Carteggio Gianquinto-Sbordoni (V) Monte Gentile, 15.2.99 Caro Alessandro, mi sentirei di dire che il centro della musica colta moderna è, o meglio, deve essere il suo senso del teatro, intendendo con questo, non la funzione che ha, deve o dovrebbe avere la musica nel teatro e, in generale, non il suo rapporto 'teorico-estetico' con il teatro stesso (poniamo: come può essere in Rossini piuttosto che in Wagner) - aspetti, questi, su cui vorrei anche tornare - ma intendendo che il senso del teatro è il senso della musica e che la perdita di esso è al cuore della crisi musicale che stiamo vivendo. Mi spiego. Per teatro intendo, nel suo significato più originario ed arcaico, il luogo in cui si attua lo spazio della tensione semantica, in cui si compie il rito del ricongiungimento del mezzo linguistico - con i suoi 'caratteri' materiali 'significanti' (note, ecc.) - all'alterità del mondo 'mentale' delle immagini e dei ricordi, di cui si nutre il mondo dei 'significati'. C'è una 'modernità' in questa relazione-teatro, che - se posta a confronto con la inconsapevolezza 'arcaica' dell'antico teatro 'dionisiaco' della Grecia pre-aristotelica - è data essenzialmente dalla coscienza della 'finzione', costituente quel rapporto, pur nella convinzione della sua 'necessità'. 'Necessità' di ordinare in strutture sintattiche il caos - il non-strutturato - dello spazio dei significati, presenti come puri e semplici 'stati mentali'; ma anche 'finzione', perché quella tensione di raccordo dei caratteri linguistici significanti agli 'stati' mentali significati è la consapevolezza modernamente disincantata di un rapporto anticamente religioso con il divino. Il teatro diventa allusione ad un luogo sacro, indicazione, indizio dello spazio dove si celebra la congiunzione del significante al suo significato e la realizzazione del senso nella struttura del testo. Teatro: cerimonia astratta dell'operazione di produzione artistica (musicale), ma allora, anche, teatro reale: musica e palcoscenico. Il teatro-rito non è rappresentazione-mìmesis: non è duplicazione-rispecchiamento del reale; ma è mìmesis, invece, dello spazio del significato, è cioè (ri)-produzione linguistica dell'oggetto mentale (dei 'prodotti' dell'immaginazione e delle concrezioni mnestiche della memoria). Con ciò, l'arte, e quindi anche la musica, è necessariamente mimèsi dell'assenza nell'immaginazione - e della lontananza - nella memoria. Nel teatro si opera in tal modo una vera duplicazione, mimèsi dell'atto mentale, anziché della realtà: duplicazione, che è una 'maschera' (soltanto dietro la maschera c'è - e può celarsi - l'alterità assoluta dello spazio della significazione, che si pone a fronte delle strutture e delle sintassi linguistiche); ma 'maschera' anche nel rapporto musica-palcoscenico: maschera, nel senso che anche il teatro reale, nella sua relazione musicapalcoscenico, vive di questo 'senso' rituale della maschera, dove la finzione è esplicita ed offre la possibilità di rappresentare ad un pubblico il 'non-esserci-più' delle immagini e dei ricordi, e tuttavia un 'esserci-ancora', nella presenza di musica e palcoscenico, davanti ad un pubblico: una 'presenza' teatrale, pur nell'assenza e nella lontananza dei suoi contenuti. Nella maschera rituale del teatro e dietro il 'senso' della maschera del teatro reale si può cogliere 'lo sguardo' (sguardo 'frontale', come solo quello del dio Dioniso): mortale, maieutico, coinvolgente, nell'antica ritualità; sguardo, con un potere sconvolgente delle abitudini, delle coordinate tradizionali, nella dimensione spaziale della semantica e nella temporalità delle forme sintattiche. Tutto ciò non è un 'dato': è piuttosto un obiettivo, lo scopo e la funzione del teatro. Cosa c'è di attuale in questo approccio al teatro ed alla musica? Fin qui ti ho detto cosa penso della musica come teatro. Ma questo aspetto vorrei pensare che abbia un peso sostanziale anche su quel che riguarda la musica nel teatro. Quali sono le posizioni-chiave nella storia della musica, su questo punto del problema? Non sono certo io in grado di dire parole decisive in questo campo; ma forse alcune cose anche note possono fare riflettere: basterà ricordarle in breve. Sappiamo che nella polifonia prevalse «la ragione della musica su quella della parola».[1] Dopo l'esaurirsi dell'esperienza musicale monteverdiana - sui cui motivi non voglio dire proprio nulla, ma di cui voglio solo ricordare l'idea fondamentale che la musica doveva essere alla parola e la voce - d'una qualità specifica - essere condizionante per la musica, così da fare del pathos e del carattere i fattori musicali essenziali di questa 'adesione musicale al testo' - è Rossini che, oltre e al di là di Paisiello e Cimarosa, dà nuova, diversa, in sostanza extra-musicale funzionalità alla musica nel teatro, assegnando ad essa quella 'gestualità' ed 'arguzia' (ritmo, strumentazione, coloritura, crescendo) che - come dice Dahlhaus [2] - sono «essenza d'un teatro nuovo»: essenza non più esclusivamente melodico-armonica. È qui, in questo periodo, che si pone in altri termini il problema del libretto: dice Dahlhaus che, quando la scena venne a sostituire il principio formale del 'pezzo chiuso', la librettistica cessò come mestiere dalle regole fisse, corrispettivamente al fatto che l'opera si sottraeva alla standardizzazione di una impalcatura consistente in dialoghi cantati. [3] In opposizione al teatro e all'opera italiana, Wagner assegna nuovo valore alla musica come teatro, nel teatro. Il rapporto teatro-dramma è tale che il 'dramma' può esistere solo come teatro, perché 'teatro (musicale)' è di per sé già equivalente di 'opera d'arte totale': il teatro è l'essenza del dramma [4] (dove la musica esplicita senza presupposti e mediazioni i sentimenti immanenti al dialogo), è situazione radicalmente altra dal 'teatro di prosa' (dove il dialogo ha in sé, presupposto inespresso, il contrasto dei sentimenti); [5] il limite, qui supposto, del 'dramma in prosa' è superato solo dalla musica-come-teatro-nel-teatro. Di questo si tratta: se Verdi fa derivare il dramma dalla musica, Wagner fa derivare, al contrario, la musica dal dramma. Ciò significa che Wagner radicalizza, contro tutta la tradizione operistica (italiana), l'idea del totale condizionamento al dato teatrale: musica nel teatro, perché 'parola' e 'suono' coincidono, poi perché 'dialogo' e 'sentimenti' vivono insieme solo nella musica, infine perché è il dramma e, attraverso di esso, è il teatro che genera la musica, nel teatro stesso. Più segnatamente: in Wagner la parola è funzione della musica, ma la musica è funzione del dramma. Quindi parola e suono, scritti, non sono il punto centrale del fatto artistico, ma l'intenzione poetica colta mediante il sentimento e «attuata mediante la musica e la scena», [6] dove la parola è azione scenica ed è insieme melodia orchestrale scenica; e 'scena' è l'evento teatrale, l'evento 'scenico' fatto di azione 'scenica'. [7] Rognoni [8] accentua la convinzione che Wagner abbia generato un percorso senza vie d'uscita: dopo di lui, impossibile riaccostarsi al teatro musicale come rapporto di musica e dramma; e Dahlhaus, [9] dicendo di Pfitzner - dopo Wagner - che, se il dramma è «azione della musica divenuta visibile», allora è proprio questa che ha l'ultima parola nel teatro (inteso come opera d'arte totale), ci fa pensare che egli non faccia che rovesciare il significato e gli intenti del maestro: non è questo a cui pensava; se anche Wagner 'adotta' l'estetica di Schopenhauer, non si può sostenere, senza dover negare la tesi della musica come teatro e derivata dal dramma, che indifferente sia l'impulso extra-musicale e che - affinché la forma musicale sia forma essenziale di fronte al dato extra-musicale, solo fenomenico, della scena e della parola - la musica debba avere fondamento soltanto in se stessa. Percorso senza vie d'uscita, quello di Wagner, che corre parallelo e, dunque, senza punti d'incontro, a quello restauratore, dell'opera italiana, dove regola tipica è la corrispondenza fra visibilità scenica e rappresentazione musicale degli 'affetti', e regola, ancora una volta, è la funzione magica della musica, nel rendere 'prodigioso' il verosimile teatrale, nel trasfigurare la 'finzione' teatrale. [10] Ed altrettanto parallelo al percorso wagneriano è quello che vede il 'colore' funzionale ad armonia e contrappunto (come nella musica russa o in Berlioz, dove esso «si libera della sua funzione subordinata» [11] o come già era stato in Rossini). Il percorso che va effettivamente oltre il Wort-Ton-Drama è il Wozzeck. [12] Alban Berg cerca di ricostruire una continuità nel dramma musicale, assegnando alla musica il compito di servire il dramma e alla voce umana il suo carattere di elemento determinante, con tutta la sua risorsa timbrica: si pone un nuovo rapporto musica-testo, che accentua la 'declamazione ritmica' (già presente in Schönberg). [13] E Berg dice: «[...] dare al teatro quello che appartiene al teatro [...] articolare la musica in modo tale da renderla cosciente, in ogni istante, del suo dovere di servire il dramma [...] lasciando intatta la sua vita propria, non ostacolata da alcun elemento extra-musicale. [...] Un compito [...] che si poteva assolvere soltanto con le leggi dell'architettura musicale e non con quelle della drammaturgia». [14] Occorreva dare musicalmente ad ogni scena e ad ogni intermezzo (del Wozzeck) una fisionomia propria inconfondibile ed una forma organica conchiusa: fughe, invenzioni, tempi di suite e di sonata, variazioni e passacaglie. Ma questo, alla fin fine, ha fatto parte anche dei propositi di un Sibelius ed anzi delle tendenze di tutta la musica moderna: «centrale [in Sibelius] è il passaggio dalla concezione 'motivica' a quella 'strutturale': una cellula melodica [che] funge da principio di una concatenazione di accordi che, a sua volta, assume valore 'tematico'» [15]. Basterà che la struttura si definisca univocamente in un rapporto di specifica simbiosi con l'andamento del dramma ed ecco la struttura del Wozzeck: cinque pezzi caratteristici per i cinque elementi scenici del primo atto, una sinfonia in cinque tempi per i cinque elementi scenici del secondo atto e sei invenzioni (una come interludio orchestrale) per i cinque del terzo atto. E quanto al nuovo rapporto voce-dramma, è Berg a sostenere che, anche nell'opera, il recitativo, il 'parlando', la cantilena, la schönberghiana 'declamazione ritmica' del Pierrot lunaire e di Die glückliche Hand (capace di conservare le potenzialità della forma musicale assoluta, escluse nel 'recitativo') sono legittimi quanto il 'cantando' ed i suoi virtuosismi. «L'opera [...] appare destinata a mettersi anzitutto al servizio della voce umana», un diritto quasi perduto da quando l'opera «(per citare una frase di Schönberg) spesso non era più altro che 'una sinfonia per grande orchestra con accompagnamento di una voce cantante'». [16] Berio, ed altri con lui, sostiene il punto di vista di un primato della musica sulla voce e sulla parola, per cui, di fronte all'importanza primaria assegnata al suono, quella della comunicazione, del messaggio della parola, viene meno. Ma sappiamo che già Wagner aveva istituito un rapporto tra personaggi e forma musicale, rendendo esplicita tramite una intelaiatura di motivi conduttori, di Leitmotive, la funzione scenica dei personaggi, assegnando per essi un filo conduttore musicale,un tema mnemonico, che li legasse al loro destino scenico. Una 'strategia' che viene ripresa in vario modo, in particolare da Puccini, e Massenet, fino a Strauss e al Pelléas et Mélisande di Debussy. Voglio chiudere con un riferimento alla tua stessa ricerca, che è, come tu dici, gioco interattivo di diverse espressività. La sirenetta ha strutture neo-tonali strettamente relate alla scena, al testo e alla danza e si stabilisce, ancora una volta, una relazione fra il dato favolistico e la danza, fra il racconto e la recitazione, fra l'elemento dei sentimenti e degli affetti e il canto. Un rapporto, dunque, di rappresentazione formale degli affetti ed un rapporto di 'sistemi espressivi': il giornalista racconta, il professore canta, la sirenetta danza. Vediamo ora di trarre le conseguenze, in una sintesi di riflessioni sulla parte storica e sulle note iniziali. In primo luogo escludiamo una riflessione astrattamente storica e una prospettiva storicistica, dove ogni posizione storicamente espressa può trovare la sua giustificazione. I nodi evidenziati possono aiutarci a capire meglio quale è il punto in questione, nella musica colta moderna, non ponendoci nella prospettiva di un 'progresso', che è privo di senso, se visto sul piano artistico, quanto nella direzione di nuovi bisogni, che hanno origine nell'aver battuto strade che oggi la ricerca musicale e la riflessione su di essa sentono o possono sentire ormai chiuse. Non sembra in predicato oggi il problema se la musica debba avere posizione prioritaria 'sulla' parola e se la voce, ricondotta a suono, sia o possa essere ridotta ad elemento stesso della musica; o, anche, se la musica nell'opera debba o possa avere funzione generativa del dramma, vincolandolo a se stessa, assieme a tutto il suo carico (quello della parola, in quanto voce, suono, canto). E non sembra in questione il problema opposto, quello di un peso determinante da assegnare alla parola, e quindi alla voce, sulla musica stessa o, addirittura, se la parola, intesa come puro suono, e, nell'insieme, il dramma, espresso dalla parola, debba o possa ancora generare la musica stessa. Le difese dell'autonomia della musica (quasi come 'essenza' rispetto a 'fenomeno') sul dramma o, al contrario, del teatro come 'essenza' del dramma, del quale la musica non è che emanazione sensibile, sono giustificabili forse e semmai su un altro, diverso, piano: quello, già incontrato in Alban Berg, che sente sì il bisogno dell'autonomia della musica, ma finalizzata: autonomia finalizzata su di un piano ed in un quadro di interazione con l'aspetto drammaturgico del teatro; finalizzata, propriamente, tramite la sua stessa architettura formale. È così che la musica può assegnare visibilità scenografica al teatro, come rappresentazione musicale autonoma di affetti e sentimenti nonché d'un testo scenico, senza diventarne l'ancella. Musica in relazione alla scenografia e ai contenuti del dramma, con un conseguente rapporto alla parola e alla voce e alle loro sonorità (da funzioni ampiamente liriche, a tutte le forme del recitativo e del parlato), senza quella subordinazione assoluta che toglie spazio al significato e alla poeticità. Non musica sopra la parola, o viceversa; non musica generativa del dramma, o viceversa: ma invece autonomia reciproca, in cui gli impulsi e le funzioni extra-musicali, dal colore agli espedienti scenici, esistono in questo libero spazio di equilibri. Possiamo forse considerare il Leitmotiv wagneriano come il primo approccio, pur senza vie d'uscita (data la subordinazione della musica al dramma e al teatro), del tentativo di portare ad una riconsiderazione la funzione che può avere l'architettura musicale nel dramma stesso, se inteso questo - nella sua autonomia espressiva. Primo modo di porre quel rapporto fra personaggio e scena, che - se era posto così che il personaggio, legato strettamente ad un suo motivo-forma mnemonico-musicale, aveva in tal modo una sua funzione scenica - in termini tali che entrambi hanno relazione a forme musicali, ma entrambi anche la funzione scenica di quelle forme: è questo che ha mosso il Wozzeck, ma anche, a mio parere, La sirenetta. Qui si evidenzia la diversità di questo punto di vista, con la sua origine wagneriana, rispetto proprio al teatro wagneriano, nel suo insieme, e il punto ci riconduce alla prima parte di questo testo. Non basta, infatti, porre il problema di una musica come teatro, se poi quel che effettivamente si cerca è la funzione della rappresentazione musicale del teatro. Se il 'dramma' è teatro perché questo è 'essenza', che la musica esplicita, siamo ancora nel teatro e non abbiamo minimamente posto il problema del senso della musica come teatro. Questo senso si rende 'esplicito' come tensione semantica, che è propria di ognuno dei linguaggi coinvolti nel teatro, in quanto dramma e scena. La 'maschera' e lo 'sguardo', che aleggiano e dominano nel teatro sono rintracciabili nella finzione, sono sul fronte della finzione; ma, come teatro, ne sono la vera sostanza, cioè il 'significato', il 'contenuto' che le diverse sintassi dei linguaggi coinvolti devono esplicitare fin dove e finché possibile. Scenografia e coreografia e musica, testo (come racconto e recitazione, come parola e voce) e danza (come uno dei fattori in sé extra-musicali) sono indipendenti eppure (e come tali) interagenti. Questa, direi la strada possibile e la scommessa della musica come teatro nel (del) teatro. Alberto Gianquinto >[1] E. Fubini, Estetica della musica, Bologna, Il Mulino 1995, pp. 77-85. [2] C. Dahlhaus, La musica dell'Ottocento, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 63-82. [3] Ibid., p. 367. [4] Ibid., p. 208. [5] Ibid., pp. 220-223. [6] Ibid., p. 210. [7] Ibid., p. 209. [8] L. Rognoni, Espressionismo e dodecafonia, Torino, Einaudi 1954, p. 142 sgg. [9] C. Dahlhaus, Op. cit., pp. 362, 382-391. [10] Ibid., pp. 240-250. [11] Ibid., pp. 258-259. [12] L. Rognoni, Op. cit., p. 142 sgg. [13] Schönberg, Das Verhältnis zum Text: «L'accordo esteriore fra musica e testo [...] ha ben poco a che fare con la riproduzione interiore», in L. Rognoni, Op. cit., p. 237 sgg. [14] Berg, Das Opernproblem, in L. Rognoni, Op. cit., p. 283 sgg. I corsivi, nella citazione di Alban Berg, sono miei. [15] C. Dahlhaus, in Op. cit., a proposito di Sibelius. [16] A. Berg, Die Stimme in der Oper, in L. Rognoni, Op. cit., p. 287 sgg.