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Questi capitoli del romanzo
Buio
MY LAND
di Elena P. Melodia
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il mio nome è Alma, ho diciassette anni. Sono
le poche certezze che ho, in questa città velenosa che sembra impazzire. Un’altra cosa di cui
sono certa è che sorrisi e lacrime possono essere
molto pericolosi se lasciati fuori controllo. Me lo
ripeto ogni mattina, quando esco di casa per affrontare la Città sotto il cielo grigio, con in spalla il mio zaino viola.
Tutto ciò che mi piace è viola. Come la copertina del quaderno che ho comprato in una strana cartoleria del centro, pochi giorni prima che
tutto avesse inizio e che la mia vita cominciasse a
scivolare in un assurdo incubo senza fine. E gli
occhi di Morgan, anche quelli sono viola…
Gli eventi non sono mai coincidenze, i segni
di cui è disseminata la nostra vita non devono
mai essere ignorati. Anche la più piccola disattenzione presenta il suo conto, sempre. La mia
storia ne è una prova.
Quelli che leggerete qui in anteprima sono alcuni capitoli della mia storia, Buio, primo episodio della trilogia My Land, in libreria dal 2 ottobre 2009; ma vi avverto: non è una favola.
Alma
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Elena P. Melodia
Buio
MY LAND
I edizione: ottobre 2009
© 2009 Fazi Editore srl
Progetto editoriale: Dreamfarm s.r.l.
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
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È buio.
Cammino, ma non mi muovo. Ho le gambe
pesanti come piombo e nella testa mi battono i
colpi di passi immobili, che martellano senza
sosta, mentre comincio a sentire freddo. Tremo e non ho modo di scaldarmi. Anche le mie
braccia sono paralizzate. Mi fanno male, un
male che non ho mai provato prima, quasi stessero per staccarsi.
Provo a gridare, ma non ci riesco. Emetto
solo un filo di voce roca e stonata, come il suono di uno strumento a fiato rimasto troppo a
lungo sott’acqua.
Dove sono?
Avverto alcuni rumori dapprima lontani farsi più vicini e continuo a tremare, ora anche di
paura.
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Poi apro gli occhi, e non vedo niente. Solo
buio. Ma li ho davvero aperti? Sì: vedo una
lama di luce in basso, alla mia destra. E sento
voci che mi sembrano familiari. Al di là di una
porta.
Mi alzo di scatto e scopro che posso muovermi, finalmente.
Sono nel mio letto.
Stavo solo dormendo.
Respiro piano, aspetto di capire. È successo
di nuovo. Il confine tra sonno e veglia non esiste più, ormai, e gli incubi sono veri, la realtà
un inferno. Il sogno diventa realtà. E anche il
sogno è un inferno.
Mi capita spesso, dal giorno dell’incidente.
Cerco a tastoni la lampada sul comodino.
È orribile, rosa con il paralume di piume sintetiche.
La prima cosa che vedo è il quaderno viola,
scagliato per terra nell’impeto di alzarmi. L’ho
comprato ieri. Era in mostra nella vetrina di
una cartoleria in centro, un negozietto sbiadito che non avevo mai notato prima. Sarà stato
per il colore, viola, ma l’ho trovato subito bellissimo. Non so ancora se o cosa ci scriverò.
Sono contenta di averlo comprato. Dovevo
averlo, e basta.
Ora il quaderno è per terra, scomposto tra i
libri di scuola che ripetono noiosi le stesse inutili storie. Sento martellare le loro parole, i loro
numeri di pagina. Vedo le loro orribili illustrazioni, i segni della mia matita che sottolinea righe tutte uguali. Penso alla scuola.
Chiudo gli occhi e li riapro. Inferno.
Lancio un’occhiata alla sveglia, vecchia e rumorosa. È presto. Sono solo le sei.
Inferno.
Ancora rumori. Troppi rumori. Chiudo gli
occhi e li riapro.
È martedì.
I rumori sono di Jenna, mia madre, che inizia
prima il turno in ospedale. È martedì. E lei è
un’infermiera. Non so come faccia. Io non farei
mai il suo lavoro. Giorni interi a occuparti di
gente che sta male, a lavarla, accudirla. Per cosa?
Magari per finire un giorno sullo stesso letto e
sperare di trovare un’infermiera come lei che ti
lava e si prende cura di te. Mentre tu stai male. E
stai morendo. No, grazie, non fa per me.
Rimango immobile sotto le coperte in attesa
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che la luce del giorno filtri attraverso le tende.
Poi mi alzo e vado alla finestra, un’enorme finestra inutile come l’aria condizionata in Lapponia, perché si affaccia sempre e solo sul grigio. Grigio di palazzi, di strade, persino di cielo. Guardo in lontananza, al di là del fiume limaccioso, gli aerei sfilare sulle piste dell’aeroporto. Quanto vorrei andarmene di qui.
Guardo il cielo, ma non lo vedo davvero.
Oggi, come sempre, piove.
Tac, tac, tac. La pioggia sul vetro ticchetta
come se volesse richiamare la mia attenzione.
Esco dalla stanza e percorro il corridoio deserto fino al bagno. Il buio dell’incubo mi assale
di nuovo, invadendo di colpo i miei pensieri.
Sarà stato anche un sogno, solo un sogno, ma
mi sento a pezzi. Mi guardo allo specchio e il
buio si scioglie, a poco a poco. Sono bella, nonostante tutto.
Resto lì, a fissarmi.
Ogni tanto mi capita di pensare a come sarebbe la mia vita se fossi brutta, se non avessi
gli occhi verdi, che mi piace piantare addosso
ai ragazzi per metterli in imbarazzo, o i capelli
neri e lisci, lucidi da far invidia a una geisha, o
questo corpo che rimane magro, qualunque
cosa mangi. Come sarebbe la mia vita?
Sarebbe un unico, colossale, irrimediabile
schifo. Pensatela come volete. La verità è che
la bellezza è una forma di potere.
L’unica che ho.
L’unica verità, intendo.
«E poi, a me il potere piace…», dico ad alta
voce, facendomi l’occhiolino allo specchio.
Fuori piove.
Mi guardo negli occhi.
Mi sono ripresa.
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Nel corridoio mi scontro con la sagoma vagante di mio fratello Evan. Difficile credere
che siamo parenti. Evan porta i suoi quattordici anni come si porta un vecchio cappotto.
Vergognandosene. Fa passare i giorni, strappandoseli di dosso a uno a uno come fossero
cerotti. Ha un unico obiettivo: raggiungere i
suoi diciotto anni, ovvero la libertà di fare ciò
che vuole, di smettere di studiare e di poter finalmente convivere con Bi, la sua fidanzata,
l’unico essere umano con cui realmente parla o
interagisce in qualche modo.
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Evan ha i capelli flosci, senza vita, e veste
sempre allo stesso modo. Pantaloni elasticizzati e felpe malconce, grandi scarponi, improbabili magliette scucite. Tutto rigorosamente scuro. Ha una passione per i piercing. Credo che
ne abbia un po’ ovunque.
L’ultima novità è una spilla da balia infilzata
nella guancia.
«Carina», commento sarcastica non appena
la vedo.
Nessuna risposta. Solo uno sguardo obliquo
accompagnato da un borbottio da vecchia caffettiera stanca di fare il suo lavoro.
Evan mi scansa e scivola via. A quest’ora del
mattino, ha già nelle orecchie le cuffie che gli
sparano musica punk-rock a duemila decibel.
Sospiro. Non c’è niente da fare. Non credo
dipenda dai tre anni che ci separano, né dal
fatto che è un ragazzo. Evan è un essere di un
altro pianeta, che nessuno ha ancora scoperto.
E con lui non c’è comunicazione, punto.
Barcolla fino alla sua camera e ci si chiude
dentro. Ho un’immagine fugace del suo futuro. Non c’è nulla. Solo guai.
Prima o poi i fatti mi daranno ragione.
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E allora nessuno potrà farci un bel niente.
Mi vesto rapidamente e mi carico lo zaino
in spalla. È viola, come il quaderno che ho
comprato ieri e altre mille cose che mi appartengono. È viola perché tutto ciò che mi piace
è viola.
Apro la porta di casa e la richiudo alle mie
spalle. Sono pronta per andare a scuola.
Oggi è giornata di battesimi.
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Al mio arrivo è tutto come deve essere. Almeno qui.
Fuori, il solito gruppetto di ragazzi mi fissa
mentre passo nel corridoio affollato del primo
piano. Sento i loro occhi puntati su di me. Sarà
perché ho messo i pantaloncini bianchi, quelli
che mia madre reputa troppo corti per la scuola. A giudicare dagli sguardi che ricevo, credo
che non abbia tutti i torti. Bene.
Vedo le mie cosce sottili tendersi a ogni passo. Il pavimento di linoleum verde risuona sordo sotto le suole dei miei stivali di pelle nera.
Raggiungo il secondo posto di controllo,
che ogni ragazza deve affrontare dopo il suo
ingresso a scuola. Eccoli. Stanno lì, come sempre. Anche Ian mi punta. Di tanto in tanto distoglie lo sguardo, fingendo di parlare con il
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suo gruppetto di nullità. È certamente un tipo
carino, ma ha intorno troppe ragazze, per i
miei gusti. Va a dire in giro che uscirà presto
con me. Si crede irresistibile.
Non lo è.
Mi toglierò lo sfizio di uscire con Rubi, il suo
amico emarginato. Ian non capirà perché lo faccio. Lo lascerò a bocca aperta e asciutta, come
un grosso e stupido pesce arenato sulla spiaggia.
Ecco che sorride. E io sorrido. Non sa cosa
aspettarsi, ma crede di aver capito. Forse,
dopo, la smetterà di circondarsi di amici insignificanti per cercare di emergere.
E di annunciare a tutti quello che farà.
Carino. Ma perdente.
Le mie amiche invece sono diverse. Ognuna
con la propria personalità vincente. Seline,
sempre allegra e curiosa, sarebbe capace di vivere una settimana solo facendo shopping.
Agatha, taciturna e introversa, è indipendente e
determinata. E Naomi, vivace ma equilibrata, è
una di quelle che dicono sempre quello che
pensano. Mi aspettano in classe, come tutte le
mattine. Il nostro rapporto è molto semplice:
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hanno stabilito che io sarei stata la loro guida.
Preferisco il termine “guida”, perché “capo”
implica il dare ordini e il far parte di un gruppo, che non è il mio caso. Sono loro che mi seguono, dato che si fidano di ogni cosa che faccio e dico. È una decisione loro. Non mia. Questa è la forza della nostra amicizia.
«Ciao ragazze», le saluto, senza muovere un
singolo muscolo della faccia.
A volte mi dicono che sono fredda. E forse
è così. Ma dosare le emozioni è una necessità,
oltre che un dovere: sorrisi e lacrime possono
essere molto pericolosi se lasciati fuori controllo. Vanno gestiti con il contagocce perché non
cadano in mano a qualche bastardo capace di
usarli contro di te.
«Quanti battesimi abbiamo da fare, oggi?»,
domando, posando lo zaino sul banco.
Non facciamo nulla di male. E soprattutto
sono le ragazze del primo anno a chiedercelo.
Dietro regolare domanda, le esaminiamo. Se vogliono il battesimo, che poi significa avere la nostra amicizia, devono affrontare quattro prove:
passare una notte fuori di casa da sole, rubare in
un negozio, convincere una persona di nostra
scelta a fare qualcosa (qualsiasi cosa), distruggere davanti a noi un oggetto a cui tengono molto.
Se ce la fanno, le battezziamo. E loro diventano automaticamente persone degne della nostra amicizia. Perché è questo l’amicizia: rispetto e fiducia. Niente gruppi. Nessun capo. Nessuna struttura. Ma scegliere liberamente a chi
accompagnarsi.
«Credo sia meglio rimandare i battesimi»,
dice Naomi.
«Come mai?».
«Abbiamo un problema».
«Che problema?».
La guardo dritta negli occhi.
«Questo».
Naomi mi mostra il display del suo telefonino.
Sgrano gli occhi. Vedo il corpo seminudo di
una ragazza. È di spalle. È Seline!
«Ditemi che non è vero…».
«Purtroppo sì».
Seline scuote la sua coda di capelli biondi.
«È stato lui! È uno schifoso!», quasi grida
Naomi, fuori di sé.
«Dobbiamo fare qualcosa», sussurra Agatha
con una calma gelida che sembra strisciare in
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mezzo a noi. Ha tutta l’intenzione di organizzare una punizione esemplare.
Le guardo. Annuisco. Lui, lo schifoso, si
chiama Adam ed è senz’altro uno dei belli e bastardi della scuola. Uno di cui conosciamo una
serie di bravate più o meno gravi. Da molto
ronzava intorno a Seline, attratto dalle sue forme morbide e dalla sua dolcezza. Ci aveva visto
giusto. Seline è buona, cosa rara e soprattutto
pericolosa. Naomi l’aveva avvertita. Ma Adam
è stato bravo. L’ha corteggiata in tutti i modi,
mandandole addirittura un mazzo di rose bianche. Come abbia fatto a comprarle, non lo so.
Le rose costano. Adam non è certo di famiglia
ricca, ma ha sempre soldi in tasca. E lei è stata
al gioco, si è lasciata andare. Ci aveva detto che
non si sarebbe mai concessa più di tanto.
E invece…
«Ti avevo avvisato», dico. «Giocando con il
fuoco, ci si scotta».
Non mi piace rimarcare l’ovvio, ma Seline
in quanto a uomini ne capisce come un bambino di alta finanza.
«Avevi ragione», risponde lei con lo sguardo basso puntato sulle sue ballerine argento.
«Com’è successo?».
Seline mi guarda, rossa in viso. È sul punto
di piangere, ma si trattiene. Non mi ha mai visto con le lacrime agli occhi e cerca di imitarmi. Lo sforzo le impedisce di parlare.
Lo fa Naomi per lei. Mi racconta di come
Adam si sia intrufolato negli spogliatoi femminili della palestra e abbia fotografato Seline
mentre si stava rivestendo dopo la doccia.
«Non credevo potesse arrivare a tanto…».
Seline, ora, singhiozza.
«Figuriamoci», dico.
Il mio tono sprezzante è come una miccia
che fa esplodere il fiume di lacrime che fino a
quel momento Seline è riuscita a contenere.
Le ragazze rimangono un istante in silenzio,
in attesa che io dica qualcos’altro, ma non trovo niente da dire. È uno dei rari casi in cui l’ingenuità di Seline mi ha lasciato senza parole.
«Il problema è uno solo: l’ha filmata con il
telefonino!».
Naomi è sempre sbrigativa nelle sue osservazioni. Nei momenti difficili, il senso pratico
è una caratteristica che apprezzo molto.
«E ormai l’avrà vista tutta la scuola!».
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«Proprio così».
Agatha rimane in silenzio.
Non ci posso credere. Come si può essere
tanto stupide da cacciarsi in un guaio simile?
Mi sento invadere dalla rabbia, poi a poco a
poco la rabbia si trasforma in una sensazione
più liquida e diventa pena. Compassione. Penso a come deve sentirsi Seline, l’umiliazione e
la sofferenza che deve provare.
«Deve pagarla», dice alla fine Agatha, con
tono secco e pungente.
«E come?», chiede Seline tra le lacrime.
Un lampo attraversa gli occhi neri di Agatha.
«Spaventiamolo a morte».
«Spaventarlo?».
«Esatto».
«Spiegati meglio».
Agatha è tranquilla, lucida, metodica. Ma a
volte ho quasi paura di sapere cosa pensa.
«Lo aspettiamo giù al fiume e gli facciamo
capire come ci si comporta. Questa sera. Adam
sarà solo, nessun ostacolo».
«E tu come fai a saperlo?».
«Ha importanza?».
La guardo, sorpresa. La conosco da poco,
da quando si è trasferita in Città con la zia. Pare
sia orfana e non abbia altri parenti. Ha superato le quattro prove del battesimo con estrema
facilità.
Una volta ci ha detto che noi siamo la sua
famiglia e che farebbe qualunque cosa per non
finire chiusa in un istituto. Non so se parlasse
sul serio ma io, come sua famigliare, intuisco
che c’è qualcosa di più profondo in lei, qualcosa che non ci dice.
Ed è cattivo.
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La mia scuola fa schifo.
E non credo che la mia opinione migliorerebbe molto se si trovasse in uno di quei lussuosi edifici immersi nel verde che si vedono nei
film. Anche se, di certo, la renderebbe meno
squallida.
Non mi sto lamentando di essere nata in una
famiglia di mezzi falliti, senza grandi possibilità
economiche. Ma ho la convinzione che il mio
cervello meriti di essere educato in un posto
migliore di questa scatola bianca che sembra un
capannone, con i pavimenti di linoleum verde
incrostati di cicche masticate e le pareti annerite da anni di risse, spintoni e insulti.
Le aule sono grandi e illuminate da chilometri di luci al neon, come gigantesche stanze
di un vecchio ospedale, dove una parola rie22
cheggia con la forza di un urlo e il bianco disarmante dei soffitti ti ricorda il vuoto che hai
dentro ogni giorno varcando l’ingresso. Grandi finestre rettangolari tentano di portare all’interno una luce che troppo spesso manca anche fuori, mentre i nuovi banchi di formica grigia ti dicono che prima o poi la plastica sostituirà pure te.
In tutta la scuola non esiste un luogo in cui
lo sguardo si possa riposare e la mente vagare.
Non esiste un luogo dove si possa godere di
una sana e tranquilla solitudine, perché ogni
metro dei lunghi corridoi, ogni gradino dell’assurda scalinata, ogni angolo dei bagni è affollato di corpi in movimento, di macchinette del
caffè che non danno mai il resto, di lavandini
otturati, di bocche che parlano, fumano, insultano e poi, alla fine, lasciano questo edificio
vuoto e silenzioso come una grande nave prima del naufragio.
Quanto ai professori, poi, ci sarebbe materiale sufficiente a scrivere la sceneggiatura di
un film grottesco. Immaginatevi una squadra
di fantocci vestiti da una stilista pazza, o sem23
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plicemente daltonica, che appaiono in classe
dal nulla di un corridoio e nel nulla scompaiono, come se non avessero nessun’altra esistenza se non quella all’interno della scuola. Fantocci che vomitano un copione prestabilito,
sempre uguale a se stesso, e che mi costringono a recitare tutte le mattine.
Così se ne va metà della mia vita.
Ne salvo solo uno. Il professore di scienze e
chimica, che tutti, bidelli compresi, chiamano
Professor K, anche se nessuno ormai ricorda
più perché. Il Professor K è albino, con i capelli bianchi e la pelle chiarissima. Ha un’età indefinibile e si dice che abbia gli occhi rossi,
come le creature della notte, ma è difficile verificarlo, perché indossa gli occhiali scuri anche
in aula. Parla poco e sempre a proposito, e ha
una voce profonda, legnosa, quasi sensuale. La
sua pelle ha un profumo insolito, di vaniglia,
differente dal nauseabondo miscuglio di dopobarba speziati che aleggia per i corridoi.
Conosco ragazze che morirebbero per andare a letto con lui. Ma il Professsor K pare
impermeabile a qualsiasi tentazione. Ogni tanto ho l’impressione che mi fissi attraverso le
sue lenti scure e allora ricambio lo sguardo,
fino a quando l’impressione svanisce. Non è
una cosa spiacevole. Immagino che, di qualunque colore abbia gli occhi, il suo sguardo non
sia viscido come quello di Ian. Sembra quasi
che mi stia esaminando, ma per capirmi, non
per giudicarmi. È lo stesso modo con cui io osservavo Agatha che distruggeva a martellate la
ruota della sua bicicletta per superare la quarta prova del battesimo.
Mi mette un po’ a disagio, eppure il suo comportamento ineccepibile non lascia spazio a
dubbi: il Professor K è senz’altro una brava persona. Un uomo intrigante e molto intelligente.
Solo la sua presenza rende più giustificabili
le ore trascorse lì dentro.
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Il mio banco è in quinta fila e questo significa due cose: la prima e fondamentale è che gli
insegnanti mi ritengono un soggetto “diligente” e perciò non mi tengono inchiodata in uno
dei posti di fronte alla cattedra, dove invece
soggiornano le teste calde che non hanno ancora capito che farsi notare in aula è inutile oltre che controproducente. Se sei tosto si vede
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fuori da queste mura, dove nessuno ti protegge o ti dice come comportarti. Dove sei tu contro il mondo. La seconda cosa è che dal mio
banco controllo tutta l’aula. Vedo le due nullità sedute in quarta fila che passano le ore a
costruire squadre di calcio inesistenti su cui
poi scommetteranno e perderanno i loro soldi.
Vedo la ragazza della sesta, che ancora non ricordo come si chiami, che continua a prendere
appunti cambiando penne di diversi colori. A
cosa servono tutti quei colori? È roba grigia,
ragazza, quella che scrivi. Solo grigia. E infatti,
a ogni interrogazione fa scena muta. A destra
ci sono invece le «borsette», come le chiama la
professoressa di arte: quattro ragazze tanto carine quanto vuote che hanno scambiato l’aula
per il salotto di casa. Si vestono imitando le
cantanti famose, parlano solo di marche di vestiti che non potranno mai permettersi e mandano ai ragazzi bigliettini chilometrici pieni di
insulsi cuoricini. I ragazzi della mia classe sono
tutti nelle prime due file. Due neri. Un asiatico. Un biondo. E un quinto che da quando lo
conosco non si è mai levato il cappellino dallo
scalpo. Quando camminano, si possono senti-
re le catene che portano al collo. Ci parliamo a
monosillabi. Le parole più lunghe sono insulti.
Sono questi i pilastri del futuro?
La verità è che sono circondata da manichini animati, che si muovono e parlano sempre e
solo secondo un programma prestabilito. Che
vita inutile la loro.
È entrato il primo professore della mattinata, quello di matematica. Ha gli occhi arrossati
e delle borse livide sotto, come chi ha trascorso le ultime diciotto ore davanti a uno schermo
televisivo.
Ora si volterà e comincerà a scrivere strisce
di numeri sulla lavagna. Tutti lo seguiremo per
i primi due minuti, poi ognuno si perderà su
una cifra a caso e si limiterà a rispondere sì
quando, a lavagna piena, l’insegnante si volterà
soddisfatto e chiederà: «Avete capito?».
Forse è lui che non ha capito.
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Al suono della campanella Naomi, Seline,
Agatha e io apriamo i nostri ombrelli per ripararci dalla pioggia. A cosa servirà tutta quest’acqua poi?
«Guarda, c’è Morgan», mi indica Naomi.
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Lancio un’occhiata verso il cancello della
scuola.
Lo vedo. Se ne sta appoggiato a una delle
due colonne che fiancheggiano l’ingresso. È vestito di scuro, come sempre, e ha un berretto di
lana nera ficcato in testa per ripararsi dalla
pioggia. Morgan non è solo bello. Ha un non
so che in più. Le mie amiche, Naomi in testa,
sostengono che sia il mio tipo ideale. Forse.
Non lo so. Per ora non ho un “tipo ideale” in
mente. Per ora non ho niente.
Lui sta discutendo con qualcuno. Ma non
riesco a vedere con chi.
«Aspettatemi qui».
Chiudo l’ombrello e mi infilo anch’io un berretto simile a quello di Morgan. Attraverso il
cortile schivando le pozzanghere. Quando lo
raggiungo è da solo. Strano. La persona con cui
parlava sembra essere svanita nel nulla. Lui mi
guarda con occhi colpevoli, come di chi è stato
sorpreso a rubare. Approfitto di quella sua esitazione per studiarlo meglio. Non so se dipenda
dal fisico slanciato e perfetto o dai capelli biondi da angelo o dagli occhi quasi viola, oppure
dalla fossetta che, quando sorride, segna il lato
sinistro della bocca, ma il fatto è che Morgan è
senza dubbio il ragazzo più interessante che conosco. E sono certa sia anche il più pericoloso.
«Ciao Alma».
È questione di due parole, e ogni sua indecisione è scomparsa. Mi trovo spiazzata: ora
sono io quella fuori posto. Ma non abbasso lo
sguardo.
È strano. Di norma intuisco le intenzioni
delle persone, le anticipo, non sbaglio una battuta. Ma con lui non è così. A volte lo sento
stranamente vicino a me, eppure i suoi pensieri mi sfuggono sempre. Possiamo solo parlare,
in una partita a carte coperte.
«Ciao Morgan».
«Mi cercavi?».
«No. Pensavo che stessi parlando con
Adam. È lui che cerco».
Mi compiaccio della mia abilità di improvvisazione.
«Io non parlavo con nessuno».
La sua voce è calma e misurata.
Eppure sono sicura che ci fosse qualcuno
con lui, prima, nascosto dal cancello. Perché
mente?
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«Hai ragione. Non stavi semplicemente parlando. Stavi discutendo».
«Ti sbagli, Alma».
Accentua particolarmente la pronuncia del
mio nome. Sembra un avvertimento. Ma non
capisco se è una minaccia o un consiglio.
Sorrido appena, a metà tra l’ironico e il divertito. Mi avvicino a lui in punta di piedi, le
mie labbra al suo orecchio, lentamente. Il tutto
a beneficio delle amiche che mi stanno guardando.
«Allora scusami, Morgan», sussurro.
Respiro l’odore appena tiepido della sua
pelle. Non sa di nulla.
Lui resta immobile, non cambia espressione. Poi si volta di scatto e ci ritroviamo faccia a
faccia, il mio naso a pochi millimetri dal suo.
La tensione sale rapidissima, come se non ci
fosse aria tra noi, a dividerci. Ma sale anche la
pioggia, si fa più fitta e pesante, e ci risveglia.
Ci portiamo d’istinto le mani sulla testa e ci
guardiamo intorno alla ricerca di un riparo.
Le ragazze sono ancora vicino all’ingresso
ad aspettarmi.
«Ciao».
Mi allontano senza nemmeno guardarlo, ma
sento i suoi occhi puntati sulla mia schiena.
«Ciao», dice lui, e sembra divertito, quasi il
suo fosse un “arrivederci a prima di quanto immagini”.
La pioggia batte furiosa intorno a me. Corro alzando schizzi d’acqua, gli stivali picchiano
nelle pozzanghere.
«Cosa succede?», mi chiede Naomi non appena la raggiungo.
«Niente di interessante».
Non ho voglia di raccontarle nulla.
In fondo sono solo sensazioni.
E comunque sono mie.
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