Moleskine/Luisa Pianzola
Il moleskine è un libretto leggendario, è stato usato
da Matisse, Céline, Hemingway e in particolare da Bruce
Chatwin che lo ha reso famoso. E' un semplice
rettangolo nero, con le pagine a quadretti o a righe, i
bordi trattenuti da un elastico, una tasca interna per
custodire foglietti volanti, una rilegatura in tela cerata
(moleskine) da cui prende il nome.
Un compagno di viaggio sul quale raccogliere le
impressioni e le storie di Poeti italiani per la nuova
rubrica di writers curata da Ivano Malcotti.
Venerdi 21 Novembre 2003
La poesia è un "tiepido corso in noi", per usare un tuo verso ?
È un terreno insidioso, quello della definizione di cosa sia una forma d'espressione artistica rispetto a u n'altra (mi
ricorda la "domanda delle domande" che ci venne posta alle scuole medie dall'insegnante di educazione artistica:
"che cos'è l'arte?", un'idea vaga ora me la sono fatta, ma continuo a provare una certa idiosincrasia per le
"delimitazioni di campo"...) Comunque, ci provo, citando (non me ne voglia) Patrizia Valduga, che a sua volta
attribuisce la frase a un matematico nel 1706: "la poesia è un sogno fatto in presenza della ragione". La trovo
calzante perché allude ai due elementi fondamentali della poesia: il creativo -pulsionale e il razionale,
misteriosamente inscindibili. Per me questi due momenti corrispondono spesso anche a due fasi temporalmente
separate: il nucleo generativo (l'"ispirazione" che arriva quando arriva, che devi afferrare al volo buttando giù le
parole come in trance ecc ecc), e la rielaborazione, che attiene all'artigianalità e consiste nel togliere, limare
(personalmente adoro alleggerire, eliminare aggettivi e parti accessorie "fino quando il testo sta in piedi", come
faceva Carver). Dei due momenti, se il primo è esaltante, esplorativo, il secondo è di una piacevolezza più dolce,
sottile, forse davvero un "tiepido corso in noi", perché quando crei sei "posseduto", quasi cieco nei confronti di ciò
che scrivi, mentre quando rielabori riacquisti il controllo, sorvegliando la materia e la forma.
Riflettendoci, "tiepido corso in noi" può alludere anche a come vedo io la poesia: un impulso che ci percorre e ci
attraversa, toccando e mettendo in comunicazione luoghi e persone al di là di tempo, spazio, età, culture. Un andare
sotterraneo, a un livello inferiore (e quindi molto più profondo) rispetto al flusso del linguaggio convenzionale.
( ... ) Ho un mio modo di scrivere poesia: la prima stesura è sempre a mano su carta, con una grafia inconsciamente
(ma anche volutamente) poco leggibile, perché questo mi permette, a una rilettura, di modificare le parole
intervenendo ancora sul nucleo generativo poetico. La riscrittura a computer, che coincide anche con la
rielaborazione della form a, avviene anche molti giorni dopo, meglio se di quella poesia mi ero completamente
dimenticata.
Nella tua poesia irrompe spesso la sottile malinconia
della vita di provincia, perchè se si vive solo nel
"dopocena" come puntualizzi tu?
La provincia, intesa come "vivere lontano dal centro" è uno
stato dell'anima, più che un luogo fisico, che mi attrae e
respinge allo stesso tempo (non è un caso che viva a metà
tra una piccola città, Tortona, e una grande città, Milano).
La poesia alla quale ti riferisci, di qualche anno fa, aveva
un'impronta vagamente sociale, con un riferimento a un certo
tipo di
immagine femminile passiva, socialmente debole, che in qualche modo facevo corrispondere a un climax tipicamente
provinciale. Oggi, forse, quel tipo di figura la vedrei meglio ambientata nella periferia metropolitana o in quel certo
squallore globalizzato che sfuma i confini tra piccola e grande città... Il mito della provincia, dalla quale si fugge per
inseguire i propri sogni di affermazione, oggi mi sembra un po' superato (complice, forse, l'avvento della
comunicazione virtuale e della costante interconnessione degli individui che crea una bizzarra dimensione in cui tutti
sono "dappertutto in nessun luogo"...)
"... Ma non mi riconosco/ e dentro sconosciuti confini/ se chiamano il mio nome/ non rispondo": quali
sono i confini conosciuti?
Mah, per mia natura non ho molta simpatia per i confini in genere e, se ci sono, la mia attitudine è a cercare di
superarli (anche se a volte l'impresa è quasi impossibile). I confini più inequivocabilmente e ineluttabilmente reali
sono quelli del corpo, dal quale proprio non si può scappare (se non con la poesia, l'arte, la musica, l'amore). E per
corpo intendo non soltanto l'involucro più o meno efficiente/attraente che ci contiene, ma la somma di circostanze
fisiche, culturali, ambientali, genetiche che determinano i nostri pensieri e le nostre attitudini al di là della nostra
volontà e consapevolezza.
Molti versi parlano di crepuscolo e silenzio, buio e ombre, quale mistero si nasconde dietro la notte?
Questa cosa me la fai notare tu ora, non mi ero accorta di una particolare presenza di buio/ombre nelle mie poesie...
Ma, riflettendoci, ciò può avere un'attinenza con il mio amore, fin da bambina, per il disegno e in particolare per il
chiaro scuro, il bianco e nero, che hanno sempre corrisposto, per me, a una ricerca di plasticità e di essenzialità della
forma. Per quanto riguarda la notte, so che scrittori e artisti in genere la amano, di notte creano, vivono... Io non
sono un animale notturno, nel senso che non amo svilire la notte confondendola con attività diurne, preferisco
riservarle il regale ruolo di "grande viaggio annullatore del giorno", la notte è una buia materna traghettatrice alla
quale affidarsi per rimanere sospesi, assenti da sé, vedendo le cose dall'alto, da lontano, come non fossero mai
esistite...
Con molta passione parli del corpo, delle sensazioni
illimitate della corporeità. Il corpo, quindi, come
"tempio" della conoscenza ? Le pelle "voce" del
cuore ?
Il corpo, da sempre, è oggetto di massima attenzione da
parte di artisti, filosofi, scienziati. La cultura che lo nega e
quella che lo esalta da sempre si combattono creando
dissidi, teorie, mostri, malinconie, desiderio. Il corpo è un
dato incontrovertibile che ci accomuna inesorabilmente, e
dagli sforzi per negarlo (e dalla dolcezza nell'assecondarlo)
penso siano nate nate le più grandi opere d'arte e del
pensiero.
Il patto con la conoscenza è di diventare adulti e difendersi dalla vita?
Difendersi dalla vita - che va di pari passo con la conoscenza - è qualcosa che si impara a fare molto presto. Ma si
vorrebbe non averlo mai imparato, perché questa difesa è qualcosa che ci allontana dalla bellezza (che è
inconsapevolezza). Eppure, è così struggente la malinconia che deriva da questa negazione... D'altra parte, se non
fosse propria della condizione adulta, l'impossibilità di raggiungere la bellezza, quale mai sarebbe il compito dei
poeti? (Preciso che per me bellezza può essere anche frutto di disarmonia, contrasto... mi piace ricordare una frase
che ha scritto Getrude Stein in un libro su Pîcasso: "... E' inevitabile che l'inventore, il quale non sa quello che
inventa, faccia una cosa che ha la sua bruttezza").
Che rapporto c'è tra poesia e natura?
Un tema mica da ridere. La mente corre a Pavese, Pasolini (il mito della campagna, della vita rurale come stato di
incorruzione dell'uomo), oppure alla ultracitata "natura matrigna" leopardiana che non mantiene ciò che promette...
Ma preferisco intendere la tua domanda in modo più strutturale, quasi matematico. Dunque, vediamo: tutto ciò che
esiste, e quindi anche la poesia (e quindi anche la ragione) è prodotto dalla natu ra, sta dentro di essa. Quindi non
può esistere vera contrapposizione tra poesia e natura (come non può esistere vera contrapposizione tra ragione e
natura). Quindi poesia è natura.
Maurizio Cucchi ha scritto della tua poesia: "l'esperienza si deposita sulla pagina in immagini la cui
concretezza le fa sembrare quasi cose, dando loro una sorta di consistenza fisica che impegna il lettore
in un vivo attrito", corrisponde al tuo intento?
Mi ha fatto molto piacere questa osservazione di Cucchi perché è molto vicina a come intendo io la poesia (e che mi
piace nella poesia in genere): una scrittura fatta di oggetti, parole comuni, pezzetti di quotidianità che diventano
poetici perché estrapolati dal loro contesto abituale e trasferiti ad un altro. È questo scarto, questo cambiamento di
lettura - e la sorpresa che ne nasce - che crea la poesia. Oggetti e frammenti quotidiani diventano "altro", evocando
un'assonanza con mondi, sensazioni e idee che non avresti mai sospettato. Questo è un processo tipico anche
dell'arte contemporanea, da Duchamp a Morandi, dall'Arte Povera a un giovane artista figurativo mio amico,
Giuseppe Restano, una cui opera ho scelto per la copertina del mio libro Corpo di G. (edito da Lietocolle). Insomma,
per esprimere, ad esempio, uno stato d'animo, come strumento poetico preferisco un'immagine concreta a un
concetto astratto (del resto, anche Montale parlava di ossi di seppia per intendere altro). E in genere diffido della
poesia che usa astrazioni fumose, toni epici o enfatici (quello che i o chiamo "poetese") che, a mio giudizio, non
portano da nessuna parte.
Complessa, articolata, profonda, ma sempre terribilmente energica, cosa manca per definirti?
Fragile (handle with care...)
a cura di Ivano Malcotti
Luisa Pianzola - Nota biografica
Nata a Tortona nel 1960, si è laureata in storia dell'arte contemporanea e diplomata in visual design. Ha pubblicato i
libri di architettura Alberto Sartoris, da Torino all'Europa (Alberto Greco Editore, Milano 1990) e Prima del Progetto,
disegni della formazione di Alberto Sartoris (Sapiens, Milano 1993).
Nel 1992 ha pubblicato la raccolta di poesie Sul Caramba (Sapiens). Suoi versi sono apparsi sulle riviste "Futurismo
oggi", "Specchio", "Pagine", nel volume Il segreto delle fragole (Lietocolle, 2003) e nell'antologia Clandestini
(Lietocolle, 2003). Tra i vincitori del premio nazionale di poesia Giuseppe Piccoli, Verona, 2002, ha da poco
pubblicato il suo secondo libro di poesia Corpo di G., Lietocolle, con prefazione di Maurizio Cucchi. Giornalista
pubblicista, ha insegnato per dieci anni all'Accademia di Arti Applicate di Milano e attualmente collabora con varie
riviste. Vive e lavora tra Tortona e Milano.
Poesie
Membra
Le vuote
sembianze mie vedo
rotolare composte
su pavimenti e poltrone
e braccia e gambe vedo
discorrere d'amore con signori
ma non mi riconosco
e dentro sconosciuti confini
se chiamano il mio nome
non rispondo.
***
Star soli nelle guerre
non è difficile
si ascolta il nemico
si studiano le mosse e si aspetta
in un letto in un cortile del centro
in una grande città
si decide, soli, di rischiare
***
Quel ragazzo, al mio ginocchio
dolcissimamente una mano pose
la moto guidando piano
nel paese fuggiasco, che al passo nostro mutava
come altopiano alle alci.
(da Corpo di G.)
ci si avventura al posto di combattimento
senza pentimenti, dopo una notte intera
dormita accanto a mappe bellissime.
***
(da Corpo di G.)
***
Son cose di vita, amore
a dirtelo divento aurora, ma di carne
e ne ho ancora tanto di sapore salato
di sapore secco di baci dati riavuti
all'ultimo piano di New York
mentre ballonzolava nel vuoto il soggetto
della storia che sarei io, ma chi me lo assicura.
(da Corpo di G.)
***
mi dici stai ferma, forse col pensiero
di muovermi più tardi accetto
la proposta, se volessi potrei scappare
ma non mi sembra carino...
La favola è senza eroi né cattivoni
quindi non c'è nessuno da salvare
il bene e il male trionfano già, si sentono
rumori tipo auto che passano o uccellini.
(da Corpo di G.)
E rumori d'incendi che sovrastano
a malapena case senza buio, dentro le case
martìri tutti chiusi da decine di persiane
e non uscire che circospetto
e tornare da un punto lontano dove arrivo
sempre anch'io, ma sento già un tale
silenzio, una tale assuefazione.
(da Corpo di G.)
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