STAGIONE 2015 2016
AMLETO
di William Shakespeare
Libretto di sala a cura di Claudia Braida
Sabato 14 novembre 2015
Ore 21.00
LIBRETTO DI SALA
Shakespeare: dati biografici essenziali
1564 William nasce a Stratford on Avon, nella contea di
Arden e John Shakespeare, terzogenito di otto figli.
Warwick, da Mary
1582 Si sposa con Anna Hathaway, più vecchia di lui di sette anni, e sei mesi
dopo ha da lei la prima figlia, Susan.
1585 Nascono i due gemelli, Hamnet (che morirà fanciullo) e Judith.
1586 Shakespeare lascia la famiglia e si reca a Londra, dove trova lavoro
presso The Theatre, di cui impresario James Burbage.
1597 Grazie all'amicizia con personaggi illustri, entra a far parte della
compagnia del Lord Ciambellano.
1599 Inaugura il nuovo teatro The Globe, che gestisce insieme a Richard
Burbage, figlio di James
1601 Inizia la stesura di “Hamlet”
1609 Diviene socio del Burbage nella gestione di un altro teatro, quello
coperto di Blackfriars
1610 Shakespeare torna a Stratford, forse in seguito ad una malattia.
1616 Muore, nel mese di aprile.
Elenco di tutte le opere teatrali di Shakespeare, secondo la consueta divisione in generi (proposta da Mario Praz) e
la cronologia di E.K. Chambers:
Commedie:
Comedy of Errors, 1593-94
The Taming of the Shrew, 1594-95
The Two Gentleman of Verona, 1595 -96
Love's Labour's Lost, 1595-96
Midsummer Night's Dream, 1596-97
The Merchant of Venice, 1597-98
Much Ado About Nothing, 1599-1600
As You Like It, 1600-1601
Twelfth Night, 1600-1601
The Merry Wives of Windsor, 1601-1602
All's Well That Ends Well, 1604-1605
Measure for Measure, 1606-1607
The Winter's Tale, 1611-1612
The Tempest, 1612-1613
Drammi storici:
Henry VI, parte prima, 1591-92
Henry VI, parte seconda, 1591-92
Henry VI, parte terza, 1592-93
Richard III, 1593-94
Richard II, 1596-97
King John, 1597-98
Henry IV, parte prima, 1598-99
Henry VI, parte seconda, 1598-99
Henry V, 1599-1600
Herny VIll, 1612-1613
Tragedie:
Titus Andronicus, 1594-95
Romeo and Juliet, 1595-96
Julius Caesar, 1600-1601
Hamlet, 1601-1602
Troilus and Cressida, 1602-1603
Othello, 1605-1606
King Lear, 1606-1607
Macbeth, 1606-1607
Antony and Cleopatra, 1607-1608
Coriolanus, 1608-1609
Timon of Athens, 1608-1609
Pericles, 1609-1610
Cymbeline, 1610-1611
Per quel che riguarda le opere liriche, la composizione de Sonetti risale, sempre secondo Chambers, al 1595-1600; altri critici propendono
invece per un periodo più ampio, compreso tra il 1589 e il 1609. Venus and Adonis fu pubblicato nel 1593, Lucrece nel 1594; al 1601 risale
invece la pubblicazione di The Phoenix and the Teurtle
Il male nelle tragedie di Shakespeare
As if we were villains on necessity…and all that we were evil in, by a divine thrusting
on. An admirable evasion of whoremaster man to lay his goatish disposition to the
charge of a star! (Come se fossimo delle canaglie per pura necessità…e tutto quello
ch’è in noi di malvagio, lo fosse per effetto d’un incitamento soprannaturale. E’ una
bella scappatoia da vero bordelliere, quella d’affibbiare a una stella la nostra
inclinazione alla lascivia!) (King Lear).
E’ possibile tracciare, nella tragedia shakespeariana, un preciso confine tra colpa e
fatalità, tra libertà e necessità, cioè, in definitiva, tra il peso che assume la
responsabilità umana nelle vicende raccontate rispetto al ruolo rivestito da agenti
esterni al comportamento umano? Le tragedie di Shakespeare si riconnettono
senza dubbio a quelle dell’antica Grecia nel mettere a tema l’esistenza umana, i suoi
nuclei problematici e il male che in essa si annida. Soprattutto le più grandi opere
della maturità come “Hamlet”, “Macbeth”, “King Lear”, “Othello” rappresentano le
tinte fosche delle passioni umane nelle loro spinte primitive e nei caratteri essenziali: il male antropologico e cosmico diventa in questi
drammi una realtà oggettiva, onnipresente e quasi tangibile, capace di comunicare ancora oggi il brivido del diabolico.
Nondimeno, secondo alcuni commentatori, Shakeaspeare prende le distanze dai drammaturghi greci proprio nel momento in cui elimina dal
suo orizzonte il problema del rapporto dell’uomo con la fatalità degli eventi; Il Fato, si dice, è manovrato dagli eroi stessi e gli interventi
soprannaturali divengono semplici convenzioni drammatiche per rappresentare i loro conflitti personali.
E’ indubbiamente vero che, nelle tragedie del drammaturgo inglese, la situazione esterna non gioca affatto un ruolo fondamentale:
l’interesse si rivolge ai personaggi e alle azioni che essi compiono nel corso della vicenda, conducendola fino all’acme. L’essere umano sta
dunque al centro della scena come l’autentico oggetto di interesse: la tragedia si fa innanzitutto tragedia dell’individuo, di una singola
personalità morale, di un destino determinato non dall’ereditarietà o dall’ambiente ma dalla responsabilità e dalla capacità di scelta. Rimane
tuttavia indiscutibile, a mio avviso, in Shakespeare, la presenza di un elemento “fatale”: l’uomo, che pure agisce secondo volontà e in
libertà, spesso non è in grado di prevedere le conseguenze delle proprie mosse e finisce col restare travolto dall’azione che lui stesso ha
avviato.
Inoltre, l’impressione che la maggior parte degli eroi shakespeariani ci dà è quella di appartenere originariamente a una natura libera e
aperta, contraddistinta non dalla malizia bensì dalla generosità e persino da un certo candore. I protagonisti di queste tragedie
appartengono solitamente ai più alti livelli sociali: principi o re, come Hamlet, Lear e Macbeth, o grandi uomini di Stato come Marco Antonio,
Bruto, Coriolano e Othello, o membri di grandi famiglie, come quelle dei Capuleti o dei Montecchi. Ciò porta con sé che il destino di
ciascuno di questi uomini di elevata condizione non rimanga un fatto privato, ma coinvolga una città, un regno, una nazione, un impero: il
loro benessere e la loro rovina sono contemporaneamente il benessere e la rovina di molti. Ma più che questa effettiva nobiltà è
significativa, come dicevo, la ‘nobiltà’ interiore da cui tutti questi grandi sono contrassegnati; rammentiamo le famose parole che Lady
Macbeth rivolge al marito prima dell’uccisione di Duncan: I fear thy nature; it is too full o’th’ milk of human kindness to catch the nearest
way. Thou wouldst be great; art not without ambition, but without the illness shoul attend it. What thou wouldst higly that wouldst thou holily
(Temo la tua natura: è troppo piena del latte dell’eterna dolcezza per tener la via più breve. Vorresti esser grande; non ti manca l’ambizione,
ma ti manca il malvolere che dovrebbe accompagnarvisi: quel che tu ardentemente desideri vorresti ottenerlo santamente (Macbeth).
In Macbeth e nella maggior parte degli eroi shakespeariani noi riconosciamo degli esseri in qualche modo
straordinari, percepiamo che in essi c’è qualcosa di colossale, qualcosa che ci fa ricordare le figure di
Michelangelo. La loro imponente statura reca in sé i segni di una fondamentale bontà di carattere e di una
profonda grandezza d’animo: ecco perché, anche davanti a coloro che si rendono colpevoli di orribili crimini, come
appunto Macbeth o Richard III, non possiamo che provare, insieme al terrore e al disgusto, una pietà e un timore
perfettamente ‘tragici’. Proprio sullo sfondo dei tratti eccezionali si staglia tuttavia, in ognuno di essi, una precisa
‘imperfezione’, costituita generalmente da una certa inclinazione all’irrazionalità e alla passione incontrollata. Nella
vanità e nella sconsideratezza di Lear, nella sfrenata ambizione di Macbeth o di Richard, nell’eccesso e nella
precipitazione di Romeo e Juliet, nell’indomita gelosia di Othello come nella passione ubriaca di Antonio per
Cleopatra noi riconosciamo una decisa unilateralità, la forza di una pesante Fatalità che travolge l’eroe e lo
sottomette alla violenza di impulsi incontrollati. Il cuore degli eroi shakespeariani, l’abisso della loro coscienza,
sono abitati dalla possibilità fatale della colpa, da una componente passionale indistinta che minaccia di insidiare
intelligenza e volontà, volgendole al male: A rarer spirit never did steer humanity. But you gods will give us some
faults to make us men (Uno spirito più eletto non guidò mai la natura umana: ma voi, o dei, ci date qualche difetto per farci uomini) (Antony
and Cleopatra).
La nuova fatalità che il drammaturgo introduce non è dunque una legge estrinseca all’uomo e neppure
appartiene al suo sangue, o al suo patrimonio genetico, ma è una sorta di debolezza del volere, di fragilità
etica: è la minacciosa possibilità del peccato. Il “neo maligno” di cui parla Hamlet nella quarta scena del
terzo atto sta appunto a significare metaforicamente tale impurità morale che l’individuo reca in sé. A causa
di questa fatale imperfezione gli eroi shakespeariani si rivelano spesso incapaci di distinguere tra
apparenza e realtà, non sono in grado di riconoscere la verità e di scegliere il bene. Ecco quindi la vanita di
Lear, che preferisce l’affettata adulazione di Goneril e Regan alla sincerità di Cordelia; ecco la miopia di
Othello, che crede ingenuamente alla bocca infernale di Jago e non alla purezza di Desdemona; ecco
ancora Macbeth, ostinato nella propria ambizione quando ormai la sua disastrosa fine è già un fatto sicuro; ecco infine Antonio, portato alla
rovina dalla sua smisurata passione.
In Shakespeare la libertà umana si dà quindi in modo non assoluto ma sempre come libertà ‘segnata’ e, in qualche modo, ‘ferita’: non si
insiste sull’inevitabilità del destino quanto nel dramma greco, appunto perché gli eroi non sono determinati dagli dei, o dalla necessità, o dal
destino a commettere un atto ‘fatale’, ma dalla loro stessa volontà. Questa libertà del volere, tuttavia è infetta: il personaggio
shakespeariano è fatalmente incrinato.
Ci siamo limitati fin qui a considerare l’eroe e la sua parziale irrazionalità come centri della
tragedia e cause fondamentali del suo svolgimento; occorre però osservare che spesso il
male più concreto e raccapricciante viene posto da Shakespeare non nella persona
dell’eroe ma in altri personaggi e precisamente nei “villains”, cioè i cattivi, le canaglie, nel
ritratto dei quali il poeta impiega tutta la sua maestria. Tra le figure dei ‘peccatori lucidi’
stanno anche protagonisti come Richard III o Macbeth; quest’ultimo , in particolare, è il
personaggio che più suscita, per la sua ambivalenza, una mescolanza di terrore e di
simpatia, di sgomento e di attrazione. Nella sua complessa psicologia, a momenti di
tormento interiore e di vivo rimorso si alternano momenti di irrigidimento glaciale: I have
almost forgot the taste of fear…I have supp’d with horrors; direness, familiar to my
slaughterous thoughts, cannot once start me (Ho quasi dimenticato il gusto della paura…mi
sono saziato di orrori; lo spavento, ch’è compagno consueto dei miei pensieri di massacro,
non è più buono a farmi trasalire) (Macbeth).
Ma il vertice della capacità analitica e della sottigliezza immaginativa è stato raggiunto da Shakespeare con il personaggio di Jago,
l’incarnazione diretta e unilaterale del male ‘allo stato puro’. Le macchinose azioni dell’alfiere di Othello non sono suggerite né
dall’ambizione, né dalla vendetta, né dalla gelosia: egli si volge semplicemente al male in quanto male e prova un insulso piacere di fronte
alla sofferenze altrui. In Jago Shakespeare dimostra, come già in Richard III, che spesso il male è compatibile con eccezionali doti
intellettuali e con straordinarie lucidità e sagacia. Concludendo, il processo di antropologizzazione del male compiuto dal drammaturgo
inglese fa sì che in qualche modo la tragicità dell’ingiustizia si acuisca nei suoi drammi: sono gli uomini stessi i fautori di enormi delitti e di
mostruose crudeltà nei confronti dei propri simili, sono le loro coscienze che divengono capaci di concepire assassinii, mutilazioni, torture,
menzogne: To be honest, as this world goes, is to be one man pick’d out of ten thousan! (Essere onesto, in un mondo che va così, è essere
un uomo scelto fra diecimila!) (Hamlet)
Claudia Braida
Da AMLETO, versione di Filippo Gili
“Solo, ora. Solo. E misero. Misero e vile. Misero, vile, servo e
accattone. E’ mostruoso. E’ mostruoso, è mostruoso che un
attore, per la passione del niente, un sogno di passione, entri a
tal punto in un’immaginazione da diventare un altro, da diventare
pallido, colle lacrime agli occhi, il viso sfatto, voce rotta, gesti e
azioni tutto per dare vita a una immaginazione… nulla, cioè.
Ecuba! Ma chi è Ecuba per lui? Chi è lui per lei da piangere in
quel modo? E se gli infilassi nell’anima le mie, di ragioni, non
dovrebbe inondare la scena di lacrime? Non farebbe sanguinare
anche le orecchie di un colpevole? Non farebbe inorridire gli
innocenti? Non li inchioderebbe tutti, innocenti, colpevoli,
ignoranti? Mentre io? Fermo, piccolo, tardo, opaco, inetto, non
agisco nel nome di un re, cui gente maledetta ha distrutto regno
e vita? Sono un vile, io? Chi? Chi? Chi me lo dice? Chi mi dice
codardo? Chi mi spacca la faccia? Chi mi prende per il naso?
Chi ributta le menzogne in gola per inchiodarle giù, giù, giù,
dentro ai polmoni? Chi? Dio… Dio! Come faccio a sopportarlo…
ho il fegato di un coniglio, è evidente, sennò avrei già ingrassato
tutti gli avvoltoi della zona con le budella di questo miserabile.
Maledetto puttaniere! Schifoso, impudente, vile! Mi vendico!...
Lascia stare, asino, hai un padre assassinato, il cielo e l’inferno ti
chiedono di far giustizia, e tu qui a pulirti la coscienza con due
bestemmie da serva e tre improperi da puttana. Fai schifo.
Schifo! Usa il cervello. Il cervello. Ecco… può succedere che un
colpevole, a teatro, possa essere così colpito da tradirsi
involontariamente e confessare la colpa. Che è senza bocca, ma
parla. Voglio far recitare ai miei attori qualcosa che gli ricordi
l’assassinio di mio padre. Lo guarderò fisso negli occhi. E se
avrà anche solo l’ombra di un fremito, saprò che fare. Hai visto
mai lo spettro fosse un diavolo in maschera che ha deciso di
dannare un povero cristo malinconico e fragile come me… prove
ci vogliono, riscontri. E che ci sta a fare il teatro? Come altro la si
agguanta, la coscienza del re?”
Atto II, scena II
“Essere o non essere. E’ questo il problema.
Se c’è più coraggio nel tenersele nell’anima,
le frecce e le pietre di una sorte infame,
o nell’impugnarle, mettersi a combattere,
e tentare di annientarle. Morire. Dormire.
Nient’altro che dormire. E dormendo zittire il male al cuore,
zittire i mille traumi di cui la carne è erede.
Non c’è un epilogo migliore. Morire… dormire…
dormire… forse sognare… ma qui ti blocchi, per dio!
Perché se la morte funziona come il sonno,
i suoi sogni quali sono? Che c’è di là?
E’ questo che sospende, immobilizza.
Questo dà alla tragedia il tempo di una vita intera.
E chi andrebbe fino in fondo, sennò,
a beccarsi ai fianchi le cinghiate del tempo,
la sua faccia tosta, il suo fregarsene galoppando,
l’arroganza e lo scherno dei potenti,
il dolore di chi ama e non è amato, la lentezza delle leggi,
la burocrazia che se ne frega, tutti gli schiaffi e i calci
che una brava persona si prende dall’indegno,
se si potesse chiudere il conto con un semplice pugnale?
Chi vorrebbe continuare a quattro zampe,
col peso della vita sopra, se non fosse la paura
di che c’è dopo la morte ad incollarci qui,
invece di volare verso un luogo da cui non si torna?
E’ la coscienza che ci frega. E’ così che ci fa vili.
Per questo l’argento vivo dell’agire
scade di fronte all’ombra pallida del pensiero.“
Atto III, scena I
Da: N. Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passione nel teatro di Shakespeare, Mondadori,
Milano 2010
“Non c’è verso né scena né atto dell'Amleto che non dica il problema del
suo protagonista: il sentimento dell'impossibilità dell'azione, con
l'angoscia che ne deriva. Impossibile è per Amleto passare all'atto,
impossibile il passaggio stesso, in quanto esso mette in evidenza, per
l'appunto, il problema del legame: se, nel passaggio, esso tenga. Perché
è evidente che, se tra una cosa e l'altra, tra un tempo e l'altro, non c'è più
la certezza del legame, allora il ritmo stesso della tragedia non potrà che
essere impedito, ed essa sussulta. Arrestandosi, trattenendosi, il dramma
crea in se il vuoto; voragini si aprono in cui precipita ogni ordinata
sequenza. Del resto, v’é solo squilibrio in Amleto, oscillazione interiore tra
il rifiuto e l'accettazione, movimenti dell'anima alternantisi tra l'obbedienza
e il tradimento. Finché di vuoto in vuoto l’anima trapassa fino alla morte.
All'inizio è una violenza esterna che crea il sentimento di vuoto
nell'anima. Una morte improvvisa, inspiegabile, precipita sull'or fano che,
tradito, esposto alla miseria della condizione umana, di fronte alla
scomparsa del padre trema. Si ritrova nel fondo di abbandono, separato.
C'è veramente un vuoto, e nell'anima di Amleto un'energia non orientata
intasa di melanconia il cuore e lo impietra nel nero colore dell'abito. Poi,
quando Amleto sa, l'energia trabocca in movimenti disordinati- la follia, l'aggressione verbale oscena, la repulsione per Ofelia, l'assassinio
inutile di Polonio. Squilibrio dopo squilibrio, ogni gesto è eccessivo, e manca il proprio oggetto; anzi vuole mancarlo, come appunto chi
desideri solo il vuoto, non l'azione che concilia, riunifica e risana.
ll vuoto si fa interiore, prende Amleto in ogni sua fibra. Ha il sopravvento su ogni ragione: è forza cieca che lo guida insensata mente, al di la
di ogni sua proclamata intenzione. Si che allo squilibrio risponde con uno squilibrio falsamente compensatore. Non v'è appunto che
squilibrio nel mondo di Amleto: mai convenienza. E quando la si protesti, essa prende la figura barocca dell’ossimoro e del chiasmo, non la
proporzione rinascimentale. […]
Il legame, e cioè come fare nodo tra mondi diversi, è al cuore della tragedia shakespeariana, che da questo sforzo è condotta a trasgredire
la forma classica. Nell'Amleto, del legame è messo in scena il rischio: che il legame non tenga è il problema. Si fa tragedia del movimento
opposto, per cui ogni cosa si scinde e va a pezzi. “Dis- join” è qui la parola chiave. Tragedia è che non si riesca ad annodare una cosa con
l'altra, che tutto si spezzi, «si sciolga, dissolva, risolva in rugiada» (I, ll, 129-30), e cioè in acqua che cola. In tale movimento dissolutivo
l'anamorfosi trionfa, le forme generano altre forme, dilatano, raddoppiano… «Vedi quella nuvola, non ha la forma di un cammello? …Non
sembra il dorso di una donnola, non sembra una balena?» (llI, ll, 38o-5). Amleto scherza al suo modo sadico, fa il pazzo con Polonio, ma è
anche un sentimento intimo che esprime. Basta leggere il suo primo monologo: parla con se stesso, non finge, e confessa come un alone
cresca intorno alle figure, come ogni contorno svapori in linee indefinite e indefinibili. Niente sta contenuto nel suo profilo. Il primo nodo a
cedere è quello del Kin, che annoda tutti gli altri; e così pericola tutta la struttura. Sotto la scossa di questa dinamis trema la struttura
dell'azione drammatica. Il nodo della generazione cedendo, si allenta il nodo del Tempo. Non è in mano di Amleto il tempo; a lui sfuggono le
diatesi verbali, dimora nel frattempo. Anzi, l'interim di Amleto è l'evidenza stessa di come il tempo per lui frani nell'interruzione che
intervalla e frattura il nodo del Tempo.
Questa, del resto, abbiamo visto, e non altra è la colpa di Amleto: l'interruzione. Invece di porsi come figura che medi –metaxu,
chiamerebbe tale figura Simone Weil -Amleto ostenta il buco nel Tempo. Cosi baroccamente esibito, il buco del Tempo rivela un'interna
fermentazione dinamica dei tempi, in cui il soggetto non può prendere domicilio. Non re di Danimarca, pienamente investito del nome del
Padre, e dunque destinato al trono, ma piuttosto re «di un guscio di noce» ( II,ll, 255) si vorrebbe Amleto. Preferisce senz'altro sostare nel
sospeso intervallo del proprio indugio, piuttosto che muoversi nelle caselle di un tempo ordinato dalla parola di un Altro, venuto dall'aldilà
per obbligarlo all'azione che, fosse in lui, non sceglierebbe di compiere. Nell'indugio, si potrebbe dire, Amleto trova la sua anima.”
LA MESSA IN SCENA
Note di regia
E’ un progetto che nasce con Daniele Pecci.
Quando Daniele mi ha chiesto se volevo curare la
regia di un ‘Amleto’ con lui protagonista, è stato
come ritrovarsi un ombrello sotto la pioggia. Era
quello che attendevo. Ed è quello che faremo.
Daniele, io, i miei soci degli Uffici Teatrali, e la
Compagnia Stabile del Molise: mettere un ombrello
sotto le infinite letture di un testo infinito. Un
ombrello che copre una parte di mondo, il
palcoscenico della rappresentazione, spoglio di
letture forzate, unicamente teso al gioco di
analizzare perché, all’alba del ‘600, nacque un uomo
che vide il mondo uscire dai suoi binari. Se si fa
Amleto, oggi, è perché è infinita la malizia di
Polonio, è perché è infinito il torpore morale di
Gertrude, è perché è infinita la dannata verginità di
Ofelia, è perché è infinita l’intuizione politica di
Claudio: un impero, da Don Chisciotte, passando
per il potere dell’atomo fino ai microchip odierni e
per chissà quanto ancora, si può mettere a
soqquadro solo con l’ausilio di una goccia di veleno.
Con Amleto si porta sulle spalle un peso che lo porta
ai giorni nostri: quello di un vivere nel mondo, senza ‘esserci’.
La nostra messinscena invade la sala non per blasfemia pirandelliana, ma perché intende tutto l’edificio teatrale come paradigma di
Elsinore, come articolazione e ‘stacco’ di stadi scenici che si sviluppano tra platea, scaletta, proscenio, sipario e palcoscenico. Che sarà
nudo perché realistica sia la percezione dell’autenticità ambientale. Con Polonio, protomartire della segretezza, della manipolazione
invisibile, di quel nuovo mondo che Orwell sugellerà qualche secolo dopo, a gestire il sipario, ad aprire e chiudere quell’infinito ‘arazzo’
dietro cui non si nasconde e muore il consigliere del re, ma dove si nasconde e muore la coscienza di un pubblico troppo interessato a
starsene al buio, per schivare comodamente i colpi di pugnale di principi e uomini che vorrebbero, solo vorrebbero, riassettare il mondo.
Filippo Gili
La Compagnia Stabile del Molise
La Compagnia Stabile del Molise nasce nel 2010 dall’incontro artistico tra gli attori Paola Cerimele e Raffaello Lombardi.
Il punto di partenza per questo progetto è l’esperienza svoltasi al teatro Comunale di Bojano in cui si è sperimentata una nuova forma di
produzione teatrale che a partire da un lavoro capillare sul territorio della regione Molise si è poi sviluppato su tutto il territorio nazionale.
Molte sono state le collaborazioni artistiche che in questi anni hanno consentito la produzione e la distribuzione di numerosi allestimenti.
Dei tre progetti della CSM, due sono in coproduzione con Uffici Teatrali per la regia di Filippo Gili: Sistema Cechov e Amleto, quest’ultimo
con Daniele Pecci; il terzo progetto è una sfida importante in collaborazione con la Fondazione Molise Cultura: uno spettacolo sulla prima
guerra mondiale, “Il cappello di ferro”, che si avvarrà della drammaturgia e della regia di Emanuele Gamba.
L’Amleto di Filippo Gili, un viaggio verso la regia…e ritorno
Scritto da Ilaria Guidantoni, Venerdì, 27 Marzo 2015
Con l’occasione del debutto dell’"Amleto” a Montalto di Castro, nel teatro che fa parte del
circuito dei teatri regionali, abbiamo incontrato nuovamente il regista Filippo Gili per un
viaggio dietro le quinte e nei laboratori di un artista. «E’ un progetto che nasce con
Daniele Pecci. Quando Daniele mi ha chiesto se volevo curare la regia di un Amleto con
lui protagonista, è stato come ritrovarsi un ombrello sotto la pioggia. Era quello che
attendevo. Ed è quello che abbiamo cercato di fare. Mettere un ombrello sotto le infinite
chance di una lettura di un testo infinito. Un ombrello che copra una sola parte di mondo,
il palcoscenico della rappresentazione, ma spoglio di letture forzate, unicamente teso al
gioco di analizzare perché, all’alba del ‘600, nacque un uomo che vide il mondo uscire
dai suoi binari.»
Come si arriva a fare il regista, con un inizio attoriale? Qual è il ruolo della regia e il peso
o l’eccesso del burattinaio nel teatro e nel cinema? Queste alcune domande nel corso di
una conversazione per capire come la visione della regia di Gili lo abbia portato a
riscrivere il testo classico, tra i più rappresentati insieme all’"Edipo Re” e quale sia il suo
rapporto con gli attori; nondimeno un’occasione per riflettere sul rapporto tra le diverse
figure sul palcoscenico nel teatro che cambia, anche all’indomani della scomparsa di un
grande nome quale quello di Luca Ronconi con il quale Gili ha lavorato. In questo
cammino a tappe mi prometto di assistere alle prove di uno spettacolo per assaporare il
senso del cantiere fino a rileggere la rappresentazione guardandola da dietro le quinte
piuttosto che dal lato del pubblico perché in fondo anche quest’ultimo fa parte a tutti gli
effetti della messa in scena.
Nato attore, ha incontrato la scrittura drammaturgica, per poi avvicinarsi alla regia. Un
percorso graduale e non sostitutivo ed è in questa convivenza, mi anticipa Filippo, che
sembra aver trovato la sua strada. Andiamo per gradi. «Lo spostamento sulla regia - mi
ha confidato - è molto spesso un atto “isterico” che nasce da un complesso attoriale quando il cammino teatrale inizia con l’interpretazione e
per una o più ragioni non risulta appagante. La regia conferisce un senso di potere, come quello del burattinaio, in parte conseguenza di un
peccato originale del teatro moderno. A teatro, in effetti - diversamente da quanto avviene nel cinema - il punto di riferimento imprescindibile
è rappresentato dagli attori e, in secondo luogo dal testo, anche se la regia è il filo che lega gli elementi, caratterizzandoli e dando unità».
Per te il testo mi sembra fondamentale, probabilmente anche perché sei autore. «Credo che il passaggio alla scrittura teatrale abbia
temperato possibili fughe in qualche modo deliranti. E’ il testo l’ancoraggio al quale fanno riferimento sia il regista sia gli attori e che
consente la ripetitività nel tempo sebbene con infinite possibili varianti. Tornando alle origini del teatro, viene in luce la nascita da
meccanismi liturgici che, messi per iscritto, possono essere ripetibili.»
Qual è la malattia del regista allora? «La lacerazione tra essere la rappresentazione del potere senza in realtà esercitarlo se non in forme
coercitive che purtroppo, diffuse, pesano sugli attori, ingabbiandone la creatività. Essa nasce a sua volta da un complesso di superiorità e
inferiorità ad un tempo.»
I suoi sintomi sono visibili sul palcoscenico? «Sono la ricerca di una codificazione personale quasi a priori. Spesso risulta troppo visibile la
tentazione di raccontarsi e diventa una trappola che rende il teatro soffocante e vecchio. Ho l’impressione che negli spettacoli sia troppo
forte l’odore del regista.»
Probabilmente e tristemente è anche una regola del mercato, rendere riconoscibile un brand, il timbro d’autore, facilmente ripetibile con
piccole variazione. Accade sempre più spesso anche nell’opera d’arte. «Solo che quando si è troppo definiti, si finisce per essere limitati,
asfittici, se non sterili; prova ne è che non nascono scuole, direi proprio dai grandi artisti. Solo se e quando si arriva ad avere un buon
equilibrio si riesce ad allontanarsi da se stessi.»
Un processo complesso anche per uno scrittore: ad un certo punto però succede che si voglia prendere distanza dai propri personaggi dai
quali ci sente perfino intrappolati fino a desiderare di giocare con l’invenzione creando realtà altre da sé. «A me ha fatto certamente bene
diversificare l’attività teatrale, per cui non prendo nessun ruolo - l’essere attore, autore e regista - troppo sul serio. Credo che la regia sia
l’infrastruttura del teatro, un elemento fondamentale in termini cognitivi ed estetici ma non la conditio sine qua non, considerato anche il
teatro nella storia; diversamente si mortifica l’attore erodendone la libertà.»
Non si può certo pensare al teatro in formule ma esiste una
ricetta di massima? «La lettura del testo; la codificazione dei
suoi punti cruciali per l’interpretazione; quindi la vita dove le
emozioni consentono al teatro di passare nello spettatore e
prima ovviamente di risuonare nell’interprete. Questo è
possibile a condizione che l’anima sia viaggiatrice della parola
e non semplice turista. Troppo spesso si è, al contrario,
prigionieri della falsa modernità delle emozioni, dell’idea di
libertà come erranza senza disciplina, quindi alla fine
confusione scenica. A questo si aggiunga un elemento che
sembra l’antitesi di un tale atteggiamento ma di fatto lo
supporta: il manicheismo tra bene e male che ha contagiato il
pubblico come il regista e quindi gli attori. C’è la
preoccupazione di essere politicamente corretti, di offrire un
giudizio sulla vita come valore aggiunto: il messaggio, sovente
per altro non originale ma frutto dell’adesione a uno dei due
schieramenti antitetici nella visione della vita.»
In questo tuo spettacolo come traduci questa visione del
teatro?<<Ho provato a regalare una pelle di toro agli attori
sperando che costruissero una città, come Didone con
Cartagine. Il regista deve segnare il tracciato…della libertà.»
Come nasce la scelta per Amleto e che lavoro hai fatto sul testo? «E’ una mia lettura e riscrittura dove c’è un lavoro di semplificazione
rispetto alla “schiuma” barocca che rende Shakespeare figlio del suo tempo, senza alterarne la storia. La passione per questo testo è nata
una quindicina di anni fa e mi ricorda una triste vacanza per una condizione personale di sofferenza. Da quella prima lettura nacque
“Macchia di grano”, una sceneggiatura sulla falsa riga dell’”Amleto”. La passione per questa storia, come del resto per l’”Edipo re” è quella
per la centralità della famiglia. Qualsiasi uomo è solo il tralice che si attualizza nella relazione: è la famiglia che gli dà un nome e un
cognome. La relazione familiare è l’archetipo dell’umano. Shakespeare lascia in tal senso un segno geniale perché ci racconta il passaggio
dal mondo medioevale, quello del sensibile al periodo moderno e post-moderno dove domina l’invisibile: l’infinitamente piccolo
inversamente proporzionale alla sua potenza, in grado di distruggere il colosso dai piedi di argilla. E’ questo il principio che porterà
all’affermazione e al dominio dell’atomo, dell’inconscio - che non è semplicemente la dimensione onirica - fino al virtuale.»
Scompare così la corrispondenza e la gerarchia tra due mondi a vantaggio del prevalere dell’entropia: cadono le certezze e dilaga il senso
di precarietà e fragilità umana. «Teatralmente basta il “gioco” del fazzoletto di Jago per mettere in crisi una storia, annientarla. Solo
ruminando il testo si coglie l’associazione tra piccolo e invincibile per la quale l’istante vince il millennio. E’ Polonio il vero vincitore, anche se
viene ucciso. Sul palcoscenico si pone per la prima volta, nell’epoca moderna, la domanda sul senso della vita e si evidenzia il meccanismo
dell’interpretazione e del vissuto psicologico che con il sipario ho cercato di visualizzare come la quarta parete.»
In fondo nella tragedia greca che tu hai citato c’è molta più modernità che nel teatro successivo, anche se gli stilemi sono ovviamente figli
del loro tempo, perché ci sono gli archetipi e in nuce con il coro si mette già in primo piano il valore dell’inconscio, ancora in termini collettivi:
il ruolo prevale sul singolo. Un altro elemento che rende la tragedia greca classica è il transfert dell’azione scenica nel pubblico dove
l’elemento didascalico non è a priori ma un vissuto in diretta. Come si traduce nel tuo teatro?
«Con il tentativo di recuperare un teatro che passi in chi partecipa e non semplicemente assista alla rappresentazione, che è il vizio
dall’affermazione della borghesia ottocentesca in avanti. In tal senso cerco di dare continuità allo spazio palcoscenico-platea mettendo
spesso tutti in luce, come nelle prove, ed eliminando i costumi nei termini tradizionali. Ho anche cercato di ridurre, come ho accennato,
quegli elementi estetici del testo shakespeariano che sono stati cristallizzati nel tempo e che già allora nacquero sia in linea con il gusto
dominante sia per facilitare l’apprendimento a memoria. Ho cercato di semplificare senza involgarire, schiacciando gli arabeschi e le
decorazioni eccessive senza tradire la complessità verticale del testo. Senza esagerare anche l’idea di imparare pedissequamente un’opera
a memoria che ripropone la catechesi del teatro, lontana dalla mia idea di azione scenica sociale e interattiva, anche se il termine oggi è
decisamente abusato.» Potremmo dire che la partecipazione deve se non superare accostarsi alla rappresentazione per non fossilizzarla.
E sugli attori che tipo di lavoro hai fatto?
«Ho cercato di rendere viva la parola anche evitando di imprigionarli nei costumi, pur mantenendo una coerenza con il linguaggio scelto e
con la storia. L’ispirazione è quella di “Festen” e della festa di famiglia, caratterizzando i personaggi senza ridondanza. Ho inoltre provato a
recuperare il sentire del popolo, quell’umore della plebe che è scomparso dalla nostra memoria. Come far sentire il marcio che c’è in
Danimarca e che poi è ovunque? Attraverso il fumo che la gente della strada percepisce senza spiegarsi, come una nevrosi, una
compulsione di fronte all’inconscio che ci dice che l’utopia è sconfitta e quindi qualsiasi tentativo di fuga o di lotta si rivelerà inutile. E’ come
l’agitazione scomposta delle farfalle prima di un terremoto.»
Com’è stata la risposta del pubblico e degli attori? «Mi è sembrata buona. Gli attori con i quali lavoro sono una squadra da anni, la
compagnia Uffici Teatrali, e Daniele Pecci il mio Amleto, si è avvicinato proprio condividendo un teatro più vicino al vivo che al vero.»
In questa tua visione pensi possa esserci spazio per gli attori da strada come avviene nel cinema? «Direi di no. Al cinema si può fare. A
teatro questa soluzione è possibile solo marginalmente perché vige la legge della necessità di ripetere e ogni rappresentazione è unica ma
nello stesso tempo si deve garantire ogni volta la qualità. Ci vuole disciplina e studio per poterli poi superare e scardinare se serve.
Daniele Pecci, il mio Amleto
''Sono 25 anni che sogno questo ruolo. È il personaggio cui
aspira chiunque in palcoscenico. Ed è il testo che, quando lo
le lessi la prima volta, mi ha fatto capire che volevo fare
questo mestiere''. Così Daniele Pecci diventa per la prima
volta Amleto. Forse il ruolo più complesso per un attore, di
certo quello che ha portato il volto di tutti i grandi, da
Gassman in poi.
Il principe di Danimarca di Pecci ha debuttato al Padovani
di Montalto di Castro (VT) e si replica il 26 a Campobasso e
il 23-24 aprile a L'Aquila, in un primo assaggio della tournèe
più lunga della prossima stagione, nella versione diretta da
Filippo Gili e realizzata con la Compagnia Stabile del Molise.
Un banco di prova personale, ma anche una sfida produttiva
collettiva.
''Sono stato più volte sul punto di interpretare Amleto racconta Pecci all'ANSA a poche ore dal debutto - ma con i
tempi drammatici che corrono oggi per il teatro, in Italia e a
Roma in particolare, non è mai andata in porto. Ora ci siamo
riusciti, con i soldi con cui uno stabile non paga nemmeno una sola prova.
Abbiamo tutti, me compreso, accettato una paga minima, più simile a un rimborso spese. Solo per amore del teatro''. Via tutti gli orpelli,
dunque, nessuna scenografia, ne' costumi storici. 'Solo' 13 attori (che non sono pochi) a vivere la tragedia di Shakespeare in ogni spazio tra
palcoscenico e platea con cordami a vista, luci in sala, il sipario che diventa l'arazzo del terzo atto e tutto il teatro trasformato nel castello di
Elsinore.
''Abbiamo fatto della nostra debolezza, la mancanza di soldi - spiega Pecci - la nostra virtù. Il testo è quasi integrale e ci siamo
riappropriati di quel modo di portarlo in scena che era già del Teatro Elisabettiano. Come allora gli attori indossavano abiti contemporanei
con un particolare in più, una corona o un mantello, lo stesso accade a noi, che indossiamo smoking''. Ma perché proprio Amleto? ''Perché
ogni volta che lo leggi, è come se ti parlasse per la prima volta - prosegue l'attore - Nella storia ha 30 anni, io 44: per arrivarci devi avere
una certa esperienza. Ho riletto tutto il dramma dal suo punto di vista, liberandomi anche delle versioni che ho visto e amato, da Lawrence
Olivier a Zeffirelli e Rory Kinnear al National Theatre. E ho trovato un Amleto diviso in due. Dalla vita in giù è figlio di suo padre e dell'epoca
feudale. Dalla cintola in su è figlio del razionalismo, un uomo che deve riflettere su tutto.
Da qui il suo immobilismo, il dramma tra ciò che dovrebbe e non riesce fare, i monologhi che sono le nevrosi di un uomo che parla da
solo. Amleto pensa di mettere solo in scena la follia, ma il confine è molto sottile. Se dopo 400 anni riesce a parlarci ancora così - prosegue
- è perché Shakespeare ha preso un uomo e la sua problematica impellente e l'ha elevata a preoccupazione del mondo e dell'uomo
moderno. Il tutto, con parole bellissime. Finchè avrò forza e me lo lasceranno fare - assicura Pecci - continuerò a portarlo in scena, con
questa versione di cui spero si apprezzi lo sforzo che va al di là dei rapporti politici con i grandi stabili. Perché in uno stabile io non sono mai
stato neanche chiamato a fare un provino. E i privati devono fare cassa. Qui invece non ci guadagna nessuno''.
Intanto a ottobre si torna in tv nella fiction di Canale 5 ''I misteri di Laura'', 8 episodi con Carlotta Natoli e Gianmarco Tognazzi, per la
regia di Alberto Ferrari. ''Per la prima volta - conclude Pecci - sono un agente un po' alla 'Serpico', che parla romanesco e porta barba e
capelli lunghi. Uno che viene dalla squadra anti-furti di Palermo e si ritrova a Torino, in un ambiente sofisticato, alle prese con casi
cervellotici''.(ANSA).
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