Atti del Convegno
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Introduzione e presentazione
Rag. Paolo Sestini,
Presidente Banca di Anghiari e Stia
Prof. Giorgio Clementi,
Presidente Federazione Toscana Banche di Credito Cooperativo
Relatori
Prof. Helen Alford op,
Decano della facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università S.Tommaso (Angelicum) di Roma
Prof. Tommaso Sediari,
Docente presso l’Università degli Studi di Perugia; Presidentedella scuola Etica ed Economia di Assisi
Sig. Piero Iacomoni,
Imprenditore, Presidente del Consiglio di Amministrazione Monnalisa Spa e Vicepresidente Monnalisa Onlus
Moderatore
Dott. Salvatore Carruba
Editorialista e Direttore Strategie Editoriali de “Il sole 24 Ore”
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SESTINI: Un saluto ai soci della banca, alle autorità presenti e a tutti voi. Questo convegno è
l’ideale seguito di quello effettuato ad aprile del
2009 che aveva come titolo Orgogliosamente
Banca del Territorio e, come sicuramente ricorderete dal dibattito svoltosi in quell’occasione e
con illustri ospiti, risultò chiaramente l’importanza delle BCC sul territorio, insostituibili nel
sostenere l’economia locale. Il tema che oggi vogliamo approfondire, dal titolo Buona impresa in
buona economia, riguarda il rapporto tra etica ed
economia, che da anni impegna economisti e filosofi per individuare modelli economici rispettosi della dignità della persona, e soprattutto la
centralità della persona che è un valore proprio
del Credito Cooperativo che, nella carta dei valori, al primo punto dell’Articolo 1 cita: Il Credito Cooperativo ispira la propria attività all’attenzione e alla promozione della persona.
Buona impresa significa essere consapevoli della responsabilità sociale che noi amministratori, ma più in
generale tutti gli operatori dell’azienda, ci portiamo sulle spalle ogni volta che operiamo le scelte indispensabili per gestire e governare la nostra banca, una responsabilità che deve spingerci a perseguire il bene
comune e deve porci al servizio dell’economia civile. Ringrazio chi ha accettato il nostro invito ad animare
questo incontro, la Professoressa Helen Alford, della Pontificia Università Angelicum di Roma, il nostro
socio Professor Tommaso Sediari dell’Università di Perugia, il Signor Piero Iacomoni anch’egli nostro
socio, imprenditore e Presidente di Monnalisa SpA, che ha fatto dell’impegno sociale uno stile aziendale,
il Dottor Salvatore Carrubba editorialista de Il Sole 24 Ore di cui è stato anche Direttore che ci aiuterà ad
introdurre i relatori ad animare il dibattito. E un ringraziamento particolare al Professor Giorgio Clementi, Presidente della Federazione Toscana delle BCC ed esponente dell’ICCREA, nostro istituto centrale,
che come al solito si è dimostrato pienamente disponibile e non ha fatto mancare il suo sostegno a questa
iniziativa. Come molti di voi ricorderanno, nel corso del 2009, oltre al convegno di aprile, abbiamo organizzato incontri in varie località del nostro territorio, per l’esattezza sono stati sette gli appuntamenti, per
presentare ai soci in un ambito ristretto il numero zero del Bilancio Sociale, rappresentato dall’edizione
del 2008. Abbiamo così voluto creare con i nostri soci un momento di confronto diverso, al di là di quello
istituzionale dell’Assemblea annuale, e soprattutto per ascoltare quello che i soci volevano dire. Come il
Bilancio Sociale del 2009 rappresenta un’evoluzione di quanto fatto in precedenza, per la sua presentazio5
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ne abbiamo pensato di dare meno enfasi all’illustrazione del documento e di creare invece questa occasione per un momento di arricchimento e confronto per i nostri soci, i clienti e per l’intera comunità. Non
voglio dilungarmi oltre e, anticipandovi fin da ora che in chiusura sarà il Direttore Generale della banca,
il Dottor Fabio Pecorari, ad illustrare brevemente i contenuti del Bilancio Sociale, lascio immediatamente
la parola al Professor Clementi, perché proceda ad introdurre il tema del convegno, non prima di invitarvi
fin da ora all’aperitivo finale che concluderà questa mattinata e che è organizzato dalla Scuola Alberghiera
di Caprese Michelangelo. Grazie e buon lavoro.
CLEMENTI: Buongiorno a tutti. Un cordiale saluto da parte della Federazione Toscana che è lieta di
partecipare insieme alla BCC di Anghiari e Stia a questa manifestazione importante.
L’occasione infatti è quella della presentazione del Bilancio Sociale - ce lo ricordava il Presidente Sestini - e per
le BCC la presentazione del Bilancio Sociale non è un semplice, formale adempimento e neppure, come per
tante società, una opportunità di marketing, è – io vorrei dire in modo forte – una esigenza identitaria delle
Banche di Credito Cooperativo, che deriva proprio da quanto è scritto nell’articolo 2 del nostro Statuto sociale
tipo che tutte le BCC italiane adottano; vorrei richiamarlo anche perché è estremamente chiaro nel dare questo
compito alle nostre banche: ogni BCC deve perseguire l’impegno per il miglioramento delle condizioni morali,
culturali ed economiche – e guardate, l’ordine degli aggettivi non è casuale, condizioni morali, culturali ed
economiche – dei soci e del territorio, a promuovere lo sviluppo della cooperazione, l’educazione al risparmio e
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alla previdenza, la coesione sociale e la crescita responsabile e sostenibile del territorio e costruire il bene comune. Questo è il Bilancio Sociale, cioè un momento per verificare se questi obiettivi sociali sono stati perseguiti,
ottenuti, e voi capite che fare la presentazione del bilancio civilistico, doverosamente fatta tutti gli anni, non
è assolutamente sufficiente per poter evidenziare questi aspetti. Dunque per noi, per le BCC è essenziale fare
un bilancio della complessiva attività svolta dalla banca, leggibile non solo quindi dai numeri, ma anche dalle
esperienze fatte, dalle scelte e dalle iniziative sul territorio che si sono sviluppate.
Inoltre, rendere conto ai cittadini, ai soci aiuta anche a rendersi conto e quindi per gli amministratori,
per gli operatori della banca è un’occasione per favorire processi di miglioramento anche in quest’opera.
Allora, l’incontro di oggi ci darà l’occasione per riflettere sui complessivi risultati della BCC, su come
essa ha contribuito a creare valore per i suoi soci e per il suo territorio e soprattutto su che cosa sia, ancor prima, questo valore per la BCC, che certamente è qualcosa di molto diverso dal valore che veniva
sbandierato qualche anno fa da qualche Amministratore delegato di grande successo che portava avanti la
crescita dei valori azionari come elemento forte del successo della sua banca. Partiamo quindi dal titolo di
questo convegno: questa riflessione ultima che ho fatto ci introduce nel merito del tema scelto dal convegno, Buona impresa in buona economia, e suggerisce subito alcune questioni che probabilmente verranno
approfondite proprio nello sviluppo del ragionamento dei prossimi interventi programmati. Quando è
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che un’impresa è una buona impresa? E quando si può parlare invece di buona economia? E infine, qual
è il rapporto fra le due? Cioè, sono le buone imprese che fanno buona l’economia o viceversa è questa,
ovvero è il contesto che favorisce la buona impresa? Sembrano ragionamenti teorici, ma io credo invece
che abbiano una profonda concretezza pratica e, seppur brevemente, cercherò di evidenziarlo come inizio
del dibattito che si svilupperà subito dopo. Quindi, quando è che un’impresa è una buona impresa? Qualcuno potrebbe rispondere sinteticamente, quando l’impresa è efficiente, il che potrebbe voler dire diverse
cose: quando è redditizia, quando risponde al meglio alle esigenze dei propri clienti, quando è efficace e
via dicendo. Pensate un attimo a come questa domanda, applicata alle banche che sono anch’esse imprese,
trova oggi una risposta radicalmente diversa rispetto a quella che avremmo dato appena tre anni fa, prima
della crisi. In effetti la crisi economica e finanziaria che ancora ci fa soffrire ha messo in crisi - scusate
l’assonanza - proprio una serie di dogmi che dominavano da tempo nell’ambito del pensiero accademico,
degli opinion makers e degli stessi media. Alcuni esempi: la normatività del modello capitalistico su altri
modelli imprenditoriali, ovvero la norma, la misura è la SpA, le altre società sono eccezioni o adattamenti;
l’assolutizzazione dell’obiettivo del profitto e l’assunzione del valore per gli azionisti – come prima richiamavo – come unico parametro di riferimento dell’efficienza e del successo dell’impresa; la certezza che
la grande dimensione dell’impresa assicurasse di per sé maggiore solidità, efficienza, efficacia, redditività,
eccetera, pensate a tutto il dibattito sulle grandi banche che sono crisi per il sistema e tutto il problema che
si sta ponendo, da una parte, per renderle più solide perché non mettano in crisi tutto il sistema di paesi
anche importanti come gli Stati Uniti e la loro solidità, e, dall’altra parte, ci si sta interrogando sul fatto
che dimensioni eccessive siano un rischio per i sistemi paese. Con gli occhi di oggi, appunto dai dibattiti
che stanno emergendo, questi dogmi sono crollati. Lo ha affermato, in modo profetico, anche l’Enciclica
Caritas in Veritate. Cito: La crisi è occasione di discernimento e nuova progettualità, bisogna che la finanza in
quanto tale, nelle necessariamente rinnovate strutture e modalità di funzionamento, dopo il suo cattivo utilizzo
che ha danneggiato l’economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior produzione di
ricchezza e allo sviluppo. Migliore produzione della ricchezza - l’aggettivo è estremamente pesante - non
maggiore produzione della ricchezza. Se oggi pensiamo a una buona banca, quindi, pensiamo a un’impresa solida - tant’è che si discute sugli assetti patrimoniali delle banche - che coltivi la qualità delle relazioni
con i suoi soci clienti - per noi soci, in generale clienti - che sostenga l’economia reale più che dedicarsi
alla speculazione, come in effetti è successo negli anni scorsi. Una Banca di Credito Cooperativo per cui
queste connotazioni pure certamente valgono, deve aggiungere ancora qualcosa per essere buona impresa,
per essere buona Banca di Credito Cooperativo, per essere quindi una buona impresa mutualistica, com’è
nella natura delle Banche di Credito Cooperativo: occorre lavorare alla crescita delle opportunità per tutti,
allo sviluppo inteso non solo come aumento della ricchezza, ma come benessere che compendia anche la
crescita della coesione e del rispetto dell’ambiente, come prima richiamavo come missione dell’articolo 2
dello statuto.
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E quando l’economia si può dire buona economia? L’economia a mio giudizio non è una
scienza esatta, ma è essenzialmente una scienza
umana – anche su questo c’è da un punto di vista accademico qualche non convergenza di opinioni – essa nasce da una costola della filosofia
morale. Non a caso Adam Smith era professore
di filosofia morale e la prima cattedra di economia istituita all’Università di Napoli nel 1754 fu
assegnata - tra parentesi per concorso e con l’obbligo di tenere le lezioni in italiano in Università - al sacerdote Antonio Genovesi, anch’egli
professore di metafisica e etica. L’insegnamento
aveva come programma dichiarato da Genovesi l’economia civile, diceva, e poi naturalmente
spiegava che cosa intendeva per economia civile:
con questo termine voleva sottolineare che la scienza economica non era soltanto uno strumento per
favorire l’incremento della ricchezza materiale, in linea con la tradizione mercantilistica, che fino a quel
momento anche da un punto di vista accademico era la norma, ma rappresentava – diceva Genovesi – una
leva per realizzare la pubblica felicità, tant’è che il sottotitolo della cattedra era Scienza della pubblica felicità, intendendo come ricerca della pubblica felicità dare fondamento, dare strumento, con lo strumento
dell’economia, per la riforma delle istituzioni politiche e sociali. Questo legame, che viene da lontano,
fra economia e pubblica felicità - che fra l’altro è stato ripreso più volte anche nel corso degli anni, e mi
ricordo che Galbraith, consulente economico di Kennedy, in un suo libro, La società opulenta, poneva
proprio questo problema, siamo negli anni Settanta, il problema cioè di sostituire il PIL, il Prodotto Interno Lordo, con un FIL, Felicità Interna Lorda, intendendo naturalmente e declinando che l’uomo non
diventa più felice solo quando ha di più, ma bisogna che crescano molte altre cose intorno alla crescita
della ricchezza - questo legame fra economia e pubblica felicità ritengo sia da riscoprire ancora oggi e dobbiamo tornare a coltivarlo con decisione. Come? Questa è la domanda, come? A mio avviso - e questo è
un contributo eventualmente al dibattito - occorrono alcuni ingredienti irrinunciabili, ne elenco cinque:
l’equità, la relazionalità, la reciprocità, la sussidiarietà, la solidarietà.
L’equità, questo è il concetto di base, perché la costruzione dello sviluppo passa per la ricerca del bene comune. Ci dice Benedetto XVI sempre nella Caritas in Veritate: L’attività economica non può risolvere tutti i
problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile, questa va finalizzata al perseguimento
del bene comune. Comune, aggettivo importante, ovvero di tutti e di ciascuno, nell’accezione del concetto
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del personalismo comunitario del filosofo Mounier, siamo prima della metà del secolo scorso. Equità non
significa allora uniformità e omologazione, ma riconoscimento delle diversità, equo non vuol dire uguale
per tutti, ma giusto e adeguato per tutti, secondo il merito e il bisogno. A supporto di questa impostazione
e ricerca dell’equità, ci sono altri ingredienti: la relazionalità, perché occorrono luoghi di personalizzazione dove non ci sia anonimato, infatti dall’anonimia spesso nasce l’anomia: se non vedo la persona, se non
la vedo, se non vedo l’altro, la regola che mi vincola nella responsabilità verso di lui diventa più debole o
addirittura assente. La reciprocità, ovvero mutuo interesse e mutuo sviluppo perché è sempre più vero che
o si cresce insieme o non si cresce, cioè si deve con-crescere. La sussidiarietà, che significa insieme protagonismo, coinvolgimento personale, ma anche responsabilità congiunta, disponibilità a intervenire e portare
aiuto, sussidiarietà, portare aiuto se, dove e quando serve, non per delegittimare, sostituire o estromettere,
ma per riabilitare, per rendere di nuovo abili perché da soli si riesca poi a farcela. Questo è il concetto della
sussidiarietà che per la prima volta è comparso nel 1931 nella Quadragesimo Anno, di Pio XI, e che informa
ancora oggi la dichiarazione di tutti, anche quando si parla della collaborazione fra Stato e comunità locali
e società intermedie, cioè non si deve espropriare il ruolo e la funzione delle società più vicine, dei soggetti
più vicini al territorio e alla persona, si deve supportarli e aiutarli con livelli diversi per permettergli di
fare meglio la funzione. E infine la solidarietà, come disponibilità a convergere in una direzione unendo
le forze. E’ da questi valori che a mio giudizio è permeata la buona economia. E la buona economia, si
badi bene, non è un insieme di buoni sentimenti perché io penso - ma credo che molti comincino dopo
questa crisi a pensarlo - che è proprio da qui che si debba ripartire per riprendere lo sviluppo del nostro
paese e di tutti i paesi del mondo. In particolare questi valori forniscono indicazioni forti soprattutto al
mondo del credito e della finanza. L’equità e la relazionalità, la reciprocità, la solidarietà e la sussidiarietà
sembrano principi cui ancorare l’uscita dalla crisi e le nuove regole di funzionamento del mercato; essi
ispirano un modo di fare banca utile, cioè al servizio delle persone e delle imprese, non della speculazione
fine a se stessa, capace di guardare al futuro in un orizzonte a medio-lungo termine, fondato quindi sulla
sostenibilità. E’ in questa prospettiva che la cooperazione di credito si propone come un metodo e un
possibile modello di servizio ai territori, di sviluppo sostenibile, di protagonismo delle comunità locali. E
infine, concludendo, l’ultima domanda che mi facevo: è la buona impresa che fa l’economia o viceversa? Il
terzo punto della mia riflessione, cioè questa terza domanda attiene al legame fra buona impresa e buona
economia. Non so effettivamente rispondere a questa domanda, certe volte mi pare di poter rilevare che
sono le imprese, cioè il tessuto produttivo complessivo delle imprese, che configura il volto di un’economia; certe altre pare di vedere che è il contesto che plasma, e questo forse soprattutto nel negativo, come
per esempio è successo per il substrato culturale che si è determinato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, soprattutto per influenza delle teorie economiche elaborate da quella ormai famosa scuola di
Chicago - cito soltanto, e lo faccio spesso, una frase del suo esponente più prestigioso, Milton Friedman,
Nobel per l’economia nel 1976: Il mercato è una costruzione eticamente perfetta e al suo interno la concor10
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renza etica, il mercato idolatrato. Questo è stato sicuramente uno degli aspetti che ha determinato la crisi
che oggi siamo vivendo. Certo, il rapporto fra il contesto e il tessuto produttivo è biunivoco e da qui vorrei
concludere parlando un attimo anche delle Banche di Credito Cooperativo, sia pur brevissimamente. Le
BCC, con oltre 400 aziende e 4.300 sportelli in Italia, rappresentano oggi la terza realtà bancaria italiana
per capillarità di sportelli e la quarta per aggregati, per asset. In un tempo di difficoltà le nostre banche
hanno scelto di esserci, di continuare cioè a sostenere le famiglie e le imprese quando molti altri si sono
ritirati, basta guardare i numeri, le crescite degli impieghi che hanno in questi anni continuato per noi
a svilupparsi con ritmi molto superiori rispetto al resto del sistema, 3-4 volte il resto del sistema. Certo,
questo non è stato e non è indolore e senza prezzo, stiamo pagando e soffrendo insieme al nostro tessuto
produttivo fortemente questo impegno che abbiamo mantenuto, ma non poteva che essere così, per come
siamo fatti. Le nostre banche infatti hanno nella loro storia sempre seminato fiducia, rimanendo vicino
alle comunità, anche nei momenti di difficoltà. E’ stato il nostro modo per cercare di essere sempre più
buone imprese - visto che si parla di buone imprese - questo è il nostro modo di presentarci come buone
imprese, come imprese - diciamo meglio - coerenti con i nostri valori, i nostri principi, la nostra natura.
Credo che questo però abbia anche contribuito a dare un volto umano all’economia, a mio avviso sicuramente a renderla migliore. Grazie.
CARRUBBA: Bene, grazie al Presidente Giorgio Clementi, grazie a tutti voi, grazie al Presidente Sestini, al Direttore Generale Pecorari per
l’invito che mi hanno fatto a partecipare a questo incontro e a moderarlo. Io sono Salvatore
Carrubba, sono un giornalista economico, sono
l’ex Direttore de Il Sole 24 Ore, mi sono occupato anche di questi temi recentemente con un libro il cui titolo forse piacerà al Professor Clementi perché si intitola Il buono dell’economia,
per l’appunto, sul quale abbiamo affrontato il
tema del rapporto tra etica ed economia assieme
a un economista della scuola di Chicago, il Professor Zingales, e a un grande esperto della dottrina sociale della Chiesa, cioè il padre gesuita
Gian Paolo Salvini che è il Direttore di Civiltà
Cattolica, quindi sono fresco di riflessioni su questo tema e mi fa molto piacere che su questo tema continui a esserci un grande dibattito, come è stato ricordato appunto all’inizio dai due interventi dei due
Presidenti, un dibattito che si sta facendo sempre più forte, sempre più profondo, sempre più radicato
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nella società. A me è capitato in questi ultimi mesi di girare un po’ per l’Italia, ancora due giorni fa lo
facevo a Casale Monferrato, a discutere di questi temi, incontrando sempre un grande interesse, che è
l’interesse che state dimostrando oggi con la vostra partecipazione a un appuntamento certo importante
qual è la presentazione del Bilancio Sociale della banca, ma che ruota intorno a una riflessione su un tema
così complesso come quello del rapporto tra etica ed economia, che non è un tema nuovo per la verità
perché, come è stato ricordato anche dal Professor Clementi, di questa questione del rapporto fra l’essere
buono e l’essere ricco - se vogliamo un po’ semplificare questo tema - si parla da sempre e ce n’è già una
testimonianza nell’Antico Testamento, i grandi autori classici da Platone ad Aristotele si sono occupati di
questo tema, poi è intervenuto il cristianesimo e le prime riflessioni del cristianesimo, le prime comunità
cristiane che erano molto basate su principi di fratellanza e di comunità hanno dato espressione concreta
anche a questa questione del rapporto tra l’economia e l’etica, e si è poi con lo sviluppo anche del cristianesimo sviluppato tutto un dibattito per considerare se il cristianesimo fosse o meno compatibile con
l’economia di mercato che contemporaneamente andava sviluppandosi. Sapete poi che si è consolidata
una visione forse fin troppo popolare secondo la quale sarebbero state piuttosto le sette protestanti a dare
spinta al successo dell’economia capitalista, una visione che è stata poi contraddetta da studi più profondi
che hanno dimostrato come in realtà l’economia di mercato e il capitalismo si siano sviluppati proprio in
comunità dove era forte il sentimento religioso, e dove ancora le sette ereticali non c’erano per niente: si
è sviluppata nella Toscana, si è sviluppata nella Lombardia e nella Milano appunto dei Lombard che poi
andavano a fare affari in tutta Europa. Quindi non è vero che ci fosse questa incompatibilità fra cristianesimo, cattolicesimo e capitalismo. Quindi un dibattito antico, ricco, interessante, che ha avuto negli ultimi tre anni - perché in questi giorni stiamo ricordando il terzo anniversario dell’inizio della grande crisi
economica finanziaria - una forte spinta e un forte rinnovamento, il dibattito sul fatto che questa crisi, a
differenza di tante altre crisi finanziarie che abbiamo avuto nel passato - perché questa, anche se è stata
sicuramente la più grave del dopoguerra, non è stata certo la prima nella storia dell’economia di mercato
(ricordiamoci che ci sono state crisi determinate anche dalla speculazione sui tulipani) – questa crisi in
particolare ha avuto e ha una conseguenza importante, cioè ha rimesso in discussione la legittimazione
etica dell’economia di mercato e del capitalismo, e questo ha fatto bene il Professor Clementi a ricordarlo
in maniera così circostanziata, ha ragione nel sottolineare come il dibattito in questi ultimi 36 mesi sia
ruotato intorno al tema di alcuni fondamenti teorici dell’economia di mercato che sono stati rimessi in
discussione. E ha ragione nel ricordare che il dibattito che si sta svolgendo riguarda proprio questo punto,
se l’economia di mercato abbia in sé una legittimazione morale ed etica sufficiente per dare la spinta per
superare queste contraddizioni e per superare la crisi che si è manifestata e che è esplosa tre anni fa. Su
questo tema, a mio parere – questo lo offro come piccolo contributo al dibattito – ci sono stati anche
molti equivoci, perché io sono convinto che questa lettura della crisi finanziaria come determinata esclusivamente da alcune patologie – l’avidità, la mancanza di regole, la mancanza di controlli – ecco, queste
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patologie siano state considerate fisiologiche al funzionamento dell’economia di mercato. In realtà non è
così. Il Professor Clementi ha fatto bene a ricordare che chi ha fondato l’economia di mercato non era un
economista e probabilmente si sarebbe messo a ridere dinanzi alla parola economista, era un filosofo morale, Adamo Smith, e tutti i grandi studiosi dell’economia di mercato sono stati studiosi che non hanno
divinizzato l’economia di mercato come nella formula semplificatrice che ricordava il Professor Clementi
di Milton Friedman, ma che hanno sottolineato come l’economia di mercato non è tale se non ha un
fondamento etico, morale, deontologico. Io voglio ricordare una pagina bellissima di uno dei grandi teorici dell’economia di mercato, questo a noi vicino, che è Luigi Einaudi, il quale, quando descrive e vuole
spiegare ai suoi studenti, nelle lezioni di politica sociale, che cos’è il mercato, fa un riferimento proprio
alla fisicità del mercato: lui pensa al mercato di un piccolo borgo piemontese, magari quello dove era nato
lui, ma potremmo leggere in questa descrizione la descrizione di qualunque mercato di qualunque paese,
paesino e borgo anche della Toscana e dell’alta valle del Tevere. Scriveva Einaudi: Tutti coloro che vanno
alla fiera – e con questo intende appunto fare il parallelo con il mercato – sanno che questa non potrebbe
aver luogo se, oltre i banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce ed oltre la folla
dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di
cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro, il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede
passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del Municipio con il segretario e il sindaco, la Pretura e la Conciliatura, il notaio che redige i contratti,
l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. Ecco quindi, vedete,
in questa descrizione del mercato di Einaudi troviamo tre aspetti, tre colonne senza le quali il mercato
secondo Einaudi non funziona, che sono le istituzioni, le regole e i principi. Quindi il mercato, i fautori
dell’economia di mercato sarebbero i primi e sono i primi a scandalizzarsi di quello che è successo in questi tre anni o delle cause che hanno determinato la crisi esplosa tre anni fa, proprio perché quello non è il
mercato, il mercato non è la sopraffazione, non è la mancanza di controlli e di regole, ma è appunto la
ricerca di questi principi di convivenza basati sui principi del vivere bene che ricordava il Professor Clementi. Accanto a questa riflessione si è sviluppata nell’ultimo secolo e mezzo la riflessione della Chiesa,
con la dottrina sociale della Chiesa che è culminata nella recente Enciclica, ricordata anch’essa, di Papa
Ratzinger, nella quale Papa Ratzinger insiste su un aspetto - e forse è l’aspetto più originale dell’Enciclica
- su questo principio della gratuità che apre la dimensione anche del welfare a quella dimensione di sussidiarietà, l’apre concretamente, che è forse l’aspetto principale sul quale si può ricostituire una base morale del funzionamento dell’economia di mercato. Naturalmente questo tema del rapporto tra etica ed
economia è reso molto più complicato dal fatto che oggi viviamo in società pluraliste, secolarizzate e relativiste, società cioè nelle quali la gerarchia dei valori è molto difficile da stabilire. E di questa questione
cogliamo la difficoltà quando affrontiamo alcuni altri aspetti, anche più delicati forse, sui quali ci misu13
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riamo e ci misureremo probabilmente nel futuro in termini ancora più drammatici, che sono tutte le
questioni relative per esempio alla bioetica, perché anche lì vediamo, come è possibile introdurre dei principi etici in un dibattito pubblico, in un sistema, in una società pluralista in cui ciascuno ha il diritto di
credere nei propri valori e di perseguire i propri obiettivi? Questo è molto difficile. Nel campo dell’economia è eticamente negativo, o meglio, è eticamente più negativo il perseguire il proprio interesse rispetto ad altri valori? Chi lo dice? Chi lo sostiene? Chi lo può dimostrare? Chi ha l’autorità per imporre
questa visione? Quindi il fatto che le nostre società siano delle società appunto relativiste, delle società
pluraliste, e ovviamente secolarizzate, rende questo percorso molto più difficile, però aumenta – e qui
vengo alla conclusione del Professor Clementi che mi sembra molto importante anch’essa – la responsabilità di ciascuno di noi, perché poi alla fine concretamente è nei comportamenti delle istituzioni finanziarie, delle istituzioni politiche, delle famiglie, degli imprenditori che si può manifestare questo attaccamento e questo collegamento all’etica e all’economia. Quindi, il tema del quale stiamo discutendo certamente non avrà una conclusione nel dibattito di oggi - e con questo invito la Banca di Anghiari e Stia a
continuare in questa riflessione che certamente è una riflessione così importante e anche confortata dall’interesse col quale voi la seguite - e comunque cominciamo oggi appunto a fare qualche passo avanti sulla
base delle sollecitazioni che ci ha dato il Professor Clementi, ma anche degli interventi che adesso seguiranno dei nostri relatori, che ringrazio a nome di tutti voi per partecipare a questo incontro. E quindi
chiedo alla prima nostra relatrice di prendere la parola, è la Professoressa Helen Alford OP, OP vuol dire,
se non mi sbaglio, Ordinis Praedicatorum, quindi appartiene alla Congregazione dei Domenicani la Professoressa Alford, la quale è decana della Facoltà di Scienze Sociali dell’Angelicum, che è la Pontificia
Università di San Tommaso di Roma. Prego, Professoressa.
ALFORD: Ho sempre paura a parlare in italiano perché ho una pronuncia così cattiva… Comunque
spero che il contenuto sarà interessante. Allora, oggi abbiamo già sentito delle belle considerazioni che
hanno creato un po’ il quadro per le nostre riflessioni. È il giorno della presentazione del Bilancio Sociale
della Banca di Anghiari e Stia, quindi è un giorno di riflessione sulla vita della banca e come si rende conto
attraverso questo strumento della sua attività, della sua realtà.
E data questa occasione, io ho voluto riflettere su una domanda che è a monte della presentazione del
Bilancio Sociale: perché fare il bene? Perché il Bilancio Sociale in un certo senso è il punto finale di una
riflessione su che cosa è la cosa buona da fare, è un rendere conto agli altri per quanto riguarda le cose
buone che abbiamo fatto. Allora, questo è in un certo senso il perché anche del Bilancio Sociale e questo
ci aiuterà ad aprire dei problemi che dobbiamo affrontare. Nella parte introduttiva del Bilancio Sociale
della Banca di Credito Cooperativo si parla della nascita di questo movimento, centoventicinque anni fa,
e si dice che nasce da tre elementi: ci sono tre fattori, tre componenti dietro la nascita di questo movimento, e sono interessanti per noi da considerare oggi. Primo, la cosa più impellente, una necessità: liberarsi
dallo sfruttamento, rompere le catene del bisogno che opprimevano anche la dignità delle persone, quin14
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di una necessità molto profonda, molto forte, molto impellente. Allora una forte motivazione dietro di
rispondere a questa cosa – ciò è da tenere a mente per il resto della nostra discussione. Poi una sollecitazione: si parla esplicitamente della Rerum Novarum del 1891, e soprattutto del fatto che essa indica l’associazionismo, il mettersi insieme come il giusto rimedio alla debolezza dei più poveri. Quindi abbiamo
la necessità e la sollecitazione, che in un certo senso sono le cose “fuori”, che creano l’ambiente nel quale
poi agisce il terzo fattore, il progetto, la proposizione: migliorare la condizione morale e materiale dei soci
fornendo il denaro a ciò necessario. Quindi dovremmo cercare di vedere oggi lo stesso spirito nella Banca
del Credito Cooperativo: nasce con questa natura, nasce da questa realtà e questo forma l’identità del
movimento. In più nella premessa si dice una cosa molto interessante, e questo per me è il filo d’oro spero - di tutta la relazione: La Banca di Credito Cooperativo ha l’obiettivo di una cooperazione totale, e poi
si spiega che cosa significa questo termine, cioè ai livelli strategico, organizzativo, gestionale, operativo e
della comunicazione. Quindi già dà cinque aspetti di questa cooperazione totale. L’idea è che è una cooperazione che opera a tutti i livelli, lo spirito della cooperazione deve essere presente, deve ispirare tutti gli
aspetti dell’operazione di questa banca. Insomma, una grande sfida, e non è assolutamente facile realizzare concretamente questa cosa. Adesso, dopo centoventicinque anni, noi dove siamo? Potremmo dire
molte cose, molte cose sono già state dette dai nostri relatori iniziali. Io vorrei prendere uno spunto da
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questo nuovo libro, 2010, dei due Professori Zamagni, Stefano e Vera, che hanno pubblicato un libro in
inglese, perché è importante che questa esperienza della cooperazione italiana sia più conosciuta fuori dei
confini del paese, perché veramente è poco conosciuta, e infatti una delle cose molto interessanti per me,
quando io sono arrivata da Londra, era proprio di scoprire questa realtà della cooperazione, le cooperative
italiane, che sono molto diverse dalle cooperative in Inghilterra. Non avevo molto interesse nelle cooperative in Inghilterra, invece qua è una storia, una realtà culturale molto interessante, però poco conosciuta fuori dall’Italia, quindi è importante che questi libri in inglese esistano. Comunque loro mettono il dito
su un tema in questo libro, che ci aiuterà a vedere un po’ i problemi con questa cooperazione totale alla
quale è chiamata la cooperativa. Loro dicono che le discipline di management sono formulate per l’impresa capitalistica e non sono adatte alle cooperative o almeno non sono automaticamente adatte alla
cooperativa, e questo è solamente un fatto storico. Le discipline di management sono molto recenti, abbiamo solamente i primi passi in avanti, le prime ricerche su come organizzare il lavoro alla fine dell’Ottocento, il famoso Scientific Management di Frederick Winslow Taylor, uno dei primi che si interessa del
problema dell’organizzazione che nessuno aveva studiato, almeno sistematicamente, prima. E i primi insegnamenti codificati, organizzati risalgono solamente agli anni Venti nelle scuole di business degli Stati
Uniti. Quindi questa nascita delle discipline del management è tutta influenzata dall’impresa capitalistica
e spinta dai problemi che hanno le grosse cooperations negli Stati Uniti, è una risposta a questo problema
e vanno avanti da questo inizio. Quindi noi tutti adesso cerchiamo di utilizzare i frutti di questa ricerca
su come gestire le organizzazioni, quali sono i problemi psicologici nell’organizzazione, eccetera, tenendo
però presente che è tutto costruito con certe premesse e viene fuori da un’esperienza molto diversa da
quella della cooperativa. Infatti i due studiosi dicono nel loro libro che dal punto di vista gestionale le
cooperative non sono molto diverse dalle imprese capitalistiche. Allora è un problema per noi questa cooperazione totale: se ci ricordiamo anche il livello gestionale, operativo dovrebbe risentire, percepire questa identità di cooperazione. Bisogna ricominciare - dicono nel libro - dalla motivazione delle persone. E
perché dicono questa cosa? Perché dietro la teoria dominante di management, queste teorie normali, insegnate nelle scuole di business, quelle che influiscono generalmente, ci sono delle premesse, tutte le teorie devono cominciare da premesse, certi assunti che si fanno prima di sviluppare la teoria stessa, e in
queste teorie abbiamo l’idea dell’uomo come Homo Oeconomicus, che non è un uomo reale, ma è un tipo
di idealizzazione dell’uomo, semplificazione dell’uomo per i fini di costruzione della teoria. Allora, Homo
Oeconomicus è un puro individuo, questa è la prima cosa importante, ha solamente i suoi obiettivi individuali, è motivato dal suo interesse personale a guadagnare. Allora, è un puro individuo, pensa solamente
a sé ed è motivato dal guadagno. E’ una premessa molto semplice e crea difficoltà anche nelle imprese
capitalistiche e ancora di più per una cooperativa. Infatti oggi sulla spinta della crisi, ma in realtà anche
prima, ci sono molti studiosi nel campo del management che cominciano a dire che quest’idea non va,
che non possiamo andare avanti così, e si cominciano a fare degli studi scientifici che fanno vedere questi
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effetti perversi di cominciare a modellare la nostra organizzazione cominciando da quest’idea dell’uomo.
Un esempio molto semplice: se si pensa che l’uomo sia puramente individuale - che cioè i rapporti che lui
ha con gli altri non sono importanti, non contano per decidere qual è la sua motivazione a fare le cose - e
se lui vuole solamente guadagnare, allora quando si mettono insieme le persone nell’impresa è difficile
convincerle a perseguire sempre il fine comune dell’impresa; se loro possono sfruttare la loro posizione lo
faranno e il capo dell’impresa, il dirigente, deve creare sistemi di controllo che cerchino di ostacolare, di
impedire che l’uomo cerchi di sfruttare la sua posizione, per esempio chi cerca di impedire che lui non
lavori, allora sistemi di controllo che cercano di assicurare per quanto possibile che lui sempre lavori bene.
Sistemi di controllo della qualità, per controllare quello che lui fa, perché lui è sempre pronto a sfruttare,
a manipolare la sua posizione per i suoi fini personali e non per perseguire il bene del gruppo e soprattutto degli azionisti. Allora, tutti gli psicologi adesso dicono che se si comincia da una tale idea dell’uomo e
si crea un sistema di management che si aspetta che ogni membro dell’organizzazione sfrutterà la propria
posizione, allora si crea questo tipo di comportamento nella gente; anche se prima non avevano idea di
comportarsi così, il sistema stesso di management, che si aspetta questo tipo di comportamento da loro,
crea questo tipo di comportamento in loro. Infatti noi abbiamo esperienze molto comuni di ciò: la stessa
persona che quando va al lavoro cerca di fare il minimo possibile e non si interessa molto a raggiungere
obiettivi, quando va a casa è uno dei padri migliori della comunità, che contribuisce molto alla Chiesa,
che è in molte associazioni di volontariato, eccetera; allora la stessa persona si comporta in modi totalmente diversi, il che significa che non è un problema insito in sé, in lui, ma è un problema creato dal sistema
nel quale lui lavora. Questo è un tema che si potrebbe approfondire molto, ma è un vero problema per le
discipline del management, è un problema che noi abbiamo ereditato, adesso è un problema soprattutto
per le cooperative. Voglio che noi ci interroghiamo sulle motivazioni e questo significa considerare il perché delle nostre azioni, ecco perché il titolo di questa lezione è Perché fare il bene? Perché facciamo queste
cose? Sembra una domanda banale, ma normalmente sono le domande più semplici, le domande che
fanno i bambini piccoli che sono quelle più importanti, che sono quelle più difficili a cui trovare la risposta giusta, seria, completa.
Adesso torniamo alle risposte normali che vengono fuori dalle teorie di management normale. Perché fare
il bene? Allora, qui dico una cosa che è forse un po’ complicata dato il sottotitolo del nostro convegno di
oggi, che è Fare il bene conviene. Molte persone, cominciando dall’idea dell’impresa che abbiamo già cominciato ad esplorare, direbbero: facciamo una cosa buona, saremo socialmente responsabili per esempio
perché ci conviene. Il che significa che abbiamo più successo, che facciamo più soldi facendo questa cosa.
Questo non è il modo, io lo so, nel quale vuole intendere conviene la BCC. E questa come risposta non
è cattiva, non è sbagliata in sé, ma è incompleta e le risposte incomplete possono essere pericolose. Pensiamo alla storia della Chiesa, per esempio, tutte le eresie, tutte le cose che erano strane nella storia della
Chiesa, avevano una parte di verità, avevano preso una parte del Vangelo, una parte della Rivelazione,
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però poi hanno lasciato fuori il quadro generale, tutto il resto, e hanno portato la gente nella direzione
sbagliata. Quindi avere una risposta parziale non è cattivo, non è sbagliato, però è anche pericoloso se non
si va oltre questa cosa. Fare soldi è assolutamente importante, e se possiamo fare più soldi facendo la cosa
buona, benissimo. Ma se questa è l’unica motivazione che noi abbiamo per fare la cosa buona, è lì che
comincia il problema, perché se facciamo il bene solamente per fare più soldi, abbiamo invertito l’ordine
delle cose. Invece di fare i soldi per fare il bene, facciamo il bene per fare i soldi, e in questo comincia la
corruzione della cosa, la distruzione - non sarebbe la prima volta che ciò è successo nell’impresa. Infatti
Scott Adams - io ho scelto un fumetto - ha fatto un sacco di soldi scrivendo libri, pubblicando libri su tutte le contraddizioni che si trovano nel mondo imprenditoriale. Allora, dato che la partecipazione è molto
importante nella cooperativa, ho scelto il fumetto sulla partecipazione, che lui intitola La partecipazione
artificiale. La partecipazione è molto importante - lo sappiamo - perché noi cresciamo attraverso la partecipazione; essa è inoltre essenziale all’idea della cooperativa, però è possibile manipolarla e qui abbiamo un
esempio molto umoristico di come si può farlo: infatti il dirigente dice Il nostro nuovo slogan
a tutti i venditori, e poi continua, immaginate se
tutti i nostri dipendenti convincessero i loro amici a comprare il nostro prodotto, alla fine… non
avremmo più amici.
Si tratta proprio della strumentalizzazione della partecipazione alla creazione di più soldi.
Prendiamo una cosa che è buona in sé e la strumentalizziamo per fare più soldi. E queste sono
contraddizioni chiare a tutta la gente; ciò è il
motivo per cui funziona l’umorismo in questo fumetto, perché vediamo la contraddizione, vediamo che è cosa stupida comportarsi in
questo modo. Questo dirigente non avrà mai
una buona prestazione dai suoi dipendenti,
mai, perché si sentono tutti manipolati da lui.
Un altro esempio è fornito dal rapporto della
Christian Aid, che è una grande ONG con base in Inghilterra: hanno visto nel Bilancio Sociale della Royal Dutch Shell che nel delta del fiume Niger, dove loro lavoravano, realizzavano le cliniche, costruivano
le scuole e soprattutto non inquinavano il fiume. Allora, la Christian Aid è andata a controllare quello che
faceva la Shell e il rapporto che ha prodotto ha avuto un forte impatto, perché sulla copertina c’è una foto
scattata al bordo del fiume, quindi si vede il confine del fiume, con l’ombra di una persona che si inchina
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sul bordo, ma soprattutto si vedono tutti i colori fantastici sull’acqua, bellissimi, però il messaggio è molto
chiaro: quest’acqua è inquinata, è piena di petrolio. Poi nel rapporto si spiegava di più, che non c’erano le
cliniche, non c’erano le scuole, eccetera eccetera. Hanno intitolato il rapporto Dietro la maschera, Behind
the Mask, il volto reale della responsabilità sociale. Si tratta di una critica molto forte, però è un altro esempio di come, se si ha una risposta incompleta, si può arrivare a queste contraddizioni, a queste posizioni
insostenibili. E’ un problema più per l’impresa capitalistica direi, perché la struttura della cooperativa è
un tipo di difesa a questo tipo di slittamento verso fuori; però comunque è un problema se non si dà una
risposta giusta a questa domanda.
Andiamo adesso ad una seconda risposta. Questa risposta è molto più alta a livello etico, perché comincia
dalla teoria di Kant e dice, perché facciamo il bene? Lo facciamo perché vogliamo trattare tutti come fini
a sé. E’ un’idea molto forte, molto bella che ognuno con cui trattiamo come impresa sia un fine a sé: non
possiamo infatti strumentalizzare le persone, dobbiamo trattare ognuno come un fine, non come uno
strumento. Il problema però legato a questa risposta è la difficoltà a creare un sistema gestionale basato su
questa impostazione, e un esempio molto chiaro di questo è un libro molto carino, scritto da due americani un po’ di tempo fa, con il titolo, La strategia corporate e la ricerca dell’etica. La maggior parte del
libro è incentrato su come la grande maggioranza degli approcci strategici utilizzati dalle imprese siano
assolutamente non etici, perché in un modo o nell’altro prendono gli altri gruppi, i dipendenti o i clienti
o i fornitori, e li usano per raggiungere gli scopi degli azionisti, più o meno. Quindi criticano fortemente
la grande maggioranza degli approcci alla strategia nel mondo imprenditoriale. E poi alla fine fanno la
loro proposta. E la loro proposta è quella scritta qua: personal projects enterprise strategy, cioè la strategia
dell’impresa dei progetti personali. E dicono che la strategia dell’impresa dovrebbe essere di realizzare i
progetti personali di tutti gli stakeholders. Solamente così sono trattati come fini a sé. Allora, non credo
che sia difficile capire che questo non è assolutamente attuabile. Come si può operazionalizzare questa
impostazione? Basta avere due stakeholders, un dipendente e un cliente. La dipendente ha il bambino
ammalato a casa, deve assolutamente tornare a casa. Il cliente ha assolutamente bisogno della consegna
del nostro prodotto oggi, e come si può trattare tutti e due in un modo uguale, secondo questa posizione?
Infatti anche i due studiosi dicono che ci sono molti problemi con questo approccio e molto lavoro è
necessario per farlo più esatto e dettagliato. Ma in effetti il problema non è di mancanza di precisione, il
problema è a monte. E poi in un altro libro lo stesso autore, Freeman, dice: il manager deve avere la saggezza di Salomone – povero ragazzo – per rispettare e bilanciare gli interessi degli stakeholders. Qua vediamo che
abbiamo una teoria che è molto forte a livello valoriale - dobbiamo trattare tutti gli stakeholders come fini
a sé – perché è il livello più alto che si potrebbe avere dal punto di vista etico. Però non è assolutamente
utilizzabile. È inutile questa posizione, perché siamo bloccati, non sappiamo come fare la cosa. È quasi
l’inverso della prima risposta, dove la base valoriale è molto limitata, però è molto facile fare, è molto
operazionalizzabile. Qui però vediamo il problema di fondo della posizione di Kant, che dobbiamo supe19
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rare se vogliamo creare un nuovo management
che rispetti le persone e che sia anche utilizzabile
e possa essere veramente la base di un sistema
di gestione. Il problema di fondo è l’individualismo: infatti dicono che l’unica cosa etica da fare
è realizzare tutti i progetti di tutti gli individui,
come individui. Non possono riconoscere, data
la loro impostazione, data l’idea dell’uomo che
hanno, gli obiettivi in comune, i progetti in comune, dove il progetto è buono per me e anche
per gli altri, dove non c’è una manipolazione degli stakeholders, delle persone coinvolte, se troviamo un punto in comune, se prendiamo una
decisione. Non possiamo fare questo secondo la
loro teoria, perché essi non possono riconoscere
un progetto in comune. Allora dobbiamo superare questo problema.
Andiamo in questa direzione con la terza risposta, che si trova nella letteratura sull’impresa oggi, la terza
risposta alla domanda perché fare il bene oggi. E questa terza risposta dice: perché così si rispetta il contratto sociale – diremo una parola su questo concetto fra un attimo – e si mantiene una buona reputazione
di fronte agli stakeholders. Questa posizione prende le mosse dalla teoria del contratto sociale, che risale
a Rousseau, sul modo di risolvere il problema di come possiamo vivere insieme, nella società in generale
o in un’impresa. L’idea è che in un mondo preistorico, perché nessun contratto reale è negoziato, in un
mondo ideale in un certo senso, abbiamo la trattazione fra tutti i membri della società. La forma più
famosa oggi di questo approccio è di Rolls, che risale al 1971. Egli parla di come si potrebbe arrivare a
delle regole giuste della società partendo da una presunta contrattazione fra tutti i membri della società.
E su questa base si può andare avanti e prendere la decisione. Sacconi, uno studioso italiano, ha una
delle teorie più avanzate su questa posizione. Dice che abbiamo il primo contratto sociale che è quello
riconosciuto in tutti i pensatori di questo filone di studio. Però per far funzionare giustamente l’impresa,
ci vuole un secondo contratto: tutti gli stakeholders, tutte le persone coinvolte decidono che noi non
possiamo prendere tutte le nostre decisioni insieme; sarebbe impossibile gestire la situazione così. Quindi
liberamente decidiamo di dare ai dirigenti il potere decisionale. E dalla loro parte, essi accettano questo
potere e però si impegnano a seguire le regole del primo contratto sociale, le regole di come si trattano
giustamente tutti gli stakeholders. Anche questo non è un contratto reale, è una cosa ideale per cercare di
spiegare perché si può fare la cosa buona nell’impresa. Però c’è un ultimo passaggio: se facciamo questo
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contratto dove diamo il potere decisionale ai dirigenti, abbiamo il problema che essi adesso hanno molto
potere di fronte a tutti gli altri, e come possiamo essere sicuri che realmente loro rispetteranno il primo
contratto sociale, che rispetteranno le regole della vita sociale, che loro ci tratteranno realmente come fini
a sé? Allora si introduce il meccanismo della reputazione. È ciò che ha fatto la Shell, quando la Christian
Aid è andata in Nigeria e ha fatto questo rapporto così danneggiante per la Shell: subito ha cambiato idea,
ha cercato di rimediare, perché era una bella “botta” alla propria reputazione. Secondo questo studioso,
i dirigenti in generale non faranno cose cattive, non rispettose degli stakeholders, perché non vogliono
avere tutte le difficoltà che vengono fuori da una cattiva reputazione. I giovani non vogliono lavorare per
una impresa che ha una cattiva reputazione, pur se il costo del capitale aumenta, perché, ad esempio, le
banche cominciano a pensare che questo sia un investimento più rischioso, eccetera. Quindi si fa la cosa
giusta perché si vuole mantenere la reputazione. Allora, ci sono due problemi con questa impostazione.
Primo: il meccanismo è debole. La Shell si è comportata per anni e anni in questo modo in Nigeria, prima
che arrivasse la Christian Aid. Poi ci sono tante altre situazioni nel mondo che conosciamo tutti, dove ci
sono problemi con governi totalitari, dove non ci sono le ONG, e soprattutto le imprese controllano le
informazioni che escono, molte volte, su di loro. Per esempio forse voi sapete che questi rating ethical che
abbiamo - quello più famoso è quello del Financial Times - sono basati principalmente sulle informazioni
fornite dalle imprese stesse, che devono compilare lunghi questionari. Quindi, è utile come meccanismo,
ma è anche debole come meccanismo, per assicurare che la cosa giusta venga fatta. Ma c’è un problema
più serio. E questo è una cosa che attiene al modello dell’uomo e alle sue motivazioni. Il problema di
spazzare via le motivazioni intrinseche che le persone hanno a fare la cosa buona.
Abbiamo parlato all’inizio di sistemi di gestione che creano effetti perversi, abbiamo visto la manipolazione della partecipazione. Adesso però voglio utilizzare un esempio che conoscete tutti, un esempio che
viene fuori dalla famiglia, perché forse non tutti hanno lavorato in un’impresa ma tutti hanno un’esperienza della famiglia. Questo è un esempio del fenomeno che adesso gli psicologi chiamano crowding out,
che in italiano sarebbe spazzare via la motivazione intrinseca, e funziona nel seguente modo. Se il genitore
dice al bambino: “se tu fai un certo compito – quando stavo pensando a questo esempio, mi è venuto
in mente il tagliare l’erba, perché per noi in Inghilterra l’ideale per ogni famiglia è di avere una piccola
casa con il giardino, e tagliare l’erba è molto importante, quindi permettetemi questo esempio che un po’
rappresenta la mia cultura. - se tu ogni settimana tagli l’erba del giardino, io ti do 5 euro”. Allora, gli psicologi hanno fatto esperimenti su questa cosa. Molto velocemente, il bambino non farà questa cosa se non
riceve i 5 euro e in più, lo farà in un modo qualsiasi, più veloce possibile, solamente per aver fatto la cosa
e quindi per avere i 5 euro. Allora questo è un esempio emblematico, classico del fenomeno di crowding
out: qualsiasi motivazione che questo bambino aveva da fare la cosa buona perché era buona, è persa. Lui
fa la cosa adesso solamente perché prende 5 euro. Allora si è rimpiazzata la motivazione estrinseca - avere i
soldi - per la motivazione intrinseca che il bambino potrebbe avere avuto all’inizio per fare la cosa buona.
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Altra cosa è invece quando il genitore dice al bambino: “tu sei un membro molto importante di questa
famiglia, noi abbiamo un progetto di vita insieme e il tuo contributo è assolutamente essenziale; ognuno
di noi ha il suo ruolo in questa famiglia e deve fare certi compiti, uno dei tuoi compiti è di tagliare l’erba e
ogni tanto riconosceremo il grande contributo che tu dai al progetto di vita di questa famiglia con qualche
regalo”. Quindi si possono dare 5 euro al bambino ogni tanto; la questione infatti non riguarda i soldi in
sé, ma il quadro totalmente diverso che si è creato per questo bambino, che rinforza la sua motivazione
intrinseca. Adesso, ogni volta che taglierà l’erba, avrà chiaro quanto lui è importante nella famiglia. E
quindi tenderà a fare questa cosa con un alto livello di qualità, perché questo è un simbolo del suo contributo alla famiglia, della sua partecipazione nel progetto comune della famiglia. Allora, nel primo caso
abbiamo una transazione netta: io ti do 5 euro se tu fai questo compito per me. Nel secondo caso abbiamo
la creazione di un bene in comune, che è il bene della famiglia, abbiamo rinforzato l’idea di questo bene
comune, anche utilizzando qualche premio economico; infatti non c’è niente di contrario in questo, ma
l’importante è che abbiamo creato un sistema gestionale, per così dire, nella famiglia, che rinforza la motivazione intrinseca perché è tutto basato su un bene in comune fra i partecipanti, al quale tutti partecipano
e dal quale tutti guadagnano qualcosa. Questo bambino ha una grande soddisfazione, e inoltre si sente
importante. Possiamo discutere tutti le conseguenze di questa cosa. Il meccanismo di Sacconi purtroppo
è più simile al primo esempio, perché dopo un po’ il dirigente, se riceve il messaggio che deve fare una
cosa perché altrimenti se non la fa il giornalista lo attacca, solamente per motivi estrinseci di reputazione,
comincia a spazzare via la sua motivazione intrinseca per far questa cosa, che è esattamente la cosa che
vogliamo rinforzare, se vogliamo dare una buona risposta alla domanda: perché far il bene.
Ricapitolando, abbiamo già detto varie cose a proposito del tema della discussione. Il problema nasce da
una visione individualista dell’uomo. Dobbiamo recuperare quest’idea e metterla al fondamento dei nostri sistemi gestionali, l’idea cioè che l’uomo è sì individuo, in quanto ha bisogni individuali, un corpo che
lo individua, bisogni per l’abitazione, per vestirsi, per mangiare, però ha anche questo aspetto profondo di
relazionalità. E possiamo realizzare insieme beni in comune, realizzare obiettivi in comune. E sappiamo
questo dalla nostra tradizione cristiana, ci saremmo aspettati questo perché siamo l’immagine di Dio che
è uno e trino, e pertanto c’è la relazionalità nell’essenza di Dio. E anche i nostri rapporti sono intrinsecamente importanti per noi; possiamo realizzare beni reali e avere progetti realmente in comune. Questa è
una cosa che sappiamo bene, ma i nostri sistemi di gestione non la hanno ancora recepita perfettamente.
Abbiamo anche nella letteratura sull’impresa esempi a questo riguardo. Per esempio c’è l’idea del core
competence. L’idea di core competence è stata sviluppata dagli studiosi che erano interessati nelle imprese
giapponesi negli anni Ottanta. E vedevano che queste imprese, come Sony, Technics, eccetera, erano in
grado di miniaturizzare qualsiasi prodotto elettronico, indipendentemente dal settore dell’economia. E
questa era una capacità di tutta l’impresa, non degli individui come individui, ma era una capacità del
gruppo. E se si fosse sciolta Sony e avesse mandato tutti gli ingegneri e tutti i dirigenti altrove, questi
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avrebbero portato con sé le loro competenze personali ma si sarebbe persa questa competenza che essi
avevano solamente in comune, fra di loro, di fare questa miniaturizzazione.
Da ciò che abbiamo fin qui detto credo che si possa già cominciare a vedere che, se si comincia a fondare
un sistema di management su quest’idea dell’uomo al tempo stesso individuo e relazionale - o persona,
se usiamo la parola della filosofia personalista - possiamo superare molte difficoltà. Secondo me possiamo
creare un sistema gestionale che ci aiuterà a creare quella cooperazione totale della quale abbiamo parlato
all’inizio, che è una delle mete che vuole raggiungere la Banca di Anghiari e Stia.
Vorrei inoltre richiamare la vostra attenzione su alcune iniziative che ci sono in Italia e fuori per ripensare
il modo di gestire l’impresa. Ci sono molte persone in molti luoghi che adesso cominciano a pensare in
questi termini, però non abbiamo ancora la massa critica, non abbiamo fatto il breakthrough dal punto di
vista delle scuole di business.
E poi un’ultima considerazione: farà molta differenza questa nuova impostazione? Potrebbe sembrare
molto lontana, poco concreta, molto distante dalla realtà della nostra vita vissuta, del nostro lavoro; sembrerebbe insomma un bel sogno, ben poco realistico. Ma voglio finire con l’esempio dei Benedettini, che
hanno realmente trasformato l’economia attraverso la loro rivalutazione del lavoro manuale. Sappiamo
che per i classici, per i grandi studiosi della Grecia, eccetera, anche i Romani, solamente gli schiavi facevano il lavoro manuale. Invece i Benedettini, riflettendo sul Vangelo, riflettendo sulla loro fede, hanno
piano piano cambiato questa mentalità, hanno dato dignità al lavoro manuale. E questo cambiamento è
stato il fondamento dell’economia che abbiamo oggi. Non avremmo mai avuto la rivoluzione industriale
senza questo grande cambio di mentalità. Quindi i cambiamenti che sembrano molto teorici, molto filosofici, piano piano hanno un impatto molto forte sulla realtà. E le vostre banche di Credito Cooperativo
possono, nel vostro piccolo, fare un passo in avanti in questa direzione. Quindi, per concludere, sono
molto contenta di essere con voi oggi, molto onorata e vi auguro veramente buon proseguimento con
tutti i vostri progetti, perché quello che state facendo adesso è veramente alla frontiera, molto innovativo
dal punto di vista delle risposte alle crisi economiche che stiamo vivendo e utile per il futuro delle nostre
economie. Grazie.
CARRUBBA: Grazie alla Professoressa Alford per questa introduzione così densa, ma soprattutto così
concreta, perché avete visto che, alla fine, non soltanto per una questione di circostanza, è entrata proprio
nell’esperienza quotidiana di tutti voi, di tutti noi, ricordandoci quanto appunto dalla riflessione teorica si
possa cogliere per avere poi delle indicazioni pratiche nel nostro agire. Passo adesso la parola al Professor
Tommaso Sediari, il quale oltre ad essere Docente all’Università degli Studi di Perugia è Presidente della
Scuola di Etica ed Economia di Assisi.
SEDIARI: Grazie al moderatore. Gli interventi introduttivi del Presidente Clementi, dello stesso moderatore che ci ha ulteriormente introdotto ai temi dei quali stiamo parlando questa mattina, e, ancor più
naturalmente, la relazione della Professoressa Alford, mi consentono e mi impongono di fare qualche
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“slalom” all’interno dello schema che mi sono preparato per non ripetermi su alcune questioni e per
cercare eventualmente di portare un ulteriore contributo. E soprattutto, anche per lasciare spazio a Iacomoni - al quale mi accomuna un viaggio in Madagascar con la Scuola di Etica e di Economia, nella quale
abbiamo visto degli esempi di solidarietà, di sussidiarietà, che abbiamo impostato come Scuola e come
Forum mondiale delle Scuole di Etica e di Economia - e quindi ritengo altrettanto interessante, se non
di più, parlare – come farà lui - degli aspetti pratici di un’azienda che ha fatto una specie di focus proprio
sui comportamenti etici, attraverso la Onlus e attraverso un impegno della sua famiglia verso temi come
quello di cui stiamo parlando questa mattina. Allora mi atterrò molto a un discorso di attualità.
Peraltro il problema si presta ad essere affrontato anche in termini storici, come abbiamo sentito, con
i richiami da Aristotele a Mandeville nel 1700, ad Adam Smith naturalmente, che parlano tutti di una
economia subordinata all’etica, di buoni rapporti, di tutte queste cose. Però poi nel secolo passato, oramai
trascorso, in effetti si è parlato troppo spesso di mercato come efficienza, come qualcosa che è in grado,
soltanto lui, senza regole, di produrre ricchezza e quindi benessere per tutti. Poi ci siamo accorti, soprattutto negli anni recenti - ecco perché dico attualità - che queste promesse sono rimaste attese e non si sono
effettivamente concretizzate.
Voglio sottolineare tre aspetti di natura molto importante, di questi ultimi anni. Da una parte l’allargamento e l’apertura dei mercati internazionali attraverso quella benedetta o maledetta parola che è la
globalizzazione. La crisi finanziaria degli ultimi due o tre anni. E naturalmente - è stata già citata da altri
- l’Enciclica Caritas in Veritate. Su questi tre argomenti, comincerò da quello del fallimento del mercato: già prima della crisi finanziaria del 2007, 2008, 2009, ci eravamo accorti che tutto sommato questa
globalizzazione, questa apertura dei mercati internazionali in effetti aveva portato dei risultati estremamente positivi. Anticipo che sono senz’altro a favore di un discorso del genere anche perché lo considero
soprattutto inevitabile; quindi c’è poco da essere favorevoli o contrari, c’è l’inevitabilità di un discorso
che non può essere in qualche modo impedito o interrotto. Oggi siamo in un mondo assolutamente interrelato. Pensavo, venendo ad Anghiari, ai mercati locali di molti anni oramai passati, quando le nostre
interrelazioni avvenivano, ad esempio, nella piazza di Anghiari - Angelo Maria Petroni ci ha dato una
indicazione in questo senso estremamente interessante che riporto volentieri - ed era in quel momento che
ci interponevamo con l’altra persona, con l’altro io, poi arriveremo al noi successivamente. E allora nella
piazza di Anghiari risolvevamo i nostri problemi perché non c’era nulla, non c’era neanche il telefono fisso, altro che i telefonini di oggi. Oggi c’è internet, e allora il discorso si interpone non soltanto e non più
con il concittadino, ma si allarga, e si allarga non tanto e non solo ad Anghiari ed Arezzo, o tra Anghiari
e Roma, si allarga con un signore che sta in Canada come con uno che sta in Australia. Dieci anni fa,
parlando ad alcune associazioni imprenditoriali artigiane, dicevo che la globalizzazione si imponeva e che
dovevamo cercare di superare quello che era il localismo, e la visione dell’artigiano che lavora tra Anghiari
e Arezzo e che pensa nella provincia di Arezzo, nella regione Toscana, o in qualche Regione limitrofa
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di riuscire a risolvere i suoi problemi, a piazzare i suoi prodotti, perché si trovava in qualche
modo - e ci si trova oggi, lo stiamo toccando con
mano - a competere con i prodotti che arrivano
dalla Cina, dall’India, a costi bassi. Sono situazioni nelle quali non ci possiamo far nulla. La
battuta di portare i sindacati in questi paesi è
una battuta che regge ma non per ora: quando
ce li porteremo avremo condizioni migliori per
gli operai e quindi dei costi superiori per queste
imprese, ma non è ancora questo momento. E le
nostre imprese devono invece superare l’attuale
momento di difficoltà.
Quindi - vi dicevo - deve essere assolutamente
aperto, assolutamente in positivo l’atteggiamento per quanto riguarda questa apertura dei mercati, ma in qualche modo bisogna anche prestare attenzione a quelli che sono i problemi che derivano
da questa apertura dei mercati. Devo dire che tutto sommato le nostre imprese stanno reagendo bene.
A questa globalizzazione si è aggiunta la crisi finanziaria degli anni 2008-2009 che ha fatto capire come,
tra l’altro, un mercato senza regole risponde, o meglio potrebbe tentare di rispondere a certe esigenze, a
certi bisogni, ma indubbiamente non è esaustivo di quei problemi che superano - l’abbiamo già sentito
e lo ripeterò anch’io - il parametro quantitativo, l’indice quantitativo del prodotto interno lordo, perché
ricchezza non è soltanto una ricchezza quantitativa, ma deve essere assolutamente molto di più. E soprattutto il discorso coinvolge in prima persona anche le istituzioni e le autorità pubbliche, perché l’impresa
ha bisogno di giocare in un mercato con le regole, ma ha anche bisogno di un atteggiamento da parte
della politica che sia di aiuto, di servizio, non più di sussistenza come negli anni passati, ma sicuramente di
efficienza burocratica, di iter burocratici e cose di questo genere. Allora ci vuole senz’altro un ripensamento della consapevolezza di un comportamento corretto, di un comportamento socialmente responsabile.
Zamagni - cito solo il marito e non Vera perché è storica dell’economia, mentre Stefano Zamagni invece
è più specializzato sull’economia civile e quindi sui discorsi che questa mattina ci competono - dice che
l’etica è un ripensare i rapporti tra il mercato, lo Stato - ecco perché dicevo le istituzioni - e la società
civile – quest’ultima è un’altra di quelle parole che Zamagni usa oramai da parecchi anni e a proposito
della quale ci fa ascoltare cose estremamente interessanti. Dicevo, la crisi finanziaria degli ultimi due anni,
dalla quale sembra che stiamo uscendo con difficoltà - qualche elemento, qualche indice ce lo dice, poi
qualcun altro qualche giorno dopo ci dà un taglio diverso di questi indici, ma cerchiamo di essere ottimisti
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– stiamo superando questi momenti, ma la crisi ha creato problemi occupazionali, ha imposto tagli alla
spesa pubblica, tagli che ci toccano in modo assolutamente particolare perché in qualche modo generano
precarietà, ci toccano per quanto riguarda il potere d’acquisto e quindi generano difficoltà che abbiamo
anche come consumatori. E come consumatori - attenzione che poi riprenderò un attimo il discorso sul
taglio aziendalistico dell’impresa – sappiamo che il consumatore oggi è un consumatore attento, avvertito,
informato e quindi in qualche modo esige, non è più passivo rispetto all’offerta della produzione e accetta
tutto quello che gli viene in qualche modo propinato. Questo è un impegno in più per l’imprenditore per
comportarsi in maniera diversa, per rispondere meglio a queste esigenze della domanda e quindi anche
a comportarsi in modo etico. Bene, dicevo, sembra che si stia superando questa crisi finanziaria che ha
determinato scossoni a non finire e ci ha anche consentito di capire come l’euforia finanziaria degli anni
passati in realtà era basata su un’economia virtuale, non reale, non concreta, non basata su una produzione della ricchezza effettiva. È stata una crisi della quale - se vogliamo credere ci crediamo, almeno personalmente ci credo - in qualche modo l’Italia ha subito meno gli effetti degli Stati Uniti d’America, della
stessa Inghilterra: l’ha fatto perché a cominciare dal nostro sistema bancario e creditizio l’Italia è riuscita
a tenersi un po’ fuori da crisi finanziarie particolari che hanno coinvolto veramente in maniera impressionante banche appunto americane e inglesi. Avevamo una situazione nella quale i nostri banchieri, da
Profumo in giù - visto che Profumo in questi giorni è sulla bocca di tutti - si sono comportati in maniera
diversa rispetto ad altre situazioni. E allora sia le banche di grandi interessi, come UniCredit o Intesa, e sia,
soprattutto, le Banche di Credito Cooperativo, hanno dato una risposta che non è andata dietro alle facilitazioni che invece si proponevano in tempi passati. Sì, abbiamo avuto la crisi della Cirio, della Parmalat,
indubbiamente, ma ne siamo usciti tutto sommato in maniera meno dolorosa rispetto ad altri.
Terzo aspetto di attualizzazione - al momento assolutamente giusto - Benedetto XVI ci fa conoscere
una Caritas in Veritate - il Presidente Clementi l’ha ricordato - nella quale indubbiamente ritroviamo
non pochi elementi che ci aiutano a capire come si può interrelare il discorso economico con quello del
comportamento etico. Avevo preparato un paio di citazioni: il profitto è utile se in quanto mezzo – ecco la
sottolineatura di un profitto strumento e non fine dell’azione economica – è orientato ad un fine che gli
fornisca un senso tanto sul come produrlo, quanto sul come utilizzarlo, perché poi, una volta avuta questa
produzione della ricchezza, una volta realizzata, si tratta anche di capire come ci comportiamo nella sua
utilizzazione. L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia
di distruggere ricchezza e creare povertà: abbiamo qui addirittura il paradosso che la ricchezza potrebbe
determinare povertà in certe situazioni, che poi si sono effettivamente verificate. Un’altra citazione che
mi preme ricordare è la seguente: l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la
semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve
farsi carico anche e soprattutto la comunità politica: c’è qui il coinvolgimento che dicevo prima, l’attenzione
verso le istituzioni. Bene, a questo riguardo non credo che ci sia un conflitto - a volte si accenna a questo
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- tra l’economia e l’etica. Credo invece che proprio da un’armonia tra questi due elementi possano nascere le condizioni migliori, le situazioni migliori per il bene comune, per il bene di tutti noi. E questo
soprattutto dopo aver compreso come appunto gli egoismi dell’economia capitalistica da una parte, o le
sciagure dell’economia legata ai totalitarismi dall’altra, non hanno consentito di superare alcuni aspetti
di scetticismo rispetto a questo rapporto tra economia ed etica. E invece anche Amartya Sen, premio
Nobel del 1998, ci ricorda come è proprio questa armonia di interessi che può far sì che il mercato si
possa orientare appunto al bene comune. Il mercato è vero, si dice, quando non produce solo ricchezza,
ma anche quando sollecita attese e soprattutto dà risposte in termini di bisogni e di esigenze e quindi di
valori etici. Per concludere questo aspetto dell’Enciclica e di ciò che ci ricorda Benedetto XVI, visto che è
stato già abbondantemente citato, direi che potremmo farlo con uno slogan, e cioè: non buoni affari, ma
affari buoni. Quindi un comportamento che ci porta verso gli aspetti positivi e non appunto negativi di
questo ragionamento.
Ciò detto, c’è un altro aspetto da considerare, non tanto macro, quanto micro. E cioè l’impresa. Bene,
in questo contesto, non semplice e non facile, come si colloca l’impresa? Da alcuni è considerata una
scatola nera. Un’impresa che è una scatola nera nella quale praticamente si persegue soltanto la massimizzazione del profitto. A scuola ci insegnavano negli anni passati - nelle scuole di economia e quindi nelle
università - che lo scopo dell’Homo Oeconomicus era quello di massimizzare il profitto, e ci dicevano che
praticamente questa massimizzazione del profitto poteva avvenire sia attraverso una riduzione dei costi,
sia attraverso un aumento dei prezzi dei prodotti che si producono. Beh, oggi con la mondializzazione
è più facile eventualmente abbassare i costi, non aumentare i prezzi dei prodotti che in genere con la
concorrenza allargata tendono a diminuire. Io, tutto sommato, sono abbastanza positivo anche su questo
versante dell’impresa. Oggi l’impresa si misura anche per i rapporti che intercorrono con gli stakeholders,
quindi con i portatori di interesse che non sono soltanto i clienti o i dipendenti dell’azienda, ma anche i
collaboratori esterni, i fornitori, tutti coloro che in qualche modo si interrelano con l’azienda, e oggi mi
pare che anche l’impresa, per lo meno le imprese più avvedute - poi sentiremo dopo Iacomoni su questo
- siano attente a questi problemi, che sono problemi non soltanto strettamente economici ma anche ambientali. Pensate al discorso dello sviluppo ambientale che in questi ultimi anni, finalmente, è nella consapevolezza e nella coscienza di tutti noi. Fino a qualche anno fa, non tanti, non si facevano valutazioni
di impatto ambientale, non si facevano considerazioni che attenevano alla conservazione del patrimonio
naturale che abbiamo ereditato e che dovremo lasciare. Sembrò negli anni Novanta una grande iniziativa
quella italiana, ma direi comunitaria, europea, di far pagare alle aziende i danni che procuravano, che
producevano attraverso i loro interventi. Guardate, fu senz’altro un fatto positivo: prima vigeva il principio che uno poteva inquinare e nessuno sarebbe intervenuto; stabilire che chi inquina paga è stato già un
momento di evoluzione, anche se non ancora sufficiente, perché in qualche modo legalizzava il principio
del poter inquinare. Poi diventa un costo all’interno del processo dei costi di produzione e così me la
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cavo. Bene, oggi abbiamo preso consapevolezza che il problema naturalmente non può essere più inteso
in questo senso e che quindi si ritorna anche a un concetto di funzione sociale dell’impresa stessa. C’è
quindi l’esigenza di una nuova cultura imprenditoriale nella quale si possa avere effettivamente attenzione
verso i problemi che abbiamo sentito e che in parte anch’io ho potuto illustrare. Bene, oggi l’impresa ha
preso anche consapevolezza di un altro aspetto e, se avesse bisogno ancora di essere convinta, porto un
esempio. Voi ricorderete senz’altro, negli anni ’90-’95, quando venne fuori lo scandalo dell’impiego di
lavoro minorile sotto-remunerato in India e in Pakistan, per fare le famose scarpe della Nike - potremmo
fare cento altri esempi, ma prendo questo perché è sicuramente ricordato. Bene, in quel momento si intervenne per cercare di bloccare questa situazione e pratiche di questo genere, però il titolo azionario della
Nike dall’aprile del ’97, quotato 66 dollari, nell’agosto del 1998, quindi un anno e pochi mesi dopo, era
sceso a 39 dollari. Ovviamente chi mi sente e sa di queste cose potrà dire che ci sono state sicuramente
altre dieci componenti per giustificare una caduta del titolo da 66 dollari a 39. Sono convinto comunque
che anche la reazione dell’opinione pubblica mondiale rispetto a questo problema abbia contribuito a tale
diminuzione di valore. E allora l’impresa deve anche considerare queste difficoltà e capire come, anche in
termini economici, non si tratta di chiacchiere, di belle parole, ma di qualcosa di estremamente concreto.
Un altro esempio: la Professoressa Alford, parlando della Shell, mi ha ricordato la British Petroleum, una
notizia proprio di questi giorni. È tutto vero, è tanto vero quello che ha detto la Professoressa, che queste
aziende ci fanno leggere che sono attentissime, che fanno il Bilancio Sociale, che fanno la certificazione:
poi scopriamo “come” si fanno le certificazioni - la Enron è maestra in questo. Ma voi pensate che sicuramente la British Petroleum non avesse gli stessi poster, gli stessi libretti nei quali vantava - ed eccolo
allora il marketing mediatico, la capacità di convinzione - pensate che non ce l’avesse? Ma si sarà posta
il problema invece di un disastro che sta creando, che ha creato, e sarà l’unico? E sarà l’ultimo? Va beh,
lascio a voi una possibile risposta.
Homo Oeconomicus e Homo Ethicus, una differenza fondamentale nel comportamento dell’azienda. L’uomo economico pensa all’azienda come massimizzazione del profitto e quindi come interesse del tutto
particolare, a volte anche imponendo determinate scelte. Dall’altra parte, l’uomo etico, l’uomo invece
più attento, diciamo così, ai bisogni e ai fabbisogni, un uomo che viene considerato come dotato di intelligenza, e quindi cerca il volere e non il potere, non l’imposizione. E allora viene fuori il discorso del
bambino che riceve i 5 euro. Certo, è molto meglio insegnare al bambino che la cosa si deve fare, questo
è comportamento responsabile, questo è etica, rispetto al fatto di dare comunque i 5 euro, anche perché
altrimenti il giorno dopo il bambino si organizza sindacalmente e ti fa a braccia conserte, te ne chiede 7,
poi 8, poi 10, e ciò naturalmente diventa economicamente molto poco vantaggioso per il padre, o chi per
lui, che deve mettere a posto il giardinetto.
Dalla crisi ho cominciato e alla crisi mi avvio a concludere, tranquillizzando anche il moderatore. Abbiamo capito che la crisi è derivata da una mancanza di responsabilità delle società finanziarie. E cioè da un
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comportamento non responsabile, un comportamento che mirava al profitto e a cose che non ci stanno
più bene una volta che scopriamo che queste cose portano più povertà, generano più povertà che ricchezza. Ed è chiaro quindi che, da questo punto di vista, se siamo ottimisti - e come vi dicevo sono ottimista
- il discorso della crisi deve essere considerato come un acceleratore ideale per una presa di coscienza di
problemi che devono essere affrontati in maniera diversa, senza perdere attenzione – perché altrimenti gli
imprenditori presenti in sala mi guardano male - senza non considerare, o meglio, considerando assolutamente positivo il fatto del profitto, che deve essere però considerato un motore, ma non un fine, come
dicevo poc’anzi. È stato accennato già, e quindi lo tratto soltanto a flash, il discorso del prodotto interno
lordo. Sì, è vero, la misurazione quantitativa della produzione di ricchezza è sicuramente un parametro
che ci consente di metterci in confronto con altri paesi, ma, soprattutto oggi, mi pare abbastanza entrata
nell’opinio communis la necessità di avere anche attenzione verso il lavoro, verso l’occupazione, verso il
benessere, verso la felicità. Quell’io che deve diventare noi, e quindi una interrelazione in qualche modo
non basata sull’egoismo ma sul rapporto con gli altri - io e gli altri. Nella misura in cui considereremo le
cose da questo punto di vista, anche in termini economici, anche come fattore positivo in termini economici, avremo il superamento di queste condizioni e quindi una migliore qualità della vita. Io farei una
domanda in conclusione, visto che poi ai relatori in genere si fanno le domande, ma mi viene spontanea
una domanda al Presidente Sestini e al Direttore Pecorari: la Banca di Credito Cooperativo di Anghiari
e Stia si considera all’interno di questo quadro, che è stato già delineato anche da chi mi ha preceduto e
che, per quanto poco, posso avere anch’io cercato di rappresentare? Io risponderei di sì, ma naturalmente
la risposta la lascio a voi e, come Presidente Onorario di Confcooperative, non potrei dare una risposta se
non di questo tipo evidentemente: l’attenzione al noi, l’attenzione alle interrelazioni con gli altri, ai soci,
ai clienti, in massima parte soci, è un patrimonio comune delle Banche di Credito Cooperativo.
Una parentesi, prima di chiudere: io a lezione ho sempre spiegato che la cooperazione nasce dai Pionieri
di Rochdale del 1840, e lei, Professoressa, mi viene a dire che la cooperazione inglese non è la cooperazione italiana. Certo che nei centocinquanta anni evidentemente i percorsi diversi, in paesi diversi, l’hanno
diversamente caratterizzata, ma quanto è bello richiamare il discorso relativo alla difesa del lavoro e dei
consumatori in quel periodo nel quale ancora le trade union in Inghilterra non erano nate e quindi la
necessità della difesa del consumatore, del lavoratore, dell’operaio, del più debole rispetto ad altri.
Bene, la Banca di Credito Cooperativo, questa di Anghiari e Stia come tutte le altre, devono assolutamente rimanere vicino al cliente, soprattutto in questi momenti, vicino alle famiglie, vicino ai soci con la
S maiuscola in termini generali. Avendo particolare attenzione anche al discorso della territorialità. Non
vorrei che fosse una contraddizione, e con questo chiudo: ho parlato prima di apertura dei mercati internazionali, adesso mi appello invece al discorso della territorialità. Me la cavo con una battuta: “glocal”.
Quindi, attenzione ai problemi relativi alla globalizzazione da una parte, attenzione dall’altra al discorso
dello sviluppo locale. I due non sono anche in questo caso configgenti, ma assolutamente devono trovare
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un’armonia comune. Grazie.
CARRUBBA: Grazie Professor Sediari, grazie per questo messaggio che ci ha trasmesso, non c’è conflitto
tra economia ed etica, bisogna trovare un’armonia tra queste due sfere. Ciò è molto interessante e molto
importante. Molto importante e significativo anche l’accenno, più che un accenno, alla responsabilità delle imprese, che ci permette adesso proprio di sentire un imprenditore. Colgo solo uno spunto, lo inserisco
come elemento per il dibattito di riflessione: lei ha fatto il caso della Nike e delle scarpe fabbricate dai
bambini. Molti di quei bambini, moltissimi di quei bambini che non fanno più le scarpe e i palloni non
sono stati indirizzati alle scuole, ma fanno soprattutto prostituzione, ampiamente sfruttata poi dai turisti
occidentali e anche da un Ministro del Governo francese. Quindi ci sono degli effetti perversi delle nostre
buone intenzioni che noi troppo spesso trascuriamo, e il discorso dell’etica dovrebbe anche raggiungere la
completezza proprio di queste visioni, e su questo naturalmente noi operatori dell’informazione abbiamo
una grande responsabilità. Ma sentiamo adesso l’intervento che
costituisce l’altra gamba del tavolo di questo dibattito, e cioè la
buona impresa. Il Signor Piero Iacomoni - lo conoscete meglio
di me - è un imprenditore particolarmente interessato a questi
aspetti etici, che ha poi sviluppato nella propria azione con la sua
impresa, Monnalisa SpA, e con la Onlus che porta lo stesso nome
alla quale ha dato vita. Prego, signore.
IACOMONI: Grazie Signor Carrubba. Credevo oggi di venire
in questa sede ed essere fuori luogo, perché si parla di una bella
banca in cui io sono piccolo socio e grande debitore: con me non
adoperano il rapporto di Basilea, altrimenti mi fanno rientrare
alle 11 domattina. Io credevo di essere fuori luogo, invece dai
relatori che m’hanno preceduto mi è piaciuto sentire che alla fine
tutto ciò che è stato detto gira intorno a delle aziende, una delle
quali è la mia, e mi piace avere delle idee, delle idee chiare. Io
rappresento una piccola azienda di ottantacinque persone che si è
fatta da sola, io sono il pioniere, sono il fondatore. Mi piace pensare che questa azienda è cresciuta in questo territorio e mi piace
vedere che esporta in cinquantadue paesi.
Il turnover di quest’anno è 36 milioni, ma è in crescita dal 2001,
e preciserò perché ho detto sempre in crescita. È sempre stata in
crescita dal ’68, in piccole quantità ma sempre in crescita. Dal
2001 in particolare, perché nel 2001 era 11 milioni e oggi siamo
arrivati a 36. Credo che questo vada attribuito a qualcosa che
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dopo vorrei dire. Per rispondere al Signor Clementi, che diceva non so se è bene partire dall’impresa o
dall’economia - se l’impresa fa buona l’economia o se l’economia fa buona l’impresa - io credo di non aver
dubbi in merito e dico che un’impresa fa la buona economia. Fa economia, per prima cosa. Poi, se la fa
anche buona, ancora meglio. Credo che sia nell’interesse dell’imprenditore che la buona economia si raggiunga con la buona impresa. Buona inteso come valore. Un’economia che nasce da una pluralità di
aziende che guardano in una direzione. Non posso io proporre delle citazioni come hanno fatto i miei
predecessori, precedenti relatori, su economisti o sul cristianesimo, ma non perché non voglio, proprio
non le so, sicché non rischio neanche. Ma mi sono sentito l’imprenditore preso in causa, portato in causa
in queste cose belle dette dalla Professoressa Alford che ha dato una grande visione teorica. Io sono convinto che la buona azienda, l’azienda che può portare profitti - perché io porto profitti a casa - può basarsi anche su concetti semplici, semplicistici, perché se guadagni va sempre bene. E qui interviene la differenza tra Homo Oeconomicus o Homo Ethicus, che diceva il mio amico Sediari. L’imprenditore è colui che
guarda sì al profitto, ma comprende che il suo valore è dato dai collaboratori, è dato da coloro che lavorano con lui, è dato dal valore che l’imprenditore ha dentro di sé, da tutti coloro che lo aiutano a fare un
certo profitto, ad avere un risultato a fine anno. Noi pubblichiamo il Bilancio Sociale da otto anni, realizziamo l’annuario 2011, il che significa propone novità per gli anni a seguire, non guardare a quello che è
stato nel 2009, che oramai è andato. Credo che sia il futuro che porta un risultato, o per lo meno la volontà di capire qual è la direzione dell’azienda e se per questa direzione riusciamo a camminare insieme
con tutti coloro che danno valore a questa azienda. La teoria, come ho detto, non la so, però so di aver
valore, ho la convinzione che chi lavora con me apporta valore. O per lo meno credo che i quarantadue
anni di azienda Monnalisa - che non ha fatto, non ha goduto di un’ora di cassa integrazione - abbiamo
portato risultati per bontà di tutti. E magari guidati, sì, dal sottoscritto, ma perché ho assieme tutto lo
staff. E questo secondo me porta un risultato grandioso al territorio. Porta un risultato in cui non ho
turnover. Perché lo dico? Perché vuol dire che la gente da me ci sta bene. Mi piace però pensare che se mi
va via un collaboratore, allora io perdo valore, ho qualcosa che mi va via che fa parte di me, perché per
costruire un buon collaboratore non ci vogliono cinque giorni, e nemmeno un anno, e nemmeno due. E
di questo ne sono fiero. Abbiamo tre ristoranti, una biblioteca, le ragazze che fanno il part-time sono il
23% contro l’8 che per legge dovrei, ma ognuno fa il suo dovere, ognuno lavora per se stesso, e poi anche
per me, che guardo al profitto. Io credo che impresa voglia dire un posto dove alla fine si vive una buona
parte della vita, una grande parte della vita. L’assenteismo è pari al 2%, 3% secondo gli ultimi dati. Solo
una persona è andata via quest’anno perché il marito che è nella Polizia s’è trasferito a Catania. Io credo
che ciò voglia dire che qualcuno lavora anche volentieri, che qualcuno può lavorare volentieri. Mia nipote stamani mi ha detto: “nonno, metti il mio orsetto addosso e leva la cravatta da morto, vedrai che ti
porta fortuna”. Io sono ragazzo più di lei, mi va bene che lei mi consideri il nonno, perché voglio fare
anche il nonno. Faccio l’imprenditore, guardo al profitto. Non do aumenti, per dire dei 5 euro al ragazzo
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che taglia l’erba. Non do aumenti, però i miei collaboratori fanno corsi - chi li vuol fare - in tutta Italia.
Oggi mia figlia è alla Bocconi che conclude il corso alle quattro e mezzo, ma come lei altre sedici persone
si sono messe in lista per fare dei corsi di preparazione, di aggiornamento, corsi che portino un po’ di
valore all’azienda. Ogni dipendente parla due lingue alla Monnalisa, è categorico. Anche l’albanese del
magazzino ne parla due lo stesso. Io credo che questo voglia dire avere una visione di quello che è il mercato. Non voglio parlare di crisi – so che questo non è certo un momento di espansione. Ma io non
aspetto, non attendo che la crisi sia finita. È come se ho un ragazzo in casa che usa sostanze: che faccio io,
aspetto che lui stia meglio per ritornare al mare con la famiglia, per fare una scampagnata la domenica?
Aspetto che sia finito il periodo di crisi? No, perdio. Io me lo lotto questo momento, me lo guadagno, lo
voglio vivere il momento, anche se, fra virgolette, non è di sviluppo. E cerco di ottenere qualcosa che
porti utile, non perché la Monnalisa guadagni, ma perché ci stiamo adoperando affinché questo periodo
passi, come tutti gli altri periodi passeranno. E sono convinto che trovare la soluzione a un momento un
po’ particolare voglia dire prepararsi per domani. E non vuol dire essere buoni, non abbiamo fatto nel
2006 la Fondazione Monnalisa Onlus perché sono buono. Quella è filantropia: se mi va lo faccio col mio,
ma non chiedo niente a nessuno. La Fondazione Monnalisa Onlus è una emanazione dell’azienda SpA, è
qualcosa che io ho guadagnato, che io ho voluto rimettere sul territorio come risorsa. Per questo credo che
l’emanazione alla Fondazione Monnalisa Onlus abbia voluto dire che una parte dei profitti sono rientrati
nel territorio. Abbiamo fatto un grande progetto dove lo slogan è Salvare almeno una vita. C’è una cittadella di cinque ettari qui, nella nostra provincia, che ospita ogni anno cinquemilacentodieci bambini che
fanno la pratica con i quad e i motorini e la prova orale con tutti gli istruttori della Polizia, dei
Carabinieri e di tutti quelli che collaborano.
Questa mi sembra la grande vittoria. La collaborazione di un intero territorio che fa una cosa
nuova. La Fondazione Monnalisa è un bel modello di condivisione, ma è questo che vogliamo,
rendere utile quello che si fa. Non per non far la
fine della Shell o della BP, ma io parlo del nostro
territorio. Io credo che bisogna pensare che si
può fare qualcosa, se abbiamo voglia di farlo, se
c’è interesse di farlo. E questo vuol dire buona
economia o buona azienda? Io credo che ci sia
un metro solo: nell’interesse dell’azienda e
nell’interesse del territorio. Se stiamo meglio
tutti, ma non è cattolicesimo, si tratta di quattri32
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ni; se si sta meglio tutti, si sta meglio tutti e per primo l’azienda. Io sono convinto di questo. I problemi
si risolvono dando gli aumenti? No, con 5 euro, ha ragione madame Helen, non ci si fa. Sono convinto
che si capisce qual è realmente il problema. Nella Monnalisa SpA non ci sono i sindacati, ma non sono io
che non li voglio. C’è un comitato etico che stabilisce che cosa fare. Se non va bene un ristorante o ne va
bene un altro, si cambia, ma io più di tre non ne metto, perché se non vi vanno bene quei tre, allora portate la gavetta dietro e mangiate lì, nella mensa. Non è che voglio fare il fenomeno, voglio fare colui che
fa star bene la gente. Vi voglio dire soltanto il fatto della mia governance, che è una cosa bella che sto vivendo in questi periodi nella mia azienda: io ho sessantasei anni, ho stabilito che l’11.01.2011, quindi fra
tre mesi, smetto. E la gente dentro da sé pensa che vada via qualcosa di sicuro, perché fin qui ci sono arrivati con me, con questa direzione, oppure che ci sarà forse qualche cataclisma. Io son convinto che sia
uno dei più bei periodi della mia vita, ma non perché io sarò il cadavere, cioè quello che se ne va, ma per
il fatto che l’imprenditorialità che nasce in questo piccolo mondo che è un’azienda sta dilagando, ognuno
già pensa a come deve fare lui a vivere senza lo Iacomoni. E quindi si allarga il concetto di imprenditorialità, e io credo che sia quello che ci porta lontani. Che non è né la Shell, né la BP, né la Nike. È una cosa
che noi sentiamo, che noi viviamo tutti i giorni, e questo mi sembra non grandioso, di più. È importante
l’evoluzione, la nostra esperienza nell’abbigliamento. Nomi importanti come Lebole, Mimmina, e tanti
altri, sono finiti alla prima generazione. Mi dispiacerebbe. C’è stato un incontro un anno e mezzo fa con
i miei familiari perché un’offerta di un cinese era stata, non grandiosa, tre volte di più. E abbiamo fatto la
nostra prima riunione: che si fa? si vende o si rimane? È andata a finire com’è andata, siamo rimasti. Io
sono convinto che questo voglia dire prendersi delle responsabilità, stare sul mercato, stare con i piedi per
terra, vuol dire essere presenti. E allora accetteremo quel che succede, passeremo questi periodi non di
sviluppo, ma troviamo la soluzione nostra, o per lo meno, cerchiamola, perché se la cerchiamo e la troviamo, abbiamo vinto. Questo è il nostro territorio, questa è la nostra cultura. E sono convinto che sia la cosa
più bella che noi abbiamo da vendere. Grazie.
CARRUBBA: Grazie a Piero Iacomoni. Sono sempre straordinarie queste testimonianze di imprenditoria
che spesso sfuggono alla conoscenza del largo pubblico, ma andando in giro si hanno sempre migliaia
di queste sorprese in Italia. Esse sono la nostra grande ricchezza. E invidio molto chi, come un sistema
creditizio locale, fortemente ancorato al territorio, ha a che fare con queste realtà che sono così espressive
dello spirito imprenditoriale italiano nella sua eccezionalità e anche nella sua eticità, che qui ci è stata
manifestata concretamente e quindi grazie ancora a questa testimonianza.
Bene, ringrazio tutti i nostri relatori perché hanno dato vita a un dibattito molto interessante e soprattutto ci hanno dato molti spunti di riflessione. L’ora, certo, è un po’ tarda, però credo che qualche spunto
potremmo riprenderlo e qualche minuto ci verrà concesso per sentire se da parte vostra ci sono delle
domande, degli interventi.
Io mi permetto di salutare il Vice Sindaco di Anghiari, l’Avvocato La Ferla, che è qui con noi. Forse una
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sua testimonianza sarebbe interessante perché,
anche alla luce di quello che ha detto adesso il
nostro amico imprenditore, il ruolo delle istituzioni civili e della politica è certamente importante in questo discorso che stiamo facendo.
Prego, Avvocato.
LA FERLA: Buongiorno a tutti. Innanzitutto i
saluti del Sindaco che è fuori Anghiari, per cui
con piacere sono qui a rappresentare sia lui che la
Giunta Municipale. Ringrazio la banca, il Credito Cooperativo di Anghiari per l’invito. Pensavo di dovermi limitare a dei saluti, ma dopo
gli interventi a cui ho assistito con attenzione,
credo che un minuto di riflessione sia doverosa.
Sia doverosa non tanto perché io sia un economista o un imprenditore, per cui ne so meno di
lei, Signor Iacomoni, anzi io proprio non so nulla di ciò che riguarda l’impresa e l’economia, ma credo
che il tema di oggi non vada limitato alla buona impresa e alla buona economia, perché introduce dei temi
fondamentali e importanti per una rivalutazione culturale complessiva dei nostri tempi. Cioè, di fatto,
parlando di etica, affermando che l’economia parte dalla filosofia, quindi dalla morale, si parla dell’uomo,
della centralità della persona, della centralità dell’essere umano, dell’essere umano nella sua interezza, che
secondo me oggigiorno deve essere al centro di un percorso fondamentale di recupero, perché la complessità della nostra società ha un po’ perso questo punto di riferimento. È stato molto bello quel ricordo del
mercato di Einaudi, dove fra i tre elementi essenziali ci metteva le istituzioni. Certo, chi amministra ha un
vantaggio, innanzitutto la fortuna di dedicare il suo tempo alla cosa pubblica, alla cosa di tutti, ma in alcuni momenti è anche imprenditore, perché l’amministratore progetta, cerca risorse, fa investimenti, con
una differenza, che non deve fare utile perché l’utile è rappresentato dal portare servizi, opere, quindi dal
dar risposte alla collettività, è quello l’utile dell’amministratore. È però un elemento essenziale anche del
mondo dell’economia, del mondo dell’impresa, dove tutti questi elementi si devono per forza incontrare,
devono collaborare, si devono parlare. E secondo me, si deve recuperare questa figura centrale dell’uomo
e della persona, oggi che, per chi non vive il mondo dell’impresa attivamente, parlare di economia e di
uomo sembra un’antitesi, perché l’economia ha allontanato questa figura e spesso ha allontanato l’interesse della persona, del singolo, per cui l’economia è solo utile, il correre a ottenere più mercati, più spazi.
Perciò è veramente bello che siano una banca e degli imprenditori a promuovere un tema così importante
che è ben lontano da quell’errata - mi rendo conto stamattina - valutazione che spesso noi, che non siamo
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economisti e imprenditori, abbiamo di questo mondo. Gli interventi sono stati veramente interessanti,
tutti, dal primo all’ultimo, perché poi si possono riunire in una logica complessiva che ha riportato a questa valutazione. Non rubo altro tempo, vista l’ora tarda, quindi rinnovo i ringraziamenti e credo che dalla
giornata di oggi si possano prendere gli spunti perché non rimanga una mattinata chiusa e poi si ritorni
alle vecchie regole, ma si inizi veramente a fare nuove valutazioni - lo ripeto - in uno scenario culturale più
ampio, non limitato alle imprese e all’economia, ma a tutta la collettività e alla società. Grazie.
CARRUBBA: Grazie, Avvocato La Ferla. Essendo stato anche io amministratore in un borgo della Lombardia, non posso che condividere lo spirito col quale, come lei ha descritto, ci si avvicina spesso, o ci si
dovrebbe avvicinare più spesso, al governo delle comunità. Quindi grazie per questo ricordo.
Se non ci sono altri interventi, domande o chiarimenti, allora io chiederei ai nostri oratori se vogliono
fare una rapidissima battuta di replica, altrimenti diamo inizio alla parte conclusiva della mattinata e cioè
all’esposizione del Bilancio Sociale della Banca di Anghiari e Stia, che è stata l’occasione per questo incontro così utile e così proficuo, che credo ci abbia arricchito tutti. Dobbiamo essere grati alla Banca perché
ha colto questa opportunità di collegare un momento così importante, come la presentazione del Bilancio
Sociale, a un dibattito sui principi sui quali si dovrebbe basare appunto la redazione di un Bilancio Socia35
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le. Quindi chiedo al Direttore Generale della Banca, il Dottor Fabio Pecorari, di prendere la parola e lo
ringrazio ancora una volta per l’invito che mi ha rivolto, insieme al Presidente, e per questa opportunità
che ci ha dato oggi. Prego, Direttore.
PECORARI: Buongiorno a tutti, ringrazio voi della partecipazione, il moderatore, Dottor Carrubba,
per la sua presenza, e i relatori tutti che hanno fatto veramente degli interventi molto ben tarati e mirati
sull’argomento. Io sarò invece un po’ più portato a descrivervi alcuni contenuti del Bilancio Sociale, ma
molto brevemente, perché poi troverete questo fascicolo all’uscita, nei banchi che sono stati predisposti
in fondo. Lo troverete unitamente ad una brochure dell’Università Angelicum che promuove corsi di
management, per cui mi sembrava doveroso assecondare la Professoressa Alford.
Per quanto riguarda il Bilancio Sociale 2009, dirò soltanto due parole. Rispetto al numero zero dell’anno
2008 che, come ha detto il Presidente Sestini, ci ha visto impegnati in sette incontri presso vari territori
per incontrare i soci più da vicino e per sentire anche un po’ quello che avevano da dire, il Bilancio Sociale
2009 ha alcuni contenuti un po’ più tecnici, qualche numero in più, ma non molti. Parte dall’identità
del Credito Cooperativo e dalle peculiarità della Banca, continua con l’esaminare la strategia, traccia il
contesto che il Professor Clementi nel finale del suo intervento ha dettagliatamente riportato. Ritroverete
infatti i dati anche all’interno del fascicolo perché la Banca è un sistema, fa parte del sistema della rete del
Credito Cooperativo e come tale appunto deve essere riconosciuta. La differenza del modo di approcciare
del Credito Cooperativo, il perché la Banca di Credito Cooperativo sia differente, è scritto nella nostra
Carta dei Valori, dove appunto al primo Articolo si richiama il primato e la centralità della persona: il Credito Cooperativo è un sistema di banche costituite
da persone che lavorano per le persone. Questo assunto della Carta dei Valori rappresenta e sintetizza molto bene il perché stamattina di questo
convegno. La missione della BCC è quella di essere intermediario della fiducia dei cittadini e dei
clienti, dei soci e del mercato locale. Troverete
nel Bilancio Sociale un po’ di storia della Banca
di Credito Cooperativo di Anghiari e Stia, le origini dalle quale proveniamo.
Mi soffermo su alcuni numeri che qui vedete
rappresentati in estrema sintesi, ma che troverete un po’ più dettagliati all’interno del fascicolo: 4.896 soci alla fine del dicembre del 2009;
69 soci nuovi nel corso dell’anno, oltre 100.000
euro erogati nelle attività a favore dei soci e della
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collettività; 15.822 clienti con oltre 350 milioni erogati all’economia in circa 77.000 prodotti
e servizi; 96 dipendenti, 31.000 euro investiti
in formazione nell’anno 2009; oltre 2 milioni
di euro per i fornitori locali che rappresentano
il 70% dei fornitori di cui la Banca si avvale;
abbiamo pagato 982 milioni di imposte, che
è anche questo un riversare nei confronti della collettività, e oltre 40.000 euro per iniziative
socio-culturali. In sintesi questi sono i numeri.
Io non volevo tediarvi oltre, vista l’ora, quindi adesso chiederei al Presidente Sestini se può
gentilmente raggiungerci perché abbiamo preparato un piccolo presente per i nostri ospiti e
quindi volevamo farlo consegnare al Presidente.
Vi chiedo un ulteriore attimo di attenzione, dopodiché passerò la parola al Dottor Carrubba che tirerà
le conclusioni della mattinata. Un attimo di attenzione perché vorremmo finire con uno spot che è stato
pensato ed ideato dalla McCann-Erickson, un’agenzia pubblicitaria che segue il Credito Cooperativo a
livello nazionale e con cui abbiamo avuto modo di relazionarci nel giugno scorso. È un appello contro la
fame nel mondo, che mi sembra che concluda degnamente questa mattinata.
CARRUBBA: Grazie mille Dottor Pecorari per l’opportunità che mi offre e per queste parole che ci ha
detto. Mi invita a concludere, ma questo tema non si conclude, non si conclude perché - come hanno
sottolineato i relatori, tutti e tre i relatori di oggi e il saluto introduttivo del Presidente Clementi - è talmente connaturato con lo sviluppo dell’economia capitalista nella quale tutti noi continuiamo a credere,
che non possiamo ritenere di giungere a dei punti fermi. Quello che emerge ed è anche emerso da quello
che ci è stato detto questa mattina, sia dalle riflessioni teoriche che dalle esperienze pratiche, è che questo
tema può essere calato nella realtà di tutti noi.
E io voglio riprendere una parola che forse mi è sfuggita nel primo intervento di questa mattina, cioè la
parola responsabilità. L’economia di mercato e l’economia libera non è un’economia appunto nella quale
si predica o si pratica, o si dovrebbe praticare, la sopraffazione rispetto agli altri, ma è un’economia che
implica il fatto che ciascuno abbia delle opportunità per poter migliorare e, attraverso il proprio miglioramento, contribuire al miglioramento di tutti. In questo senso certamente l’economia di mercato ha in sé
una sua moralità, e dobbiamo cercare di salvaguardare questa moralità con la nostra azione, con il nostro
impegno, con la nostra responsabilità per l’appunto, che è l’altra faccia della libertà, una faccia alla quale
spesso rinunciamo o che fingiamo di dimenticare, pensando che la libertà sia soltanto arbitrio. Ecco, tutto
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questo implica che questa riflessione non può finire oggi, non può finire oggi e non può finire certamente
con questa crisi: ha detto bene il nostro amico Iacomoni ricordando che la crisi in fondo è un momento
come tanti altri. Noi ci siamo in mezzo, la soffriamo, abbiamo tutti i nostri problemi, capiamo quante
siano le difficoltà, ma pensiamo a quante crisi il mondo ha attraversato: la crisi del ’29 fu certamente
peggiore di questa, eppure se n’è usciti, proprio perché c’è stato l’impegno quotidiano e costante di tante
persone di responsabilità che hanno fatto in modo che il discorso dell’economia potesse riprendere e l’eticità dell’economia potesse manifestarsi.
Quindi credo che sia importante tuttavia che nella società civile maturino questi elementi di riflessione.
Ecco, quello che di buono che ha avuto questa crisi è che ha moltiplicato le opportunità di discussione
su questi temi. E questo è bene, perché, anche se non arriveremo a delle conclusioni condivise da tutti e
definitive per sempre, però certamente il poter ristabilire le opportunità e le occasioni per riaffrontare e
approfondire questi temi - e il fatto che queste opportunità ci vengano offerte da istituzioni finanziarie
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com’è il caso di oggi - dimostra che c’è appunto una
responsabilità maggiore nella società civile. Quindi
questo confronto e questo dibattito sono una manifestazione di vitalità della società civile, che è un valore
per tutti importante, per i laici e per i cattolici, per chi
crede e per chi non crede, perché è il segno del fatto
che una società civile può dare un contributo al bene
di tutti. Quindi dobbiamo essere grati a opportunità
e a momenti come quelli che ci sono stati dati oggi
dalla Banca di Anghiari e di Stia, perché rappresentano un’occasione non per la banca - come ricordava la
Professoressa Alford all’inizio - di mettersi in mostra,
ma per tutti noi di partecipare a un confronto che ci
arricchisce e che ci richiama tutti. Quindi grazie anche
a tutti voi per la partecipazione e per l’attenzione con
la quale ci avete seguito.
PECORARI: Pregherei adesso la regia, se avete un
attimo di pazienza, di mettere in onda il filmato che
volevamo condividere con voi. Grazie.
CARRUBBA: Ringrazio tutti per l’attenzione. Dopo
questo filmato è un po’ difficile invitarvi a prendere
l’aperitivo che è stato preparato qui a fianco, ma c’è un
aperitivo per tutti voi. Grazie di nuovo.
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Si ringraziano:
Comune di Anghiari
Istituto Professionale Statale per i Servizi Alberghieri
e della Ristorazione di Caprese Michelangelo
Studio Delta - Agenzia di Pubblicità
Grafiche Borgo S.r.l.
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