuni che dormendo / Vanno intorno come desti, / Favellando, rispondendo / Come vengono richiesti”), ma ben altro è naturalmente il suo senso e il suo messaggio. Il sogno determina la realtà esterna e stabilisce ciò che per essa ha valore di verità. “Seconda il suo pensier”, dice Rodolfo a Elvino come si potrebbe dire davanti a una devianza mentale: ma ciò che Elvino compie per “secondare” le imperative richieste del sogno di Amina, è la sostanza della propria autentica volontà, che già una volta si era manifestata nella consegna solenne di quello stesso anello, e successivamente era stata pervertita dalla stupidità e dalla cecità che imperversano nei rapporti umani. Anche l’alternativa tra onnipotenza e impotenza è risolta in senso solarmente affermativo, ma non senza attraversare, con un ultimo tenero brivido, l’uscita dal sonno, che resta nonostante tutto problematica. Le prime reazioni di Amina svegliata non sono differenti dall’altro e terribile risveglio (“Dove son io? che veggo?” versus “Dove son? chi siete voi?”), ma il disagio che accompagna il recupero dell’identità razionale esprime una commovente preghiera: “Ah... per pietade... / Non mi svegliate voi”. Amina crede di sognare ancora, anzi di sognare di sognare, perché solo un sogno di secondo grado consente una valutazione del sogno quale è implicita nella sua frase. Ed è una valutazione ambivalente, perché implica insieme appassionato coinvolgimento e coscienza della sua inanità, certezza che i sogni non possono resistere al risveglio. 51 Invece proprio questo avviene, e il paradossale primato dell’interiorità chiude in forme scintillanti la certezza che essa, rielaborando e rappresentando sul suo palcoscenico i contenuti dell’angoscia, possa vincerla o almeno esorcizzarla. Esattamente come la esorcizza l’istituzione teatrale. Ma La Sonnambula non è anche uno stucchevole idillio, una regressione verso l’infantilismo arcadico, una nostalgia di primitività nutrita di false coscienze e ancorata alla angusta contentezza di sé che Friedrich Nietzsche bollava a fuoco con parole come “trastullamento fantasticamente balordo”? In tutta franchezza, io non credo si possa negare che sia in parte anche questo, ma mi pare necessario determinare correttamente il profilo e l’estensione di questa parte, e soprattutto la sua funzionalità rispetto a quella che ci è apparsa la tematica centrale. Come sempre, il mito dell’Arcadia si nutre di due nuclei simbolici: la bellezza della natura intesa come “paesaggio spirituale” e l’interesse per la condizione umana che convenzionalmente si reputa vicina all’elementarità della natura, perché priva delle complicazioni e mediazioni della cultura. Sul primo punto, l’ambientazione paesaggistica della Sonnambula è ispirata a una gentile sobrietà, priva di insistenze oleografiche. Si pensi alla tenuità dell’accompagnamento orchestrale che illustra le parole di Teresa “il sol tramonta”, riproducendo il suono delle cornamuse. Lo spazio della descrizione naturale è ristrettissimo, rispetto per esempio al Guglielmo Tell (naturalmente, non perché il Guglielmo Tell sia a sua volta una “pastorelleria”: ma là l’indugio sui temi naturistici è funzionale a una struttura che oppone il libero respiro dell’uomo sulla terra alla tirannia cupa e tempestosa). Ma, soprattutto, nella Sonnambula il valore simbolico dell’ambientazione naturale non consiste nel fatto che la serenità del mondo determini nell’animo umano la “tranquilla giocondità”, ancora per usare le parole di Nietzsche, bensì l’iter è quello opposto: la dimensione interiore informa di sé i contorni del mondo esterno. Così dice Amina nell’aria di entrata: 52 Come per me sereno Oggi rinacque il dì! Come il terren fiorì Più bello e ameno! Mai di più lieto aspetto Natura non brillò: Amor la colorò Del mio diletto. E ancora, in risposta alla gelosia di Elvino: Son, mio bene, del zefiro amante Perché ad esso il tuo nome confido; Amo il sol, perché teco il divido, Amo il rio, perché l’onda ti dà. Al di là dell’insistenza tematica, sta alla vicenda successiva, come ben sappiamo, avvalorare questa gerarchia. è invece sul versante antropologico di questa Arcadia che si verifica lo scadimento. Sono stati infatti fortemente banalizzati ambedue i termini dell’opposizione città-campagna in cui essa si orienta. La peculiarità contadina pertinentizzata è fondamentalmente l’ingenuità, intesa in senso negativo come incapacità di comprensione razionale e proclività a farsi ingannare dalle apparenze: lo sdoppiamento del tema del sonnambulismo consente di presentare due versanti simmetrici di questo atteggiamento, credere il falso e disconoscere il vero. I paesani sono convinti dell’esistenza reale del fantasma e non credono alla smitizzazione di Rodolfo (“Ve la dipinge, ve la figura / La vostra cieca credulità”), opponendogli che “non è fola”. Tutt’al contrario, è fola per loro la spiegazione dell’innocenza di Amina data dal Conte (“A tai fole non crediamo: / Un che dorme e che cammina! / No, non è, non si può dar”). Questo secondo aspetto della loro ottusità è più insistito perché drammaturgicamente più rilevante, ed anche perché più sapidamente ironico: qui infatti la loro ignoranza riposa sulla 53 La sonnambula, foto di scena presunzione di un giudizio razionalistico. Ancor maggiore rilievo gli è conferito dal fatto che l’ottusità entra in conflitto con i valori di lealismo cieco nei confronti dell’autorità (Baldacci ha parlato di sanfedismo), che trascorre largamente per il villaggio, raggiungendo il culmine nel coro iniziale del secondo atto e nella successiva entrata: “Buone nuove! / Dice il Conte ch’ella è onesta, / Ch’è innocente, e a noi già muove”. Ma neanche questa acquiescenza bonacciona basta a fare accettare ai paesani lo scandalo della verità. Bisognerà tenere il massimo conto del fatto che questa sordità e refrattarietà del milieu era drammaturgicamente e simbolicamente necessaria all’azione. Senza i pregiudizi e la miopia del villaggio, non si sarebbe creata o si sarebbe anonimamente risolta la crisi. Ciò che più importa, la distanza tra Amina e la comunità cui appartiene consente l’isolamento della protagonista sia nel senso dell’astrazione che in quello dell’emarginazione, e sappiamo quanto l’uno e l’altro contribuiscano alla semantica dell’opera. Peraltro, la distanza è risultata eccessiva. Eccessiva almeno per il fatto di non essere illuminata dalla luce coerente dell’ironia; al contrario, bisogna confessare che il comico affiorante nella Sonnambula è per lo più involontario, richiedendosi che tra Amina e i suoi compaesani si presupponga una corrente di affettività e di solidarietà emotiva. Ma se Amina, a differenza di Lucia e di Elvira, ha come prima immagine delle sue nozze l’affetto collettivo (“Oh come lieto è il popolo / Che al tempio ne fa scorta!”), i suoi compaesani la ricambiano di buona volontà inconcludente, fatua, volubile. Il guasto peggiore si è ripercosso nella costruzione del personaggio di Elvino, cui vengono messe in bocca parole, melodie, atteggiamenti della maggiore intensità e nobiltà, e alcune delle arie tenorili più belle che si conoscano. Ciò in base al teorema melodrammatico per cui la coppia solidale in atto o in prospettiva condivide lo steso livello di nobiltà e di profondità espressiva. D’altro canto, non è la sola incredulità, strutturalmente necessaria, che omologa Elvino al piccolo mondo paesano, piccolo nella superficialità emotiva 54 55 non meno che nella limitatezza culturale e intellettuale. Lo vediamo infatti uscire di scena (“disperato”, sottolinea la didascalia) dopo la splendida melodia di “Ah! perché non posso odiarti”, e rientrarvi sposo promesso di Lisa e addirittura rievocare “il bel nodo che pria”. Dal punto di vista della legittimità psicologica, la ripicca può essere atto “disperato”o se vogliamo anche tragico; tuttavia il testo drammatico e musicale non attiva le contraddizioni potenziali della situazione, e di fatto si limita ad approfittare del cambio di scena per far passare sotto silenzio l’incoerenza, che non è di comportamenti, ma di livelli emotivi e dunque stilistici. Nella stessa superficialità è più gravemente coinvolto il Conte, degna controparte cittadina e illuministica dell’ignoranza paesana. In questo caso, tuttavia, si scorge più chiaramente l’origine delle distonie compositive del travagliato processo redazionale per cui originariamente Rodolfo doveva essere il padre dell’orfanella Amina, riconosciuto alla fine per il perfezionamento del tripudio universale. Poiché questa soluzione è stata scartata, il personaggio di Rodolfo ha sofferto di un calo di motivazione. Uno dei risultati è stato quello di trasformare l’impegno affettivo della paternalità in paternalismo, che si ritrova altresì a essere da sempre la pecca caratteristica del cittadino verso la campagna; così vediamo Rodolfo alternare due atteggiamenti complementari: da un lato, una noiosa superiorità didascalica, appena salvata dall’utilità della funzione registica da lui esercitata nel finale, dall’altro uno slancio ammirativo verso il mondo altro. Esso ha però appena il tempo di manifestarsi nelle forme leopardiane di “Vi ravviso, o luoghi ameni ” — un’aria approfondita peraltro dal fascino di un mistero inesistente — che precipita nel crasso compiacimento borghese, idolo polemico di Nietzsche: Quella giovine sposa È assai leggiadra, e quella cara ostessa È un po’ ritrosa, ma mi piace anch’essa. A parte il fatto che di Lisa lo spettatore ha avuto tutt’altra impressione, la conclusione della climax nella lode indistinta della bellezza femminile confina il mancato padre nello statuto volgare del libertino di provincia; come se, non avendo una reale consistenza di personaggio, fosse stato adattato a giustificare l’immagine che gli altri si formano di lui. Non lo nobilita neppure il conflitto intimo per cui in presenza di Amina sonnambula, prima dibatte, poi nega, poi afferma, poi definitivamente respinge il desiderio di approfittare di lei; il monologo spezzato in cui queste alternative si presentano è troppo evidentemente subalterno, come ho detto prima, al discorso di Amina. Comunque sia, rinunciare all’agnizione del padre è stata da parte di Bellini un’invenzione felicissima; in tal modo è stata salvaguardata alla vicenda emotiva di Amina quella semplicità che non ha nulla a che fare con l’ingenuità laccata dei pastori, ed è invece rigorosa purità dell’amore e del dolore visti come componenti essenziali dell’animo umano. (da G. Paduano, Il giro di vite. Percorsi dell’opera lirica, Firenze, La Nuova Italia, 1992) Davver non mi dispiace D’essermi qui fermato: il luogo è ameno, L’aria eccellente, gli uomini cortesi, Amabili le donne oltre ogni cosa. 56 57 VISTO DA LONTANO PASSEGGIATINA SONNAMBOLICA di Pierre Enckell Verso i quattro o cinque anni il piccolo Mathieu, che non ha mai dato preoccupazioni ai genitori ed è un bambino facile e simpatico, comincia ad avere incubi terrificanti che di notte gli strappano forti urla. Occorre balzare giù dal letto e provare a calmarlo, farlo riaddormentare, fugare le misteriose visioni che lo terrorizzano. La cosa può verificarsi diverse notti di seguito, e talvolta persino più volte a notte. La mattina i genitori, ancora turbati dal loro spavento notturno, constatano che Mathieu è come al solito sorridente e rilassato, e non serba il minimo ricordo degli eventi. Qualche tempo dopo, svegliati da pianti, scoprono Mathieu fuori dal letto, in piedi in un angolo della sua stanza, mentre tenta, così pare, di proseguire il proprio cammino attraverso il muro. Il bambino non si lascia distogliere facilmente da quel tentativo di progressione ostinata. Sconvolti, i genitori scoprono che Mathieu è sonnambulo. (Loro dicono: “È sonnambulo” come se dicessero: “È daltonico” oppure “È mancino”.) Come fare per mettere fine a quelle manifestazioni sconcertanti? Cambiare regime alimentare? Somministrare blandi tranquillanti la sera? Orientare diversamente il letto? Niente ha effetto. A qualche settimana di calma può succedere una nuova serie di notti agitate. “Deve interiorizzare le proprie angosce”, si dicono i genitori, che possiedono qualche nozione di psicologia. Sì, ma quali? Nessun segnale evidente è presente nella vita da sveglio del bambino. Consultata, la psicologa scolastica si diffonde in generalità, ma non propone alcuna soluzione. Una notte Mathieu si ritrova, tutto tremante, sul balcone. I genitori si prendono un bello spavento. Portano il figlio da un vero specialista, a cui raccontano l’intera sequenza di paure. Il dottore li ascolta, a capo chino. Poi, in tono lievemente sospettoso, chiede loro: “Ma perché volete che la cosa finisca?” Stizziti, disorientati, i genitori escono dallo studio medico insieme a Mathieu, il quale non ha capito granché di quella visita, ma si mostra, come sempre, docile e di buonumore. Soltanto dopo ripensano alla domanda del dottore. È il loro benessere a essere sconvolto da quei terrori notturni, non quello 59 di Mathieu. Anzi, forse è proprio il contrario. Se lo sfogo notturno, di cui Mathieu non ricorda mai nulla al risveglio, servisse proprio a garantire l’equilibrio e il buon carattere del bambino? Che si tratti del modo più facile e indolore che abbiamo di liberarci di quanto ci turba? Un giorno, tempo dopo, i genitori si sono detti: “Ma vedi, è da un po’ che Mathieu non ha incubi.” Qualche altra manifestazione spettacolare di sonnambulismo c’è anche stata; poi, però, più niente. Mathieu è cresciuto. L’ho incontrato; è un ragazzino sano, allegro, accomodante. I suoi genitori mi hanno raccontato, sorridendo a metà, le loro paure passate. Mathieu li stava a sentire con aria divertita, come se la storia riguardasse qualcun altro. Il sonnambulo è assolutamente innocente Al pari dello stato ipnotico cui assomiglia, il sonnambulismo colpisce molto più i testimoni che il soggetto interessato. È dall’esterno, infatti, che ci vengono racconti, paure, stupori. Il sonnambulo è assolutamente innocente. Se mai esiste nocività, questa è provocata, come nell’opera di Bellini, dall’ambiente che lo circonda. Strana malattia il sonnambulismo: ha effetti su coloro che non ne sono affetti! Eppure è così. Nelle storie di sonnambulismo la drammatizzazione sopraggiunge per intervento di terzi (qualcuno sveglia il dormiente che cammina in mirabile equilibrio lungo una grondaia, facendolo precipitare), oppure per un difetto di diagnosi (qualcuno interpreta gli atti del dormiente come se fossero compiuti da svegli). Di fronte agli automatismi inconsapevoli del sonnambulo, loro mettono in atto lucidità superiore e giudizio ponderato… fallendo miseramente. La domanda apparentemente paradossale del medico di poc’anzi aveva una giustificazione. Secondo le migliori fonti, la parola sonnambulo è apparsa per la prima volta nel 1688, nel numero di ottobre della rivista “Nouvelles de la République des Lettres”. Dare un nome significa cominciare a capire. Forse da sempre uomini e donne hanno camminato nel sonno e fatto strani discorsi; 60 molto probabilmente tali comportamenti venivano spiegati ricorrendo a cause sovrannaturali, spiriti malefici, doni misteriosi, possessioni divine o diaboliche: ancora una volta, casi di giudizi difettosi. Verso la fine del XVII secolo, tuttavia, si rinuncia gradualmente a bruciare le streghe e ci si rende conto che il sonnambulismo non dipende né da Dio, né dal diavolo. Questo contribuisce a renderlo banale. Pochi decenni dopo, eccolo apparire su un palcoscenico di Parigi. Commedia in un atto, Il sonnambulo viene rappresentato alla ComédieFrançaise a partire dal 19 gennaio 1739. C’è divergenza d’opinioni circa l’identità dell’autore: vengono citati il conte di Pont-de-Veyle, il conte di Caylus e un tale Sollé, segretario del conte di Maurepas; ciononostante, l’opera è stata scritta senz’altro in un ambiente di grandi signori in qualche misura libertini, amanti dello scherzo. Si tratta di un’opera deliziosa, scrive il cavaliere di Mouhy, “il cui personaggio principale è divertentissimo”. Per Mme de Graffigny “si tratta di una farsa stravagante in cui accadono cose divertenti”. Una storia di equivoci, insomma, senza alcuna evocazione di potenze sovrannaturali. Ecco che nasce l’interpretazione comica del sonnambulismo, interpretazione che si perpetuerà fino ai giorni nostri grazie ai vignettisti, i quali rappresentano personaggi in camicia da notte, occhi chiusi e braccia protese. Un ecclesiastico sonnambulo Le prime osservazioni cliniche risalgono alla stessa epoca. Tra queste spicca quella di un uomo di Chiesa, che apparentemente non credeva alle forze del male. La si trova nell’Encyclopédie di Diderot: L’arcivescovo di Bordeaux mi ha raccontato che, all’epoca in cui si trovava in seminario, aveva incontrato un giovane ecclesiastico sonnambulo. Curioso di conoscere la natura di quella malattia, tutte le sere si recava nella sua stanza non appena questi si addormentava. Una notte, in pieno inverno, il giovane immaginò di passeggiare in riva a un fiume 61 e di vedere un bambino caderci dentro rischiando di annegare. Il giovane si lancia prontamente sul suo letto, nella postura di chi è intento a nuotare. Del nuotatore imita tutti i movimenti e, dopo essersi fiaccato un po’ con questo esercizio, in un angolo del letto sente l’ingombro di una coperta, crede che sia il bambino, con una mano lo afferra e con l’altra torna a nuoto sulla sponda del presunto fiume; lì posa l’involto ed esce dall’acqua tremando e battendo i denti, quasi uscisse davvero da un fiume gelato. Agli astanti dice che sta gelando e che è lì lì per morire di freddo, che ha tutto il sangue ghiacciato; chiede un bicchiere di acquavite per scaldarsi; in mancanza di quella, i presenti gli danno l’acqua che si trovava nella stanza; lui la assaggia, si rende conto dell’inganno e chiede con maggiore insistenza un po’ di acquavite, facendo notare il grande pericolo che corre; gli viene portato un bicchiere di liquore; lui lo beve con piacere e dice di provare grande sollievo. Ciononostante non si sveglia, si rimette a letto e riprende a dormire più calmo di prima. Stando sempre al vescovo, il giovane in questione sembra essere uno dei primi ad aver praticato una certa forma di scrittura automatica. L’ecclesiastico si alzava, prendeva un po’ di carta, ideava e scriveva sermoni. Finita una pagina, la rileggeva ad alta voce dall’inizio alla fine (se così si può chiamare un’azione fatta senza l’ausilio degli occhi). Se c’era qualcosa che non gli piaceva, la cancellava e ci scriveva sopra le correzioni con molta oculatezza. Ho visto con i miei occhi l’inizio di un sermone scritto nel sonno: mi è parso organizzato piuttosto bene e scritto correttamente. È facile constatare che siamo ancora lontani dai surrealisti le 62 cui composizioni automatiche avevano ben altro carattere: l’inconscio, evidentemente, è strettamente connesso al contesto storico e culturale. O forse l’arcivescovo abbelliva leggermente i fatti? Di pertinenza medica Nonostante tutto, poco tempo dopo il sonnambulismo acquista una dimensione nuova. Un medico tedesco, Franz Anton Mesmer (Mozart l’ha conosciuto quando questi esercitava a Vienna) arriva a Parigi con una teoria magnetica che fa subito furore. Avvalendosi di una messinscena elaborata, Mesmer induce nei pazienti trance o accessi di sonnambulismo destinati a guarirli dai mali più svariati (dalla cecità all’iperattività della milza). L’intera Parigi si appassiona a Mesmer, alle sue tinozze magnetiche e alle sue stanze imbottite. Forse si tratta di un fluido misterioso che agisce, magari qualcosa di simile all’elettricità i cui effetti, per l’appunto, gli scienziati francesi indagano proprio in quegli anni; oppure è qualcosa di paragonabile alla forza che fa salire in cielo le mongolfiere, anche quelle contemporanee di Mesmer? La terapia dell’ipnosi, come diremmo noi oggi, è aspramente combattuta dai medici del tempo. Vero è che sui suoi effetti si narrano storie straordinarie: coloro che vi si sono sottoposti vedono attraverso i muri, comunicano a distanza, entrano in contatto con il mondo dei morti… Viene nominata una commissione scientifica (tra i cui membri figurano Lavoisier, Benjamin Franklin e il dottor Guillotin, prossimo a diventare celebre per qualcos’altro); la commissione giunge alla conclusione, razionale, che il fluido mesmerico non esiste. La cosa non convince i sostenitori del mesmerismo (o del “magnetismo animale”), destinati ad avere numerosi successori. Il sonnambulismo, però, è ormai diventato di pertinenza medica. Nelle opere di Ippocrate (De morbo sacro), Aristotele, Diogene Laerzio si cercano esempi antichi che giustifichino tale studio; si analizzano casi; si propongono teorie. Gli italiani sembrano particolarmente interessati all’argomento: verso la fine del XVIII secolo e 63 l’inizio del XIX, la bibliografia comprende i nomi di Muratori, Soave, Porati, Pigatti, Reghellini. In Francia è Alexandre Bertrand (1795-1831), dottore della Facoltà di Medicina di Parigi ed ex allievo dell’École Polytechnique, a pubblicare nel 1823 un ampio Trattato di sonnambulismo. Bertrand riconosce quattro specie: il sonnambulismo essenziale, “in individui che, peraltro, sembrano godere di un’ottima salute”; il sonnambulismo sintomatico, “nel decorso di alcune malattie di cui si può considerare il sintomo o la crisi”; il sonnambulismo artificiale, “nel trattamento del magnetismo animale”; il magnetismo estatico, infine, “contagioso per imitazione, in tutte le persone sottoposte allo stesso influsso”. Storie inverosimili Nel suo libro ci sono storie straordinarie come quella di Mlle Adélaïde Lef… che, all’età di diciannove anni, precipita in uno stato di eccessiva debolezza inframmezzato da accessi di mania. Si rotolava su se stessa come un cilindro, si stringeva e torceva le membra, imitava il verso di numerosi animali, tentava di strappare tutto ciò che la circondava, saliva con agilità fino a grandi altezze, recitava svariati brani poetici che non aveva mai affidato alla propria memoria e, una volta terminato l’accesso, non serbava alcuna idea di quanto aveva fatto. Dal canto suo Mlle Julie, anche lei affetta da fenomeni straordinari, inizia a fare profezie, a indicare la terapia da seguire (sanguisughe) e a conversare, da addormentata, con il proprio medico curante: IO – Devo scrivere ciò che dice? LEI – L’hai già scritto. IO – Dove l’ho scritto? LEI – Sul mobiletto di tua moglie, nella stanza accanto. IO – Quante righe sono? 64 LEI – Due paragrafi: il primo di sedici righi e mezzo, il secondo di quindici e mezzo. Il medico va a cercare il foglio, conta i righi e constata con stupore che Mlle Julie ha detto la verità. IO – Come fa a sapere tutto ciò? LEI – Una voce interiore me lo dice qui [La fanciulla indicava il proprio stomaco]. Nessun compositore ha scelto Adélaïde o Mlle Julie come protagoniste della sue opere, ed è senz’altro un peccato: è facile immaginare il vantaggio che si trarrebbe da queste osservazioni cliniche. Tuttavia i trattati medici non rappresentano la lettura preferita dei librettisti, i quali preferiscono le opere teatrali. Quella su cui si è basato Romani, librettista di Bellini, è La sonnambula, commedia in due atti di Scribe e Delavigne, rappresentata per la prima volta al Théâtre du Vaudeville nel 1819. La storia è un po’ sciocca e molto francese. Il signor Dormeuil vuol far sposare la figlia Cécile a Frédéric. Cécile è una figlia ubbidiente ma, durante il sonno, va a trovare Gustave, davanti al quale recita un dolente monologo: “Cécile è molto infelice!... È finita… Sono sposata…”, facendo capire a Gustave che è lui che ama. Nell’andar via, dimentica un fazzoletto. Piccolo equivoco. Frédéric finisce col capire la situazione e offre la propria fidanzata a Gustave, il quale risponde: “Ah, amico mio! Come riuscirò mai a mostrarti riconoscenza per il tuo generoso sacrificio?” Bisogna supporre, per la felicità della coppia, che il matrimonio metterà fine alle visite notturne di Cécile agli uomini: conclusione implicita che vale anche per l’Amina dell’opera. Quanto alla povera Mlle Adélaïde, di cui abbiamo evocato poc’anzi le stravaganze, guarì grazie a quattordici bagni di mare – seguiti da un matrimonio. E se in fondo fosse servita davvero da modella ai drammaturghi? (P. Enckell, Petite promenade somnambulique, pubblicato su “L’Avant-Scène Opéra”, n. 178, 1 luglio 1997, trad. Ida Porfido) 65 La sonnambula, foto di scena QUARTA PARETE la sonnambula che è una bambola... di Gianfranco Capitta Come ogni pietra preziosa, anche La Sonnambula può assumere facce molto diverse a seconda della prospettiva da cui la si guardi. È una fiaba certo, incantevole e dolce, che dopo qualche piccolo brivido di paura concede un happy end impagabile. Ma è anche una storia inquietante: usando la voga molto romantica della responsabilità tra sonno e veglia, ci porta nel mistero delle azioni di cui rispondere, della volontà, dell’inconscio. Manca più di mezzo secolo ancora all’inizio degli studi attorno alla psicanalisi, ma l’immaginario dei lettori e degli spettatori, al passaggio tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, si è già turbato tra il sogno e la veglia, in cui hanno compiuto gesti decisivi personaggi come Il Principe di Homburg e la Marchesa von O…, due protagonisti di narrazioni di Heinrich von Kleist che ancora ci affascinano e ci dividono. Perché nessuno dei due si pente, né rinnega, quello che ha fatto nel sogno, sia esso un figlio o un attacco sbagliato sul campo di battaglia (seppur rivelatosi poi vittorioso per tutta la guerra): sa e ribadisce però di averlo fatto “fuori” della propria coscienza. E restano tra le storie più affascinanti della letteratura di tutti i tempi. Come se fossero sonnambuli appunto. E riuscissero a vivere con totale pienezza le azioni compiute col cuore, appena ‘mascherato’ dal sonno. Una condizione che nel ‘900 si è in qualche modo ‘degradata’ nei baracconi circensi in cui incauti spettatori si prestavano ad essere ipnotizzati da ‘maghi’ spregiudicati e senza scrupoli che davano comandi ai malcapitati, con o senza complici compiacenti. E vengono in mente Eduardo De Filippo con il suo Sik Sik, e l’ironia dolceamara di Federico Fellini, la cui Cabiria (indimenticabile Giulietta Masina) addirittura si innamora del suo Oscar da avanspettacolo, assurto, in giacca di lamé e aria furbesca, a protagonista delle sue omonime e malinconiche Notti. Che finiscono poi col rosicchiare una coscia di pollo nascosta nel bagno dell’abitazione di lui. Il cinema americano invece, sempre tentato dalla ‘magìa’ in celluloide di misteri e fantasmi, ha usato diverse volte il 66 GUARDARE Storico il film in bianco e nero diretto da Mario Lanfranchi e prodotto dalla VAI DVD nel 1956. Nel cast Anna Moffo, Danilo Veda e Plinio Clabassi. Bruno Bartoletti conduce orchestra e coro della RAI di Milano. Tra le videoregistrazioni più recenti di spettacoli live da non trascurare sono: la coproduzione RAI – Maggio Musicale Fiorentino con la direzione di Daniel Oren ed Eva Mei nel ruolo della protagonista (TDK DVWW, 2004); la rappresentazione newyorkese del Metropolitan diretta da Evelino Pidò con Natalie Dessay e Juan Diego Florez (Decca, 2010); la produzione del Teatro Lirico di Cagliari 67 La sonnambula, foto di scena sonnambulismo in memorabili ‘bianco&nero’ anni Quaranta e Cinquanta. I film, fino ai primi anni Sessanta, sono pieni di sognanti fanciulle dai capelli dorati, che amano e fremono in una condizione di vera trance, almeno cinematografica. Corrispettivo molto feuilleton (e talvolta stucchevole) di quella condizione di “ebetudine stuporosa” in cui prende corpo una situazione patologica di disagio. Come ci ha insegnato Ernesto De Martino dalle sue spedizioni in terra di Puglia, le persone morse dalla taranta sui campi, assumevano quell’atteggiamento di assenza preparandosi alle crisi terapeutiche di sfrenata danza, la notte di san Paolo che di tarante e scorpioni è sempre stato il protettore nella devozione e nell’iconografia cattoliche. Son tutti tasselli diversi, di differente rilevanza e ovviamente autonomi, delle visioni che il sonnambulismo evoca e stimola nel nostro immaginario. La Sonnambula è invece una favola lieve, anche se Bellini e il suo grande librettista Felice Romani dovettero attutire i toni di certi incontri troppo ravvicinati, dove poteva ardere un sulfureo odore di incesto tra l’ingenua Amina e il conte che si rivelerà suo stretto parente. Ma grazie anche alla sicurezza drammaturgica del testo originario (un vaudeville prima divenuto poi una trama coreografica) opera del mestiere affilato di Eugène Scribe e Germaine Delavigne, la favola dell’opera di Bellini è un carillon di delizie, che diventano pagine musicali robuste e indimenticabili, prendendosi il peso e il merito delle volute del racconto. Un racconto ben articolato e complesso, per il quale la regia di Giorgio Barberio Corsetti ha preparato (assieme a Cristian Taraborrelli) scenografie essenziali quanto prodigiose, che permettono all’ambiente di triplicarsi restando identico. Unica differenza la scala di grandezza di quel mobilio: quando sarà minima sarà agita da pupazzi, quando normale sarà locanda, quando gigante costituirà e sostituirà le montagne svizzere (quelle che per Bellini erano davvero “l’altro mondo”). 68 con la regia di Hugo de Ana e un ottimo cast vocale (Simone Alaimo, Eglise Gutierrez, Antonino Siragusa) le cui proiezioni visive sono un tributo a Luchino Visconti (Dynamic, 2008). La passione per La Sonnambula del sommo regista milanese si espresse anche nella citazione delle sue arie in capolavori del cinema come La terra trema (1948) e Il Gattopardo (1962). A proposito di cinema, degno di nota è anche l’omonimo film in bianco e nero di Piero Ballerini (1942) che riconduce la genesi de La Sonnambula alla storia d’amore tra Bellini e Giuditta Turina, per l’appunto sonnambula. 69 Robert Fleury, Il dottor Philippe Pinel a la Salpêtrière, 1878 VISIONI SPAZI DI TRANSITO di Stefania Aluigi Tra il Settecento e l’Ottocento all’interno della comunità medica europea si diffuse uno spiccato interesse verso il mesmerismo, il metodo di cura delle malattie studiato da Anton Mesmer che si basava sullo studio del “magnetismo” di minerali e viventi, vale a dire la presenza in ogni essere di un fluido vitale capace di determinare influenze notevoli. Più nel dettaglio, seguendo la teoria di Paracelso, riuscendo a indurre il sonno profondo con l’utilizzo di ferri magnetizzati, teorizzò la presenza di uno spirito vitale capace di sprigionarsi dalle mani e dagli occhi. Così l’ipnotismo e altri episodi di dissociazione della personalità divennero fenomeni che occuparono un’altissima percentuale delle pubblicazioni scientifiche della prima metà dell’Ottocento. Sia la catalessi che il sonnambulismo erano considerate forme di “isteria“ e venivano curate con rimedi che prevedevano l’uso di flussi magnetici. La Salpêtrière, costruita per volere di Luigi XIV allo scopo di eliminare dalla vista il degrado dalla città, contava ai tempi della Rivoluzione 8000 donne di cui molte affette da malattie mentali e tenute alle catene. Fu grazie ai medici Pinel e Charcot che a metà Ottocento le pazienti furono liberate da quelle insalubri condizioni e curate secondo una terapia che tenesse in primo piano il recupero e il rispetto della persona. Il primo corso sulle malattie nervose fu molto seguito e qui a Parigi si riunirono studenti da tutta Europa per frequentare le lezioni di quella che sarà la moderna neurologia; lo stesso Sigmund Freud chiese una borsa di studio per poter assistere alle lezioni. Di notevole interesse sono le immagini di archivio del centro psichiatrico che documentano le attività svolte all’interno di questi spazi dove la sperimentazione volta alla cura dei pazienti si svolgeva di pari passo con la ricerca universitaria. La fisiologia del sonno era già stata al centro degli studi di Mesmer che, nel 1778, da Vienna si era rifugiato a Parigi dove però venne condannato dagli ambienti accademici 70 André Fleury, Una lezione clinica del Prof. Charchot a la Salpêtrière, 1890, particolare 71 Jenny Lind, La sonnambula, 1847 sia prima che dopo la Rivoluzione. Egli per primo osservò con continuità le sottili metamorfosi dei sensi durante il sonnambulismo artificiale o indotto e la natura complessa degli stati che agiscono al di sotto del livello della coscienza. Nel 1823 Alexandre Bertrand pubblicò a Parigi un trattato sul sonnambulismo dopo avere tenuto il suo primo corso pubblico di magnetismo. Erano oramai emerse con evidenza all’osservazione scientifica zone della psiche umana oscure e primitive, dirompenti e fuori dal controllo della sfera razionale. Nell’opera di Vincenzo Bellini, per la prima volta nella storia del melodramma, apparirà la figura archetipica della donna sonnambula. Il tema dell’inconscio e del subliminale percorrerà in parallelo sia l’iconografia ottocentesca che, in misura più laterale e accennata, la scena teatrale. L’aspetto piuttosto evidente di tale percorso è che sempre questi fenomeni siano stati sottilmente ricondotti all’universo femminile e difficilmente a quello maschile; come se gli spazi dell’altrove abitati dalla psiche irrequieta avessero trovato più ascolto nel corpo della donna. Qui la loro dimora. Osserviamo ora più da vicino come il processo di raffigurazione-specchiamento sia avvenuto e quali atmosfere dell’immaginario siano state evocate. Come ci ricorda l’antropologa Clara Gallino nel suo accurato saggio dedicato al sonnambulismo, l’inascoltato corpo della donna - quotidiano oggetto di controllo sociale – diventa oggetto di cura e sollecitudine, protagonista lui stesso di una vicenda salvifica. Ma non sarà mai un corpo liberato e completamente vissuto. Piuttosto, nel modello della sonnambula si inseguirà un’immagine di libertà impossibile nel reale, un sogno di evasione dal fardello della carne, per fuggire lontano in viaggi sempre più metafisici... 72 Joan Sutherland ne La Sonnambula, Teatro La Scala, 1962 Domestica magnetizzata, stampa d’epoca, Archivio iconografico del Verbano Cusio Il soprano svedese Jenny Lind nel ruolo di Amina, 1847, stampa d’epoca 73 Randolph Rogers, La sonnambula, 1863-64 Tale escamotage letterario va decodificato proprio in questa direzione: come modalità di possibile uscita dal modello di costume sociale convenzionale. In questo spazio di estasi, specie se ispirata dalla musica, la sonnambula si esprime in atteggiamenti sensuali, si lascia andare a gesti o comportamenti che sveglia eviterebbe accuratamente. Quando nel 1831 debuttò l’opera di Vincenzo Bellini, scritta durante un soggiorno nella oggi perduta villa Passalacqua di Montrasio, sulle rive del lago di Como, il pubblico del Teatro Carcano di Milano molto apprezzò lo spettacolo. Quando la dolce e delicata Amina, creatura diafana e sognante, appare in scena, tra il sonno e la veglia, come un bianco fantasma evocando il diletto sposo, ecco che il gioco tra realtà e irrealtà, tra vero e falso, si incarna nel tessuto del dramma. L’opera gioca su questa lateralità, in un breve passaggio apre le porte alla pazzia d’amore. Nel 1872 si terrà persino al Teatro Valle una serata dedicata agli esperimenti di magnetismo condotta da Francesco Guidi, poeta e librettista d’opera nonchè studioso di pratiche di ipnosi. Lo spazio teatrale ospita la messa in scena di uno ‘spettacolo’ tra scienza e medicina dove la protagonista è, ovviamente, una giovane fanciulla sonnambula; di lì a poco si susseguiranno analoghe performance pubbliche dedicate alle sperimentazioni di magnetismo. In Italia tali pratiche si diffusero attraverso la cultura popolare piuttosto che presso gli ambienti intellettuali e accademici. Le pazienti del dottor Charcot fotografate durante le loro crisi acute di isteria hanno raccontato il delicato aspetto della teatralità della sofferenza, che nella sua gestualità fatta di spasmi incontrollati trasforma il corpo della donna in oggetto depauperato e svilito, addirittura deformato. Nelle arti visive succederà l’opposto: qui, nella riproduzione dello stato di alienazione o di altri fenomeni di alterazioni psichiche, prevarrà l’adozione dell’estasi mistica come modello simbolico di rappresentazione. Alla donna viene Johann Heinrich Füssli, Lady Macbeth, 1784 Veduta di Villa Lucini Passalacqua, Montrasio, Como, cartolina d’epoca John Everett Millais, La Sonnambula, 1881 75 Joan Sutherland, La sonnambula, 1963 restituito il suo status di essere contemplativo e ascetico in linea con il repertorio iconografico di natura religiosa. Le rappresentazioni pittoriche che riprendono la figura della donna in stato di sonnambulismo potrebbero essere annunciate in maniera eloquente dal quadro di Füssli del 1784 che ritrae Lady Macbeth, altro esempio di eroina in stato di visione. Impossibile non soffermare il nostro sguardo anche sui suoi due quadri più celebri e studiati, L’incubo e Il silenzio, che esprimono entrambi le connessioni con le sfere simboliche dell’inconscio. Il materiale magmatico e misterioso del sogno e della sofferenza psichica tenta di aprirsi un suo spazio moderno di rappresentazione, il non-detto cerca un accenno sul piano estetico. La statua assorta scolpita da Rogers un secolo dopo, al contrario, si sofferma sulla delicatezza dell’incarnato femminile che rivolge lo sguardo a terra come se l’altrove ci sfuggisse per sempre e non potesse essere visibile. Il richiamo alla plasticità classica è evidente: in modo particolare all’Ermafrodito dormiente conservato a Parigi e alla testa di Hypnos, dio del sonno, ora a Roma. Nel 1881 il pittore inglese John Everett Millais, in pieno clima preraffaellita, dipinge un quadro, a tratti misterioso ed inquietante, di una giovane donna in stato di sonnambulismo. La figura, vestita di una tunica bianca, con lo sguardo fisso e sfuggente, percorre a piedi nudi un sentiero che costeggia il mare. L’atmosfera in prossimità dell’alba circonda la creatura di un alone misterioso e la proietta oltre i confini della realtà. Il paesaggio che accoglie il suo esitante incedere è impalpabile e reale allo stesso tempo, quasi sospeso entro un’aura ultraterrena. Lo stesso artista, ricordiamolo, aveva ritratto la figura di Ofelia in uno dei dipinti più conosciuti e noti al pubblico. édouard Rosset-Granger ancora nel 1897 ci permette di concludere il nostro viaggio nell’immaginario legato al sonno e alla sua declinazione nella figura femminile. Nel suo 76 Hypnos, marmo di epoca romana, provenienza Tivoli 77 Ermafrodito dormiente, copia romana da un originale di epoca ellenistica, particolare dipinto il profilo della donna insonne appare da uno sfondo buio sorreggendo con la mano destra una lampada accesa finemente decorata; la sua luce fioca illumina un lembo della veste bianca che in quel punto preciso scivola sulla spalla. I profili notturni della mente, gli stati di semi-veglia hanno affascinato gli artisti di ogni tempo, ma è soprattutto tra Ottocento e i primi del Novecento che abbiamo visto profilarsi un’acuta esigenza di sondare le aree meno visibili del reale e di attraversare l’ombra e il mistero legati anche alla creazione artistica. Il corpo della sonnambula, nel suo segreto letargo, diviene così il teatro di una estasi simbolica che lascia intravedere il possibile, il volto altro dell’umano. La veglia diurna con la sua razionale visione del mondo accanto alla natura magmatica del materiale psichico che emerge dallo stato di trance del mondo notturno. Il tema dell’instabilità emotiva della donna, il suo dimorare in modo inconsueto e mobile il reale, hanno trovato così nella personificazione della sonnambula una trama simbolica perfetta. édouard Rosset-Granger, La sonnambula, 1897 78 79 La sonnambula, foto di scena FLATUS VOCIS I RUOLI VOCALI NE ‘LA Sonnambula’ di Federico Vizzaccaro “T’assicuro che Rubini e la Pasta sono due angioli che hanno entusiasmato quasi alla follia l’intiero pubblico”. Così Bellini scriveva all’amico Augusto Lamperi in una lettera del 21 marzo 1831, trascorse due settimane dalla prima rappresentazione della Sonnambula al Carcano di Milano. Per i ruoli principali, Elvino ed Amina, il compositore aveva affidato le parti a due dei cantanti più in voga del periodo, Giovanni Battista Rubini e Giuditta Pasta, una sorta di garanzia per il successo dell’opera. Quest’ultima creava per la prima volta un ruolo per Bellini (fallito il progetto per Ernani, poi fu anche Norma e Beatrice), mentre Rubini aveva già creato due ruoli importanti: Fernando (ovvero Gernando, nella prima versione) in Bianca e Fernando e Gualtiero nel Pirata. La Sonnambula, nona delle dodici opere composte dal musicista catanese, si colloca al centro del suo intero arco creativo. In essa il suo stile compositivo giunge alla completa maturazione, ottenendo la perfetta sintesi di effusione lirica e declamazione espressiva. Con questo dramma privato, di ambientazione idilliaco-pastorale, Bellini raggiunge infatti un livello più alto di unità e di coerenza del discorso drammatico, e approfondisce - per mezzo della musica - la psicologia dei personaggi e dei loro sentimenti. Dal punto di vista della vocalità, diversi studiosi e critici hanno posto in risalto due caratteristiche fondamentali di quest’opera: l’impiego del canto fiorito, superiore rispetto alle altre sue opere, ma inteso in modo diverso rispetto al belcanto di Rossini (senza sfoggio di acrobazie vocali, ma una coloratura sempre elegante e leggera); la predilezione per la parte mediana dell’estensione vocale nei recitativi e nelle forme chiuse, con canto spianato o sillabico. Giuditta Pasta ne era l’interprete ideale, e il ruolo fu creato pensando proprio alle abilità della cantante: una gamma espressiva completa, la voce ampia e scura, ricca di armonici, ma anche agile e capace di una tecnica portentosa (perfezionatasi con la pratica nelle parti virtuosistiche delle opere di Rossini). Lo stesso Bellini, in una lettera 81 del 1° settembre 1831, le aveva attribuito un “carattere enciclopedico”. Il ruolo di Amina, infatti, richiede particolari qualità tecniche e timbriche: la scrittura vocale da una parte impegna la gamma centrale dell’estensione sopranile, con melodie che si sviluppano per gradi congiunti e nelle quali i toni raggiungono apici opposti, dall’intensità malinconica alla leggerezza dell’entusiasmo; dall’altra richiede passaggi di agilità notevole, con fioriture ed ampi salti, e con linee melodiche che raggiungono la tessitura sovracuta. Quirino Principe descrive perfettamente l’essenza di questa dualità: Quella di Amina è la parte più accentuatamente melismatica che Bellini abbia composto per un soprano. […] Quel suo patrimonio di abilità così acquisito si fuse con l’idillico ruolo di “ingenua” a lei assegnato in Sonnambula, rendendola magistrale, per esempio, nei rapidi scatti ascendenti in relazione espressiva con le idee di palpito e sobbalzo esistenti nel moderato “Sovra il sen la man mi posa, palpitar, balzar lo senti” che segue l’andante cantabile iniziale della cavatina “Come per me sereno” (in La Sonnambula, Milano, Mursia, 1991, p. 89). Nella cabaletta della cavatina di Amina, con la sua notevole lunghezza e le generose coloriture, la voce della Pasta fu di certo valorizzata al massimo. È l’aria finale, però, che si colloca come punto culminante dell’opera; il cantabile è caratterizzato da una di quelle melodie “lunghe lunghe lunghe”, come le aveva definite Verdi una lettera del 1898, il cui incipit “Ah! non credea mirarti” fu poi inciso sulla tomba di Bellini. Quest’aria, con la sua cabaletta dall’effetto che Friedrich Lippmann ha definito di “gioia saltellante”, è divenuta poi un cavallo di battaglia per i soprani leggeri o di coloratura, travisando così il pensiero di Bellini: quando nel 1955 Maria Callas cantò per la prima volta la parte di Amina, come ha scritto sagacemente Rodolfo Celletti, “non si trattò di un esproprio ai danni dei soprani leggeri, ma d’una legittima riappropriazione” (La vocalità in Sonnambula, in La 82 Ascoltare Se vi fu una ‘Bellini Renaissance’ poco dopo la metà del secolo scorso la si deve non soltanto agli studi musicologici ma anche al sorgere di astri della lirica come Maria Callas, Montserrat Caballé e Joan Sutherland. Ne è pregevole testimonianza l’incisione live del debutto scaligero della Callas con la direzione di Leonard Bernstein e la regia di Luchino Visconti (Myto, 1955). Memorabile anche la registrazione in studio con la Sutherland e Luciano Pavarotti nel ruolo di Elvino, la direzione di Richard Bonynge, il London Opera Chorus e la National Philharmonic Orchestra (Decca, 1980). Tra le registrazioni più recenti si segnala: l’edizione Virgin Classics con una Natalie Dessay in splendida forma, un Francesco Meli dolcemente manierato e la flessibile direzione di Evelino Pidò alla guida Sonnambula, Milano, Teatro alla Scala - Mondadori, 1986, p. 45). Solo quando la parte fu interpretata dalla ‘Divina’, dunque, si ebbe la riunificazione delle due tipologie canore in un unico soprano definito “drammatico di agilità”. La scelta del primo interprete di Elvino si pone in perfetta analogia con quella della protagonista femminile. Giovanni Battista Rubini, in quel momento all’apice del successo, è considerato uno dei più celebri tenori del primo Ottocento. Voce chiara e brillante, lontana da quelle tinte baritonali che caratterizzavano i tenori dell’epoca, si innalzava facilmente verso il registro sovracuto ed era capace di attenuarsi, leggera ed elegante, nei momenti di più intenso lirismo. La parte di Elvino incontra difficoltà tecniche elevate, portandosi nella regione acuta, ad esempio, nel duetto “Son geloso del zefiro errante”; nell’aria del secondo atto, “Tutto è sciolto”, il tenore deve inoltre mantenere una vocalità tesa e concitata (anche qui con incursioni nel registro acuto). Parimenti ardua è la seguente cabaletta, tanto che nel 1834 Bellini ne modificò per lo stesso Rubini - la seconda parte (dove riprende il testo della prima strofa), abbassando la tonalità di un semitono. Anche le parti vocali dei ruoli comprimari presentano delle difficoltà notevoli dal punto di vista esecutivo, tanto che richiedono dei cantanti esperti: in particolare il ruolo di Lisa, per quanto fino alla metà del Novecento i teatri fossero restii a ingaggiare voci di prim’ordine (ne seguirono spesso tagli e semplificazioni della parte). A Lisa, personaggio brillante, sono infatti assegnate due arie con “da capo” piuttosto impegnative, con passaggi di agilità e un’estensione che giunge al Do sovracuto; la prima interprete dell’antagonista di Amina fu Elisa Taccani. Se la parte di Rodolfo è meno ostica dal punto di vista della tecnica vocale, il cantante che è chiamato ad interpretarla deva possedere doti di bravo attore e comprendere a fondo la forza espressiva del personaggio, al quale Bellini affida eleganti melodie che richiedono una vocalità calda. Per la ‘prima’ della Sonnambula fu ingaggiato un altro celebre cantante, il basso Luciano Mariani (aveva cantato come Oroe nella ‘prima’ assoluta della Semiramide di Rossini, e fu in di coro e orchestra dell’Opéra de Lyon (2006) e la singolare incisione con il mezzosoprano Cecilia Bartoli nel ruolo di Amina firmata dalla Decca a conclusione delle celebrazioni per il bicentenario dalla morte di Maria Malibran. Molte delle cadenze intonate dalla Bartoli infatti sono quelle della diva ottocentesca. Sul podio, Alessandro De Marchi. Orchestra La Scintilla di Zurigo (2008). 83 seguito anche il primo don Alfonzo in Lucrezia Borgia), anche se inizialmente Bellini aveva pensato a Filippo Galli, altro grande cantante, ma all’epoca già d’età avanzata. Tra gli altri interpreti della ‘prima’ si ricordano il mezzosoprano Felicita Baillou-Hilaret, che fu Teresa (la cui parte è molto presente nei concertati); il basso Lorenzo Biondi, nella parte di Alessio, ruolo rilevante soprattutto dal punto di vista drammaturgico; infine il tenore Antonio Crippa, che fu il Notaro. Il successo della Sonnambula è ben documentato dalle recensioni che seguirono la ‘prima’: un critico della “Gazzetta privilegiata” di Milano, ad esempio, scrisse: Una tinta di pastorale melodia, di quella melodia che va al cuore perché sentita, perché dal sentimento prod”otta e perché cantata con tutta l’espressione dell’animo, ecco a parere nostro i pregi di questa novella produzione. […] La Pasta e Rubini cantano certamente in modo ammirabile. Ma è nelle successive rappresentazioni che si stratificò e ratificò il consenso per l’opera che è divenuta uno dei capisaldi della storia del teatro in musica. Numerosi, infatti, gli allestimenti che già nel corso del secolo XIX contribuirono all’affermazione internazionale di questo melodramma, a partire dalla ‘prima’ – seppur contestata – alla Scala, nel 1834, che vide protagonisti Maria Malibran (Amina) e Antonio Poggi (Elvino). Fu uno degli episodi che accesero la mitica contesa tra la Pasta, in quel momento la più acclamata cantante dell’epoca, e la giovane cantante spagnola (la quale aveva già interpretato la medesima parte a Londra e a Bologna), astro nascente che ne minacciava il primato proprio sul suolo lombardo. In seguito, complice anche l’ambientazione bucolica, le interpretazioni dell’opera scivolarono man mano verso colori più sbiaditi e lo spessore vocale si alleggerì, condensandosi nelle regioni sonore più acute; tuttavia moltissimi sono gli allestimenti storici di particolare rilievo. Si ricordano (considerando solo i due ruoli principali): Rosalbina Carradori 84 Allan e Luigi Duprez (Firenze, 1832), Annetta Brambilla, sostituita poi da Santina Ferlotti Sangiorgi (Torino, 1836), Elisa Hoffmann e Italo Gardoni (Milano, 1843), Carlotta Marchisio e Antonio Giuglini (Milano, 1850, 1855 e 1860), Adelina Patti e Ernesto Nicolini (Milano, 1873). E nel secolo scorso: Toti Dal Monte e Enzo De Muro Lomanto (Firenze, 1932); Toti Dal Monte e Tito Schipa (Milano, 1935); Margherita Carosio e Ferruccio Tagliavini (Firenze, 1942). Nel 1955 si ebbe il già citato allestimento con Maria Callas e Cesare Valletti, diretti da Bernstein con la regìa di Visconti (la registrazione dell’evento è oggi disponibile anche in CD; con la Callas, oltre questa, esistono almeno altre tre incisioni in commercio). Giungendo a tempi più recenti si ricordano le interpretazioni di Renata Scotto con Nicola Monti (Milano, 1959) e poi con Alfredo Kraus (Venezia, 1961); lo stesso Kraus poi fu protagonista dell’opera con Joan Sutherland (Milano, 1962). Tra le interpreti di Amina si distinguono anche June Anderon, Rosetta Pizzo, Ileana Cotrubas, Cecilia Gasdia e Mariella Devia; Cesare Valletti, Nicolai Gedda, Nicola Monti, Luca Canonici come Elvino. Tutti straordinari interpreti, come sempre accade per le opere di repertorio, ma interpretazioni molto diverse, che certo risentono delle forti personalità di ognuna di queste grandi voci, oggi impresse nelle tante incisioni disponibili su disco e CD; qualche nome, invece, non è stato qui contemplato, e non a caso. Tra le ultime incisioni disponibili, infine, si segnalano altre due ‘coppie vocali’ interessanti: Cecilia Bartoli e Juan Diego Flórez (2008), e ancora quest’ultimo con Natalie Dessay (2009). Una menzione particolare per l’allestimento del 1980 con Joan Sutherland insieme a Luciano Pavarotti, Nicolai Ghiaurov, Isobel Buchanan e la intelligente direzione di Richard Bonyange, con la National Philharmonic Orchestra: la voce dal timbro ampio, lucente e duttile della Sutherland, con un legato perfetto nelle lunghe melodie belliniane, si fonde perfettamente con quella di Pavarotti, dolce e squillante insieme, combinazione di tecnica magistrale ed espressività intensa. 85 La sonnambula, foto di scena POLVERE D’ARCHIVIO LA SIGNORA PASTA di Stendhal Io cedo qui alla tentazione di fare il ritratto della Signora Pasta. Si può ben dire che non c’è al mondo impresa più difficile. Il linguaggio musicale è insolito e ingrato. Ad ogni momento vi mancano i termini adatti. E quand’anche avessi la fortuna di trovarne per esprimere il mio pensiero, forse presenterò al lettore un pensiero poco chiaro. D’altra parte non c’è un dilettante che non disponga di una frase fatta sulla Signora Pasta, e sarà malcontento di non trovarla qui. A confronto della giusta ammirazione che questa grande cantante ispira al pubblico, il lettore più benevolo troverà il suo ritratto scolorito, molto al di sotto di ciò che s’attendeva. Rossini non ha mai scritto per la Signora Pasta. Il caso gli fece incontrare l’amabile e graziosa Marcolini e compose per lei La pietra di paragone. Poi la magnifica Colbran e scrisse l’Elisabetta; e infine il terribile e appassionato Galli, e potemmo ammirare dei personaggi quali il Fernando della Gazza Ladra e il Maometto del Maometto Secondo. Se la fortuna avesse offerto a Rossini una attrice giovane, bella, ricca d’anima e di intelligenza, e tale da non allontanarsi mai dal gesto della semplicità, più vera e soave, e pur sempre fedele alle forme del bello ideale e più puro; se coi suoi straordinari talenti pel teatro Rossini incontrasse una voce che riproducesse tra noi i rapimenti che sapevano darci i cantanti della vecchia scuola, una voce che sapesse render commovente la più semplice parola di un recitativo, o i cui potenti accenti forzassero i cuori più ribelli a condividere l’emozione che esprimono le sue grandi arie; senza dubbio noi vedremmo Rossini dimenticare la sua indolenza, studiare la voce della Signora Pasta, e cercar di scrivere nelle sue corde... Ispirato dai talenti della sua prima donna, Rossini ritroverebbe l’ardore che l’infiammava al suo debutto, e i canti deliziosi e semplici che determinarono la sua gloria. Quali capolavori non verrebbero ad illuminare la sala del Lauvois! Con quale rapidità Parigi assumerebbe nell’opinione europea il rango di Milano o di Napoli! 86 87 Dopo aver udito la preghiera di Romeo e Giulietta, prova decisiva per il talento di una cantatrice; dopo aver riconosciuto come la signora Pasta sappia cantare di portamento, di come sfumi la sua voce o accentui, leghi e sostenga con levigatezza un lungo periodo musicale, non dubito affatto che Rossini non esisterebbe affatto a sacrificarle una parte del suo sistema, e a diradare la sua foresta di piccole note che sovraccaricano ora le sue cantilene. Pienamente convinto della saviezza e del buon gusto di cui la signora Pasta fa prova nelle fioriture del suo canto, e sapendo come l’effetto degli abbellimenti è più sicuro se nasca dall’emozione e dall’invenzione spontanea del cantante, Rossini si rimetterebbe subito all’ispirazione della grande cantante, per i suoi ornamenti. I veri dilettanti che vanno al Teatro Lauvois non perché questo teatro sia di moda, ma perché ci trovano delle emozioni profonde e sono sensibili, almeno lo spero, ad ogni genere di bellezza come ad ogni specie di gloria, rifletteranno a quello che potrebbero provare se, abituati a non udire dalla tribuna altro che discorsi scritti, si trovassero di colpo davanti un Mirabeau o un generale Foy, con tutto l’abbandono del loro genio. Orbene, la differenza non è meno grande tra una cantante che canti nel miglior modo possibile una musica scritta per un’altra e che non le lascia alcuna libertà, alcun mezzo di far luce alla sua ispirazione, e la stessa cantante che esegue cantilene composte per la sua voce, vale a dire non soltanto nelle sue corde, ma anche nel colore e nella fisionomia generale del suo talento. Tra tutte le opere che la signora Pasta ha cantato da quando è a Parigi, io vedo soltanto il secondo e il terzo atto del Romeo che convengano press’a poco alle condizioni della sua voce e al suo modo di condurla. Cercando in tutti i lavori in cui ha avuto parte, stenterei a trovare tre pezzi che riempiano esattamente tali condizioni necessarie; eppure la signora Pasta incanta tutti i cuori con musiche che ad ogni momento 88 contraddicono alla sua voce e le chiedono degli sforzi estremi d’abilità. Non s’è mai incontrato, io credo, una cantante la quale abbia meritato ed acquistato gloria in tali condizioni sfavorevoli. Immaginate ora, voi che sapete amare il vero incanto della musica, un Rossini che componga con coscienza per una simile interprete! Allora soltanto si potrebbe misurare esattamente il valore reale della signora Pasta. Quanto guadagnerebbe il suo amor proprio, se ora che Parigi l’ha fatta conoscere al mondo, essa si ponesse a percorrere i vari teatri d’Italia! Se potesse cantare tre o quattro volte all’anno delle opere nuove, e composte apposta per la sua voce, non dubito che in due o tre anni il suo talento ci tornerebbe moltiplicato. Colla fama di cui già gode, pensate come i maestri starebbero attenti a compiacerla, e studierebbero, per conformarvisi, la natura della sua voce e il suo modo di porgerla! Io domando ora al lettore di raddoppiare la sua pazienza; dal mio canto, mi sforzerò di essere lucido, e prometto d’esser corto. La voce della signora Pasta ha una considerevole estensione. Essa rende in modo ancora sonoro il la sotto il rigo, e si alza fino al do diesis e al re acuto. La signora Pasta possiede il raro vantaggio di poter cantare la musica di contralto come quella di soprano. Oserei dire, malgrado la mia poca dottrina, che la sua voce è di mezzo-soprano. Il maestro che scrivesse per lei dovrebbe porre la tessitura ordinaria dei suoi canti nella voce di mezzo soprano e servirsi poi, di passata, di tutte le altre corde di un organo cosi ricco. Molte di esse sono non soltanto belle ma producono una vibrazione sonora e magnetica la quale, io credo, per una miscela d’effetti fisici non ancora spiegati, s’impadronisce con la rapidità del fulmine dell’anima degli spettatori. Noi giungiamo così ad una particolarità molto singolare della voce della signora Pasta; essa non è di un solo metallo, come si direbbe in Italia; e questa differenza nei suoni di una stessa voce è uno dei più potenti mezzi d’espressione di cui sa 89 valersi questa ottima cantante. Gli italiani dicono, di una voce siffatta, che possiede parecchi registri, vale a dire diverse fisionomie, secondo le diverse parti della scala in cui si situa. Quando molt’arte, e soprattutto una sensibilità squisita, non servissero di guida nell’uso dei diversi registri, essi sembrerebbero soltanto i segni di una ineguaglianza vocale, e formerebbero un difetto urtante, che respingerebbe per la sua durezza ogni piacere musicale. La Todi, Pacchiarotti, e un gran numero di cantanti di prim’ordine hanno dimostrato come si possa mutare in bellezza un apparente svantaggio, e trarne degli effetti di seducentissima originalità. La storia dell’arte tenderebbe anzi a far credere che non è con una voce ugualmente argentina ed inalterabile in tutte le note della sua estensione che si ottiene un canto davvero patetico. Mai una voce di un timbro inalterabile potrà giungere a quei suoni velati, in certo senso soffocati, che dipingono con tanta forza e verità certi momenti di profonda agitazione e di appassionata angoscia. Alcuni melomani che acconsentirono ad ammettermi nella loro società, a Trieste, m’hanno spesso ripetuto che la Todi, una delle ultime cantanti del gran secolo, aveva una voce e un talento molto vicini a quella della signora Pasta. La Todi dovette gareggiare con un autentico miracolo dell’arte e della natura: la Mora; questa non possedeva soltanto una voce estremamente bella e molta bravura, ma era ancora notevole per l’ottima scuola e la molta espressione. Tuttavia col suffragio della gente nata per l’arte e che, dopo qualche anno, riesce a far condividere al pubblico la sua maniera di vedere, la Todi vinse la sua rivale; il suo canto era stato più spesso l’eco dei loro sentimenti. Con strabiliante abilità la signora Pasta unisce la voce di testa a quella di petto; essa possiede l’arte suprema di cavare una gran quantità di effetti gradevoli e piccanti dall’unione delle due voci. Per ravvivare il colore di una frase melodica o per cambiare istantaneamente una sfumatura, essa impiega il falsetto fin nelle corde medie, oppure lo alterna colle note di 90 petto. Essa usa questo artificio con la stessa facilità di fusione, nelle tonalità medie come in quelle più acute. La voce di testa, invece, ha un carattere opposto, è brillante, rapida, pura, facile, di un’ammirevole leggerezza. Nella scala discendente essa può smorzare il canto, fino a rendere quasi dubbia l’esistenza dei suoni. Ci volevano tali colori così commoventi all’anima della signora Pasta, e quei mezzi vocali così potenti, perché potesse raggiungere la forza d’espressione che le conosciamo, espressione sempre autentica e, benché moderata dalle regole del bello ideale, sempre piena di energia ardente e di forza, che elettrizza tutto il teatro. Ma quant’arte c’è voluta, quanti studi assidui, perché l’amabile cantante riuscisse a trarre effetti sublimi da due voci così opposte! La sua arte va sempre perfezionandosi, gli effetti che ne ottiene sono sempre più strabilianti, la potenza del suo talento sugli spettatori non può che aumentare; da tempo, ormai, la voce della signora Pasta ha vinto tutti gli ostacoli fisici che potevano opporsi al sorgere del piacere musicale; oggi essa seduce l’orecchio degli uditori come ne elettrizza le anime. Essi le devono, a ogni nuova opera, le emozioni più vivaci, o nuove sfumature dello stesso piacere. Essa possiede l’arte di imprimere un colore musicale nuovo, non tanto coll’accento delle parole o colla sua recitazione tragica, ma proprio come cantante, alle parti in apparenza più insignificanti, per esempio quella di Elcia nel Mosè. Come tutte le voci umane, quella della signora Pasta incontra a tratti certe posizioni malcomode di cui non riesce a vincere la difficoltà, o dove perde il potere, così abituale in lei, di produrre il piacere musicale e, mediante il piacere dell’orecchio, l’incanto dei cuori. Queste occasioni, benché rare, ci fanno desiderare ancora più vivamente di poterla udire, almeno una volta, in un’opera scritta per la sua voce. Credo sia impossibile indicare un abbellimento messo in atto dalla signora Pasta, che non abbia tutte le grazie della buona scuola, e non possa servire come modello. Assai 91 Disegno di Gianluigi Toccafondo moderata nell’uso delle fioriture, essa le impiega soltanto per aumentare la forza dell’espressione; e notate che le sue fioriture durano soltanto il tempo durante il quale le sono utili. Non ho mai incontrato nel suo canto quei lunghi abbellimenti che rammentano un po’ la distrazione dei grandi oratori, e durante i quali sembra che il cantante si dimentichi o, cammin facendo, cambi di pensiero. Il pubblico citerà in vece mia quei cantanti rinomati, nei quali quel difetto così divertente da osservare si riproduce spesso. Io non intendo turbare il piacere dei semi-intenditori che vedo applaudire con entusiasmo tali abbellimenti. Spesso un gorgheggio comincia in modo leggero e rapido, in stile buffo, per finire tosto in tono tragico, o serio; oppure, dopo aver cominciato con tutta la gravità possibile, non sapendo più che fare a metà strada, ecco il cantore buttarsi nella leggerezza buffa. La stessa mancanza d’anima ispira al cantante un siffatto errore, e impedisce allo spettatore di accorgersene. è codesto uno dei mezzi più acconci per giudicare gli amatori dal gusto artefatto. Quando sento applaudire tali gorgheggi nella Gazza ladra e nel Tancredi, ricordo l’aneddoto di un signore ben conosciuto che lavorava col suo re, e durante un’ora gli leggeva una lunga relazione sulle attribuzioni della sua carica; il re pareva trovar piacere a quella lettura, apparentemente noiosa; in realtà, il signore teneva il foglio a rovescio e non sapeva leggere. Tale, ai miei occhi, un dilettante che applaudisce con trasporto un abbellimento a doppio senso, che comincia a dire bianco per finire col dire nero. La situazione del personaggio è o triste o gaia; nei due casi l’applauso è assurdo. (…) Avrei dieci passi da notare in ognuna delle interpretazioni della signora Pasta. Le dodici battute che essa canta nel Tancredi, quando appare sul carro dopo la morte di Orbassano, non sono nulla, come musica; eppure, quale mirabile sfumatura! Come il suo canto è diverso da ogni altro! Come ci si trova quella calma triste che procede da una vittoria che non dà la felicità a Tancredi, poiché non prova 92 93 l’innocenza di Amenaide! Come vi si discerne l’assenza della vita e dell’animazione che sostenevano il giovane guerriero prima dei combattimento, quando l’infiammava, la necessità di vincere per salvare la vita d’Amenaide, quando il dubbio sulla vittoria gli impediva di vedere tutto l’orrore della sua sorte! Per la signora Pasta, la stessa nota in due situazioni diverse non ha, per così dire, lo stesso suono. Qui sta la sublimità del canto! Ho assistito trenta volte al Tancredi, il suo canto segue così da presso le ispirazioni attuali del suo cuore che, per esempio, il tremar Tancredi vien detto da lei a volte con dolce ironia, altre volte coll’inflessione del valoroso che vuole rassicurare la persona che teme; a volte ancora è di sgradevole sorpresa, già accompagnata dal risentimento; ma Tancredi pensa che è Amenaide che parla, e la sfumatura della collera fa posto ad sorriso della riconciliazione. (…) Potrei fare una lunga enumerazione di tutte le difficoltà che la natura ha opposte alla signora Pasta, e che ha dovuto vincere perché la sua anima potesse, per mezzo del canto, elettrizzare quella degli spettatori. Noi la vediamo riportare ogni giorno nuovi trionfi, e avvicinarsi alla perfezione. Ogni sua tappa è contrassegnata da una di quelle piccole creazioni, di cui ho parlato dianzi. M’ero fatto dettare da un dotto musicista una enumerazione che sopprimo, perché esigerebbe una cultura tecnica per essere compresa; non è quale anàtomo ma quale pittore che voglio parlare della bellezza e, nella mia ignoranza, non son certo i dotti che voglio addottrinare... Si è chiesto alla signora Pasta chi sia stato il suo maestro di recitazione. Essa non ne ha avuto altri che un cuore atto a sentire vivacissimamente le minime sfumature della passione, e una ammirazione appassionata, fino a sfidare il ridicolo, per il bello ideale. A Trieste, un bimbetto di tre anni le si avvicina, e le chiede l’elemosina per sua madre che è cieca, e la fa sciogliere in lagrime, lì sul porto, dove 94 passeggiava con qualche amico; e gli dà tutto quel che aveva con sé. Gli amici parlano di carità, lodano la bontà del suo cuore. Come ebbe asciugato le sue lagrime: “Io non accetto le vostre lodi — rispose. Questo bimbo mi ha chiesto l’elemosina in modo sublime. Ho visto in un batter d’occhio tutte le disgrazie della madre, la miseria della casa; la mancanza di vestiti, il freddo di cui soffrono. Sarei davvero una grande attrice se, nel caso, sapessi trovare un gesto esprimente una profonda disgrazia con altrettanta verità”. Mille osservazioni di questo genere, di cui la signora Pasta ebbe coscienza dall’età di sei anni e che ricorda distintamente e di cui, al bisogno, si serve sulla scena, hanno fermato il suo talento, le han servito da modello. Ho sentito dire che la signora Pasta deve molta riconoscenza a De Marini, uno dei primi attori italiani, e alla sublime Pallerini, l’attrice formata da Viganò per recitare nei suoi balletti le parti di Mirra, di Desdemona, della Vestale. Come cantante la signora Pasta è troppo giovane per aver potuto vedere sulla scena la Todi, Pacchiarotti, Marchesi, Crescentini; essa non ha mai avuto l’occasione di ascoltarli al pianoforte; pure i melomani che li hanno uditi dicono che sembra la loro allieva. Per il canto, essa non è obbligata che alla signora Grassìni, colla quale ha cantato durante una stagione a Brescia. (da Stendhal, Vita di Rossini, trad. B. Revel, Firenze, Passigli, 1983) 95 Disegno di Gianluigi Toccafondo INTERVISTE PARALLELE di Mauro Mariani Quando Bellini scrisse La Sonnambula, nel 1831, si era in pieno romanticismo ed egli stesso aveva contribuito da protagonista all’affermazione di questa nuova sensibilità sulle scene italiane, con opere come Il Pirata, La Straniera e I Capuleti e i Montecchi, molto tempestose, cupe, tragiche. La Sonnambula invece è diversa, è un tenero idillio dalle atmosfere arcadiche, che quasi ci riporta al Settecento, e tutto il suo pathos scaturisce da un caso di sonnambulismo, che pare un pretesto piuttosto esile, più adatto a un balletto (infatti è da lì che proviene questo soggetto) che a un melodramma. Eppure la vena lirica di Bellini stende una delicata patina romantica anche su questa vicenda. Qual è esattamente, secondo Lei, il rapporto tra quest’opera e il romanticismo? Callegari “La collocherei a pieno titolo nel romanticismo, sebbene ci siano inevitabilmente alcuni aspetti legati ai cliché dell’epoca, per esempio una cabaletta può avere un accompagnamento brillante ed euforico mentre il testo esprime tutt’altro. Ma quello di Sonnambula è un romanticismo diverso da quello appassionato ed eroico che sarà il carattere del melodramma italiano dell’Ottocento. Ha un carattere sfumato, sognante, nebbioso, irreale: su questo il regista ed io abbiamo trovato un accordo perfetto.” Barberio Corsetti “Il tema del sonnambulismo era molto caro ai romantici, perché vi vedevano una zona mediana tra sogno e veglia, che si stacca dalla realtà e apre uno spiraglio per entrare nel profondo della psiche umana. Anche il luogo in cui la vicenda si volge non appartiene alla realtà ma è totalmente immaginario, non è veramente la Svizzera di cui si dice nel libretto. Anche il tempo è irreale, sospeso, indeterminato: io ho scelto l’Ottocento, perché volevo un tempo lontano da noi, ma non troppo lontano. La stessa Amina è un 96 97 personaggio singolare, una trovatella di cui non si sa nulla, ammirata da tutti per la sua innocenza, che conserva qualcosa di infantile. A quell’età tutti gli oggetti sembrano avere dimensioni diverse dalla realtà: ho immaginato che i mobili reali siano replicati sia in scala ingigantita, diventando le montagne di questa Svizzera immaginaria, sia in scala miniaturistica, per rappresentare il mondo ideale e appunto infantile di Amina, che viene sempre guastato dalla realtà. A questo si aggiunge una dimensione onirica, determinata dai cartoni animati di Gianluigi Toccafondo.” La drammaturgia della Sonnambula è molto lineare e anche l’orchestrazione è semplicissima, secondo alcuni perfino elementare, tanto che Bellini è stato anche accusato di non saper orchestrare. Però si sa che in campo artistico fare cose semplici è spesso più delicato e difficile che fare cose complesse. Quali sono le difficoltà che direttore e regista incontrano in quest’opera? Callegari “Ho già diretto La Sonnambula una prima volta nel 1995 ma, riprendendola ora a quasi vent’anni di distanza, mi sono reso conto che l’orchestrazione è a suo modo perfetta, non poteva essere che così, perché è totalmente funzionale a quel che Bellini ricercava prima di ogni altra cosa, cioè la purezza e la trasparenza della melodia. Le difficoltà per il direttore sono non tanto quelle solite, come la scelta dei tempi nelle arie, ma si annidano soprattutto nei recitativi, che spesso sono delle vere trappole: è proprio su questi momenti che ho focalizzato il mio lavoro, cercando il giusto equilibrio perché i recitativi non si allentino e non cadano.” Barberio Corsetti “È vero che a un primo approccio la trama appare estremamente elementare ma poi, entrando più dentro, ci si accorge che non è affatto così semplice e si capisce che dietro 98 Navigare Il web offre poche occasioni di approfondimento specifico sull’opera belliniana, eccezion fatta per i pregevoli libretti scaricabili dal sito del Teatro La Fenice di Venezia (www. archiviostoricolafenice. org) e per le recensioni della storica rappresentazione scaligera del marzo 1955 (www.luchinovisconti. org/pagine/ opere_1_vis/scheda. asp?id_opera=46&id_ genere=14). Viceversa svariati sono gli spunti di riflessione su aspetti collaterali dell’opera. Ad esempio, sul tema del sonnambulismo, di grande attualità all’epoca di Bellini, si trovano pagine tanto di carattere storico (come quella che al primo livello ce ne sono altri, e su quelli io ho lavorato. Come ho già accennato, quest’opera si svolge in uno strano luogo tra realtà e sonno e, se si riesce a restare su quel livello, acquista un’altra dimensione, quasi vertiginosa. Vorrei aggiungere che c’è anche qualcosa di non detto, che bisogna saper leggere al di sotto del testo. È adombrata anche la possibilità di un incesto, perché il Conte, quando Amina in stato di sonnambulismo entra nella sua camera da letto, è tentato per un momento di approfittare della situazione: ebbene, sappiamo dalla prima versione del libretto che il Conte è il padre di Amina, anche se questo punto fu eliminato nella redazione definitiva.” La Sonnambula è un culmine del “bel canto”, basti pensare che i primi interpreti furono Giuditta Pasta e Giovan Battista Rubini e che negli anni immediatamente seguenti divenne un cavallo di battaglia di Maria Malibran e Jenny Lind. Oggi però non è più possibile pensare a uno spettacolo che si risolva esclusivamente con le voci dei cantanti e anche orchestra e scena devono concorrere in modo determinante a creare uno spettacolo organico e completo. Cosa possono fare direttore e regista per valorizzare gli aspetti di loro competenza, senza d’altra parte sacrificare il ruolo protagonistico della voce? riporta il contenuto di una conferenza tenuta sull’argomento da Rudolf Steiner presso l’Architektenhaus di Berlino nel 1904: www. larchetipo.com/2010/ dic10/), quanto letterario (vedasi l’articolo di Marino Niola, Donne ai confini della realtà, consultabile sul sito de “La Repubblica”) o antropologico. A tal proposito di particolare interesse, vista la prossimità socio-culturale dell’area in oggetto con i luoghi belliniani, può risultare il saggio sulla tradizione popolare salentina dell’‘800: www. fondazioneterradotranto. it/2012/10/14/oppio-eoppiacei-nella-tradizionepopolare-salentina. Callegari “Si deve partire dal presupposto che per fare questo tipo di repertorio è necessario poter contare su cantanti che abbiano familiarità con questo stile vocale - e qui al Petruzzelli li abbiamo - e capiscano che bel canto non significa esibizionismo e virtuosismo pirotecnico ma emettere un suono nella forma più sublime possibile. Compito del direttore è trovare un accompagnamento orchestrale degno di tale bellezza. Quel che io cerco di fare è nobilitare anche quei momenti orchestrali che talvolta sono sottovalutati e presi sotto gamba, come i passaggi ripetitivi, in cui secondo me ogni singola nota deve essere suonata con attenzione 99 particolare e in modo diverso dalle altre.” (Barberio Corsetti) “In generale credo che il regista prima di tutto debba amare l’opera e poi debba capire che in un’opera del periodo del “bel canto” si deve mettere in scena la musica, non il libretto. Il regista deve sentire lo slancio che parte dalla musica e provare lo stesso fervore che animava i giovani musicisti (Bellini non aveva trent’anni all’epoca della Sonnambula) che scrissero le opere dell’Ottocento italiano. Il bel canto è affascinante soltanto se è anche un modo di raccontare il personaggio, non deve diventare un fattore esclusivamente atletico, altrimenti non mi interessa più. Il virtuosismo è un elemento imprescindibile di queste opere, ma i personaggi della Sonnambula vanno al di là dell’aspetto puramente virtuosistico, sono innanzitutto molto umani: è in questo che il pubblico trova qualcosa capace di coinvolgerlo ancora profondamente, non nel virtuosismo fine a se stesso”. Uno spettatore del 2013 cosa può trovare nella Sonnambula che gli parli direttamente e riesca ancora a toccare la sensibilità moderna? Callegari “Bisogna partire dalla considerazione che oggi la maggior parte del pubblico che frequenta i teatri d’opera è strettamente legata a certe tradizioni e non cerca necessariamente qualcosa che incida sull’attualità. Quindi dalla Sonnambula il pubblico non si aspetta messaggi forti, ma viene ad ascoltarla per apprezzare i suoi momenti di pura bellezza, godendo le meravigliose melodie di Bellini, senza scervellarsi per cercarvi delle cose che non ci sono.” Barberio Corsetti “Quella della Sonnambula è in fondo una vicenda eterna e sempre attuale. Vi si può riconoscere una storia di formazione, in quanto la protagonista alla fine non è più quella dell’inizio: Amina cresce e questo avviene, come sempre, attraverso una forte delusione. Anche Elvino è un carattere più interessante di quanto potrebbe apparire a prima vista, è la tipica figura maschile concentrata su se stessa, non si domanda mai nulla di Amina e mai si preoccupa veramente di lei. Questo meccanismo di passioni estremamente semplici riceve vita dalla musica e può ancora coinvolgere lo spettatore.” Disegno di Gianluigi Toccafondo 101 LA SONNAMBULA IL SOGGETTO L’azione è ambientata in un villaggio della Svizzera, in epoca imprecisata. ATTO PRIMO La piazza del villaggio; da un lato l’osteria di Lisa, dall’altro il mulino di Teresa. I contadini festeggiano con cori le nozze del ricco possidente Elvino con Amina, orfana adottata da Teresa. Fra il generale tripudio Lisa non ha pace: si lamenta a causa del suo amore privo di speranza per Elvino. Frattanto ella ignora l’amore che Alessio nutre nei suoi confronti. Attendendo lo sposo, Amina risponde felice agli amici del villaggio. Dopo il notaio giunge finalmente Elvino, che offre la fede ad Amina. L’idillio è interrotto dall’inatteso arrivo di una carrozza con il conte Rodolfo. Figlio del defunto signore del villaggio, quest’ultimo - di ritorno dopo molti anni di assenza - non viene riconosciuto e preferisce mantenersi incognito. Prende dimora nella locanda di Lisa, e rivolge i suoi complimenti alla giovane sposa, suscitando la gelosia di Elvino. Nell’osteria il conte Rodolfo fa la corte a Lisa, che sembra ben disposta; sopraggiunge in quello Amina, addormentata, vestita di bianco, che ripete il nome dello sposo e descrive la visione, che la pervade, della prossima cerimonia nuziale; quindi si corica sul divano. Lisa si nasconde, Rodolfo rimane sconcertato e incerto sul da farsi, ma proprio in tal frangente entra la folla dei paesani, venuti a rallegrarsi col conte - del quale hanno scoperto l’identità - per accompagnarlo al castello. Tutti in tal modo vedono Amina, addormentata nella camera di Rodolfo. Svegliatasi, la giovane cerca di giustificarsi e protesta la propria innocenza, ma nessuno le crede. Elvino, in preda alla gelosia, la ripudia. ATTO SECONDO Un gruppo di paesani si reca dal conte affinché egli prenda le difese di Amina; quest’ultima, frattanto, accompagnata da Teresa, incrocia in Elvino, che vaga senza meta in preda al dolore e ancora innamorato di lei. Presso il mulino di Teresa, Lisa, approfittando della situazione creatasi, sta per sposare Elvino, che ha accettato il matrimonio nonostante le reiterate assicurazioni del conte sull’innocenza di Amina. Il borgo è nuovamente in festa, ma quando Lisa ed Elvino passano davanti alla casa di Teresa, quest’ultima accusa Lisa di aver commesso lo stesso atto di Amina, dichiarando di aver trovato un suo velo nella camera di Rodolfo; Elvino è ingelosito e incollerito: rifiuta anche queste nozze. D’improvviso, sul cornicione del tetto di casa appare Amina, addormentata, confermando così le parole pronunciate dal conte a suo discapito. Amina, sempre in preda al sonnambulismo, scende sulla strada cantando il suo amore per Elvino; quest’ultimo, ricreduto e pentito, la prende fra le sue braccia. La festa ricomincia e si preparano finalmente le nozze. Disegno di Gianluigi Toccafondo 103 LA SONNAMBULA THE THEME The events take place in a village in Switzerland at an unspecified time. ACT I The village square: on one side Lisa’s tavern, on the other Teresa’s mill. The peasants are singing to celebrate the marriage of the rich landowner Elvino to Amina, an orphan adopted by Teresa. In the general rejoicing Lisa cannot find peace: she com- plains because of her unrequited love for Elvino. In the meantime she ignores the love which Alessio cherishes towards her. While awaiting the bridegroom, Amina happily answers her village friends. Elvino finally arrives after the notary and offers the wedding ring to Amina. The idyll is broken by the unexpected arrival of a carriage bearing Count Rodolfo, the son of the late Lord of the village, who, after many years absence, is not recognized and prefers to remain incognito. He takes up lodgings in Lisa’s inn and pays compliments to the young bride, thus arousing Elvino’s jealousy. In the tavern, Count Rodolfo pays court to Lisa who seems quite willing; at that moment Amina arrives, asleep, dressed in white, repeating the name of the bride- groom and describing the vision she has of the coming wedding ceremony; then she lies down on the couch. Lisa hides, Rodolfo remains disconcerted and uncertain as to what to do, but right in this predicament the crowd of villagers enters to congratulate the Count - whose identity they have discovered - and accompany him to the castle. In this way everyone sees Amina, asleep in Rodolfo’s room. On waking, the young girl tries to justify herself and pleads her own innocence but nobody believes her. Elvino, seized by jealousy, repudiates her. ACT II A group of peasants go to see the Count to persuade him to defend Amina who, in the meantime, accompanied by Teresa, crosses the path of Elvino who is wandering aimlessly, griefstricken and still in love with her. At Teresa’s mill, Lisa, taking advantage of the new situation, is about to marry Elvino who has accepted the marriage despite the Count’s repeated assurances that Amina is innocent. The village is celebrating once again but when Lisa and Elvino pass in front of Teresa’s house, the latter accuses Lisa of having committing the same act as Amina, declaring that she has found a wedding veil of hers in Rodolfo’s room; Elvino is angry and jealous and rejects this marriage too. Suddenly the sleeping Amina appears on the edge of the roof, thus confirming the words spoken by the Count in her defence. Amina, still sleepwalking, comes down into the street singing her love for Elvino; the latter, repentant and with a change of heart, takes her in his arms. The festivities start once again and preparations are finally made for the wedding. Disegno di Gianluigi Toccafondo 105 il libretto LA SONNAMBULA di Felice Romani 107 LA SONNAMBULA Melodramma in due atti Primo Atto Guida all’ascolto di Alessandro Taverna [Introduzione] 1. Introduzione Nessuna ouverture anticipa l’avvio dell’azione. A introdurre all’atmosfera della Sonnambula è semmai il risalto ottenuto dagli interventi di uno strumento dell’orchestra scelto a suggerire il clima dominante. Il corno è lo strumento chiamato ad assolvere a una funzione fondamentale in tutta la partitura. Una fanfara sottovoce degli ottoni segna l’avvio dell’opera con un disegno di terzine che anticipa il clima festoso di questa introduzione; le terzine ricompaiono una seconda volta, precedute da un arabesco disegnato dai clarinetti. Con gli strumenti della banda collocati sul palco il sentimento della natura creerà una tinta peculiare nel clima festoso che pervade questo inizio. Libretto di Felice ROMANI Musica di Vincenzo BELLINI Prima esecuzione: Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831 Personaggi 1. Il Conte Rodolfo signore del villaggio / basso Scena prima Piazza d’un villaggio. Da un lato un’osteria, dall’altro un mulino, in fondo colline praticabili. All’alzarsi del sipario odonsi da lungi suoni pastorali e voci lontane che gridano: “Viva Amina!” Sono gli abitanti del villaggio che vengono a festeggiare gli sponsali di lei. Esce Lisa dall’Osteria, indi Alessio dai colli. Teresa Molinara / mezzosoprano Amina orfanella raccolta da Teresa, fidanzata ad Elvino / soprano [Coro] Elvino ricco possidente del villaggio / tenore coro Viva Amina! viva ancor! Lisa ostessa, amante di Elvino / soprano Alessio contadino, amante di Lisa / basso Un Notaro / tenore Contadini e contadine La scena è in un villaggio della svizzera. [Cavatina] 2. LISA Tutto è gioia, tutto è festa... sol per me non v’ha contento, e per colmo di tormento son costretta a simular. O beltade a me funesta, che m’involi il mio tesoro, mentre io soffro, mentre moro, pur ti deggio accarezzar! ALESSIO Lisa! Lisa!... LISA (per partire) Oh l’importuno! ALESSIO Ah! tu mi fuggi!... LISA Fuggo ognuno. ALESSIO Ah! non sempre, o bricconcella, fuggirai da me così. Per te pure, o Lisa bella, 108 2. “Tutto è gioia, tutto è festa” Nel rallentando degli archi si fa intuire subito un’ombra di tristezza, in netto contrasto con gli slanci gioiosi del coro fuori scena. Se una cavatina assolve il compito di presentare un personaggio e il 109 giungerà di nozze il dì. (durante il colloquio di Lisa e di Alessio, i suoni si sono fatti più vicini, e più forti le acclamazioni) Scena seconda Scendono dalle colline Villani e Villanelle, tutti vestiti da festa, con strumenti villerecci e canestri di fiori. Giungono al piano. CORO Viva Amina! ALESSIO Viva! suo carattere, Bellini v’infonde il dispetto provato da Elisa, vistasi preferire Amina e costretta a nascondere i propri sentimenti di dispetto per la sorte che arride alla rivale. Il controcanto solitario di Elisa sarà infine sovrastato dalla canzone intonata dal coro che nell’insistito sillabato svela la sua natura semplice. tutta luce, tutta amor. Ma pudica, ma ritrosa, quanto è vaga, quanto è bella: è innocente tortorella, è l’emblema del candor. [Insieme] LISA (Ah! per me sì lieti canti destinati un dì credei: crudo amor, che sian per lei non ho cor di sopportar.) ALESSIO (avvicinandosi a Lisa) (Lisa mia, sì lieti canti risuonar potran per noi, se pietosa alfin tu vuoi dare ascolto al mio pregar.) LISA (indispettita) (Anch’esso! Oh dispetto!) CORO Viva ancor! ALESSIO E CORO Te felice e avventurato più d’un prence e d’un sovrano, bel garzon, che la sua mano sei pur giunto a meritar. Tal tesoro amor t’ha dato di bellezza e di virtude che quant’oro il mondo chiude, che niun re potria comprar. ALESSIO Qui schieràti... più d’appresso... LISA (Ah! la rabbia mi divora!...) [Insieme] (ricominciano gli evviva) ALESSIO E CORO La canzone preparata intuonar di qui si può. Scena terza Amina, Teresa e detti LISA (Ogni speme è a me troncata: la rivale trionfò.) [Recitativo e Cavatina] [Coro] ALESSIO E CORO In Elvezia non v’ha rosa fresca e cara al par d’Amina: è una stella mattutina, 110 3 AMINA Care compagne, e voi, teneri amici, che alla gioia mia tanta parte prendete, oh come dolci scendon d’Amina al core 3. “Care compagne” Nove battute di recitativo sui cui risuona per la prima volta la voce di 111 i canti che v’inspira il vostro amore! CORO Vivi felice! è questo il comun voto, o Amina. AMINA A te, diletta, tenera madre, che a sì lieto giorno me orfanella serbasti, a te favelli questo, dal cor più che dal ciglio espresso, dolce pianto di gioia, e quest’amplesso. (con tenero accento) Compagne... teneri amici... Ah! madre... ah! qual gioia! AMINA Come per me sereno oggi rinacque il dì! Come il terren fiorì più bello e ameno! Mai di più lieto aspetto natura non brillò; amor la colorò del mio diletto. CORO Sempre, o felice Amina, sempre per te così fiori il cielo i dì che ti destina... AMINA (abbraccia Teresa, e prendendole una mano, se l’avvicina al core) Sovra il sen la man mi posa, palpitar, balzar lo senti: egli è il cor che i suoi contenti non ha forza a sostener. TERESA E CORO Di tua sorte avventurosa 112 Amina. Siglata da una fioritura, la frase di Amina offre una sorta di anticipazione psicologica della giovane. Accolta da un intervento del coro, la fanciulla esprime i propri sentimenti nel Cantabile sostenuto assai. In partitura è segnata l’indicazione “col canto” per clarinetti e corni. L’ingresso felpato degli archi sembra suggerire ai personaggi come muoversi sulla scena. Amina si sprofonda nel canto con cui Bellini la solleva progressivamente dal peso della forza di gravitazione, facendole toccare insistentemente - e senza dare la sensazione di sforzo - le note più alte del registro da soprano. Terzine di clarinetti e di corni preparano una morbida cadenza prima che attacchi la cabaletta. Bellini la immagina non come una semplice occasione di spericolato virtuosismo per le doti della cantante, ma come un innalzamento emotivo che porta la commozione del personaggio a sfiorare l’estasi e lo smarrimento. teco esulta il cor materno: non potea favor superno riserbarlo a ugual piacer. [Recitativo e Duetto con coro] ALESSIO Io più di tutti, o Amina, teco mi rallegro. Io preparai la festa, io feci la canzone; io radunai de’ vicini villaggi i suonatori. AMINA E grata a’ tuoi favori, buon Alessio, son io. Fra poco io spero ricambiarteli tutti, allor che sposo tu di Lisa sarai, se, come è voce, essa a farti felice ha il cor disposto. ALESSIO La senti, o Lisa? LISA No, non sarà sì tosto. ALESSIO Sei pur crudele! TERESA E perché mai? LISA L’ignori? Schiva son io d’amori; mia libertà mi piace. AMINA Ah! tu non sai quanta felicità riposta sia in un tenero amor. LISA Sovente amore ha soave principio e fine amaro. 113 TERESA Vedi l’ipocrisia! ELVINO Siate voi tutti, o amici, al contratto presenti. CORO Viene il Notaro. (il Notaro si dispone a stendere il contratto) NOTARO Elvin, che rechi alla tua sposa in dono? Scena quarta Il Notaro e detti. ELVINO I miei poderi, la mia casa, il mio nome, ogni bene di cui son possessore. AMINA Il Notaro? Ed Elvino non è presente ancor? NOTARO Di pochi passi io lo precedo; in capo al bosco io lo mirai da lungi. NOTARO E Amina?... AMINA Il cor soltanto. CORO Eccolo ELVINO Ah! tutto è il core! AMINA Caro Elvino! alfin tu giungi! Scena quinta Elvino e detti. ELVINO Perdona, o mia diletta, il breve indugio. In questo dì solenne ad implorar ne andai sui nostri nodi d’un angelo il favor: prostrato al marmo dell’estinta mia madre! “Oh! benedici la mia sposa!” le dissi. “Ella possiede tutte le tue virtudi; ella felice renda il tuo figlio qual rendesti il padre.” Ah! lo spero, ben mio, m’udì la madre. AMINA Oh! fausto augurio! TUTTI E van esso non fia. 114 (mentre la madre sottoscrive, e con essa i testimoni, Elvino presenta l’anello ad Amina) 4. ELVINO Prendi: l’anel ti dono che un dì recava all’ara l’alma beata e cara che arride al nostro amor. Sacro ti sia tal dono come fu sacro a lei; sia de’ tuoi voti e miei fido custode ognor. CORO Scritti nel ciel già sono, come nel vostro cor. ELVINO Sposi or noi siamo. 4. “Prendi: l’anel ti dono” Con l’arrivo di Elvino, il cantabile è raddoppiato dal corno in orchestra a riportare al clima idilliaco dominante fin dall’inizio. Una sfumatura psicologica nel carattere del giovane è però sottilmente manifestata nel trattamento musicale riservatogli da Bellini, consistente in un leggero sfasamento fra i gesti musicali del tenore e quelli della sua promessa, 115 AMINA Sposi!... oh! tenera parola! ELVINO Cara! nel sen ti posi (le dà un mazzetto) questa gentil viola. AMINA Puro, innocente fiore! (lo bacia) ELVINO Ei mi rammenti a te. AMINA Ah! non ne ha d’uopo il core. ELVINO Ei mi rammenti a te. AMINA E ELVINO Dal dì che univa i nostri cori un dio, con te rimase il mio, il tuo con me restò. AMINA Ah! vorrei trovar parole a spiegar com’io t’adoro! Ma la voce, o mio tesoro, non risponde al mio pensier. ELVINO Tutto, ah! tutto in quest’istante parla a me del foco ond’ardi: io lo leggo ne’ tuoi sguardi, nel tuo riso lusinghier! L’alma mia nel tuo sembiante vede appien la tua scolpita, e a lei vola, è in lei rapita di dolcezza e di piacer! 116 nel ritardo con cui procede l’incontro delle due voci. La gelosia di Elvino rivolta ai venti sarà destinata ad amplificarsi, a dismisura, nel procedere dell’azione. Valendosi di una consolidata strategia dell’era del belcanto, l’aria di Elvino - dove la tessitura del tenore nelle intenzioni originarie di Bellini raggiungeva il si bemolle, poi abbassato - prevede l’ingresso della voce di Amina. E le notazioni psicologiche recate in partitura perseverano nella loro sottigliezza: “Ah vorrei trovar parole” – è molto più che una dichiarazione d’amore che si arrende all’incapacità di trovare espressione. Infatti Bellini lascia un indizio eloquente in quanto essa è dolorosamente segnata dalla tonalità in minore. TERESA, ALESSIO E CORO Ah! così negli occhi vostri core a core ognor si mostri: legga ognor qual legge adesso l’un nell’altro un sol pensier. LISA (Il dispetto in sen represso più non valgo a sostener.) [Recitativo e Cavatina] ELVINO Domani, appena aggiorni, ci recheremo al tempio e il nostro imene sarà compiuto da più santo rito. Al genïal convito tutti quanti io vi attendo e a lieta danza nel mio vicin podere. (odesi suon di sferza e calpestio di cavalli) Qual rumore! CORO (accorrendo) Cavalli! AMINA Un forestiere. Scena sesta Rodolfo e due Postiglioni. RODOLFO (dal fondo) Come noioso e lungo il cammin mi sembrò! (s’avanza) Distanti ancora dal castel siam noi? 117 Disegno di Gianluigi Toccafondo LISA Tre miglia, e giunti non vi sarete fuor che a notte oscura, tanto alpestre è la via. Fino a domani qui posar vi consiglio. RODOLFO E lo desìo. Avvi albergo al villaggio? LISA Eccovi il mio. RODOLFO (esaminando l’osteria) Quello? TUTTI Quello. RODOLFO Ah! lo conosco. LISA Voi, signor? TUTTI (Costui chi fia?) RODOLFO Il mulino... il fonte... il bosco... e vicin la fattoria!... 5. RODOLFO (Vi ravviso, o luoghi ameni, in cui lieti, in cui sereni sì tranquillo i dì passai della prima gioventù! Cari luoghi, io vi trovai, ma quei dì non trovo più!) TUTTI (Del villaggio è conscio assai: quando mai costui vi fu?) RODOLFO Ma fra voi, se non m’inganno, 118 5. “Vi ravviso, O LUOGHI AMENI” L’ingresso del Conte che si imbatte nei preparativi delle nozze potrebbe richiamare una scena del burlador di Siviglia, quando costui si imbatte nello sposalizio di Zerlina e Masetto. Ma Rodolfo non è Don Giovanni. Il cantabile 119 oggi ha luogo alcuna festa. TUTTI Fauste nozze qui si fanno. RODOLFO E la sposa? è quella? (accennando Lisa) TUTTI (additando Amina) È questa. RODOLFO (ad Amina) È gentil, leggiadra molto... Ch’io ti miri. (Oh!... il vago volto!...) Tu non sai con quei begli occhi come dolce il cor mi tocchi, qual richiami ai pensier miei adorabili beltà. Era dessa, qual tu sei, sul mattino dell’età. LISA (Ella sola è vagheggiata!) ELVINO (Da quei detti è lusingata!) CORO (Son cortesi, son galanti gli abitanti di città.) [Recitativo e Coro] ELVINO Contezza del paese avete voi, signor? che accompagna il suo ingresso in scena è curiosamente arrendevole: frasi lunghe tracciate dagli archi, soprattutto violini, punteggiate dai legni, lo immergono in una prolungata fantasticheria. Non è sogno, ma il sopraggiungere dei ricordi che guidano i suoi passi e anche il suo canto. Rodolfo ritrova i luoghi della sua giovinezza e il gonfiarsi del suo cuore è reso concretamente dall’espandersi di una frase lunga, protratta, in crescendo. Solo l’accorgersi della presenza di Amina muta improvvisamente l’atmosfera di prolungato abbandono ai ricordi, con l’insorgere di un tempo più veloce. Nella condotta vocale è ben raffigurato il risvegliarsi dell’eccitazione di quel libertino in potenza che si cela sotto le vesti del Conte. È morto or son quattr’anni! RODOLFO E ne ho dolore! Egli mi amò qual figlio... TERESA Ed un figlio egli avea; ma dal castello sparve il giovane un dì, né più novella n’ebbe l’afflitto padre. RODOLFO A’ suoi congiunti nuova io ne reco e certa. Ei vive. LISA E quando alla terra natìa farà ritorno? CORO Ciascun lo brama. RODOLFO Lo vedrete un giorno. (odesi il suono delle cornamuse che riducono gli armenti all’ovile) TERESA Ma... il sol tramonta: è d’uopo prepararsi a partir. AMINA, LISA, ELVINO E CORO Partir?... (Teresa fa che tutti a lei s’avvicinino) RODOLFO Vi fui da giovinetto col signor del castello. TERESA (con gran mistero) Sapete che l’ora s’avvicina in cui si mostra il tremendo fantasma. TERESA Oh! il buon signore! CORO E vero! è vero! 120 121 RODOLFO Qual fantasma? Sol tratto tratto da valle fonda la Strige immonda urlando va. AMINA, LISA, TERESA, ELVINO E CORO È un mistero un oggetto d’orror! RODOLFO Vorrei vederla, o presto o tardi, vorrei vederla, scoprir che fa. RODOLFO Follie! TUTTI Dal ricercarla il ciel vi guardi! Saria soverchia temerità. TERESA E CORO Che dite? Se sapeste, signor... [Recitativo e Duetto] RODOLFO Narrate. RODOLFO Basta così. Ciascuno si attenga al suo parer. Verrà stagione che di siffatte larve fia purgato il villaggio. CORO Udite. 6. CORO A fosco cielo, a notte bruna, al fioco raggio d’incerta luna, al cupo suono di tuon lontano dal colle al pian un’ombra appar. In bianco avvolta lenzuol cadente, col crin disciolto, con occhio ardente, qual densa nebbia dal vento mossa, avanza, ingrossa, immensa par. RODOLFO Ve la dipinge, ve la figura la vostra cieca credulità. TERESA, AMINA E ELVINO Ah! non è fola, non è paura: ciascun la vide: è verità. CORO Dovunque inoltra a passo lento, silenzio regna che fa spavento; non spira fiato, non move stelo; quasi per gelo il rio si sta. I cani stessi accovacciati, abbassan gli occhi, non han latrati. 122 perturbante, semmai lo sfiora, lo circoscrive con un effetto che sembra far equivalere la realtà al sogno. 6. “A fosco cielo, a notte bruna” Il coro di popolani descrive le apparizioni notturne, un segreto confidato quasi sottovoce e messo fermamente in ridicolo dagli interventi del Conte. La Sonnambula non si spinge oltre la soglia del sovrannaturale e queste apparizioni che procurano terrore sono colte musicalmente soltanto nel riflesso dello spavento evocato con quell’insistente sillabato e quelle frasi brevi doppiate dall’accompagnamento orchestrale. E in questo, come in altri casi della partitura, la musica di Bellini non incarna il TERESA Il ciel lo voglia! Questo, o signore, è universal desìo. RODOLFO Ma del viaggio mio riposarmi vorrei, se me ‘l concede la mia bella e cortese albergatrice. TUTTI Buon riposo, signor... CORO Notte felice. RODOLFO (ad Amina) Addio, gentil fanciulla; fino a domani addio... T’ami il tuo sposo come amarti io saprei. ELVINO (con dispetto) Nessun mi vince in professarle amore... 123 RODOLFO Felice te se ne possedi il core! (parte con Lisa; il coro si disperde) Scena settima Elvino e Amina. AMINA Elvino!... E me tu lasci senza un tenero addio? ELVINO (con ironia) Dallo straniero ben tenero l’avesti. AMINA È ver: commosso in lasciarmi ei sembrò. Da quel sembiante ottimo cor traspare... ELVINO E cor d’amante. AMINA Parli tu il vero o scherzi?... (con voce tremante) Qual sorge dubbio in te? ELVINO T’infingi invano. Ei ti stringea la mano, ei ti facea carezze... AMINA Ebben... ELVINO Discare non t’eran esse, e ad ogni sua parola s’incontravano i tuoi negli occhi suoi. 124 Gioia ne avevi. AMINA (con pena) Ingrato! e dir me ‘l puoi?... Occhi non ho né core fuor che per te. Non ti giurai mia fede? Non ho l’anello tuo? ELVINO Sì... AMINA Non t’adoro? Il mio ben non sei tu? ELVINO Sì... ma... AMINA Prosegui. Saresti tu geloso? ELVINO Ah! sì, lo sono... AMINA Di chi? ELVINO Di tutti. AMINA Ingiusto cor! ELVINO Perdono! ELVINO Son geloso del zefiro errante che ti scherza col crine, col velo; fin del sol che ti mira dal cielo, fin del rivo che specchio ti fa. 125 AMINA Son, mio bene, del zefiro amante, perché ad esso il tuo nome confido; amo il sol perché teco il divido, amo il rio, perché l’onda ti dà. ELVINO Ah! perdona all’amore il sospetto! AMINA Ah! per sempre sgombrarlo déi tu. ELVINO Sì, per sempre. AMINA E il prometti? ELVINO Il prometto. AMINA E ELVINO Mai più dubbi? Timori mai più? AMINA E ELVINO Ah! costante nel tuo seno sia la fede che amore avvalora! E sembiante a mattino sereno per noi sempre la vita sarà. (si allontanano; sempre con crescente tenerezza) [Insieme] AMINA Mio caro, addio! ELVINO Mia cara, addio! (si avvicinano) ELVINO A me pensa. 126 AMINA E tu ancora. AMINA E ELVINO (abbracciandosi) Pur nel sonno il mio cor ti vedrà. (partono) Scena ottava Stanza nell’osteria. Di fronte una finestra, da un lato porta d’ingresso: dall’altro un gabinetto. Avvi un sofà e un tavolino. Rodolfo, indi Lisa. [Recitativo e Finale I] RODOLFO Davver, non mi dispiace d’essermi qui fermato: il luogo è ameno, l’aria eccellente, gli uomini cortesi, amabili le donne oltre ogni cosa. Quella giovine sposa è assai leggiadra... E quella ostessa? È un po’ ritrosa, ma mi piace anch’essa. Eccola: avanti, avanti, mia bella albergatrice. LISA Ad informarmi veniva io stessa se l’appartamento va a genio al signor conte. RODOLFO Al signor conte! (Diamine! son conosciuto!) LISA Perdonate, ma il sindaco lo accerta, e a farvi festa tutto il villaggio aduna. Io ringrazio fortuna che a me prima di tutti ha conceduto 127 Bozzetto di scena il favor di offrirvi il mio rispetto. RODOLFO Nelle belle mi piace un altro affetto. E tu sei bella, o Lisa, bella davvero... LISA Oh! il signor conte scherza. RODOLFO No, non ischerzo: e questi furbi occhietti quanti cori han sorpresi e ammaliati? LISA No, non conosco finora innamorati. RODOLFO Tu menti, o bricconcella. Io ne conosco... LISA (avvicinandosi) Ed è?... RODOLFO Se quel foss’io, che diresti, o carina? LISA Io... che direi?... Signor... no ‘l crederei. In me non è beltà degna di tanto... Un merito ho soltanto: quello di un cor sincero. RODOLFO E questo è molto... (strepito alla finestra) RODOLFO Ma qual rumore ascolto? LISA (Mal venga all’importuno!) 128 129 RODOLFO Donde provien? Amo te solo, il sai... RODOLFO Destisi. LISA Che non mi vegga alcuno. AMINA (tenera) Prendi... La man ti stendo... un bacio imprimi in essa, pegno di pace. (fugge e nella fretta perde il fazzoletto; Rodolfo lo raccoglie e lo getta sul sofà) Scena nona Si spalanca la finestra. Comparisce Amina: è coperta di una semplice veste bianca. Ella dorme: è sonnambula; e s’avanza lentamente in mezzo alla stanza. 7. RODOLFO Che veggio? Saria questo il notturno fantasma? Ah! non m’inganno... Quest’è la villanella che dianzi agli occhi miei parve sì bella. AMINA Elvino!... Elvino!... RODOLFO Dorme. AMINA Non rispondi? RODOLFO È sonnambula. AMINA (con sorriso scherzoso) Geloso saresti ancora dello straniero? Ah parla!... Sei tu geloso? RODOLFO Deggio destarla? AMINA (con pena) Ingrato! a me t’appressa... 130 7. “Che veggio?” Amina sogna e finisce nel letto di un altro. Amina sogna di finire nel letto di un altro. Due frasi destinate a sovrapporsi in questa scena della Sonnambula. Più inquietanti ancora sono le frasi musicali predisposte in partitura. L’ingresso di Amina nella camera dell’osteria dove alloggia il Conte è accompagnato da un pizzicato degli archi con cui rendere concreto il procedere furtivo della donna preda del sonnambulismo. E’ anche uno dei momenti in cui il melodramma belliniano svela l’ascendenza pantomimica e ballettistica della vicenda. I fiati introducono ad una scena dove il melodramma RODOLFO Ah! non si dèsti... Alcun a turbarmi non venga in tal momento. (va a chiudere la finestra) LISA (dal gabinetto) Amina! O traditrice! (parte non veduta l’aspetto di Amina mostrasi lieto RODOLFO (correndo ad Amina, si arresta) Oh ciel!... che tento? ottocentesco cede agli impulsi inconsci. Amina sogna la sua notte di nozze: la cerimonia è stata appena consumata e l’incertezza del Conte, irrisoluto a destare e no la donna, rivela una sottile ambiguità. Destare Amina significa interrompere il protrarsi dell’illusione in cui si trova la donna; costringerla ad accettare un’altra realtà, proibirle il piacere che lei nel sogno si accinge a provare. Il risveglio di Amina, sopraffatto dai timpani che insorgono, conduce al finale, dove il coro interviene con le voci dei personaggi a disegnare la sorpresa generale e le progressive e contraddittorie reazioni di ciascuno. AMINA (sogna il momento della cerimonia) Oh come lieto il popolo che al tempio ne fa scorta! RODOLFO In sogno ancor quell’anima è nel suo bene assorta. AMINA Ardon le sacre tede. RODOLFO Essa all’altar si crede! AMINA Oh madre mia, m’aïta; 131 non mi sostiene il piè! RODOLFO No, non sarai tradita, alma gentil, da me. (Amina sogna che il sacro ministro le domanda il giuramento d’amore Amina alza la destra) AMINA Cielo, al mio sposo io giuro eterna fede e amor! RODOLFO Giglio innocente e puro, conserva il tuo candor! AMINA Elvino!... alfin sei mio! RODOLFO Fuggasi. AMINA Tua son io. Abbracciami. Oh! contento che non si può spiegar! RODOLFO (si ferma; indi risoluto) Ah se più resto, io sento la mia virtù mancar. Rodolfo va per uscire dalla porta: ode rumore di gente; parte per la finestra donde è venuta Amina, e la chiude. Ella, sempre dormendo, si corica sul sofà. Scena decima Contadini d’ambo i sessi, Sindaci e Alessio. ALESSIO E CORO (di dentro) Osservate. L’uscio è aperto. Senza strepito inoltriam. 132 Tutto tace: ei dorme certo. Lo destiam, o no ‘l destiam? Perché no? ci vuol coraggio. Presentarsi, o uscir di qua. Dell’ossequio del villaggio malcontento ei non sarà. (si avvicinano) Avanziam. Ve’ ve’! mirate, a dormir colà s’è messo. Appressiam. (si accorgono di Amina, e tornano indietro) Ah! fermate: non è desso, non è desso, no. Al vestito, alla figura, è una donna... donna, sì. (reprimendo le risa) È bizzarra l’avventura. Come entrò? che mai fa qui? Scena undicesima Teresa, Elvino, Lisa e detti. ELVINO (di dentro) È menzogna. CORO Alcun s’appressa. LISA (addita Amina) Mira e credi agli occhi tuoi. ELVINO Cielo! Amina! TERESA E CORO Amina! dessa! Bozzetto di scena 133 AMINA (svegliandosi) Dove son?... chi siete voi? (vedendo Elvino) Ah! mio bene! (corre a lui) ELVINO (respingendola) Traditrice!... AMINA Io!... ELVINO Ti scosta. AMINA Oh! me infelice! Che feci io mai? AMINA Oh mio dolor! AMINA D’un pensiero e d’un accento rea non son, né il fui giammai. Ah! se fede in me non hai, mal rispondi a tanto amor. ELVINO Voglia il cielo che il duol ch’io sento tu provar non debba mai! Ah! te ‘l mostri s’io t’amai questo pianto del mio cor. TERESA Deh! L’udite, in un sol momento il rigor eccede omai. ELVINO E ancor lo chiedi?... ALESSIO E CORO Il tuo nero tradimento è palese e chiaro assai. In qual cor fidar più mai, se quel cor fu mentitor? ALESSIO E CORO Dove sei tu ben lo vedi. (in questo frattempo, Teresa ha raccolto sul sofà il fazzoletto di Lisa, e lo ha posto al collo di Amina) AMINA Qui!... perché?... chi mi v’ha spinta?... ELVINO Non più nozze: al nuovo amante sconoscente, io t’abbandono... ELVINO (con rabbia concentrata) Il tuo core ingannator. ALESSIO E CORO Non più nozze. AMINA (si getta nelle braccia della madre Teresa si copre il volto co’ le mani) Madre! oh! madre! AMINA Oh! crudo istante! Deh! m’udite! io rea non son. LISA E CORO Ah! sei convinta! ELVINO Togli a me la tua presenza: la tua voce orror mi fa. ELVINO Va’! spergiura!... AMINA Nume amico all’innocenza, 134 Bozzetto di scena 135 Secondo Atto svela tu la verità. AMINA E ELVINO Non è questa, ingrato core, non è questa la mercede ch’io sperai da tanto amore, che aspettai da tanta fede... Ah! m’hai tolta in un momento ogni speme di contento... Ah! penosa rimembranza sol di te mi resterà. [Insieme] LISA, ALESSIO E CORO Non più nozze, non più imene: sprezzo, infamia a lei conviene. Di noi tutti all’odio eterno, al rossor la rea vivrà. TERESA Ah! se alcun non ti sostiene, se favor nessun t’ottiene, sventurata, il sen materno chiuso a te non resterà. Tutti escono minacciando Amina: ella cade fra le braccia di Teresa. Cala il sipario. Scena prima Ombrosa valletta fra il villaggio e il castello. Coro di Contadini e Contadine. [Coro] 8. CORO Qui la selva è più folta ed ombrosa. Qui posiamo vicini al ruscello. Lunga ancora, scoscesa, sassosa è la via che conduce al castello. Sempre tempo per giungere avremo, pria che sorga dal letto il signore. Riflettiam. - Quando giunti saremo, che direm per toccare il suo cor?... Eccellenza!... direm con coraggio... signor conte... la povera Amina era dianzi l’onor del villaggio, il desìo d’ogni villa vicina... Ad un tratto è trovata dormente nella stanza che voi ricettò... Difendetela, s’ella è innocente, aiutatela, s’ella fallò. A tai detti, a siffatti argomenti... ei si mostra commosso, convinto: noi preghiamo, insistiam riverenti... ei ci affida, ei promette, abbiam vinto... Consolati al villaggio torniamo: in due passi, in due salti siam qua. Alla prova!... da bravi! partiamo... la meschina protetta sarà. 8. “Qui la selva” Come era accaduto nel quadro d’apertura del primo atto, sono gli interventi dei corni - “a voce spiegata” come indicato espressamente da Bellini - a ristabilire l’atmosfera naturale, stavolta più sfumata. Il coro esprime lo smarrimento e, con l’incresparsi della melodia, anche la preoccupazione dei contadini, concentrati a preparare il discorso da tenere al Conte in difesa di Amina. Ancora una volta il sillabato adottato da Bellini è efficacissimo a rendere la natura semplice, impressionabile degli abitanti del villaggio. (partono) Scena seconda Amina e Teresa. AMINA Reggimi, o buona madre; a mio sostegno sola rimani tu. TERESA Fa’ core. Il conte 136 137 dalle lagrime tue sarà commosso. Andiamo. AMINA Ah! no... non posso: il cor mi manca e il piè. - Vedi? - Siam noi presso il poder d’Elvino. - Oh! quante volte sedemmo insieme di questi faggi all’ombra, al mormorar del rio! - L’aura che spira dei giuramenti nostri anco risuona... Gli obliò quel crudele! ei m’abbandona! TERESA Esser non puote, il credi, ch’ei più non t’ami. Afflitto è forse anch’esso, afflitto al par di te... Miralo: ei viene solitario e pensoso... AMINA A lui mi ascondi... rimaner non oso. Scena terza Elvino, e dette in disparte. AMINA Vedi, o madre... è afflitto e mesto... Forse... ah! forse ei m’ama ancor. ELVINO Tutto è sciolto. Oh dì funesto! Più per me non v’ha conforto. Il mio cor per sempre è morto alla gioia ed all’amor. AMINA (si avvicina ad Elvino) M’odi, Elvino... ELVINO (si scuote) Tu... e tant’osi?... AMINA Deh!... ti calma... 138 ELVINO Va’! Spergiura! Tu m’hai tolto ogni conforto. AMINA Sono innocente. Io te ‘l giuro: colpa alcuna in me non è. ELVINO (amaramente) Pasci il guardo e appaga l’alma dell’eccesso de’ miei mali: il più triste de’ mortali sono, o cruda, e il son per te. VOCI (lontane) Viva il conte! AMINA Ah! t’arresta. ELVINO No: si fugga. AMINA Per pietade! ELVINO Va’! Mi lascia. Scena quarta Coro e detti. CORO Buone nuove! Dice il conte ch’ella è onesta, che è innocente, e a noi già move. ELVINO Egli! oh! rabbia! Bozzetto di scena 139 AMINA, TERESA E CORO Ah! placa l’ira... LISA Lasciami: aver compreso assai dovresti che mi sei noioso. ELVINO L’ira mia più fren non ha. (le toglie l’anello) ALESSIO Non isperar che sposo Elvin ti sia. Dell’onestà d’Amina sarà convinto in breve, e allora... AMINA Ah! il mio anello... oh! madre!... (Teresa sostiene Amina quasi spirante) LISA E allora mi sarai più rincrescioso ancora. CORO (ad Elvino) Mira!... A tal colpo morirà. Crudel! 9. ELVINO (si presenta ad Amina vivamente commosso) Ah! perché non posso odiarti, infedel, com’io vorrei! Ah! del tutto ancor non sei cancellata dal mio cor. Possa un altro, ah! possa amarti qual t’amò quest’infelice! Altro voto, o traditrice, non temer dal mio dolor. CORO Ah! crudel, pria di lasciarla, vedi il conte, al conte parla. Ei di rendere è capace a te pace, a lei l’onor. Elvino parte disperato. Teresa tragge seco Amina da un’altra parte. Scena quinta Villaggio. In fondo al teatro si scorge il mulino di Teresa: un torrente ne fa girare la ruota. Lisa seguitata da Alessio. [Scena e Aria] 140 traccia di Amina. Ma proprio l’impossibilità di riuscirvi viene suggerita dalle frasi sempre più accese e rimarcate dalle linee ascendenti dei legni. ALESSIO Deh! Lisa, per pietà... cambia consiglio, non mi trattar così. Che far d’un uomo che ti sposa soltanto per dispetto? 9. “Ah! perché non posso odiarti” L’apparizione di Elvino sembra richiamata dalla presenza di Amina e dal suo più riposto desiderio, “forse m’ama ancor”. E infatti nel cantabile la melodia è accompagnata dal corno a dare ancora più pregnanza alle parole del giovane. E’ la melodia a suggerire le parole stesse, lo stato d’animo. Pochi gli abbellimenti nella linea del canto, a dare un segno tangibile della desolazione in cui versa il giovane. L’evoluzione del pensiero di Elvino è segnato dal passaggio alla cabaletta con cui Bellini coglie il desiderio di cancellare dalla propria mente ogni LISA Mi è più caro d’un sciocco, io te l’ho detto. ALESSIO No, non lo sposerai. Porrò sossopra tutto il villaggio: invocherò del conte l’autorità, pria ch’io sopporti in pace d’esser da te schernito in questa guisa. VOCI (di dentro) Lisa è la sposa. LISA E ALESSIO Che?... VOCI (di dentro) La sposa è Lisa. Scena sesta Contadini, Contadine e detti. CORO A rallegrarci con te veniamo, 141 di tua fortuna ci consoliamo. A te fra poco, d’Amina in loco, la man di sposo Elvin darà. LISA 10. De’ lieti auguri a voi son grata, con gioia io veggo che son amata; e la memoria del vostro amore giammai dal cor non m’uscirà. CORO La bella scelta a tutti è cara, ciascun ti loda, t’esalta a gara, ognun ti prega prosperità. ALESSIO (Qual uom da tuono colpito io sono: parole il labbro trovar non sa.) Scena settima Elvino e detti. [Recitativo e Quartetto con coro] LISA E fia pur vero, Elvino, che alfin dell’amor tuo degna mi credi? ELVINO Sì, Lisa. Si rinnovi il bel nodo di pria: l’averlo sciolto perdona a un cor sedotto da mentita virtù. LISA Perdono tutto. Ora che a me ritorni più non penso al passato: altro non veggo che il ridente avvenir che alfin mi aspetta. ELVINO Vieni: tu, mia diletta, mia compagna sarai. La sacra pompa 142 già nel tempio si appresta. Non si ritardi. 10. “De’ lieti auguri” Strategico l’uso dei virtuosismi vocali da parte di Bellini, stavolta eseguiti quasi a freddo, con lo scopo di dare una connotazione quasi artificiale ai sentimenti della ragazza che colleziona trilli, già pregustando la vittoria sulla rivale TUTTI Andiam. Scena ottava Rodolfo e detti. RODOLFO Elvino, t’arresta. LISA (Il conte!) ALESSIO (A tempo ei giunge.) RODOLFO Ove t’affretti? ELVINO Al tempio. RODOLFO Odimi prima. Degna d’amor, di stima è Amina ancor: io della sua virtude, come de’ pregi suoi, mallevador esser ti voglio. ELVINO Voi!... Signor!... ELVINO Signor conte, agli occhi miei negar fede non poss’io. RODOLFO Ingannato, illuso sei: io ne impegno l’onor mio. ELVINO Nella stanza a voi serbata 143 non la vidi addormentata? ELVINO E CORO Andiam. RODOLFO La vedesti, Amina ell’era... ma svegliata non v’entrò. CORO A tai fole non crediamo. Un che dorme e che cammina! No, non è, non si può dar. LISA, ELVINO E CORO Come dunque? In qual maniera? 11. RODOLFO Tutti udite. Scena nona Teresa e detti. LISA, ELVINO E CORO Udiamo un po’. TERESA Piano, amici; non gridate; dorme alfin la stanca Amina: ne ha bisogno, poverina, dopo tanto lagrimar. RODOLFO V’han certuni che dormendo vanno intorno come dèsti, favellando, rispondendo come vengono richiesti, e chiamati son sonnambuli dall’andar e dal dormir. LISA, ELVINO E CORO E fia vero? - e fia possibile? RODOLFO Un par mio non può mentir. ELVINO No, non fia: di tai pretesti la cagione appien si vede. RODOLFO Sciagurato! e tu potresti dubitar della mia fede? ELVINO (senza badare a Rodolfo) Vieni, o Lisa. LISA Andiam. 144 11. “V’han certuni” Movimentato numero musicale che è segnato dall’ingresso del Conte, giunto a difendere l’onore di Amina. Non creduto, Rodolfo se ne risente. Con il sopraggiungere di Teresa il quadro è completo. L’atmosfera di incertezza prende il sopravvento su tutti. Musicalmente il disegno che si insinua a sorreggere le voci sembra concepito apposta per lasciare in un equilibrio precario, con un canone irrisolto, un contrappunto che volutamente non tiene e lascia tutti sorpresi. LISA, ELVINO E CORO Sì, tacciamo, ah! sì, tacciam... TERESA Lisa! Elvino!... che vegg’io? Dove andate in questa guisa? LISA A sposarci. TERESA Voi! gran dio! E la sposa... è Lisa?... ELVINO È Lisa. LISA Sì, e lo merto: io non fui colta sola mai, di notte in volta; né trovata io fui rinchiusa nella stanza di un signor. TERESA Menzognera! a questa accusa più non freno il mio furor. 145 Questo vel fu rinvenuto nella stanza del signor. ALESSIO E CORO Ah che pensar non so... ELVINO E CORO Di chi è mai?... chi l’ha perduto? ELVINO Signor?... che creder deggio? Ella pur mi tradì! TERESA (accennando Lisa) Ve lo dica il suo rossore. (Elvino lascia la mano di Lisa mortificato) ELVINO E CORO Lisa! TERESA Lisa. Il signor conte mi smentisca se lo può. LISA (Io non oso alzar la fronte!) TUTTI (Che pensar, che dir non so.) [Insieme] ELVINO (Lisa mendace anch’essa! Rea dell’istesso errore! Spento è nel mondo amore, più fé, più onor non v’ha.) TERESA E RODOLFO (In quella fronte impressa chiara è la colpa e certa. Soffra: pietà non merta chi altrui negò pietà.) LISA (Cielo! a tal colpo oppressa, voce non trovo e tremo. Quanto al mio scorno estremo la mia rival godrà!) 146 RODOLFO Quel ch’io ne pensi manifestar non vo’. Sol ti ripeto, sol ti sostengo, che innocente è Amina, che la stessa virtù offendi in essa. ELVINO Chi fia che il provi? RODOLFO Chi? - Mira: ella stessa. Scena ultima Vedesi Amina uscire da una finestra del mulino: ella passeggia, dormendo, sull’orlo del tetto; sotto di lei la ruota del mulino, che gira velocemente, minaccia di frangerla se pone il piede in fallo. Tutti si volgono a lei spaventati. Elvino è trattenuto da Rodolfo. TUTTI (sbigottiti con grido soffocato) Ah! RODOLFO Silenzio: un sol passo, un sol grido l’uccide. TERESA Oh figlia! ELVINO Oh Amina! (tutti con voce repressa finché non si svegli Amina) Bozzetto di scena 147 TUTTI Scende... Bontà divina, guida l’errante piè! ELVINO, RODOLFO, ALESSIO E CORO Tenero cor! AMINA (inginocchiandosi) Gran dio, non mirar il mio pianto: io gliel’ perdono. Quanto infelice io sono felice ei sia... Questa d’un cor che more è l’ultima preghiera... (Amina giunge presso alla ruota camminando sopra una trave mezzo fracida che piega sotto di lei) TUTTI Trema... vacilla... (si spezza la trave sotto il piede di Amina) CORO Oh detti! oh amore! TUTTI Ahimè!... (grido soffocato di terrore; Amina si rimette) TUTTI (meno Rodolfo) È salva!... AMINA (si guarda la mano come cercando l’anello di Elvino) L’anello mio... l’anello... Ei me l’ha tolto... Ma non può rapirmi l’immagin sua... Sculta... ella è qui, qui... nel petto. (si toglie dal seno i fiori ricevuti da Elvino) Né te d’eterno affetto tenero pegno, o fior... né te perdei... ancor ti bacio... ma... inaridito sei. Amina si avanza in mezzo al palco. [Scena e Aria] RODOLFO Coraggio... è salva! 12. AMINA Oh!... se una volta sola rivederlo io potessi, anzi che all’ara altra sposa ei guidasse!... RODOLFO (ad Elvino) Odi? TERESA A te pensa, parla di te. AMINA Vana speranza!... Io sento suonar la sacra squilla... Al tempio ei move... Ah! l’ho perduto... e pur... rea non son io. 148 12. “Oh!... se una volta sola” Il finale è un melodramma nel melodramma. E un quadro musicale dove le risorse vocali contano quanto quelle pantomimiche. La scena del sonnambulismo, è fatta coincidere da Bellini con una scena della follia, genere che appartiene agli archetipi del teatro musicale. Il sonnambulismo che aveva ispirato nelle fonti francesi un vero e proprio AMINA Ah! non credea mirarti sì presto estinto, o fiore; passasti al par d’amore, che un giorno sol durò. (piange sui fiori) Potria novel vigore il pianto mio recarti... Ma ravvivar l’amore il pianto mio non può. ELVINO No, più non reggo. AMINA E s’egli a me tornasse!... Oh! torna, Elvino. numero coreografico, una pantomina, qui accoglie tutta la vicenda dell’opera attraverso le reminescenze musicali che si fanno largo e fanno procedere il canto di Amina. “Ah non credea mirarti” dà la sensazione di seguire le pulsazioni brevi, lente e dolorose del pensiero di Amina. Il sonnambulismo rende pudico e riservato il suo smarrimento. Ogni frase degli archi indica un ulteriore passo della giovane e la sua solitudine si potrebbe leggere nell’abbandono al canto, mai riflesso dagli altri strumenti, che semmai orientano il suo pensiero. Questo Andante potrebbe durare all’infinito. Proprio come se Bellini riuscisse a rendere quella sospensione del tempo riscontrabile nel sonno. Il risveglio rovescia di colpo la situazione, con il riconoscimento di Elvino che infila l’anello al dito della giovane in segno di riconciliazione. E il virtuosismo agilissimo della cabaletta, spericolato nella moltiplicazione di gruppetti di note acute, è la traduzione musicale più schietta, senza alcuna zona d’ombra, della gioia che invade Amina. 149 RODOLFO (ad Elvino) Seconda il suo pensier. AMINA A me t’appressi? Oh gioia! L’anello mio mi rechi? RODOLFO (ad Elvino) A lei lo rendi. (Elvino rimette l’anello ad Amina.) AMINA Ancor son tua: tu sempre mio... M’abbraccia... (Rodolfo fa avvicinare Teresa ad Amina) AMINA Tenera madre... io son felice appieno! (Elvino è prostrato ai piedi di Amina, e Teresa l’abbraccia) RODOLFO De’ suoi diletti in seno ella si dèsti. CORO Viva Amina! viva ancor! AMINA (alla voce di Elvino, si scopre gli occhi, lo guarda, il conosce, indi si getta fra le sue braccia) Oh! gioia!... oh! gioia!... io ti ritrovo, Elvino! TUTTI (meno Amina) Innocente e a noi più cara, bella più del tuo soffrir, vieni al tempio e a piè dell’ara incominci il tuo gioir. AMINA Ah! non giunge uman pensiero al contento ond’io son piena: a’ miei sensi io credo appena; tu m’affida, o mio tesor. Ah mi abbraccia, e sempre insieme sempre uniti in una speme, della terra in cui viviamo ci formiamo un ciel d’amor. TUTTI (meno Amina) Innocente e a noi più cara, bella più del tuo soffrir, vieni al tempio e a piè dell’ara incominci il tuo gioir. AMINA (svegliandosi) Oh! ciel!... Ove son io?... che veggo?... (si copre gli occhi co’ le mani) Ah! per pietà, non mi svegliate voi! ELVINO (con gran passione incalzante) No: tu non dormi... Il tuo sposo, il tuo amante è a te vicino. 150 Bozzetto di scena 151 GLI ARTISTI Daniele Callegari direttore Milanese di nascita e di formazione musicale, all’inizio degli anni Novanta si è imposto all’attenzione dei più importanti teatri italiani, divenendo uno dei direttori più acclamati della sua generazione. Dal 1998 al 2001 è stato Direttore Principale al Wexford Opera Festival e dal 2002 al 2008 è stato “Chief Conductor” alla De Filharmonie (Royal Flanders Philharmonic Orchestra) di Antwerpen. Ha diretto in alcune fra le maggiori istituzioni concertistiche del mondo: Orchestre National d’Île-de-France, Orchestre National de Belgique, Philharmonique de Monte-Carlo, Orchestra della Monnaie di Bruxelles, Rotterdam Philharmonic Orchestra, Orchestre National de France, Orchestre National de Lille, Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Orchestra Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Münchner Rundfunkorchester, Tokyo Philharmonic Orchestra, Orchestra Sinfonica “G. Verdi” di Milano, Orchestra della Deutsche Oper di Berlino, Orchestra della Staatsoper di Berlino e Orchestra della Bayerische Staatsoper di Monaco, Danish Radio Symphony Orchestra. Viene regolarmente invitato in alcuni dei maggiori teatri e delle più prestigiose sale concertistiche del mondo, tra cui Metropolitan e Carnegie Hall di New York, Wiener Staatsoper, Opéra Bastille de Paris, Canadian 154 Giorgio Barberio Corsetti regia Opera di Toronto, Washington Opera, San Diego Opera, Bayerische Staatsoper di Monaco, Deutsche Oper e Staatsoper di Berlino, La Monnaie di Bruxelles, Gran Teatre del Liceu di Barcelona, New National Theatre di Tokyo, Opéra de Montecarlo, Capitole de Toulouse, Teatro alla Scala, Israeli Opera di Tel Aviv, Opernhaus Zurich, Maggio Musicale Fiorentino, Teatro Regio di Parma, La Fenice di Venezia. Ha inaugurato la stagione 2012/13 con Il trovatore al MET Opera di New York ed ha poi diretto Cavalleria rusticana e I pagliacci alla Den Norske Opera di Oslo, Aida alla San Diego Opera e L’elisir d’amore al Liceu di Barcellona. Nell’ambito dell’attività sinfonica ha diretto l’Orchestra de I Pomeriggi Musicali di Milano e la Slovenian Philharmonic Orchestra di Ljubljana. Ha inciso per Deutsche Grammophon e Foné. Giorgio Barberio Corsetti è regista teatrale e di lirica in Italia e all’estero. è stato direttore della Biennale Teatro di Venezia dal 1999 al 2001, consulente di Musica per Roma per danza e teatro dal 2005 al 2009, ha diretto per sei anni il Festival di nuovo circo “Metamorfosi” a Roma, ha collaborato come consulente e direttore artistico al FestiVAL di Villa Adriana a Tivoli, ha ideato e curato il Festival “Vertigine”, dedicato al teatro emergente italiano. Nel corso degli anni ha diretto numerosissimi spettacoli teatrali ispirati ad autori classici e contemporanei quali Ovidio, Kafka, Shakespeare, Barker, Dimitriades, in Italia e nei maggiori teatri europei tra cui Théâtre de l’Odéon, Théâtre du Châtelet, Comédie Française. Ha diretto, inoltre, numerose opere liriche in Italia e all’estero e prosegue con la progettazione su scala internazionale con la sua compagnia e con altri teatri europei (Venezia, Parma, Teatro alla Scala, Mariinsky Theatre). L’attività di direttore artistico e di regista di questi anni gli ha permesso di acquisire una profonda conoscenza delle strutture per la cultura e degli artisti contemporanei di teatro, danza, danze di strada e del nuovo circo, nonché di innovare la ricerca teatrale attraverso l’uso costante di nuove tecnologie. Tutte forme di espressione che raccontano il mondo in cui viviamo, le sue forme e le sue tensioni. Nel 1976 ha fondato la compagnia teatrale La Gaia Scienza che è poi diventata nel 2001 Fattore K, in omaggio a Franz Kafka, di cui ha curato vari adattamenti teatrali. 155 Franco Sebastiani maestro del coro Cristian Taraborrelli scene e costumi Gianluigi Toccafondo video Nato a Trento, ha studiato Ingegneria presso l’Università di Bologna e contemporaneamente composizione, musica corale, strumentazione e direzione d’orchestra al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna. Dal 1980 al 1984 ha insegnato al Conservatorio bolognese e dal 1998 al 2007 al Conservatorio di Adria. Dal 1982 al 2001 è stato maestro suggeritore e altro maestro del coro del Teatro Comunale di Bologna, partecipando alle stagioni liriche e alle tournée in Giappone del ’93 e del ’98. È stato maestro del coro al Teatro Valli di Reggio Emilia, al Comunale di Bologna, al Teatro Alighieri di Ravenna, al Teatro Verdi di Salerno, al Teatro dell’Opera di Roma, alla Maison Radio France di Parigi e a Fort Worth negli Stati Uniti. Ha diretto concerti e allestimenti di opere liriche in Italia e in Europa, è stato più volte assistente di direttori d’orchestra, tra cui P. Maag, G. Gelmetti e R. Muti. In qualità di direttore ha preso parte a diverse edizioni delle Feste Musicali del Comunale di Bologna e del Ravenna Festival. È stato più volte presidente di commissione nei concorsi per strumenti dell’orchestra al È nato a Roma nel 1970. Si muove tra il teatro di ricerca, l’opera e la messa in scena di eventi multimediali. Considerato un talento della sua generazione, ha collaborato con i compositori: L. Bacalov (Estaba la madre, Y Borges cuenta que), G. Dazzi (Le luthier de Venice), F. De Rossi Re (Biancaneve ovvero il perfido candore), L. Francesconi (Gesualdo considered as murderer), A. Guarnieri (Medea) e F. Vacchi (Il letto della storia). Nel 2009 in Francia ha ricevuto il “Prix du Syndicat de la Critique” per la migliore scenografia di Gertrude (le Cri) di H. Barker, messa in scena da G. Barberio Corsetti per il Théàtre de l’Odéon di Parigi. Per lo stesso spettacolo ha ricevuto la nomination per la migliore scenografia al Premio Molière. Nel 2009 ha inaugurato il Rossini Opera Festival firmando costumi e scenografie di Zelmira. Nel 2011 ha esordito alla Scala di Milano con Turandot. Ha curato la regia dell’opera Lalla Rûkh ovvero Guancia di Tulipano di G. Spontini e A. Corghi al Festival Pergolesi Spontini di Jesi. Ha realizzato scenografie e costumi per Maria di Rohan, La voce umana, La Cenerentola, Milton et la Julie di Spontini, Tosca, L’Orfeo, Falstaff, Candide, La bohème, La pietra del paragone, La rondine, Don Carlo, Luisa Miller, L’elisir d’amore. Collabora con numerosi teatri in Italia e in Europa: il Teatro Nazionale di Strasburgo, il Teatro dell’Opéra di Rennes, Théâtre du Châtelet di Parigi, il Teatro dell’Opera di Strasburgo, il Teatro dell’Opera di Mälmo, l’Opéra de Lausanne e il Mariinsky Theatre di San Pietroburgo. È nato a San Marino nel 1965. Ha studiato all’Istituto d’arte di Urbino, vive a Bologna. Dal 1989 realizza cortometraggi di animazione: La coda, La pista, La pista del maiale; dal 1992 con ArteFrance: Le criminel, Pinocchio, La piccola Russia, Briganti senza leggenda; nel 2000 il cortometraggio dedicato a Pasolini: Essere morti o essere vivi è la stessa cosa. Dal 1993 realizza sigle televisive per la Rai: Tunnel, Rai di tutto di più, Carosello, Stracult; sigle e loghi animati per il cinema: More cinema more Europa, Biennale di Venezia, Scott free, Fandango, Cineteca Bologna e spot pubblicitari: Levi’s, Sambuca Molinari. Dal 1999 disegna le copertine per Fandango libri. Principali libri illustrati: Pinocchio da Carlo Collodi (Logos), Il richiamo della foresta di Jack London (Mondadori), Jolanda la figlia del corsaro nero di Emilio Salgari (Corraini), La favola del pesce cambiato di Emma Dante (L’arboreto), Antonio Delfini: la malapoesia (D406), Padre Marella di Alberto Sebastiani (Bup), Rue Morgue di Edgar Allan Poe (Corraini). Ha disegnato l’immagine per: Galassia Gutenberg 1998, Santarcangelo dei teatri 2001-2002, Rimini 2003, Ert 2004, Teatro di Roma 2006, Università Urbino 2013. Nel 1998 le sequenze animate per il film Le monde à l’envers di Rolando Colla. Nel 2004 ha disegnato le scene per Iliade di Alessandro Baricco. Nel 2007 è stato l’aiuto regista di Matteo Garrone per il film Gomorra. Nel 2010 ha realizzato i titoli animati per il film Robin Hood di Ridley Scott. 156 Teatro Carlo Felice di Genova. È autore di revisioni e trascrizioni di partiture di opere inserite nella programmazione del Comunale di Bologna. Dal 2001 al 2003 ha ricoperto la carica di segretario artistico del Teatro Verdi di Trieste. 157 158 Marco Giusti disegno luci Roberto Aldorasi coreografie Paolo Pecchioli basso Sara Allegretta soprano è nato il 12 gennaio 1977 a Moruzzo in provincia di Udine. Nel 2006 ha conseguito il diploma in regia teatrale alla scuola Paolo Grassi di Milano. Ha iniziato a collaborare con Gabriele Amadori di cui è diventato assistente e che segue nelle attività di lighting designer e scenografo in produzioni quali Magic Flute Tableau Vivant, coproduzione Unesco. Collabora con DMT Biennale di Venezia e con il Rossini Opera Festival, dove ha acquisito una importante formazione nell’ambito del teatro musicale. Si dedica alla formazione sulle luci seguendo compagnie Off e collabora come resident lighting designer a festival musicali come Folk Est, No Boarders Music Festival, Sexto ’Nplugged. Ha realizzato le luci per Les adieux prodotto da Napoli Teatro Festival e Css Udine, spettacolo con integrazione 3D per la regia di Benedetto Sicca. Sempre per il Css Udine ha realizzato le luci di Pieri da Brazzaville, per la regia di Gigi dall’Aglio. Ha creato le luci negli spettacoli diretti da Giorgio Barberio Corsetti: Nineteen Mantras all’Auditorium Parco della Musica a Roma; Pop’pea e I was looking at the ceiling and Then I Saw the Sky entrambi al Théâtre du Châtelet di Parigi. Nato ad Avellino nel 1981, ha studiato etnocoreologia e antropologia teatrale. Ha proseguito gli studi in Danimarca, all’Odin Teatret, dove ha lavorato alle performance UrHamlet e Medeas Bryllup, dirette da Eugenio Barba. In Danimarca ha collaborato con The Jasonites, site-specific theatre group e ha fondato nel 2006 la compagnia Questifantasmi & Sons, i cui lavori sono stati rappresentati in Danimarca, Italia, Francia, Polonia, Grecia, Regno Unito, USA, Brasile, Colombia, Senegal, Siria e in Libano. Con le sue performance collabora con il MADI Museum of Dallas. È stato assistente di Giorgio Barberio Corsetti in La Guerra di Kurukshetra, di F. Niccolini e coreografo in Don Carlos, nel 2012, al Teatro Mariinsky. Nato a Firenze, ha studiato tecnica vocale con illustri maestri. Dopo l’esordio come Don Tritemio ne Il filosofo di campagna si è affermato nel panorama internazionale con Mustafà de L’italiana in Algeri, suo cavallo di battaglia. Ha debuttato con successo nel ruolo di Don Magnifico ne La Cenerentola, di Osmin ne Il ratto dal serraglio alla Pittsburgh Opera, di Raimondo in Lucia di Lammermoor alla Washington Opera, di Nourabad ne Les pêcheurs de perles al Filarmonico di Verona, di Maometto in Maometto II all’Opera di Istanbul. Acclamato interprete di Colline ne La bohème al Festival Pucciniano di Torre del Lago e di Alidoro ne La Cenerentola a Washington, Tenerife, Dublino, Cosenza, Sassari e per la Münchner Rundfunk Orchester con incisione Sony. È stato Gessler in Guglielmo Tell al Concertgebouw di Amsterdam, Fra’ Melitone ne La forza del destino al Festival di Macerata, Bartolo ne Il barbiere di Siviglia a Beirut, Damasco e Seoul, il re in Aida nei maggiori teatri italiani e a Mosca. Il suo repertorio operistico include: Il turco in Italia (Selim), Semiramide (Assur), Il barbiere di Siviglia (Don Basilio), Il signor Bruschino (Gaudenzio), Tancredi (Orbazzano), Il viaggio a Reims (Don Pruzenzio), Così fan tutte (Don Alfonso), Le nozze di Figaro (Figaro), Don Pasquale, L’elisir d’amore (Dulcamara), Chérubin (Filosofo), La sonnambula (Conte Rodolfo), Luisa Miller (Conte di Walter), Ernani (Silva), Nabucco (Zaccaria), Macbeth (Banquo), Cleopatra (Cesare), Carmen (Escamillo), Der Vampyr (Sir Humphrey Davenaut). Ha debuttato nel 1998 in diversi teatri europei: a Grenoble, Nantes, Cordoba, Burgos, Murcia, Granada, Saragozza, al Grand Théâtre di Ginevra (La bohème) e all’Alte Oper di Francoforte con Les Huguenots (2002). Sempre più intensa è da allora la sua presenza nei teatri e nei festival italiani, fra cui il Teatro alla Scala di Milano (Messa Solenne in re minore di L. Cherubini, ripresa al Festival di Saint-Denis di Parigi, al Festival di Salisburgo e al Maggio Musicale Fiorentino, diretta da R. Muti; Iphigénie en Aulide di C.W.Gluck, per la regia di Y. Kokkos e Les Dialogues des carmélites, per la regia di R. Carsen e con la direzione di Muti). Si è anche esibita al Festival della Valle d’Itria (in numerose produzioni fra cui Les Huguenots, con la direzione di R. Palumbo), al Teatro Verdi di Sassari (Turandot di Busoni e Andrea Chénier), al Teatro Massimo di Palermo (Moses und Aron), al Teatro La Fenice di Venezia (Te Deum di Caldara, Petite Messe Solennelle, Parsifal, Mitridate di Porpora), allo Sferisterio di Macerata (in varie produzioni fra cui Les contes d’Hoffmann nel ruolo di Giulietta, con la direzione di Chaslin e per la regia di P.L. Pizzi). Si ricordano infine le sue partecipazioni al Teatro Comunale di Bologna (La traviata e Falstaff), al Carlo Felice di Genova (Il turco in Italia), al Lirico di Cagliari (Aida) e al Maggio Musicale Fiorentino (la prima mondiale di Natura viva di M. Betta). È tornata al Petruzzelli dopo aver preso parte anche a Das Rheingold e Götterdämmerung. 159 160 Jessica Pratt soprano John Osborn tenore Alessandra Marianelli soprano Francesco Verna baritono Ha intrapreso la sua carriera vincendo numerosi concorsi e borse di studio presso istituzioni prestigiose quali, tra le altre, la Wiener Staatsoper, il Teatro dell’Opera e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Ha studiato e si è perfezionata con il Maestro Gelmetti, con Renata Scotto e Lella Cuberli e nel maggio 2013 ha ricevuto il prestigioso Premio Internazionale “La Siola d’Oro” Lina Pagliughi. Dal 2007, anno del suo debutto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Jessica Pratt è stata ospite dei più prestigiosi teatri e festival internazionali, quali Wiener Staatsoper, Deutsche Oper di Berlino, Teatro alla Scala di Milano, Covent Garden di Londra, Comunale di Bologna, As.Li.Co., Maggio Musicale Fiorentino, Opernhaus di Zurigo, San Carlo di Napoli, Carlo Felice di Genova, Petruzzelli di Bari, Teatro dell’Opera di Roma, Israeli Opera, La Fenice di Venezia, Rossini Opera Festival di Pesaro, Festival Internacional de Ópera Alejandro Granda di Lima, Caramoor Festival. Nel suo vasto repertorio operistico spiccano Lucia di Lammermoor, I puritani, Rigoletto, Le convenienze ed inconvenienze teatrali, La Juive, Armida, Roméo et Juliette, La sonnambula, Il flauto magico, Adelaide di Borgogna, Ciro in Babilonia, Don Giovanni, Candide, Guillaume Tell (cantato a Lima con J. D. Florez), I Capuleti e i Montecchi, La bohème, Demetrio e Polibio, Africaine. Ha vinto il Metropolitan Opera National Counsel Auditions, l’Opera Index Awards, ha meritato il primo posto all’Operalia Concours International de Voix d’Opera “Plácido Domingo” Competition, ed ha conseguito il diploma al Metropolitan Opera Young Artists Development Program. Ha vinto il Premio “Aureliano Pertile” ad Asti ed il Premio “Goffredo Petrassi”. Prestigiosi i nomi dei direttori d’orchestra con cui ha collaborato: A. Pappano, R. Bonynge, M. Minkowski, R. Abbado e Z. Mehta. Ha lavorato in molti ed importanti teatri: Metropolitan Opera, Wiener Staatsoper, Lyric Opera di Chicago, Maggio Musicale Fiorentino, Opéra National di Parigi, San Francisco Opera, Opernhaus Zürich, La Monnaie di Bruxelles, San Carlo di Napoli, Salzburger Festspiele, Teatro alla Scala di Milano, Accademia di Santa Cecilia di Roma, Royal Opera House di Londra e Teatro Colón di Buenos Aires. Il suo vasto repertorio include Guillaume Tell, La donna del lago, Otello e Armida di Rossini; Norma, I puritani e La sonnambula di Bellini; Les vêpres siciliennes, Rigoletto, La traviata e Falstaff di Verdi; L’elisir d’amore, Don Pasquale, Roberto Devereux e Lucia di Lammermoor di Donizetti; Die Entführung aus dem Serail, Die Zauberflöte, Così fan tutte e Don Giovanni di Mozart; titoli del repertorio francese quali Les pêcheurs de perle, La Juive, Les Huguenots, Les Contes d’Hoffmann di Offenbach e Manon di Massenet; canta anche Messiah di Händel, Carmina Burana di Orff, Te Deum di Bruckner e Stabat Mater di Rossini. Nata nel 1986, ha debuttato nel 2002 come Barbarina nelle Nozze di Figaro al Teatro Verdi di Pisa. Tra le voci più promettenti della sua generazione, è stata ospite di importanti teatri quali il Maggio Musicale Fiorentino, il Carlo Felice di Genova, il Comunale di Bologna, l’Opera di Roma, il Filarmonico di Verona, il Regio di Torino, il Verdi di Trieste, il Real di Madrid, l’Opéra di Montecarlo, l’Ópera de Bilbao, la Monnaie di Bruxelles e istituzioni musicali come il Rossini Opera Festival di Pesaro, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il Festival Mozart di La Coruña. Ha collaborato con i direttori R. Abbado, Bartoletti, Carignani, López-Cobos, Mariotti, Mehta, Noseda, Ono, Palumbo, Renzetti, Rovaris, Soudant, Zedda e con i registi D. Abbado, H. De Ana, P.L. Pizzi, F. Tiezzi e F. Zeffirelli. Nel 2010 ha debuttato negli Stati Uniti nel Don Giovanni con la Saint Paul Chamber Orchestra diretta da R. Abbado; tra i successi delle recenti stagioni si ricordano: Musetta ne La bohème a Firenze; Cherubino ne Le nozze di Figaro a Madrid; Roméo et Juliette (Juliette) a Genova; Carmen (Micaela) allo Sferisterio Opera Festival a Macerata e al Regio di Torino; La sonnambula a Montecarlo; La fuga in maschera a Jesi e a Napoli; Ricciardo e Zoraide a Bad Wildbad; la Petite messe solennelle di Rossini al Lingotto di Torino e Ein deutsches Requiem a Roma. Nei prossimi mesi sarà impegnata in Così fan tutte a Cagliari, Orfeo ed Euridice a New York, Il mondo della luna a Montecarlo. Nato a Paternò, si è perfezionato in canto lirico con Sara Pastorello. A diciannove anni ha vinto il premio speciale “Giovane Promessa” al Concorso Bellini di Caltanissetta e si è classificato secondo al “R. Leoncavallo” di Montalto Uffugo. Nel 2002 ha vinto il concorso “F. Cilea” di Reggio Calabria. Ha debuttato nel ruolo di Uberto ne La serva padrona di Pergolesi al Teatro Municipal di Santiago de Cali in Colombia. Nel 2003 si è aggiudicato il “Concorso per Giovani Cantanti Lirici Comunità Europea di Spoleto” debuttando nel ruolo di Figaro ne Le nozze di Figaro. Nel 2006 ha debuttato al Teatro alla Scala (Figaro ne Le nozze di Figaro e Masetto nel Don Giovanni). Si è esibito anche nei Teatri del Circuito lombardo (L’elisir d’amore), al Rossini Opera Festival (Il viaggio a Reims), a La Fenice di Venezia (Le roi de Lahore), al Malibran di Venezia e al Comunale di Bologna (La bohème), al Maggio Musicale Fiorentino (Il campanello e Il cappello di paglia di Firenze), al Carlo Felice di Genova (Il campanello, La bohème, Roméo et Juliette, Turandot e Don Giovanni). Ha collaborato con i direttori Zubin Mehta, Fabio Luisi, Yuri Temirkanov, Marcello Viotti, Gustavo Dudamel, Gerard Korsten, Kazushi Ono, Sergio Alapont, Maurizio Arena, Daniele Callegari, Fabrizio Maria Carminati e con i registi Giorgio Pressburger, Maurizio Scaparro, Peter Mussbach, Jean-Louis Grinda, Lorenzo Mariani, Andrea Cigni, Stefano Vizioli, Mario Pontiggia, Franco Ripa di Meana e Luca Ronconi. 161 Orchestra del Teatro Petruzzelli Coro del Teatro Petruzzelli MAESTRO DEL CORO direzione musicale Franco Sebastiani Daniele Rustioni VIOLINI I Pacalin Pavaci** Paolo Manzionna Enrico Vacca Aniello Alessandrella Raffaele Fuccilli Vigilio Aristei Giacomo Bianchi Stefano Delle Donne Sabina Morelli Matilde Ditaranto Luigi Presta Elena Di Felice VIOLINI II Maria Saveria Mastromatteo* Carmine Marcello Rizzi Stefania Di Lascio Milena De Magistris Piermarco Benzi Marcello Alemanno Antonio Maggiolo Domenico Passidomo Silvia Grasso Maria Giuseppa Parisi VIOLE Jonathan Cutrona* Antonio Buono Luca Pellegrino Cecilia Iacomini Michela Carnevale Giuseppe Rutigliano Anna Maria Losignore Federica Di Schiena VIOLONCELLI Andrea Waccher * Maria Cristina Mazza Marco Schiavone Astorino Giovanni Chirizzi Ubaldo Claudia Fiore 162 CONTRABBASSI Alessandro Terlizzi* Francesco Saverio Piccarreta Daniele De Pascalis Silvia Muci FLAUTI Raffaele Bifulco* Simone De Franceschi OBOI Raffaele Bifulco* Simone De Franceschi CLARINETTI Michele Naglieri* Daniele Galletto Banda sul palco OTTAVINO Simone De Franceschi CLARINETTI Mark LaRegina Andrea Zecchillo Fabrizio Miglietta TROMBONI Gianfranco Cipriani Francesco Chìsari CIMBASSO FAGOTTI Nicola Di Grigoli CORNI PERCUSSIONI Matteo Morfini* Mauro Leonardo Vittorio Schiavone* Francesca Bonazzoli Fabio Chillemi Giuseppe Smaldino CORNI Antonio Pirrotta Michelangelo Cotugno Michele Acquafredda TROMBE Ettore Luigi Rivarola* Giuseppe Frioni TROMBONI Calogero Ottaviano* Giuseppe Zizzi Domenico Toteda TIMPANI Raffaele Collazzo* PERCUSSIONI Giuseppe Costa* Maestri collaboratori Lucia Conca Antonella Poli Christian Ugenti Soprani Rossella Antonacci Annamaria Bellocchio Grazia Berardi Francesca Bicchierri Daniela Diomede Ester Facchini Roberta Mantegna Maria Meerovich Roberta Scalavino Anna Schiavulli Maria Silecchio Eun -Kyoung Suh Mezzosoprani e Contralti Michela Arcamone Emmanuela Capece Teresa Caricola Concetta D’Alessandro Caterina Daniele Giuliana Di Mitrio Francesca Lanzolla Stefania Lenoci Maria Leone Giovanna Padovano Olga Anatolievna Podgornaya Serena Scarinzi Tenori Alessandro Cosentino Giuseppe Cacciapaglia Nicola Domenico Cuocci Sebastiano Giotta Donato Lillo Tarì Giuseppe Maiorano Antonio Manfreda Pantaleo Metta Francesco Napoletano Raffaele Pastore Marcello Recca Vito Tralli Bassi e Baritoni Cataldo Cannillo Giovanni Francesco Cappelluti Rocco Cavalluzzi Francesco Colaianni Francesco De Candia Graziano De Pace Roberto Galanto Francesco Paolo Morelli Antonio Muserra Carlo Provenzano Saverio Sangiacomo Giacomo Selicato Ispettore del coro Roberta Peroni Archivista Leonardo Smaldone Ispettore dell’orchestra Anahì Dworniczak ** spalla * prima parte 163 OPERA BALLETTO SINFONICA STAGIONE 2013 KWZ>>ddK ȁ ^/E&KE/ ȁ ĚŝƌĞƚƚŽƌĞ<ĞƌŝͲ>LJŶŶtŝůƐŽŶ ƌĞŐŝĂŝŵƵŶƚĂƐEĞŬƌŽƐŝƵƐ KƌĐŚĞƐƚƌĂĞŽƌŽĚĞůdĞĂƚƌŽWĞƚƌƵnjnjĞůůŝ ĚŝƌĞƚƚŽƌĞĂŶŝĞůĞZƵƐƚŝŽŶŝ ƌĞŐŝĂ>ƵĐĂZŽŶĐŽŶŝ KƌĐŚĞƐƚƌĂĞŽƌŽĚĞůdĞĂƚƌŽWĞƚƌƵnjnjĞůůŝ ϭϵ'EE/Kͬ/ŶĂƵŐƵƌĂnjŝŽŶĞ^ƚĂŐŝŽŶĞ ϮϮͬϮϰͬϮϳͬϮϵ'EE/KϮϬϭϯ ϮϬͬϮϮͬϮϰͬϮϲͬϮϴEKsDZϮϬϭϯ ŵĂĞƐƚƌŽĚĞůĐŽƌŽ&ƌĂŶĐŽ^ĞďĂƐƚŝĂŶŝ ŵĂĞƐƚƌŽĚĞůĐŽƌŽ&ƌĂŶĐŽ^ĞďĂƐƚŝĂŶŝ WƌŽĚƵnjŝŽŶĞ&ŽŶĚĂnjŝŽŶĞWĞƚƌƵnjnjĞůůŝĞdĞĂƚƌŝĚŝĂƌŝ EƵŽǀŽĂůůĞƐƚŝŵĞŶƚŽ WƌŽĚƵnjŝŽŶĞ&ŽŶĚĂnjŝŽŶĞWĞƚƌƵnjnjĞůůŝĞdĞĂƚƌŝĚŝĂƌŝ ŽƉƌŽĚƵnjŝŽŶĞ&ŽŶĚĂnjŝŽŶĞdĞĂƚƌŽĚŝ^ĂŶĂƌůŽ͕EĂƉŽůŝ EƵŽǀŽĂůůĞƐƚŝŵĞŶƚŽ ȁ ȁ ŵĂĞƐƚƌŽĚĞůĐŽƌŽ&ƌĂŶĐŽ^ĞďĂƐƚŝĂŶŝ ͳȁʹͳ ĚŝƌĞƚƚŽƌĞĂŶŝĞůĞZƵƐƚŝŽŶŝ :ŽŚĂŶŶ^ĞďĂƐƚŝĂŶĂĐŚ DĂŐŶŝĨŝĐĂƚŝŶƌĞŵĂŐŐŝŽƌĞtsϮϰϯ /ŐŽƌ^ƚƌĂǀŝŶƐŬŝũ >ĞƐĂĐƌĞĚƵƉƌŝŶƚĞŵƉƐ Ύ ͳ͵ȁʹͳ ĚŝƌĞƚƚŽƌĞƐŚĞƌ&ŝƐĐŚ ŵĞnjnjŽƐŽƉƌĂŶŽ^ƚĞĨĂŶŝĞ/ƌĂŶLJŝ ĚŝƌĞƚƚŽƌĞůĂŝŶ'ƵŝŶŐĂů ƌĞŐŝĂŵŵĂĂŶƚĞ KƌĐŚĞƐƚƌĂĞŽƌŽĚĞůdĞĂƚƌŽWĞƚƌƵnjnjĞůůŝ ĂůůĞƚƚŽĚĞůdĞĂƚƌŽDĂƌŝŝŶƐŬŝũ Ěŝ^ĂŶWŝĞƚƌŽďƵƌŐŽ 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