QUADERNI DI PSICOLOGIA GIURIDICA PUBBLICAZIONE DELLO STUDIO DI PSICOLOGIA FORENSE E ASSISTENZA GIUDIZIARIA DI MILANO Via Prina 10, Milano – tel. 02 312926 – fax 02 3451378 DIRETTORE RESPONSABILE: RENATO VOLTOLIN AUT. TRIB. MILANO N. 74 DEL 27/1/1999 QUADERNO N. 1 IL DANNO PSICOLOGICO di Renato Voltolin Introduzione E’ trascorso più di un quinquennio dall’interessante giornata di studio effettuata a Milano sull’argomento in questione, (sia pure passata alquanto in sordina) a cui parteciparono professionisti e studiosi di diverse discipline e che l’Editore Giuffrè pubblicò, con la consueta sollecitudine, nel 19901. Si trattò di un convegno in cui la sensazione fu certamente quella, come disse uno dei relatori (Piero Pajardi) di “essere un po’ pionieri, con tutte le riserve, con tutte le difficoltà ed i rischi del fare i pionieri”, ma che costituì anche indubbiamente una importante momento di incontro interdisciplinare. Esso, nello stesso tempo, offrì l’opportunità di “mettere sul tappeto”, problemi ed esigenze, senza l’esplicitazione dei quali sarebbe stato difficile stabilire le linee e le direzioni di sviluppo di un lavoro di sistematizzazione della complicata e composita questione del danno psicologico. Poiché il mio modesto contributo intende porsi in posizione di continuità con il discorso allora iniziato, sarà proprio da una sintesi dei problemi emersi nel corso dei lavori che cercherò di partire. Rileggendo la pur chiara presentazione del Convegno del prof. Quadrio, appare subito evidente come si stesse allora trattando di un problema che non era ancora stato sufficientemente dibattuto per poterne trarre davvero una fondata opinione, riguardo sia la legittimità che il merito. Pur trattandosi di una definizione sommaria e di un altrettanto provvisoria enunciazione delle problematiche ad essa connesse, molte delle questioni essenziali, rimasero sostanzialmente escluse dalle relazioni. Quadrio toccò molti punti importanti, tra i quali quello essenziale della legittimità o, meglio della “praticabilità” dell’argomento, dato il fatto che il problema del danno psicologico “non era ancora risolto né a livello giuridico e neppure a livello clinico generale”. “Il problema consiste - egli disse - nella possibilità2 (oltre che nell’opportunità) di parlare di un danno che non sia puramente “morale”, e cioè riconducibile unicamente alla sofferenza soggettiva ed al dolore che possono conseguire ad un trauma fisico o psichico e che non sia neppure un danno “organico” e consistente in una menomazione derivante dalla lesione oggettiva di una parte dell’organismo”. 1 Daniela Pajardi (a cura di) “Danno biologico e danno psicologico” Ed. Giuffrè la sottolineatura è mia 2 Quadrio evidenziò altri elementi di rilievo: la derivazione non necessariamente organica delle alterazioni o compromissioni della personalità e quindi la necessità di “modelli eziologici e patogenetici credibili3 anche in assenza di danni organici”; il ruolo fondamentale delle relazioni per lo sviluppo e la strutturazione della personalità; la correlazione (egli parla di continuità diacronica e sincronica) tra aspetti somatici e psichici e fra problemi evolutivi e adulti; la connessione causale tra fattori psicologici e certe patologie somatiche (psicosomatiche); la natura di danno dei così detti “disturbi funzionali”; infine, ma non certo ultima in ordine di importanza, la difficoltà di attribuire una connessione causale tra danno psicologico e evento lesivo, essenziale, aggiungerei, per l’attribuzione e l’imputazione della responsabilità Ma quali e quanti problemi rimasero per così dire “alla corda”! Pensiamo, ad esempio, al concetto di responsabilità: non sempre esso potrà essere riferibile al concetto di “imputabilità” in quanto può non trovare riscontro in nessun tipo di reato. Vi saranno cioè responsabilità chiaramente evidenziabili, ma tuttavia non immediatamente perseguibili dalla legge per carenze normative, e ciò anche nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un danno psicologico rilevante e ad un responsabile altrettanto chiaramente individuabile; basti pensare al danno psicologico subìto da un minore a seguito di una separazione legale tra i coniugi. Il quesito può essere: “va data la priorità al risarcimento del danno o alla esistenza di un atto illecito?” Un soggetto può essere costretto al risarcimento anche se il fatto che ha provocato il danno non è perseguibile come reato? Senza contare che vi sono poi, molti danni psicologici che derivano da “omissioni” piuttosto che da “atti”. Può in tal caso essere chiamato in causa il concetto di “dovere” per il risarcimento del danno psicologico (la diligenza del buon padre di famiglia)? In fondo il reato di omissione di soccorso può essere visto da questa ottica del dovere. Un marito ha il dovere di confessare alla moglie la propria relazione extra coniugale quando rientri nella sua intenzione l’andare a convivere con l’amante? Oppure qualora non lo faccia e persegua il suo progetto segretamente e nel lungo periodo, e la moglie, inconsapevole, gli dedichi ancora amore e fedeltà per anni, può questa alla fine richiedere il risarcimento per il danno psicologico subito, per aver cioè perduto l’opportunità di rifarsi una vita, cosa che le sarebbe stato invece possibile se ella fosse stata al corrente dei fatti ? I genitori hanno il dovere di procrastinare la decisione di una separazione legale, se il loro ragazzo sta attraversando un momento di crisi particolarmente delicato ? Vi è poi la questione della tutela. Vi è poi la questione del danno psicologico provocato da dei genitori che, decisa consensualmente la separazione, hanno concordato tra loro un affidamento del loro bambino in maniera assolutamente non adeguata alle esigenze ed ai bisogni psicologici di quest’ultimo (la decisione, ad esempio, che il bambino abiti con la madre patologicamente depressa o che vada ad abitare con il padre in una età, o in un momento dello sviluppo, in cui la costante presenza della madre è essenziale). Simili comportamenti dannosi e gli effetti corrispondenti, possono rimanere “occulti”, nella misura in cui la separazione dei coniugi in questione avvenga appunto in maniera pienamente consensuale. Vi sarebbero cioè delle situazioni suscettibili di provocare un danno psicologico che potrebbero essere oggetto di 3 idem come sopra 2 intervento giuridico, solo qualora il giudice includesse la perizia psicologica come “prassi” in ogni caso di separazione o di lite tra coniugi con figli minori. Si potrebbe anche pensare ad una figura giuridica nuova, una sorta di “tutore familiare”, quale figura con funzioni temporanee di accertamento della situazione psicologica del minore. Di fatto si tratterebbe di un compito già specifico del Consulente del giudice che verrebbe semplicemente istituzionalizzato. Un altro problema spinoso, anche se di tutt’altra natura, è quello di dover corrispondere alle esigenze della Giustizia. La natura dei problemi psicologici non sempre si presta ad una sistematizzazione tale da poter costituire oggetto di applicazione del Diritto. D’altra parte il rischio di adattare i problemi che riguardano il mentale alle esigenze giudiziarie può portare a situazioni paradossali. Il caso della “capacità di intendere e di volere”, come concetto funzionale alla determinazione della responsabilità e della imputabilità, alla luce delle attuali conoscenze della struttura della mente è addirittura grottesco. E’ esemplificativo il fatto che in una recente perizia promossa dal giudice per stabilire l’esistenza di una eventuale “ infermità mentale” dell’imputato, tre psichiatri indubbiamente “esperti” in criminologia, abbiano dato i seguenti pareri : a) totale infermo di mente, b) semi infermo di mente, 3) pienamente capace di intendere e di volere. Credo che qualsiasi commento al riguardo sia superfluo se non, forse, per la denuncia di un senso di sconcerto, dovuto al fatto che nemmeno situazioni così eclatanti riescono a sollecitare una revisione del concetto in questione. E che dire del danno psichico prodotto dai mass media ? Oggi il problema è di grande attualità ma rischia come sempre, di sciogliersi come neve al sole. Eppure l’introduzione del concetto di danno psichico potrebbe costituire un enorme rivolgimento in tale settore della vita pubblica. La situazione evoca la famosa frase di Freud : “Non sanno che stiamo loro portando la peste” . Essa si adatta al nostro argomento. Riguardo a Freud, sembra che egli si sia così espresso nel corso del viaggio che lo portava in America, invitato a tenere una serie di conferenze sulla psicoanalisi. Egli intendeva dire che gli americani non si rendevano conto di quali sarebbero state le implicazioni della loro apertura verso una scienza che andava ad indagare l’inconscio. Nel nostro caso, forse la Corte di Cassazione non ha ancora avuto modo di constatare a quale complessa e intricata faccenda essa abbia aperto le aule giudiziarie accettando il concetto di “danno psicologico”! Un altro problema deriva dal fatto che mentre nella determinazione del danno fisico è richiesta la possibilità di una “ intersoggettività dei giudizi di fatto”: vale a dire che le prove del danno, le rilevazioni, l’ammontare del risarcimento, debbono poter essere verificati, quantificati, misurati, in modo che ciascuna parte in causa possa confermare o confutare la equità delle valutazioni, per il danno psicologico ciò non sempre è possibile; soprattutto perché non vi è un criterio definito come quello di “danno emergente e lucro cessante” che caratterizza il danno patrimoniale, per cui tutto viene lasciato alla discrezionalità del Giudice. Inoltre, come abbiamo visto, non sempre è possibile correlare il danno con la causa, fatto alquanto sconcertante. Un altro problema ancora riguarda il fatto che il danno spesso non è evidente né immediato ma ipotizzabile come altamente probabile; ciò per il semplice fatto che gli esiti della lesione si manifestano, di regola, molto più in là nel tempo rispetto all’evento o al comportamento dannoso ( gli effetti nel lungo termine del così detto trauma psichico), tranne rari casi (nevrosi di guerra, spaventi ecc). E’ chiaro che l’accertamento del danno dovrebbe fare i conti col problema della prescrizione. 3 Pur con tutte queste riserve è possibile comunque rispondere affermativamente alla domanda iniziale che si faceva Quadrio, sulla possibilità di enucleare il danno psicologico come realtà suscettibile di tutela giuridica. Si tratta di un evento traumatico, non necessariamente un fatto preciso, specifico, come un atto di violenza; ma anche un comportamento più o meno prolungato nel tempo, come una soggezione in dipendenza o un sequestro; oppure, ancora, un atteggiamento, come una disistima nei confronti di un figlio o di un sottoposto, ostentata continuamente e magari data in pasto al pubblico ; o una situazione persistente di ricatto affettivo riguardante rapporti personali significativi di natura intima ; o anche una omissione, come un abbandono o una lontananza; tenendo anche presente la possibilità che l’effetto dannoso può essere subito indirettamente, come ad esempio nel caso di un bambino costretto ad assistere continuamente ai litigi tra i propri genitori. Tutto ciò può produrre un danno “psichico” oggettivo e rilevante, con effetti duraturi ed esiti permanenti.. Inoltre, tale danno può essere imputato, (nel senso di “fatto derivare da”) ad un preciso agente causale anche se si tratta sempre di una corresponsabilità e non di una responsabilità univoca. Il problema della definizione di “danno psicologico” La definizione di danno psicologico è anch’essa certamente tutta da discutere. Quadrio definì il danno psicologico come: “ una compromissione durevole ed obbiettiva che riguarda la personalità individuale nella sua efficienza, nel suo adattamento, nel suo equilibrio; come un danno, quindi, consistente, non effimero né puramente soggettivo, che si crea per effetto di cause molteplici e che, anche in assenza di alterazioni documentabili dell’organismo fisico, riduce in qualche misura le capacità, le potenzialità, la qualità della vita della persona“ . Egli ritenne poi di dover aggiungere che “non è consentito considerare “danni” quelli che possono rivelarsi dei disturbi transitori o, all’opposto, delle stabili caratteristiche di personalità” La prima obiezione che possiamo muovere a questa precisazione, è che essa, se venisse presa in considerazione “alla lettera”, da un lato, negando la natura di danno ai disturbi transitori) ci costringerebbe a mettere fuori campo uno degli elementi fondamentali che entrano in gioco nella questione del danno e cioè quello che ha a che vedere con l’importante concetto di “restitutio in pristinum statum” e che, nel nostro caso, riguarda l’intervento noto come “psicoterapia”; dall’altro, negando agli elementi del carattere (le caratteristiche di personalità) la loro componente acquisita e quindi modificabile nel tempo, verrebbe eliminata, con la loro esclusione, ogni possibilità di tutela del danno psicologico avente effetti strutturali. Poiché tutto ciò non può essere ignoto al prof. Quadrio, si trattò certamente, da parte sua, di una eccessiva fretta definitoria, sollecitata dalle esigenze di sintesi proprie di ogni relazione congressuale. Un tentativo definitorio a fini giudiziari, quando lo spirito e soprattutto le esigenze del Diritto sono di natura estremamente diversa da quelle psicologiche, può essere alquanto prematuro oltre che rischioso. Attualmente dunque, una “definizione” di danno psicologico non preceduta da un esame approfondito del problema, finirebbe per costituire un elemento di chiusura, laddove si è invece aperta la possibilità di una ampio progresso sociale, nel senso della maggiore umanizzazione della Giustizia, così come appare 4 evidente anche nel recente Ordinamento Penitenziario. Peggio ancora potrebbe indurre la giurisprudenza ad orientamenti che contrastano con la effettiva natura dei fatti, così come è avvenuto nel caso della “capacità di intendere e di volere”. Dall’insieme degli interventi del Convegno, si evidenziò inoltre uno stato di cose che sembrò confermare con una puntualità impressionante e per certi versi scoraggiante, un altro fatto che vale la pena segnalare : le richieste conoscitive e collaborative, rivolte alla Psicologia dalle Pubbliche Istituzioni e dalle Organizzazioni Sociali, e persino da coloro che si occupano di branche scientifiche in posizione di interdisciplinarietà con la Psicologia stessa, risultano spesso più avanzate rispetto alle risposte esplicative ed operative che quest’ultima è, al momento, in grado di fornire. Valga come esempio per tutti, l’intervento del prof. Piero Pajardi che parlò della restitutio in pristinum statum, mentre nessun psicologo partecipante al convegno ne fece accenno, nonostante, come ho già detto, sia argomento centrale nella trattazione del problema. Ciò deriva, a mio avviso, dal fatto che la Psicologia si trova curiosamente in una posizione opposta a quella di un tempo, quando erano gli psicologi che faticavano a far accettare le loro scoperte a motivo di un conservatorismo che si opponeva, come una sorta di “zoccolo duro”, e che operava sia a livello delle scienze così dette “accademiche”, che a livello di corrente di opinione (basti pensare alla Psicoanalisi e all’ostracismo scientifico con cui Freud fu continuamente costretto a fare i conti). Oggi le esigenze di applicazione della Psicologia ai vari campi del sociale, impongono aggiornamenti e disponibilità applicative a cui spesso gli psicologi non sono ancora preparati. “C’est dommage”. Soprattutto perché ora, in particolare nel campo giudiziario, tra i giudici, i magistrati, gli avvocati, i legislatori, molti sono coloro che sembrano aver messo da parte pregiudizi e diffidenze, e rivolgersi con una certa fiducia allo psicologo, per avere delucidazioni e orientamenti. Questa situazione può essere scusabile, purché tale stato di cose non si protragga nel tempo al di là del periodo necessario a far mente locale su di un problema che presuppone un modo di vedere le cose assolutamente nuovo ed insolito, anche rispetto alla stesse posizioni metodologiche e concettuali della psicologia. Credo che l’intervento del prof. Sigurtà sia stato, in tal senso, assai significativo: egli ha parlato delle difficoltà inerenti all’argomento, ma non ha affatto accennato ad uno sia pur vago criterio definitorio od operativo; certamente egli era consapevole di quanto impegno si richiede alla Psicologia perché possa essere in grado di fornire un ausilio conoscitivo e un parere di merito alla Giustizia. Con tutto ciò, il fatto che il maggior riguardo e rispetto riservato alla persona umana, abbia finalmente permeato di sé l’intera area giudiziaria, sia per quanto riguarda il momento giudicante, sia per quanto riguarda quello, del resto sempre dibattuto, della somministrazione della pena e della riabilitazione del recluso, non può che essere considerato come una grande opportunità di collaborazione; per cui occorre essere disponibili, come psicologi, alla ricerca, alla riflessione e all’impegno “sul campo”. Anche la pubblica opinione, preme verso questa direzione, essendo diventata sempre più intollerante del progressivo diffondersi della delinquenza adulta e minorile, esasperata dalla violenza alle donne ed ai bambini e sensibilizzata al recupero degli emarginati e dei malati di mente; per cui è 5 impensabile che le domande di intervento e di collaborazione rimangano davvero senza risposta. Pur intendendo, con il mio lavoro, dare un contributo in tal senso, ritengo che una attività peritale capace di chiarire la effettiva natura, sostanza e dimensione del problema e di aiutare davvero il giudice in termini di equità valutativa, non potrà essere tale fino a che la dimestichezza dello psicologo con le esigenze dell’amministrazione della Giustizia e “i modelli eziologici e patogenetici” non diventeranno come dice Quadrio davvero “credibili un assenza di danno organico”. Fino ad allora tutto continuerà comunque a gravare sulle spalle del giudice più di quanto egli possa desiderare. La oggettività del danno psicologico, la sua valutazione, dipendono anche da fattori che non hanno quella natura probatoria richiesta dallo spirito e dalla pratica del Diritto per cui sarà forse richiesto anche un l’aggiornamento dei principi interpretativi (cosa che sta già in parte avvenendo quando ad esempio si è deciso in taluni casi di sgravare il soggetto dall’onere della prova4). Tuttavia è altrettanto chiaro che tale lavoro assume comunque un carattere di urgenza. Vorrei però, in questo clima pessimistico, inserire anche una nota ottimista almeno per quanto riguarda il campo di mia conoscenza che è quello della Psicoanalisi, (ma che credo riguardi anche altre teorie psicologiche). Vale a dire che la conoscenza della mente è oggi molto più avanzata di quanto non appaia nelle aule dei tribunali ed anche di quanto sia noto alla stessa cultura umanistica.. L’indagine psicoanalitica si è spinta molto in là nelle sue ricerche sulla nascita e sullo sviluppo della la vita mentale, fino ad arrivare ad includere la primissima fase di vita neonatale; essa è quindi in grado di evidenziare con una certa precisione le deformazioni, i limiti, i “fraintendimenti relazionali” che rendono precaria la serenità dell’esistenza umana. I limiti ed i dubbi sulla Psicoanalisi riguardano semmai la messa a punto della sua tecnica di intervento clinico, quindi la sua efficacia psicoterapica, non certo la comprensione della mente che rientra invece tra le sue più solide acquisizioni. Tutto ciò dovrebbe poterci confortare e farci sperare che si tratti essenzialmente di “aggiustare il tiro”, dopo essersi opportunamente orientati in un ambiente per noi nuovo. Breve excursus storico dello sviluppo della concezione psicoanalitica della mente. Ritengo opportuno far precedere al lavoro specificatamente centrato sulla definizione e classificazione del danno psicologico, un breve excursus storico sullo sviluppo del pensiero psicoanalitico, allo scopo di mettere in evidenza il tipo di evoluzione che ha permesso appunto, di pensare al danno psicologico come ad un elemento rilevabile e soprattutto imputabile ad uno specifico soggettoagente ( o co-agente), così come avviene della determinazione del danno fisico o patrimoniale. 4 Corte di Appello di Milano 27.4.1984 Pres. De Pasquale, causa Pagnoni spa - Suresini e Maiocchi. Nelle motivazioni della sentenza, che per ragioni di spazio non posso riportare per esteso, ad un certo punto la Corte recita : “...Ne consegue che le apprezzabili violazioni di tale benessere [benessere fisio-psichico dell’individuo] rappresentano una lesione del suo diritto alla salute, come tali risarcibili sulla base della indicata giurisprudenza, anche indipendentemente dalla prova di una vera e propria situazione patologica (la sottolineatura è mia)”. 6 Senza tale conoscenza, sia pure a grandi linee, ritengo sia difficile per l’uomo di Legge rendersi conto della natura e realtà del danno psicologico così come lo intende lo psicologo. In altre parole, per comprendere il perché può essere ragionevolmente attribuita la responsabilità di produrre un danno psichico ad un certo comportamento o atteggiamento, o persino ad una omissione, piuttosto che solo ad un fatto o evento “concretamente” lesivi, occorre avere chiari quali sono i fattori che favoriscono o che possono limitare, deformare o persino distruggere, la sensibilità affettività, la disponibilità relazionale, l’equilibrio psicodinamico di un soggetto al punto da comprometterne (per usare le parole di Quadrio) l’efficienza, le potenzialità e l’adattamento. Vi è poi anche un’altra ragione, del tutto personale, che mi spinge a tale lavoro di “precisazione dei concetti di base”. Cioè la mia convinzione che, al magistrato, troppo spesso le relazioni peritali dello psicologo danno l’impressione o di essere così tecniche da risultare incomprensibili, o di essere così generiche da risultare inutilizzabili nella fattispecie giudiziaria. A tale proposito tutto il discorso che segue non ha altro intento che quello di mostrare la fondatezza della seguente affermazione : La teoria psicoanalitica dello sviluppo psichico è passata da una iniziale concezione biologica ad una successiva e tuttora attuale concezione relazionale. E’ stato proprio tale passaggio che, superando l’annoso conflitto “tra natura e cultura”, che tendeva ad attribuire la responsabilità del danno psichico a entità “impersonali” (appunto eredità o società), ha reso possibile l’introduzione del danno psicologico tra gli effetti pregiudizievoli imputabili a specifici soggetti e quindi suscettibili di regolamentazione giuridica. Per procedere con ordine, possiamo cominciare col dire che lo sviluppo psichico ed i processi di maturazione affettiva e cognitiva, furono in un primo tempo concepiti dalla Psicoanalisi (ma non solo) come essenzialmente condizionati biologicamente, e motivati essenzialmente da esigenze di soddisfazione istintuale, connaturate ad ogni individuo fin dalla nascita. Anche se Freud preferì parlare di “pulsione” piuttosto che di “istinto”, per sottolineare la natura in qualche modo modificabile della prima rispetto alla rigidità del secondo, (tipico invece del regno animale), tuttavia fu chiaro che si trattava di elementi il cui sviluppo era in qualche modo predeterminato geneticamente. Freud considerò ad esempio la pulsione sessuale come un equivalente psichico della fame di cibo e, come questa, caratterizzata da processi di tensionebisogno e distensione-soddisfazione5. Egli ancorò poi ancor più lo sviluppo psichico allo sviluppo fisio-biologico, considerandolo un processo connotato in termini di “progressione lineare” a fasi successive (fasi orale, anale e fallica) le cui difficoltà, dovute essenzialmente a frustrazione ed angoscia, venivano spiegate in termini di fissazione e regressione (ad esempio: fissazione alla figura materna, regressione all’infanzia ecc.). E’ pur vero che Freud pose al centro della conflittualità la relazione triangolare padre-madre-bambino (il così detto “complesso edipico”), ma si trattava di un conflitto “naturale” e non imputabile ai genitori, in quanto regolarmente presente nello sviluppo di ogni individuo. 5 S.Freud : Tre saggi sulla sessualità in “Opere” Vol.4 - Ed Boringhieri. 7 Per quanto riguarda le difficoltà di sviluppo, l’idea era che fosse sufficiente togliere di mezzo gli ostacoli di tipo repressivo, vale a dire le opposizioni familiari e sociali alla soddisfazione pulsionale, perché la mente potesse ricuperare l’energia investita e “fissata” ad esperienze passate “rimosse”, e riprendere così, armoniosamente, lo sviluppo interrotto “come una ghirlanda di fiori si sviluppa naturalmente attorno al suo stelo” (per usare una immagine poetica dello stesso Freud). Certamente l’influenza dei genitori, per il buon esito dello sviluppo, era anche allora rilevante, ma aveva essenzialmente a che fare con la regolamentazione della soddisfazione pulsionale in termini educativi e di adattamento sociale (ritmi dell’allattamento, educazione degli sfinteri, atteggiamento nei confronti della masturbazione, livello di severità nell’educazione ecc.) Questa concezione non era però esclusiva della Psicoanalisi; ma anche di molte tra Psicologie non psicoanalitiche (tranne quelle culturaliste). In tali teorie, come nella iniziale concezione psicoanalitica, il concetto di danno psicologico imputabile ad un soggetto-agente ha poco spazio, dato che lo sviluppo, come ho detto, è condizionato dalla eredità e dalla cultura (leggi :metodi educativi). In breve, la relazione con l’altro non ha, per queste concezioni, una funzione strutturante nei confronti della personalità. A dire il vero, vi fu anche un periodo in cui sembrò che in tutte queste vicende fosse riconosciuta una grande responsabilità materna; ma la tendenza era di considerare le cattive madri come madri malate (la madre schizofrenogenica, la madre gravemente depressa ecc.) piuttosto che come soggetti imputabili dalla Legge. Col trascorrere dei decenni però, tali teorie cominciarono a mostrare tutta la loro provvisorietà. In particolare i metodi educativi adottati in coerenza ai loro dettati si dimostrarono operativamente inefficaci; proprio perché la teoria psicoanalitica sembrava incoraggiare un generico, quanto rinunciatario, “laisser faire”. Così come tali teorie si mostrarono concettualmente insufficienti per comprendere certi tipi di fallimento o catastrofe psicologici. La “liberalizzazione sessuale”, ad esempio, e gli atteggiamenti permissivi degli adulti nei confronti dei loro bambini, non hanno portato a nessun sostanziale vantaggio nel senso di favorire lo sviluppo psicofisico. Le difficoltà sono rimaste quelle di sempre, aggravate semmai da una tendenza alla deresponsabilizzazione da parte dei genitori. I dati emersi dall’osservazione del bambino hanno poi confermato la fondatezza di tali dubbi. Innanzitutto si è scoperto che il soggetto costruisce la sua mente “pezzo per pezzo”, faticosamente, piuttosto che svilupparsi secondo un processo geneticamente preordinato come avviene per la crescita fisica; ma soprattutto ci si è resi conto che tale processo di strutturazione non può avvenire senza l’ausilio di un altro soggetto, in primo luogo, ovviamente, la madre (ma molto presto anche il padre), la cui presenza “funzionale” è direttamente implicata nel processo di strutturazione della mente, dato che questa si fonda essenzialmente sulla interiorizzazione delle figure genitoriali e delle loro funzioni. Un compito genitoriale quindi ben più complesso del semplice “ostacolare” o “favorire” la soddisfazione pulsionale. Inoltre è emerso sempre con maggiore evidenza che la vita psichica si sviluppa a partire dalle esperienze emotive, che costituiscono il motore, la spinta motivazionale per lo sviluppo e per lo stesso desiderio di conoscenza . E’ da esse piuttosto che dalle pulsioni che dipende la vita di relazione del soggetto. Le 8 esperienze emotive però, data la loro iniziale connotazione dolorosa, (attesa, paura della solitudine, angoscia per la natura persecutoria delle prime fantasie infantili ecc.) possono essere accettate ma anche rifuggite, eluse, negate o persino distorte nel loro significato, se il bambino non può contare su di una sollecita presenza materna e paterna o se, peggio ancora, tali figure sono negative. E’ a questo punto evidente, che questa scoperta della essenzialità del rapporto interpersonale per lo sviluppo psico-fisico, in termini di funzione “strutturante”, ha portato in primo piano l’importanza delle relazioni positive per il processo di crescita, così come ha sottolineato gli effetti “catastrofici” delle relazioni negative, vale a dire violente, frustranti, e anaffettive (depressione materna, rifiuto, maltrattamenti, denutrizione, abbandono ecc.). Ecco che allora è comprensibile la ragione per la quale il danno inferto ad una persona travalica i soli effetti dannosi di carattere patrimoniale e morale tradizionalmente considerati, e investe la stessa salute mentale.. Per la natura eccessivamente sintetica e generica delle presenti osservazioni varrà forse la pena di fare qualche riferimento concreto sugli effetti psichici di una cattiva relazione interpersonale. E’ risultato dagli studi sui bambini istituzionalizzati ( Spitz ed altri), che un bambino che abbia sperimentato una situazione di abbandono protrattasi nel tempo, può deperire fino a “lasciarsi” morire. E’ come se il danno psichico provocato dall’abbandono possa essere tale da compromettere irreversibilmente la stessa motivazione alla vita. Un bambino nutrito da una madre depressa od ostile può, in altri casi, creare nel bambino una tale tensione emotiva da indurlo a rinunciare (attraverso la negazione del bisogno) a qualsiasi richiesta e desiderio affettivi. Egli può allora, per esigenze di sopravvivenza, continuare a “considerare” importante la figura della madre; ma esclusivamente per l’apporto concreto di nutrimento che ella è in grado di fornirgli ed a cui egli non può ovviamente rinunciare pena la morte per denutrizione. Ne può risultare, (ed è un caso tutt’altro che raro), un soggetto con un grande, incolmabile bisogno (inconscio) di affetto, a cui egli può cercare surrogatoriamente, di far fronte con una tenace ricerca di acquisizione ed accumulo di beni materiali. Da adulto egli potrebbe diventare un grande accumulatore di ricchezza, senza badare ai mezzi utilizzati (che potrebbero essere fraudolenti): Questa tendenza all’accumulo di beni materiali potrebbe arrivare ad impegnare ogni sua energia psico-fisica; non solo dunque a scapito dei suoi affetti e della sua vita emotiva, ma a danno delle persone che si troveranno a condividere la sua esistenza. In altri casi, il conflitto tra il bisogno affettivo inconscio e i sentimenti ostili ad esso correlati può anche esitare in disturbi alimentari (anoressia, bulimia) , così come è stato descritto efficacemente anche in opere teatrali o cinematografiche ( vedi “La grande abbuffata” di Ferreri) Vi è poi un altro aspetto che contribuisce a rendere psichicamente “destrutturante” o “malstrutturante” nel lungo termine un atto o un evento che sembrerebbe poter esaurire i suoi effetti in un tempo ragionevole. Si tratta del fatto che ogni soggetto include nella propria concezione del mondo una certa quantità di fantasie, di regola negative (per il bambino il mondo di fantasia è inizialmente fortemente persecutorio ed è popolato da maghi e streghe). Vale a dire che ogni evento dannoso non solo è tale per la sua natura negativa, ma per il fatto che può andare a confermare aspettative pessimistiche nei confronti della vita di relazione, e proprio quando il soggetto ha più bisogno di esperienze 9 “bonificatrici”, in grado di esorcizzare l’angoscia e alimentare la capacità di tollerare la sofferenza. Il danno psicologico del bambino e dell’adulto Quanto detto finora, essenzialmente centrato sull’importanza della dimensione relazionale, potrebbe dar luogo a due equivoci : innanzitutto si potrebbe pensare che il danno psichico riguardi solo i soggetti in età evolutiva, in secondo luogo potrebbe far ritenere importante solo il danno psichico derivante da eventi dannosi di natura psicologica piuttosto che concreta, come sarebbe invece un incidente stradale, una operazione chirurgica ecc. Per quanto riguarda la prima osservazione, essa è in parte fondata: quanto più il danno è subìto in età precoce tanto più ha effetti strutturanti sulla personalità della vittima, e tanto più investe le qualità della vita nella sua totalità. Tuttavia non sempre è così, e comunque la correlazione non è così univoca. Vi sono infatti anche nella stessa età evolutiva momenti più critici e momenti meno critici. Se, ad esempio, il danno viene subìto in un momento di relativa stabilità, come ad esempio in età di latenza (dai 6 ai 10 anni circa) esso non è così grave come quando avviene all’inizio della adolescenza, allorquando la situazione psichica è già di per se stessa “critica” e richiede tutte le risorse disponibili per far fronte al rivolgimento strutturale con cui l’adolescente sta facendo i conti. Vi sono inoltre età critiche che appartengono anche alla vita adulta come, ad esempio, la così detta “crisi dell’età di mezzo”. Per comprendere però come il danno possa essere subìto anche dall’adulto occorre introdurre due concetti : quello di regressione e quello di personalità “composita”. I due concetti sono del resto strettamente correlati tra loro. Il primo ha a che vedere con il fatto che la personalità adulta non è caratterizzata da stabilità, ma ha natura di struttura in equilibrio dinamico e tende, di fronte alle difficoltà, a regredire a modalità relazionali o di comportamento tipiche di stadi di sviluppo precedenti. Il secondo concepisce la personalità come costituita da un insieme di parti : parte bambina, parte ragazzo, parte adolescente, parte adulta, parte maschile, parte femminile; parti che non sempre sono tra loro in un rapporto armonico e non sempre hanno, inoltre, una connotazione realistica. Vi sono anche parti che possono essere perverse, schizofreniche, deliranti e di altra natura, anche se per fortuna, queste ultime, in un soggetto “maturo” ( termine preferibile a quello di “normale”) emergono solo nei momenti d’ira, di stress, di esasperazione e comunque sono normalmente mantenute sotto controllo. Ora, anche se un adulto maturo è colui la cui personalità è gestita, dominata, controllata, dalla “parte adulta” della personalità, ciò non impedisce al soggetto di vivere episodicamente situazioni in cui le parti infantili o perverse, riprendono il sopravvento. Quando ad esempio entriamo in rapporto con l’autorità o con un personaggio che si prende cura di noi, di fatto riviviamo una situazione del tipo genitore-bambino, con tutte le connotazioni soggettive ad essa correlate. E’ facilmente comprensibile che se il controllo della parte adulta della personalità è instabile, precario, a motivo di un conflitto latente tra parti antagoniste, e l’equilibrio dinamico è mantenuto con grande dispendio di energia, un grave evento, una violenza subita, o un qualsivoglia altro avvenimento a forte 10 impatto emotivo, può sconvolgere questo precario equilibrio in modo tale da non poter essere facilmente ristabilito nel tempo. L’adulto, sotto l’effetto di una forte emozione, potrà cioè essere sopraffatto da angosce infantili ridiventate attuali. Egli allora tenderà a regredire o “regredirà” alla situazione infantile corrispondente, perdendo così contatto con la realtà esterna e con le esperienze su di essa acquisite. Basti pensare ad una delusione amorosa ( patita ingiustamente) subita da un soggetto che non solo aveva investito sulla relazione ogni suo progetto di vita, ma che da essa aveva tratto la conferma e il conforto di non essere più il bambino incapace che un tempo egli temeva di essere. Oppure a un soggetto defraudato da un socio in affari, senza scrupoli, sul quale egli aveva riposto tutta la sua fiducia, magari superando una fantasia infantile di eccessiva competizione fraterna. In entrambi i casi il danno patito ha a che vedere con lo specifico significato simbolico che assume l’offesa. Ma gli esempi potrebbero essere moltiplicati con facilità per dimostrare quanto sia possibile, in caso di forte stress emotivo, ricadere lunga la china della regressione.. Per quanto riguarda il danno fisico, anch’esso può costituire la causa di danni psichici rilevanti, con effetti che vanno al di là della sofferenza che ci aspetterebbe ragionevolmente provocata all’evento in sé (danno morale), o dalle limitazioni imposte dalla conseguente menomazione fisica. Ciò dipende dal fatto che, come diceva Freud, l’Io è prima di tutto un Io-corporeo; vale a dire che si costituisce a partire dalla consapevolezza del proprio corpo, sia pure in una situazione percettiva non completamente integrata. Fin dal periodo neo-natale, il bambino deve poter contare su di una immagine di sé sufficientemente integra. La struttura corporea con i suoi correlati estetici e di efficienza fisica, partecipa sostanzialmente al livello dell’autostima e della valorizzazione del sé, fino ad influire sullo stesso umore caratteriale (pessimismo-ottimismo ecc.). Inoltre, ad un livello psichico più profondo, contare sulla integrità fisica aiuta ad esorcizzare le fantasie persecutorie vissute come una punizione per le proprie fantasie aggressive inevitabilmente mobilitate da ogni esperienza di frustrazione. Un danno fisico potrebbe anche riattualizzare problematiche “rimosse” di natura ipocondriaca o paranoide. La natura paradossale del danno psicologico, come sto cercando di mostrare, è forse difficile da comprendere dal “non addetto ai lavori”, perché esso può essere non evidentemente corrrelato alla oggettiva gravità dell’evento, ma dipende dal suo significato soggettivo. Una violenza psicologica può avere effetti più deleteri di una grave offesa fisica. Un danno fisico poco rilevante può avere effetti dannosi maggiori di un danno oggettivamente più grave ma con significato simbolico emotivamente indifferente. Tutto ciò, vorrei ribadire, non riguarda esclusivamente soggetti affetti da disturbi mentali ma costituisce il modo di essere di ciascun essere umano. Ciò che distingue una personalità stabile da una più fragile non è tanto la invulnerabilità psicologica, quanto la capacità di riprendersi o di riemergere dalle inevitabili esperienze dolorose che caratterizzano l’esistenza. Inoltre molto dipende dalla natura degli eventi suscettibili di produrre danni psicologici. 11 Un tentativo di categorizzazione Dopo questa serie di osservazioni, che credo abbiamo reso l’idea delle asperità del terreno sul quale ci stiamo muovendo, e dando per accettati e condivisi i criteri che sono alla base della definizione “giuridica” del concetto di “danno psicologico” come sottospecie del danno biologico, tenterò ora di abbozzare una “tipologia” del danno psicologico, non tanto nel senso di una dettagliata classificazione del danno e delle sue possibili cause, quanto allo scopo, ancora preliminare, di definire delle aree tra loro distinte in base a denominatori comuni. Dobbiamo tenere presente che si tratta solo di uno dei tanti modi di “compartimentare” l’argomento allo scopo di procedere a maggiori approfondimenti con un minimo di metodo. Potremmo distinguere tre categorie, ciascuna da suddividere a sua volta in sottocategorie. a) atti, comportamenti o eventi certamente traumatici, ai quali il danno psicologico e la sua entità possono essere imputati senza onere di prova [damnum certum et certum quantum] L’imputazione del danno può avvenire in tali casi, indipendentemente dal fatto che i suoi effetti siano immediatamente constatabili. E’ fuori dubbio, ad esempio, che una violenza carnale perpetrata da un adulto su di un bambino, produce in lui una menomazione psichica, paragonabile ad una sorta di invalidità psichica permanente, indipendentemente da qualsiasi verifica. Certamente potrà essere presa in considerazione tutta una serie di fattori aggravanti o attenuanti l’intensità traumatica dell’evento ; ma non dovrebbe mai essere messa in discussione la realtà del danno psichico. Potremmo definirla come la categoria del danno psicologico “certo”, sia in termini della sua realtà che in termini di gravità; salvo, come ho detto, prendere in considerazione delle attenuanti che non infirmano sostanzialmente la gravità del danno. b) atti, comportamenti o fatti certamente traumatici, ma per i quali l’entità del danno psicologico loro attribuibile è grandemente variabile. [damnum certum, quantum incertum] La gravità del danno dipende da tutta una serie di fattori concomitanti che incidono grandemente sull’aspetto quantitativo. Un sequestro di persona o reiterate vessazioni morali, producono certamente un danno psicologico; ma la sua entità è da stabilire. Un abbandono di un bambino da parte della madre, è certamente traumatico, ma occorre una accurata indagine per accertarne la gravità (durata, figure vicarie ecc.). Ciò che differenzia questa categoria dalla precedente è l’entità del danno dipende “essenzialmente” dalla sua valutazione. 12 c) atti, comportamenti o fatti suscettibili di essere definiti come traumatici o lesivi, ma la cui natura in tal senso deve essere provata, allo stesso modo in cui deve essere provata la esistenza del danno psicologico che travalica quindi il solo danno morale. [damnum incertum et quantum incertum] Possono rientrare in questa categoria anche danni fisici oggettivi che però non è detto che necessariamente abbiano effetti psicologicamente dannosi e, quand’anche fosse, potrebbe trattarsi di danno irrilevante o non imputabile al fatto specifico in questione. Alcuni atti debbono la loro traumaticità all’atteggiamento dell’agente. E’ legittimo e non traumatico un sistema educativo che includa anche delle punizioni, ma una educazione con punizioni sistematiche, comminate ”a freddo”, in un clima di forzata solitudine, ha tutt’altro effetto. Altri atti devono la loro “traumaticità” allo status del soggetto, ma di ciò tratterò più avanti. Ciascuna delle tre categorie può, dicevo, essere a sua volta suddivisa, a seconda che il fatto lesivo sia un atto fisico (incidente colposo, percosse, violenza sessuale ecc.), un atto psicologico (diffamazione, tradimento, ecc.) o una omissione (negazione degli alimenti, il sottrarsi ai doveri coniugali ecc.). Ciascuno di questi atti lesivi può essere costituito da un solo atto o da un comportamento protratto nel tempo, per cui gli effetti di quest’ultimo dipendono dal suo protrarsi. Proseguendo con le categorizzazioni, farò altre distinzioni cercando di verificare se possano essere correlate con le categorie più generali sopra ipotizzate: La causa del danno, l’evento lesivo può essere fisico o psicologico. Il danno diretto o consequenziale : vale a dire correlato direttamente alla lesione o conseguenza di questa (una violenza nel primo caso, le conseguenze di un’azione diffamatoria nel secondo). Il danno può essere diretto o indiretto, nel senso che il danneggiato può essere la vittima stessa o un terzo (quando un bambino è testimone di una violenza inflitta alla madre ). Il danno può essere psicologico o psicosomatico (certe forme di asma, certe sindromi claustrofobiche ecc.) Il danno può essere irreversibile o residuo (vale a dire quello che residua dopo un intervento psicoterapico). Una categoria a parte è certamente costituita dal danno fisico che lede (deturpa) l’immagine del leso. Un’altra categoria a parte riguarda la lesione della immagine pubblica del soggetto dalla quale dipende stima, valutazione morale, considerazione professionale). Un altra categoria riguarda il danno psicologico che consegue il ruolo familiare e sociale. 13 Commento: Appare subito evidente che le tre categorie appena enunciate, non ci sono poi di grande aiuto per il nostro problema. Non sono altro che “contenitori” vuoti che dovrebbero contenere tutta la casistica del danno psicologico, ammesso che vi possa totalmente rientrare. Credo però che procedere in questo senso, cercando cioè di individuare delle caratteriste attorno alle quali “accorpare” tipi di eventi e danni ad essi correlati, vada incontro alla nostra esigenza di por ordine in questo campo così confuso. Del resto tutto ciò rende ancora più evidente, se ce ne fosse stato bisogno, la necessità di privilegiare tre obbiettivi : quello della definizione, quello del rapporto di consequenzialità tra causa ed effetto, quello della quantificazione come condizionata dall’aspetto qualitativo. Un particolare apporto alla definizione qualitativa del danno richiede però di prendere in considerazione la persona del leso piuttosto che solo quella dell’agente responsabile del danno. Una distinzione in funzione del soggetto leso Fino ad ora ho considerato il danno dal punto di vista dell‘agente a cui il danno è imputabile e dal punto di vista del danno patito. Il soggetto imputabile può essere, quasi sempre preso in considerazione a prescindere dal tipo di personalità che lo caratterizza. Non è così per il soggetto leso. Per quanto riguarda quest’ultimo, la situazione è alquanto complessa dato che la quantificazione del danno, e a volte la sua stessa esistenza, dipende, tranne che per quello appartenente alla categoria a), dalla sua personalità che può influire anche in maniera determinante. Forse questo ci permetterà invece una migliore discriminazione all’interno della categoria b). Credo che qui ci troviamo nell’area in cui la Psicologia giudiziaria si gioca tutta la sua credibilità, sia per quanto concerne la definizione dell’evento dannoso, sia per quanto concerne i suoi effetti E’ in questo campo che la Psicologia può contribuire ad una adeguata valutazione e tutela giuridica della persona umana, ma è in questo stesso campo che possono essere dette le più enormi sciocchezze, provocando nel giudice o disorientamento o irritazione, e nel legislatore la rinuncia a regolamentare la questione.. E’ chiaro che l’identico evento dannoso non sortisce gli stessi effetti psicologici. Anche un danno fisico ha effetti diversi a seconda che sia subito da un soggetto sano o già menomato. Basti pensare ad un danno subìto da un invalido all’unico arto sano, o un danno visivo subìto da una persona con visione monoculare. Tuttavia in campo psicologico la situazione è molto più complessa. Il problema è nodale soprattutto per i casi che possono essere collocati nella categoria c), per i quali è in discussione la stessa definizione di evento dannoso. Ma si aggiunge anche la categoria dei danni provocati da atti normalmente leciti. Un atto di per sé lecito o al limite della liceità può causare un danno psicologico in una personalità fragile. Credo che si possano fare diverse osservazioni. Se gli effetti dannosi sono conseguenza di un atto lecito, la responsabilità dipende, credo, dal fatto se la menomazione della vittima era nota oppure no. 14 Vale a dire che io non posso dire che quella che ho dato è stata una semplice amichevole “spintarella”, se sapevo che la persona soffriva di un grande difetto di deambulazione. Se gli effetti dannosi sono invece conseguenza di un atto illecito, io sono comunque responsabile anche se non è certa la parte di danno a me imputabile. Le difficoltà dipendono poi anche da due altri elementi : dalla possibilità che il danno sia simulato e dalla possibilità che il danno sia reale ma venga imputato alla causa sbagliata. Cercherò di fare degli esempi concreti. Un imprenditore licenzia ingiustamente un suo dipendente : questi si deprime, si chiude in casa, non vuole più vedere nessuno, e un brutto giorno arriva a tentare il suicidio, mentre la di lui moglie chiede, esasperata, la separazione legale. Egli ha diritto in questo caso al risarcimento del danno psicologico? La risposta può dipendere da come si sono svolti i fatti. Se il soggetto si è depresso dopo un anno di affannose ricerche di lavoro, con rifiuti dovuti magari al fatto che si tratta di un soggetto di mezza età, e se la moglie si è separata da lui insofferente dello stato di indigenza che lei ha continuato ad imputare al marito, credo che il danno sia risarcibile. Se il soggetto, dopo il licenziamento si è invece subito chiuso in sé stesso, senza aver fatto alcun tentativo di reagire alla sua situazione, forse il danno non è risarcibile; ma forse lo è comunque se il datore di lavoro era al corrente del suo precario equilibrio mentale. Potrebbe anche darsi che il nostro soggetto abbia non solo trovato subito un altro posto di lavoro ma di migliore qualità del precedente. Inoltre occorrerà in ogni caso di danno verificare l’eventuale esistenza di concause. Certamente rimangono escluse anche altre categorie a cui vale la pena di accennare. Un’altra categoria è ad esempio quella che potremmo definire del “gruppo leso” ; vale a dire che i danni psicologici non solo possono essere subìti da un solo soggetto, ma anche da più soggetti contemporaneamente, con la stessa intensità o con intensità differente. Vale a dire che i soggetti lesi potrebbero essere: dei fratelli, una coppia di coniugi, una famiglia. Potremmo arrivare anche ad un gruppo più vasto qualora, ad esempio, una équipe di lavoro venisse ingiustamente screditata agli occhi dell’opinione pubblica o agli occhi dei rispettivi familiari. Può verificarsi anche la situazione opposta: che l’agente provocatore del danno non sia un singolo ma un Ente o una Organizzazione. Non è difficile scorgere in questo caso, un chiaro riferimento al danno provocato da una campagna di stampa ; oppure, al danno provocato dalla stessa Giustizia, nel caso di condanna di un innocente successivamente riconosciuto come tale; laddove oggi si parlava solo di danno patrimoniale e morale. Anche se in questo caso non ho chiaro se il risarcimento sia sempre dovuto dalla Stato o se, in caso di negligenza, possa essere anche dovuto dal Giudice. Vi sono anche conseguenze fisiche che sono da considerarsi di per se stesse, come danno psicologico: mi riferisco non solo alle malattie psicosomatiche di cui ho già parlato, ma a malattie fisiche vere e proprie, ad esempio gli esiti di un infarto cardiaco causato da un trauma psichico o fisico. Tutto quanto detto finora non ha ancora toccato quello che a mio avviso è il problema nodale : quello della quantificazione. Abbiamo parlato infatti del danno, in termini di danno esistente o inesistente, grave, meno grave, irrilevante, duraturo, temporaneo, residuo, certo e ipotetico, ma questo non ha ancora risolto il problema della quantificazione. 15 Occorre trovare un criterio che tenga in considerazione entrambi gli aspetti : quello qualitativo e quello quantitativo. Tale criterio è, a mio avviso, quello che ho definito in termini di “qualificazione funzionale del danno psicologico”. Spiegherò ora il senso di quanto ho appena detto. L’enunciato che ora mi accingo a spiegare è il seguente : Qualità e quantità del danno possono essere prese in considerazione se fatte confluire in un concetto ponte che è quello della “qualificazione funzionale”. Il problema della qualificazione funzionale del danno psicologico come mezzo per uscire dalla contrapposizione quantitativo-qualitativo. Quando parlo di “qualificazione funzionale” del danno intendo riferirmi alla definizione di una tipologia che parte dalla idea che si possano differenziare diversi tipi di danno in termini di pregiudizio funzionale. Tale impostazione si basa su una concezione che considera l’uomo come un soggetto che, per potersi sviluppare adeguatamente deve poterlo fare in diverse direzioni o meglio in diverse aree. La preclusione o la limitazione di qualcuna di queste aree, dovuta ad una qualche lesione o danno subito dalla struttura della sua personalità comporta uno stato di sofferenza che può perdurare nel tempo. L’esempio più esplicativo potrebbe derivare dal paragonare le funzioni di personalità a quelle correlate con lo stato di libertà. Se queste vengono meno a seguito di una condanna penale, la carcerazione di un soggetto produrrà in lui uno stato di sofferenza che perdurerà o si intensificherà nel tempo (a seconda del bisogno e del desiderio del momento) e che può essere considerato come correlato alle aree di sviluppo e di realizzazione di sé che gli sono precluse. Se tale individuo fosse poi posto in isolamento, senza giornali da leggere, senza la possibilità di ricevere visite, senza la possibilità di comunicare e parlare, il danno che la sua personalità subirebbe sarebbe estremamente rilevante. Tale sofferenza non potrà cessare se non riacquistando la libertà; il danno dovuto alla carcerazione sarà qualificabile come disfunzionale, e la sua quantificazione dipenderà dalla verifica delle aree che gli sono in parte o in tutto precluse. Un altro esempio potrebbe essere quello (in effetti accaduto) di due genitori che hanno abbandonato il figlio neonato nella foresta poi allevato dagli animali. Come è già stato constatato la mente di questo soggetto verrà danneggiata gravemente, forse anche irreversibilmente, essendogli stata preclusa ogni area di sviluppo relazionale. Potremmo pensare di costruire una sorta di tipologia del danno che non ha nulla a che vedere con il concetto disturbo psichico così come è utilizzato nella clinica. Anzi, la nosografia psichiatrica non ci è di alcuna utilità. E’ impossibile infatti stabilire un rapporto di causa-effetto, tra un evento o un fatto traumatico e una specifica malattia psichica, per il semplice fatto che il problema della così detta “scelta della malattia” non è ancor oggi risolto e probabilmente non lo sarà mai, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare.In due soggetti che sono vissuti nelle stesse condizioni ambientali e sono stati allevati, nel caso si tratti ad esempio di fratelli, dagli stessi genitori, un evento dannoso può provocare nell’uno una reazione isterica o una depressione, nell’altro un attacco schizofrenico acuto, o anche nulla di tutto ciò. A questo punto mi sembra sia venuto il momento di definire queste aree di funzionalità psichica, a cui ho fatto accenno, rispetto alle quali possa essere 16 valutato il deficit qualitativo subìto dal soggetto leso, procedendo poi alla sua quantificazione. Le aree di funzionalità psichica Siamo giunti al paragrafo chiave per l’argomento che ci interessa. Quello che sto cercando di esporre è un criterio qualitativo-quantitativo che si fondi su parametri che possano essere osservabili e valutabili senza necessariamente dover utilizzare complesse teorizzazioni Si tratta di enucleare delle aree di attività o di vita di relazione, all’interno delle quali sia possibile valutare le variazioni funzionali della personalità e definire tali variazioni in termini di danno psicologico. Si tratta di aree di funzionalità che dovrebbero essere valutate riferendosi rispettivamente al periodo antecedente e conseguente l’evento supposto dannoso. Le aree da me individuate sono le seguenti: Area Area Area Area Area Area Area Area Area della della della della della della della della della attività lavorativa creatività attività scolastica vita di relazione affettività sessualità aggressività socializzazione e dell’adattamento tolleranza della frustrazione Area della attività lavorativa Si tratta certo di un’area importante per ciascuno di noi; ma non solo per il fatto che riguarda la fonte di sussistenza da cui dipende quindi il nostro tenore di vita; ma anche per il fatto che il lavoro ha un significato simbolico sia in sé, sia per la posizione sociale e quindi all’interno del gruppo di appartenenza, che esso ci consente. I rapporti di lavoro non hanno natura “intima”, essi appartengono a quella categoria di rapporti che possono essere definiti “contrattuali” e che hanno a che vedere più con l’adattamento sociale che con la vita affettiva. Tuttavia, spesso l’attività lavorativa assume valore compensatorio per cui da essa può dipendere l’equilibrio emotivo di un soggetto. Questo potrebbe indurre a sostenere che il danno psicologico subìto a seguito di una limitazione in questo campo non è oggettivo ma è in gran parte dovuta all’investimento soggettivo che ad esso attribuito, e quindi è certa solo la sua natura patrimoniale. Certamente; un soggetto equilibrato non dovrebbe essere psicologicamente danneggiato in modo eccessivo dalle vicissitudini lavorative; tuttavia occorre anche tenere presente che la Società spinge invece proprio in questa direzione e spesso condanna colui che non ha un lavoro ad una sorta di ostracismo sociale, così come elargisce stima e rispetto a chi ottiene successo professionale. Il danno psicologico che riguarda la capacità del soggetto a svolgere la sua normale attività lavorativa può assumere diverse manifestazioni: incapacità a 17 concentrarsi; confusione mentale che non permette di assolvere le mansioni lavorative; senso di oppressione che costringe ad abbandonare il lavoro; senso di depressione che spinge il soggetto a “rintanarsi in casa” per timore delle critiche dei colleghi; o infine anche mutamenti dell’umore, irascibilità ecc. Area della attività creativa (livello di progettualità) Non si tratta ovviamente della creatività che si riferisce all’arte e all’artista. La personalità adulta è però caratterizzata dal fatto che tende a porsi delle finalità, degli obbiettivi; la sua tonalità emotiva è sempre caratterizzata da un senso di aspirazione anche se il soggetto può essere contento di quello che possiede e della situazione in cui si trova. In tal senso la personalità matura è creativa, tanto più che attraverso la realizzazione di una famiglia, si propone di dare continuità, in senso progressivo alla storia della sua generazione. E’ chiaro che questo atteggiamento può essere intaccato dalla delusione, dalla sfiducia, e dalla disperazione : l’ottimismo o meglio la capacità di superare i momenti di scoraggiamento, si può tramutare in depressione, pessimismo, passività. Spesso un cambiamento di tal genere viene imputato al carattere fragile, nevrotico, mentre è proprio la personalità matura che risente maggiormente delle delusioni provocate dalle esigenze dell’adattamento sociale, più facile da accettare dal soggetto nevrotico che da quello maturo (le strutture sociali difendono i soggetti dalle nevrosi da esse stesse provocate). La Società è generalmente cinica e sostiene spesso le caratteristiche “furbesche” o “fraudolente “ dei soggetti, a patto che riescano a mantenerle nascoste tra le pieghe del conservatorismo. A volte si tende persino a non ritenere imputabile una situazione che può aver danneggiato un tale tipo di persona, sostenendo che quest’ultima ha peccato di ingenuità mentre avrebbe potuto realisticamente aspettarsi ciò che le è accaduto. Si tratta forse di una area di attività nella quale i limiti e le preclusioni soggettive non sono di regola considerati come danni psicologici, ma che possono invece essere dimostrati tali. Area dell’attività scolastica (nel caso di minori o studenti) E’ una delle aree che più risentono dei danni psicologici patiti dal minore. I risultati scolastici positivi (si badi bene: non quelli “eccezionali”) sono spesso indice di un buon rapporto tra genitori e figli. Per converso, un così detto “disturbo dell’apprendimento” può essere dovuto ad una crisi di crescenza (specie in adolescenza), ma può anche essere indice di un danno psicologico. Svogliatezza, assenteismo, incapacità di studiare, tendenza a ritirarsi dallo studio e chiudersi in casa, accuse mosse ripetutamente ai genitori e persino la stessa tossicodipendenza, suggeriscono una approfondita indagine non solo riguardo alla esistenza di carenze affettive, ma riguardo all’esistenza di vere e proprie responsabilità genitoriali. 18 Area della vita di relazione (livello di solitudine) Qui siamo nell’area vitale per lo sviluppo e la realizzazione del soggetto, sia esso in età evolutiva o adulto (vedi il paragrafo precedente sul danno subìto dall’adulto). La vita non può essere affrontata in solitudine senza che il pericolo di “scompenso” (come dicono gli psichiatri) sia sempre incombente. Pertanto questa è l’area che maggiormente è suscettibile di essere danneggiata e quindi di causare un danno al soggetto. Un evento che spinga il soggetto ad isolarsi o a chiudersi in se stesso è responsabile di un danno molto grave perché ha nel soggetto esiti preclusivi pressoché in tutte le altre aree di attività e di relazione. Area della affettività Può essere considerata come una sotto-area dell’area precedente e certamente la più importante. Può essere danneggiata in due modi diversi, con conseguenze altrettanto diverse. Il soggetto può diventare anaffettivo, indifferente, oppure può reagire aggressivamente fino ad assumere atteggiamenti delinquenziali. E’ chiaro che nel secondo caso il danno psicologico ha anche conseguenze sociali. Area della sessualità Può essere considerata la seconda sotto-area dell’area della vita di relazione. E’ considerata una delle aree essenziali : la perdita o la inibizione della capacità sessuale è ritenuta estremamente importante perché la sessualità è una componente essenziale del rapporto intimo. Inoltre essa intacca la stima di sé e induce un senso di inferiorità (impotenza). Molti fraintendimenti sono comunque collegati alla funzione ed al significato della sessualità. Si dà più peso alla impotenza che non alla incapacità di provare sentimenti e di nutrire affetti. Questo è paradossale perché mentre la sessualità crea problemi quasi esclusivamente all’interno della vita intima, la limitazione o l’inibizione della affettività investe l’intera vita del soggetto. Il valore attribuito alla sessualità è dovuto alla opera di strumentalizzazione della sessualità da parte della nostra Società che la sfrutta per ogni scopo, sia lecito che illecito. E’ chiaro che comunque sessualità e affettività sono sempre in un rapporto di reciproco influenzamento. La valutazione di un danno alla funzione sessuale è alquanto complessa e delicata. Basti pensare ad un danno sessuale che venisse lamentato da una prostituta o da una pornostar. E se la richiesta di danno venisse lamentata da un soggetto coniugato danneggiato nel corso di un rapporto sessuale con una prostituta? Si tratta di una area estremamente problematica che potrebbe far emergere situazioni alquanto grottesche. Quale è poi, in termini pratici la prova di una inibizione sessuale ? Quanto può trattarsi invece di simulazione ? Vi è inoltre un problema molto serio e di grande attualità, quello riferito alle infezioni dovute all’AIDS. 19 La sessualità viene disturbata in diversi modi : o con l’impotenza o la frigidità, o con la coazione alla promiscuità o con la perversione. Chi si trovi in questa situazione è destinato ad assommare a sofferenze individuali, problemi di ordine sociale. Area della aggressività E’ un’area complessa che ha dato luogo a interminabili discussioni riguardo al fatto se l’aggressività sia essenzialmente un istinto innato o se sia causata da esperienze di frustrazione. La sua valutazione va rovesciata rispetto alle altre aree ; vale a dire che un aumento dell’aggressività è indice di un danno psicologico intollerabile. Tutta l’area della delinquenza minorile credo permetta di sostenere la grande responsabilità, a tale riguardo, delle figure educative (non dell’Educazione in senso astratto) . Oggi siamo in grado di ricondurre l’area nella sfera delle responsabilità, togliendola da quella (come ho già detto) della responsabilità impersonale (la Società, l’educazione ecc.). La responsabilità (oltre ovviamente all’azione diretta) è in gran parte ravvisabile nella omissione, nella non presa in carico del problema quando ancora esso non è degenerato da atteggiamento aggressivo a vera e propria violenza. Troppo spesso il minore assolto dalla imputazione di reato perché in età “non punibile”, viene poi lasciato a se stesso. Un soggetto può dunque essere “diventato” violento, delinquente o psicopatico; quindi a seguito di un danno psicologico.. Anche la tossicodipendenza è spesso connotabile in termini di aggressività. Area della socializzazione e dell’adattamento (livello di isolamento) Può sembrare che si sovrapponga all’area della vita di relazione ma non è così. Il danno alla capacità di socializzare può non dipendere da vicissitudini relazionali (in caso di incidente colposo, malattia contratta ecc.) e può, al contrario, essere compensata da una vita di relazione armonica. Spesso può derivare da intolleranza dovuta ad un narcisismo congenito ; in tal caso occorre distinguere le cause oggettive dalle componenti costituzionali. Il danno in quest’area é meno definitivo del danno che investe la vita di relazione, in quanto il soggetto che si isola dal gruppo, non necessariamente si ritrae dalle relazioni intime. Area della frustrazione e del disadattamento Forti delusioni, fiducia mal riposta, inganni subiti, sono tutte cause che possono danneggiare la tolleranza alla frustrazione e alla sofferenza. Una intolleranza può anche essere, come ho già detto, costituzionale ; ma spesso può dipendere da lunghi periodi passati in segregazione (istituzionalizzazione) o in una famiglia il cui capo-famiglia era tirannico e repressivo. L’intolleranza alla frustrazione, quando questa sia sentita come ingiusta, può condurre a comportamenti asociali o alla costituzione di rapporti relazionali 20 sado-masochisti. Ad un evento dopo l’accadimento del quale sia diminuita la tolleranza alla frustrazione del soggetto, può essere imputato di aver prodotto un danno psicologico Dopo questa sommaria descrizione credo che il mio punto di vista possa trarre una certa base di giustificazione. Se, come si evince dalla giurisprudenza, la salute psicofisica ha diritto di tutela in conformità al dettato della Costituzione (art.32) ; e se la salute psichica riguarda le capacità funzionali correlate a fattori come serenità familiare, rapporti affettivi e sessuali, realizzazione della vita di relazione familiare e sociale, il danno dovrebbe allora essere valutato e quantificato in funzione di pregiudizi costituiti da limitazioni delle funzioni che rendono agibili tali aree. Le domande alle quali il giudice dovrebbe poter dare risposta potrebbero essere a mio avviso del tipo : 1 - Tale fatto ha leso le funzioni psicologiche del soggetto rispetto a tali aree della sua vita, all’interno delle quali la realizzazione di sé è un diritto e la cui limitazione deriva da un danno alla salute ? 2 - Quale era la posizione funzionale del soggetto in tali aree prima dell’evento dannoso ? 3 - Vi è un rapporto di causalità tra limitazione constatata ed evento ritenuto dannoso ? 4 - E’ possibile una piena reintegrazione o ripristino delle funzioni menomate ? 5 - Come può essere valutata quantitativamente la menomazione ? La qualità e la quantità delle preclusioni subite dal soggetto all’interno di tali aree, costituisce l’argomento che dovrebbe essere approfondito e che non rientra però nell’obbiettivo di questo lavoro, costituendone semmai il seguito. Tuttavia dirò qualcosa in proposito. Innanzitutto ogni limitazione funzionale è accompagnata da sofferenza e quindi da un clima affettivo che va a caratterizzare l’umore del soggetto oltre che le sue motivazioni esistenziali. La natura dei sentimenti e delle emozioni che accompagnano le limitazioni funzionali è indice del livello di sofferenza che va tenuto in debito conto nella valutazione del danno. E’ evidente che una violenza sessuale che oltre a produrre frigidità sia accompagnata da indifferenza, è meno grave di una violenza che crei uno stato di paura così intensa da indurre la vittima a chiudersi in casa ed a rifiutare ogni contatto umano. Inoltre le limitazioni possono riguardare essenzialmente un’area ma essere anche inibitorie rispetto ad altre aree. Ogni area può dar luogo a delle difficoltà esistenziali differenti. L’abbandono del posto di lavoro può, in un soggetto senza risorse e senza rapporti, mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Credo insomma che tale impostazione metodologica possa essere di una qualche utilità 21 Conclusioni Mi accorgo, al momento di trarre delle conclusioni, che quello che io ritenevo potesse essere un saggio, una trattazione, si configura come nient’altro che un capitolo introduttivo. Dopo l’aver trattato i problemi della legittimità e quelli inerenti all’aspetto definitorio; dopo aver presentato tutta una serie di osservazioni che potrebbero far luce sulla fatto che le peculiarità dell’argomento investono anche il tradizionale modo di valutare la realtà; dopo aver sottolineato la necessità di una convergenza tra i “modi” della psicologia e quelli della Giustizia; dopo aver iniziato un lavoro di classificazione e di categorizzazione che dovrebbe dar luogo ad una ordinata casistica dei danni psicologici; sono giunto alla fine di fronte a quello che è lo scoglio ultimo da superare: quello della quantificazione. Ho a questo punto presentato una ipotesi di lavoro che considero una utile base di partenza per procedere nella direzione di una quantificazione su base qualitativa del danno psicologico. Questa può essere effettuata ricorrendo al concetto di qualificazione funzionale del danno psicologico. Tale ipotesi si fonda sull’idea che la salute psichica dipende dalla possibilità del soggetto di realizzare se stesso sviluppandosi nelle aree di attività e di relazione che costituiscono il nutrimento della sua mente e la fonte di soddisfacimento dei suoi bisogni emozionali. Il livello di sofferenza conseguente alle limitazioni funzionali è utilizzabile per la quantificazione del danno psicologico La parte sostanziale e analitica del lavoro è ancora tutta da fare; ma ritengo che dovrà svolgersi nella direzione delle aree di attività e di vita di relazione da me considerate. Occorre subito dire che non sarà mai possibile arrivare ad una vera e propria standardizzazione dei vari tipi di danno, se non riguardo ai parametri che devono essere tenuti presenti nella valutazione del medesimo. Oltre al parametro costituito dal riferimento alle aree sumenzionate, un secondo parametro sarà costituito dalla personalità del soggetto leso, soprattutto secondo due fattori: a) il fattore età che servirà a stabilire se il danno è riferibile a delle limitazioni funzionali (nel senso precisato) o se investe anche le stesse possibilità di sviluppo; b) il fattore stabilità della struttura mentale per stabilire se un evento lievemente dannoso possa invece avere avuto effetti tali da compromettere una personalità già in equilibrio precario. Un terzo parametro, sarà quello del costo per il “restitutio in pristinum statum” Ritengo comunque che sia già possibile indicare una serie di temi da trattare a partire da questa base di riferimento. Mi limiterò a fornirne un elenco puramente esemplificativo. Del resto tali eventi costituiranno il contenuto dei singoli saggi che intendo far seguire al presente: Danno psicologico da violazione della privacy. Si tratta essenzialmente del danno provocato dalla stampa, vale a dire a seguito delle intrusione del giornalista nella vita intima del soggetto e della diffusione di notizie di cui dovrebbe essere garantita la segretezza. Danno psicologico subito dalla donna a seguito violenza Sostanzialmente si pensa allo stupro e ai maltrattamenti; ma la questione è alquanto più complessa, 22 perché sotto tale voce si configurano situazioni che non hanno finora trovato adeguata tutela giuridica, ma che potrebbero trovarla a seguito di una più aggiornata rubricazione delle situazioni. Basti pensare ad un uomo che impedisca alla moglie di andare a votare; o che la ricatti affettivamente per dissuaderla dal trovarsi un lavoro o di svolgere una attività ecc. Danno psicologico subito dal minore a seguito violenza E’ superfluo citare il danno da pedofilia o da partecipazione pornografica, data la grande attualità di tali temi. Tuttavia occorre tenere presente le opposizioni alla istruzione scolastica, all’accesso al gruppo dei coetanei (per citarne solo alcuni) Si potrebbe anche parlare di danno a seguito pubblicità, quando si influenza il ragazzo nel senso dell’induzione ad un acquisto di un prodotto senza il possesso del quale egli viene fatto sentire come emarginato dal mondo adolescenziale; oppure di prodotti di gioco o di pseudo-cultura che esasperano il conflitto intergenerazionale adulto-adolescente. O ancora si potrebbe considerare il danno provocato ai bambini utilizzati negli inserti televisivi pubblicitari che può produrre in loro atteggiamenti narcisistici e maniacali chiaramente lesivi per lo sviluppo psichico. Danno psicologico da licenziamento senza giusta causa Ne ho fatto accenno anche nelle pagine precedenti; è chiara la importanza di tale elemento per gli effetti individuali e sull’assetto familiare Danno psicologico da carenze di una funzione genitoriale in regime di separazione Questo danno è forse quello più strettamente connesso con la possibilità di una “restitutio in pristinum statum”; ritenendo la riassunzione delle responsabilità genitoriali come essenziale onde evitare un deterioramento della situazione, il cui esito potrebbe essere davvero quello di un danno psicologico irreversibile. Questi alcuni dei temi che confermano come non si possa prescindere dalla specificità dei singoli argomenti. E’ chiaro poi, che il Diritto di famiglia, in particolare, è destinato a trovarsi certamente nell’occhio del ciclone riguardo al tema del danno psicologico; ma non potrebbe essere altrimenti data la decisa attenzione che finalmente viene riservata al nucleo familiare anche dalle Istituzioni che, evidentemente pressate come sono sia dall’opinione pubblica, sia dalla indubitabile recrudescenza dei reati intrafamiliari, sono costrette a constatare che l’infanzia e in particolare l’adolescenza sono il “crogiuolo delle future generazioni”, così come la famiglia è il nucleo operativo di base della strutturazione dell’identità individuale. Il presente lavoro quindi è solo introduttivo; mi auguro che obiezioni, critiche e suggerimenti mi permettano di proseguirlo utilmente. 23