°A 70 N N ER IV SA R IO D EN EL IS YJ JA R 1942 NATALE IN RUSSIA Anna Cavasinni Fabrizio Franceschelli SEZIONE “ABRUZZI” IL PRESIDENTE 1942 NATALE IN RUSSIA Settant'anni da Selenyi-jar sembrano tanti ma possono essere anche un niente; per noi Alpini Abruzzesi sono date e ricordi fermi che inducono a riflessioni, memorie e monito. I nostri Reduci, che ormai contiamo sulla punta delle dita, portano nei loro occhi ancora il ricordo dei commilitoni che hanno lasciato su quel campo di battaglia; portano nel loro animo l'orrore della testimonianza di una guerra, nella propria mente l'incredulità che ciò sia potuto accadere, incapaci di non saper giustificare il perché di tanto sacrificio umano; nei loro cuori la gioia di aver potuto vedere che almeno tanto sofferenza abbia avuto il risultato di un lungo periodo di pace e benessere. Ebbene da qui dobbiamo ripartire, comprendere che quanto si è ottenuto non venga oggi vanamente bruciato dall'indifferenza e dalla superficialità umana. Non riusciamo a capire che il volersi bene, il rispetto reciproco, la rispondenza sociale per quanto sta avvenendo esige che ognuno faccia la propria parte nell'intimo della propria coscienza. In questo la nostra Associazione ci fa da guida nei comportamenti e si innesta nel contesto comune che viviamo a difesa e considerazione di quanto accaduto. La vicinanza costante alle Istituzioni, alla Società tutta, l'impegno indefesso nel mantenere vivo il ricordo dei Caduti, la memoria dei Reduci per le sofferenze e le vicende umane vissute e che si sono susseguite, ci fanno sentire componente integrante di questa nostra Italia, assurgendo a baluardo dei valori di Patria, rispetto della Bandiera dei principi morali essenziali per i quali tanti nostri padri si sono immolati. Il Presidente Giovanni NATALE Ringraziamo chi ci segue da tempo nella nostra ricerca sulla memoria orale d'Abruzzo e chi per la prima volta si affaccia a scoprire il faticoso, seppur avvincente, percorso del nostro lavoro. Questo documentario è il risultato di anni di studi e di viaggi e si avvale di tutta la nostra professionalità e del nostro amore per le vicende umane e per la peculiarità del racconto filmato. Un ringraziamento dovuto va a tutti gli intervistati e a chi ha collaborato con noi, credendo nel nostro progetto, sia a livello istituzionale che sul piano personale, e in particolare al Sgt. 108 Carlo Ghilino. Anna Cavasinni - regista Laureata in Lettere e perfezionata in Sociologia e Ricerca Sociale, è regista, giornalista e antropologa. Ha insegnato “Teorie e tecniche dei linguaggi audiovisivi” nell'Università “G. D'Annunzio” di Chieti. Dal 1976 lavora con le principali reti R.A.I., realizza film di cortometraggio cinematografici e televisivi, documentari e ricerche socio-antropologiche con il mezzo audiovisivo. Dopo un lungo periodo di collaborazione con RAI Educational, attualmente collabora con RAISTORIA. Fabrizio Franceschelli - regista Laureto in Storia, è regista e antropologo. Ha insegnato Antropologia Visuale presso l'Università “G. D'Annunzio” di Chieti. Dal 1979 lavora con le principali reti televisive R.A.I., realizza film di cortometraggio con case cinematografiche e varie serie di documentari con la R.A.I. Dal 1994 è inviato del programma televisivo “Chi l'ha visto?” di RAI TRE. Territori LINK è un'associazione culturale abruzzese che dal 2001 produce documentari sulla memoria storica. Ha realizzato la serie “La Guerra in Casa”, di otto episodi, una serie di documentari sul mare e sta producendo una nuova serie sulle transumanze. Contatti: www.territorilink.it - [email protected] Natale 1942 - Peppino Prisco In ricordo degli Alpini abruzzesi caduti in Russia Giuseppe Prisco 1921-2001, medaglia d'argento al valor militare, Sten. Btg. "L'Aquila", 9º Reggimento Alpini, 108ª Compagnia, Divisione “Julia” C'era Gesù, tra noi, nelle trincee presso il Don, a tenerci compagnia nel gelo. Se no, di che saremmo vissuti, se neppure Lui ci avesse parlato, nel silenzio notturno della steppa? Chi può vivere soltanto di gelo, di fame e di fuoco? Ed allora, Lui ci sussurrava il nome della mamma, ne adoperava la voce per offrire l'augurio e il dono di Natale: 'Ritorna figliolo noi ti aspettiamo'. Innumerevoli gomitoli grigioverdi rannicchiati ed infissi nella neve, eravamo un'unica linea presso il Don - ma pochi per la bianca vastità di Ivanòwka, Golubòja, Krìniza, Nova Kalìtwa: molti soltanto a Selènyi Jar, al piccolo cimitero nato dal sangue degli Alpini de “L'Aquila”. Il Bambino parlava a noi, si soffermava in silenzio ed inatteso dinanzi a Loro. Li attendeva per portarli con sé nella notte di Natale. Noi superstiti restavamo sgomenti, quel mistero si esprimeva soltanto in dolore: sopra la neve, sotto la neve legava un'unica fraternità, una stessa sorte. Ma noi siamo tornati. Non c'è più Natale eguale a quell'ultimo nostro: ogni anno siamo là, su quella neve a chiamarLi. Fratelli nostri, noi vi ricordiamo. il STen. Peppino Prisco e il STen. Luigi Rolandi Come nacque la Stella Alpina La leggenda di Edelweis rivisitata da Luigi Rolandi Luigi Rolandi 1921-2011, STen. Btg. "L'Aquila", 9º Reggimento Alpini, 108ª Compagnia, Divisione “Julia” In una bianca casetta nascosta tra le pieghe rocciose della montagna vivevano due innamorati. Vivevano soli, lassù. D'inverno sperduti tra il candore smagliante dei nevai, d'estate sotto il sorriso vivido del sole che si specchiava sulle rocce e scrutava i burroni. Il pascolo degli armenti, le dure fatiche alpestri erano le occupazioni della coppia felice. Lei si chiamava Edelweis e portava con sé i doni più belli che la natura può dare. Il sole aveva dato ai suoi capelli un poco del suo oro; il cielo aveva regalato un lembo d'azzurro ai suoi occhi; dal torrente aveva ricevuto l'armoniosità limpida e fresca della voce e dalla roccia una bellezza forte, selvaggia, un poco austera. Edelwies era felice come felice si può essere quaggiù quando non si desidera nulla e ci si accontenta di poco. Un brutto giorno l'amore di Edelweis morì. Lei pianse, pianse tanto, smarrita nell'angoscia della solitudine. Poi lo seppellì in un cavo fra le rocce ed errò per la montagna, in cerca di un fiore da mettere sulla tomba dell'estinto. Scrutò i burroni, si arrampicò come un camoscio tra i massi cercando nelle pieghe più riposte dell'alpe, ma invano. La montagna era priva di fiori. Allora si lasciò cadere esausta sul tumulo fresco e, volgendo al sole gli occhi pieni di lacrime, lo implorò che le desse un fiore per il suo amore. Ma il sole le accarezzò i capelli e si nascose dietro una nube. Si rivolse al vento; ma il vento le passò accanto sospirando e fuggì lontano. Anche il torrente e la roccia non risposero alla mesta preghiera di Edelweis che, scoraggiata, tacque. Scese la notte, una bella notte piena di pace e di silenzio. Nel cielo vellutato si affacciavano le stelle e ad una ad una scrutavano nel buio incuriosite. Edelweis le vide e rivolse ad esse l'ultima, accorata preghiera: - O piccole stelle, voi che vedete tutte le cose di quaggiù, ditemi, ditemi dov'è nascosto un fiore per il mio amore -. E le stelle ascoltavano dall'alto stupite. Un vivo tremore di pianto fu la commossa risposta. Alcune lacrime d'argento solcarono la notte di una scia luminosa e si spensero nel buio. Al mattino, qua e là sulla roccia nuda spiccavano fiori strani a forma di stella… Le lacrime pietose degli astri cadute sulla roccia si erano trasformate in delicati fiori per consolare la povera creatura infelice. E questi fiori che sbocciano solo sulle alte vette dei monti, lontano dalle miserie degli uomini, vicino alla sublimità di Dio, furono chiamati Edelweis. La Messa di Natale - Giulio Bedeschi 1915-1990, sottotenente medico, 3° Rg.to Artiglieria da Montagna, Divisione Alpina Julia Campagna di Grecia e di Russia …La notte di Natale calò sulla distesa bianca; era patetica e struggente come solo i soldati in trincea la sentono, lontani da ogni bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle stelle. A mezzanotte, dalle gelide tane disperse fra la neve, ombre lente sortirono sulla pianura e s'avviarono silenziose verso un punto un poco luminoso. Convenivano dagli esigui tuguri ricavati fra neve e terra, pazientemente divisi con pidocchi e topi; andavano a processione e giungevano alla piccola luce, alla baracchetta del Comando di battaglione a salutare Gesù... …Il cappellano pregava con fervore ma un poco in fretta, perché gli alpini tremavano di freddo, quarantadue feroci gradi sotto zero... Stavano fermi e buoni nella neve, le ginocchia sprofondate nel bianco parevano di ghiaccio; tenevano la testa bassa a dire le loro semplici preghiere e ogni tanto l'alzavano a guardare il chiarore delle due candele. Il cappellano leggeva in fretta e a bassa voce le parole della Messa di Natale. Vedi, Bambino Gesù - forse diceva il suo cuore mentre gli occhi scorrevano sulle righe del messale - questi sono gli alpini che fanno la guerra. Ma non ne hanno colpa, Tu lo sai. Sono stati mandati, e devono ubbidire. Preferirebbero lavorare tranquilli nelle loro case, per i loro figli e per le mogli che sono rimaste sole, e per i vecchi. A loro non manca la buona volontà di servirTi in pace proprio come vorresti Tu, Pax hominibus bonae voluntatis… …Press'a poco così doveva pregare il cappellano, perchè era un alpino anche lui… da “Centomila gavette di ghiaccio”, 1963 - Mursia editore Don Carlo Gnocchi 1902-1956, cappellano militare in Albania e in Grecia, con il Btg. Alpino “Val Tagliamento”, e poi in Russia con la Divisione Alpina “Tridentina” … Ho visto contendersi il pezzo di pane o di carne a colpi di baionetta; ho visto battere con il calcio del fucile sulle mani adunche dei feriti e degli estenuati che si aggrappavano alle slitte, come il naufrago alla tavola di salvezza; ho visto quegli che era venuto in possesso di un pezzo di pane andare a divorarselo negli angoli più remoti, sogguardando come un cane, per timore di doverlo dividere con altri; ho visto ufficiali portare a salvamento, sulla slitta, le cassette personali o persino il cane da caccia o la donna russa, camuffati sotto abbondanti coperte, lasciando per terra abbandonati i feriti e i congelati; ho visto un uomo sparare nella testa di un compagno, che non gli cedeva una spanna di terra, nell'isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto a dormire... da “Cristo con gli Alpini”, 1946 - la Scuola Editrice IL CORPO DEGLI ALPINI Gli Alpini nacquero per Regio Decreto del 15 ottobre 1872 firmato a Napoli dal Re d'Italia Vittorio Emanuele II con il quale si autorizzava la costituzione di 15 compagnie alpine. Lo scopo era quello di fornire lo Stato italiano di un adeguato apparato di difesa dei valichi alpini contro eventuali aggressioni da parte della Francia, della Svizzera o dell'Impero Austro-Ungarico. C'erano studi sulla necessità strategica di arruolare direttamente nelle zone di confine i montanari locali, in modo da avere tante unità difensive quanti erano i valichi alpini da proteggere. Pertanto i soldati destinati a queste unità dovevano essere avvezzi al clima rigido, alle fatiche di spostamenti in montagna, alle insidie di terreni accidentati e pericolosi. E gli ufficiali, prima ancora che militari, dovevano essere bravi alpinisti. Tale reclutamento locale costituiva un forte elemento di coesione tra le truppe riunendo nelle compagnie i giovani che provenivano dalla stessa vallata. Dopo soli tre anni le compagnie erano già divenute 36 per un numero complessivo di quasi 10 mila alpini. La prova del fuoco avvenne con la battaglia di Adua, in Etiopia. Gli alpini destinati alla difesa delle montagne italiane furono mandati in Africa per una sorta di test. Il 1° marzo del 1896 Menelik attaccò i 15 mila soldati italiani con un esercito di oltre 100 mila guerrieri. Fu una carneficina: dei 954 alpini ne sopravvissero 92. Ma di errori e di leggerezze di questo genere se ne vedranno ancora fra i politici e i capi di stato maggiore italiani. Allo scoppio della guerra italo-turca del 1911, si torna a pensare che le pianure africane siano un buon territorio per l'impiego di truppe alpine da montagna. E' così che ben 10 battaglioni sono aggregati a reparti di fanteria e spediti a combattere fra le dune della Libia. Comunque sia, gli Alpini entrano nella leggenda nel corso del 1° conflitto mondiale, quando si distinguono nella guerra d'alta quota e finalmente vengono destinati ai combattimenti fra le loro valli, per il loro territorio. Nel frattempo, il 20 maggio 1910 è nato ufficialmente il cappello degli Alpini che sarà per sempre il fiero segno distintivo del Corpo e ispirerà canti e liriche. Il Battaglione L'Aquila e la Divisione Julia Nel 1935 il 9° Reggimento Alpini, già dotato di due battaglioni, ne costituisce un terzo con i complementi della Terra d'Abruzzo che prende il nome di Btg. L'Aquila. Vi affluiscono i richiamati della classe 1911 che vengono inquadrati nelle compagnie 93ª, 108ª e 143ª, già del Btg. Monte Berico. La data ufficiale della costituzione è il 13 aprile 1935. Il battaglione ha il motto “D'aquila penne, ugne di leonessa”, coniato dal poeta abruzzese Gabriele D'Annunzio, che sembra stia a ricordare quattro località dell'Abruzzo: “L'Aquila, Penne, Orsogna e Leonessa”. All'epoca del poeta Leonessa non era ancora in provincia di Rieti. Nel 1939 il Btg. L'Aquila si imbarca a Bari e sbarca a Durazzo per trasferirsi a Bureli (Albania). Il 28 ottobre 1940 entra in Grecia. Qui le sue Compagnie si distinguono nei combattimenti grazie al coraggio e all'ardore degli Alpini abruzzesi. E se ne ricorda la strenua difesa del Ponte di Perati. A causa delle terribili perdite, il battaglione viene ricostituito per ben due volte. Del resto tutta la Divisione Julia, nel cui organico c'è anche il Btg. L'Aquila, in pochi mesi è passata da 9.000 a 800 unità. E' evidente che si tratta di una vera e propria carneficina. Ma, quando nel marzo del 1942 rientra in patria, già deve prepararsi ad una nuova missione, ancor più temeraria e disorganizzata delle precedenti, una follia: l'invasione della Russia. Il 9 giugno prende il comando il Magg. Luigi Boschis. Intanto sono stati arruolati Angelo Chiarilli, Francesco Cicone, Valentino Di Franco, Alfredo Di Pasquale, Antonio Malascorta, Ercole Nori e tanti altri Alpini delle montagne abruzzesi che sono andati a “vestirsi” a Sulmona. Poi, il 16 agosto del 1942, dalla stazione di Gorizia partono le tradotte per il fronte russo. Il Btg. L'Aquila conta 1.650 uomini, con 52 ufficiali, 52 sottufficiali e 360 muli. Arrivati a Izjum, gli Alpini devono affrontare una marcia a piedi di parecchie centinaia di chilometri, in direzione di Stalingrado, per andare a prendere posizione lungo il fiume Don. Qui viene schierata tutta l'ARMIR, Armata Italiana in Russia, al comando del gen. Gariboldi, che conta 230.000 uomini. Sulle sponde del fiume, da nord a sud, si succedono le tre Divisioni Alpine: “Julia”, “Tridentina” e “Cuneense”. Il comando del Corpo di Armata Alpino è a Rossosh, poco oltre il confine con l'Ucraina, a 500 chilometri da Stalingrado, dove da più di un anno si combatte la battaglia decisiva per il 3° Reich e per l'Europa intera. Il Btg. L'Aquila e L'ARMIR Dei 940 cannoni che equipaggiano l'ARMIR, ben 250 risalgono alla impresa di Libia del 1911 o sono preda bellica della guerra contro l'esercito austro-ungarico del 1915-18. Ci sono poi 2.850 fucili mitragliatori e 1.800 mitragliatrici che, secondo chi vive negli accoglienti palazzi romani, dovrebbero servire ad armare un esercito di 230.000 uomini. Le mantelline e gli scarponi chiodati che dovrebbero proteggere dal gelo russo i nostri giovani sembrano gli abiti di scena per un filmetto di propaganda del Regime girato a Cinecittà, ma nella tragica realtà di allora sono soltanto lo specchio di un “menefreghismo” intollerabile. Addirittura i soldati dell'ARMIR cercheranno di fare baratti con la popolazione locale per ottenerne le calzature adatte al gelo russo, i valenki. Mentre a Roma e nel resto della nostra penisola, fra i vertici politici e militari, si agiva con tanta leggerezza e superficialità; mentre gli imprenditori e i commercianti erano ben lieti di rifilare all'esercito le loro costose quanto inutili mercanzie, i giovani dell'ARMIR pativano sofferenze disumane, dovute alla fame, al gelo e alla totale inadeguatezza del nostro equipaggiamento militare. Però avevamo ben 25.000 quadrupedi. Con questa dotazione i nostri giovani Alpini abruzzesi dovettero subire l'offensiva di un esercito russo ben vestito, con calzature adeguate al clima, con armi tecnologicamente all'avanguardia, dotato di una quantità impressionante di carri armati dalla corazza impenetrabile, mitra con una rapidità di fuoco che permetteva a un soldato russo di sparare cento colpi mentre un nostro alpino tentava di spararne uno, e poi aerei da caccia, lanciarazzi katyusha e, soprattutto, munizioni, tante. Chissà se in tutto il Btg. L'Aquila, composto di 1.700 uomini, si è mai vista l'ombra di qualche fucile mitragliatore? Addirittura l'alpino Angelo Chiarilli di Ortucchio (AQ) volevano farlo partire senza neppure il fucile - poi chissà là quanti ne trovi! così gli avevano detto. Ma lui si era impuntato e aveva preteso che glielo consegnassero subito, il fucile. Se doveva partire dalla sua terra per andare a combattere non si sa dove e contro chi, perlomeno che gli si consegnasse un'arma. La sua richiesta era legittima ma, se l'avesse saputo il Duce, lo avrebbe sgridato e umiliato. In fondo c'erano i volontari delle Camice Nere che andavano al fronte armati solo di bombe a mano e baionette. Chissà se quel Benito Mussolini avrà mai visto da vicino gli occhi di centomila madri private dei loro figli da una guerra assurda, inutile. Chissà se per lui e per gli altri gerarchi fascisti quei giovani soldati che si gettavano nella mischia e concludevano così tragicamente la loro giovane esistenza erano soltanto carne da macello. I loro nobili cuori avrebbero potuto essere impiegati per difendere i confini nazionali dell'Italia da un'eventuale invasione nazista, per difendere i loro villaggi, le loro valli, le loro famiglie… Ma andare in Russia, contro un nemico sconosciuto, contro giovani che non sapevano di essere nostri nemici, perchè? Il Btg. L'Aquila e il quadrivio di Selenyj Jar A dicembre del 1942 il Btg. L'Aquila prende posizione nella zona di Selenyj Jar. Non è questo che un piccolo villaggio con qualche isba e un misero incrocio di piste nella steppa dove campeggia un palo di legno con quattro cartelli che indicano le direzioni di Komaroff, Krinintschnaja, Deserowatka e Ivanowka. Il luogo per gli Alpini passerà alla storia come “il quadrivio insanguinato”. La grande offensiva dell'Armata Rossa sul Don parte a fine dicembre e, nel giro di pochi giorni, annienta due divisioni italiane (la Cosseria e la Ravenna) e una divisione tedesca. Si tratta del lato sud dello schieramento e, se la manovra russa non verrà subito arginata, tutto il Corpo di Armata Alpino si troverà chiuso in una sacca fino al comando generale, a Rossosh, e tagliato fuori da qualsiasi collegamento con le retrovie e con eventuali vie di fuga. Ebbene proprio nei giorni di Natale, fra il 20 e il 30 dicembre, il Btg. L'Aquila riceve l'ordine di andare a tappare la pericolosa falla per scongiurare l'accerchiamento e, con il solo aiuto dei pochi resti del Btg. Monte Cervino, si batte resistendo eroicamente e fronteggiando un esercito che per equipaggiamento e numero di uomini è di gran lunga più forte. Gli Alpini abruzzesi, a costo di spaventose perdite, continuano a difendere la posizione, da soli, e non indietreggiano. Per una settimana restano ai loro posti, giorno e notte fermi in mezzo alla neve, allo scoperto, bersaglio facile del gelo e dei caccia nemici. Dopo cinque giorni arrivano di rinforzo i Battaglioni Vicenza e Val Cismon e viene così ritardata di qualche giorno ancora la disfatta totale, fino al 17 gennaio del 1943. Quando finalmente arriverà l'ordine di ritirata, del Btg. L'Aquila saranno rimasti non più di 300 uomini! Per qualcuno quella è stata la Battaglia di Selenyj Jar, per qualcun altro la Battaglia di Natale, ma gli Alpini del Btg. L'Aquila - quei pochi che son tornati - la chiamano la Battaglia del “Quadrivio maledetto”. Lì, in località Ivanowka, a quota 204, fra i giorni 20 e 25 dicembre del 1942 hanno trovato la morte il Ten. medaglia d'oro Enrico Rebeggiani (Chieti), l'alpino Gino Campomizzi (Castel di Ieri), l'alpino medaglia d'oro Giuseppe Mazzocca (Farindola). Angelo Chiarilli, Valentino Di Franco, Alfredo Di Pasquale, Antonio Malascorta, e molti altri sono tornati senza gli arti inferiori, amputati a causa del gelo. Antonio Cicone (Pietransieri), Corradino Scalone (Isola del Gran Sasso) e tanti, tanti altri ancora non hanno più fatto ritorno a casa e sono finiti dispersi in Russia o nei campi di prigionia, e non se n'è saputo più nulla. Per noi oggi non sono che semplici nomi, ma fino a quel terribile epilogo erano stati figli di mamma che avevano appena lasciato i giochi dei bimbi. Erano giovani pieni di speranza, con dei loro ideali, una loro fede, dei loro sentimenti. E avevano appena avuto il tempo di innamorarsi di una ragazza che già l'avevano dovuta lasciare… per sempre. Ma torniamo ai Russi che attaccano a sud di Rossosh e che il 17 gennaio del 1943 sfondano definitivamente, arrivando fino al Comando del Corpo di Armata Alpino che all'ultimo minuto impartisce frettolosamente l'ordine di ritirata. Lasciate le posizioni sul Don e abbandonata Rossosh, le tre divisioni alpine nella seconda metà di gennaio si trascinano nel gelo, senza cibo, senza armi, braccate da un'Armata Rossa che avanza implacabile e ormai senza più ostacoli. Gruppi di sbandati tedeschi e ungheresi si aggregano alla massa dei circa 35-40 mila soldati italiani in ritirata. Sono ombre e sagome indistinte nella neve, una scia nera lunga parecchi chilometri di giovani demotivati e logori. I Russi vanno a marce forzate, nella speranza di chiudere in una sacca gli ultimi resti di quella che alcuni definiranno “un'armata di straccioni”. Senza più scarpe, fasciandosi i piedi con brandelli di indumenti presi ai morti; accoltellandosi per difendere un tozzo di pane o per strappare al compagno il ricovero in un'isba; arrivando perfino ad assurdi episodi di cannibalismo, in un'atmosfera da day after, gli Italiani comunque avanzano verso ovest, come guidati da un istintivo spirito di orientamento verso la terra dei padri, verso casa. Un ruolo importante nel sorreggere spiritualmente quei poveri giovani esausti fu rivestito dai cappellani militari e fra loro ce ne fu uno in particolare, don Carlo Gnocchi, che alla fine del Secondo conflitto mondiale volle adoperarsi per aiutare i piccoli bambini colpiti dalle ingiurie della guerra. Nelle sue memorie scrisse pagine intense sulla tragica esperienza in Russia, sulle atrocità e sulle infamie, sulla disperazione e sulla disumanità di quella spedizione: “ho visto un uomo sparare nella testa di un compagno, che non gli cedeva una spanna di terra, nell'isba, per sdraiarsi freddamente al suo posto a dormire…” Il Btg. L'Aquila e Nikolajewka Inizialmente l'ordine di Gariboldi è di puntare verso Valuiki ma si viene a sapere che la città è già stata occupata dai Cosacchi. E' il 21 gennaio quando, nella zona di Sheliakino, viene cambiato l'ordine: si punta verso nord-ovest, verso Nikolajewka. La Divisione Cuneense e buona parte della Julia hanno intanto perso i contatti con il resto della colonna e marciano verso sud ovest. La Julia ingaggia vari combattimenti e viene decimata, finchè alcuni gruppi si staccano e riprendono il contatto con la colonna principale. La Cuneense, fra il 27 e il 28 gennaio, va a finire proprio contro i Russi e, nel corso di furiosi combattimenti che durano una trentina di ore, l'intera divisione viene letteralmente annientata. Il grosso della colonna, quella che punta in direzione di Nikolajewka, continua la sua marcia di 200 chilometri, seminando una scia di morti causati dal gelo, dalla fame, dallo sfinimento e dai continui attacchi dei partigiani sovietici.. Poi, il 26 gennaio, arriva a Nikolajewka, a quel sottopassaggio ferroviario che entrerà nella leggenda grazie alla Divisione Tridentina e al Gen. Luigi Reverberi. La Tridentina è quella che ha subito meno perdite sul Don ed è quella - per modo di dire - che al momento è più efficiente. I Russi, equipaggiatissimi, con mortai, cannoni, mitragliatrici, si sono piazzati davanti al terrapieno dei binari e fra le casette del paese. Sono almeno cinquemila e aspettano di liquidare definitivamente tutta l'enorme colonna di fuggiaschi. Gli Italiani non hanno scelta, o farsi ammazzare tutti o attaccare all'arma bianca, con qualche superstite pezzo di artiglieria e con l'appoggio di tre semoventi tedeschi. Alle 9,30 viene dato l'ordine di attaccare. I Russi vengono colti di sorpresa e la ferrovia viene raggiunta al termine di sanguinosi scontri. Gli Italiani si arrampicano sulla scarpata del terrapieno e alcuni di loro riescono a piazzare qualche mitragliatrice fra le prime isbe del centro abitato. Ma la reazione dei Russi è violenta e, appoggiati anche dagli aerei che mitragliano a bassa quota, oppongono una strenua resistenza. La battaglia infuria per molte ore. Nei combattimenti sono coinvolti anche reparti della Julia col Btg. L'Aquila. Sul campanile della chiesa i Russi hanno piazzato una mitragliatrice che fa strage di alpini. La neve si tinge di rosso per il sangue versato da ambo le parti. Le ore passano, si avvicina il tramonto e c'è il serio rischio che gli Italiani vengano ributtati indietro. Sarebbe una vera tragedia perché il vento gelido della notte, a 35° sotto lo zero, darebbe il colpo di grazia a quei disgraziati che hanno speso tutte le loro ultime energie nei feroci combattimenti della giornata e che non ce la farebbero a trascorrere la notte all'addiaccio. La leggenda narra che a questo punto il Gen. Reverberi, comandante della Tridentina, sale su un semovente tedesco e, al grido di "Tridentina avanti!" trascina i suoi alpini e l'intera colonna di sbandati all'assalto. Come una valanga, la gran massa di 30-40 mila uomini si scaglia contro i Russi urlando, attraversando il sottopassaggio della ferrovia o arrampicandosi su per la scarpata del terrapieno. E' così che, impressionati da un attacco così deciso, i Russi si danno alla fuga, abbandonando sul terreno armi, equipaggiamenti, caduti e feriti. Poi la marcia degli alpini prosegue non senza difficoltà, ma l'accerchiamento sovietico è rotto e dopo soli 4 giorni l'intera colonna, sia pur ulteriormente decimata, giunge in salvo. A Schebekino gruppi di feriti vengono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio. Sembra che per il trasporto in Russia del Corpo d'Armata Alpino fossero stati necessari più di 200 treni, ma per il ritorno ne basteranno solo 17. Alla fine del conflitto queste saranno le cifre da tenere a mente: Divisione Tridentina: 26.300 Divisione Julia: 14.000 Divisione Cuneense: 16.700 Sopravvissuti: 6.400 Sopravvissuti: 3.300 Sopravvissuti: 1.300 Il Btg. L'Aquila a Sulmona Dei 1.754 militari e 360 muli del Btg. L'Aquila che erano partiti 8 mesi prima per la Russia, a marzo del 1943 verranno rimpatriati appena 162 uomini e 12 muli, e tra loro il leggendario mulo “Fusco”. Gli altri sono morti, dispersi o prigionieri. Una tragedia, una tragedia da non dimenticare. Si trattava del fior fiore della gioventù abruzzese, perché mandarla così all'avventura, alla disperata? Davvero eravamo senza'altra via d'uscita? A giugno dello stesso anno poi sfilano per il corso e le piazze di Sulmona i reduci, con le schiere rinfoltite da nuove reclute. Ci sono soltanto tre ufficiali a sfilare: il Ten. Romualdo Vitalesta, il STen. Federico Fossati e il STen. Peppino Prisco. Il Btg. L'Aquila viene poi inviato sui confini orientali, per contrastare la guerriglia delle bande partigiane jugoslave. La Guerra in Casa A giugno del 1943 il Fascismo sta per crollare ma ancora si ostina a proporre una politica di guerra a oltranza. In Nord Africa gli ultimi Italiani si sono ritirati fino in Tunisia e tutto l'Impero coloniale italiano si è dissolto. Ci sono ancora le nostre truppe sparse nei Balcani, in Francia, nelle isole dell'Egeo, in Slovenia. Ma è ormai evidente che la disfatta è certa. Perché non ci si decide a trattare per una resa onorata, per un armistizio che potrebbe salvare l'Italia da un'ulteriore carneficina? Le Forze Alleate non ancora sono sbarcate in Sicilia, perché tanta ottusa ostinazione? I soldati della Wehrmacht sono ancora al di là del Brennero, e se tentassero di scendere nella nostra penisola, gli Italiani saprebbero bloccarli alla frontiera, ai valichi alpini. Forse si potrebbe evitare che la Seconda guerra mondiale arrivi fino in Italia. Ma non sarà così e l'Italia perderà la sovranità nazionale, da sud invasa dalle truppe alleate e da nord invasa dalle truppe del 3° Reich. Chi poteva immaginare, quando siamo partiti per conquistare l'intero bacino del Mediterraneo e allargare il “nostro spazio vitale”, che la guerra sarebbe penetrata nel nostro territorio, addirittura fino in Abruzzo e che in una regione così appartata ci si sarebbe trovati per otto mesi con la guerra in casa. IL DOCUMENTARIO E LE INTERVISTE Prima di partire per la grande avventura della guerra i giovani abruzzesi del Gran Sasso d'Italia conducevano una vita molto semplice, erano perlopiù contadini, pastori e piccoli artigiani. Il mestiere era tramandato di padre in figlio e tutti si accontentavano del poco che bastava appena per vivere. Certo, anche in quelle zone di montagna l'emigrazione aveva strappato dalle piccole valli tanti giovani che volevano cambiare il loro destino e cominciare una nuova vita. Ma coloro che erano rimasti ancora più fortemente si erano legati a quelle montagne, alle loro tradizioni, alla piazzetta, alla chiesa… Fino ad allora non avevano conosciuto altro, chiusi come erano nei confini naturali dei monti. Addirittura molti ragazzi non avevano mai visto il treno o il mare, e certo non immaginavano neppure come fosse la Russia. Dunque, i nostri Alpini sono partiti per la guerra nella totale inconsapevolezza, Hanno abbracciato tra le lacrime le madri e le spose e, mentre il paesello scompariva dietro di loro, la passione della gioventù per le novità tramutava il pianto in sottile gioia. In seguito, quei giovani che sono riusciti a tornare dalla Russia, hanno sperato che il tempo cancellasse i mesi trascorsi in un inferno e tutti i terribili ricordi. Il trascorrere di lunghi anni sbiancava i capelli ma non apriva i loro cuori al racconto: erano rimasti congelati lì, nella steppa, in Russia. Nel film-documentario“1942 Natale in Russia” raccontiamo la storia degli Alpini del Gran Sasso teramano che, durante la Seconda guerra mondiale, sono stati mandati a conquistare la Russia, raccontiamo delle loro famiglie in paese e delle loro donne. Insieme al tema dello scoppio della guerra, dell'intervento nei Balcani e in Russia, insieme alla rievocazione della tragica e totale disfatta dell'Armir, riportiamo le testimonianze di tutte le aspettative e le ansie dei parenti in paese, le delusioni e le paure delle madri, delle mogli e delle fidanzate. E poi il ritorno dalla Russia che, per i reduci già ridotti in condizioni disperate, non ha significato finalmente la pace perchè in Patria hanno trovato la guerra e il terrore, i loro paesi e le loro case sconvolti dalla ferocia dall'esercito tedesco, dai bombardamenti degli Alleati e dai soprusi dei partigiani slavi. L' Abruzzo era, infatti, attraversato dalla Linea Gustav, lo schieramento difensivo tedesco che tagliava l'Italia in due, e tutta la regione era diventata un campo di battaglia in cui non venivano risparmiati né bambini, né donne, né anziani: c'era “la guerra in casa”. Così, ancora per molti mesi, fino al giugno del '44, i giovani alpini hanno dovuto continuare a combattere e a soffrire. La violenza sopportata ha lasciato un marchio indelebile nel cuore e nella mente dei sopravvissuti, di quella povera gente che non è stata mai ricordata dalla grande storia. E' stato scritto tanto sull'impresa di Russia ma pochi sono i racconti dei protagonisti di quell'impresa, mancava la storia raccontata da loro stessi, secondo il loro punto di vista. A quegli alpini noi abbiamo voluto restituire voce e dignità. Credo che uno degli elementi principali del lavoro di un regista sia la comprensione e l'amore per i vari aspetti della natura umana. Se poi si usano gli strumenti necessari per la ricerca sull'uomo, si può tentare di compiere un particolare viaggio che porta a scoprire la vita e i ricordi autentici delle persone. L'unico modo per cercare di conoscere dalla voce dei protagonisti la loro storia, è attraverso l'intervista, lo strumento più diretto e autentico dell'indagine sul campo. Da ' Metodologia della ricerca sociale' di Bernard S. Phillips: “L'intervista è il metodo fondamentale di ricerca nelle scienze sociali. Nell'intervista il ricercatore deve essere consapevole dell'interazione tra lui stesso e i soggetti. E' difficile prevedere gli effetti di un qualsiasi tipo di interazione a meno che non si abbiano molte informazioni circa i valori e le aspettative dei partecipanti. Quando si dispone di tali conoscenze, è possibile usarle per interpretare e valutare le informazioni acquisite attraverso l'intervista. E' possibile inoltre utilizzare come un dato la stessa situazione d'intervista in quanto la comprensione della dinamica che ne sta alla base può allargare la comprensione dell'interazione sociale nel suo complesso. Le interviste possono venire classificate in tre ampi gruppi: le interviste standardizzate, le interviste non standardizzate e quelle semi-standardizzate. Nelle prime, l'intervistatore è legato alla formulazione delle domande riportate nel modulo di intervista, non è libero cioè di adattare le sue domande alla situazione specifica, di mutare l'ordine degli argomenti o di rivolgere altre domande. Nelle seconde, l'intervistatore è libero di manipolare ciascuna situazione in qualsiasi modo ritenga adeguato agli scopi che si propone. Nel caso delle interviste semistandardizzate, infine, l'intervistatore può essere obbligato a rivolgere un certo numero di domande specifiche più importanti, ma può, se lo ritiene necessario, rivolgere altre domande per ottenere ulteriori chiarimenti. Un modo di comprendere la relativa utilità di ciascun tipo di intervista è quello di esaminare i contributi al livello del contesto della giustificazione e del contesto della scoperta. Ovviamente, ciascun tipo di intervista può arrecare contributi sia al contesto della giustificazione che a quello della scoperta.” In relazione alla ricerca col mezzo audiovisivo sulla Seconda Guerra Mondiale in Abruzzo, ho intervistato i testimoni usando un sistema misto: sono partita da un questionario di base uguale per tutti che ho elaborato poi a seconda dei luoghi, dei personaggi e dei relativi episodi bellici. Mi sono attenuta in linea di massima a un atteggiamento elastico e collaborativo con gli intervistati, cercando di metterli a loro agio, sia perché avevo a che fare con persone anziane, sia perché i fatti raccontati risalgono a circa settanta anni fa ma il motivo principale è che i racconti di guerra sono inevitabilmente legati al dolore e alla commozione. Per lunghi anni i nostri testimoni, all'indomani del conflitto mondiale, hanno cercato di affrontare la nuova vita seppellendo nel silenzio ogni triste ricordo. Troppo grande era infatti la differenza tra la vita e le sofferenze sopportate durante la guerra e il felice periodo della ricostruzione. Avevano vergogna di parlarne, perfino ai loro figli: “ non avrebbero capito” mi hanno detto. Nel fare le interviste ho dovuto procedere con estrema delicatezza e rispetto, non mi sono scoraggiata davanti all'iniziale forte reticenza e sono riuscita a conquistare la fiducia di tutti. Sarò sempre grata verso questi uomini che mi hanno affidato i loro ricordi. In fondo ero un'estranea e una donna che non ha vissuto la guerra. Ho raccolto materiale prezioso dal punto di vista storico e sociale utile soprattutto ai giovani i quali fanno parte integrante della nuova cultura dell'immagine e recepiscono più facilmente, attraverso l'uso degli audiovisivi, contenuti anche impegnativi. Devo precisare che, per rispetto degli intervistati, ho lasciato le interviste nella loro forma originale, senza apportare sintesi o correzioni anche nei casi di evidenti errori logistici e cronologici. Non è importante, infatti, nel nostro caso, la precisione scientifica che lascio alla “grande storia”, quanto il racconto umano della “piccola storia”. Per la realizzazione di ogni filmato, io e i miei collaboratori, abbiamo prima fatto numerosi sopralluoghi, abbiamo parlato con molte persone nelle piazze, nei bar, nei luoghi di aggregazione e abbiamo scoperto testimonianze e racconti diversi e particolari in ogni paese. Abbiamo poi redatto un progetto di massima e abbiamo contattato le persone da intervistare. Quindi abbiamo raccolto i testimoni in una grande sala dove avevamo precedentemente allestito un set con telecamere, luci e una scenografia essenziale in modo da realizzare le interviste sempre nelle stesse condizioni, uguali per tutti. Solo nei rarissimi casi di persone malate o estremamente reticenti, ci siamo recati nelle loro abitazioni. Ho constatato che per documentare gli aspetti profondi di una cultura è si importante l'abilità professionale nella ripresa audiovisiva ma, soprattutto, essenziale è la capacità di condurre un'intervista entrando in rapporto con l'intervistato per cogliere ogni sfumatura del racconto. Di primaria importanza nelle indagini condotte sul campo è, quindi, l'intervista attraverso la quale abbiamo acquisito informazioni e dati relativi all'informatore, abbiamo conosciuto il suo punto di vista sulla materia di indagine, la sua esperienza personale e abbiamo scoperto sentimenti tenuti nascosti per anni. Ma questi ricordi tenuti segreti, che non sono stati condivisi neppure con i familiari, avevano per troppo tempo aggiunto dolore a dolore. Dopo l'intervista, dopo aver raccontato cose mai dette prima, è capitato spesso che i nostri protagonisti, si siano sentiti come sollevati e liberati da un peso gravoso, tanto da riacquistare perfino il sorriso nel parlare del loro triste passato. Siamo venuti, inoltre, a conoscenza di episodi molto interessanti, ignorati dalla storia ufficiale. Tutte le interviste del documentario “1942 Natale in Russia” sono state effettuate tra il 2006 e il 2011. I racconti registrati ci hanno suggerito l'idea di realizzare anche piccole fiction per meglio descrivere i fatti e per coinvolgere maggiormente lo spettatore. I giovani e gli adulti del posto ci hanno dedicato un po' del loro tempo e hanno interpretato con grande passione i ruoli richiesti. L'apporto della computer grafica nelle cartine animate ha contribuito a rendere più chiara l'esposizione dei fatti. Infine, di grande utilità e suggestione è stato il materiale di repertorio, quello girato sul campo dai reporter di guerra, che ha arricchito e completato gli elementi necessari alla realizzazione delle docu-fiction. Questo è stato, dunque, il metodo per la realizzazione di quest'ultimo filmato sulla Seconda guerra mondiale e di tutti i documentari della serie “La Guerra in Casa”. E' un metodo che ho elaborato innanzitutto grazie allo studio dei lavori dei pionieri dell'indagine etno-antropologica col mezzo audiovisivo e che ho perfezionato nel corso degli anni per documentare con la macchina da presa, in maniera scientifica, tutte le mie indagini sul campo. Conclusioni Scrive Giulio Bedeschi: “ Ai montanari inquadrati nelle divisioni alpine restava l'orgoglio di un'altra pagina di storia scritta col proprio sangue, ma soprattutto la tragedia di migliaia di 'gavette di ghiaccio' sotterrate per sempre nella steppa”. La Seconda guerra mondiale è stata una follia. L'Italia che non era preparata a sopportare un impegno di quel genere, ha mandato allo sbaraglio i suoi giovani, come carne da macello e ha costretto tutta la popolazione a subire violenze e umiliazioni inaudite. Nell'inconsapevolezza e nella povertà, gli abruzzesi hanno vissuto una serie di sopraffazioni e hanno subito una brusca rottura culturale col proprio passato. La guerra, infatti, ha sconvolto l'ordine sociale che si era mantenuto stabile per secoli e d'improvviso tutto è cambiato. La tradizione si è in gran parte spenta, con tutto il bagaglio culturale che aveva alimentato le genti d'Abruzzo fino ad allora. Nei paesi di montagna si è creato un vuoto che non è stato ancora possibile colmare. I giovani che conoscevano solo il mondo delimitato dalle loro montagne erano completamente all'oscuro di cosa ci fosse oltre, di quanto fosse lontana la Russia. E molti di loro non sono più tornati. Come si può riparare al danno creato a quei ragazzi che, per la legge naturale degli esseri viventi, avrebbero voluto avere figli e poi nipoti ai quali trasmettere la propria umanità e il proprio codice genetico e che invece sono morti a vent'anni? Una volta si pensava che solo nei paesi esotici si potessero trovare realtà degne di essere documentate. Se è la storia dell'uomo l'argomento che interessa i sociologi e gli antropologi, perché non rivolgere l'attenzione qui, in casa nostra, dove sono avvenute tragedie inaspettate che hanno cambiato la società in tutti i suoi aspetti? Chi era qui durante la guerra ha subito il nemico in casa, ha visto i propri beni usurpati e distrutti, le donne violentate, ha visto uccidere i bambini a sangue freddo. E poi ha accolto le truppe d'occupazione che offrivano sigarette e caramelle cancellando, però, tutto il passato. Chi era in guerra fuori dell'Italia ha lasciato sul campo la sua giovinezza e, se è riuscito a tornare, ha trascorso la vita come un sopravvissuto. Avevamo bisogno di tutto questo? Non è retorica dire che vivere in pace oltre che necessario è intelligente. Con i nostri documentari sulla guerra, con i volti e le voci dei testimoni che parlano e raccontano la vita e la morte, offriamo il nostro contributo per la pace. GLI INTERVISTATI Col. Antonio Andrioli : “Appena arrivati a Izyum, gli Alpini si mettevano attorno alle loro tende a cantare”. Gen. Alberto Benucci: “La guerra è meglio non farla. La Seconda guerra mondiale, pur avendola fatta, l'ho imparata dopo, sui libri” Orlando Campestro: “A tornare no. E chi ci pensava di tornare a casa?” Angelo Chiarilli: “La guerra, sono passati tanti anni, ma ti duole il cuore solo a raccontarla” Vincenzina Di Francesco: “Il più che ha distrutto le donne è che non sapevi notizie (dal fronte). E allora la vita si struggeva da sola.” Valentino Di Franco: “L'ultimo passo con le mie gambe, l'ho fatto a mezzogiorno… Dall'una non ho camminato più con le mie. Avevo appena venti anni.” Alfredo Di Pasquale: “In Russia mi hanno tagliato tutti e due i piedi insieme, con una seghetta.” Antonio Malascorta: “Pensavamo: - Se ci mandano a casa, che ci salviamo, come facciamo a campare, senza piedi?” Ercole Nori: “Ci stava chi non aveva mai visto un treno, e neanche il mare aveva mai visto.” Elvira Scatena: “Andavamo al bosco a prendere la legna e poi si andava a vendere a Castelli, a Isola.” Antonio Silvestri: “Era il mese di Novembre. Il fiume era rosso di sangue nostro.” Figli d’Abruzzo morti combattendo per l’Italia e sepolti lontano fra le Alpi e il mare sui monti d’Albania e nelle steppe di Russia, la Maiella Madre vi guarda e vi benedice in eterno. Magg. Luigi Boschis, già Comandante del Battaglione L’Aquila in Russia CORO ALPINO “STELLA DEL GRAN SASSO” Il Coro Alpino Stella del Gran Sasso, del gruppo alpini di Isola del Gran Sasso, si è costituito nel settembre 2001 ed il suo organico è cresciuto fino a toccare le attuali quarantanove unità, a dimostrazione dell'entusiasmo con cui è stata accolta l'iniziativa di riprendere la tradizione iniziata circa vent'anni fa dal vecchio cora alpino Edelweiss. Grande merito deve essere riconosciuto al suo direttore, Maestro Giacomo Sfrattoni che lo sta guidando, con competenze e professionalità fin dalla sua costituzione riuscendo a creare una grande armonia all'interno del gruppo. Anche la scelta del nome non è stata casuale, in quanto si è voluto rimarcare il legame con la montagna simbolo di Isola del Gran Sasso e della nostra Regione, con lo stemma che rappresenta il Gran Sasso, con una stella e la penna alpina. Il debutto al pubblico si è avuto in occasione della passata edizione della Commemorazione dei caduti di tutte le guerre. Sono seguite molte esibizioni tra le quali bisogna ricordare la trasferta in terra veneta Laghi, in provincia di Vicenza, in occasione del gemellaggio tra i due gruppi alpini, la partecipazione al programma Buona Domenica a Canale 5 ed il concerto tenuto a San Giuliano di Puglia in ricordo dei bimbi vittime del crollo della scuola materna nel tragico terremoto che ha colpito il paese molisano. Il repertorio del coro Stella del Gran Sasso comprende, accanto alle classiche canzoni degli alpini e dei canti della montagna, alcune della più note canzoni folkloristiche abruzzesi. Titoli dei brani contenuti nel Cd Audio 1) SUL CAPPELLO 2) MONTE CANINO 3) IL TESTAMENTO DEL CAPITANO 4) GRAN DIO DEL CIELO 5) EL TO CALVARIO 6) VALORE ALPINO TRENTATRE' 7) LA MONTANARA 8) A VAN SISILIS 9) DA UDIN SIAM PARTITI 10) IL GOLICO 11) BOMBARDANO CORTINA 12) LAILA OH! 13) IMPROVVISO 14) SIGNORE DELLE CIME 15) L'ULTIMA NOTTE 16) RIFUGIO BIANCO 17) VOLA..VOLA..VOLA.. 18) AVE MARIA 19) AMICI MIEI 20) SUL PONTE DI PERATI 21) J'ABBRUZZO