Paolo Dalmartello
“Decreto Competitività”: giustizia, giurisprudenza
e contesto economico.
SOMMARIO: 1. Introduzione e programma. Giustizia e Giurisprudenza fatti economici – 2. La riforma del processo
esecutivo. Dalla prassi giurisprudenziale alla norma. - 3. La revocatoria fallimentare delle rimesse. Dal rifiuto
di una interpretazione alla norma - 4. La natura interpretativa della “nuova” norma. - 5. Il valore della
“uniforme interpretazione”. L’ enfasi abdicativa della Cassazione e il rifiuto della (sua) funzione nomofilattica.
- 6. Gli effetti della giurisprudenza sul mercato. Il falso conflitto tra giustizia giusta e giustizia efficiente. - 7. Le
azioni a tutela dei risparmiatori (e contro il risparmio). - 8. Conclusione
1.- Introduzione e programma.. Giustizia e Giurisprudenza fatti economici.
Trascorsi tre mesi dalla entrata in vigore del c.d. decreto sulla competitività
cercherò di esporre alcune riflessioni non tanto sulle novità di disciplina quanto su
significati e indicazioni di carattere più generale che dal decreto possono trarsi.
In particolare cercherò di valutare se alla collocazione di norme che disciplinano
il processo e gli effetti del fallimento in un decreto recante il “piano di azione per lo
sviluppo economico” possa essere attribuito il significato di porre tra i canoni interpretativi
(da usare per scegliere una interpretazione) anche quello degli effetti (del funzionamento
della giustizia, di particolari interpretazioni giurisprudenziali) sull’economia generale.
Individuerò quindi quattro grandi temi (di sicura generale rilevanza per il
mondo bancario e, quindi, per l’economia in generale) con riferimento ai quali, per effetto
di prassi e interpretazioni giurisprudenziali, si sono realizzati effetti rilevanti sulla
economia.
Su due di questi temi il legislatore interviene, (e interviene nel decreto che si
occupa di porre il piano di azione per lo sviluppo economico):
a)
da un lato il recupero del credito garantito da ipoteca: inserendo alcune
modifiche e innovazioni che si rifanno, con ogni evidenza, a risultati positivi
ottenuti dalla giurisprudenza e dalle prassi di alcuni Tribunali1 proprio in
funzione di conseguire una maggiore efficienza del processo esecutivo;
b)
dall’altro lato il legislatore interviene specificamente sul tema della revocatoria
fallimentare delle “rimesse” in conto corrente, con particolare attenzione a
rendere
vincolata
una
(già
esistente,
minoritaria)
interpretazione
giurisprudenziale.
Su altri due temi “caldi”, egualmente interessati da interpretazioni
giurisprudenziali contestate e rilevanti agli effetti economici, il legislatore non è ancora
intervenuto: ma non è da escludere un intervento (e se la giurisprudenza non riesce a
ricondursi a canoni interpretativi più attenti anche ai suoi effetti economici generali la cosa
è da auspicare).
Tali due temi sono connessi a due ulteriori grandi filoni del contenzioso
“bancario”, per intenderci quello dell’anatocismo e quello della intermediazione finanziaria
con riferimento in particolare i bond Argentina, Cirio e Parmalat nei quali gli effetti – sul
contesto economico generale -
di interpretazioni giurisprudenziali sono a dir poco
devastanti.
Modi e tempi del processo, esiti giurisprudenziali vengono fatti oggetto di
attenzione nell’ambito di un provvedimento che si occupa di porre un “piano di azione per
lo sviluppo economico”. Che è come dire: il processo e la giurisprudenza incidono sullo
sviluppo economico.
Farà da sottofondo al discorso, anche se ovviamente non potrà essere
sviluppato, l’auspicio di un meno episodico e più concreto riferimento, da parte della
giurisprudenza, ai canoni interpretativi posti dalla analisi economica del diritto.
1
Intendo riferirmi ovviamente e in primo luogo al Tribunale di Monza la cui esperienza è notissima. Per una
disamina completa e approfondita si rinvia a C. MELE, A. RODA, R. FONTANA, Le prassi delle vendite
immobiliari nel Tribunale di Monza, in Riv. dell’esecuzione forzata, 2001, 501 ss.)
A primo commento delle “Linee generali della riforma” delle società per azioni (ma le osservazioni che
seguono hanno una portata ben più ampia e riferibile ai temi qui in esame) Floriano d’Alessandro notava che
“Se l’obiettivo, come è dichiarato, è quello di accrescere la competitività del nostro sistema produttivo, è
assai più urgente rimuovere la gigantesca imposta occulta che grava su di esso a causa della madornale
inefficienza, degna di un paese del terzo mondo, della funzione giudiziaria (per non parlare di quella della
pubblica amministrazione). …Sarebbe forse il caso di abbandonare l’idea che si possa rimettere in marcia la
macchina giudiziaria utilizzando solo la leva delle regole processuali..(…) Infine non trovo giustificato porre
mano solo ai problemi della giustizia, se posso chiamarla così, endoimprenditoriale: per l’efficienza del
sistema sarebbe, credo, assai più importante consentire, poniamo, a una banca, di recuperare rapidamente i
propri crediti in sofferenza piuttosto che allestire una corsia preferenziale ad una controversia circa la
correttezza del suo bilancio” (così F. D’ALESSANDRO, Linee generali della riforma” – testo provvisorio – al
Convegno “Diritto societario: dai progetti alla riforma” Courmayeur 27-28 settembre 2002)
2
2. - La riforma del processo esecutivo. Dalla prassi giurisprudenziale alla norma
E’ esperienza comune di coloro che si occupano e si sono occupati di recupero
del credito e segnatamente di recupero del credito bancario che, ad un certo punto la
inefficienza del sistema giustizia unita a una non dichiarata (perché non si traduceva
sempre in provvedimenti quanto nella non assunzione di provvedimenti) protezione dei
debitori aveva reso aleatorio l’intero sistema del recupero del credito.
Poi ci sono stati dei giudici (a Bologna, a Monza) che per primi si sono accorti
che così non si poteva andare avanti. E si sono inventati un processo esecutivo efficiente.
Rendendo evidente a tutti che di un processo esecutivo efficiente non beneficia solo il
creditore. I creditori (visto che siamo qui diciamo per comodità le banche) possono
recuperare integralmente e rapidamente i loro crediti in sofferenza e ciò incide
positivamente sui loro bilanci. La consapevolezza delle recuperabilità dei crediti incide
positivamente sulla propensione alla erogazione del credito. Il processo esecutivo efficiente
elimina dal mercato del credito in contenzioso tutti quei soggetti poco raccomandabili che
un tempo vi sguazzavano ed erano i veri beneficiari delle esecuzioni forzate. Persino il
debitore ha dei vantaggi; se è vero come è vero che la vendita del bene esecutato a prezzo
di mercato consente talora non solo di rimborsare integralmente i creditori ma di
riconoscere il residuo al debitore.
Ed ecco un primo dato: il legislatore, nel decreto che si occupa dello “sviluppo
economico” segue la strada segnata dalla giurisprudenza. E la segue – generalizzando perché – in questo caso - la giurisprudenza ha applicato le norme in funzione della
efficienza. Non solo del processo ma anche del sistema economico.
3.- La revocatoria fallimentare delle rimesse. Dal rifiuto di una interpretazione alla norma.
La relazione governativa al decreto legge 14 marzo 2005 n. 35 – “Disposizioni
urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”,
trattando dell’articolo 2 del decreto, dopo aver premesso che “l’articolo in esame detta le
prime urgenti disposizioni finalizzate alla modifica della legge fallimentare….” illustra il
3
senso e lo scopo delle modifiche portate all’art. 67 l.f. con una frase dalla quale partirò per
questa mia esplorazione.2
“In particolare, l’istituto della revocatoria fallimentare viene rimodulato,
attraverso un intervento che, da un lato, precisa meglio i presupposti per l’esercizio della
azione (oggi sovente fonte di incertezze applicative e di contrasti giurisprudenziali) e,
dall’altro, inserisce una completa disciplina di esenzioni dalla revocatoria, al fine di
evitare che situazioni che appaiono meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio,
sovente strumentale, delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del
destinatario dei pagamenti.”
Orbene, la relazione governativa al decreto che pone il “…piano di azione per
lo sviluppo economico….” indica come necessaria la “rimodulazione” dell’”istituto della
revocatoria” individuando quali aspetti da correggere (evidentemente in quanto ostativi lo
sviluppo economico) sia le “incertezze applicative” e i “contrasti giurisprudenziali” (dei
quali si evidenzia la frequenza: “sovente fonte”), sia il fatto che “situazioni che appaiono
meritevoli di tutela siano invece travolte dall’esercizio, sovente strumentale, delle azioni
giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del destinatario dei pagamenti”.
Approfondendo la analisi testuale: dunque, il decreto individua, come elemento
che allo sviluppo economico si oppone, l’istituto della revocatoria fallimentare, non certo
in quanto tale ma in quanto interessato da generalizzate e frequenti incertezze
interpretative, contrasti giurisprudenziali ed esercizio strumentale delle relative azioni
giudiziarie.
Non può sfuggire l’importanza di simili enunciati. Ad una particolare, ben nota,
“giurisprudenza” viene riconosciuta – dal legislatore – la capacità di incidere
(negativamente: tanto che il legislatore ritiene di dover intervenire) sullo sviluppo
economico del paese.
Se poi, acquisito il dato, si passa all’esame del decreto, e segnatamente del suo
articolo 2, si potrà notare che esso è costruito come una norma che “apporta modificazioni”
all’art. 67 della legge fallimentare.
2
Il richiamo alla relazione governativa è svolto per individuare lo scopo della norma (e di conseguenza la
sua natura). Nel senso indicato come corretto da Zagrebelsky: “nell’interpretazione assume importanza la
considerazione dei lavori preparatori, la ricostruzione, attraverso i mezzi più diversi (dichiarazioni,
relazioni, programmi, ecc.) della direzione verso la quale si è mossa la volontà del legislatore.” (G.
ZAGREBELSKY, Diritto costituzionale, il sistema delle fonti del diritto, 1999, Torino, 1999, p. 73).
4
Per quanto riguarda la norma che più da vicino interessa il mondo bancario, e
cioè l’art. 67, comma secondo, l’unica modifica introdotta appare essere quella relativa
alla durata del c.d. “periodo sospetto” (che passa da un anno a sei mesi).
A tale modifica “diretta” del secondo comma si accompagna peraltro
l’introduzione di un terzo comma che elenca una serie di esenzioni: in particolare, con
riferimento al disposto dell’art. 67 comma secondo, il decreto precisa che “non sono
soggetti alla azione revocatoria” …. “b) le rimesse effettuate su un conto corrente
bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione
debitoria del fallito nei confronti della banca”.
Sol che si consideri che il tema delle “rimesse” è certamente, da almeno
venticinque anni, il campo ove si sono avute le più forti incertezze applicative e i più
vivaci contrasti giurisprudenziali e che le azioni contro le banche - per la revoca di quei
pagamenti che vengono definiti “rimesse” - sono esperite con finalità certamente (almeno:
anche) strumentali (a cosa? La relazione al decreto non lo dice ma non ci vuol molto a
rispondere: a finanziare le insolvenze) facilmente si conclude che una particolare
attenzione, ai fini del raggiungimento dello scopo che il decreto si prefigge (“…lo sviluppo
economico …”), è posta proprio alla eliminazione di incertezze applicative, contrasti
giurisprudenziali e utilizzi strumentali. La tipica funzione della norma interpretativa, anche
se mascherata (nel suo essere, anche, “pro quota”, norma interpretativa) da norma nuova, di
modifica della disciplina esistente.
Con la previsione, così sembra disporre in termini generali
il 2° comma
dell’articolo 2 del decreto: “Le disposizioni del comma 1, lettere a) e b) si applicano alle
azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo l’entrata in vigore del
presente decreto”.
4.- La natura interpretativa della “nuova” norma.
Peccato che la c.d. “esenzione” dalla revocatoria delle “rimesse” tanto poco è
una “disposizione” nuova, come tale suscettibile di avere una disciplina della sua entrata in
vigore così barocca come sembra disporre la norma ora ricordata, da essere certamente una
norma interpretativa: nel senso che ci dice che “le rimesse” non sono pagamenti se non in
quanto riducono l’esposizione in modo consistente e durevole.
5
Tanto poco è – quella in esame – norma modificativa della precedente
disciplina, da essere assolutamente non necessaria a far giungere non solo la antica
giurisprudenza specie del Tribunale di Milano3 ma anche la recentissima sentenza della
Corte d’Appello di Firenze4 a conclusioni esattamente coerenti con quelle che la norma ora
impone.
3
La giurisprudenza cioè in particolare delle corti milanesi: cfr. Trib. Milano 8 gennaio 1976, in Banca, Borsa
tit. credito, 1996, II, p. 104; Trib. Milano 11 settembre 1978, in Giur. Comm., 1979, II, p. 622; App. Milano,
16 gennaio 1979, in Giur. Comm., 1980, II, p. 118 e Trib. Lucca, 8 luglio 1976, in Banca, Borsa tit. credito,
1978, II, p. 469, prima della pronuncia della Cassazione del 1982 che ha innescato il “gioco paradossale e
perverso del sistema bancario come un canale privilegiato di finanziamento delle procedure fallimentari” fino
a questo decreto
4
Cfr. Appello Firenze, 28 gennaio 2004, in Giur. Comm., 2004, II, p. 406.così massimata su Giurisprudenza
Commercaiale “Ferma la necessaria dimostrazione della conoscenza dello stato d’insolvenza, la revocatoria
fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario, quale che sia l’importo dell’eventuale apertura di
credito concessa alla banca e indipendentemente da questa, può colpire soltanto la differenza tra il massimo
del saldo passivo raggiunto dal conto nell’anno anteriore al fallimento ed il saldo finale alla vigilia di
quest’ultimo, in ciò dovendosi ravvisare il solutum incamerato dalla banca in violazione della par condicio”
Assai significativa ai fini che qui interssano la considerazione della Corte d’Appello di Firenze secondo cui
la giurisprudenza ha trasformato radicalmente il concetto giuridico di rimessa bancaria creato dal legislatore
(…che infatti dopo anni è dovuto reintervenire ad interrompere i danni di questa impostazione):”Si chiama
antonomasia quel traslato letterario con il quale, a furia di chiamare qualcuno o qualcosa con un nome che
non è il suo, questo diventa il nome vero; …ora, l’antonomasia esiste anche in diritto, e non soltanto sul
piano terminologico, ma anche su quello concettuale, per cui l’espressione giurisprudenziale di un concetto,
consolidandosi poco per volta … può finire col tempo per significare qualcosa di diverso, o perfino di
opposto, a quello che voleva esprimere in partenza. E ciò, in materia di revocatoria fallimentare, è accaduto
dei versamenti in conto corrente rispetto ai pagamenti dei debiti di liquidi ed esigibili di cui parla l’art. 67 l.
fall.”. Ed ecco il “cuore” della critica: “ Il perché si sia giunti ad una tale deformazione del concetto di
pagamento di un debito di cui parla l’art. 67 – l’antonomasia di cui si diceva sopra – si scorge nelle
affannose e mai concordanti elucubrazioni giurisprudenziali sui meccanismi di funzionamento dei conti
correnti, sulle connotazioni identificative dello stesso contratto e nei tentativi di districarsi in quel tecnicismo
bancario da linguaggio cifrato, che sembra nascondere il malevolo intento di far inciampare proprio il
giudice; senza più rendersi conto che ciò che serve conoscere è semplicemente se sia stata violata o meno la
par condicio dei creditori, e cioè se la banca, rispetto a loro, ed anzi a loro danno, abbia tratto un vantaggio
dal rapporto con il cliente, e di che entità.”Un risultato deformante, quello della giurisprudenza, dal quale ha
cercato di uscire attraverso il concetto della “partita bilanciata”, sebbene il terreno ormai ..invischiato della
revocatoria abbia vanificato il tentativo:“A questo punto, al stessa giurisprudenza non poteva non avvertire il
disagio di esiti talvolta palesemente iniqui (in dottrina non si è mancato di definire, proprio a causa di tale
problema, il nostro sistema bancario come un canale privilegiato di finanziamento delle procedure
fallimentari) ed ha cominciato a pensare a dei temperamenti del proprio ragionamento: è così che è venuto
fuori l’equivoco concetto delle partite bilanciate, cioè di quelle operazioni apparentemente attive del
correntista, che in realtà attive non sono, perché servono ad equilibrare operazioni in senso contrario, cioè
delle spese. (…) E qui già si vede, in tutta la sua dimensione, l’equivoco, perché ci si dimentica che il conto
corrente è esso stesso una bilancia, un altalenare (teoricamente) continuo fra operazioni collegate da un
nesso teleologico permanente …onde non si capisce come la singola partita bilanciata si possa distinguere
dal bilanciamento proprio dell’intero conto.” Problema, questo delle partite bilanciate, “che tradisce
manifestamente quanto la stessa giurisprudenza sia insoddisfatta dei risultati raggiunti con l’orientamento
generalmente rigoristico seguito nella materia, ciò che in diverse decisioni pare essere l’ostacolo teorico
maggiore per una soluzione di rilievo sostanziale, anziché di valore puramente teoretico e formale.”. Quanto
deciso dalla Corte d’Appello di Firenze – e ancor più e prima il percorso argomentativo – ricalca le riflessioni
di Edoardo Ricci da lui da sempre sostenute e recentemente ribadite in occasione del convegno del 9 giugno
2005 “Lineamenti e principi generali delle nuove norme di Diritto Fallimentare” organizzato dall’Ordine
degli Avvocati di Milano. Egli ha sottolineato come con il “Decreto competitività” il legislatore sia
intervenuto a dare contezza di un concetto – quello della rimessa bancaria – che la giurisprudenza soprattutto
6
In conclusione (sulla parentesi): si tratta di una norma interpretativa5 che, come
tale, entra in vigore subito e si applica a tutte le azioni revocatorie che non siano state
ancora decise con una sentenza passata in giudicato.6
Ma questo è di certo un profilo applicativo che si pone, per quanto interessante,
a margine del tema che cerco di approfondire.
milanese di fine anni ’70 inizio anni ’80 aveva rispettato, ma che la pronuncia della Cassazione del 1982
(sentenza 18 ottobre 1982, n. 5413 in Giur. It., 1983, I, 1, p. 42) aveva poi inevitabilmente deformato
(“antonomasia”). Dalla pronuncia della Cassazione la giurisprudenza si è limitata a operazioni di distillazione
giuridica se vogliamo raffinatissima ma totalmente inefficiente. Costringendo in pratica il legislatore ad
intervenire ponendo fine alle inefficienze da essa generate. La giurisprudenza, spiega Ricci, ha costruito nel
tempo una ragnatela di sempre più sofisticati e complicati concetti intorno alla rimessa, generando paradossi
pratici che una giurisprudenza ben applicata avrebbe potuto arginare, come nel caso delle partite bilanciate,
dove sarebbe stato sufficiente riconoscere che il conto corrente è una partita bilanciata e come tale esente da
revocatoria all’infuori di ciò che rimane in tasca alla banca, e cioè la differenza tra il massimo scoperto e la
situazione al momento di apertura della procedura (in altri termini, il rientro), cioè ciò che viene ora
cristallizzato nel decreto competitività (così come si è propensi pensare ad una lettura del nuovo art. 67 e
soprattutto del nuovo art. 70). Queste considerazioni del Ricci sottolineano la correttezza della tesi qui
sostenuta relativamente al fatto che siamo di fronte ad una norma interpretativa (..con tutte le conseguenze del
caso in tema di retroattività).
5
“Una legge interpretativa nasce perché nella pratica sono sorti dei dubbi e delle disparità di opinioni intorno
alla interpretazione di precedenti disposizioni (…) …fondati o meno che siano quei dubbi e quelle disparità,
al legislatore importa che essi esistano (…) per eliminare questa realtà di fatto, il legislatore si induce ad
emanare una nuova disposizione che tronchi alla radice il dissenso esistente ….Viene approvata così una
legge di interpretazione, come quella legge che è consapevolmente diretta a dirimere i contrasti insorti (…)
imponendo come esatta una soltanto tra le interpretazioni divergenti sostenute per l’innanzi (…). Una legge di
tal fatta è interpretativa non perché interpreta, ma perché impone una interpretazione” (così P. RESCIGNO,
Legge di interpretazione autentica e leggi retroattive non penali incostituzionali, in Giur. Cost. 1964, II,
772).
6
Dalla natura di norma interpretativa della norma deriva la necessitata sua retroattività. “La norma di
interpretazione autentica, dotata di effetto retroattivo, è diretta a chiarire il senso delle disposizioni
preesistenti, ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei sensi tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle norme
interpretate; peraltro, la scelta imposta dalla norma deve rientrare tra le varianti di senso compatibili con il
tenore letterale del testo interpretato, sì da stabilire un significato che ragionevolmente possa essere ascritto
alla legge anteriore.” (C. Stato, sez. I, 16-04-1997, n. 565/97, in Cons. Stato, 1998, I, 2031). Ed ancora: “La
retroattività costituisce la logica conseguenza della funzione rivestita dalla norma interpretativa che
«aderisce» alla norma interpretata, determinandone il significato o l’ambito di applicazione ovvero la portata
soggettiva o oggettiva; al contrario, la diversa decorrenza della norma interpretativa rispetto alla norma
interpretata potrebbe comportare difformità di trattamento, tanto più probabili quanto più controverso sia
risultato il significato della norma originaria, che l’operazione di legislazione ermeneutica tende a
scongiurare. (T.a.r. Puglia, sez. Lecce, 16 maggio 1991, n. 380 in Trib. amm. reg., 1991, I, 3205).
Secondo autorevole dottrina “il principio della irretroattività è garantito dalla Costituzione per quanto attiene
alle norme penali…Per le leggi non penali il principio della irretroattività è sancito solo da una legge
ordinaria (11 disp. Prel.). E’ quindi possibile che singole leggi stabiliscano la loro efficacia
retroattiva…Efficacia retroattiva si riconosce alle leggi interpretative cioè alle leggi che fissano formalmente
il significato di una legge precedente.” (M. BIANCA: La norma giuridica - i soggetti, in Diritto Civile,
Giuffrè, 1987, I, 121 ss.)
7
5.- Il valore della “uniforme interpretazione”. L’ enfasi abdicativa della Cassazione e il rifiuto
della (sua) funzione nomofilattica.
Tornando al tema (e quale prima acquisizione di questa breve riflessione) mi par
possibile affermare che il legislatore ha individuato, nello specifico della revocatoria delle
rimesse (ma con una enunciazione metodologica alla quale non si può non riconoscere una
portata generale), quali fatti negativi per lo sviluppo economico i contrasti giurisprudenziali
e l’utilizzo strumentale (a finalità per quanto – nelle intenzioni - nobili: consentire che i
creditori vengano pagati nella più alta percentuale) della azione revocatoria delle rimesse
sui conti correnti bancari.
Il riferimento – da parte del legislatore – alla valenza negativa delle incertezze
applicative e dei contrasti giurisprudenziali consente di passare oltre.
E di allargare lo sguardo su altri “fenomeni”, su altre vicende giurisprudenziali
che hanno caratteristiche tali da poter pensare che il legislatore potrebbe ad un certo punto,
in occasione di qualche nuovo tentativo di incentivare lo “sviluppo economico”, prenderli
in rinnovata o nuova considerazione.
Una traccia per rinvenire qualche cosa del genere ce la fornisce la
considerazione che il decreto sulla competitività come abbiamo più volte evidenziato
considera negativamente le incertezze interpretative. Il fatto è che il bene normativamente
posto della “uniforme interpretazione” ha recentemente subito un durissimo colpo proprio
da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno sostanzialmente
“sgretolato” il valore del precedente (anche delle sentenze della stessa Suprema Corte) e la
effettività della stessa mitizzata funzione nomofilattica7 della giurisprudenza della Corte di
Cassazione.
7
Prima dell’intervento “demolitivo” operato sulla funzione nomofilattica della giurisprudenza della Suprema
Corte da parte dalle Sezioni Unite della stessa, la funzione nomofilattica era universalmente riconosciuta alla
giurisprudenza del supremo collegio. Per tutti si veda Zagrebelsky: “Una certa unitarietà la giurisprudenza,
tuttavia, la ottiene soprattutto attraverso il ruolo unificatore della Corte di cassazione, cui spetta, con vari
strumenti processuali, assicurare l’esatta applicazione e l’interpretazione uniforme della legge (art. 65 r.d.
30 gennaio 1941, n. 12, sull’Ordinamento giudiziario), il che (a parte l’uso di «esatta», che deve intendersi
alla fine come ciò che ritiene la stessa Corte di cassazione), è un potente strumento di unificazione attraverso
l’interpretazione di ultima istanza (funzione di nomofilachia). … Per valutare questa «forza» occorre
aggiungere che, se è vero che ogni giudice è soggetto soltanto alla legge, si deve considerare che alla libertà
assoluta del giudice si oppongono argomenti di sicuro valore giuridico e costituzionale: l’eguaglianza dei
cittadini di fronte al diritto anche nel momento della sua applicazione e l’unità dell’ordinamento nel suo
valore concreto. La realizzazione di questi principi esige non solo che i precedenti della Cassazione
assumano un qualche «valore morale», ma che si affermi un dovere costituzionale funzionale dei giudici di
8
Si tratta di conseguenze necessariamente riconducibili ad alcuni enunciati della
notissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 21095/2004, quella, per
intenderci, sull’anatocismo.
Una sentenza che è stata commentata in modo davvero frenetico dalla dottrina
italiana, con gli accenti e gli esiti più variegati e anche inusuali8. Ma quasi tutti i commenti
si sono fermati ad analizzare il contenuto per così dire “sostanziale” della pronuncia.
Tutti meno uno.
Roberto Pardolesi e Alessandro Palmieri hanno commentato in modo assai
stimolante la sentenza sul Foro Italiano9. Non è ovviamente questa la sede per riapprofondire l’argomento. Basterà ricordare che, nel ricorso e nella successiva memoria10,
la banca ricorrente aveva sottolineato che, prima della “svolta” della primavera del 1999, la
Cassazione aveva, per oltre vent’anni e con venti sentenze sempre conformi, deciso per la
esistenza dell’uso normativo legittimante la deroga al divieto posto dall’art. 1283 c.c.. Le
Sezioni Unite nella sentenza del 2004 ci dicono che …non importa, che le venti precedenti
assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto”. (G. ZAGREBELSKY, Diritto costituzionale, il sistema
delle fonti del diritto, 1999, UTET, p. 73).
C’è da chiedersi oggi come deciderebbe la Corte Costituzionale che in passato (si veda per tutte la sentenza
del 2 aprile 1970 n. 50 in Giur. Cost. , 1970, I, p. 561)) indicava la Cassazione come custode del vero
significato della legge, a cui i giudici ordinari devono attenersi, respingendo così la questione di legittimità
sollevata dal pretore di Massa che riteneva illegittimo costituzionalmente l’obbligo del giudice di rinvio di
uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa
decisa. Tra le altre osservazioni del pretore di Massa vi era anche quella secondo cui “è infondato che vi sia
esigenza di uniformare l’interpretazione delle leggi, perché la stessa Cassazione non si è sempre uniformata
a sue precedenti pronunce”. Oggi si potrebbe utilizzare il ben più incisivo argomento della enfatica
abdicazione della Cassazione rispetto al suo ruolo nomofilattico.
Da notare che, forse inconsapevolmente, la legge di conversione del decreto sulla competitività pone la
delega al Governo per la riforma del giudizio di cassazione intervenendo espressamente sulla funzione
nomofilattica.
8
Gli interventi della “dottrina” a commento della sentenza sono in alcuni casi connotati da entusiastica
adesione. Ovviamente ciascuno è libero di pensare quel che crede: tuttavia di fronte ai commenti
encomiastici che ci è capitato di leggere (in taluni casi conoscendo la “storia” professionale degli entusiasti)
verrebbe voglia (se ne fossi capace) di prender lo spunto da un recente stimolante contributo di L. ENRIQUES
“Scelte pubbliche e interessi particolari nella riforma delle società di capitali” in Mercato concorrenza
regole, 2005, 145 s.s. che (parlando dei “motori” della riforma societaria: ma analoghi concetti potrebbero
essere usati per comprendere l’origine di certi entusiasmi) dice che “già l’indagine svolta nel paragrafo
precedente ha consentito di individuare due categorie che traggono rendite dal diritto societario: quelle dei
giureconsulti e dei professionisti contabili. Ad esse si aggiungono gli avvocati che fanno attività giudiziale i
notai, i magistrati ….Può parlarsi di rendite anche con riguardo ai magistrati che si occupano di diritto
societario (…) la rendita, in questo caso, sarà percepita in forma di prestigio …” A tal proposito ritengo che
Enriques certamente sbaglia quando generalizza. Ma in alcuni singoli e sporadici casi…..
9
A. PALMIERI R.PARDOLESI, L’anatocismo bancario e la bilancia dei Balek, in Foro It. 2004, 3298)
10
Se ne vedano pubblicate per estratto alcune parti in Banca, borsa e tit. di cred. 2005, II, 120.
9
sentenze non contan nulla, che son “tralatice”. E Pardolesi commenta: “L’aspetto che
colpisce, piuttosto, è l’autosvalutazione, da parte dell’organo al vertice della piramide
giudiziaria, del ruolo di (co)artefice nella creazione delle regole effettivamente fruite dai
consociati. Si è a lungo – e, si credeva, con ragione pragmatica – parlato di diritto positivo
giurisprudenziale, alludendo al farsi delle norme nella loro applicazione pratica là dove
conta, ossia nelle aule giudiziarie. (…) Sennonchè ci viene oggi spiegato con involontaria
enfasi abdicativa (esaltata dal candore confessorio con cui si sottolinea che il révirement è
conseguito alla ribellione del cliente) il giudice ha una funzione soltanto ricognitiva….”. E,
dopo ulteriori considerazioni che val la pena di leggere11 gli autori evidenziano che “sul
campo …. resta una vittima, mica da poco: la certezza del diritto.12”
I richiami or ora fatti consentono di restare in tema e …in compagnia dello
stesso autore richiamando quel che egli dice in argomento in una sua interessante
monografia13. Pardolesi cita, ad un certo punto, parlando proprio di anatocismo, una
sentenza (inedita) del Tribunale di Catanzaro14 che, discostandosi dal recente insegnamento
11
“Ovvio, allora, che una volta individuato l’errore nel processo di accertamento, lo si rimuoverà, anche per
il passato: senza problemi, perché non si muta il diritto, ma si corregge una svista intervenuta nel suo
apprendimento. Un po’ come voleva la mistica blackstoniana nella teoria dichiarativa del precedente nel
common law: la regola ha da esser sempre la stessa, poco importa se in passato le cose sono andate
diversamente, basterà fingere che nulla sia accaduto, riallacciando le smagliature, dove possibile (quasi
mai…) e sopendo i disagi. Ecco, dunque, spianata la strada alla retroattività del precetto, magari con i limiti
della cosa giudicata. E con l’ulteriore complicazione dell’argine imposto dai termini prescrizionali, dato che
l’uso normativo non è stato rinnegato, ma non è mai esistito, sì che in nessun caso ci si sarebbe dovuti
rassegnare alla tetragona monoliticità della giurisprudenza, soltanto ricognitiva e per di più erronea, allora
imperante (quanto basta a mettere fuori causa qualsivoglia velleità di recupero ex art. 2935 c.c.) Non poche
perplessità, dunque, cui si raccorda un’accigliata riflessione sulla responsabilità, sia pure soltanto morale,
di un ceto magistratuale che ha accordato il crisma dell’autorità ad un diritto che non c’era. Oggi, infatti, si
dichiara di voler porre rimedio ad una «non più tollerabile sperequazione», epperò tollerata, anzi, benedetta
per un opaco ventennio (consoliamoci con Heinrich Boll: la bilancia, truccata, dei Balek funzionava da
molto più tempo, come espressione di una legge semplicemente «antica e naturale»). Ma sul campo, di là
dalla soddisfazione per la caduta di un’imposizione contrattuale illegittima, oltre tutto in odore di cartello, e
per l’elisione (almeno in parte) dei suoi effetti, resta una vittima, mica da poco: la certezza del diritto.”
12 Inascoltato evidentemente l’insegnamento di MENGONI (Forma giuridica e materia economica, in Studi in
onore di Alberto Asquini, III, Padova 1965, 1085 s.): “Anzitutto il diritto ha il compito di garantire
l’uniformità della valutazione giuridica dei comportamenti sociali, rendendo possibile la previsione della
valutazione futura e introducendo così nel processo economico un momento di alto valore costituito dalla
sicurezza…”.
13
R. PARDOLESI B. TASSONE - I giudici e l’analisi economica del diritto privato, Bologna, 2003, p 56 s.
14
Successivamente, con altra sentenza (questa pubblicata) il Tribunale di Catanzaro riferisce di un primo
caso, (peraltro fallito per motivi peraltro esclusivamente “tecnici”, relativi alla scelta dello strumento) in cui si
può vedere una giurisprudenza inefficiente e disinteressata alle conseguenze “diffuse” come coazione ad
intervenire rivolta al legislatore: “La Corte Suprema, infatti, con le sentenze 30 marzo 1999, n. 3096 e 16
marzo 1999, n. 2374 – e in linea di dichiarata continuità, con l’ulteriore pronuncia dell’11 novembre 1999,
n. 12507, che peraltro sostanzialmente poco o nulla aggiunge alle precedenti – capovolgeva
improvvisamente il proprio precedente orientamento, stabilendo che la capitalizzazione trimestrale degli
10
della Suprema Corte, auspica in materia “…un eventuale rinnovo dell’intervento
normativo, di recente stigmatizzato – per fattori solo formali, sinora – dalla Corte
Costituzionale”.
Un invito ad una riflessione (sulla possibilità di un nuovo intervento normativo)
che, dopo l’inserimento in un ambito normativo volto a favorire lo sviluppo economico di
norme che chiaramente impongono una interpretazione giurisprudenziale, potrebbe essere
ripreso e rivalutato (anche in funzione di modello di tecnica legislativa).
La auspicabile soluzione normativa del problema “anatocismo” (per il periodo
antecedente al giugno 2000) mi pare trovi una indicazione di possibilità e di percorso
proprio nella norma che interviene sulla
interpretazione giurisprudenziale in tema di
revocatoria di rimesse bancarie.
Per uscire dal “vago”: una norma che potrebbe risolvere il problema creato dalle
“incertezze interpretative” e dai “ contrasti giurisprudenziali” tuttora esistenti in materia di
“anatocismo” potrebbe essere più o meno così formulata15: “L’articolo 1283 del codice
civile si interpreta nel senso che gli usi contrari, in mancanza dei quali vengono posti limiti
alla legittimità della previsione della produzione di interessi sugli interessi scaduti, non
sono solo gli usi normativi ma anche gli usi, in qualunque tempo formatisi, e anche in
conseguenza dell’inserimento nei contratti di clausole determinanti modi,
periodicità della produzione di interessi sugli interessi scaduti”.
tempi e
16
interessi da parte della banca sui saldi di conto corrente passivi per il cliente non costituisce uso normativo,
e che la relativa clausola risulta basata su di un uso negoziale, come tale nulla, perché anteriore alla
scadenza degli interessi. Il nuovo orientamento giurisprudenziale, in grado di innescare un enorme
contenzioso, costringeva il legislatore ad un intervento normativo, di modifica dell’art. 120 t.u. delle leggi in
materia bancaria e creditizia, attraverso le disposizioni d cui all’art. 25 d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342, che
rinviavano per il futuro la nuova regolamentazione ad apposita delibera del C.i.c.r., sul presupposto di una
sostanziale parità di trattamento in caso di anticipata capitalizzazione, ponendo il principio vincolante,
dell’uguale parità di conteggio, confermando invia transitoria la validità ed efficacia delle clausole
contenute nei contratti stipulati anteriormente.” Tentativo fallito però, come spiega il Tribunale, poiché: “La
predetta normativa, nella parte in cui disponeva la totale sanatoria dei rapporti pregressi, veniva giudicata
incostituzionale – per eccesso di delega – dalla Consulta (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425).” (Trib.
Catanzaro, 27 febbraio 2004, Banca Nazionale del lavoro s.p.a. c. Daniele s.r.l., in Banca Borsa Titoli di
Credito, supplemento al n. 4/04 “Gli interessi bancari anatocistici”, a cura di Niccolò Salanitro).
15
Perfettamente conscio di andare ultra crepidam mi induco a immaginarmi …legislatore solo per motivi di
chiarezza e per sollecitare un approfondimento. Che forse val la pena di svolgere.
16
Una legge così formulata sarebbe pienamente rispondente ai requisiti in presenza la Corte Costituzionale
ritiene si abbia “vera” legge d’interpretazione autentica. Rimane infatti immutato il tenore testuale della
disposizione interpretata (l’art. 1283 c.c.), di cui viene chiarito e precisato il significato. Ma sarebbe
rispondente anche ai nuovi requisiti richiesti dalla Corte Costituzionale a seguito dell’avvenuto abbandono, da
parte della stessa, del criterio meramente formalistico in base al quale il solo titolo della legge o le espressioni
quivi utilizzate possano essere sufficienti a qualificare una disposizione come "interpretazione autentica", e
11
Una riflessione mi sembra, a questo punto, opportuna (per quanto ovvia). Lo
sviluppo economico si ottiene favorendo lo sviluppo del mercato. Il mercato (quello
“vivo”) ha bisogno anche di credito bancario al costo minore possibile. I costi del credito
bancario scontano gli oneri e i rischi che chi eroga il credito incontra. Tra i detti oneri non
possono – allo stato - non essere presi in considerazione quelli che le banche incontrano per
far fronte alle condanne e ai rischi di condanna che la giurisprudenza in tema di anatocismo
ha creato. A beneficio (le condanne) in larga misura di soggetti ormai usciti dal ciclo
produttivo (quelli che agiscono per la ripetizione del supposto indebito sono in larga misura
clienti che hanno chiuso i conti da anni, o fallimenti e comunque soggetti usciti dal “giro”
della economia attiva). Con la conseguenza che i costi della “lotteria dell’anatocismo” li
pagano alla fine i clienti attuali delle banche.
Ovviamente ai giudici sarebbe consentito di evitare siffatte conseguenze
negative per il mercato riconducibili ad una acritica adesione al nuovo orientamento anche
senza attendere un nuovo intervento normativo.17 Il riferimento a norme come gli articoli
della individuazione, quale presupposto legittimante il ricorso alla norma interpretativa, dell’esistenza di
contrasti giurisprudenziali (così nelle sentenze n° 187/81 e 91/88). Va ricordato che tale mutamento di
prospettiva nasce anche per evitare un contrasto con la giurisprudenza della Cassazione, che, per valutare la
portata effettivamente interpretativa di una disposizione, si riferiva a requisiti strutturali e di contenuto
(l'esistenza dei contrasti giurisprudenziali sul punto, la contemporanea vigenza di entrambe le norme senza
che l'una sostituisca la prima). Nel caso in ipotesi la presenza di contrasti giurisprudenziali passati e tuttora
esistenti è nota, e resa ancor più significativa proprio dal révirement della Cassazione, che ha essa stessa
posto in essere le basi per legittimare il diffondersi di contrasti giurisprudenziali in materia avendo essa (anzi:
le sue Sezioni Unite) decretato il venir meno della sua funzione nomofilattica. Dal che la piena legittimità
(anzi: la necessità) di un intervento del legislatore.
17 Che i contrasti e le incertezze interpretative permangano anche in tema di anatocismo è un dato di fatto. Il
caso recente più eclatante è quello della sentenza del Tribunale di Roma, G. U. Campolongo. Interessante la
soluzione proposta dalle Corti di merito di Torino, che accolgono l’iter argomentativo che ricostruisce la
fattispecie anatocistica in base agli artt. 1831, 1823, 1825 c.c. . La Corte d’Appello ha considerato che la
clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi non debba essere ricondotta al disposto dell’art. 1283
c.c., poiché “l’addebito per interessi operato in sede di chiusura periodica del conto bancario appare
un’operazione puramente contabile, che non incide sulla realtà giuridica sottostante; sotto il profilo
puramente giuridico gli interessi maturanti nel periodo vengono via via estinti (ai sensi dell’art. 1194 c.p.v.)
con le rimesse attive che abbiano movimentato il conto. (…). Il fatto che le banche ritengano contabilmente
più chiaro conteggiare sul capitale le variazioni derivate dalle rimesse, addebitando poi gli interessi scalari
in sede di chiusura periodica, non incide sulla sostanza giuridica del fenomeno ed impedisce di qualificare
come interessi, agli effetti dell’art. 1283 c.c., l’addebito per competenze in sede di chiusura periodica.”
(Appello Torino, 5 novembre 2001. E, proseguono i giudici torinesi, rilevando che “Ove alla chiusura del
trimestre il conto presenti occasionalmente un saldo attivo, la detrazione da esso degli interessi passivi
maturati nel periodo sarebbe comunque estranea ai divieti dell’art. 1283 c.c., non verificandosi
capitalizzazione ma pagamento dei detti accessori. … la annotazione in conto capitale degli interessi
maturati sottintende cioè un’operazione di finanziamento volta a pagare i detti interessi, la quale operazione
di finanziamento, ovviamente, legittima la pretesa di successivi interessi su di essa. Tale costruzione
giuridica è d’altronde conforme ai dettami del contratto di conto corrente ordinario, per il quale è stabilito
12
2034 o 1338 c.c. letti alla luce (si fa per dire) di quel che dice nella motivazione la sentenza
delle Sezioni Unite consentono a mio avviso ampiamente una riconduzione degli effetti
devastanti sul mercato del révirement della Cassazione senza eccessive difficoltà.
6.- Gli effetti della giurisprudenza sul mercato. Il falso conflitto tra giustizia giusta e giustizia
efficiente.
Abbiamo sin qui, partendo dalla relazione governativa al decreto sulla
competitività e dall’emergere del tema dello sviluppo economico nel suo rapporto con certi
orientamenti giurisprudenziali, considerato i fenomeni delle revocatorie fallimentari e
dell’anatocismo (e conseguenti azioni di ripetizione).
(art. 1823 cpv. c.c.) che il saldo risultante alla chiusura periodica del conto (saldo complessivo degli
interessi: art. 1825 c.c.) si considera prima rimessa (e come tale fruttifera: art. 1825 cit.) del nuovo periodo.”
Ed infine: “Sotto altro profilo, infine, è stato giustamente rilevato come la non interferenza della clausola di
capitalizzazione con il divieto di anatocismo ex art. 1823 cit. sia desumibile dal disposto dell’art. 8 l. 17
febbraio 1992 n. 154, il quale prevedeva comunicazione al cliente, oltre che del tasso applicato, della
capitalizzazione degli interessi (dal che si desume essere quest’ultima pattuizione del tutto lecita, tanto da
venire regolamentata dalla legge sotto il profilo della trasparenza delle relative condizioni praticate, senza
dettarsi specifiche norme proibitive sul contenuto di esse) . Quest’ultima osservazione ricorre anche in altre
pronunce della giurisprudenza, che danno atto del fatto che già in tempi antecedenti l’emanazione del codice
vigente, tali clausole sarebbero state ammesse da usi attestati come normativi in raccolte di camere di
commercio (Cfr. Trib. Firenze, 8 gennaio 2001, in Foro it., 2001, I, 2362; Trib. Roma, 9 maggio 2001, ivi,
2989; Trib. Napoli, in Banca Borsa Titoli di credito, 2002, II, 580; Trib. Napoli, 17 novembre 2001, in Foro
it., 2002, I, 957; in dottrina ne dà atto Balossini e Coltro Campi, Gli usi di banca, di borsa e di leasing,
Milano, 1980, 52).
La tesi invece della natura normativa degli usi anatocistici costituisce il trait d’union che accomuna le
decisioni giurisprudenziali, oltre a quelle appena citate, dei giudici campani che guardano con occhio critico
alle affermazioni della Cassazione poste a base del révirement . tali sentenze contestano l’asserita inesistenza
di un uso pregresso rispetto alle norme bacarie uniformi del 1952, contestano il difetto dell’elemento
psicologico dell’ “opinio iuris ac necessitatis” e contestano infine l’invalidità sanzionata dell’art. 4 della l. n.
154 del 1992 delle clausole contrattuali di rinvio agli usi. (Trib. Napoli , 18 gennaio 2002; Trib. Napoli – sez.
distaccata Portici – 29 aprile 2002; Trib. Torre Annunziata – sez. distaccata Torre del Greco – 31 maggio
2002).
Nell’affermare la natura normativa degli usi non manca – va da sé – la sottolineatura della affermazione da
parte della Cassazione prima di un dato presupposto (asserita esistenza di un uso normativo) e poi della sua
negazione. Così il Tribunale di Firenze: “Ciò che rileva per aversi uso normativo rilevante in materia
contrattuale è la generalizzata ripetizione nel tempo di clausole contrattuali, talmente ripetitiva e condivisa
da entrambe le parti, da determinare il convincimento in queste di dare adempimento ad un precetto
collettivo proprio dell’ordinamento, non più oggetto di discussione ed ammesso come legittimo. Quanto
all’opinione dei consociati della legittimità dell’uso, essa derivava sicuramente, oltre che dalla costante
ripetizione delle clausole in questione (…), anche dalla uniforme interpretazione (fino al 1999) della stessa
Corte di Cassazione, che aveva sempre ritenuto legittimale clausole stesse.” (Trib. Brescia, 20 maggio 2002).
E nello stesso senso anche Trib. Venezia, 12 febbraio 2002; Trib. Taranto, 29 agosto 2001). Tutte le sentenze
sin qui citate per comodità del lettore sono riportate nel testo del 28 maggio 2003 dell’ABI “Anatocismo nelle
operazioni bancarie”, in Banca Borsa Titoli di Credito, supplemento al n. 4/04 “Gli interessi bancari
anatocistici”, Niccolò Salanitro.
13
L’aver sin qui accennato a due fenomeni ci consente di cercare quali possono
essere individuati come elementi comuni dei fenomeni stessi: ai fini ovviamente che ci
interessano.
Il primo elemento comune (alle due vicende giurisprudenziali) che balza
evidente è che entrambi i fenomeni giurisprudenziali traggono origine da una sentenza
della Cassazione. Che contemporaneamente alla denunciata rinuncia alla sua funzione
nomofilattica sembra aspirare ad una nuova funzione: quella di creatrice di controversie.
Una funzione che sottolinea il distacco della Corte: che di certo non si preoccupa delle
conseguenze che la sua giurisprudenza può avere sulla società e sulla economia del paese.
Il secondo elemento comune (e che pone il duplice problema come problema di
rilevanza
economica
generale)
è
la
diffusione
“quantitativa”
della
ricaduta
giurisprudenziale. Le cause di revocatoria fallimentare proposte da fallimenti contro le
banche sono (non dispongo di dati precisi ma l’esperienza “forense” consente una simile
affermazione) migliaia e gli importi coinvolti sono di enorme rilievo. Analogamente le
azioni proposte contro le banche in punto anatocismo sono numerosissime e sono in
continuo “sviluppo” anche se non hanno raggiunto le dimensioni auspicate da alcune
associazioni di consumatori che le sponsorizzano.
Il terzo
profilo di analogia è che i due fenomeni si fondano su percorsi
argomentativi spesso ammantatati di rigore formale: nei due casi la giurisprudenza,
procedendo per successive acquisizioni, conduce a risultati sempre più favorevoli alla
controparte della banca (sia essa un fallimento o un ex correntista al quale la banca deve
restituire il c.d. “mal tolto”).
Il quarto profilo di analogia è meno evidente, meno per così dire enunciato: è
l’intonazione comune a molte sentenze, a cominciare da quelle del Supremo Collegio,
sottesa a molte decisioni, che traspare da esse, dal linguaggio, dagli argomenti – anche non
strettamente giuridici – utilizzati. I giudici nel decidere in quel modo sentono di compiere
un atto di giustizia, sono certi di rimettere le cose a posto. Ne sono tanto convinti da
inserire le loro decisioni in una sorta di work in progress giurisprudenziale volte alla
conquista, passo dopo passo, delle magnifiche sorti e progressive della equità e della
giustizia distributiva.18 Solo così possono spiegarsi certi esiti davvero “estremi” quali, ad
18
Né irrilevante appare il ruolo dell’informazione, che, privilegiando ovviamente aspetti cronachistici e tagli
moralistici esulta nel riferire della sorte delle successive battaglie che vedono le banche cadere una a una
14
esempio, quello di una recente sentenza che individuato il “dies a quo della decorrenza del
termine prescrizionale” in quello corrispondente alla “chiusura definitiva del rapporto”,
stigmatizza il rifiuto della banca di fornire (nel 2004) la documentazione bancaria del
periodo dal 1984 – 1987, trovando poi normale che il consulente calcoli gli effetti
dell’anatocismo con riferimento a un periodo di trent’anni senza disporre – ovviamente della documentazione operando dei conteggi su basi presuntive.
Di fronte a esiti così singolari (che magari sono anche motivati – su basi
dogmatiche - in modo più che decoroso) la ricerca di strumenti interpretativi che vadano al
di là della interpretazione meramente testuale si rende ineludibile.
Tutto ciò induce a riflettere sul profondo mutamento dei tempi e degli scenari
sui quali si può e deve svolgersi la riflessione del giurista sia nel momento della analisi dei
fenomeni che la vita dell’ordinamento gli pone sia, anche e prima ancora nel momento
della assunzione delle decisioni che sulla vita dell’ordinamento sono destinate a
profondamente incidere, per valutarne la correttezza.
E’ noto che i risultati ai quali è giunta, con varie prospettive per vero, la analisi
economica del diritto hanno avuto in Italia ben poca fortuna.
Una modesta fortuna che ha molti padri e molte origini. La diffidenza un po’
supponente del giurista targato civil law di fronte a un movimento nato in America (anche
se in realtà vi è chi ne vede i germi nei pensatori dell’illuminismo e anche se il
fondamentale “Rischio e responsabilità oggettiva” di TRIMARCHI (ove la contrapposizione
tra fondamenti equitativi e fondamenti economici della responsabilità civile) è del 1961 e
quindi coevo o quasi ai fondamenti di Coase e Calabresi).
L’imprinting
dogmatico subito dal giurista italiano (cui era lecito al più
rivolgersi con deferenza alla dogmatica tedesca), il banale ma sempre presente sospetto che
a tutti gli sforzi della analisi economica del diritto si potesse replicare con la recitazione del
brocardo “adducere inconveniens” con quel che segue.
In più la struttura della economia italiana degli anni sino agli anni ottanta, la
disattenzione ai fenomeni giurisprudenziali da parte della informazione diffusa, la minor
sotto la scure del “magistrato – angelo vendicatore”. Non irrilevante in duplice direzione: a ingigantire il
fenomeno e (la evidenza di alcuni fenomeni consente la notazione) incidere sulla gratificazione di alcuni degli
autori della giurisprudenza risanatrice.
15
presenza di fenomeni di natura economica di massa rendevano assai meno effettiva la
incidenza degli orientamenti giurisprudenziali sul contesto economico del paese.
Oggi tutto è cambiato. I fatti economici riguardano milioni di persone, siano
essi consumatori o, in un’Italia pur sempre dominata dalla piccola impresa, imprenditori.
Le vicende economiche hanno un grande spazio anche sui quotidiani e in televisione, anche
perché interessano un numero sempre maggiore di persone. La pubblicazione di una
sentenza particolarmente “interessante” per i consumatori (o per gli imprenditori che spesso
vengono dai media se non dalle sentenze considerati né più né meno che dei consumatori
…un po’ cresciuti) viene enfatizzata in ogni possibile modo.
E’ giunto forse il tempo di cominciare a utilizzare gli strumenti della analisi
economica del diritto anche per controllare l’efficienza dei risultati interpretativi.19
7.- Le azioni a tutele dei risparmiatori (e contro il risparmio).
Con il che possiamo accennare al terzo grande “fronte” che si è aperto e che
mette in pericoloso contatto la vita economica e la giurisprudenza.20
Quello della tutela da accordare ai “risparmiatori”. Che non son più ovviamente
quelli dei libretti di risparmio, dei BOT, dei CCT.
Che sono quelli degli investimenti azionari, dei fondi comuni di investimento e
soprattutto dei bond Argentina, Cirio, Parmalat.
E qui ci risiamo: una ondata di cause si sta riversando nei tribunali italiani e
coinvolge l’intero sistema bancario italiano.
19
Interessante per tutti e soprattutto per coloro che temono inquinamenti d’oltre oceano, lo scritto di V.
BUONOCORE, Impresa, società per azioni e mercato: “contiguità” tra economia e diritto e analisi
econopmica del diritto, in Governo dell’impresa e mercato delle regole, Scritti giuridici per Guido Rossi,
Tomo I, Milano, 2002, 3 ss..
20
Il tema è probabilmente troppo “caldo” e, nonostante tutto, inesplorato. Non potrò pertanto neppur tentare
di trattarlo con il dovuto approfondimento. Tuttavia è un problema che esiste e sul quale si sta concentrando
la attenzione non solo dei risparmiatori, delle associazioni che si proclamano operanti a loro tutela, dei giudici
(per ora di merito), ma anche della dottrina. Che comincia a riflettere. Ricorderò solo il fondamentale
intervento di Andrea Perrone al recente convegno di Napoli organizzato il 27 e 28 maggio 2005 dalla
“Associazione Gian Franco Campobasso” sulle “Nuove prospettive della tutela del risparmio”. Non posso
andare oltre nella citazione perché l’autore espressamente chiede, trattandosi di una versione provvisoria, di
non farlo. Ma quando sarà pubblicato (e sarà pubblicato tra breve) sarà un punto fermo che spero sarà preso in
attenta considerazione da tutti.
16
Nessun dubbio che ipotesi di irregolare gestione del rapporto con il cliente
siano avvenuti. e anche con riferimento ai clamorosi episodi sopra ricordati. E che
comportamenti scorretti devono essere sanzionati.
Il fatto è che si sta ripetendo, anche per le questioni relative alla responsabilità
dell’intermediario finanziario, il fenomeno della rincorsa della giurisprudenza a scavalcare
se stessa e a cercare soluzioni facili: che evitino la fatica della analisi. Per dirla
brutalmente: viva la nullità e la ripetizione dell’indebito, abbasso la responsabilità e il
risarcimento. Con l’aggravante, nella specifica materia, di una normativa di rango primario
e secondario a chiaro carattere torrentizio21
Per cui in una materia nella quale vige il principio di cui all’art. 23 del TUIF e
della inversione dell’onere della prova22 si giunge a interpretare l’art. 21 (una sorta di
21 Sul punto si ricordino le nitide parole di MENGONI (L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv.
trim di dir. e proc. civ. 1994, 1 ss.) “La legislazione concede spazi sempre più ampi all’apprezzamento
discrezionale del giudice. Il degrado del linguaggio tecnico- giuridico e, in generale, dell’arte di fare le leggi,
l’uso dei modi di esprimersi del linguaggio comune, che a sua volta ha perduto il rigore lessicale e sintattico
di un tempo, la scarsa capacità del Parlamento di padroneggiare e comprendere la massa di informazioni
provenienti dalla società tecnologica in continua e accelerata evoluzione, aumentano le variabili interpretative
e le lacune dei testi legali. Di qui la frequente necessità di ricorrere ad argomenti di logica delle preferenze
per giustificare la scelta dell’una o l’altra delle interpretazioni proponibili o dell’uno o l’altro dei progetti
ermeneuticamente proponibili di decisione dei casi non previsti.
Le ridotte capacità di analisi e di comprensione della realtà sociale sono rimediate dal legislatore con l’uso
crescente della tecnica delle clausole generali, sia come tecnica (non casistica) di definizione della fattispecie
normativa, sia come tecnica di integrazione o correzione giudiziale della legge: il giudice viene rinviato a
standards sociali di valutazione o di comportamento, che deve tradurre e concretizzare in un criterio di
valutazione adeguato alle peculiarità del caso. E una tendenza osservabile in tutti gli ordinamenti.”
22
Per vero non tutta la giurisprudenza si muove nei modi piuttosto spicci che stiamo descrivendo. Per tutti si
veda una attenta decisione del Tribunale di Monza che proprio sull’articolo 23 del TUIF si sforza di
approfondirne il significato: “In sintesi, l’art. 23 TUF non è una previsione pleonastica ma risulta anzi
necessaria proprio per il suo contenuto chiarificatore. Me se così è, consegue la inutilità del tentativo di
conferirle un maggiore contenuto, «leggendovi» una inversione dell’onere probatorio in ordine al nesso
causale. Una simile conclusione non sembra imposta neppure dalla supposta irrazionalità conseguente dalla
necessità di provare la serie causale, dopo essere stati esonerati dall’onere di provare uno dei due poli della
stessa. La tesi, infatti, finirebbe per ridurre la responsabilità dell’intermediario alla mera violazione formale
degli obblighi (in gran parte codificati) di diligenza, …: la negligenza sarebbe presunta ed a sua volta farebbe
presumere la responsabilità (praesumptio de praesumpto?). si tratta insomma di una ricostruzione che omette
di considerare la aleatorietà delle operazioni sui derivati, aleatorietà che conduce frequentemente ad un esito
sfavorevole dell’operazione in modo assolutamente indipendente dalla diligenza delle parti e senza che
eventuali obblighi di diligenza abbiano nel concreto inciso sul prodursi del danno finale. Di fatto l’esito
ultimo di questo iter ermeneutica è quello di gravare la banca dell’onere di provare che il risultato negativo
dell’investimento non è ad essa imputabile. Facile osservare che in tal modo si incentiva la promozione di
controversie infondate, stimolando il moral hazard degli investitori delusi, allo scopo di ottenere una
riduzione della perdita a carico dell’intermediario. La ripartizione degli oneri probatori si tradurrebbe in una
indiretta allocazione di diritti (e danni), agevolando l’utilizzo del contenzioso con un incremento dei costi e
con una disincentivazione delle attività di intermediazione, al punto da potersi immaginare una possibile
espulsione degli operatori meno convinti dal mercato.
Alla luce di tali considerazioni, ritiene il Tribunale che debba condividersi l’opinione di quella dottrina che
addossa al cliente l’onere di dimostrare il nesso causale tra negligenza e danno, proprio per sanzionare le
17
norma programmatica insuscettibile di immediata applicazione)23 come norma di carattere
imperativo la cui violazione determina nullità, per giungere alla affermazione del fatto che
il funzionario della banca che ebbe i contatti con l’investitore è incapace di testimoniare:
con al conseguenza che il mulinello di un simile tritatutto giurisprudenziale rende
oggettivamente impossibile ogni difesa seria. Per salvare la banca solo nel caso – piuttosto
raro pervero – nel quale il solerte funzionario abbia inondato il cliente di decine di pagine
di moduli, documenti informativi avendo cura di piazzare decine di crocette che consentano
al difensore di svolgere le sue difese fondate sul fondamentale ruolo svolto dalle crocette
per la dimostrazione della regolarità dell’operato della banca.
Ed è proprio con riferimento a questi temi che torna a proposito il richiamo
della possibile importanza che può avere, nel ricondurre a sensatezza il sistema, l’utilizzo
anche degli strumenti della analisi economica del diritto. E qui il richiamo è diretto e quasi
…testuale.
Intendo riferirmi a un illuminante articolo di DENOZZA su Giurisprudenza
Commerciale 2004 (Il danno risarcibile tra benessere ed equità: dai massimi sistemi ai
casi Cirio e Parmalat, in Giur. Comm. 2004, I, 331 ss.) che andrebbe letto da tutti quelli
uniche condotte che necessitano di sanzione, e cioè quelle che hanno portato ad una gestione concretamente
inefficiente del rapporto a che quindi devono essere compensate con un ritrasferimento di ricchezza a carico
del cliente danneggiato.
La conclusione cui si vuole pervenire è che l’art. 23 TUF deve essere letto nel senso che rimane
sull’investitore l’onere di provare il nesso causale tra negligenza e danno, ferma restando la possibilità di
invocare presunzioni basate sull’ìd quod plerumque accidit e parametri, quale la propensione media al rischio
delle varie categorie di investitori, e così via. Ove però manchi la prova di una riconducibilità eziologia della
cattiva riuscita dell’investimento alla due diligence o addirittura si raggiunga la prova diretta dell’assenza di
un tale nesso, non potrà fondarsi la responsabilità oggettiva dell’intermediario sul solo dato della violazione
formale.” (Tribunale di Monza – Sezione Desio, 27 luglio 2004, in Giurisprudenza di merito, I, p. 2189 ss.).
Qui sia per il percorso argomentativo che per la stessa terminologia utilizzata siamo di certo nella piena
consapevolezza e condivisione dei risultati della analisi economica del diritto.
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Va notato che anche in sede europea, dopo una normazione di intonazione programmatica e tale da lasciare
una ampia libertà a legislazioni nazionali e giurisprudenza locale in termini di fissazione dei contenuti, si sta
attuando un positivo ripensamento nel senso di dare indicazioni più precise e concrete: si veda Art. 19 co 5
Direttiva 2004/39/CE : “Gli Stati membri si assicurano che, quando prestano servizi di investimento diversi
da quelli di cui al paragrafo 4, le imprese di investimento chiedano al cliente o potenziale cliente di fornire
informazioni in merito alle sue conoscenze e esperienze in materia di investimenti riguardo al tipo specifico
di prodotto o servizio proposto o chiesto, al fine di determinare se il servizio o il prodotto in questione è
adatto al cliente. Qualora l’impresa di investimento ritenga, sulla base delle informazioni ottenute a norma del
comma precedente, che il prodotto o servizio non sia adatto al cliente o potenziale cliente, avverte
quest’ultimo di tale situazione. Quest’avvertenza può essere fornita utilizzando un formato standardizzato.
Qualora il cliente o potenziale cliente scelga di non fornire le informazioni di cui al primo comma circa le sue
conoscenze e esperienze, o qualora tali informazioni non siano sufficienti, l’impresa d’investimento avverte il
cliente o potenziale cliente che tale decisione impedirà di determinare se il servizio o il prodotto sia adatto a
lui. Quest’avvertenza può essere fornita utilizzando un formato standardizzato.”. Con significativa
sottolineatura del limite informativo dell’obbigo dell’intermediario.
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che con le vicende Cirio e Parmalat hanno occasione di incrociare. In particolare le ultime
pagine. Dalle quali ricordo solo una osservazione conclusiva alle osservazioni sui rischi
connessi col vedere nella attività bancaria di intermediazione di bond corporate troppo
facili ipotesi di conflitti di interesse: “Tutte le banche sarebbero così esposte a costi, non
facilmente controllabili da ciascuna, che finirebbero inevitabilmente scaricati, in maniera
indiscriminata, sui prezzi dei servizi bancari”
La sensazione che si ha sempre di più leggendo alcune sentenze rese in materia
di intermediazione finanziaria è che, da parte della giurisprudenza, si cerchi di introdurre in
anticipo, attraverso l’interpretazione orientata al risultato (e non attenta alle conseguenze),
resa possibile dalla “tecnica” legislativa attuale, l’onirico e irenico sogno di introdurre nel
mercato finanziario la eliminazione di ogni possibile rischio. Che è come dire: eliminare il
mercato.
Quali siano gli esiti che una certa giurisprudenza tende a raggiungere,
anticipando i sogni di una riforma del mercato che lo sottragga al rischio, un primo e
fondamentale aspetto dovrebbe essere chiaro: per i consumatori, i servizi finanziari
presentano comunque una soglia di rischio che è propria dell’investire e che risulta essere
ineliminabile. Risulta perciò non solo difficile ma estremamente dannoso (per gli effetti
perversi che ciò avrebbe sul mercato) trovare una forma di tutela (giurisprudenziale o
normativa) che protegga gli investitori completamente e in ogni caso. La misura del rischio
non può essere assorbita in toto. Le proposte di intervento legislativo che prendono a
modello fondi di garanzia mutuati da altri settori (ad esempio quelli per le vittime di
incidenti stradali) sono disegni accattivanti ma non trasferibili al mondo degli investimenti
finanziari. L’onda emotiva dei fallimenti di Cirio, Parmalat o chi per esse agita l’opinione
pubblica, ma la creazione di un fondo – o il consolidarsi di una acritica giurisprudenza a
senso unico - ucciderebbe il mercato.
I consumatori operanti nei mercati finanziari sono investitori e quindi diversi
dai consumatori tout court e la protezione va cercata mediante un corretto flusso
informativo. Ma non basta: ci si dovrebbe render conto che un opuscolo di centinaia di
pagine (il prospetto informativo del quale spesso a sproposito ci si duole della mancanza
nelle fattispecie Cirio e Parmalat) non toglie i dubbi, dà vita ad un eccesso informativo,
viene difficilmente letto e capito. Almeno il dubbio che in caso di errato investimento, la
colpa sia del mercato e non sempre e comunque dell’intermediario dovrebbe essere sempre
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presente. E, insieme, la valutazione dei comportamenti, stati soggettivi, storicità dei clienti
quali elementi utili alla attribuzione e ripartizione delle responsabilità. La corsa alla nullità,
sempre e comunque, elimina la possibilità stessa della attribuzione delle eventuali colpe in
maniera equilibrata. Un po’ di …1227 c.c. non guasterebbe proprio!
Con il che, sia pur a grandi linee, e senza pretesa alcuna abbiamo parlato dei tre
fenomeni giurisprudenziali più negativamente rilevanti per le banche italiane. Fenomeni
accomunati dalla loro vastità, rilevanza economica e evoluzione giurisprudenziale tale da
scaricare sulle banche – a prescindere da specifiche responsabilità riferite al caso singolo –
i danni subiti da ampie categorie di utenti dei servizi bancari italiani.
Qualcuno potrebbe trovare appagante, dal punto di vista della equità e della
giustizia distributiva il fatto che i creditori di aziende fallite siano pagati in buona
percentuale, che utenti bancari che nel passato pagarono importanti somme quale prezzo
del credito loro concesso ora vengano generosamente rimborsati e che la gran massa dei
risparmiatori investitori che ha investito in corporate bond caduti in default sia
integralmente rimborsata delle perdite subite.
8.- Conclusione
Tutto questo avrebbe (meglio: ha) costo zero? No di certo. Ma, sempre quel
qualcuno appagato, potrebbe continuare ad essere appagato pensando che chi paga sono
“le banche” che (obiettivamente e, riconosciamolo, non a torto)
non suscitano nella
generalità dei consociati sentimenti di protezione.
Il fatto si è che il mercato, anche in presenza di elementi distorsivi, continua a
funzionare: e in presenza di un generalizzato onere – che colpisce tutti i soggetti di quel
settore economico – questo onere non si ferma in capo alle banche ma viene trasferito sugli
utenti attuali dei servizi bancari. Che quindi pagano i risarcimenti (anzi le restituzioni)
disposti a favore di investitori. Che non sempre sono “vedove e orfani” ma, spesso,
smaliziati speculatori.
E questo è esattamente quello che interferisce negativamente sullo sviluppo del
sistema economico.
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Ed è per questo che a mio avviso legittimamente – anche se troppo timidamente
– il legislatore interviene per correggere gli effetti negativi di una certa giurisprudenza sul
mercato.
Ed è per questo che la giurisprudenza dovrebbe avere la sensibilità di valutare
anche altri effetti, che il suo porsi in termini di eccessiva,m acritica protezione verso alcuni,
ha sul mercato e quindi essa pone a carico di tutti. Cercando strumenti interpretativi, quali
quelli qui suggeriti, che si pongano come protezione (della giurisprudenza, del mercato, dei
cittadini) dagli eccessi.
Se concludessi così sarei passibile di una accusa di manicheismo. Non va invero
dimenticato il fatto che la giurisprudenza, oltre a risolvere il caso concreto, svolge una
importante funzione – checchè ne dica la Suprema Corte - di orientare i comportamenti dei
consociati. A volte (diciamolo pure: molto spesso) il mondo bancario è troppo lento a
recepire i segnali che dalla giurisprudenza provengono.
Ed ecco che la giurisprudenza è indotta ad alzare la voce. Talora a urlare. Ma
non sempre chi urla lo fa ingiustificatamente o è un maleducato. Talora si urla perché
l’interlocutore è sordo.
avv. Paolo Dalmartello
(SLC lex – avvocato in Milano)
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