LE PORTATITRICI CARNICHE a cura di Francesca Boschetti
…LE DONNE, UN MITO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE…
La storia delle Portatrici Carniche è ancora poco conosciuta.
Solo gli abitanti della Carnia hanno memoria di quelle donne
straordinarie e ne sono orgogliosi. Come orgogliosi sono gli
alpini che erano di stanza alla Caserma Maria Plozner Mentil,
unica caserma in Italia intestata ad una donna e ora purtroppo
abbandonata.
Ma chi sono le Portatrici Carniche? E cosa hanno fatto di così
importante per meritarsi parole di stima e riconoscenza da
parte del Generale Lequio, comandante del settore “Carnia”
durante la prima Guerra Mondiale?
Cominciamo con il dire che la Carnia (Cjargne in friulano) è
una regione storico – geografica del Friuli Venezia Giulia
settentrionale, al confine con l’Austria, compresa nella
provincia di Udine. E’ una regione montuosa, occupata in gran
parte dalle Alpi Carniche, impervia e isolata, anche per le
svantaggiose condizioni climatiche, caratterizzate da venti
impetuosi e da forte piovosità, difficile da domare anche per i
suoi tenaci abitanti.
Linea del fronte 24 maggio 1915
La storia della Portatrici Carniche si colloca tra l’Agosto del 1915 e l’Ottobre del 1917. In quel periodo
l’Esercito Italiano era così schierato: due Armate (1° e 4°) sul fronte Trentino; due Armate (2° e 3°) sul fronte
delle Alpi Giulie; un Gruppo Speciale al centro (XII Corpo d’Armata) in Carnia e in Val Fella; una riserva
d’Esercito tra Desenzano, Verona e Bassano. Grande importanza aveva il fronte che correva dalle sorgenti
del Piave a quelle del Natisone, comprendente le valli dell’alto Tagliamento, del Degano, del But e del Fella.
Questa era la Zona Carnia, formata da 31 battaglioni, ed era talmente vitale da essere posta alle dirette
dipendenze del Comando Supremo.
Il valore di tale Zona consisteva nel fatto che, realizzando uno sfondamento a Passo Monte Croce Carnico,
l’Esercito austriaco avrebbe avuto via libera nelle valli del But e del Chiarsò, considerate le porte principali
per l’invasione dell’Italia.Tale consapevolezza l’aveva anche lo Stato
Maggiore di Vienna, tanto è vero che in tutti i piani operativi – ancora in
tempo di pace- gli austriaci attribuivano un’importanza strategica alla Zona
Carnia. E’ bene sottolineare che l’attività della Portatrici s’interruppe nel
1917 quando, il 27 ottobre, i difensori di questo fronte caldo dovettero
ritirarsi lasciando le posizioni, che mai avevano perduto, perché aveva
ceduto il fronte dell’Isonzo difeso dalla 2° Armata ed i soldati di Carnia
dovettero ripiegare per non essere presi alle spalle. Con loro dovettero
fuggire anche le Portatrici.
La forza media presente in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila
uomini. Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di
munizioni, medicinali, attrezzi vari e così via. I magazzini ed depositi
militari erano dislocati in fondovalle e non c’erano rotabili che
consentissero il transito di automezzi né di carri trainati da animali. L’unico
sistema per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il
trasporto a spalla seguendo sentieri e mulattiere. Ma dato che per effettuare questi trasporti non si potevano
sottrarre militari alla prima linea senza danneggiare l’efficienza operativa, il Comando Logistico della Zona e
quello del Genio, furono costretti a chiedere aiuto alla popolazione civile. Tutti gli uomini validi erano alle
armi, rimanevano a casa solo donne, vecchi e bambini.
La situazione era davvero critica e le donne non esitarono a raccogliere il disperato invito. Si misero quindi a
disposizione dei Comandi Militari: “ Anin”, dicevano “ senò chei
biadaz a murin encje di fan” ( andiamo, altrimenti quei poveretti
muoiono anche di fame ).
Venne così costituito un Corpo di ausiliarie formato da donne di
età compresa tra i 15 e i 60 anni, della forza pari a quella di un
battaglione di circa 1000 soldati: nascevano le portatrici Carniche.
Esse non furono mai militarizzate, cioè non furono costrette al
lavoro per forza di legge e soggette alla disciplina militare. Ma la
disciplina ferrea che si auto imponevano durante le marce fu delle
più esemplari. Furono munite di un libretto personale di lavoro sul
quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i
viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio; furono anche dotate di un bracciale rosso con
stampigliato lo stesso numero del libretto e con l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano. Per
ogni viaggio ricevevano il compenso di lire 1,50 centesimi, pari più o meno a 3,50 euro, che venivano
corrisposti mensilmente. In caso di emergenza, potevano essere chiamate a qualsiasi ora del giorno o della
notte.
Dovevano presentarsi all’alba di ogni giorno presso i depositi ed i magazzini nei fondo valle per ricevere in
consegna il materiale e caricarlo nella gerla, una cesta di legno o di vimini intrecciati a forma di tronco di
cono rovesciato, aperto in alto, munita di due spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle
spalle.
La gerla ( zei- pronuncia gei- in carnico) fino ad allora l’avevano
caricata di granoturco, fieno, legna, patate e tutto ciò che poteva
servire alla casa e alla stalla. In questa situazione invece la gerla
che veniva a pesare 30-40 kg era carica di granate, cartucce,
medicinali, viveri e altro materiale.
A quel punto le donne partivano in gruppi di 15-20 e, dopo pochi
chilometri a fondo valle, si inerpicavano sulle montagne dirigendosi
ogni gruppo, verso la linea del fronte. Dovevano superare dislivelli
che andavano dai 600 ai 1200 metri, vale a dire dalle 2 alle 5 ore di
marcia in ripida salita. Arrivavano a destinazione col cuore in gola,
stremate dalla disumana fatica, che diventava ancora più pesante d’
inverno, quando affondavano nella neve fino alle ginocchia.
Scaricavano il materiale, una sosta di piccoli minuti per riposare, per
portare agli alpini al fronte qualche notizia del paese e magari
riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato, portato giù a valle,
a lavare, nei giorni precedenti. Si incamminavano poi in discesa, per ritornare agli stavoli, alle case, alla
fienagione, ad accudire i vecchi e i bambini, gli unici rimasti assieme a loro e il giorno dopo si ricominciava
con un nuovo viaggio.
Qualche volta, per il ritorno veniva chiesto alle portatrici di trasportare a valle, in barella, i militari feriti o quelli
caduti in combattimento. I feriti erano poi avviati agli ospedali di campo, i morti venivano seppelliti nei cimiteri
di guerra, dopo che le stesse portatrici avevano scavato la fossa.
E così per 26 mesi.
Un gruppo di Portatrici fu anche dislocato permanentemente, alloggiato in baracche poco dietro al fronte, a
disposizione del Genio militare. Erano impiegate per il trasloco dei materiali necessari ai “lavori del campo di
battaglia”: portavano pietrisco, lastre, cemento, legname ed altro per la costruzione di ricoveri, postazioni
arretrate e per il consolidamento di mulattiere e sentieri.
Tre ferite, una uccisa.
Tre di loro rimasero ferite: Maria Muser Olivotto, Maria Silverio Matiz entrambe di Timau del comune di
Paluzza e Rosalia Primus da Cleulis sempre del comune di Paluzza. Una di loro, Maria Plozner Mentil, fu
invece colpita a morte da un cecchino il 15 febbraio 1916.
Maria Plozner viene ricordata come una donna eccezionale. Era benvoluta per la
bontà d'animo e lo spirito d'altruismo. Delle portatrici fu riconosciuta "anima" e
guida trascinatrice. Sempre in prima fila in ogni circostanza, nei bombardamenti
delle artiglierie austriache e quando fischiavano le pallottole, infondeva coraggio
alle compagne impaurite e smarrite. Era mamma di quattro figli in tenera età,
e sposa di un combattente sul fronte del Carso. Il 15 febbraio 1916 venne colpita
a morte da un cecchino austriaco, appostato a circa 300 metri, a Malpasso di
Pramosio, sopra Timau. Era stata colpita mentre assieme alla sua inseparabile
amica Rosalia di Cleulis, si concedeva un piccolo riposo dopo aver scaricato la
gerla da un pesante carico di munizioni. Aveva solo 32 anni. Ebbe un funerale
con gli onori militari, alla presenza di tutte le portatrici, e fu seppellita a Paluzza.
C’è un singolare monumento, a Timau, inaugurato nel 1992: è il
riconoscimento che le popolazioni e le associazioni
combattentistiche hanno voluto erigere a ricordo della eccezionale
impresa delle portatrici. E’ intitolato a Maria Plozner Mentil, “anima”
e guida trascinatrice e a tutte le Portatrici carniche.
Il 1° ottobre 1997, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro salì fino a Timau, davanti al tempio dei
caduti, per conferire alle portatrici rimaste in vita, la medaglia d’oro al valor militare. Ha conferito, "MOTU
PROPRIO", la medaglia d'oro al valor militare alla memoria dell' Eroina Maria Plozner Mentil quale ideale
rappresentante di tutte le Portatrici. Nel suo messaggio di fine anno, Scalfaro aveva ricordato: “Erano lì
quelle che sono rimaste, più che novantenni. Ho portato la Croce di Cavaliere a ciascuna. Mi tremava la
mano nel momento in cui cercavo di sistemarla al petto di queste donne”.
Una di queste donne, era mia bis nonna, Giuseppina Franz, nata il 13 novembre del 1900 a Stavoli di
Moggio Udinese, da famiglia originaria del luogo. Prima di quattro fratelli, a 16 anni a seguito dello scoppio
della Prima Guerra Mondiale andò ad aiutare i militari che si trovavano al fronte, portando assieme a tutte le
altre non solo cibo, biancheria pulita, armi,
medicinali, ma anche una parola di conforto,
una carezza, un attimo di pace. Mia bis nonna
aiutava soprattutto nella riparazione o
costruzione di sentieri e mulattiere.
Era una Portatrice Carnica una donna che,
senza paura, rotta da tutte le fatiche, era
sempre pronta con la sua gerla sulla schiena
a partire giorno o notte che fosse per le
montagne, al servizio dell’ Italia in guerra!
Nel 1926 sposò un militare, Natale Ermacora
(nato nel 1898 a Magnano in Riviera) anche
lui era stato chiamato al fronte e si trovò a
combattere in prima linea sulle nostre
montagne decorato con la Croce di Vittorio
Veneto.
I miei due bis nonni si sono conosciuti all’
indomani della fine della Prima Guerra Mondiale. Giuseppina scendeva da Stavoli con la gerla sulle spalle.
Questa volta però, la gerla non era carica di munizioni, medicinali ecc, ma era piena di castagne.
Camminava per circa un paio d’ ore fino ad arrivare a Moggio Udinese, poi con il treno verso Magnano. Qui
trovava altri ragazzi o ragazze come lei pronti a scambiare il proprio grano con le sue castagne. Questi
scambi avvenivano perché a Stavoli il grano mancava, non era possibile coltivarlo, mentre a Magnano
mancavano le castagne così si barattavano questi prodotti della terra. Giuseppina e Natale, chiamati da tutti
Gjeme e Nadalin, si sono conosciuti proprio in queste circostanze mentre si scambiavano castagne e grano.
Così, da quei giorni, mio nonno iniziò a frequentarla, andava circa una volta al mese a trovarla. Soltanto una
volta al mese perché fare Magnano – Moggio Udinese in bicicletta e poi Moggio Stavoli a piedi non è che
fosse poi così comodo, la strada era lunga! Alla settima volta lui le disse: “ Se cumò tu vegnis iù tu, bon,
senò io no ven su pui! ” (se adesso vieni giù tu bene, altrimenti io non vengo più!)
Giuseppina e Natale si sposarono a 26 anni lei, e 28 lui ed ebbero tre figli.
Nel 1968 a Magnano in Riviera, Giuseppina Franz venne premiata con la Croce di Cavaliere e la medaglia d’
oro a valor militare e il marito fu premiato solo con medaglia d’ oro. Natale invidioso che lei avesse due
riconoscimenti e lui soltanto uno le ripeteva in continuazione questa frase: “Io in prime linee a riscjà la vite
ogni dì, e tu a tor cui militars …” (io in prima linea a rischiare la vita ogni giorno e tu in giro con i militari…)
Giuseppina se n'è andata in punta di piedi, il 15 gennaio del 2000, così come le altre sue eroiche compagne,
chiudendo dietro di sé la porta di un mondo che appartiene ormai solo ai libri di storia e ai racconti orali.
Attestato di Giuseppina,
medaglia d’ oro al valore
militare durante la prima
Grande Guerra.
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