Spiando le cellule al lavoro: Julius Cohnheim Paolo Scarani Premessa: una scoperta di Roberto Agosti Alla fine degli anni ottanta, nel frastuono delle celebrazioni per il nono centenario del nostro Ateneo, stavo compiendo, insieme con Ermenegildo Colosimo, Roberto Agosti ed altri giovani patologi di Bologna, il recupero della biblioteca antica, che era stata destinata al macero, non si è mai capito bene da chi. Vennero in tal modo alla luce una valanga di pubblicazioni scientifiche d’ogni genere, spesso di valore inestimabile, appartenenti in prevalenza alla seconda metà dell’ottocento. Erano state raccolte da Giovanni Martinotti (1857-1928). Egli non scoprì le cellule del Martinotti [1], ma fu un buon patologo, e, soprattutto, uno scienziato estremamente curioso, anche nell’ambito della storia. Come molti medici italiani di prestigio, pubblicò anche in lingua straniera (Tedesco, soprattutto). All’inizio del ventesimo secolo, si dedicò, insieme con gli allievi, allo sviluppo d’un vaccino contro la tubercolosi. I suoi studi, tuttavia, non hanno avuto grande risonanza, tanto che, fino al mio lavoro appena citato, era ricordato esclusivamente per le cellule del Martinotti (temo lo sia ancora). Già allora stavo cercando, senza successo, la pubblicazione sulle cellule del Martinotti. Quella genuina, di Carlo Martinotti, la ricevetti infatti da Lipsia sei anni dopo. Fu nel corso di questo vano sopralluogo che un giorno sorpresi Roberto Agosti incantato a leggere un libretto del 1906 [2], in cui Giovanni Martinotti narra una storia incredibile. Si tratta d’una perizia giudiziaria da lui condotta per l’omicidio d’un anziano paziente ricoverato, perpetrato da due infermieri, i quali, per scherzo, gli avevano somministrato strisce di garza al posto delle tagliatelle in brodo. Più sconcertante ancora è però il fatto, sottolineato con estrema acredine dall’autore, che la sua tesi sulla morte per occlusione intestinale, fosse stata contestata, non tanto da Pietro Albertoni (ho già parlato del suo valore nell’articolo su Giuseppina Cattani [3]), quanto da Guido Banti. Quando lessi per la prima volta il libretto di Martinotti, rimasi profondamente sconcertato per l’aggressività dell’autore, che contrasta col tono equilibrato, freddo, dei suoi articoli scientifici. Ne parlai anche con patologi anziani, che l’avevano conosciuto all’inizio della loro carriera a Bologna. In effetti, me lo presentarono come persona dal carattere difficile. Mi sono tuttavia ricreduto, a tale proposito, quando ho considerato il caso di Giuseppina Cattani. Anche lei manifesta infatti la stessa aggressività quando si vede costretta a rigettare le critiche gratuite di Pietro Albertoni. Penso allora d’aver capito dov’è il problema: quando una persona psichicamente integra, pur essendo nel giusto, è sottoposta a critiche da autorità costituite incompetenti, a volte è portata a “perdere le staffe”. Purtroppo questo è un guaio. L’opinione pubblica, infatti, molto raramente va al cuore dei fatti, e si limita a giudicare negativamente chi si comporta in modo strano. Ritengo giusto fare quest’affermazione, in quanto sulla memoria di Giovanni Martinotti aleggia ancora questo mito, che purtroppo sminuisce i suoi grandi meriti di fondatore dell’anatomia patologica clinica a Bologna, come l’intendiamo oggi. L’infarto del miocardio In quella sconcertante perizia, c’è un altro particolare curioso: Martinotti descrive un infarto, apparentemente subendocardico, forse l’episodio terminale dello shock da occlusione. Ciononostante,non usa il termine infarto. Gli autori di lingua inglese non se ne meraviglierebbero. Essi sostengono infatti che il concetto d’infarto del miocardio si afferma soltanto fra le due guerre mondiali [4]. Avranno anche ragione. Io, nell’archivio autoptico di Bologna, ho trovato tre diagnosi d’infarto del miocardio fra il 1900 ed il 1906. Tali diagnosi sono formulate da Bindo De Vecchi, l’allievo prediletto del Martinotti. Questi è, all’inizio del ventesimo secolo, uno tra i medici italiani con la mente più aperta, tanto da pubblicare alcuni suoi articoli su riviste nordamericane, in un momento che si caratterizza per lo strapotere della cultura tedesca. E non è questione di lingua, perché De Vecchi pubblica anche in Tedesco. Evidentemente, l’aria cambia. Mi sarebbe piaciuto capire quando ci si accorse che un particolare tipo di miocardite acuta con abbondante necrosi dei miociti è correlato con l’occlusione del ramo coronarico tributario. Mi accorsi però con sorpresa che nessuno ne sa niente o quasi. Si parla moltissimo dell’oramai vetusto tema della morte cardiaca improvvisa: sghignazzando, un cardiologo mi raccontò che, ad un congresso internazionale su questo tema, i relatori non sapevano dove andarsi a nascondere, perché praticamente tutti esordivano con una diapositiva col frontespizio del “De subitaneis mortibus” di Giovanni Maria Lancisi (1654-1720), sicuramente convinti di far qualcosa d’originale. Pensai allora che la cosa più logica fosse quella di rovistare fra le pubblicazioni d’uso comune alla fine dell’ottocento. Purtroppo, dalle descrizioni della patologia del miocardio non si ricavava proprio niente: erano maledettamente vaghe. In quel mare di libri antichi, mai visti prima, mi sentivo quasi ubriaco. Virchow, Rokitansky, Koelliker, Golgi, Banti, Kraepelin, Broca, Bernard, Koch, Pavlov: leggendo quello che scrivevano, mi sembrava quasi d’incontrarli. Così, cominciai a fare come faccio di solito coi libri: li apro a casaccio, e comincio a leggerli, a volte senza guardare il titolo. Un giorno lo feci con due volumetti tedeschi dalla copertina grigio verde. Un capitolo a caso: patologia generale del cuore. Mi buttai allora a pesce, e trovai una splendida descrizione, benché schematica, d’infarti e cicatrici del miocardio, in rapporto con occlusioni coronariche da trombi o emboli, o con stenosi severe. Il termine “infarto” era usato con estrema naturalezza. L’autore, in particolare, alludeva a proprie esperienze sperimentali, pur non considerandosi lo scopritore del fenomeno. Era Julius Cohnheim. L’anno, il 1882 [5]. Patologia generale (Allgemeine Pathologie) I miei insegnanti di patologia generale ricordavano, durante le lezioni, tanti studiosi illustri. Quelli che ricorrevano più spesso erano tuttavia Guido Majno, per la morte delle cellule, e Julius Cohnheim, per la flogosi. In quegli anni, la morte m’infastidiva epidermicamente. La flogosi, invece, come tentativo, più o meno ben riuscito, per ristabilire le condizioni normali della vita, mi divertiva molto. Penso piacesse anche ai miei professori. Essi non si limitavano, infatti, ad illustrarci le ultime scoperte, ma ci mostravano anche le strategie di cui Cohnheim si servì per studiare il processo dell’infiammazione, un evento del quale tutti, ai suoi tempi, parlavano, quasi sempre, però, senza cognizione di causa. Un allievo che, come spesso succede, superò il maestro Julius Cohnheim (1839-1884) morì a 45 anni, d’uremia. Visse molto intensamente, però. Fu discepolo di Rudolf Virchow, e probabilmente, fra tutti i grandi allievi di questo genio-mostro, egli fu quello che meglio sviluppò il concetto di patologia sperimentale, nato con la memorabile scoperta virchowiana della patogenesi della tromboembolia polmonare [6]. Virchow aveva indubbiamente aperto una strada, derivata, come già scrissi [7], dal concetto goethiano di morfologia. Molti scopritori di mondi nuovi, tuttavia, non sono spesso capaci di vivere nei “luoghi” che hanno scoperto. L’uomo, penso, è un animale tradzionalista. I cambiamenti fanno paura a tutti, ed a ragione! È un po’ come quando si restaura una casa, in definitiva. Alla fine, la casa restaurata, sarà bellissima e piena di nuove comodità (se i restauratori sono bravi!). Ma, prima di cominciare, a chi non vengono i brividi, pensando al caos che ci sarà durante il restauro? Questo, è forse il problema di Virchow: egli mostrò un mondo nuovo, come professione (anatomia patologica) e come campo di ricerca (patologia generale, o sperimentale). Suscitò in tal modo un entusiasmo straordinario in tanti giovani medici, che si lanciarono con grande energia nel “nuovo mondo”. Purtroppo, Virchow, come Golgi [8], si era fatto presto le sue idee su ciò che studiava, ed ebbe il torto di credervi dogmaticamente. Il dogmatismo cristallizza la realtà. A volte, addirittura può falsificarla, portando a commettere errori tragici. Ciò, a mio avviso, basta a spiegare tanti aspetti negativi della vita di Virchow. Certamente, Virchow si appropriò d’una scoperta non sua: la dottrina della patologia cellulare, che appartiene a Robert Remak [9]. Svilì inoltre le grandi scoperte di quest’uomo sfortunato in campo oncologico [10], avallando invece un concetto personale dei tumori, che già allora appariva poco ammissibile. Non si può tuttavia negare l’eccezionale dinamismo di quest’ometto d’acciaio. I tanti allievi che lo superarono e, in un certo senso, ridicolizzarono i suoi pregiudizi sull’infiammazione, sulle malattie infettive (e su Robert Koch), non si sarebbero certamente dedicati all’anatomia patologica ed alla patologia sperimentale. In altre parole: Virchow, nel bene e nel male fu il maggior responsabile dell’immane trasformazione della medicina tedesca fino alla seconda guerra mondiale. Cohnheim, oltre alla passione, aveva idee brillanti e qualità di tecnologo veramente eccezionali. Fra le altre cose, quando i chirurghi, Billroth in primis, si resero conto dell’importanza di quella che oggi chiamiamo “surgical pathology”, proprio Cohnheim inventò la biopsia estemporanea ed il criostato. Naturalmente, ciò fu una “cattedrale nel deserto”: l’istopatologia e la tecnica chirurgica non erano ancora così sofisticate da consentire l’inserimento dell’estemporanea nella prassi [10-11]. A mio avviso, però, Cohnheim dette il meglio di sé negli studi sperimentali sull’infiammazione acuta. Vivisezione Con grande semplicità,Cohnheim rende conto, nel capitolo sull’infiammazione, della sua grande scoperta sulle fasi precoci dell’angioflogosi: l’iniziale accelerazione del flusso ematico nei piccoli vasi, la successiva decelerazione, con marginatura e successiva diapedesi dei leucociti. Ho detto semplicità, perché Cohnheim presenta in modo equilibrato tutti gli aspetti dell’infiammazione. I suoi fondamentali contributi in questo campo sono appena citati con un numerino, che rimanda alla bibliografia in fondo al capitolo. Egli sottolinea invece l’importante innovazione costituita dalla camera calda di Thoma, la quale consente di prolungare le osservazioni sulla lingua di rana e sul mesentere del coniglio. Questa è, chiaramente, vivisezione. Gli studiosi tedeschi dell’ottocento praticarono sistematicamente questo metodo di ricerca. Virchow e Koch erano i maggiori assertori di questa prassi, e si scontrarono violentemente coi movimenti antivivisezionisti britannici e nordamericani. Essi contrapponevano a tali critiche i risultati della scuola tedesca. Entrambi amavano gli animali. Si dice che Virchow fosse attentissimo al modo in cui i suoi allievi trattavano gli animali da esperimento, e che non tollerasse esperimenti arbitrari o che, comunque, comportassero troppe sofferenze [11]. La meraviglia delle cellule al lavoro. Intermezzo musicale. Il testo di patologia generale che stiamo esaminando [5], rivive a distanza di tempo le scoperte di Cohnheim sull’angioflogosi. Esse risalgono infatti al 1873. Tuttavia, anche in questa presentazione schematica, traspare la sorpresa dello sperimentatore, il quale ha trovato il modo per “provocare” le cellule dell’infiammazione, e, soprattutto, un metodo efficace per spiarle mentre svolgono i loro compiti. Cohnheim ha, in particolare, un colpo da maestro quando presenta l’attraversamento della parete vasale da parte dei leucociti. Forse, l’effetto straordinario che deriva dalla sua descrizione, è dovuto proprio all’evento in sé. I leucociti sembrano infatti indugiare, dopo che hanno aderito all’endotelio dei vasi. Poi, con indolenza da incubo, cominciano ad emettere le prime propaggini che, come ha poi svelato la microscopia elettronica, s’infiltrano tra le cellule. È un momento, Cohnheim lo fa chiaramente intendere, in cui non si capisce bene che cosa stia per verificarsi. Si crea così un’atmosfera d’attesa, fino al definitivo, deciso passaggio verso l’interstizio. La realtà ha annientato la teoria di Virchow. Di ciò, Cohnheim nemmeno parla. Questi sono infatti i momenti in cui la scienza diventa poesia, e gli aspetti banali della vita sembrano sparire nel nulla. Il lunedì di Pasqua del 1966 imparai a conoscere le sinfonie di Brahms. Un rappresentante di elettrodomestici un po’ svitato, con una faccia che sembrava un impasto di Fernandel e Alberto Sordi, accortosi della mia passione latente per la musica, mi portava spesso degli LP economici a 33 giri, vecchie registrazioni, spesso di Toscanini. Quel giorno arrivò con le quattro sinfonie di Brahms: “Questa è roba che ti piace di sicuro. Figurati: mi ha fatto passare il mio mal di stomaco!” Forse era angina. Morì d’accidente per strada e finì all’obitorio dimenticato da tutti, perché era solo come un cane. Vedete, dove si vanno a nascondere i poeti? Con Brahms, la musica è finita. Quest’uomo ha fatto tutto quello che aveva dimenticato di fare Beethoven. Poi, il mondo si è riempito di balbettii. Le sinfonie mettono paura. Ma è dell’attacco della terza, che voglio parlare. Bernstein diceva che Brahms, con le prime battute, invoca la Musa. Lo sviluppo impressionante successivo, sarebbe la risposta della musa: sembra infatti qualcosa d’indescrivibile che cala dal cielo. Talora capita di vivere situazioni che riempiono di brividi le parti più recondite del corpo. A me, in tali circostanze, dal 1966 è sempre tornata in mente questa musica di Brahms. Ne sa qualcosa il Professor Mancini, quando, una mattina di settembre del 1988, ci trovammo davanti il sole che sorgeva dai monti attorno a un fiordo nei pressi di Bergen. Rilke [12] sosteneva che le poesie e le canzoni “vivono” nell’aria. La gente le attraversa, le respira. Per lo più, non le capisce. I poeti e i musicisti le capiscono, e danno loro una forma. Quando le sentiamo, proprio perché già da tempi immemorabili esse erano con noi, abbiamo la sensazione di udire qualcosa che ha sempre fatto parte di noi. Ciò capita soprattutto in Germania, dove esiste una tradizione, profondamente sentita, di poesia e musica popolari, e dove i grandi musicisti non si sono mai vergognati di comporre canzoni popolari. Noi siamo troppo sofistici. Brahms compose la terza sinfonia nel 1883 [13]. Vedete? Rilke aveva ragione. La stessa musica è andata a finire nella sinfonia di Brahms e negli studi di Cohnheim. Una miniera d’informazioni sulle scoperte in medicina Il trattato di patologia generale di Cohnheim è un’opera rivoluzionaria. Se lo si confronta con opere mediche precedenti e contemporanee, si ha la sensazione d’entrare in un altro mondo. Discorsi stringati, essenziali. Esperimenti. Fatti, soprattutto. Sino a Cohnheim, si erano create teorie complesse e fumose. I trattati medici del primo ottocento producono soprattutto noia, commista a disperazione. Leggendo l’Allgemeine Pathologie si comprende invece che la medicina si sta movendo. Non si tratta, però, della solita attività di due o tre persone geniali. Gli studiosi ed i ricercatori sono oramai decine e decine. La testimonianza migliore di questo fervore d’attività è data dall’imponente bibliografia che Cohnheim inserisce al termine d’ogni capitolo. L’autore cita per lo più lavori scientifici originali, pubblicati da studiosi tuttora annoverati tra i grandi della medicina. Virchow a parte, potrei citare Bernard, Pasteur, Grawitz, Weigert, Charcot, Quincke, Hodgkin, Recklinghausen (che non è ancora stato insignito del von dal Kaiser), Quincke, Rokitansky, Billroth, Traube, Bence Jones, Paget, Remak. Questo, è un modestissimo campionario. Esso vorrebbe rendere, tuttavia, l’idea del valore di quest’opera per gli storici, che vi possono rintracciare il riferimento ad un numero veramente imponente di pubblicazioni, molto spesso straordinarie. Gli autori segnalati sono frequentemente tedeschi. Ciò appare naturale, se si considera il livello della scienza germanica nella seconda metà dell’ottocento. Non mancano tuttavia, come s’è visto, citazioni di studiosi stranieri. Culturalmente, la Germania ottocentesca non è certo xenofoba, e le sue sedi universitarie sono piene di studenti e laureati d’ogni parte del mondo. Certo, la vita del visitatore straniero non è facile. I professori tedeschi cordiali sono definiti autentiche “mosche bianche”, specialmente dai giovani Americani [14]. Cohnheim, in questo senso, è un’eccezione. Curioso ed aperto per natura, legge di tutto ed in tutte le lingue. Coltiva anche i rapporti personali con studiosi stranieri, anche Italiani. In effetti, nelle bibliografie se ne trova un numero ragguardevole. Almeno per me, alcuni di questi Italiani, hanno costituito una vera sorpresa. In genere non si tratta di discussioni ampie degli studi citati. Cohnheim si limita sovente a rimandare semplicemente alla bibliografia, salvo che l’autore considerato non gli appaia particolarmente rilevante. Ma parliamone. Angelo Mosso (1846-1910) è citato, nel capitolo sui disturbi distrettuali della circolazione, per gli studi sugli effetti dell’atropina e del cloralio idrato sulla muscolatura delle arterie. L’articolo, del 1874, è pubblicato su di una rivista di Lipsia. Non so se questa città sia una delle sedi estere frequentate dal giovane Mosso per studio (sono al corrente soltanto di Vienna e di Parigi). Certo, egli divenne uno degli scienziati italiani più apprezzati in Germania. Di solito, lo si ricorda per il laboratorio di studi fisiologici ad alta quota, costruito sul Monte Rosa. È, secondo me, particolarmente degna d’ammirazione l’idea di Mosso di fondare quella che è considerata la prima rivista scientifica italiana in lingua straniera, gli “Archives italiennes de biologie”, col dichiarato proposito di far conoscere agli stranieri la nostra attività scientifica. In essa apparvero fra l’altro alcuni articoli di Golgi sul suo apparato. Per chi fosse interessato, si trovano nei volumi 49, del 1908, e 51, del 1909. Quello del 1909, è il seguito, in extenso, della comunicazione pubblicata nella prima annata di Pathologica, della quale mi occupai nel secolo scorso [15]. Un altro Italiano è citato espressamente nel capitolo sull’iperemia passiva. Con particolare ammirazione, infatti, Cohnheim vi ricorda la dimostrazione di L. Severini, in un lavoro pubblicato a Perugia nel 1878, della contrattilità dei capillari. Corrado Tommasi Crudeli (1834-1900), anatomopatologo ed igienista, discepolo di Virchow e fondatore dell’anatomia patologica del Santo Spirito di Roma, è brevemente ricordato, nella parte sull’infiammazione, per gli studi condotti con Klebs sui “bacilli” della malaria (memorie dell’accademia dei lincei, 1879). In questo stesso capitolo sono citati anche Giulio Bizzozero, nell’ambito della polemica sull’origine delle cellule del tessuto di granulazione, ed il classico studio di Agostino Bassi sulla pebrina. Bizzozero ricompare nel capitolo sulla pletora e sull’anemia. Questa è una citazione importante, in quanto si tratta di lavori in cui il grande studioso ipotizza, forse per primo, l’emopoiesi midollare. In questo capitolo, Cohnheim cita anche, polemicamente, la proposta di Pio Foà e Paolo Pellacani sulla trasfusione del sangue per via intraperitoneale. Nell’introduzione alla patologia nutrizionale ed anche nel successivo capitolo sull’atrofia semplice, sono citati gli studi sull’atrofia da denervazione di Paolo Mantegazza (1831-1910). Quest’uomo rimarrà sempre per me un mistero. Si occupò d’una quantità enorme di cose, fondando la prima cattedra italiana d’antropologia (a Firenze), la società italiana di antropologia ed il primo laboratorio europeo di patologia generale. Scriveva in modo piacevole, ed affascinava le donne. A parte questo lavoro, non originale, citato da Cohnheim, non mi sembra abbia combinato gran ché, nella sua vita. Mi ricorda una persona che vedo tutti i giorni! Viaggiava molto, s’innamorò di Madera, divenendo un convinto assertore della terapia climatica di svariate malattie, compresa la tubercolosi (in questo caso, non conta niente, ve lo giuro). Come Pietro Albertoni e Corrado Tommasi Crudeli, e contrariamente a Golgi, Marconi e Fermi, è ampiamente ricordato nella Storia del Parlamento italiano [16]. Alla fine di questa stessa introduzione alla patologia nutrizionale, Cohnheim cita il lavoro d’un certo Tizzone, sull’aumento di volume dei linfonodi inguinali dopo resezione del nervo sciatico, anche quando siano impedite ulcere da decubito (Archivio per le scienze mediche 1879). Non ho altre notizie su questo studioso. Nel capitolo sull’atrofia semplice, sono citati, sempre per l’atrofia muscolare da denervazione, anche Bizzozero e Golgi (1873) e Colasanti (1878). Contrariamente a quella di Mantegazza, queste sono pubblicazioni in riviste germaniche. Colasanti è ancora citato nel capitolo sulla febbre, per i suoi studi sperimentali sul metabolismo e sulla temperatura corporea. Bizzozero ricompare nel capitolo sulle neoplasie, dove è citato come sostenitore del fatto che l’embolo metastatico costituisce un nuovo centro di crescita della neoplasia. Cohnheim condivide quest’idea, avversata da Virchow, contro il quale l’autore è in polemica in tutto questo capitolo, nel quale troviamo anche un altro interessante studioso italiano: Camillo Bozzolo (1845-1920). Medico e garibaldino (combatté a Bezzecca contro gli Austriaci e a Digione contro i Prussiani), è in genere ricordato tra gli scopritori del mieloma multiplo. Cohnheim lo cita come sostenitore del fatto che le metastasi linfonodali siano costituite soltanto da cellule neoplastiche, contro la confusa dottrina virchowiana circa una partecipazione da parte delle cellule del linfonodo (origine connettivale delle neoplasie). Passando alla parte speciale del trattato, troviamo citazioni degli studi di Giuseppe Giannuzzi (1839-1876) sul meccanismo del vomito e sul suo centro, nel capitolo sulla patologia dello stomaco, nonché sul riflesso della minzione, nel capitolo sulle vie orinarie. A parte gli studi di A. Salvioli sulla peristalsi intestinale (capitolo sul pancreas e sull’intestino), nella parte speciale del trattato di Cohnheim mi resta da considerare soltanto un autore italiano, il quale, ogni volta che l’incontro, è in grado di sorprendermi: Augusto Murri (1841-1932). Gli studi di Murri sulla regolazione della temperatura corporea sono citati due volte: nel capitolo sulla regolazione della temperatura ed in quello sulla febbre. In quest’ultimo, in particolare, Cohnheim discute a fondo il lavoro “Sulla teoria della febbre” (1874). Egli non è soddisfatto delle spiegazioni di Murri sul metabolismo nel corso di attività fisica e nella febbre. Ammette tuttavia che il concetto d’una differenza qualitativa fra la regolazione della temperatura in condizioni normali e quando si sviluppa la febbre, è un punto di partenza importante. Murri compare anche nel capitolo sulle alterazioni dell’orina con la pubblicazione sull’emoglobinuria a frigore. Le due citazioni mi convincono del fatto che Cohnheim sia un osservatore attento degli studi altrui. Magari il merito è proprio suo: il fatto è che oggi questi due studi sono considerati le cose più durature di Murri. Non conosco bene gli studi del Murri sulla febbre. Ho tuttavia avuto modo di leggere la serie di pubblicazioni sull’emoglobinuria a frigore, la quale mi servì a capire che in genere erano i clinici a fare l’autopsia ai propri pazienti deceduti, non i patologi [17-18]. Augusto Murri, per le tragiche vicissitudini familiari, è sempre stato circondato da un’atmosfera ambigua. Per lo più, poi, è presentato, dagli storici e dalla gente comune, come una specie di mago, dotato quasi di capacità diagnostiche sovrumane. Per tali motivi, non ho mai provato per lui grande interesse. Leggendo alcuni suoi scritti, mi sono invece ricreduto. Lo studio sui pazienti con quelle emoglobinurie, mai descritte prima, rivela la correttezza di chi gli attribuiva capacità d’osservazione veramente notevoli. Soprattutto, il suo modo di procedere, la sua grande attenzione alla morfologia, i suoi continui tentativi di ricostruire la realtà coi dati conseguiti, mi hanno fatto percepire di quanto la medicina moderna sia debitrice a Goethe. Direi anzi che la lettura di Murri sia stata per me fondamentale per capire come Goethe intendesse gli studi morfologici. Si badi bene, però, che in Murri non c’è proprio niente di soprannaturale. Ogni medico che faccia, anche oggi, ricerca applicata in modo serio, procede esattamente come Goethe e Murri. Cohnheim stesso è citato con grande frequenza nelle bibliografie dei vari capitoli. Ciò è comprensibile, e non mi soffermo sul problema ulteriormente. Voglio invece ricordare due studiosi, frequentemente riportati, che rappresentano un ulteriore motivo d’onore per questo grande patologo: Robert Koch e Paul Ehrlich. Essi rientrano, però, in un compartimento a sé della vita di Cohnheim. Ciò fra l’altro richiede l’introduzione d’un tema importante: il dissenso con Virchow, il professore dei professori, come si diceva allora. Motivi di dissenso con Virchow Cohnheim studiò in profondità tutto il processo flogistico, il danno tissutale, la formazione del tessuto di granulazione e la rigenerazione degli epiteli. In quest’ultimo caso, si serviva della cornea come modello. Sono di grande interesse anche gli studi sulla trombosi e sull’embolia. Si collocano in quest’ambito anche i rilievi sull’infarto del miocardio. Cohnheim non si considera tuttavia lo scopritore della patogenesi di questo disordine. Cita, a questo proposito, vari studi, ed, in particolare, l’occlusione sperimentale delle coronarie di coniglio, effettuata da Bezold. È interessante anche la parte dedicata ai tumori. Essa ci aiuta a capire il perché della nascita e del successo dell’anatomia patologica moderna: la possibilità di enucleare le neoplasie da tutti gli altri tumori. Come già scrissi [9], prima del massivo intervento di Virchow, la classificazione macroscopica dei tumori era una notte senza luna. I chirurghi “s’innamorarono” quindi subito dei patologi. La vecchia classificazione dei tumori fu, tuttavia, mantenuta nei trattati, integrata dalla descrizione istopatologica, la quale consentiva di suddividerli in varie sottocategorie. È a questo proposito interessante il fatto che Cohnheim distingua nettamente i tumori infettivi da quelli propriamente neoplastici. Tale distinzione è invece estremamente nebulosa in Virchow, il quale considera la tubercolosi una sorta di processo neoplastico. In alcune persone, che però non l’hanno messa per iscritto, esiste la convinzione che Cohnheim abbia le stesse idee del suo maestro, a proposito dei tumori. Non è vero. Egli tiene infatti nettamente distinte le infezioni dalle neoplasie, ed ha un concetto di metastasi ematogene conforme alla dottrina meccanico-embolica delle cellule tumorali, rimasta valida sino a non molto tempo fa. Cohnheim dimostra poi d’aver recepito il concetto di Robert Remak che le cellule delle neoplasie derivano da elementi normali dell’organo in cui si sono sviluppate [9]. Manca quindi quel concetto d’un’origine connettivale, tanto caro a Virchow. In un trattato come l’Allgemeine Pathologie, Cohnheim non può, date le numerose incertezze, presentare un’unica ipotesi, a proposito dell’origine delle neoplasie e delle metastasi. Con correttezza, egli dunque presenta anche le ipotesi formulate da Virchow. Ne prende tuttavia chiaramente le distanze. Voglio tornare un attimo sul tema del raffronto virchow-Golgi. Non me la sento di considerare Virchow uno scienziato di prima grandezza come Camillo Golgi. Pur avendo dato contributi importanti alla patologia, egli non ha infatti lasciato scoperte memorabili, a parte il concetto di patologia cellulare, che, però, non è farina del suo sacco, come ben sa chi conosce Robert Remak [9]. Ciononostante, Virchow ha in grande evidenza un aspetto negativo del Golgi: la tendenza a cristallizzarsi sulle sue scoperte giovanili. Come Golgi, infatti, dopo la scoperta della reazione nera, non seppe andare oltre la rete nervosa diffusa, così Virchow non fu in grado di accettare alcunché d’estrinseco alle cellule dell’organismo, come causa di malattie. Secondo lui, i processi infiammatori erano misteriose battaglie fra le cellule dell’organismo stesso. In tal modo, Virchow creò un caos indescrivibile, che gl’impediva di stabilire una seria distinzione fra neoplasie e flogosi, fra diffusione della tubercolosi e processo metastatico. Ad un uomo intelligente come Cohnheim, non potevano sfuggire simili incongruenze. Egli non poteva, per politica, criticare Virchow con troppa aggressività. Certe scelte, comunque, come la teoria di Bozzolo sulle metastasi linfonodali (v. sopra), fanno chiaramente intendere quanto sia ampio l’oceano che separa Cohnheim da Virchow. È però nell’angioflogosi che il distacco si connota molto più drammaticamente. Virchow riteneva infatti che le cellule infiammatorie si sviluppassero dal connettivo dell’organo interessato. Per questo, avversò profondamente le scoperte dell’allievo, il quale fu, tramite promozione, allontanato da Berlino: dapprima a Breslavia, raggiungendo infine l’ordinariato a Lipsia, dove, come ho detto, morì molti anni prima di Virchow. Insomma, Cohnheim era l’ideale per un maestro geloso. Ma non ho ancora detto tutto. Nell’Allgemeine Pathologie è infatti dato ampio spazio al giovane Paul Ehrlich (1854-1915) ed a Robert Koch (1843-1910). Questi due uomini, insieme con Cohnheim, rappresentano infatti la definitiva uscita della patologia dagli schemi imposti da Virchow. In particolare, Ehrlich e Koch dimostrarono, con le loro scoperte, che quella di battere nuove strade era una decisione saggia. Ehrlich, anzi, con la scoperta del salvarsan, produsse il primo chemioterapico efficace della storia. La gelosia di Virchow fu terribile. Già ne ho parlato a proposito di Koch [19], e, sinceramente, mi sono stancato di parlarne. I Nobel postumi a Julius Cohnheim: la scoperta e la promozione di Paul Ehrlich e di Robert Koch Ferdinand Cohn (1828-1898) ebbe il merito di capire Koch, quando gli presentò a Breslavia la scoperta dell’eziopatogenesi del carbonchio. Cohn ebbe anche la buona idea di presentarlo ai patologi generali, diretti da Julius Cohnheim, il quale, col giovane studente Paul Ehrlich, rimase incantato. Si attivarono in tal modo quei due formidabili vulcani che furono Koch ed Ehrlich. La loro collaborazione, come ho già scritto, rivoluzionò la medicina: per merito loro nacquero infatti la microbiologia moderna, la microscopia e la tecnica fotografica, le colorazioni istologiche e citologiche standardizzate, l’immunologia, la chemioterapia, e chissà quante altre cose. Questi uomini soffrirono moltissimo a causa dell’avversione di Virchow. Inoltre, Ehrlich, come Ebreo, subì l’umiliazione postuma d’un tentato svilimento delle sue scoperte da parte dei nazisti. Fortunatamente, sia Koch (1805) che Ehrlich (1908), ebbero il premio Nobel. Cohnheim, con le sue scoperte sull’infiammazione, l’avrebbe certamente ottenuto. Purtroppo era morto troppo presto. Io ritengo comunque che i Nobel ad Ehrlich e a Koch siano un riconoscimento postumo alla lungimiranza di Cohnheim. Lo era, lungimirante. Come ho già detto, egli inventò il criostato perché aveva compreso quanto potesse essere utile durante un intervento chirurgico. Allora, la gente era un po’ scettica. Oggi, penso che nessuno lo sia più. Vorrei concludere con questa Allgemeine Pathologie, che ho tra le mani anche adesso. L’avrò ancora per poco, perché il Direttore di Patologica, da quando glie ne ho parlato, la vuole nel suo studio: ne è attratto come un Mussulmano dal Corano. Non so dargli torto. A suo tempo essa fu, come ho detto, un libro rivoluzionario. Per molti anni, anche a lunga distanza dalla morte di Cohnheim, i patologi continuarono a leggerla con interesse. È bella anche oggi. Forse perché sembra un libro d’avventure, più che un trattato. 1. Scarani P., Neroni S., Giangaspero F., Fraternali Orcioni G., Eusebi V.: Carlo Martinotti: l’autentico scopritore delle cellule del Martinotti. Pathologica 88, 506-510, 1996 2. Martinotti G.: Intorno A Una Perizia Giudiziaria. Successori Monti, Bologna 1906 3. Scarani P.: Thwarted genius: la vita di Giuseppina Cattani. Pathologica 92, 1-4, 2000. 4. Kiple K.F.: The Cambridge world history of human disease. Cambridge University Press, Cambridge 1993 5. Cohnheim J.: Vorlesungen ueber allgemeine Pathologie. Zweite neuarbeitete Auflage. August Hirschwald, Berlino 1882 6. Scarani P.: Un genio coraggioso (un eroe, potremmo dire): Rudolf Virchow (1821-1902). Pathologica 90, 186-192, 1998 7. Scarani P.: Johann Wolfgang Goethe (1749-1832): il creatore del termine e del concetto di morfologia. Pathologica 92, 45-49, 2000. 8. Scarani P.: Appunti su Camillo Golgi, il patologo che trovò la chiave d’accesso al neurone. Pathologica 89, 351-357, 1997 9. Scarani P.: Il Dio di Einstein: la rivoluzione tardiva del microscopio ….. ed altro. Pathologica 93, 696-699, 2001. 10. Harris H.: The birth of the cell. Yale University Press, New Haven 1999. 11. Vasold M.: Rudolf Virchow. Der grosse Arzt und Politiker. Deutsche Verlags-Anstalt, Stoccarda 1988 12. Rilke R. M.: Geschichten vom Lieben Gott. Signorelli 1960 13. Poggi A., Vallora E.: Brahms. Einaudi, Torino 1997 14. Brock T. D.: Robert Koch. A life in medicine and bacteriology. Springer, Berlino 1988 15. Scarani P.: Uno scritto di Camillo Golgi sull’apparato che porta il suo nome. Pathologica, 88, 248, 1996 16. Spadolini G. et Al.: Il Parlamento italiano 1861-1992. Nuova CEI, Milano 1990-1993, voll. 6-13) 17. Scarani P., Lacchini G.: L’autopsia clinica dell’ottocento a Bologna. Nuove prospettive. Pathologica 91, 128, 1999 18. Scarani P., Hussein A.: Origine dell’anatomia patologica moderna: un equivoco pericoloso. Pathologica 91, 475-477, 1999 19. Scarani P.: Robert Koch (1843-1910): una vita in trincea (contro i microbi, contro Virchow, e contro tanti altri) … ed un inaspettato “parallelo” con Golgi. Pathologica 2002, in stampa