NON C’È UOMO SENZA DIO
F ABIANA G ATTI , E LENA … – 2 DICEMBRE 2012
(Testo non rivisto dalle relatrici)
Fabiana
Sono interessata da sempre alla psicologia e credo che in questo abbia avuto un grandissimo ruolo il
vedere i miei educatori, i miei genitori che non si sono mai risparmiati, sempre molto impegnati in
parrocchia, nel sociale. Vedere il loro impegno mi ha sempre dato l'idea che valesse la pena vivere una
vita per far star bene anche gli altri, perché questo fa star bene anche noi. Leggevo libri di psicologia
sotto il banco durante le lezioni. Ho sempre letto tantissimi romanzi perché mi sembrava un modo per
incontrare persone, per capire mondi. Ad un certo punto ho deciso di dare uno spessore un po' scientifico a questa mia passione e la scelta definitiva è stata grazie al rettore della mia scuola, che mi ha chiesto: «Qual’è la cosa più importante per te? Vuoi allevare bacherozzi in un sottoscala?» (io ero interessata anche a fare biologia). Io gli ho risposto che per me la cosa più importante erano le persone e allora mi sono indirizzata verso psicologia. In realtà la Facoltà di Psicologia a Milano non c’era ed io avrei
dovuto andare a Roma o a Padova e non avevo molta voglia di lasciare tutto il mio mondo e le mie relazioni, perciò mi sono iscritta a Lettere ed ho rimandato spazialmente questo amore per la psicologia,
mi sono iscritta a Lettere e Relazioni Umane. Nel frattempo insegnavo, facevo un po’ di cose. Quando
poi ho finito la Facoltà di Lettere mi sono iscritta a Psicologia e nel frattempo, avendo insegnato un po’
di anni (e l’insegnamento è stata un’esperienza bellissima), ho incontrato dei ragazzi, delle famiglie, mi
sono resa conto che non volevo dare dei voti ma volevo provare ad aiutarli nelle loro relazioni. Così ho
lasciato la scuola e mi sono messa a lavorare in università dove faccio tutt’ora attività di ricerca su
questi temi.
Dopo avere ultimato i miei studi in psicologia, ho capito alcune cose: la prima cosa è che la psicologia
non basta. Tutta questa passione, questi libri che conservo e che amo, in realtà poi non spiegano alcune
cose dell’uomo, ad esempio le esperienze di dolore che generano luce. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone gravemente ammalate o con delle sofferenze molto grandi, anche interiori, legate magari
anche a una disabilità psichica, e vedere che questo generava amore, luce per le persone intorno, generava serenità per loro e non disperazione. Questo i libri di psicologia non lo spiegano. Allora mi sono
resa conto che c’è qualcosa di più dell’uomo. L’altro aspetto della psicologia è che dice che il bisogno
più alto dell’uomo è l’autorealizzazione, cioè l’uomo deve realizzare pienamente se stesso, però non dà
nessuna spiegazione di questa etichetta. Quello che vedo incontrando le persone, la gente è che non c’è
niente che riesca a dare all’uomo questo senso di pienezza e soddisfazione, c’è sempre qualcosa che
manca, c’è sempre il bisogno, la ricerca dell’infinito. Io lo dico in termini molto pratici, rispetto agli incontri che ho fatto e anche rispetto alla mia vita, abbiamo sempre il bisogno di trascendere noi stessi,
di andare oltre, credo che questa sia la prova della “scintilla di Dio” nelle persone. Poi quando sono diventata mamma, vedere mia figlia crescere mi ha permesso di capire che nei bambini piccini, fino a
quando noi non li soffochiamo a volte con la nostra educazione troppo pragmatica, c’è una “scintilla di
Dio” che sta in un senso naturale del sacro, del bello, dell’etica, della giustizia. I bambini, se ci pensate,
hanno dentro questi desideri, non glieli abbiamo messi noi, nascono così, si stupiscono, sentono la presenza del sacro... Vuol dire che Qualcuno ce l’ha messo dentro. Devo dire che da psicologa universitaria, dove si cerca di riportare tutto nei termini di una scientificità, a delle prove empiriche, vedere che
poi c’è sempre qualcosa che sfugge può essere molto frustrante per chi fa attività di ricerca, ma dà anche un senso di libertà incredibile, di possibilità molto alta. Un’altra cosa del mio lavoro è che ho sempre fatto fatica con i miei colleghi che hanno la pretesa di sapere sempre tutto, mi infastidisce quando
uno parla con me e mi sta già incasellando nel manuale. Ha già capito prima di me cosa voglio dire e
cosa penso, perché faccio così... Allora io cerco sempre di evitare di comportarmi così. Una bellissima
esperienza per me è stato l’incontro con Matteo, un ragazzo di quindici anni, al liceo, che aveva dei disturbi psichiatrici. Tra l’altro l’ho incontrato in un momento in cui lui diceva che odiava gli psicologi,
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che si sarebbe suicidato. Io sono entrata ed ho detto che mi dispiaceva che odiasse gli psicologi, che
per me era interessante parlare con lui. Lui mi ha detto di odiare gli psicologi perché dopo tre parole
loro ti hanno già incasellato nel manuale... Io avrei voluto portare Matteo in università a parlare con i
miei ragazzi perché mi sembrava una bellissima lezione di vita. La cosa che ho detto a lui è stata che io
non potevo curarlo, che però mi sarebbe piaciuto parlare con lui. L’ho accompagnato per un anno e
devo dire che ogni volta mi stupiva, ogni volta riusciva a portarmi una foto, una parola, una riflessione
sempre diversa, non era mai uguale a se stesso. Questa per me è stata un’altra prova e questo è stato il
caso più eclatante, però ho sempre visto che l’uomo è inesauribile, c’è sempre un elemento che stupisce, si può sempre portare una cosa diversa e questo per me vuol dire provare ad avvicinarmi agli altri
con rispetto sapendo che non ho capito niente di loro, non capisco me stessa e figuriamoci se sono capace di capire gli altri. Come ricercatrice di università poi, le vicende della vita, mi hanno portato ad
occuparmi di temi diversi ed ho visto che quelli che mi interessavano di più erano quelli che avevano
un riscontro pratico, che potevano aiutare qualcuno a star meglio e ad avere delle risposte. In particolare ho avuto la fortuna di occuparmi di tre temi. Il primo è della relazione mediata tecnologicamente.
Dei volontari ascoltano soprattutto i giovani via forum, via fax, via telefono. Questo lo considero un
grandissimo regalo perché, incontrando una realtà fortemente impegnata nel sociale, formata soprattutto da volontari, io ne ho ricavato un grandissimo insegnamento prima di tutto per me. Vedere persone che danno il loro tempo gratuitamente, che si spendono per far stare bene gli altri, mi ha aiutato a
provare ad impegnarmi nel mio lavoro senza fare troppo il conto delle ore, senza fare troppo il conto
del contratto, a mettere a disposizione la mia competenza, quello che so fare. Ho visto che nel mio lavoro, quello che fa la differenza è provare a voler bene all’altro. In questo, finalmente, fede e psicologia
vanno d’accordo. Se io voglio bene all’altro, se lo rispetto, lo accolgo, lo ascolto, l’altro fa altrettanto con
me. Questo la psicologia lo dimostra. La comunicazione è una relazione simmetrica. Provate a pensare
quando litighiamo, se uno ci insulta, di solito alziamo anche noi il tono, il volume, rispondiamo male e
quindi diventa un’escalation. Se invece si trova qualcuno che cerca di essere collaborativo anche l’altro
deve scendere di tono anche se è partito all’attacco. Mi ricordo in particolare ad un corso in cui facevo
una esercitazione, un partecipante è venuto e mi ha detto: «Questa cosa non serve assolutamente a
niente». Ho provato a fare un sorriso di plastica e dire: «Forse non ha capito bene» ma lui ha ribadito:
«Questa cosa non serve a niente». A questo punto le vie sono due. O uno dice «Senti, ciccio, guarda che
qui comando io perché sono la professoressa» (potrei farlo) oppure posso dire: «Le chiedo in questo
momento di fidarsi, di fare quello che le chiedo e se poi al termine è ancora della stessa opinione ne riparliamo». L’altra possibilità è quella di dire “Che cosa sto sbagliando? Cosa potrebbe dargli fastidio?” Per
esempio, in quel caso mi ero accorta che lui era una persona di una certa età e di una certa esperienza
in un’aula di persone molto giovani; quindi mi sono detta “Non è che questo pensa di essere stato bocciato? Che l’hanno retrocesso?”. Così sono entrata in aula ed ho incominciato a valorizzare il minimo
spunto che dava, allacciandomi alla sua esperienza, facendolo intervenire a raccontare. Questo si è rilassato ed è diventato un grandissimo collaboratore per me. Anche in corsi successivi in cui l’ho incontrato ho notato questo... Forse aveva solo bisogno di sentirsi dire “Vai bene, anche tu hai qualcosa da
portare”. Questo è connesso anche all’altro contesto in cui ho la fortuna di lavorare (mi occupo di sicurezza nei luoghi di lavoro). Vado a finire in contesti molto interessanti (fonderie, industrie meccaniche,
catene di montaggio...) dove però il lavoro anche molto ripetitivo prende anche un po’ l’attività di pensiero (sono ambienti veramente difficili: odori, polvere, pericolo...). Quando arrivo io che sono una psicologa, una donna, non è facilissimo farmi accettare, quello che dico sembra aria fritta. In particolare,
quando mi avvicino cercando di capire insieme come si può fare a migliorare la situazione rischiosa mi
sento dire: «Ma lei l’ha mai usato un tornio?». Certo che io non ho mai usato un tornio ma mi scopro a
pensare che è bello che qualcuno lo sappia fare. Rendermi conto di questa cosa, ancora una volta mi ha
fatto capire che prima di tutto devo essere io che ascolto e imparo. Così posso iniziare dicendo: «Mi
spiega come si fa a usare il tornio? Mi fa capire quali sono i problemi quando si usa un tornio?» Vedo che
poi questo tipo di relazione funziona (è spiegata anche dalla psicologia perché l’altro ti ascolta se tu lo
ascolti, ti valorizza se tu lo valorizzi, se tu l’accogli l’altro accoglie te...). Però qui entra in campo anche
l’esperienza di fede che ho fatto, nel momento in cui mi viene posta davanti una barriera io penso che
devo essere la prima a fare il passo, anche se per il mio ruolo non mi è richiesto. Vedo quindi dei risultati concreti, le cose diventano belle con questa persona, coinvolgono la squadra e, alla fine, diventa
veramente un modo di cantare la stessa canzone. Magari io ho dato il “La” però nei momenti in cui io
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non ce la faccio più, perché sono stanca e arrabbiata e magari vedo una barriera, in realtà poi sono gli
altri a sostenermi in questo percorso intrapreso.
A me piace dire che non “Faccio la psicologa” ma “Sono una psicologa”, nel senso che mi piacerebbe
che il mio stile di vita fosse quello di ascoltare senza criticare prima, di mettermi nei panni dell’altro
per capire che cosa prova per potere generare alternative e per lasciare all’altro la sua responsabilità.
Anche in questo la psicologia mi ha aiutato perché non ci si può sostituire all’altro. Quando riesco a farlo, questo è una grandissima benzina per me perché vedo che l’amore genera amore. Devo dire che
questo riesco a farlo all’esterno, nel mondo del lavoro e della ricerca, perché a mia volta mi sento amata. Mi sento amata da mio marito, da mia figlia (a suo modo perché è preadolescente), dai miei genitori
e da quelli che mi aiutano fisicamente, concretamente permettendomi di andare in giro per il mio lavoro. In questo senso quella scintilla di Dio che mi sembra di riconoscere negli altri, che cerco di riconoscere negli altri, riesco quasi a vederla in me stessa, ma perché c’è qualcuno che mi vuole bene, che mi
fa capire che c’è anche in me questa cosa. Credo molto nella circolarità, ognuno di noi può star bene in
un sistema che funziona, che sta bene e possiamo far stare bene il sistema se noi stiamo bene. Forse ho
trovato il modo per tenere insieme una passione di studio, di vita, con quella che è legata alla mia esperienza personale di fede.
Don Paolo
Passiamo adesso alla seconda testimonianza che è quella di Elena. L’anno scorso mi telefona una persona dicendomi che voleva prendere un appuntamento perché doveva confessarsi. Io ho pensato fra
me che non era proprio così necessario prendere un appuntamento per confessarsi. Però le ho dato
comunque l’appuntamento. Quando poi è arrivata mi ha detto che quella era la sua prima confessione...
Così ho avuto la fortuna di conoscere Elena. L’ho invitata a portare la sua testimonianza di come è possibile oggi, da adulti, giungere alla fede. Secondo quella categoria che si chiama dei ricomincianti oppure dei convertiti. L’esperienza di un cammino per cui giunge un giorno il desiderio dell’incontro con il
Signore anche dentro una forma esplicita di appartenenza.
Elena
Buon giorno. La mia storia nasce all’interno di una famiglia in cui i miei genitori erano stati molto credenti fino ai 26 – 27 anni, impegnati, scout AGESCI, Consiglio Pastorale, perché veramente credevano
nella vita vissuta alla luce di Dio. Poi è venuto il ’68, tante liti, tante fazioni che si creavano all’interno
della società, della Chiesa... Soprattutto per i miei genitori che vivevano in modo molto viscerale questo
spendersi per gli altri (quando ero piccola ho avuto modo di vedere il loro darsi, il loro donarsi, ci hanno sempre tenuto molto), esperienze negative su esperienze negative. Poi la vita fa il suo corso, hanno
maturato una profonda scissione dalla Chiesa, con l’istituzione all’inizio, che poi è diventata anche una
mancanza di rapporto con Dio. Quindi, verso i 28 anni hanno abbandonato la fede... Due anni dopo sono nata io e sette anni dopo è nata mia sorella. Noi non abbiamo ricevuto nessun sacramento perché la
teoria che girava in famiglia era che un’educazione religiosa potesse essere nociva psicologicamente
per il bambino, che non gli lasciasse la libertà di pensare con la sua testa. Io quindi sono cresciuta con
questo dibattito in famiglia molto sostenuto ma anche molto fondato, con dimostrazioni, esperienze di
vita vissuta, non campato per aria, da parte loro. Però mio papà è sempre rimasto perdutamente innamorato di Gesù. A parte il fatto che poi tutti e due, in realtà, hanno continuato ad educarmi secondo
valori che alla fine erano cristiani, dare la vita per l’altro, spendersi per una causa: mio papà mi diceva
che lui si augurava di lasciare il mondo un po’ meglio di come l’aveva trovato, e poi lui mi parlava tantissimo di Gesù al punto che sapevo più io di Gesù che i miei compagni che facevano catechismo (sapevo tutte le festività, a cosa erano legate, quale era la storia che ci stava dietro). Mio papà mi raccontava
le parabole in maniera accattivante con quell’entusiasmo che lui stesso provava. Per esempio, mi raccontava dell’adultera e mi diceva: «Sai che cosa gli ha risposto? “Chi è senza peccato lanci la prima pietra”». Io rimanevo attonita davanti a Gesù presentato in questo modo. Però ho fatto le elementari, le
medie, le superiori sempre tenendo a distanza gli ambiti di tipo religioso, un po’ per l’aria che tirava in
famiglia e un po’ perché mi era stata passata l’idea che tutto sommato la Chiesa stava bene e che in
ambito volontaristico sarebbe stato meglio se mi fossi dedicata a realtà laiche che, come forza umana,
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erano messe un po’ peggio. In realtà sono rimasta per tantissimo tempo alla ricerca, con domande giganti, fin da piccola (infatti poi sono finita a fare filosofia) e cercavo il “sale della vita”. Nei rapporti con
le persone, un po’ per sfortuna o perché ero timida, non riuscivo a costruire dei rapporti veri dove si
potesse sentire che si sarebbe data la vita l’uno per l’altro, dove si sentisse che mi stavo spendendo per
qualcosa di grande. Questa cosa mi mancava anche perché percepivo, dai racconti dei miei genitori,
che loro avevano vissuto così.
Alle superiori, in quinta, ho incontrato un frate, giovane, molto in gamba che teneva le ore di religione
nella mia classe e subito ho pensato di iscrivermi, in totale controtendenza (perché di solito più sale
l’età e più il gruppo di religione si spolpa), oltretutto era all’ultima ora del sabato. A me piaceva molto
stare a scuola con quei quattro o cinque compagni, il frate ci faceva vedere dei film impegnati e poi si
discuteva, si parlava, questo a me piaceva moltissimo. Poi però tutto è finito lì. Dopo la maturità dovevo scegliere quale facoltà frequentare all’università e io volevo scegliere psicologia. Io avevo sempre
vissuto con molto impegno la scuola, con molto senso del dovere, davo sempre il massimo, ero la prima della classe, però non sopportavo che qualcuno mi riempisse la testa di nozioni fini a se stesse. Siccome mi avevano detto che i primi due anni di psicologia funzionava così (nozioni anche biologiche,
saperi di tipo scientifico, della serie “prima fatti le basi e poi incominciamo a ragionare”) ho cercato
una facoltà che mi desse prima di tutto libertà di pensiero, secondo, che potesse servire concretamente
(lì stava un po’ il dubbio della scelta fra psicologia e filosofia), volevo che quello che imparavo servisse
ad aiutare le persone a vivere meglio.
Alla fine del primo triennio ho fatto la tesina sulla consulenza filosofica, cioè sulla possibilità di utilizzare la filosofia in modo pratico, di aiutare le persone a fare un’analisi di sé, di quello che accade attraverso le proprie esperienze. Poi nel biennio ho fatto una tesi sugli immigrati, sulla loro figura dello
straniero (giudizio, pregiudizio, categoria sociale), comunque sempre qualcosa che potesse aiutare a
cambiare il modo di pensare e di comportarsi delle persone. Per questo ho scelto filosofia, anche perché c’erano sempre delle questioni che mi perseguitavano: il senso della vita, perché sono su questa
terra ecc. Pensavo quindi di ricevere un aiuto anche in quel senso. Poi perché da sempre, da quando
sono nata, volevo insegnare. Nelle mie esperienze io sono quella che, a differenza di molti miei colleghi,
non ha mai avuto un’insegnante modello e vorrebbe essere tutto quello che non ha mai avuto. Il mio
anelito nasceva da qui, dal fatto di avere avuto insegnanti con cui non avevo mai avuto un rapporto
umano perché, da parte loro, non c’era un interesse, arrivavano, facevano la loro lezione e poi tutto finiva. Anche negli anni di università, persino a filosofia, non ho mai incontrato figure così e questo mi
mancava e mi ha lasciato con un po’ di amarezza. Avevo anche un grosso senso di giustizia per cui sentivo tutto lo spessore umano del darsi per gli altri, che si sarebbe potuto realizzare ma che non si realizzava.
A questo punto ho deciso, per cercare questo “Sale della vita”, questo “Altro”, di iniziare nell’ultimo anno di università a fare volontariato in una comunità in cui c’erano bambini tolti alle famiglie dal tribunale dei minori. L’ho fatto per un anno ma anche lì, in realtà, mi sentivo sola perché ero in una equipe
di psicologi e di assistenti sociali ma sentivo che mi mancava un lavoro di squadra, quel costruire e collaborare con gli altri. L’anno dopo mi sono iscritta agli Scout (quelli laici, in linea con l’educazione ricevuta dai miei). La mia esperienza personalissima (da contestualizzare nell’esperienza di un singolo)
anche in questo caso è stata di avere trovato dei bellissimi principi sulla carta ma che non si trasformavano concretamente in un vissuto. Se io dico: “democrazia, rispetto per gli altri, fare il primo passo
per primo, non chiudersi”, mi aspetto che questo si realizzi. Invece io facevo fatica a inserirmi, non venivo coinvolta, non c’era attenzione, magari perché ero io che non mi facevo viva, oppure c’erano atteggiamenti di facciata ma poi la realtà era un’altra, come se ci fossero delle maschere. Sentivo quindi
sempre una mancanza, un vuoto che mi portavo dietro e che avrei voluto colmare. Nel frattempo mi
sono laureata e ho avuto un paio di esperienze sentimentali. Io fin da piccola sognavo di diventare insegnante ma anche moglie e mamma, questa era la mia vocazione gigante e il mio non trovare una risposta anche in ambito sentimentale lo vivevo con dispiacere. Avevo avuto una relazione importante i
primi anni di università ma poi era terminata perché ho ritenuto che non fosse adatta per me, e poi ho
avuto tre anni in cui il sesso maschile non si era comportato benissimo nei miei confronti (magari scoprivo dopo due mesi che uscivo con una persona che lui era già fidanzato, mentre io ero, da parte mia,
innamoratissima). Anche tutti questi avvenimenti contribuivano a creare ulteriori domande. In mezzo
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a tutto questo viene a mancare mio nonno ed io ho desiderato che la mia nonnina sperimentasse qualche cosa di bello che le facesse capire che lei poteva vivere ancora anche dopo la scomparsa di mio
nonno. Volevo che si creassero ricordi belli anche successivi alla sua morte. Ne ho parlato con mia
mamma e lei mi ha detto che ci sarebbe stato da lì a poco un ritiro organizzato dal Movimento dei Focolari (mia nonna apparteneva al Movimento ma io non sapevo neanche che cosa fosse). Era un evento
che si svolgeva una volta l’anno e la nonna non aveva mai potuto andare, perché stava col nonno, ma
ne avrebbe avuto il desiderio. Allora io ho chiamato mia nonna e l’ho invitata ad andarci. Lei mi ha risposto che non voleva andarci dopo quello che era appena successo... Allora le ho proposto di accompagnarla. A quel punto lei ha accettato, anche perché lei covava da sempre il desiderio di “convertirmi”
perché lei soffriva disperatamente di questo nostro essere senza patria, senza terra e senza Dio. Fin da
piccola mi aveva insegnato le preghiere e poi mi forniva gli argomenti per fare una bella crociata contro i miei genitori appena tornavo a casa (vi lascio immaginare le liti in famiglia fra i miei genitori e
mia nonna).
Così siamo andate agli esercizi e lì è stata un’esperienza meravigliosa. È proprio vero che c’è un momento giusto nella vita di ciascuno per incontrare quello che è giusto per lui. Lì mi sono trovata a casa.
Vedevo accadere tutte quelle cose per le quali ero stata spesso discriminata (io salutavo tutti, prestavo
i fazzoletti a tutti e mia mamma mi diceva che mi sfruttavano e mi avrebbero preso in giro, venivo
sempre guardata come la strana di turno). Lì tutti si ricordavano come mi chiamavo e mi salutavano,
con un’attenzione vera, sentivo che gli interessava quello che ero io (non era semplicemente un intrattenimento). In quell’occasione ho conosciuto per video (perché anche lei era appena morta) Chiara
Lubich, la fondatrice del movimento dei focolari. Lei ha avuto una capacità di parlare anche a persone
di altre convinzioni religiose e non religiose. Per la prima volta ho sentito dire che Dio è Amore e mi
sono anche indignata perché in tutti i miei cinque anni di filosofia mai nessuno mi aveva detto che Dio
era Amore, nessuno me l’aveva mai detto, ma a quel punto è successa una rivoluzione perché mi affascinava questa cosa. Siccome io però non ero credente ho fatto cosi: ho messo da parte Dio ed ho tenuto l’Amore. Prima di partire ero molto amareggiata e la sera (dormivo nel lettone con la nonna, le valigie fatte) ho ripercorso tutte le mie esperienze negative: l’insegnamento non avrei potuto praticarlo
per la situazione già di precariato del momento, sentimentalmente non andava niente, ma allora che ci
stavo a fare al mondo? La risposta dell’Amore in quel momento mi ha soddisfatta, qualcosa di buono
che si incontra sulla propria strada “Se amo qualcuno che incontro, questo gratificherà me e lui”. Quindi, già la sera prima di partire la risposta ai miei interrogativi era diventato il mio obiettivo di vita per
quel periodo. Arrivare agli esercizi e sentirmi dire che Dio era Amore andava a nozze con la riflessione
della sera prima. Quindi ho tolto Dio, ho tenuto Amore ed ho iniziato a vivere per Amore. Di tutti i discorsi di Chiara io toglievo Dio e tenevo Amore e mi sembrava che funzionasse a meraviglia. Venivano
anche dati degli spunti di spiritualità che io usavo riferiti all’Amore e mi hanno fatto anche crescere.
Poi ho tenuto i rapporti anche con i ragazzi che avevo conosciuto e avevo legato e così per tre anni (ed
è stato veramente un dono) io ho vissuto frequentando qualche attività del movimento e le persone da
non credente perché io non sentivo nessuna esigenza di modificare qualche cosa della mia vita da questo punto di vista. Ho iniziato a insegnare italiano agli stranieri ed era il mio volontariato perché era
insegnamento (io non trovavo lavoro come insegnante). Però, siccome dopo Filosofia si poneva il problema di trovare lavoro, ho deciso di prendere una seconda laurea in Lettere, perché amavo molto le
materie ma anche perché c’era molta più possibilità di trovare lavoro. Però è stato un salto nel buio
perché, in un momento di crisi in cui le materie umanistiche sono bistrattate ed inflazionate, ipotecare
ancora un tot di anni della mia vita con una laurea era una bella scelta di idealità (io l’ho vissuta così
perché per come sono fatta io mi butto tutta nelle cose, metto in gioco tutto). Un anno e mezzo fa, era
Natale ed io ho accompagnato mia nonna a Messa (a Natale l’accompagno sempre), sia perché mi fa
piacere starle vicino (so che lei è contenta), sia perché mi piace dare quel significato in più al Natale,
non partecipare alla festa commerciale ma, anche da non credente, voglio che sia un momento di riflessione. Anche adesso che insegno alla scuola salesiana e tutte le mattine ci sono dieci minuti di buon
giorno che sono proposti dal prete, dal padre spirituale, un momento di riflessione, io dico ai ragazzi
che se sono in un momento di distanza dalla fede o arrabbiati col mondo intero possono prenderlo
come un momento per loro per riflettere e per approfondire la loro integrità, che comunque è una cosa
importantissima da fare.
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Tornando alla Messa di Natale, sono stata molto contenta, bellissima omelia e, dopo una settimana,
contrariamente a tutte le volte che, essendo in vacanza perdo il computo del tempo, ho realizzato che
era domenica e che io volevo tornare a Messa. Ho controllato sul calendario, era effettivamente domenica e così sono andata a Messa, ho ascoltato e poi sono tornata a casa. Dopo una settimana avevo ancora voglia di tornare e sono tornata... Sono andata avanti così per due mesi. Dopo due mesi mi sono
chiesta perché mi commuovevo quando sentivo il Padre Nostro, quando stringevo le mani di chi mi
stava vicino e non capivo perché. Oggi mi dico che sicuramente era perché avevo sete, avevo proprio
sete. Così ho pensato di “prendere il toro per le corna”, di lanciare una sfida e mi sono buttata. Ho iniziato un percorso di catechismo, che con il clima che c’era in famiglia con i miei, per me era proprio la
Sfida, con la “S” maiuscola. Se ci fosse stato da scappare sarebbe stata la volta che sarei scappata per
sempre... A quel punto però è stato bello perché è stato come se Gesù mi avesse dato prima il libretto
delle istruzioni e poi la necessità di consultarlo. Con il clima che c’era nella mia famiglia io avevo bisogno, a quel punto, di qualcuno che mi accompagnasse in un percorso di alfabetizzazione. Infatti io ero
totalmente analfabeta del rapporto con Dio: “Ma chi è, ma come ci si comporta, ma perché Gli devo parlare, che cosa vuol dire pregare?”. Non sapevo nulla. C’erano alcune persone che mi avevano accompagnato, da quel primo incontro con il Movimento, e che parlavano un po’ la mia stessa lingua. Io mi ci ritrovavo con quella spiritualità. Così da subito mi sono rivolta alle persone che conoscevo e stimavo per
la loro grande coerenza, perché in tre anni di frequentazione non mi avevano mai discriminata, quindi
io mi fidavo di loro, ero tranquilla. Nonostante tutto non è stato un percorso in discesa. Don Zago è stato uno dei tanti che io avevo chiamato per il mio percorso di catechesi, ma gli impegni dei parroci sono
tanti e non se ne trovava uno che mi potesse seguire. Mi ricordo che dopo tre mesi che cercavo ho pensato di smettere, per me era troppo difficile. Mi ricordo quel momento; prima di accorgermi che c’è
qualcosa di più in una esperienza, che ti supera, io mi sono resa conto che non potevo più tornare come prima, perché mi sono resa conto che il mio amare, il mio darmi agli altri, in queste esperienze che
sto facendo, c’era qualcosa di più del “vogliamoci bene, siamo carini...”, c’era qualcosa di Sacro, con la
“S” maiuscola. Io avevo sentito questo; non sapevo ancora bene cosa fosse, che nome dargli, ma c’era,
lo sentivo sulla mia pelle.
Anche adesso, quello che manca nel rapporto con i miei genitori, soprattutto con mio padre che è molto aperto al dialogo (è sempre innamorato di Gesù...) sento che si può parlare per ore, e lui si entusiasma, quasi mi invidia, però gli manca quello, cioè non sente più il di più che esiste nei rapporti. Alla fine
quindi sono riuscita a fare il percorso di catechismo che, come ho detto, non è stato in discesa perché
la mia educazione familiare mi insegnava che “la religione è l’oppio dei popoli”, quindi io pensavo che
forse mi stavo rincitrullendo, avevo paura a dire di si a qualsiasi cosa.
La povera catechista che mi stava seguendo si è sentita dire da me: «Adesso mi devi spiegare perché io
devo credere nella Trinità», perché io non riuscivo a dire un “si” acritico, perché venivo da anni di criticità e di critiche in famiglia, io non riuscivo a dire un “si” acritico, non potevo pensare di rinunciare a
ragionare con la mia testa. Allora, la risposta che quella volta mi ha dato la catechista è stata: «La Trinità ti serve per capire com’è l’amore di Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Anche tu, quando ami ti devi
sentire padre, verso chi ami, perché hai quel qualcosa in più che uno può ricevere da te; ti devi sentire figlia, perché devi ricordarti che tu puoi sempre ricevere, non si deve soltanto dare ma c’è sempre da imparare, però siete tutti e due spirito santo, perché siete fratelli, siete alla pari». Questa risposta mi ha disarmato e lanciato tantissimo, perché costatavo che Gesù parlava la mia lingua, la lingua del mio cuore.
Poi la catechista mi diceva di provare a recitare le preghiere, ma per me era una cosa troppo strana. Allora, siccome a me piace molto la condivisione, mi piace cantare, tuttora canto a Dio perché è una cosa
che mi facilita il contatto con Lui, così nelle occasioni in cui si pregava e si cantava insieme, io riuscivo
a sciogliere quel nodo della “preghierina manualino” e iniziavo un dialogo con Dio. Così piano piano ho
familiarizzato, adesso riesco a pregare, ad instaurare un dialogo vero e proprio con Dio. Così sono arrivata ai Sacramenti che ho ricevuto nella Pasqua del 2011. Io mi sento cresciutissima da allora, io sapevo che quello era un punto di arrivo ma in realtà era proprio l’inizio di un cammino infinito che dura
tutta una vita.
Tutto questo ha coinvolto anche la mia vita sentimentale perché, quel “povero superstite” che è il mio
fidanzato, ha dovuto assistere (in questa nostra dinamica di coppia) tre anni e mezzo fa al fatto che io
non credevo ancora, mentre invece lui era credente, però quando parlavamo di matrimonio (perché
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per me non esisteva un rapporto qualsiasi ma si stava insieme per un “progetto”, per “cose grandi”), io
gli dicevo che non volevo assolutamente sposarmi in Chiesa, non volevo battezzarmi... Lui però mi ha
lasciato sempre tutta la mia libertà, era tranquillo... Dopo tre anni adesso io desidero fortemente sposarmi in Chiesa, con tanto di percorso di preparazione al matrimonio. Una delle cose del mio fidanzato
di cui sono innamorata è stata il suo accogliermi, il suo volere ascoltare e imparare invece di dire “Tu
sei... Io sono... Io difendo quello che sono contro quello che tu sei”. C’era prima il sentimento, la comprensione derivante dall’amore e il fatto di dire che, se c’era quello, saremmo riusciti a camminare insieme. Chiedevo a uno psicologo: «Devo arrivare a dire che due persone di religioni diverse non possono
stare insieme perché credono in cose profondamente diverse?». Lui mi ha risposto che possono stare insieme purché le rispettive religioni non si trasformino in ideologie, che non precludano l’ascolto
all’altro. Io mi ritrovavo tanto in questa cosa.
Mi ricordo di quando andai a fare la prima confessione, che mi terrorizzava, perché pensavo di non essere una brutta persona (la mia educazione mi diceva che la confessione mortifica l’individuo, lo fa
sentire “un brutto peccatore”), per questo non avrei voluto trovare un prete che mi facesse sentire
“una brutta peccatrice” ma neanche che mi condisse via con dieci Ave Marie. Dovevo proprio trovare
qualcuno che mi sapesse prendere.
Io avevo visto don Zago recitare nella mia parrocchia, per cui avevo capito che tipo era, poi avevo chiesto un po’ a quelli che lo conoscevano: «Che tipo è? Ci si può fidare? Mi ascolterà?»; a risposta affermativa gli ho chiesto udienza. Lui, dopo che gli avevo raccontato tutta la mia storia, che gli avevo espresso
le mie preoccupazioni, il mio rifiuto del formalismo, che questa cosa fosse legata a un formulario, a un
colpevolizzare, mi disse questa frase bellissima: «Tu fai bene a pensare così perché questo ti aiuterà a
capire che cosa è religione e che cosa non lo è». Io mi sono sentita proprio capita, lui mi stava dicendo
che c’era tutta la struttura, l’apparato, e poi c’era Gesù, e la confessione era un momento di dialogo con
Gesù. In seguito ci sono state altre confessioni, anche con lacrime, perché a volte è una lotta, io devo
capire, cercare, ma tutto questo sempre come un dialogo con Gesù, quindi è tutto ben accetto. E poi è
sempre un cammino, perché le sfide sono infinite. Anche nel mio lavoro di insegnante, questo dono
immenso che ho ricevuto finalmente, nel dialogo con i miei ragazzi, lo dico.
Don Paolo
Vorrei sottolineare tre cose, delle tante che abbiamo ascoltato, che ci aiutano a recuperare anche tutto
quello che abbiamo ascoltato la prima volta da don Francesco.
La prima cosa è che è sempre importante tenere aperte le domande, non avere paura delle domande di
senso, dei perché, dei dubbi che ci accompagnano (come Giovanni Battista che non ha avuto paura di
esternare il suo dubbio chiedendo a Gesù se era veramente Lui colui che doveva venire).
La seconda cosa è che la realtà rimanda sempre ad altro, però, perché la realtà rimandi ad altro occorre la capacità di guardare il reale con uno sguardo di libertà e di verità, non nello schema, non
nell’incasellamento, non in un libro che ti dice tutto su chi è l’altro e su che cosa è la realtà, ma lasciarsi
provocare dalla realtà che ci presenta un “oltre” che ci accompagna.
Mi è venuta in mente una frase del Vangelo, mentre parlavate, dove Gesù dice: «A chi mi ama Io mi manifesterò», cioè che l’esperienza dell’incontro della fede nasce soltanto nella misura in cui si vive anche
dentro ad un’esperienza di amore, che magari è ancora indefinita, magari ancora imprecisata nel suo
contenuto fino in fondo, ma «A chi mi ama mi manifesterò». Questa è una strada, una linea, un orientamento, una rotta che può essere importante.
Vorrei soltanto concludere facendo una domanda a Fabiana: Ma devo proprio aspettare il vuoto per
trovare Dio? E’ soltanto la percezione del vuoto dentro di me che mi può condurre a incontrare Dio?
Non posso incontrare Dio anche dentro una dimensione, un’esperienza di vita piena? Devo soltanto fare esperienza di qualcosa che mi manca per trovare Dio? E’ soltanto quel CIÒ CHE MI MANCA colui che
posso genericamente definire Dio?
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Fabiana
No. Sicuramente la pienezza che viene dal sentirsi amati, che viene dal vedere che riusciamo a generare qualche cosa, ti fa sentire che c’è qualche cosa in più, che non l’hai fatto semplicemente tu. Chi di voi
è innamorato (sono grata della freschezza che ci ha trasmesso Elena) può capire: quando ami qualcuno, quando sei innamorata, senti che c’è qualche cosa che va oltre a quello che hai costruito tu, che non
hai fatto semplicemente tu, che c’è una “magia” in più che c’è una “scintilla” in più. Poi io incontro tante
persone disperate perché hanno un senso di vuoto perché non riescono a sentirsi amate fino in fondo.
Allora credo che Dio lo puoi scoprire perché ti manca qualche cosa, hai fatto tanto, hai fatto tutto e senti che hai ancora delle energie, qualcosa da sperimentare, però è anche quando vedi la bellezza che capisci che non è tutta cosa umana, lì c’è Dio. Può andare da un tramonto agli occhi di mia figlia, da mio
marito che arriva a casa con un fiore all’ascoltare l’esperienza che Elena ci ha appena raccontato (ti
porterei in università dai miei studenti!). Dio lo vedi in qualche cosa di bello che è evidente che non hai
fatto tu, oppure quando c’è qualche cosa in più per cui vale la pena di spendersi.
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