Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 20 giugno 2012
Testo di riferimento: J. Carrón, «Un maestro da seguire», in «Non vivo più io, ma Cristo vive in
me», suppl. Tracce-Litterae communionis, n. 5, maggio 2012, pp. 13-28.
• Negra sombra
• Noi non sappiamo chi era
Gloria
Quanto più i tempi sono duri, tanto più è il soggetto che conta, è la persona che conta, ci ricorda don
Giussani, citato nella prima lezione degli Esercizi. Mi sembra che la durezza dei tempi l’abbiamo
davanti, non occorre spiegarla troppo. Questa situazione che ci troviamo a vivere sfida la nostra
persona; se più duri sono i tempi più quello che conta è la persona: è proprio in questi tempi che
ciascuno di noi si rende veramente conto se è persona; non se è persona ontologicamente (il che non
è in discussione), ma se è persona con quella autocoscienza che gli consente di non essere sconfitto,
fatto fuori, ridotto a un pezzo del meccanismo delle circostanze; infatti, se succede questo, non c’è
più l’io. Rimane, ovviamente, l’ontologia (non ce la possiamo strappare da dosso), ma siamo in
balìa di tutto. Perciò questo è un momento veramente propizio – misteriosamente! – per verificare la
nostra autocoscienza. Comincio leggendo una testimonianza sulla questione della crisi: «Volevo
raccontarti la circostanza particolare che mi ha portato a questo senso profondo di gratitudine che
dentro di me è esploso in tutto quello che faccio. Pochi giorni fa, dopo mesi di attesa, l’azienda ha
ufficializzato la crisi in cui a livello economico versa; deve in pratica ridurre il costo del lavoro. La
prossima settimana comunicherà il piano di risparmio che vorrà adottare. La sera stessa
dell’incontro sindacale, per una coincidenza strana, i miei quattro figli mi invitano, tramite sms, a
stare sereno perché nessuna notizia negativa avrebbe potuto abbattermi. Questo non perché a
cinquantasei anni non possa perdere il posto di lavoro – figuriamoci! –, ma solo (cito il messaggio
di mio figlio diciannovenne) “perché la consistenza della tua vita è di un Altro sempre, non dipende
dalla circostanza, allo stesso modo di come tu non smetterai mai di essere il mio grande papà e io il
tuo piccolo grande figlio”. È stato un contraccolpo forte. I miei figli ricordavano a me quello che si
legge a pagina 18 del libretto degli Esercizi: nelle circostanze “noi crolliamo per mancanza di
autocoscienza. Perché nessun potere di questo mondo potrebbe farci fuori […] tutta l’energia della
nostra forza è nel semplice riconoscere Colui a cui noi apparteniamo, Colui che ci fa ora”. Con
sincerità devo ammettere che mai potevo arrivare a percepire la crisi che sto vivendo al lavoro,
ormai da mesi, come la possibilità per la mia persona di un cammino di conversione. Arrivare a
definire la crisi una grande grazia nella mia vita era fino a pochi mesi fa solo follia. Adesso è come
se mi rendessi conto come per la prima volta, dopo trentasette anni di movimento, quel che tu hai
scritto nel messaggio agli amici colpiti dal terremoto: che questo è il momento della persona. “Ora
le spiegazioni penultime non servono. [...] Io chi sono? Sono una parte di questo tutto che crolla o
sono qualcosa d’altro?”. È proprio vero: l’espressione “io sono Tu-che-mi-fai” è l’espressione
ultima della mia vita». Pian piano, nella misura in cui noi facciamo la strada, ci stupiamo di poter
stare davanti a certe circostanze in un modo che soltanto qualche tempo fa (non troppo) ci sarebbe
sembrato follia. Adesso possiamo capirlo; adesso incominciamo a capirlo, soprattutto chi ha fatto la
strada e chi si impegna costantemente. Questa è una verifica (fra le tante che vedremo questa sera)
del cammino fatto. Per chi lo ha fatto.
Volevo esporre quanto emerso come mia consapevolezza in seguito agli Esercizi e all’incontro con
il Papa a Bresso. Anche prima degli Esercizi mi era chiaro che quanto stava succedendo intorno a
noi non poteva ridursi a un giudizio politico, ma andava vissuto come un richiamo per la mia
conversione. Però mi sono chiesta a Rimini – visto che mi sembrava di desiderare quello che
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desiderano tutti, di non essere molto diversa –: allora, se stare di fronte alla realtà non è un
problema di coerenza, qual è esattamente il punto?
Con «quanto stava succedendo intorno a noi» che cosa intendi?
Tutti i fatti politici. La scorsa Scuola di comunità ho messo bene a fuoco dove sta il punto, e mi
soffermo solo su due aspetti. Dopo l’incontro con il Papa ho avuto modo di smascherare due
atteggiamenti che inconsapevolmente autogiustificavo, e questo mi ha reso più lieta. Il primo:
quello di un’insoddisfazione e inquietudine spasmodica, che mi sembrava buona in quanto indice
del mio filo di desiderio, condizione per il mio riconoscimento di Cristo. In realtà, mi sono resa
conto che quando essa ha come esito un astio nei propri confronti e una non accettazione di sé e
una ricerca di qualcosa di altro al di fuori del proprio luogo privilegiato (che nel mio caso è la
famiglia con i figli), c’è qualcosa di storto; potrebbe manifestarsi in una rincorsa o ricerca di
conferme nei rapporti o così via. Il secondo atteggiamento riguarda l’inerzia di cui parlavi la
scorsa volta. Io all’inizio l’avevo identificata con una sorta di atteggiamento passivo, quando uno
non fa un lavoro; invece mi sono accorta che accade anche quando, per esempio, uso la ragione in
modo razionalistico: rincorro una condizione che mi induce a cercare di controllare tutti i fattori
delle cose che ho tra le mani, magari per un intento buono, non malvagio. L’esito di tale approccio
è una spossatezza che mi stende a terra, come quando uno è in un ingranaggio che va a vuoto.
In che cosa riconosci che sei stata razionalista? Questo, secondo me, è importante capirlo. Te lo
chiedo perché non è un problema per addetti ai lavori. Tu in che cosa riconosci che sei razionalista?
Perché voglio che quadri tutto, che ci siano tutti i fattori tra le mie mani, che io li riesca a
possedere.
E perché cercare di mettere le cose a posto non è giusto?
Perché non sono io…
Perché è sbagliato essere razionalisti? Semplicemente perché dobbiamo dire qualcosa contro il
razionalismo? Perché ce la siamo presa con il razionalismo?
Perché non sono io che faccio la realtà.
Ho capito bene quello che hai detto, che cioè tu sei a terra?
Sì.
Ti corrisponde essere a terra? No, allora questa è la questione! Noi dobbiamo vedere la
irragionevolezza di certi atteggiamenti dai loro risultati, perché è così che capiamo qual è la natura
dell’errore. Capisci perché don Giussani insiste nel lavoro sullo “strumento del pensiero”? Perché se
tu usi in modo razionalista la ragione, ti ritrovi a terra, anche con tutti i tentativi; non è che non fai
niente, come dicevi, fai tante cose, ti agiti in tante cose (come la Marta evangelica), ma una sola
cosa è necessaria, e non in un senso “mistico” del termine come tante volte fraintendiamo; no, devo
fare un uso della ragione in modo che possa cogliere il fondamento dell’apparenza di quello che
faccio, perché così, allora, tutto acquista il suo posto, e non perché lo metti a posto tu, ma perché,
trovando il punto sorgivo, il significato di tutto, tutto riacquista il suo giusto peso. Non è un
equilibrismo che dobbiamo cercare di ottenere in mezzo a tutta la bagarre, sarebbe impossibile.
Anzitutto volevo riprendere la cosa che dicevi all’inizio, perché per me tutti questi ultimi mesi,
questi ultimi giorni in particolare, sono stati la documentazione chiara del fatto che adesso è il
tempo della persona. La domanda che viene sempre più fuori è questa: che cosa mi permette di
essere me stesso, cioè libero, libero da tutto, qualunque cosa accada, qualunque cosa succeda? Sto
iniziando a capire che quello che tu ci dici, cioè che questa autocoscienza (chi sono io e Chi mi fa)
non è appena un problema sentimentale o intimistico, ma è un problema di un rapporto, di un
legame; tu ci hai detto: è un’appartenenza. E io questo sto iniziando a vederlo sulla mia pelle,
inizio a capire chi sono e Chi mi fa dentro un’appartenenza, dentro un legame. Ma tutto
quest’ultimo periodo mi ha fatto vedere chiaramente che non tutti i legami sono veri legami.
Cioè?
Non tutte le compagnie sono vera compagnia, e si può stare nel movimento senza essere in grado di
farsi compagnia. Racconto due cose. Una mattina ci siamo svegliati a Bologna e tutta la città è
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stata pervasa da una notizia: un politico della città si era suicidato nella notte. Era un uomo molto
popolare e molto stimato. Io non sapevo minimamente chi fosse, non l’ho mai conosciuto, ma
questo fatto mi ha colpito tantissimo. Mi sono detto: quest’uomo non è che non sia in compagnia,
ha tanta gente intorno, è amato da tutti. Poi ho pensato alla mia vita e mi son chiesto: anche io
sono in mezzo alla gente, ma a me che cosa fa veramente compagnia? In altri termini: perché posso
dire che la mia vita non è sola? Infatti il suicidio è segno del giudizio che, alla fin fine, sei da solo.
Questa cosa ho dovuto scoprirla con la vicenda del terremoto. Dove mi trovavo io si è sentito
tantissimo, ma non ha fatto i danni gravi che ci sono stati in tutti i paesini della bassa modenese.
Però si è generato un momento di subbuglio generale. Mi ha impressionato, sentendo anche tanti
amici o familiari, percepire per la prima volta che si è tutti messi davanti a un fatto che
letteralmente ti mette con il sedere per terra, con la sensazione che venga giù tutto. Di fronte a
questa cosa non sapevo come reagire: mi sentivo in dovere di rispondere anche ai miei amici, ma
non sapevo cosa fare, ricordo che ho sentito anche l’urgenza di trovarci. Ecco, eravamo lì spaesati
per quello che era successo, e io ho detto: «Noi possiamo anche metterci insieme, trovarci,
eccetera. E quindi?». Allora ti ho chiamato per dirtelo. E mi ha colpito tantissimo quello che tu mi
hai detto: «Questo fatto mette te e tutti davanti a questa grande domanda: tu chi sei? Puoi dire, per
l’esperienza che stai facendo, che non sei parte di tutto quel che crolla?». E quando tu ci hai fatto
questa domanda, lì è stato il primo momento – se sono sincero – in cui non mi sono sentito solo. Ho
fatto esperienza della liberazione: qui non so cosa succederà, però questa autocoscienza già da
adesso mi dà pace. La compagnia che cerco è questa compagnia! Quella che mi ricorda chi sono e
Chi mi fa essere; e il segno che una compagnia è vera, per quello che ho vissuto in questi ultimi
giorni e in questi mesi, non è il fatto che ci si parli a ripetizione della compagnia, ma è il fatto che
uno, dentro una comunione, faccia questa esperienza di liberazione, appunto. Questo è il segno, e
un’esperienza così – per quello che ho vissuto – dà un’energia, una creatività, una forza, anche una
libertà, che prima non avrei pensato, più di tutte le cose vere o giuste che ci si può dire.
Grazie. Mi sembra un contributo prezioso per renderci conto di che cosa vuol dire il contenuto degli
Esercizi, cioè di che cosa vuol dire l’autocoscienza. Chi sono io e qual è la mia esigenza totale di
significato non trova risposta soltanto in uno stare insieme. Se noi non capiamo questo, allora non
possiamo capire che cosa intende don Giussani quando dice che questo è il momento della persona.
E non troveremo risposta adeguata all’esigenza che abbiamo. Questo si vede quando la vita ci sfida,
come davanti al terremoto; possiamo sentire l’urgenza di trovarci insieme, di metterci insieme e
allora sorge con ancora più potenza la domanda: e quindi? E quindi?! Un uso razionalistico della
ragione non può rispondere a questo. Perché? Perché non è che non stiamo insieme, non è che non
partecipiamo del reale che sta succedendo, ma siamo come travolti dal torrente delle circostanze.
Ma io sono parte di questo che crolla o no? C’è un io o c’è soltanto il panteismo? Sono soltanto un
pezzo del meccanismo delle circostanze, in questo caso delle scosse, o dell’insieme della nostra
impotenza? Allora si capisce che senza rispondere a questa urgenza non c’è l’io, non c’è l’io!
Cominciamo a capire che l’io non è un problema sentimentale, non dipende da uno stringerci
insieme per risolvere il dramma, ma è in questa urgenza di significato di totalità che o c’è o non c’è;
e se non c’è, non c’è l’io, non c’è l’io come autocoscienza, non c’è l’io come possibilità di stare nel
reale. Invece quando, in mezzo a tutto, qualcuno dice il significato, allora uno capisce che è vero
perché lo libera, perché succede qualcosa di radicalmente diverso, di radicalmente nuovo. E in che
cosa si vede? Che adesso sono libero in mezzo alle circostanze (non fuori dalle circostanze, ma in
mezzo alle circostanze). Come testimoniano molti colpiti direttamente dal sisma: «Questo terremoto
ha fatto crollare qualcosa di più che i muri. Con grande tristezza mi trovo bloccato, impietrito di
fronte a tutto questo. Questi fatti hanno messo in luce tutta la mia fragilità, tutto il mio bisogno di
poggiare i piedi su qualcosa che non tremi e non crolli. La domanda che più potentemente si fa
largo in me è proprio: ma qual è la mia consistenza? Dove ripongo la mia speranza? Fa male vedere
che alla fine sono come tutti. Agli Esercizi tu ci hai esortati a ripartire dal nostro umano; anche nel
tuo messaggio ci dici che don Giussani ci ha detto che è questo il tempo della persona. Ma io ho
paura, ansia, e non ne esco da solo». La sfida è a questo livello, ma basta che uno prenda
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consapevolezza di sé e guardate che cosa succede: «Due giorni dopo la grande scossa di terremoto
del 29 maggio sono entrata in casa per lavarmi. Mi sono trovata a tremare come una foglia e ho
iniziato a ripetermi: anche se la terra trema, io non tremo. Mentre continuavo a tremare mi sono
sorpresa a riconoscere che ciò che stavo dicendo era vero, ma non perché io non tremassi più, bensì
perché ciò che stavo dicendo era più vero, toccava più il fondo della questione che nemmeno il mio
stesso tremore [“toccava più il fondo della questione che nemmeno il mio stesso tremore”: per
questo, se non arriviamo fino lì noi siamo razionalisti e non ci sblocchiamo]. È stato riconoscere
l’evidenza [non è un problema di energia, non è un problema di forza, non è un problema di
performance, ma è un problema di semplicità che riconosce (come il cieco nato) il fondo ultimo del
reale] e, anche se tremante, ho deciso di restare lì a lavarmi [non è per modo di dire che uno è
diverso; no, è diverso perché agisce in modo nuovo: invece di fuggire, “anche se tremante, ho
deciso di restare lì a lavarmi”]. Io non ero del terremoto, nemmeno se fossi rimasta sepolta sotto le
macerie [tremi col terremoto, ma non sei del terremoto: questo è un io, questo è un io la cui
consistenza non è nel non tremare (perché può continuare a tremare), ma nel non essere del
terremoto]. E mi sono sorpresa. Se in quell’istante per me tanto difficile è stato possibile aprirmi al
Mistero dell’essere, al “Tu che mi fai”, ciò significava che era ed è possibile in qualsiasi situazione
e circostanza. Subito il mio pensiero è corso ai miei compaesani, come me pieni di paura e di
preoccupazione per il terremoto. Ciò che mi ha accompagnato nei giorni successivi al terremoto,
quando la paura di veder tremare di nuovo la terra era altissima, quando ogni futuro sembrava
impedito, è stato riconoscere continuamente che per quanto il futuro possa essere oscuro, il
presente, l’ora, c’è, e c’è perché Qualcuno me lo sta dando [è l’immediatezza di cui parlava
Giussani in piazza San Pietro nel 1998: riconoscere l’evidenza del reale, questa è la consistenza].
Ciò di cui mi accorgo in questi giorni è che ogni circostanza, quotidiana o eccezionale che sia, ha un
potenziale altissimo di sfida. Sempre il Mistero ci chiama ad aprirci a una misura radicalmente
diversa dalla nostra, ma che, lasciata entrare, fa la vera differenza, e vivere così è decisamente più
bello». Ma perché questo accada occorre che ciascuno di noi dica: «Io», perché, senza questo
attaccamento di ciascuno di noi all’evidenza dell’essere, noi siamo di nuovo incastrati nelle
circostanze. E proprio perché noi non crolliamo – non è che questo è il punto di arrivo! –, possiamo
poi incominciare a fare tutto quello che occorre fare, come mi dice un’altra persona coinvolta nel
terremoto: «Quel che ci diciamo sempre a caritativa l’ho verificato vero, di nuovo. È vero, c’è in noi
questa necessità di condivisione totale [perché si è messa in moto per aiutare gli altri], se è taciuta e
soffocata il nostro io è meno io. L’impotenza di risoluzione non vanifica questa necessità,
paradossalmente la amplifica e ci spalanca al mistero dell’altro, al mistero del nostro io. Il bisogno
di tutto dei nostri amici è il mio stesso bisogno; senza sentire vibrare in me questa corda ora, non
riesco più a vivere e la mia vita non mi sembra più vita». Perciò questa persona si è mossa per
rispondere anche al bisogno. Ma uno può rispondere perché non è crollato in mezzo alla bagarre
generale. Allora si capisce qual è il compito che abbiamo, se noi viviamo così, qual è la nostra
utilità per il mondo in un momento in cui – come dicevo nel messaggio agli amici terremotati – tutte
le risposte penultime, di cui si riempiono la bocca tutti, non servono a niente. «Ora, nella zona in cui
abito, per un raggio di trenta chilometri non c’è più una chiesa, sono tutte fortemente danneggiate.
Di fronte a questo mi dicevo: ora, Gesù, dobbiamo essere noi a renderti presente nel mondo. Quel
che ci è chiesto ora è di sostenere la speranza, affinché per tutti sia evidente che il Signore è più
forte del terremoto». Ma questo non lo può far chiunque, lo può fare solo uno che ha una
consistenza che gli consente di sorreggere questa speranza. È solo così che possiamo capire qual è
la portata del nostro contributo.
Studio all’università. Quando a novembre è morto il nostro amico Giovanni, tutte queste domande
di cui stai parlando anche stasera erano emerse in maniera chiara dentro di me, perché è evidente
che se io ponevo tutta la mia consistenza nel rapporto con degli amici, che poi il giorno dopo mi
venivano tolti, crollavo. E mi ha subito sfidato la tua posizione rispetto a questo quando tu avevi
detto che l’ultimo grande gesto di amicizia che ci aveva fatto Giovanni è stato quello di metterci
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davanti al Mistero. Andando a vedere tempo fa la mostra su sant’Agostino, mi sono commossa
davanti all’episodio della morte di un suo carissimo amico, quando affermava: «La mia anima era
assolutamente in crisi, e mi dicevo di sperare in Dio, ma non era soddisfacente perché come potevo
sperare in un fantasma?», perché per me invece non è stato così. Io ho potuto veramente non
perdere la speranza innanzitutto perché i miei amici sono stati con me, e attraverso di loro ho visto
uno sguardo indescrivibile e bellissimo. Racconto un ultimo fatto che è successo. Un pomeriggio,
stavo sentendo il racconto di un mio amico che parlava degli ultimi giorni in cui era morto
Giovanni, con dei dettagli che io non ricordavo. A un certo punto ho cominciato a sentire un vuoto,
una tristezza profonda, che io volevo togliermi assolutamente perché mi dava fastidio, non dovevo
essere così, dovevo essere felice. Ci sono voluti proprio i miei amici per sfidarmi chiedendomi se
con la sua morte era tutto finito. Era Gesù che, attraverso di loro, mi chiedeva di fare un lavoro.
Quando poi ho letto la Scuola di comunità, mi sono ancora commossa, in particolare quando dice:
«Se tu non avessi avuto questa compagnia, Cristo, per me come per te, sarebbe stata una parola
oggetto di frasi teologiche, oppure nei casi migliori, richiamo ad una affettività “pietosa”, generica
e confusa, che si precisava soltanto nel timore dei peccati, vale a dire in un moralismo». E poi:
«Invece il rapporto con Cristo, con Dio fatto uomo, coincide con il rapporto con quelle persone che
documentano, che testimoniano che Cristo è presente, non tanto perché siano fisicamente presenti,
ma perché vivono un’intensità umana che documenta la Sua presenza oggi. Infatti, per testimoniare
la Sua presenza oggi, attraverso questa intensità, questo cambiamento, occorre che Lui sia
presente». Mai ho avuto così chiara questa coscienza di cosa era veramente quell’amico, anche se
lui non è più fisicamente presente. E questo semplicemente mi apre a un nuovo uso della ragione
rispetto a questo fatto: grazie a questo posso dire che l’amicizia con lui, dai fatti che mi stanno
succedendo, continua e si sta approfondendo, anche se per il mondo in realtà sarebbe tutto finito.
Grazie. Per il mondo tutto è finito, invece quella intensità, quella diversità di cui lei ha fatto
esperienza rimane anche nel presente. «Come possiamo noi fare questa strada?», mi domandano.
Non voglio finire senza rispondere a una domanda sulla sequela che mi è arrivata in una doppia
versione. «Nella lezione del sabato mattina degli Esercizi della Fraternità scrivi, citando Giussani:
“Il desiderio del ricordo di Cristo matura come storia in noi, cresce non automaticamente ma, come
cresce ogni nostra capacità, seguendo qualcuno”. Poi Giussani conclude: “Non l’attaccamento alla
persona, ma la sequela a Cristo è la ragione della sequela tra noi”. Avrei veramente bisogno di un
chiarimento su questo, perché è sorgente continua di equivoci, perché è facile cadere nell’equivoco
di una compagnia protettiva, da cui sentirsi amati e rassicurati senza mai sapere veramente che cosa
vogliamo, chi amiamo, per chi valga la pena vivere». E un’altra persona scrive: «Ultimamente tu
parli spesso della sequela, mi sono accorta che per me è un punto scoperto, perché di fatto non
saprei dire chi concretamente seguo, e nella mia esperienza spesso cado nell’interpretazione, vado
dietro a quello che mi colpisce. Mi entusiasmo in alcuni momenti, come sentirti agli Esercizi,
leggere la lettera a la Repubblica o vedere il Papa, perché lì riconosco in atto una unità, una
pienezza della vita che desidero per me, ma poi mi perdo per strada. Mi sembra che quando tu parli
di seguire dici qualcosa di più di un riferimento a cui ispirarsi, intendi quindi una immedesimazione
totale come quella di un figlio che senza volerlo quasi assume i caratteri del padre, senza esserne
una copia. Se non è una frequentazione (tu dicevi che il Gius non lo vedevi mai), cosa ha reso
possibile per te una immedesimazione come quella che tu ci mostri continuamente?». Questa
immedesimazione consiste in quello che don Giussani ci ha detto sempre: un paragone serrato con
quello che ci dice, perché la sequela è questa possibilità costante di lasciarsi spostare davanti alla
testimonianza, alla modalità di vivere nel reale di uno che ci sta davanti. E come so che sto
seguendo? Come so che una compagnia mi fa veramente compagnia? Abbiamo ripetuto tante volte,
in tutto questo periodo, quella famosa frase di Giussani – da quando l’ho letta non è passato giorno
senza averla dovuta ripetere a me o a un altro –: la fede è un’esperienza presente, che trova la
conferma della sua convenienza umana, della sua verità, nell’esperienza stessa. Se non è così, noi
non possiamo resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario. Come so se sto veramente
seguendo? Io so che sto veramente seguendo per la conferma della mia esperienza in quello che
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accade. Lo abbiamo visto oggi in diverse testimonianze; in che cosa si vede se uso bene la ragione o
meno, se la uso in modo razionalistico? Che io non sto in piedi, che io sono a terra. In che cosa vedo
che c’è una vera compagnia? Che mi libera. In che cosa vedo io che non crollo quando crolla tutto?
Perché io non fuggo, sto lì a lavarmi, perché «non sono del terremoto». Non abbiamo bisogno,
come dico sempre, di un supplemento di certezza fornitaci da qualcun altro al di fuori
dell’esperienza; noi sappiamo che stiamo seguendo per l’esperienza che facciamo secondo una
modalità, secondo un tempo che non decidiamo noi. Adesso incominciamo a vedere i segni di un
percorso fatto, che all’inizio non capivamo dove portava; non ne vedevamo i segni della
convenienza umana, semplicemente seguivamo perché ce l’aveva proposto don Giussani; adesso
incominciamo a vedere che nell’esperienza abbiamo dei segni che ci consentono di riconoscere
quando noi stiamo seguendo. Allora la questione è questo paragone continuo con quello che ci
viene proposto attraverso la Scuola di comunità (il testo e quello che succede qui e nei vostri
raduni), perché questo ci fa capire che cosa è veramente seguire. E questo vi fa rendere conto di
come sia necessario costantemente non solo fare un’esperienza, ma giudicarla con quella esigenza a
cui ci siamo richiamati sempre e che si chiama cuore, perché altrimenti noi non abbiamo la
possibilità di verificare che è vero quello che ci diciamo. Come riconosco io che è vera l’esperienza
che faccio? Perché corrisponde a tutta la mia esigenza di liberazione, a tutta la mia esigenza di pace,
a tutta la mia esigenza di consistenza, a tutta la mia esigenza di stabilità. Questa corrispondenza non
abbiamo bisogno che ce la spieghi qualcuno, ma abbiamo bisogno soltanto di farne esperienza; e
quando ne facciamo esperienza è facile vederla come è facile vedere la luce del giorno: si impone
con tutta la sua evidenza. Per questo se noi ci ingaggiamo in questa strada che ci offre
costantemente don Giussani – non abbiamo altro da proporre! –, possiamo costantemente vedere se
stiamo seguendo, per l’evidenza di quello che accade.
Questa domanda emerge da quello che più mi ha segnato in questo periodo, in cui mi sono sentita
profondamente ferita, turbata e con una ferita che sanguina, dai fatti più recenti che hanno messo
alla prova la nostra storia. Non mi sto riferendo tanto al terremoto o alla crisi economica, e
neanche agli attacchi politici, ma a ciò che proprio ha colpito l’origine della nostra storia, di
fronte a uno sfregio così odioso. Quando agli Esercizi ti avevo sentito parlare, citando Giussani, di
una società avversa, quasi mi sembrava esagerato perché è vero, siamo una minoranza,
culturalmente una minoranza, ma io questo odio così gratuito, così senza senso, non l’avevo mai
visto. Ora di fronte a questo turbamento profondo mi chiedo perché, dove il perché non è un perché
come spiegazione analitica delle cause, ma il perché può succedere una cosa di questo genere.
Ti ringrazio perché questo ci consente di rileggere quel che dice don Giussani, per aiutarci a
rispondere; è un testo del 1972 pubblicato su Tracce di marzo 2008: «Nella vita di chi Egli chiama,
Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di
coloro che Egli ha chiamati. Questo vale innanzitutto per la vita della persona, ma ultimamente e
più profondamente per la vita della sua Chiesa, perciò, analogamente, per la vita di ogni comunità,
si chiami essa famiglia o comunità ecclesiale, in senso più lato. Dio non permette mai che accada
qualche cosa, se non per una nostra maturità, per una nostra maturazione. Anzi, è proprio dalla
capacità che ognuno di noi e che ogni realtà ecclesiale ha (famiglia, comunità, parrocchia, Chiesa in
genere) di valorizzare come strada maturante ciò che appare come obiezione, persecuzione, o
comunque come difficoltà, è dalla capacità di rendere strumento e momento di maturazione questo,
che si dimostra la verità della fede [anche qui mette in evidenza qual è la maturità della nostra fede:
se noi riusciamo a usare di tutto questo, qualsiasi cosa sia, senza perderci nelle dietrologie che non
ci interessano perché questo è razionalismo puro, cioè rimanere nell’apparenza, il che non ci
interessa; perché, come vi ho detto altre volte, almeno possiamo dire che il Mistero non ce lo ha
risparmiato, quindi è per noi, per la nostra maturazione; ma quest’ultima non succede
meccanicamente, ma dipende dalla nostra capacità di usare le circostanze così, per un rapporto, per
una consistenza, per un cercare ancora di più Cristo, per poter vivere ogni cosa senza rimanere
all’apparenza]. […] È questo, potremmo dire, il sintomo della verità, della autenticità o meno della
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nostra fede: se in primo piano è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di
preoccupazione, se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci
aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri
progetti o a nostri programmi. La legge dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita
della nostra fede cui abbiamo accennato adesso, è realmente d’estrema importanza per gli individui,
come per le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre vero che, per chi
capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta sempre vero che, nella difficoltà, viene a
galla il fatto se tu voglia Dio o no. È l’eterno dilemma che sta in capo a ogni pronunciamento
dell’uomo, a ogni azione dell’uomo, a ogni espressione dell’uomo, è l’alternativa che denuncia
l’ambiguità possibile alla radice di ogni flessione umana. Il mondo è una grande ambiguità per lo
spirito non chiaro. Lo spirito dell’uomo ha la tentazione dell’ambiguità sopra ogni altra cosa. Non
per nulla Cristo parlava in parabole, “affinché vedendo possano non vedere e udendo possano non
udire”. E tutto il mondo è come una grande parabola: dimostra Dio, come una parabola dimostra il
valore cui vuole richiamare, e “chi ha orecchi per intendere, intenda!”. Di fronte alla parabola, viene
a galla il pensiero segreto del cuore. Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo, al
problema, alla domanda, alla difficoltà. […] Se quello che cerchiamo è Cristo oppure è il nostro
amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si
vede, viene a galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà». Perciò queste circostanze,
che non ci vengono risparmiate, possono diventare per noi parte della nostra strada, del nostro
cammino, della nostra maturazione, per poter essere sempre più degni di rendere presente Cristo,
più purificati da qualsiasi altra cosa che non sia quello, invece di mettere la nostra sicurezza in
quello che facciamo, come dice don Giussani in una frase che rimane in testa per la bellezza di quel
che esprime: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato». Mi auguro che in queste circostanze
noi possiamo crescere in tale certezza; possono spogliarci di tutto, ma nessuno ci potrà togliere di
dosso il fatto che a nulla fuorché a Gesù siamo attaccati.
Vacanze estive. Il titolo che vogliamo dare alle vacanze, come abbiamo visto questa sera e come
stiamo dicendo in questi ultimi tempi, quello che ci sembra più adeguato è: «È il tempo della
persona». Mi sembra che mai come in questo momento lo sentiamo pertinente.
Tutto il lavoro, dalla Scuola di comunità ai Libri per l’estate, sarà un aiuto a questo.
Suggeriamo, pertanto, di riprendere la seconda lezione degli Esercizi della Fraternità che si collega
al quinto capitolo del testo All’origine della pretesa cristiana.
Tra i Libri indicati per l’estate, segnaliamo in particolare Assassinio nella cattedrale, di T.S. Eliot,
perché ben si collega al lavoro sulla Scuola di comunità e al percorso fatto. Di questo testo
vogliamo sottolineare non tanto l’eroicità della persona (non vogliamo spostare l’attenzione sulla
eroicità del personaggio), ma la testimonianza di un uomo libero di fronte al potere e il percorso che
occorre fare per essere in grado di “reggere” anche in una circostanza non desiderabile come quella
del martirio, una cosa che uno non cerca né deve cercare. Ci interessa capire che, data la nostra
fragilità e inconsistenza, questa libertà ce la sogniamo se non siamo disponibili a questo percorso.
Per questo non è l’eroicità del protagonista che ci interessa, perché non è eroicità, ma è
semplicemente l’esito di un legame più forte di qualsiasi altra cosa.
Tutta la seconda lezione degli Esercizi descrive il cammino di certezza che occorre fare perché si
generi un soggetto che testimoni cosa voglia dire essere cristiani in una società come la nostra. Per
questo, la Scuola di comunità e il lavoro sugli Esercizi sono la strada da percorrere, anche e
soprattutto nell’estate che per definizione è il tempo libero, quando ciascuno in fondo può fare
quello che vuole, può decidere come usare il tempo: possiamo avere la possibilità di verificare,
quando possiamo decidere liberamente l’uso del tempo, a che cosa diamo il tempo e l’energia.
Un secondo libro è: Il miracolo dell’ospitalità. Questo libro di don Giussani (recentemente
rieditato) raccoglie i dialoghi da lui fatti con l’associazione Famiglie per l’Accoglienza.
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È utile per tutti leggerlo perché possiamo vedere come l’ospitalità sia una testimonianza della natura
del cristianesimo. È il comunicarsi di un “pieno” sul quale la vita poggia.
Urgenza Terremoto in Emilia e Lombardia. Tanti amici ci chiedono come aiutare le persone
colpite dal terremoto. Sul sito della Compagnia delle Opere è pubblicata una bacheca, aggiornata
con l’elenco delle segnalazioni più urgenti e con le informazioni per la raccolta fondi. In particolare,
la CdO in Emilia è a disposizione per mettere direttamente in contatto chi ha la disponibilità di
roulottes e/o camper e le famiglie che ne hanno bisogno.
Veni Sancte Spiritus
Buona estate a tutti!
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20 giugno 2012. Appunti SdC con Carrón