C COMUNITA' NICHILISMO E COMUNITA’ Roberto Esposito* 1. Che rapporto passa tra questi due termini? La risposta che viene dalle varie filosofie della comunità – ma anche da un’interpretazione diffusa del nichilismo – va nel senso di una radicale contrapposizione. Nichilismo e comunità stanno in una relazione non di semplice alterità, ma di contrasto frontale che non ammette punti di contatto né zone di sovrapposizione. Essi si escludono reciprocamente: dove c’è l’uno – o quando c’è l’uno – non c’è l’altra e viceversa. Che l’opposizione sia situata sul piano sincronico o lungo una traiettoria diacronica, ciò che conta è la nettezza dell’alternativa tra due poli che sembrano assumere significato esattamente dalla loro irriducibilità. Il nichilismo – nelle sue connotazioni più peculiari di artificialità, anomia, insensatezza – è percepito come ciò che ha reso impossibile, o addirittura impensabile, la comunità; mentre la comunità si autointerpreta da sempre come ciò che resiste, contiene e contrasta la deriva nichilistica. E’ sostanzialmente il ruolo conferito alla comunità dalle concezioni comuniali, comunitarie, comunicative che da più di un secolo identificano in essa l’unico riparo alla potenza devastante del nulla ormai dilagante nella società moderna. Quello che cambia, rispetto a tale scenario, è l’ordine della successione che ai due termini viene di volta in volta attribuito, non il loro carattere rigidamente dicotomico. Se Ferdinand Tönnies situava la comunità prima della società – secondo una genealogia poi fatta propria da tutte le filosofie del tramonto, del tradimento e della perdita nate a destra come sinistra a cavallo del secolo – gli attuali neo-comunitaristi d’oltreoceano rovesciano i tempi della dicotomia senza, tuttavia, discuterne l’impianto di fondo: è la comunità, o meglio le comunità particolari in cui si frantuma l’archetipo tönnesiano, a succedere alla società moderna in una fase segnata dalla crisi del paradigma statale e dalla diffusione del conflitto multiculturale. In questo caso la comunità non è più intesa come un fenomeno residuale rispetto alle forme socio-culturali assunte dalla modernità, ma piuttosto come una replica alla insufficienza del suo modello individualistico-universalistico: è la stessa società degli individui, già distruttiva dell’antica comunità organica, a generare adesso nuove forme comunitarie come reazione postuma alla propria entropia interna. Torna a configurarsi anche da questo lato l’esclusione reciproca col nichilismo: la comunità avanza o arretra, si espande o si contrae, a seconda dello spazio non ancora ‘colonizzato’ da quello. Quando Habermas contrappone una razionalità comunicativa ad una razionalità strategica resta all’interno dello stesso paradigma interpretativo, con un’ulteriore accentuazione di carattere difensivo: la ‘comunità illimitata della comunicazione’ costituisce insieme il punto di resistenza e la riserva di senso rispetto alla progressiva invadenza della tecnica. Che essa sia intesa come un a priori trascendentale – anziché fattuale, secondo il più rudimentale approccio neocomunitario – non ne sposta il quadro ermeneutico di fondo: anche in questo caso la comunità, possibile se non reale, è intesa come la linea di confine e il muro di sbarramento rispetto all’avanzata del nichilismo. Qualcosa di pieno – una sostanza, una promessa, un valore – che non si lascia svuotare dal vortice del nulla. E’ un’altra configurazione di quello scontro tra la ‘cosa’ e il ‘niente’ che fa da presupposto all’intera tradizione che stiamo esaminando: contro l’esplosione – o l’implosione – del niente, la comunità tiene ferma la realtà della cosa: anzi è la cosa stessa che si oppone al proprio annientamento. 2. Ma si tratta di un presupposto accettabile o non è proprio esso a bloccare un pensiero della comunità all’altezza del nostro tempo – che è appunto quello del nichilismo compiuto? Se lo assumessimo in quanto tale, saremmo necessariamente costretti alla scelta tra due ipotesi altrettanto irricevibili: e cioè o negare l’attitudine costitutivamente nichilistica dell’epoca presente o escludere la questione della comunità dal nostro orizzonte di pertinenza. Per parlare di comunità in termini non semplicemente nostalgici resterebbe la via di circoscrivere il nichilismo ad un aspetto, o ad un momento particolare, della nostra esperienza. Di considerarlo un fenomeno ‘a termine’ – destinato ad un certo punto a dissolversi o quantomeno a regredire. O anche di intenderlo come una malattia che ha invaso solo determinati organi di un corpo altrimenti sano. Ma simile ragionamento riduttivo batte contro tutte le evidenze, convergenti nell’indicare nel nichilismo né una parentesi né una congiunture, bensì la tendenza di fondo della società moderna pervenuta oggi alla sua massima espressione. E allora? L’unico modo per venire a capo della questione senza rinunciare a nessuno dei suoi termini passa per la necessità di stringere in un’unica riflessione comunità e nichilismo. E anzi di vedere nel compimento del nichilismo, non un ostacolo insormontabile, ma l’occasione per un nuovo pensiero della comunità. Ciò non vuol dire, ovviamente, che comunità e nichilismo risultino identificabili o anche solamente simmetrici. Che vadano situati sullo stesso piano o lungo la medesima traiettoria. Ma piuttosto che s’incrociano in un punto dal quale nessuno dei due può prescindere perché risulta a diverso titolo costitutivo di entrambi. Questo punto – inavvertito, rimosso o azzerato dalle attuali filosofie comunitarie, ma più in generale dalla tradizione filosofica-politica – può essere indicato come il ‘niente’. È esso che comunità e nichilismo hanno in comune in una forma che è restata finora ampiamente inindagata. Ma in che senso? Lasciamo per ora sullo sfondo – salvo riprenderla di qui a poco – la questione, tutt’altro che semplice, del rapporto del niente con il nichilismo. E restiamo alla comunità, Si è visto come essa gli fosse tradizionalmente contrapposta come la nostra stessa cosa; e anzi come la sua definizione facesse tutt’uno con tale contrapposizione: la comunità non soltanto diversa dal e irriducibile al niente, ma coincidere con il suo più esplicito contrario – con un ‘tutto’ interamente riempito di se stesso. Ora io credo che sia esattamente questo il punto di vista che vada non solo problematizzato, ma addirittura rovesciato: la comunità non è il luogo della contrapposizione, ma quello della sovrapposizione, tra cosa e niente. Ho provato a motivare questo assunto attraverso un’analisi, insieme etimologica e filosofica; del termine communitas a partire da quello di munus, da cui esso deriva.1 Ciò che ne è conclusivamente risultato è la sua distanza categoriale da ogni idea di proprietà collettivamente posseduta da un insieme di individui – o anche dalla loro appartenenza ad una identità comune. Ciò che secondo l’originaria valenza del concetto i membri della communitas condividono – giusto il complesso ma pregnante significato di munus – è piuttosto una espropriazione della propria sostanza che non si limita al loro ‘avere’, ma che coinvolge ed intacca il loro stesso ‘essere soggetti’. Qui il discorso assume una piega che lo sposta dal terreno più tradizionale dell’antropologia, o della filosofia politica, a quello, più radicale, dell’ontologia: che la comunità sia legata non a un più, ma a un meno, di soggettività, vuol dire che i suoi membri non sono più identici a se stessi, ma costitutivamente esposti ad una tendenza che li porta a forzare i propri confini individuali per affacciarsi sul loro ‘fuori’. Da questo punto di vista – che rompe ogni continuità del ‘comune’ col ‘proprio’, legandolo piuttosto all’improprio – torna in primo piano la figura dell’altro. Se il soggetto della comunità non è più lo ‘stesso’, sarà necessariamente un ‘altro’. Non un altro soggetto, ma una catena di alterazioni che non si fissa mai in una nuova identità. 3. Ma se la comunità è sempre d’altri e mai di sé significa che la sua presenza è costitutivamente abitata da un’assenza – di soggettività, di identità, di proprietà. Che essa non è una ‘cosa’ – o è una cosa definita precisamente dal suo ‘non’. Una ‘non-cosa’. Ora come va inteso tale ‘non’? E come si rapporta alla cosa cui inserisce? Certamente non nel senso di una pura negazione. Il niente-in-comune non è il contrario dell’ente, bensì qualcosa che gli corrisponde e gli coappartiene assai più intensamente. Ma proprio sul senso di questa corrispondenza – o coappartenenza – non bisogna cadere in equivoco. Il niente della communitas non va interpretato come ciò che essa ancora non può essere; come il momento negativo di una contraddizione destinata a risolversi dialetticamente nell’identità degli opposti. Ma non va interpretato neanche come il nascondimento in cui la cosa si ritira perché non può svelarsi nella pienezza di una pura presenza. In ciascuno di questi casi, infatti, esso non resterebbe il niente della cosa, ma si trasformerebbe in qualcosa d’altro cui essa si rapporterebbe nei modi della teleologia o della presupposizione. Sarebbe il suo passato o il suo futuro. Non il suo nudo presente: ciò che essa è – che non è altro da essa. Il niente non è, insomma, la condizione o l’esito della comunità – il presupposto che la libera alla sua ‘vera’ possibilità – bensì il suo unico modo di essere. La comunità, in altre parole, non è interdetta, oscurata, velata – ma costituita dal niente. Ma è la relazione che non li fa essere più tali – soggetti individuali – perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il ‘con’, il ‘fra’, la soglia su cui essi s’incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da se stessi. Si potrebbe dire – riferendosi ad un altro termine che ha assunto un significato opposto a quello originario – che la comunità non è l’iter dell’esse, ma l’esse come iter: non un rapporto che modella l’essere, ma l’essere medesimo come rapporto. La distinzione è importante perché è quella che ci restituisce nel modo più evidente la sovrapposizione di essere e niente: l’essere della comunità è lo scarto, lo spaziamento, che ci rapporta agli altri in una comune non-appartenenza. In una perdita di proprio che non perviene mai a sommarsi in un ‘bene’ comune: comune è solo la mancanza, non il possesso, la proprietà, l’appropriazione. Che il termine munus sia inteso dai latini solo come il dono fatto, e mai come quello ricevuto – denotato invece dal vocabolo donum – vuol dire che è per principio privo di ‘remunerazione’. Che la falla di sostanza soggettiva che esso determina resta tale – non è riempibile, sanabile, cicatrizzabile. Che la sua apertura non può essere chiusa da nessuna risarcitura – o risarcimento – se vuole restare effettivamente condivisa. Perché nel concetto di ‘condivisione’ il ‘con’ è associato appunto alla ‘divisione’. Il limite cui esso allude è quello che unisce non nel modo della convergenza, della conversione, della confusione, bensì in quello della divergenza, della diversione, della diffusione. La direzione è sempre dal dentro al fuori, mai dal fuori al dentro. La comunità è l’esteriorizzazione dell’interno. Per questo – perché opposto all’idea di interiorizzazione, o, tanto più, d’internamento – l’iter della comunità non può legare che delle esteriorità o delle ‘fuoriuscite’, dei soggetti affacciati sul proprio fuori. Questo movimento di decentramento è riconoscibile nella stessa idea di ‘partizione’ – che rimanda insieme a ‘condivisione’ e a ‘partenza’: la comunità non è mai un luogo d’arrivo, ma sempre di partenza. È anzi la partenza stessa verso ciò che non ci appartiene e 1 Cfr. Supra. che non potrà mai appartenerci. Perciò la communitas è ben lontana da produrre effetti di comunanza, di accomunamento, di comunione. Non riscalda e non protegge. Al contrario espone il soggetto al rischio più estremo: quello di perdere, con la propria individualità, i confini che ne garantiscono l’intangibilità da parte dell’altro. Di scivolare improvvisamente nel niente della cosa. 4. È in riferimento a tale niente che va posta la questione del nichilismo: ma in una forma che colga, insieme alla connessione, anche la distinzione di piani su cui essa poggia. Il nichilismo – voglio dire – non è l’espressione, ma la soppressione, del niente-in comune. Certo, esso ha ben a che fare col niente – ma appunto nel modo del suo annientamento. Non è il niente della cosa, ma del suo niente. Un niente al quadrato: il niente moltiplicato e contemporaneamente ingoiato dal niente. Ciò significa che si danno almeno due significati – o due livelli – del niente che vanno tenuti distinti nonostante e dentro la loro apparente coincidenza. Mentre il primo, come si è visto, è quello della relazione – la lacuna, o lo spaziamento, che fa dell’essere comune non un ente, ma un rapporto – il secondo è invece quello del suo scioglimento: lo scioglimento della relazione nell’assolutezza del senza-rapporto. Se guardiamo da questo lato all’assolutismo hobbesiano, i passaggi di tale ‘soluzione’ assumono una nettezza senza confronti. Che Hobbes inauguri il moderno nichilismo politico non va, infatti, inteso semplicemente nel senso corrente che egli ‘scopre’ il nulla di sostanza di un mondo liberato dal vincolo metafisico rispetto ad ogni veritas trascendente; ma piuttosto in quello che lo ‘ricopre’ con un altro, e più potente, nulla che ha precisamente la funzione di annullare gli effetti potenzialmente dissolutivi del primo. Così come la pointe della sua filosofia politica sta nell’invenzione di una nuova origine volta ad arginare, e riconvertire in coazione ordinativa, il niente originario – l’assenza di origine – della communitas. Naturalmente tale contraddittoria strategia di neutralizzazione – svuotare il vuoto naturale attraverso un vuoto artificiale creato ex nihilo – nasce da una interpretazione tutta negativa, e anzi catastrofica, del principio di condivisione, della condivisione iniziale dell’essere. È proprio la negatività senza scampo attribuita alla comunità originaria a giustificare un ordine sovrano – lo stato Leviatano – capace di immunizzare preventivamente dal suo insostenibile munus. Perché l’operazione riesca – sia, cioè, logicamente razionale nonostante l’altissimo prezzo di sacrificio e di rinuncia che richiede – occorre non solo che tale munus comune venga privato del suo versante di eccesso donativo a favore di quello di difetto; ma anche che questo difetto – nel senso neutro del delinquere latino: mancare – venga inteso nei termini di un vero e proprio ‘delitto’, anzi di una catena inarrestabile di potenziali delitti. È questa radicale forzatura interpretativa – dal niente-in-comune alla comunità del delitto – a determinare la cancellazione della communitas a favore di una forma politica fondata sullo svuotamento di ogni relazione esterna al rapporto verticale tra individui e sovrano e dunque sulla stessa dissociazione. Partito dall’esigenza di proteggere la cosa dal niente che pare minacciarla, Hobbes finisce così per annientare, col niente, la cosa medesima; per sacrificare all’interesse individuale non solo l’iter dell’esse, ma anche l’esse dell’iter. Tutte le risposte moderne che nel corso del tempo verranno fornite al ‘problema hobbesiano dell’ordine’ – in forma decisionistica, funzionalistica, sistemica – rischiano di restare prese in questo circolo vizioso: l’unica maniera di contenere i pericoli impliciti nella carenza originaria dell’animale-uomo appare la costruzione di una protesi artificiale – la barriera delle istituzioni – capace di proteggerlo dal contatto potenzialmente distruttivo con i suoi simili. Ma assumere come forma di mediazione sociale appunto una protesi – vuol dire fare fronte al vuoto con un vuoto ancora più spinto perché fin dall’inizio afferrato e prodotto dall’assenza che dovrebbe compensare. Lo stesso principio rappresentativo – concepito come il meccanismo formale rivolto a conferire presenza ad un assente – non fa che riprodurre e potenziare quel vuoto nella misura in cui non riesce a concettualizzarne il carattere originario e non derivato. Non riesce a cogliere, cioè, che il niente che dovrebbe supplire non è una perdita – di sostanza, di fondamento, di valore – ad un tratto venuta a dissolvere un ordine precedente. Ma è il carattere stesso del nostro essere-in-comune. Non avendo voluto – o saputo – scavare più a fondo nel niente della relazione, il nichilismo moderno si ritrova consegnato al niente dell’assoluto – all’assoluto niente. 5. È ad esso che tenta di sfuggire la moderna filosofia della comunità attraverso un’opzione uguale e contraria finisce, tuttavia, per ricadere nello stesso nichilismo che vorrebbe fronteggiare. Ad essere assolutizzata, invece del niente, è adesso la cosa. Ma che vuol dire assolutizzare la cosa, se non annientare – e dunque ancora una volta potenziare – lo stesso niente? La strategia non è più quella di svuotare, ma, al contrario, di riempire, il vuoto determinato, e anzi costituito, dal munus originario. Ciò che – a partire da Rousseau fino al comunitarismo contemporaneo – appare una proposta alternativa, si rivela, però, come il rovescio speculare dell’immunizzazione hobbesiana: della quale condivide sia il lessico soggettivistico sia l’esito particolaristico – applicato questa volta non all’individuo ma alla collettività nel suo insieme. Quello che in ogni caso viene meno – stritolato dalla sovrapposizione di individuale e collettivo – è la relazione stessa, intesa come modalità al contempo singolare e plurale dell’esistenza: annullata nel primo caso dall’assolutezza che separa gli individui tra loro e nel secondo dalla loro fusione in un unico soggetto chiuso nella identità con se stesso. Se si assume la comunità roussoviana di Clarens come il modello, infinite volte riprodotto, di tale auto identificazione se ne riconoscono in vitro tutti i tratti caratterizzanti: dall’incorporamento reciproco di coloro che ne fanno parte alla perfetta autosufficienza dell’insieme cui essi danno luogo, alla inevitabile contrapposizione che ne risulta nei confronti di tutto ciò che sta al suo esterno. L’esterno in quanto tale è incompatibile con una comunità talmente ripiegata sul proprio interno da istituire tra i suoi membri una trasparenza senza opacità – ed una immediatezza senza mediazioni – che riduce costantemente ciascuno ad un altro non più tale perché identificato preventivamente col primo. Che Rousseau non preveda, e anzi esplicitamente neghi, la traducibilità di simile communauté de coeur in una qualsiasi forma di democrazia politica non toglie la potenza di suggestione mitologica che essa ha esercitato non soltanto sull’intera tradizione romantica, ma anche, per altri versi, sull’idealtipo della Gemeinschaft tönnesiana – anch’essa fondata sulla generalità di una volontà essenziale sovraordinata a quella dei suoi singoli esponenti. Ma c’è qualcosa d’altro che attiene più precisamente alla ricaduta inconsapevolmente nichilistica di questa opposizione della comunità al nichilismo della società moderna – alla quale essa si rivela non solo pienamente aderente, ma strettamente funzionale come il suo semplice rovescio. Ogni volta che al vuoto di senso del paradigma individualistico si è voluto opporre l’eccesso di senso di una comunità riempita della propria essenza collettiva, le conseguenze sono state distruttive: prima nei confronti dei nemici esterni, o interni, contro cui tale comunità si è istituita ed infine anche di se stessa. Come è noto, ciò riguarda in primo luogo gli esperimenti totalitari che hanno insanguinato la prima metà di questo secolo – ma, in maniera diversa e certo meno devastante, tutte le forme di ‘patria’, ‘matria’ e ‘fratria’ che hanno raccolto schiere di fedeli, patrioti, fratelli intorno ad un modello inevitabilmente koinocentrico. Il motivo di questa tragica coazione a ripetere, che neanche oggi accenna ad esaurirsi, sta nel fatto che quando la cosa si riempie fino all’orlo della propria sostanza, rischia di esplodere, o di implodere, sotto il suo stesso peso. Ciò accade allorché i soggetti riuniti nel vincolo comuniale individuano l’accesso alla loro condizione di possibilità nella riappropriazione della propria essenza comune. Questa a sua volta appare configurarsi come la pienezza di un’origine perduta e perciò stesso ritrovabile nell’interiorizzazione di un’esistenza momentaneamente esteriorizzata. Ciò che in questo modo si presume possibile, e necessario, è l’elisione – il riempimento – di quel vuoto di essenza che costituisce precisamente l’ex dell’exsistentia: il suo carattere non proprio perché ‘comune’. È solo così – attraverso, l’abolizione del suo niente – che la cosa può essere finalmente realizzata. Ma la realizzazione, necessariamente fantasmatica, della cosa è appunto l’obiettivo del totalitarismo. L’indifferenziazione assoluta che finisce per sopprimere non solo il proprio oggetto, ma il soggetto stesso che la mette in opera. La cosa non è appropriabile che nella sua distruzione. Essa non è ritrovabile per il semplice motivo che non si è mai perduta: ciò che appare perduto non è che il niente da cui essa è costituita nella sua dimensione comune. 6. Il primo pensatore a cercare la comunità proprio nel niente della cosa è Heidegger. Senza poter qui ripercorrere il complesso tragitto dell’interrogazione sulla cosa che si snoda lungo la sua intera opera, occorre fermarsi sulla conferenza del ’50 intitolata appunto «La cosa» (Das Ding). E ciò non soltanto perché in essa quel tragitto sembra culminare, ma, più intrinsecamente, perché la ‘cosa’ – altrove interpellata sotto il profilo estetico, logico o storico – è qui ricondotta alla sua essenza comune. L’espressione va intesa in duplice senso. Intanto in quello che Heidegger chiama in causa le cose più modeste, abituali, alla mano – in questo testo, la brocca; ma anche nel senso che tale modestia custodisce il punto vuoto in cui la cosa ritrova il suo significato meno scontato, come già era detto in L’origine dell’opera d’arte: «La cosa, nella sua modestia, si sottrae al pensiero nel modo più ostinato. Oppure proprio questo rifiutarsi dalla mera cosa (…) dovrà appartenere all’essenza della cosa?»2. Proprio alla definizione di questa essenza – la «cosalità della cosa» - è dedicato il discorso su «La cosa». Essa non consiste nell’oggettività in cui noi stessi la rappresentiamo; ma non consiste neanche nella produzione da cui la cosa – prodotta – sembra ‘provenire’. E allora? Proprio qui ci è di aiuto l’esempio della brocca – ma anche delle altre ‘cose’ richiamare in saggi degli stessi anni, come l’albero, il ponte, la soglia. Quale elemento caratterizzante le congiunge? Si tratta essenzialmente del vuoto. Il vuoto è l’essenza di queste cose, come anche di tutte le cose. È così per la brocca – raccolta letteralmente intorno ad un vuoto e da esso in ultima analisi formata: «Quando noi riempiamo la brocca, nel riempimento il liquido fluisce nella brocca vuota. È il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene. Il vuoto, questo nulla nella brocca (Dier Leere, dieses Nichts am Krug), è ciò che la brocca è come recipiente che contiene»3. L’essenza della cosa è dunque il suo nulla. Al punto che fuori dalla prospettiva che esso apre la cosa perde la sua natura più propria, fino a scomparire o, come Heidegger stesso si esprime, ad essere annichilita: laddove si dimentica la sua essenza, «in realtà la cosa come cosa rimane inaccessibile, nulla, e in questo 2 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, in Gesamtausgabe, Frankfurt a M. 1978, vol. V (trad. it. Sentieri interrotti, Firenze 1968, p. 17). 3 M. Heidegger, Das Ding, in Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954 (trad. it. Saggi e discorsi, Milano 1976, p. 112). senso annichilita (In Wahrheit bleibt jedoch das Ding als Ding verwehrt, nichtig und in solchem Sinne vernichtet)» 4. Tutto ciò può sembrare paradossale: la cosa è annichilita se non se ne coglie fino in fondo il carattere essenziale. Ma – come si è appena visto – questo carattere essenziale sta non in altro che nel suo vuoto. È la dimenticanza di questo nulla – del vuoto – a consegnare la cosa ad un punto di vista scientista, produttivista, nichilista, che l’annulla. Anche da questo lato ci troviamo nella necessità di istituire una distinzione tra due tipi di ‘nulla’: uno che ci restituisce la cosa nella sua realtà profonda, e un altro che, al contrario, ce la sottrae. E anzi che, annullando il primo nulla, annulla la stessa cosa che quello costituisce. Heidegger qualche rigo più avanti ci fornisce la chiave di questo apparente paradosso: il nulla che salva la cosa dal nulla – nella misura in cui la costituisce essenzialmente come cosa – è il nulla del munus, dell’offerta che rovescia il dentro nel fuori: «versare dalla brocca è offrire (Schenken)» 5. Non solo, ma di un munus ‘comune’ in quanto si dà nella raccolta e come raccolta: «L’essenza del vuoto contenente è raccolta nell’offrire»6. Heidegger richiama a questo proposito le parole altotedesche thing e dinc appunto nel loro significato originario di «riunione». Il dare espresso dal vuoto della brocca è anche e innanzitutto un riunire. Cosa? Cosa riunisce – offrendo – il vuoto della cosa? Heidegger inserisce a questo punto il motivo della «Quadratura» - vale a dire della relazione tra terra e cielo, mortali e divini. Ma ciò su cui va concentrata l’attenzione è la relazione in quanto tale – il niente che essa mette in comune e la comunità del niente come essenza della cosa. Non è appunto questo – la pura relazione – che costituisce l’elemento comune di tutte le cose prima richiamate: l’albero che collega la terra al cielo, il ponte che unisce le due rive, la soglia che congiunge l’interno con l’esterno? Non si tratta – come per la communitas – di una unità nella distanza e della distanza? Di una distanza che unisce o di una lontananza che avvicina? E cosa è, infine, il nichilismo se non un’abolizione della distanza – del nulla della cosa – che rende impossibile ogni vicinanza? «L’assenza della vicinanza (Das Ausbleiben der Nähe) nonostante l’eliminazione delle lontananze ha condotto al dominio del senzadistanza. Nell’assenza della vicinanza, la cosa come cosa, nel senso che si è detto, rimane annichilita»7. 7. L’unico autore a misurarsi con la questione aperta da Heidegger – il rapporto tra la comunità e il niente nel tempo del nichilismo compiuto – è Georges Bataille: «La ‘comunicazione’ non può avvenire da un essere pieno e intatto ad un altro: essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere – in loro stessi – al limite della morte, del nulla (néant)» 8. Il passo rimanda ad un breve testo intitolato Nulla, trascendenza, immanenza in cui il nulla è definito come «il limite di un essere» al di là del quale esso «non esiste più. Questo non-essere è per noi carico di senso: so che è possibile annientarmi (Ce non-être est pour nous plein de sens: je sais qu’ ou peut m’anéantir)»9. Perché la possibilità di annientarsi è carica di senso – e anzi costituisce l’unico senso praticabile nella fase in cui ogni altro senso sembra venire meno? La domanda conduce insieme alla interpretazione batagliana del nichilismo e al punto in cui essa incrocia aporeticamente il luogo inabitabile della comunità. Il nichilismo, per Bataille, non è la fuga del senso – o dal senso – ma piuttosto la sua chiusura dentro una concezione omogenea e compiuta dell’essere. Mai come in questo caso esso non coincide con ciò che l’occlude in una pienezza senza faglie e senza fessure. Il nichilismo, insomma, non va cercato dalla parte della mancanza, ma da quella della sua sottrazione. È la mancanza della mancanza – la sua rimozione o la sua risarcitura. Ciò che ci sottrae alla nostra alterità bloccandoci in noi stessi; facendo di quel ‘noi’ una serie di individui compiuti e rivolti al proprio interno, interamente rivolti in se stessi: La noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso (le néant de l’être enfermè sur lui-même). Se non comunica più, un essere isolato intristisce, deperisce e sente (oscuratamente) che da solo, non esiste. Questo nulla interno, senza via d’uscita, senza alcuna attrattiva, lo respinge: egli soccombe al malessere della noia e la noia dal nulla interno lo rigetta in quello esterno, all’angoscia 10. Qui si rende chiaro il doppio livello della semantica del nulla e, contemporaneamente, il passaggio che Bataille compie dal primo al secondo: dal nulla dell’individuo, del proprio, dell’interno al nulla-in-comune dell’esterno. Anche questo secondo è un niente, ma è quel niente che ci strappa all’assoluto niente – al niente dell’assoluto – perché è il niente della relazione. L’uomo è strutturalmente esposto a – ma si dovrebbe dire: costituito da – questa paradossale condizione di poter sfuggire all’annientamento per implosione soltanto rischiando quello per esplosione: «L’essere, nella tentazione, si trova per così dire stritolato dalla duplice tenaglia del nulla. Se non comuni4 Ibidem, p. 113. Ibidem, p. 114. 6 Ibidem. 7 Ibidem, 121. 8 G. Bataille, Sur Nietzsche, in Œuvres Complètes, Paris 1973, t. VI (trad. it Su Nietzsche, Milano 1970, p. 51). 9 Ibidem, 190. 10 Ibidem, p. 53. 5 ca si distrugge – nel vuoto che è la vita quando ci si isola. Se vuole comunicare, rischia egualmente di perdersi»11. Che Bataille – qui come altrove – parli di «essere» alludendo alla nostra esistenza non va interpretato soltanto come una imprecisione terminologica dovuta al carattere non professionalmente filosofico del suo pensiero, ma come l’effetto voluto di una sovrapposizione tra antropologia ed ontologia dentro la comune figura della mancanza, o, più esattamente, dello strappo (déchirure). È vero, infatti, che noi possiamo affacciarci sull’essere esterno ai nostri limiti solo rompendoli – e anzi identificandoci con tale effrazione. Ma ciò in virtù del fatto che anche l’essere è originariamente mancante a se stesso, dal momento che il fondo delle cose non è costituito da una sostanza ma da una apertura originaria. Ad esso – a tale beanza – accediamo nelle esperienze-limite che ci sottraggono a noi stessi, alla padronanza sulla nostra esistenza. Ma queste esperienze non sono che l’effetto antropologico – o la dimensione soggettiva – del vuoto d’essere che le origina: come un grande foro fatto di tanti fori che alternativamente si aprono al suo interno. In questo senso si può ben dire che l’uomo è la ferita di un essere a sua volta, e già da sempre, ferito. Ciò significa che quando si parla dell’essere-in-comune, o «comuniale», come del continuo in cui ricade ogni esistenza che abbia rotto i propri limiti individuali, non bisogna intendere tale continuo come un tutto omogeneo – questa è precisamente la prospettiva nichilistica. Né, propriamente, come l’essere – o come l’Altro dell’essere. Ma piuttosto come quel vortice – il munus comune – in cui il continuo fa tutt’uno col discontinuo, come l’essere col non essere. Questo è il motivo per cui la comunicazione «maggiore» non ha l’aspetto di un’addizione o di una moltiplicazione, bensì quello di una sottrazione. Essa non passa tra l’uno e l’altro, ma tra l’altro dell’uno e l’altro dell’altro: L’alidilà del mio essere è prima di tutto il nulla. Presagisce la mia assenza nella lacerazione, nel sentimento penoso di un vuoto. La presenza altrui si rivela attraverso questo sentimento. Ma essa è pienamente rivelata soltanto se l’altro, da parte sua, si china egli pure sull’orlo del suo nulla, o se vi cade (se muore). La comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco – lacerati, sospesi, chini entrambi sul loro nulla (l’un et l’autre penchès au dessus de leur nèant12. Si può ben dire che con Heidegger e Bataille il pensiero novecentesco sulla comunità tocchi il punto di massima intensità ed insieme il suo limite estremo. E ciò non perché nella loro filosofia esso non sperimenti più di un cedimento in direzione mitica e regressiva; e neanche perché intorno a loro e dopo di loro non si registrino approfondimenti, sviluppi, nuove intuizioni riconducibili a diverso titolo e con diversa declinazione alla questione del cum, come stanno a dimostrare gli scritti – e le vite – di S. Weil, D. Bonhoeffer, J. Patocka, R. Antelme, O. Mandelstam, P. Celan. Ma perché anche costoro non hanno potuto pensare la comunità che a partire dal problema posto, e non risolto, da Heidegger e Bataille. È lo stesso motivo per il quale tutto ciò – la filosofia, la sociologia, la politologia della seconda metà del secolo – che ci separa da essi resta nella dimenticanza della questione della comunità. O, peggio, contribuisce alla sua deformazione laddove la riduce – e immiserendola – alla difesa dei nuovi particolarismi. A questa deriva – sperimentata e prodotta da tutti i dibattiti in corso su individualismo e comunitarismo – solo da qualche anno risponde, in particolare in Francia e in Italia, il tentativo di riavviare una nuova riflessione filosofica sulla comunità a partire esattamente dal punto in cui quella precedente si è interrotta alla metà del secolo13. Il necessario richiamo a Heidegger e a Bataille che la connota si accompagna, tuttavia, alla precisa consapevolezza di stare nell’inevitabile esaurimento del loro lessico – e cioè in una condizione, insieme materiale e spirituale, che essi non hanno potuto conoscere fino in fondo. Alludo ancora una volta al nichilismo – e più precisamente all’ulteriore accelerazione che negli ultimi decenni del secolo si è prodotta all’interno del suo ininterrotto ‘compimento’. È proprio essa probabilmente a consentire – ma anche ad imporre – una riapertura del pensiero sulla comunità in una direzione che Heidegger e Bataille hanno potuto solo intuire, ma non tematizzare. Quale? Senza presumere di fornire una risposta esaustiva a quella che costituisce la domanda del nostro tempo, è inevitabile rivolgere ancora una volta lo sguardo alla figura del ‘niente’. «La questione, – scrive l’autore contemporaneo cui più che ad ogni altro va il merito di aver riaperto un varco nella chiusura del pensiero della comunità, – è piuttosto di sapere come concepire il ‘niente’ stesso. O è il vuoto della verità, oppure non è nient’altro che il mondo stesso e il senso di essere-al-mondo» 14. Come intendere questa alternativa – e si tratta veramente di un’alternativa? Si potrebbe osservare a questo proposito come da un certo punto di vista sia proprio l’assenza – e fin’anche il deserto – di comunità ad indicarne l’esigenza come ciò che ci manca, e anzi come la nostra stessa mancanza. Come un vuoto che non chiede di essere riempito di nuovi o antichi miti, ma piuttosto di essere reinterpretato alla luce del suo stesso ‘non’. Ma la frase di Nancy appena citata ci dice qualcosa di più e di più preciso che potremmo riassumere in questo modo. L’esito cui ha portato l’estremo compimento del nichilismo – lo sradicamento assoluto, la tecnica dispiegata, la mondializzazione integrale – ha 11 Ibidem, p. 54. Ibidem, p. 51. 13 I libri cui alludo sono, oltre al presente, i seguenti: J.-L. Nancy, La communautè dèsœuvrèe, Paris 1986 (trad. it. La comunità inoperosa, Napoli 1992); M. Blanchot, La communautè inavouable, Paris 1993 (trad. it. La comunità inconfessabile, Milano 1994); G. Agamben, La comunità che viene, Torino 1990. 14 J.-L. Nancy, Le sens du monde, Paris 1993 (trad. it. Il senso del mondo, Milano 1997, p. 62). 12 un doppio volto, due facce che si tratta non solo di distinguere ma anche di far interagire: si potrebbe dire che la comunità non sia altro dal limite che le separa ed insieme le congiunge. Da un lato il senso risulta lacerato, slabbrato, desertificato – e questo è l’aspetto distruttivo che ben conosciamo: la fine di ogni generalità del senso, la perdita di padronanza sul significato complessivo dell’esperienza. Ma dall’altro lato proprio questa disattivazione, questa devastazione, del senso generale apre lo spazio della contemporaneità all’emergenza di un senso singolare che coincide appunto con l’assenza di senso e nello stesso tempo la rovescia nel suo opposto. È proprio quando viene meno ogni senso già dato, disposto in un quadro di riferimento essenziale, che si rende visibile il senso del mondo in quanto tale, rovesciato nel suo fuori, senza rimando a nessun senso, o significato, che lo trascenda. La comunità non è che il confine e il transito tra questa immensa devastazione del senso e la necessità che ogni singolarità, ogni evento, ogni scheggia di esistenza sia in sé sensata. Essa rimanda al carattere, singolare e plurale, di un’esistenza libera da ogni senso presupposto o imposto o posposto. Di un mondo ridotto a se stesso – capace di essere semplicemente ciò che è: un mondo planetario, senza direzione né punti cardinali. Un nientealtro-che-mondo. È questo niente in comune che è il mondo ad accomunarci nella condizione di esposizione alla più dura assenza di senso e contemporaneamente all’apertura di un senso ancora impensato. *Ringraziamo il professore Roberto Esposito per aver cortesemente concesso di pubblicare questo testo, Appendice al volume Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, 1998 2006. METROPOLI GLOBALE VS L’IDEA DI CITTÀ Vincenzo Ariu "Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché in ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d'esistere". Le città invisibili, Italo Calvino Communitas Il concetto di comunità è spesso inteso come un contenitore attributivo che fa sì che il soggetto, che ne è parte, possa in essa identificarsi per riflesso. Per molte filosofie comunitarie, comunità è un bene/valore/essenza che in alcuni casi “(…)si può anche perdere e ritrovare come qualcosa che ci è già appartenuta e dunque ci potrà tornare ad appartenere” 1. In una perfetta simmetria rappresenta un’origine e/o un destino. In Max Weber comunità (Vergemeinshftung) è una comune appartenenza sentita dai soggetti che ad essa partecipano. Nel suolo, nel territorio come sostiene Tönnies e ancor più Carl Schimtt nel citatissimo Der Nomos der Erde, la comunità si identifica con l’appropriazione. La proprietà del bene comune si trasfigura in comunanza etnica, spirituale dei suoi membri. Tale idea di comunità non sembra più soddisfacente e capace di interpretare le tensioni del vivere in comune nel nostro tempo. Per articolare un’ipotesi alternativa di idea di comunità proverò a ripercorrere alcuni concetti rielaborati da Roberto Esposito alla fine degli anni novanta 2. Esposito, come spesso ci hanno abituato i filosofi, ricerca nelle declinazioni dell’archeologia lessicale nuove potenziali interpretazioni. Il sostantivo latino communitas, e l’aggettivo corrispondente communis, può essere tradotto arditamente in ciò che non è proprio, che pertiene a più di uno, a molti. Si contrappone a privato, particolare e forse anche a collettivo perché è “generale”. Se poi analizziamo il termine da cui proviene “munus” si ripiomba in significati ambigui quali dovere, onere, incarico, ma anche dono nel senso inteso da Marcel Mauss come obbligo all’accettazione e al ricambio, fatto sociale duale. Munus è il dono che si deve dare e socialmente non si può non dare. Un concetto che rompe la simmetria tra il donatore e donatario imponendo il vincolo esige gratitudine e riconoscenza. In questa particolare interpretazione dell’origine etimologica, communitas, cum-munus, non si declina automaticamente in res pubblica, non si fonda sulla cosa comune, sul nomos. In un “(…) esito polemico cui questo periplo etimologico ci ha infine condotti nei confronti delle varie filosofie della comunità. Come ci indica l’etimologia complessa, ma al tempo stessa univoca, da noi interpellata, il munus che la communitas condivide non è una proprietà o un’appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario un debito, un pegno, un dono da dare. E dunque ciò che determinerà, che sta per divenire, che virtualmente già è, una mancanza. I soggetti della comunità sono uniti da un dovere (…) che li rende non interamente padroni di se stessi.”3 In una sorta di ribaltamento polemico delle teorie comunitarie, Esposito rintraccia nella communitas l’espropriazione di parte della soggettività. Il comune in tal modo si caratterizza non dal “proprio” ma dall’”improprio”. Gli individui di una comunità non trovano in essa un principio di identificazione, ma all’opposto trovano un vuoto, cioè quella parte obbligatoriamente “donata” (donum/damnum), che si manifesta nella declinazione ontologica della persona. Perdita della soggettività della persona in funzione di un recinto concluso, immune al fuori, all’esterno. “(…) Perciò la comunità non può essere pensata come un corpo, una corporazione, in cui gli individui si fondano in un individuo più grande. Ma non va intesa neanche come il reciproco ‘riconoscimento’ intersoggettivo in cui essi si specchiano a conferma della loro identità iniziale. (…) La comunità non è un modo di essere – o, tantomeno, di 'fare' – del soggetto individuale.”4 Anche nella tradizione cristiana e medievale in particolare il concetto di comunità, inteso bonariamente come appartenenza di una collettività ad un luogo, un territorio, una città, in realtà nasconde o meglio avvolge in una coltre fumosa la terribile fondazione. Esposito rilegge Agostino per il quale communitas indica la comunità di colpa. La comunità inizia con lo stanziale Caino, con la sua fratricida violenza. L’atto fondativo della comunità è sempre violento, intriso di sangue e soprattutto di morte, del nulla o meglio della paura intrinseca dell’uomo della sua mortalità 5. Nella comunità l’amore del prossimo è proporzionale alla paura condivisa, la solidarietà tra gli individui si manifesta nella difesa dalla morte. 1 R. Esposito, Communitas, Torino 1998, p. XI. Ibidem, p. XI. 3 Ibidem, p. XVI. 4 Ibidem, p. XVII. 5 Ibidem, pp. XIX-XXIII. Rimando al testo di Esposito per una esposizione esaustiva del tema. 2 Cosciente dell’inesistenza di una idea di comunità organica idilliaca del passato, Esposito individua nel “contrappunto semantico” tra communitas e immunitas l’inversione concettuale dell’idea nella modernità. “(…) se la prima (communitas) obbliga gli individui a un impegno che li spinge a donare qualcosa di proprio, o addirittura se stessi, la seconda (immunitas) ricostruisce la loro identità proteggendoli da una contiguità rischiosa con l’altro da sé, sollevandoli da ogni onere nei suoi confronti, richiudendoli nel guscio della loro identità soggettiva.” Il concetto di comunità nella modernità si identifica nell’immunità (in-munus, assenza del dono, dell’obbligo) fondata come suggerisce Hobbes sul social contract dello stato leviatano. La comunità moderna, identificata nel monos (terra) e rappresentata idealmente di volta in volta dallo stato, dalla regione, dal comune, si immunizza dall’altro, ha paura di essere contaminata. Se nella società del passato la comunità, fondata sulla paura, era l’unione degli individui nel reciproco obbligo del dono, nella società moderna l’insieme degli individui, privi di ogni obbligo reciproco, difendono l’identità personale, traslata formalmente in identità collettiva, arroccandosi nella presunta purezza dell’origine da difendere coi denti dalla contaminazione esterna. Il paradosso dell’immunità si manifesta nella contemporaneità, nel momento in cui, alla fine del novecento, si disintegrano le frontiere e la globalizzazione stravolge le allora immuni società. “(…) a quello che comunemente si chiama globalizzazione: nel senso che quanto più gli uomini – ma anche le idee, i linguaggi, le tecniche – comunicano e s’intrecciano tra di loro, tanto più si genera, come controspinta, una esigenza di immunizzazione preventiva. I nuovi ripiegamenti localistici, con le loro derive etnico-fondamentalistiche, possono essere spiegati in questa chiave: come rigetti immunitari della contaminazione globale.” Con l’ultimo testo della trilogia Communitas, Immunitas e Bios, Esposito prova a tracciare il sentiero di una nuova idea di comunità che superi le derive immunitarie della contemporaneità destinate alla catastrofe: “(…) voglio dire che l’attuale conflitto appare scaturito dalla pressione contrapposta di due ossessioni immunitarie alla fine speculari tra loro: quella dell’Occidente, impegnato a escludere il resto del pianeta dalla condivisione dei propri beni, a difendersi dalla fame di una larga parte del mondo sempre più condannata a un’anoressia forzata; e l’ossessione di un integralismo islamico deciso a proteggere fin alla morte la propria purezza religiosa, etnica, culturale dalla contaminazione della secolarizzazione occidentale.” La difesa del proprio recinto rende immuni solo per un tempo limitato poi la resistenza non può che sgretolarsi di fronte alle contingenze del vivere. Immunizzarsi significa “(…) protezione e negazione della vita nel senso che tale protezione, se spinta oltre un certo limite, costringe la vita entro una sorta di gabbia o di armatura nella quale si perde non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza individuale e collettiva: vale a dire quella circolazione sociale, quell’affacciarsi dell’esistenza fuori di sé, che io definisco come communitas – il carattere costitutivamente esposto dell’esistenza.” Roberto Esposito al termine della sua riflessione, durata almeno un lustro, rinnova il concetto di communitas aprendola al mondo: “(…) se non è più possibile procedere nella direzione del monoteismo immunitario, non resta che una sola strada: quella di pensare dentro il suo rovescio, vale a dire nella forma della communitas. Il mondo – ormai irreversibilmente unito – va non solo pensato, ma anche 'praticato', come unità di differenze, come un sistema in cui differenze e distinzioni non siano punti di resistenza o residui rispetto ai processi globali, ma la loro stessa forma.” La comunità interdetta tra città globale e la conservazione delle identità locali La globalizzazione delle più importanti metropoli mondiali è una fatto ineludibile. Come sostiene la sociologa Saskia Sassen, le città globali coincidenti con i centri finanziari e d’affari internazionali sono tra esse interconnesse e similari e sempre più distinte dalle rispettive aree regionali e nazionali. Caratteristica comune delle città globali è una forte internazionalizzazione distinta in due tipologie: l’afflusso di stranieri di altissima specializzazione attratti dai centri del potere economico ovviamente più integrati degli indigeni e una umanità internazionale in cerca di opportunità che spesso assorbe l’offerta di lavori generici a basso salario. Quest’ultimi difficilmente si integrano con i locali, più facilmente, grazie a rapporti di parentela e amicizia, preferiscono aggregarsi alle comunità del proprio gruppo spesso emarginati in quartieri poveri. All’opposto delle città globali, le altre città, nella loro apparente stabilità rassicurante rischiano l’emarginazione culturale ed economica con una sorta di smaterializzazione e impoverimento fisico a favore di una necessaria e crescente virtualizzazione degli abitanti collegati in rete con il mondo. Nelle città che non riescono a diventare nodi del sistema nervoso mondiale non resta che difendere le risorse con il rischio di una crescente marginalizzazione. Non possiamo nascondere che la patologia sembra aver contagiato le città italiane che continuano a perdere “appeal” non solo dal punto di vista finanziario ed economico, ma anche come poli di attrazione culturale, qualità che da sempre le aveva viste protagoniste mondiali indiscutibili. Nell’immaginario comune, sia politico sia degli stessi abitanti, sono ancora oscure le peculiarità positive e i rischi connessi alla forzata globalizzazione. In questo senso mi pare interessante la riflessione del giovane filosofo Marco Assennato che con una operazione intellettuale fortemente provocatoria smonta le convinzioni più diffuse tra la città della tradizione e quella che definisce Urbano-metropolis: “(…) la Città-polis è democratica e locale, custodisce la storia, determina un immaginario, si fonda sui corpi, ospita la cultura, l’arte, la bellezza, è sede della memoria e del senso. La sua dimensione esatta è il quartiere, il quotidiano, la prossimità (de Certeau 1990). L’Urbano-metropolis è invece tecnocratico e globale, colonizzatore ed espressionista, non ha rispetto per la storia, non ha memoria. È il potere, l’organizzazione, l’ordine del discorso mercificante che vanifica l’arte, la cultura, la bellezza. Non ha ancoraggi locali, non vive di quartieri ma di territori infiniti: non ha corpo ma solo flussi globali. (…)” 6. Sempre secondo Assennato “… il presupposto politico che viene messo in gioco qui è: la città è più forte dell’urbano. Senza la città l’urbano muore, è in-sensato. Ciò che si perde in quest’approccio, è evidentemente la densità politica dell’urbano in sé, la natura contradditoria di Metropolis. E dato che tuttavia in Metropolis si vive, e mai altrove, l’unica possibilità d’azione pensabile è la tutela di spazi interni alla metropoli, ma sottratti alla sua logica mercificante. La città diventa enclave, si rinserra tra i flussi metropolitani e diventa cittadella fortificata, territorio da difendere. Il mio quartiere, il piccolo borgo natio, il bel paesaggio, o peggio la natura.” L’analisi di Assennato prova a distinguere l’urbano metropolitano dalla città tradizionale, ricordandoci la sottile differenza tra pòlis greca e civitas latina: “(…) La pòlis greca è la dimora di génos specifico, radicata etnicamente ed eticamente. La pòlis è proprio il luogo dell’éthos , il luogo che da sede ad una gente, la casa di una stirpe. I polites sono tali in quanto abitanti della pòlis. La città greca dunque deriva la politica della sua etica e dal suo radicamento etnico. L’idea di città rimanda dunque ad un tutto organico e territorializzato. Completamente differente l’idea romana. La civitas latina non ha la determinatezza ontologica del termine greco. Essa deriva da cives, cioè da un insieme di persone che si sono raccolte, si sono accordate nel voler seguire le stesse leggi e hanno dedicato all’Asylum (dell’accoglienza, del riparo) la fondazione della loro città. Il modello romano si diffonde poi in tutto il Mediterraneo, e diventa Impero, rivelando ulteriormente la differenza tra polis greca e urbs romana “(…) Da una parte dunque un modello etnicocentrico-coloniale, e dall’altra l’allusione ad una immagine normativo-imperiale. Da una parte un essenziale radicamento e dall’altra una dis-locazione. La storia delle città, o delle diverse forme di vita urbana fino alla città industriale, all’epopea delle capitali del secolo, non è altro che la continua tensione tra queste due linee concettuali. Ma è proprio sulla città industriale che avviene una rottura.”7 Assennato nella rilettura dell’ambigua dicotomia tra metropoli e città, attraversa il pensiero Moderno del novecento, la dialettica spengleriana tra Kultur e Zivilisations, l’utopia della città lecorbusierana, sino ad arrivare alle provocazioni di Rem Koolhaas, egli stesso felicemente lacerato tra utopia e realismo. “(…) la metropolis di Koolhaas è il luogo dell’Impero. Ma appunto da qui dobbiamo ripartire. Dal riconoscimento che è qui e non altrove, qui in junkspace, in questo post-moderno perverso e corrotto, che possiamo ritrovare la gioia della produzione biopolitica e non certo nel rifugio identitario e localistico, o nei miti della città o dello spazio pubblico. (…) Ad Atene non è ammessa la folla dei barbari.” E poi conclude sposando la tesi “junkspace” di Rem Koolhaas: “(…) Dunque dovremmo forse dire: facciamola finita con il mito essenzialista ed omogeneo della città chiusa, (…)”. E ancora riprendendo testualmente alcune frasi dell’archistar olandese: ”(…) più forte è l’identità (…) più è vincolante, più recalcitra di fronte l’espansione, all’interpretazione, al rinnovamento, alla contraddizione”. Così le città aggrappate al passato cercano il caratteristico “(…) per questa via le città collassano nel non-sense. Parigi è destinata ad essere sempre più parigina.” Come sostiene Koolhaas proprio nei centri storici delle nostre città europee si manifesta l’identità accentratrice aumentando inevitabilmente la distanza tra centro e periferia. Il centro storico si trasforma così in un parco a tema che simula ai fruitori un virtuale viaggio in un immaginario istituzionalizzato. Il modello? Disneyland, il Mall: in un paradossale ribaltamento la storia è negata a favore di un passato sempre presente. L’intervento di Marco Assennato, pur condividendone solo alcune declinazioni, è ricco di stimoli. Provocatorio quanto basta per scardinare le rigide convinzioni dei nostalgici del passato, ma anche per chi, più ragionevol- 6 M. Assennato, Una traccia sulla metropoli. Materiali preparatori per il seminario del 5-8 settembre 2013 a Passignano sul Trasimeno “Sovvertire il presente”. 7 Assennato riprende e interpreta note riflessioni sulla città di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben. mente, intende il divenire storico come un processo complesso nel quale il reale coincide con il passato e su esso non può che essere fondato il progetto del futuro. La communitas globale vs communitas dell’origine Il senso della comunità oggi è un concetto particolarmente ambiguo e condizionato dalla trasformazione delle dimensioni spazio-temporali determinate dalla rete, come sostiene da tempo Zygmunt Bauman8. In questo senso le prossimità e le distanze tra gli individui non dipendono più dallo spazio fisico ma sempre più sono determinate dagli interessi, dai sogni, dalle progettualità dei singoli che si scoprono solo a posteriori comunità. Se negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso era il viaggio, on the road, a rappresentare l’emancipazione degli individui dal luogo natio, oggi è la rete che rappresenta il non luogo nel quale le persone interagiscono e si informano, in una sorta di deriva democratica nella quale le minoranze possono imporre punto di vista parziali. In questo contesto il senso della comunità appare sempre più smembrato, nel senso che è privo di membra e nello stesso tempo suddiviso in gruppi sempre più piccoli e privi di unità. Anche l’idea di comunità locale, identificata da un luogo, un quartiere, una città un territorio non esiste più, se non in contesti periferici, se non all’interno di costruzione a posteriori dell’identità con il rischio dell’artificialità sottolineata da Marco Assennato. In sintesi possiamo dire che da tempo persiste nella contemporaneità la contrapposizione delle ragioni delle comunità globali, i movimenti che bene o male sono capaci di trasformazione, e le ragioni di comunità originarie, intese nell’accezione di Esposito, che però non riescono a trasformarsi in communitas globale in quanto invischiate nella difesa del “proprio recinto” e incapaci di quella trasformazione intrinseca al divenire storico. La stessa contrapposizione tra urbano-metropolitano e città, nell’accezione a noi più familiare, è emblematica. Da una parte abbiamo il luogo della globalizzazione anarchica, la metropoli come “buco nero” che assorbe tutto e permette viaggi spazio-temporali negli altri luoghi significativi del globo. Le comunità globali di Londra, New York, Mumbai, Tokio, Seul, Il Cairo, San Paolo, Istanbul, ecc., interagiscono tra loro e alterano gli equilibri geopolitici pur essendo in fondo parcellizzate, individualiste, “smembrate” e “minoritarie”, ma capaci di determinare gli umori della Doxa mediatica: la democrazia virtuale. Il luogo fisico della metropoli è indifferente, è un punto, variabile, collegato mediaticamente alle reti e ad altri punti dislocati globalmente. In effetti la metropoli è essa stessa priva di corpo e può essere immaginata per punti, non più parte di un disegno urbano unitario, che di volta in volta acquistano significato. Dalla parte opposta abbiamo la città come è stata concepita soprattutto in occidente e che ha avuto il suo massimo successo a cavallo del XIX e XX secolo, dall’identità fortemente costruita e progettata dallo stato-nazione. La città che secondo Assennato si è trasformata negli ultimi decenni in una parodia caricaturale di se stessa, non più in grado di sostenere i “movimenti” della vita, ma solo in grado di accogliere orde di turisti in una sorta di città scenografica, il cui scopo è la celebrazione di un passato che ha ucciso la storia. Un’idea di città che fatica ad accogliere le dinamiche della comunità che non può non essere globale. Sembra infinitamente lontano il tempo nel quale Aldo Rossi scriveva l’”Architettura della città” e che prospettava la soluzione del conflitto tra centro e periferia della città capitalista. Eppure non riesco a immaginare la fine del sogno urbano borghese, dell’ordine urbano magari condito dall’Utopia del Moderno, della città a dimensione umana, non conflittuale, armonica. Si, il sogno che le democrazie evolute del nord Europa sembrano aver realizzato; anche se permane il dubbio che all’interno di esse covino conflitti e solitudini che ogni tanto esplodono nella follia di fatti di cronaca inaspettati ed inquietanti 9. Però non riesco ad immaginare un mondo costituito solo da metropoli, centri di potere, tutte eguali, nelle quali la comunità globale, nuovo cento di potere, è virtuale, solo occasionalmente visibile come “popolo”, mentre l’universo urbano è suddiviso in microcosmi popolati dagli esclusi. Alternative? Per ora non se intravedono. La communitas globale ipotizzata da Roberto Esposito non è ancora matura per indicare nuove strade alternative o meglio complementari alla comunità globale della rete e sempre di 8 Il tempo è diventato una funzione di potenzialità meccaniche, di qualcosa, cioè, che gli uomini poterono inventare, costruire, possedere, usare e controllare, e non più di capacità umane inevitabilmente limitate […]. Allo stesso modo, il tempo è diventato un fattore indipendente dalle inerti e immutabili dimensioni delle masse terrestri o acquatiche. Il tempo venne a differenziarsi dallo spazio perché, diversamente da questo, poté essere cambiato e manipolato. (Z. Bauman 2002, Modernità liquida, Roma – Bari, Editori, Laterza p. 125) Ecco perché la modernità può essere definita come storia del tempo: «la modernità è il tempo nell’epoca in cui il tempo ha una storia». (Z. Bauman, 2002, Modernità liquida, Roma – Bari, Editori Laterza p. 124). Lo spazio, invece, nelle società contemporanee, come già ai tempi della modernità, a causa della globalizzazione subisce una contrazione, ovvero il mondo si “rimpicciolisce”, le distanze vengono ridotte e viene introdotto il concetto di istantaneità come un movimento velocissimo fatto in un tempo brevissimo se non addirittura assente. Questa fase si intreccia con la despazializzazione, ovvero lo spazio diventa sempre più irrilevante, scompaiono le tradizionali forme di classificazione dello spazio, a questa seconda fase, segue la rispazializzazione, alla scomparsa di vecchie forme se ne affermano altre. 9 In relazione alla strage di Oslo del 2011 scrive Adriano Sofri: “ritratto di un paese in cui i poliziotti girano disarmati, che rispetta la natura, che non fa affari con i dittatori ed è stato colpito dal doppio attentato di Oslo e Utoya. Un paese che si è sempre rifiutato di entrare nell’Unione Europea e sulle tombe dei suoi morti scrive solo: “Grazie di tutto” - da “la Repubblica” del 23/7/2011 più la città sembra cedere posizioni rispetto alla metropoli. L’unico spunto di riflessione che sembra corretto proporre: perché sia possibile la costruzione di una “communitas globale” è necessario riprogettare la città senza paura di alterare un’identità ereditata e che deve essere continuamente rinnovata (nel senso etimologico di nuova nascita) per poter lasciare spazio alla vita. Se la communitas rinuncerà alla rinascita probabilmente sarà destinata alla sterilità e ad una definitiva estinzione dell’idea di città occidentale. COSTRUIRE COMUNITA': ARCHITETTURA E FILOSOFIA Leonardo Caffo C’è più verità in una carezza, che in tutte le pagine di questi libri Cento Chiodi, Ermanno Olmi Comunità La cosiddetta “Italian Theory” (Gentili 2011), com’è noto, s’è distinta per una problematizzazione, interna alla biopolitica, del concetto di “comunità”. Giorgio Agamben e Roberto Esposito, tra tutti, hanno forse cercato di dare maggiore struttura teorica a un concetto utilizzato per designare particolari forme di aggregazione tra individui al di là delle società contemporanee oltre le quali, tradizionalmente, sembra impossibile pensare. Nella trilogia Homo Sacer, Agamben, discute su più punti i lineamenti di questo spazio aperto e impensato, che è la “comunità” utilizzando, perlopiù, gli strumenti tipici della decostruzione di derivazione post-derridiana: ragionando in opposizione a ciò che c’è, dunque, possiamo immaginare cosa dovrebbero avere, e non avere, le comunità del futuro. Tipicamente ci sono dei luoghi, forse dovremmo dire delle immagini filosofiche, su cui questa decostruzione si concentra: l’opposizione bios/zoé, il concetto di diritto, il rapporto con l’alterità, la strumentalizzazione (e il controllo) della vita da parte del “potere sovrano”, la funzione teologica dell’aggregazione politica (la pratica monastica, ad esempio, è spesso assunta come case study), ecc. Non entrerò adesso nel dettaglio di una critica, che mi sembra però sacrosanta, che cerca di delineare la vaghezza pratica delle teorie in questione quanto, piuttosto, e come ho già fatto in passato, evidenzierò le implicazioni architettoniche di concetti, come “comunità”, che sembrano avere – prima facie – soltanto la funzione di immagine filosofica per la descrizione di certe teorie. Costruire L’architettura, intesa come esemplificazione del potere politico (Sudjic 2012), non è un’idea né peregrina né, tantomeno, originale. Così anche il concetto di “comunità”, inteso come spazio politico futuro, privo di oppressione e dominio, diventa un’idea regolatrice per l’architettura. Siamo, ovviamente, su un piano di astrazione teorica che non può fungere, allo stato attuale, come idea per un’odierna, e innovativa, epistemologia del progetto. Quello che si può fare, al massimo, e subito, e ridare all’architettura – come suggerisce Maurizio Ferraris (Ferraris 2013) – il suo valore di pratica sociale capace di influenzare la nostra idea di morale, di costruzione di “spazi condivisi” tenendo bene in mente che ogni edifico, come un “testo” (identificazione tipica di matrice derridiana – Derrida 2008), è una traccia che resterà al di là della sopravvivenza di coloro che l’hanno lasciata, come i resti di un incendio dopo il divampare del fuoco (Derrida 2007), e che racconterà una certa idea di mondo sociale. Pensiamo, per un attimo, al recinto che chiamavamo Muro di Berlino, e tutte quelle barriere che sorgono tra Israele e la Cisgiordania, intorno all’Unione Europea o alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Questa idea del “confinare”, espressa da certe esemplificazioni architettoniche, è un lasciar tracce con una chiara matrice politica (non serve Agamben a spiegarlo): l’idea di comunità chiuse in se stesse, violente con l’alterità, votate alla guerra e ai conflitti. Ma oltre ad avere un valore descrittivo, tali confini architettonici, e qui vorrei evidenziare un punto teorico importante (da cui, credo, sarebbe possibile estrarre un argomento vero e proprio), possiedono anche una valenza prescrittiva: crescere in spazi confinati abitua a confinare, a vedere il mondo secondo tassonomie recintate quasi naturalizzate, fino a raggiungere una vera e propria educazione a quella che potremmo definire, per opposizione, “non comunità”. Che fare? Sempre Derrida, com’è noto, fu portatore di una significativa distinzione tra tempo dell’avvenire e tempo futuro. L’avvenire trascende il futuro – e senza un’idea regolativa che spinge, al di là di ciò che possiamo “già aver fatto” i nostri desideri, può non attuarsi mai. Il futuro, invece, è il semplice scorrere percettivo del tempo che abitiamo. Anche in questo senso, credo, è possibile scindere un’architettura dell’avvenire da una del futuro. È ovvio che, negli spazi politici in cui attualmente l’architettura viene attuata, è impossibile non soggiacere a leggi che la comprimono verso espressioni anticomunitarie: Costruire le carceri, i macelli, i recinti, le gabbie … quale che sia il senso estetico che possa guidare la costruzione di spazi come questi, il superamento dell’etica è talmente evidente da impedire che si possa continuare a parlare ancora, realmente, di architettura (Caffo 2013a). Ciò che invece vorrei provare a sostenere è che l’unico modo per anticipare, anche solo funzionalmente, un’architettura in linea all’idea di “comunità” di pensatori come Nancy, Esposito o Agamben, risiede proprio nel tentare di descrivere la costruzione di opposti rispetto ai dispositivi politici e architettonici che abbiamo citato (carceri, gabbie, ecc.). Bestie Prendiamo il caso dei “macelli”. I macelli sono il luogo che, dalle Union Stock Yards di Chicago di fine ‘800, fino ai giorni nostri, disegnano gli spazi di sembramento dei corpi animali fino a rendere, l’oggettualizzazione della vita bestiale dipinta da Cartesio, un fattuale talmente potente da aver fatto si, che anche il capitalismo americano esemplificato da Henry Ford, si ispirò alla scomposizione dei corpi animali per la scomposizione (e composizione) delle automobili. Tanto Agamben (2002), che Esposito (2004), hanno ben evidenziato le connessioni che esistono tra l’idea che le società contemporanee hanno degli animali, e dell’animalità, e la gestione delle vite umane fino alla loro compressione nella biopolitica negativa. Il macello, in un senso ovvio, rappresenta il luogo architettonico in cui questa connessione diventa ovvia: come raccontava Deleuze (1995), descrivendo i quadri di Francis Bacon sulla macellazione, in quei corpi martoriati, aperti ed esposti come oggetti estetici in un museo senza tempo che è il macello, è impossibile non rivedersi e non rivedere tutte le grandi tragedie dell’umano, dalla Shoah al massacro dei Tutsi in Ruanda, operate sotto la trasfigurazione dell’umanità in bestialità. Bestialità che, ancora una volta con Derrida (2009), non può che essere solo attributo secondario di chi non è già stato definito come “bestia” in partenza, ovvero dell’umano. Si presenta dunque ovvia l’opposizione tra l’idea di un’architettura dei macelli e la costruzione di una “comunità” nel senso, libertario e impensato, diagnosticato dai filosofi a cui abbiamo fatto ripensamento. Tuttavia, allo stato attuale, l’architettura può immaginare la costruzione di spazi in cui gli animali, e l’animalità, possano ritrovare – almeno in quella che è la contingenza – una loro liberazione: quella che, tecnicamente, viene chiamata “liberazione animale” (Caffo 2013b). Spazi di decostruzione La progettazione di spazi opposti ai macelli, per esempio luoghi in cui far vivere “liberamente” animali (i “santuari”, ad esempio) che ormai sono al di là degli spazi ecologici previsti e prevedibili, significa lasciar tracce che la “comunità” tanto auspicata dal pensiero filosofico, de facto, comincia ad attuarsi attraverso la sua forma espressiva più evidente e radicale: l’architettura. Il potere disarmante della traccia, come ciò che comincia a emergere in un periodo che le è ovviamente avverso, non è ancora stato valutato nella giusta direzione teorica. Se un mondo possibile senza violenza e dominio, come vogliono Agamben ed Esposito, è davvero possibile allora è anche “tracciabile”, qui e ora, attraverso un lavoro sulla disegnazione degli spazi opposti ai luoghi della negatività – e non attraverso le architetture che hanno caratterizzato il postmoderno (Malcovati, Visconti, Caja, Capozzi, Fusco 2013), ma proprio attraverso quelle “realiste” che prendono coscienza, in accordo con lo spirito filosofico del tempo (De Caro, Ferraris 2013), che solo riconoscendo l’inemendabile dolore del mondo è possibile, al di là del tempo futuro, e verso quello dell’avvenire, cominciare a costruire una “comunità” per le esistenze che verranno. Bibliografia G. Agamben, L’aperto: l’uomo e l’animale, Bollati Boringheri, Torino, 2002. L. Caffo, “Lineamenti dell’archi-etica: postille di ontologia sociale all’architettura”, in Bloom: trimestrale di architettura, n. 17 (Giugno/2013a), pp. 10 - 14. L. Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione: manifesto per un antispecismo debole, Sonda, Casale Monferrato (AL), 2013b. G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 1995. J. Derrida, La Bestia e il Sovrano/(2001- 2003), Jaca Book, Milano, 2009. J. Derrida, Adesso, l’architettura, Libri Scheiwiller, Milano, 2008. J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, SE, Milano, 2007. M. De Caro, M. Ferraris, (a cura di), Bentornata realtà: il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, 2013. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004. M. Ferraris, Lasciar tracce: documentalità e architettura, Mimesis, Milano - Udine, 2013. D. Gentili, Italian Theory. Dall'operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna, 2011. S. Malcovati, F. Visconti, M. Caja, R. Capozzi, G. Fusco, (a cura di), Architettura e realismo. Riflessioni sulla costruzione architettonica della realtà, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2013. D. Sudjic, Architettura e potere: Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, Laterza, Roma - Bari, 2012. LA COMUNITA’ SOTTO LA PELLE Taryn Rubicone Il determinarsi della civiltà occidentale si pone a partire da un discrimine. Se già la definizione di “civiltà occidentale”, alludendo ad un limite geografico, implica un taglio, un crinale, che la separa dal resto del mondo stabilendo possibili valori e sentire comuni, se si vuole uno spirito comunitario, è la stessa comunità d'occidente a riprodursi attraverso separazioni. Tutte le comunità del mediterraneo, culla dell'occidente, non solo quella greca, si fondavano, nella loro conformazione originaria, con il ritagliare uno spazio di vita organizzato (per i greci la polis, naturalmente) al corpo comunitario il cui riconoscimento era a sua volta fondato sul taglio, sul sacrificio, di sangue, dell'altro da sé, l'estraneo identificato all'interno del gruppo sociale, mera carne animale, sostituito poi dall'animale vero offerto sull'altare al dio comune. Anche l'idea aristotelica della "totalità" dell'essere in cui si collegano uomo, pensiero e mondo, sì da implicare una unità composita, si pone, come mostra Levinas, nella differenza dall'"infinito". Tutto in occidente è determinato da una separazione - dall'iperuranio, da Dio, dal paradiso, dalla natura - che riappare nell'uomo stesso come dissociazione tra il corpo animale e lo spirito, l'anima, la ragione, da ricomporre univocamente in una razionalità assoluta nel viaggio della dialettica, un confronto duale appunto tra soggetto ed oggetto. E' quindi in un tale dualismo costitutivo della nostra civiltà che si istituisce anche quello delle definizioni materiali del vivere, la città, la casa, le quali si allestiscono sempre attraverso un interno ed un esterno, un dentro ed un fuori. E' noto come l'interesse tra l'interno della mente e l'esterno delle abitudini sociali, o anche, tra le intime pulsioni sino agli umori ed ai tessuti del corpo con il suo levigato apparire nella superficie esterna della carne, quella epidermica della pelle che spesso, come in "Crash", appare mossa e alterata da presenze estranee, sia al centro della filmografia di Cronenberg. Una relazione, quella tra interno ed esterno all’uomo che è insieme strutturale e metafora dell’ulteriore dualismo tra le relazioni interpersonali mosse da sentimenti, intenzioni, istinti, progetti vissuti in una comunità, piccola o grande, e le convenzioni che regolano quella stessa comunità. Ad illustrare in maniera esemplare tali dualismi è il film di qualche anno fa “A dangerous method” in cui si descriveva sia il conflitto tra le intime pulsioni in Gustav Jung e Sabine Spielrein, in questa persino patologiche, con la loro volontà di ragione e, nella paziente, di guarigione, sia il conflitto tra le diverse relazioni particolari instaurate dai protagonisti, quelle familiari o affettive, con le convenzioni scientifiche che Freud aveva dettato alla piccola comunità della psicoanalisi di cui i due amanti, dottore e paziente, facevano parte. Lo scenario esterno in cui si svolgono i film di Cronenberg, cui alludono quelli stessi svolti quasi del tutto in un interno, come "Spider", è la metropoli, dal momento che è nella metropoli, la grosstadt di fine ottocento nel film su Jung, che viene meno, come è noto sin dalle analisi della sociologia/filosofia tedesca, tra Simmel e Benjamin, ogni interiorità, ogni vincolo rivolto ad allestire possibili “comunità”, fondate su valori condivisi, all’interno della stessa “società” caratterizzata all’opposto dal conflitto, dalla alienazione, dal nulla. Nel 1975, anticipando il tema oggi molto dibattuto del ritorno di un comunitarismo naturalistico, proposto ad esempio dall’architettura nelle versioni del green – social -, co-housing, Cronenberg realizza il film “Shivers”, letteralmente “brividi” (manifestazioni della pelle che promanano da una emozione interna), tradotto in italiano con il titolo “Il demone sotto la pelle”, in cui si narra degli abitanti di un immenso residence, collocato all’esterno di una grande città, Toronto, pubblicizzato dai costruttori quale luogo per una vita “a misura d’uomo”, separata dal caos metropolitano ed estranea alle nevrosi derivanti dalla industrializzazione spinta e dalla tecnologia. L’edificio, che somiglia palesemente ad una “unità di abitazione” di Le Corbusier, cui probabilmente si ispira, comprende ogni genere di comfort, piscina, campi di tennis, negozi, garages, centro medico, asilo, ristorante, parco, tutti i servizi cioè utili a determinare una vita in comunità, chiusa e rassicurante al suo interno, che si apre a ciò che è fuori, in un andirivieni interno/esterno che è già un coito, solo nel lavoro dei condomini che escono verso la metropoli. Il nome del grande immobile condominiale è “Arca di Noè” che, significando la volontà di comprendere ogni genere di umanità, già allude alla eventualità di presenze animali. Nel grande edificio i condomini vivono quindi in una condizione di appagamento che li rende socievoli e cordiali, sino al turbamento per la scoperta dell'omicidio di una ragazza molto giovane, sventrata con addosso la divisa scolastica, da un anziano medico, suo amante, il dottore dal fatidico nome Emil Hobbes, suicida dopo il delitto, il quale compiva ricerche sul cancro mediante interventi sugli organi ammalati, da cui, come l'omonimo filosofo per il sociale, estirpare le cellule marce, con l'ausilio di un parassita, dall'aria e dalla forma vagamente fallica. Alla scoperta dell'omicidiosuicidio segue quella delle relazioni che la ragazza aveva intrattenuto con molti condomini, i quali accusano tutti strani disturbi allo stomaco manifestati al giovane medico del condominio, il cui nome St. Luc evoca l'evangelista, medico a sua volta, il cui simbolo è il toro alato, sintesi di animalità e spiritualità. Questi, con l'aiuto della sua avvenente fidanzata, nel sospetto verso le ricerche svolte dal collega suicida di cui era stato allievo, analizza i suoi documenti, giungendo ad una inquietante rivelazione: il parassita introdotto nel corpo della ragazza uccisa, probabile cavia, non serviva affatto a rigenerare le cellule malsane del cancro, riportare l'ordine nel corpo, quanto a sollecitare un irrefrenabile appetito sessuale, incontenibile, animalesco, tale da annullare ogni coscienza, ogni ragione. Essendo diversi i condomini già portatori del parassita, dal momento che questo si insinua nel corpo attraverso le umidità del bacio, il contatto sessuale o il vomito dei contagiati, progressivamente l'intera comunità, persino vecchi e bambini, ne è infetta, dedicandosi ad una delirante attività erotica in cui al sesso, esasperato dall'incontenibile desiderio, si sovrappone la violenza, una incontrollabile, si direbbe autonoma, movimentazione del corpo ed eiaculazione dei suoi umori, in una furia bestiale, che sopravviene al contagio di tutti i condomini, compreso il giovante St. Luc con la sua ragazza, i quali, in un delirio collettivo, si dirigono, esauriti i loro rapporti, come zombie, verso la metropoli cui estendere il morbo. Come è evidente sono presenti nel film tutti i temi cari a Cronenberg: la critica alla società, alla tecnica condotta nelle sperimentazioni mediche, la trasformazione dell'uomo con la mutazione dello stesso corpo, la pulsione di morte incrociata con la sessualità, in un mondo cui è tolta ogni meta, ogni redenzione finale, ogni raggiungimento del paradiso, ogni realizzarsi dell'assoluto, della ragione, essendo anzi proprio la ragione, quella delle linee e dell'ordine razionale del residence, ad alimentare la più folle bestialità. Similmente a quanto accadrà in "Crash", dove è l'innesto artificiale, tecnologico, nel corpo, onde sopperire a menomazioni prodotte da cruenti incidenti stradali, a sollecitare, nella memoria della morte sfuggita, una morbosa e meccanica sessualità che rende i protagonisti morti automi erotici, in "Shivers" è la razionalità costruttiva, l'ordine funzionale dell'edificio, nel ritorno ad un comunitarismo originario sia pure tutto artificiale, "arca di Noè" sopravvissuta ai liquidi ed incontrollati flussi dei valori della metropoli, a porsi quale incubatore di un recupero della natura che, sintetizzata nell'inquietante parassita, genera una sessualità priva di appagamento, essa stessa mortale. Il sesso, l'eros, ci mostra in definitiva Cronenberg, anticipando l'odierno dilagare della pornografia e della prostituzione, nel nostro mondo razionalizzato, tecnologizzato, diversamente da quanto ritenevano i teorici degli anni sessanta, Marcuse, Laing, non è affatto il luogo di una liberazione, quanto esso stesso medium di un ulteriore servaggio, di una ulteriore costrizione che conduce direttamente ad una morte vivente. Una visione pessimistica che incrocia i medesimi temi circa il postumano affrontati da Foucault, Deleuze, Agamben, Esposito, nella elisione però di ogni possibile salvezza. Il film, non a caso, nelle recensioni dell'epoca, per questo senso insalvifico più che per le scene, veniva assimilato, date anche le macabre atmosfere, le immagini cruenti e le suggestioni thrilling, al filone horror e, considerando che la sessualità illustrata lungo il racconto giunge sino al cannibalismo, paragonato a "La notte dei morti viventi" (Night of the Living Dead, tradotto in Zombie) di Romero, uscito nelle sale sette anni prima ad evocare lo stesso tema della fine dell'uomo, più che nel suo gaio aprirsi verso la propria, naturale, animalità, nel suo arrendersi ad una morte inoltrata nella stessa vita, essendo, in entrambi i film, minaccia per l'umanità non un fattore esterno incontrollabile, sconosciuto, quanto l'uomo stesso che cova in sé il male. Cronenberg, naturalmente, rende i temi affrontati non solo nella trama del racconto, ma attraverso lo stesso mezzo filmico. Se il gusto ironico di alcune scene, come quella delle innocue vecchiette contagiate dal vomito di un condomino mentre passeggiano serene con l'ombrellino nel parco, serve ad interrompere il filo avvincente della narrazione per introdurre un distacco critico, se quello persino porno di altre scene annulla la sessualità che rappresenta nel bodyhorror, o anche in una visione kitsch-estetizzante, all'inverso i movimenti di macchina in continui incroci tra le scale dei campi di ripresa (si direbbe nevrotici amplessi tra l'obiettivo e le cose), l'uso di un colore tenue-freddo pur nei forti chiaroscuri rivolti ad accentuare il dentro e il fuori, degli ambienti, con le porte chiuse che si rompono, si aprono, si spalancano, e dei corpi cui si dilatano persino i pori all'immissione del parassita, con le bocche dischiuse in terrorizzati sbadigli, tendono a rompere il diaframma dello schermo, esso pure una cute che separa la vita dalla finzione. L'omaggio a Romero si dilunga quindi in modalità alla Hitchcock, intersecate da inquietanti inquadrature alla Welles, sebbene rese, nei pochi campi lunghi, ad un'ansia accelerata in cui si insinuano i movimenti lenti, se non i fermo-immagine, dei primissimi piani. Se Hitchcock entrava egli stesso nel film facendosi attore, Cronenberg manifesta la sua presenza beffarda lungo modalità da reportage alternate da divertite riprese sulla inconsapevolezza dei protagonisti circa il pericolo o sul loro impossibile sottrarsi alla macchina erotica (si veda la scena dei due vecchietti nel corridoio che, troppo lenti per l'età, non possono sfuggire al proprio destino), che in fine rivelano l'occhio di chi inquadra l'azione. E' come se il regista stesso, posta la pupilla sulla/nella pelli-cola a fissare le scene si porti sull'orlo dello schermo ad ammiccare agli spettatori, egli stesso parassita che attua il gioco erotico-mortale del cinema il quale, rappresentando la vita, trasformando la rappresentazione a sua volta in emozioni e sentimenti propri al vivere, tanto più nell'"osceno" del sesso, come vuole Deleuze, di fatto non produce che una vita morta, solo interna ad una chiusa sala cinematografica L'horror, la stessa suspense, finiscono allora con il cedere ad una visione più fredda che indaga le immagini, allo stesso modo in cui il sesso rappresentato cede al bisturi che indaga le viscere, quasi ad invitare, come accade a tutti i film-horror, ad uscire dalla sala, al modo del parassita cui uno dei protagonisti parla attraverso la propria pelle per indurlo ad uscire. Vale a dire che tutta la dinamica cinematografica del film sembra fondarsi sulla rappresentata sessualità parossistica che si arresta nella immobilità orgasmatica-cadaverica, a mostrare il gioco erotico del dentro-fuori della macchina da presa che introietta il reale estrovertendolo, vomitandolo, attraverso la morta celluloide (nel 1975 si utilizzava ancora la pellicola oggi esalata nella immaterialità dei file informatizzati) della proiezione filmica. Oltre il film di Cronenberg si potrebbero citare molti altri film che hanno per protagonisti edifici condominiali con i propri abitanti, tutti intesi a mostrare come la più rassicurante comunità celi di fatto il più drammatico orrore, come la più serena vita si muova sull'orlo della morte. Si pensi a "La comunidad" ("Intrigo all'ultimo piano") di Iglesias, per non parlare de "L'inquilino del terzo piano" ("Le locataire") di Polanski. Me nel "Demone sotto la pelle", a differenza che negli altri film del genere, critici delle comunità separate all'interno della società, prodotte dalla stessa società, o rivolti all'introspezione psicologica, vi sono forti anticipazioni della nostra attualità e forse del nostro futuro. Sia nel racconto riguardante il condominio, che nei modi di fare cinema, i quali si pongono in continuità con il tema rappresentato, emerge infatti la diffidenza verso ogni tipo di comunità. Se Bauman ha messo in luce come l'attuale vocazione a rifugiarsi nel comunitario per sfuggire i pericoli derivanti dalla promiscuità con l'estraneo offerta dalla globalizzazione, non fa che produrre ulteriore isolamento, forse, sembra dirci Cronenberg, è persino l'auspicato intrecciarsi rizomatico del post-uomo con zoé, il vivente, auspicato da Deleuze (Cronenberg, di lingua anche francese, doveva aver letto l'Antiedipo pubblicato nel 1972, anche se non ancora Rhizome, pure scritto con Guattari, del 1976) dove, come nel suo film, alla luce, o all'ombra, della sessualità (in fondo è il sesso che l'uomo condivide con gli animali, e, persino, con quello più lieve delle piante, con i quali si intrecciava prima del diluvio producendo esseri diversi) non si determinano più distinzioni tra gli abitanti del condominio-mondo, a non donare alcuna "notte salva" (dalla lettura de "L'aperto" tra Heidegger e Benjamin svolta da Giorgio Agamben) essendo l'uomo fatalmente solo, capace di riunire solamente solitudine in solitudini più ampie. La possibilità dell'incontro, del comunitario, che, con Esposito/Agamben, si determina nel riconoscimento da parte dell'uomo della improprietà del suo proprio, ovvero nella condivisione dell'esser rivolto al dono (cum-munus, spiega Esposito) si offre allora, ancora con molti forse, al dentro/fuori in cui si apre (perdendosi) il soggetto nell'intrecciarsi all'oggetto, all'altro, sebbene questa stessa modalità, tradotta in dispositivi tecnici, come mostrano le sperimentazioni bio-tecno-antropologiche, in tanti campi, da quello medico all'architettura, possano comunque generare mostri. RICOMPORRE LA COMUNITÀ ATTRAVERSO L'UTOPIA Domenico Maria Caprioli Comunità e utopia è il titolo di un libro del 1970 di Claudio Stroppa nel quale si analizzavano alcuni problemi sociali, attraverso lo studio del kibbutz israeliano che, in quel momento storico, affrontava una fase critica. Partendo dal presupposto che un'esistenza autenticamente comunitaria necessiti di un centro, di un focus aggregatore che argini le spinte centrifughe individuali, lo studioso si domandò se l'idea di una rifondazione comunitaria costituisse un'utopia moderna o, giocando con le accezioni della parola, non necessitasse, per compiersi, di un'utopia, vale a dire di un riferimento trascendentale sufficientemente forte da influenzare "l'ordine storico sociale esistente" (era il 1970, è bene rammentarlo). Tralasciando le questioni di merito e l'ovvia obsolescenza delle categorie adottate, è interessante rilevare come Stroppa riproponesse un binomio che, per pratica invalsa, era divenuto quasi un'endiadi, comunità e utopia, appunto, come se le due idee fossero non solo inseparabili, ma quasi sovrapponibili: a prescindere dalle intenzioni dell'autore, infatti, da gran parte della pubblicistica si raccoglie l'idea di una sostanziale identità – o quanto meno di una contiguità – fra comunità e utopia. Si cercherà qui di chiarire per quali ragioni i due concetti non siano assimilabili e come, restituita nitidezza semantica alle due parole, essi possano però integrarsi e completarsi vicendevolmente. In particolare si sottolineerà come il luogo costituisca un nodo fondamentale di entrambi i concetti e come il pensiero utopico possa ricomporre il concetto di luogo e, attraverso di esso, quello di comunità; si suggerirà, inoltre, come l'applicazione del pensiero utopico al concetto di comunità possa generare un modello virtuoso e contribuire alla risoluzione dell'aporia locale-globale che costituisce una delle chiavi di lettura della contemporaneità. A questo scopo sarà opportuno cominciare chiarendo il significato dell'utopia, le sue implicazioni nel pensiero e le forme che essa ha assunto, nel tentativo di riconoscerne le radici profonde, la domanda fondamentale cui essa risponde. I caratteri dell'utopia: l'utopia come ricomposizione Nessuno sano di mente, come ammonisce Jean Servier, indulgerebbe a definire un profilo dell'utopista tale da includere il Gran Cancelliere Tommaso Moro, il fondatore di Arts&Crafts William Morris e un filosofo ateniese, ma è indubbio che un filo rosso unisca le loro fantasie, come emerge certamente dai molti topoi del genere, alcuni dei quali dovranno essere qui citati e, almeno sommariamente, analizzati. Ma il colore di fondo di queste suggestioni è forse il viaggio quindi, per estensione, il sogno, e la rinascita. Molte utopie sono scoperte a seguito di un viaggio, spesso di un naufragio, a causa del quale, come in una regressione thalassale1, l'utopista rinasce al sogno. Secondo Servier è il sogno, o meglio ciò di cui è fatto il sogno, per parafrasare il Bardo, che è materia dell'utopia e della poesia, e quindi il sentimento di un altrove che ingenera quello straniamento grottesco che Conan Doyle definì approssimazione al tragico 2. L'origine onirica dell'utopia si sottrae allo storicisimo di Mannheim3, che volle riconoscere in ogni formulazione utopistica un prodotto della società che l'aveva generata, restituendo l'utopista al dramma primigenio del nostos, del ritorno. Come scrive ancora Servier, "nessuno potrà mai dirci se l'inventore dell'arte del navigare, galleggiando sul tronco di un albero in balia delle onde, fosse spinto dalla volontà di scoprire terre nuove o dall'inconscio desiderio di essere cullato da un mare tiepido e di ritrovare la pace del liquido amniotico e i sogni prenatali" 4, ma non c'è dubbio che il tema del viaggio e del ritorno come palingenesi, costituisca il sogno dell'Occidente: in questo senso Servier interpreta l'utopia come il parto del sentimento di abbandono, il Geworfenheit heideggeriano, da parte di una classe sociale5. Che l'utopia costituisca, come la nave con la prora a occidente dei miti etruschi, l'arca per il ritorno all'Eden, emerge anche dai parerga della lettera di Budé a Lupset6, nella quale si elencano i topoi dell'utopia aurea, quella, appunto, dell'età di Crono, quando gli dei erano in armonia con gli uomini e gli uomini fra di loro, la terra era frugifera senza che dovesse dissodarla il duro lavoro, e uomini e animali parlavano la stessa lingua: fecondità e sogno irenico – direbbe Mattelart – si sovrappongono. E, del resto, si è osservato come l'utopia parli anche il linguaggio del mito, e ricorra a Efesto e Atena signori dell'Attica, e a Crono, patrono dell'età dell'oro e del tempo, appunto, per ricondurre il suo sviluppo alle spire dell'eterno ritorno. L'utopia, però, è anche un esercizio di oggettività, elemento che, a giudizio di Ruyer, la rende inconciliabile con il mito, anzi, aggiunge Polak, dove prospera il mito non può attecchire il pensiero utopico7. Il nodo è che, come è difficile ricostruire il profilo dell'utopista, è altresì 1 S. Ferenczi, Thalassa, Raffaello Cortina, Milano, 1993, p. 128. J. Servier, Storia dell'Utopia. Il sogno dell'Occidente da Platone ad Aldous Huxley, Edizioni Mediterranee, Roma, 2002, p. 227. 3 J. Servier, ibidem, p. 227, si riferisce a Kerl Mannheim, Ideologia e utopia (1929) trad. It. Il Mulino, Bologna 1999, 4 Ibidem, p. 230. 5 Ibidem, p. 26. 6 In A. Colombo, L'Utopia. Rifondazione di un'idea e di una storia, Dedalo, Bari, 1997, p. 73. 7 È impossibile esaurire qui il problema del rapporto dell'utopia con il mito, e per la vastità dell'argomento e perché sarebbe necessario uno 2 complesso identificare i connotati dell'utopia. In una intelligente Storia dell'utopia, Massimo Baldini riconosce una quindicina di topoi fondamentali, aggiungendo che potrebbero esservene molti altri; scorrendo l'elenco risulta evidente che non tutti gli elementi sono riscontrabili in ogni utopia, ma che ciascuna elaborazione ne contiene qualcuno e non altri, il che, di fatto, come riconosce lo stesso Baldini, rende tale elenco poco più che orientativo 8. Una sistematizzazione più generale è quella proposta da Arrigo Colombo che assegna i seguenti caratteri salienti all'utopia letteraria: distacco dalla storia, nesso sistematico, salto inventivo, globalità. Colombo, quindi, riprende il tema dell'oucronia, o, per usare le parole di Ricoeur su Mannheim, della "non congruenza, una sorta di deviazione o divaricazione. È difficile dire rispetto a che cosa la non congruenza si costituisca, potremmo dire che è una deviazione dallo stato dell'azione e della realtà all'interno della quale essa avviene"9. Mannheim ritiene che sia l'ideologia che l'utopia, oggetti del suo saggio più celebre, consumino la stessa divaricazione, con la differenza che nel primo caso tale processo ha origine immanente, nel secondo trascendente. Gli altri tre parametri riconosciuti da Colombo possono essere facilmente ravvisati nelle elaborazioni utopiche, effettivamente caratterizzate da un approccio sistematico – più o meno organico a seconda delle intenzioni dell'autore e delle sue qualità – da uno scarto inventivo che metaforizza problemi e soluzioni, e da una vocazione globale in una idiosincrasia nei confronti dell'alterità. Se è difficile identificare dei caratteri generali, non è impossibile provare a operare una sistematizzazione per tipologie e funzioni dei numerosi esempi di elaborazioni utopiche. Molti autori concordano su una bipartizione: Arrigo Colombo ritiene che esistano due matrici del pensiero utopico, una platonica e una stoico/cristiana, alle quali sarebbero ascrivibili le utopie rinascimentali, a cominciare da quella di Moro, che liberano la capacità progettuale dell'elaborazione astratta di un mondo ideale e che preludono a quelle che lo stesso autore chiama utopie tecnologiche 10. Più articolata la distinzione operata da Mumford, il quale introduce il tema dell'evasione dalla realtà e ne forgia una categoria concettuale, discriminado due differenti reazioni. Nel suo celebre saggio sull'utopia, egli riconosceva un'istanza che definiva "del rifugio", nella quale gli a-luoghi (dovremo indicarli così, perché la categoria di non-luogo è evidentemente già compromessa) costituiscono l'ultimo approdo ideale di spiriti più o meno delusi dal contingente. Il tema della fuga, drammaticamente evidente nell'Utopia di Moro, ad esempio, si ricollega a quello della caduta individuato da Servier, e alla disgrazia di un tempo storico dal quale fuggire 11. L'alternativa alle utopie del rifugio, secondo Mumford, è costituita da quelle costruzioni ideali – che definisce "utopie della ricostruzione" – nelle quali i fatti vengono riorganizzati in una nuova visione della realtà12. La ripartizione operata dall'urbanista-socioogo americano è largamente condivisibile, qui, però, si è preferito adottare un lessico leggermente differente, ricorrendo alla definizione di utopie negative per il primo gruppo e di utopie proiettive per il secondo. In sintesi, le utopie negative funzionano con un meccanismo di contrapposizione, fuggendo l'utopista da una condizione che disapprova o che lo respinge: a una società giudicata intollerante, ad esempio, si contrappone un modello fondato sulla tolleranza. Le utopie proiettive, al contrario, adottano un principio di proiezione e radicalizzazione, intercettando i grandi trend epocali e idealizzando società nelle quali essi costituiscono i fondamenti dell'organizzazione sociale. Rispetto al lessico di Mumford, la definizione di "proiettive" appare più adeguata a quelle elaborazioni, soprattutto del XVII, XVIII e XIX secolo, nelle quali i pensatori non ricusavano gli elementi critici della modernità, ritenendo, anzi, che essi avrebbero trovato soluzione proprio quando si fossero compiutamente evoluti e radicalizzati. Da questa ripartizione ne scaturisce una seconda, relativa alle forme che le specifiche elaborazioni utopiche hanno assunto. È possibile catalogare tre tipologie differenti: le utopie dei mezzi, dell'organizzazione e dei valori. Le prime, identificabili soprattutto con le grandi idealizzazioni borghesi del Settecento, mostrano una spiccata propensione a mitizzare il pensiero scientifico e il progresso: il fulcro di tali società ideali è costituito dalla tecnologia e, spesso, da una specifica innovazione studio propedeutico su molti autori che, probabilmente, ricorrono a un lessico mitologico senza voler consapevolmente proporre un'analogia fra il mito e il pensiero utopico. Studiosi come Duveau individuano nell'utopia una riformulazione dell'immaginario mitico, una sorta di transizione al pensiero filosofico, se interpretiamo bene, pensiero raccolto e riformulato da Croce e Northrop che sottolineano l'identità di approccio nella soluzione dei problemi o, meglio, nell'aggiramento dei problemi: l'utopia, valuta Northrop, costituisce un insieme di forme di idee sociali, non un sistema di analisi di fatti sociali. Raymond Ruyer, dal canto suo, assume come criterio discriminante oggettività e soggettività: la soggettività, peculiare del mito, farebbe luogo all'oggettività dell'utopia che, nella visione di Ruyer, immette il variabile e l'arbitriario e, quindi, il divenire storico. Polak, radicalizzando le osservazioni di Duveau e ribaltandone il punto di vista, individua nel pensiero utopico un possente moto di de-mitologizzazione, tanto che l'apparire della coscienza utopica rappresenta, a suo avviso, la rivoluzione copernicana nell'immagine del futuro. Incline a separare mito e utopia anche Lucio Bertelli che, però, perviene a tale conclusione sulla scorta di categorie differenti, di carattere storico: Bertelli riconosce che l'utopia scaturisce dall'esperienza politica (diretta o indiretta, bisognerebbe chiosare), della quale – secondo l'autore – essa è un frutto tardivo, e come tale non può essere sussunta nell'ambito del mito. 8 M. Baldini, La storia delle Utopie, Armando Editore, Roma, 1994, pp. 19-25. 9 P. Ricoeur, Conferenze su ideologia e utopia, Jaca Book, Milano, 1994, p. 299. 10 A. Colombo, op.cit.. pp. 277-285. 11 R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo, Ravenna, 1992, p. 26. 12 L. Mumford, Storia dell'Utopia, Donzelli, Roma, 2008, p. 15. tecnologica. I prodromi di questo orientamento sono evidenti già nelle opere di Campanella e Bacone13, nelle quali si rinviene una profonda fede nella scienza e nelle invenzioni meccaniche, costituendosi, per entrambi, la tecnologia, come teofania di un pensiero scientifico ordinatore e infallibile, con collegi di scienziati, ideati dal filosofo inglese, deputati persino a stabilire l'alimentazione ideale dei cittadini della Nuova Atlantide, in cui l'osservatore moderno ravviserà la medesima ricerca di conforto scientifico riposta oggi negli organi collegiali di tecnici 14. Gli scienziati della Casa di Salomone, e il loro ideatore, estraggono le società umane da quella rete di relazioni, rimandi teosofici e influenze che avevano costituito fino ad allora l'impasto, oltre che il lievito, delle utopie, e le rivolgono decisamente verso il futuro, fondando quelle che abbiamo prima indicato come utopie proeittive e ponendo – direbbe Servier – la Terra promessa nella tecnologia. Lo scorcio fra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell'Ottocento conosce la massima fioritura di questo genere e l'affermarsi definitivo, ma già ben oltre che in nuce nell'opera di Bacone, del mezzo come fine 15. Ciò non impedisce, però, che anche le utopie dei mezzi abbiano un'intenzionalità, se la maggior parte di esse utilizza la tecnologia come strumento per un'organizzazione scientifica al fine di ottimizzare i processi produttivi - come ipotizzato da Chevalier, allievo di Saint Simon16 e convertitosi poi all'utopia delle macchine e, soprattutto, alla suggestione della locomotiva e della strada ferrata17. E questo è certamente anche il caso di Condorcet, alfiere dello strumento matematico nell'organizzazione sociale e nell'elaborazione delle forme istituzionali e culturali 18, o anche, lungo questa china delle distopie19 di Bellamy, che preconizza un mondo nel quale l'esercito militare è stato sostituito dall'esercito industriale, come i camini londinesi che hanno lasciato il posto all'elettricità, e nei negozi non si incontrano persone ma macchine erogatrici. Anche Freeland, curioso ibrido fra socialismo e libera impresa, votata all'ottimizzazione della produzione è una vera e propria utopia delle macchine, come scrive Mumford. Più interessante e sorprendente, invece, il caso di Alexandre-Théophile Vandermonde, che nel 1795 propone l'uso del telegrafo ottico per realizzare una forma moderna di democrazia diretta. La proposta del professore di Economia politica affrontava l'annoso – antico almeno quanto l'opera di Platone – problema delle dimensioni di una comunità, poiché – ammoniva Rousseau – non esiste democrazia possibile al di là della portata della voce. Una rete capillare di tale strumento, analoga a quella installata poco prima fra Parigi e Lille, avrebbe consentito un collegamento diretto e continuo con tutto il paese, promuovendo decisioni collegiali e condivise: non sfuggirà certo la prossimità fra le tesi di Vandermonde e il dibattito contemporaneo su Internet come strumento di democrazia partecipativa. Le proposte dello studioso suscitarono un acceso dibattito ma, come nelle migliori distopie, alla fine la soluzione la trovarono i militari, avocando l'uso della linea telegrafica a esclusivi scopi bellici. Al di là dei molti nodi irrisolti del progetto, la proposta di Vandermonde scopre quel filo rosso che percorre il pensiero utopico e che risponde alla sua vocazione a integrare e ricomporre 20. Nel caso delle utopie dell'organizzazione l'elemento innovativo – e quindi l'aspetto maggiormente evidenziato dall'autore – è rappresentato da un peculiare modello organizzativo, giudicato ideale. Utopia dell'organizzazione, per quanto pauperista, è quella di Morris, o la Victoria di James Buckingham. Pragmatico uomo di mondo, Buckingham non ha alcuna intenzione di librarsi oltre le vette degli utopisti della sua epoca, ma ricorre alla sua 13 L. Mumford, op.cit., p. 79. E del resto l'utopia baconiana prevede ed esalta sotterfugi di ogni genere se finalizzati al conseguimento di innovazioni tecnologiche: accanto ai mercanti di luce, incaricati di viaggiare all'estero e di acquistare materiali e tecnologie, i venatores danno letteralmente la caccia ai più abili artigiani e inventori e ricorrono a ogni mezzo per carpirne i segreti. 15 L. Mumford, op.cit. pp. 105-106. 16 Il progetto di Claude Henri de Saint Simon si inserisce in quel filone, avviato dall'abbé Pierre, della ricomposizione dell'unità europea, o meglio, per "riunire i popoli dell'Europa in un solo corpo politico salvaguardando l'indipendenza nazionale di ciascuno". Il progetto politico di Saint Simon prevede delle scienze dell'osservazione nella politica, il che comporterebbe, in primo luogo, il riconoscimento della crisi come elemento di progresso: il nostro, infatti, contesta ad altri, soprattutto a Condorcet, l'idea che il progresso proceda per accumulazione di innovazioni, misconoscendo il valore propulsivo delle crisi nel processo storico. Il pensiero sainsimoniano contiene numerosi caratteri di originalità, non solo e non tanto per il progetto generale quanto, ad esempio, per la rilevanza attribuita all'opinione pubblica e all'informazione. Lo studio delle strutture della Chiesa cattolica, finalizzato alla ricerca di un insegnamento teorico, e le lettere sulla religione di Newton mostrano l'interesse del filosofo per l'organizzazione del potere spirituale e temporale: Durkheim, che gli riconobbe di avere inventato la sociologia contemporanea, evidenziò come nella sua idea di un divenire comprensibile alla luce delle scienze dell'osservazione, risieda un programma articolato di scienze umane. 17 A. Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, Einaudi, Torino, 2003, pp.134-135. 18 Ibidem, p. 86. 19 Le distopie, nota Colombo, possono essere intenzionali o involontarie. Il filosofo, ad esempio, riconosce caratteri distopici nell'opera platonica come in quella di Moro, evidentemente non concepite come distopie (almeno per quanto riguarda l'opera di Moro, su Platone cfr n. 24); sono poi celebri le distopie volontarie, dai Viaggi di Gulliver di Swift, a Erewhom di Butler, al tanto attuale 1984 di Orwell. L'intento della distopia secondo Colombo è perlopiù etico, di monito, ma esso risulta in definitiva distorsivo: la distopia produce una condizione distopica. È importante, ammonisce Colombo, rammentare che la differenza fra utopia e distopia non è formale ma sostanziale, altrimenti si corre il rischio di confondere le due parole: la distopia non è un'utopia rovesciata, come si potrebbe ritenere se ci si limitasse a valutarla come genere letterario, ma è un luogo dell'ingiustizia, a fronte dell'utopia, luogo della giustizia. Il crollo del comunismo sovietico, conclude il filosofo, è pertanto un crollo della distopia, non dell'utopia. Cfr. A. Colombo, op.cit. pp. 18-22. 20 A. Mattelart, op.cit., pp. 89-93. 14 esperienza di viaggiatore ed uomo d'affari per interpretare la realtà storica, trarne delle conclusioni ed elaborare una soluzione alle nuove questioni sociali. La conclusione alla quale perviene è che i problemi della società derivino da un deficit organizzativo, in particolare dalla “parcellizzazione“ di molte buone intenzioni in altrettanti enti, istituti, strutture. In questo modo le istanze positive risultano depotenziate e fiaccate per cui la soluzione risiede nel sussumere tutte le energie positive della società in un nucleo centralizzato, ben organizzato e razionalmente determinato. La città di Buckingham è una società a responsabilità limitata, nella quale la cittadinanza dipende dal possesso di azioni, che persegue l'innovazione tecnologica in tutti gli ambiti significativi. Le dimensioni limitate, l'attenzione all'autosufficienza – con una superficie agricola quindici volte superiore a quella urbana – e abitazioni proporzionate alle dimensioni della famiglia, mostrano l'impronta evidente dei problemi connessi all'industrializzazione e già all'epoca esplosi con prepotente cogenza. Buckingham non giudica sbagliati i valori della sua società, ma considera inadeguate le strutture organizzative; e non si affida a mirabilia tecnologiche o a una rifondazione umana della compagine cittadina, ma a una accorta e scientifica pianificazione, frutto di un'osservazione smaliziata della realtà: per queste ragioni l'utopia di Buckingham, una perspicua utopia dell'organizzazione, ha sempre suscitato tiepido interesse e scarsa fascinazione negli studiosi21. Nell'ultima categoria, invece, sono i valori che informano la struttura sociale a divenire preminenti e ad aggiudicarsi il posto di maggior rilievo nella descrizione dell'utopista. Quella di Platone è la tipica utopia dei valori, con la giustizia come nume tutelare e culmine di tutte le altre virtù, sopra la saggezza, il valore e la temperanza peculiari dei tre ordini metallici. E in effetti, avverte il filosofo, chi governa non deve occuparsi di economia ma dello spirito, poiché il suo compito è realizzare la libertà e la giustizia, appunto. È evidente, pertanto, che il topos dell'educazione, o meglio, dell'onnipotenza della pedagogia individuato da Baldini come ricorrente in tutte le utopie, è vieppiù significativo nelle utopie dei valori, ove è propedeutico alla formazione di cittadini muniti del debito sistema valoriale. In effetti, come scrive Jowett, la Repubblica di Platone è soprattutto un trattato sull'educazione22. Nella lettura di Trousson la pedagogia sembra avere una funzione coercitiva, indirizzando i fanciulli ad assumere il proprio posto nella collettività23, sebbene sia più corretto interpretarla alla luce delle acquisizioni del pensiero neoplatonico, come una sorta di disvelamento delle inclinazioni naturali del cittadino per la sua immissione nel contesto comunitario. Questi tre modellli possono contemperarsi e ciò avviene spesso nelle utopie socialiste dell'Ottocento, quali quella del Fourier e del falansterio, esempio di organizzazione sociale che risponde a un preciso sistema valoriale. Riassumendo, sebbene sia impossibile identificare significative direttrici che accomunino la vasta produzione di questo genere filosofico e letterario, si possono ordinare le utopie per tipologie. Una prima ripartizione tiene conto della relazione fra l'utopia e l'utopista, distinguendo fra quelle elaborazioni che mostrano una relazione negativa con la realtà storica, di contrapposizione, definite appunto "negative", e quelle che, invece, proiettano i trend epocali e, talvolta, li radicalizzano, qui indicate come "utopie proiettive". Una discriminazione successiva riguarda, invece, gli elementi cardinali delle idealizzazioni, identificandone tre: i mezzi, l'organizzazione e i valori. In altre parole, ciascuna utopia privilegerà uno di questi sistemi elevandolo a cardine della costruzione ideale: pur concedendo la possibilità che tali istanze si contemperino in progetti particolarmente complessi o generici o confusi, l'utopista riserva sempre maggiore attenzione a una di esse, come emerge dalla minuzia con la quale ne descrive i dettagli e dalle pagine che ad essa riserva. Rimangono da chiarire le funzioni svolte dall'utopia nel pensiero e la domanda profonda cui le sue vertiginose astrazioni rispondono. L'utopia come genere letterario, e come addentellato per riflessioni filosofiche, politiche, sociologiche ed economiche, è presente in tutte le epoche e precede di molto l'opera eponima di Tommaso Moro, poiché essa assolve efficacemente alcune funzioni fondamentali nell'ambito del pensiero, la più rilevante delle quali era già stata intuita da Platone24. L'utopia platonica rappresentata ne La Repubblica costituisce il modello ideale dell'organizzazione sociale, l'idealtipo irraggiungibile in prossimità del quale è necessario ricondurre la società reale che, come una nave mal progettata, fatica a tenere il mare e deve tornare al cantiere affinché se ne 21 L. Mumford, op.cit., pp. 90-93. Ibidem, pp. 39. 23 R. Trousson, op.cit., p. 23. 24 Platone viene indicato spesso come l'iniziatore dell'utopia come genere letterario. Arrigo Colombo invita a retrodatare l'abbrivio del pensiero utopico a Ippodamo di Mileto, Falea di Calcedonia e Aristofane: nei quali ravvisa già i caratteri fondamentali dell'utopia, a cominciare da quella singolare relazione con la storia che vede i loro progetti astrarsi dal divenire storico avendo, però, una genesi chiaramente – e spesso drammaticamente – storica. Cfr. A. Colombo, op.cit., pp. 280-281. Quanto all'opera platonica, gli studiosi sono tutt'altro che concordi nel definirla utopia, al punto che Lucio Bertelli ha scritto che "il maggior torto che si possa fare alla Repubblica di Platone è quello di immaginarla come un'utopia nel senso di surrogato immaginario della realtà" (L. Bertelli, L'utopia greca, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali, Utet, Torino, 1984, p. 544); secondo altri studiosi, essa costituirebbe addirittura una distopia intenzionale, concepita in reazione al drammatico esito del regime oligarchico filo-spartano ad Atene, dopo la guerra del Peloponneso, regime con il quale il filosofo fu personalmente compromesso, essendo nipote di Crizia. 22 rivedano gli stessi principi costruttivi: nella piccola comunità platonica – un'utopia di vallata25, come l'avrebbe definita Mumford – si compendiano tutti i principi fondamentali del genere a cominciare, appunto, dall'utopia come modello, come riferimento ideale, monito, ma anche serbatoio di possibilità. L'utopia come modello riveste un importante valore filosofico, in quanto, da un lato, scoraggia dal considerare il mondo storico come l'unico possibile, dall'altro, non avendo luogo, dimostra che non è necessario inseguire un altrove fisico, ma è possibile forgiare una comunità sull'esempio di un altrove ideale26. Secondo Mumford ciascuna società conserva, oltre alle forme realizzate, un patrimonio di forme e risorse potenziali, una sorta di energia inespressa, che viene liberata proprio dalla forza critica – in senso etimologico – e dalla capacità di immaginare un altrove. L'utopia combina una istanza critica con il tentativo di immettere in un differente – e organizzato – orizzonte di senso i temi che l'utopista giudica rilevanti, configurandosi, di fatto, come un laboratorio d'astrazione. Tale funzione, chiara anche a Mumford, risulta ancora più perspicua dalle pagine di Ideologia e Utopia, nelle quali Karl Mannheim invoca la forza progettuale del pensiero utopico e la sua funzione di laboratorio sociale27, affermando che l'astrazione costruttiva è un prerequisito essenziale all'indagine empirica 28, un concetto che ricorre anche nelle osservazioni di Sorel, nelle quali l'utopia si configura come una sorta di pietra di paragone su cui comparare la società del proprio tempo, evidenziarne aspetti positivi e negativi e ipotizzarne delle variazioni. Per Sorel l'utopia è, in qualche maniera, la politica prima della prassi, e ciò sarebbe confermato dal fatto che numerosi utopisti, una volta acquisita esperienza politica reale, si siano dedicati al governo 29. Sulla scorta di tali osservazioni, comincia a profilarsi l'idea che, in realtà, l'utopia sia prima di tutto e soprattutto un'ucronia, e del resto è piuttosto probabile che proprio Tommaso Moro non volesse affatto scrivere di un a-luogo, come ampiamente e dottamente dimostrato, e come egli stesso nell'edizione curata da Erasmo, suggerisce. Le utopie non sono, cioè, affatto indipendenti dal luogo, sono decisamente più affrancate dal tempo. Ciò risulta evidente, ancora una volta, nell'utopia platonica, che contiene tutti i topoi principali del genere, più chiari e potenti che nell'opera di Moro. Servier la considera uno degli elementi di genesi del pensiero occidentale, e certamente essa contiene i germi di quel conflitto drammatico fra "spirito progressivo" e hybris che da sempre caratterizza la civiltà occidentale e che ha fornito l'argomento a tutte le tragedie greche. Platone chiarisce, dal principio, che ogni utopia è essenzialmente un'ucronia, un disegno dal quale non è estratto lo spazio che, anzi, ne costituisce, sebbene metaforicamente, uno dei connotati fondamentali, ma il tempo, nella rievocazione dell'età aurea di Crono, della giustizia perfetta e dell'ordine sociale, ovvero della perfezione sferica che non conosce divenire 30. Come osserva Clifford Geertz, l'immobilità, l'ucronia, è un elemento fondamentale delle culture tradizionali, poiché in essa si celebra l'eternità della comunità 31. In questo senso Sparta, che pure ispirò Platone, costituisce l'esempio storico più manifesto di utopia: ossessionati dall'ordine generazionale, lo strumento fondamentale per garantire la continuità ciclica delle strutture sociali, gli Spartiati conseguirono l'egemonia condannando sé stessi all'auto-estinzione 32. Nel terrore degli spartani per una disgregazione del tessuto sociale e generazionale, è possibile riconoscere un motore potente, forse il primo motore, dell'utopia: la crisi. L'utopia appare generata dalla crisi, infatti, soprattutto se a questa parola si restituisce la complessità semantica che le deriva dal verbo krino, io distinguo, io giudico, con il significato di dividere, discernere, separare e sceverare, con quell'area semantica, insomma, che la affilia evidentemente alla "critica". Se, come riconosce Servier, l'utopia ha caratterizzato i momenti di profondo malessere della cultura occidentale, essa può più in generale ascriversi al riconoscimento di una divisione, di una separazione, di una crisi, appunto, che frantuma – o che minaccia di frantumare – una presunta identità unitaria. In altre parole, l'utopia nasce quando si riconosce nelle criticità della propria epoca il prodotto della frantumazione di una presunta unità identitaria, o quando si teme che tale disgregazione possa avvenire. Platone ammonisce che lo Stato naufraga quando si moltiplicano i bisogni e si confondono i ruoli, quando, cioè, la comunione d'intenti esplode e travolge, nella sua disgregazione, l'ordine sociale. E, se Mannheim riconosce un'importanza precipua nella genesi e definizione delle 25 L. Mumford, op.cit., p. 27. Ibidem, p. XII. 27 Ibidem, pp.VIII-XIX. 28 K. Mannheim Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 221. 29 G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, Laterza, Bari, 1970, p. 83. 30 Jean Servier propugna l'identità fra utopia, tempo mitico e società tradizionael, ravvisando nelle società tradizionali il prodotto di leggi imposte all'individuo in nome del mito d'organizzazione cosmologica. La stessa matrice avrebbe generato, sempre sercondo Servier (cfr. op.cit. p. 230), l'idea di Diritto naturale, una proiezione trascendente delle medesime strutture normative della società tradizionale. A suffragio di queste osservazioni sull'utopia come ucronia, nel senso di tempo non-tempo o tempo mitico, oltre alle considerazioni già proposte sull'età aurea di Crono e sull'Attica governata dagli dei, è opportuno citare le opere di Evemero e Giambulo, nelle quali istanze geografiche e aspirazioni utopiche affondano saldamente, e in forme originali, soprattutto in Evemero, le proprie radici nel mito, come osserva anche A. Colombo (cfr. op.cit. pp. 98-104: 100; 285). 31 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 319-381, 324-329-354-366. 32 Su Sparta e l'ossessione spartana per l'ordine generazionale, si veda M. Lupi, L'ordine delle generazioni. Classi d'età e costumi matrimoniali nell'antica Sparta, Edipuglia, Bari, 2000. 26 utopie alla dimensione del conflitto, affermando che "ogni utopia viene definita dalla natura del suo antagonismo verso le altre"33, egli stesso indica altresì nell'unitarietà della visione il primo connotato fondamentale dell'utopia, e Massimo Baldini, che ha provato a ricostruire i topoi principali del genere, fra i primi ha elencato proprio l'unitarietà, l'uniformità nonché il superamento, al suo interno, del pensiero critico e il misconoscimento del ruolo dei conflitti sociali. A proposito delle affinità fra le utopie socialiste del XIX secolo e le confessioni religiose, Judith Schlanger ha scritto che entrambe nutrivano la stessa aspirazione: restituire a ciascun membro della società un ruolo e un luogo, vale a dire, per usare la sua espressione, chiarire quale fosse il posto dell'organo all'interno dell'organismo 34. È un concetto che si attaglia perfettamente all'idea di giustizia espressa nella Repubblica: la corretta collocazione di ciascun cittadino nella compagine sociale, come strumenti in un'orchestra sinfonica. Forse non si incorrerà nella hybris di sussumere le innumerevoli e profonde istanze che hanno sostenuto la forza del pensiero utopico in una reductio ad unum inaccetabile, riconoscendo nel bisogno di ricomposizione – e di ricollocazione – una delle radici profonde dell'utopia. In questo senso, pertanto, l'utopia è tutt'altro che priva di luogo è, anzi, un potente tentativo di restituire uno spazio a una comunità e ai suoi membri. La modernità e lo svuotamento del luogo Il 17 luglio 1954 Paidjan, un ragazzino di dieci anni di un kampong giavanese, morì. La disapprovazione espressa dalla cultura giavanese per gli eccessi nelle manifestazioni emotive ha modellato un complesso di rituali funebri volti a diluire il dolore della famiglia, comunicandolo progressivamente e ridistribuendolo sulla comunità. È opinione condivisa presso i giavanesi, infatti, che sia la repentinità della sofferenza a ingenerare le reazioni più drammatiche. Il funerale di Paidjan, però, non funzionò correttamente e le tensioni che ne derivarono ebbero serie ripercussioni addirittura a livello nazionale. I rituali funebri giavanesi sono tutti celebrati sull’esempio dello slamatan, una cerimonia con pranzo rituale che raccoglie una decina di famiglie del vicinato: il legame di vicinato costituisce praticamente l'unico requisito per accedere al rituale, com'è ovvio per una comunità di villaggio contadina, nella quale la cooperazione risulta fondamentale nell'espletamento delle attività agricole stagionali. Nei villaggi contadini giavanesi la prossimità geografica corrispondeva, ovviamente, a una prossimità culturale, condividendo gli abitanti del villaggio le medesime convinzioni religiose, i rituali, le ricorrenze, le pratiche quotidiane. La modernità ha pesantemente trasformato l'isola di Giava e, già nel 1954, molti giavanesi avevano lasciato le campagne per trasferirsi a ridosso dei centri urbani, nei kampong, agglomerati periferici che fungevano da quartieri dormitorio; parallelamente avevano fatto la loro comparsa ideologie e religioni universali, il marxismo, l'islam e l'islamismo. Nei kampong alloggiavano i contadini giavanesi divenuti proletariato urbano, ciascuno dove trovava casa, frantumando, così, quella relazione fra vicinato e vicinanza culturale che costituiva il fondamento dello slamatan. Il funerale di Paidjan fallì perché si era prodotto uno slittamento fra la struttura sociale e la dimensione culturale, per usare il lessico di Clifford Geertz, nel senso che le strutture sociali erano cambiate senza che mutasse la dimensione culturale 35. Nel kampong giavanese si è consumato, quindi, uno scarto fra una direttrice causale-funzionale e una logico-significativa e il sistema simbolico elaborato per interpretare il contesto è stato utilizzato, senza variazioni, perché costituiva ancora parte determimante dell'identità giavanese, per leggere un contesto totalmente differente. In sintesi, una comunità si è frantumata quando a tale comunità è stato sottratto il luogo e ciò è avvenuto senza che vi fosse il tempo per elaborare delle reti di significato adeguate a rappresentare, significare e interpretare il cambiamento: il funerale di Paidjang dimostra, una volta di più, che una comunità è strettamente connessa a un luogo perché è il prodotto – e una delle forme – della relazione fra l'uomo e il suo circostante. È chiaro, a questo punto, che esiste una connessione fra lo svuotamento semantico del luogo e la disgregazione della comunità, fenomeno che, si è detto, è – come percezione, fatto storico, o timore – alle origini del pensiero utopico. Il mortale ferimento del Leviatano hobbesiano sul finire del secolo appena conclusosi, ha costretto gli storici a confrontarsi con una categoria, la storia immediata, nei confronti della quale essi non erano adeguatamente muniti, come risulta evidente dal record di denominazioni e di date ante e post quem collezionate dall'ultimo ventennio. Alcune linee di forza sono emerse con nitidezza, in primis l'indebolimento del paradigma hegelianoweberiano di una sorta di spinta verso Oriente (naturalmente da Occidente) del pensiero razionale, e una crisi dei vincoli fra sistemi, sottosistemi e individui che non si è riusciti a definire con un'espressione più elegante di glocalizzazione. Si tratta, secondo Robertson, del prodotto della frizione fra due processi legati da un peculiare rapporto di coesistenza ma, anche, di causa-effetto. Da una parte lo slittamento inesorabile, connesso certamente alla "seconda modernità", come direbbe Beck, "del mondo [...] verso la sua unicità", dall'altra la polverizzazione delle culture. Come evidenzia Robertson, il paradigma economicista-utilitarista di Wallerstein (e in generale tutte 33 K. Mannheim, op.cit., p. 227. A. Mattelart, op.cit., p. 167. 35 C. Geertz, op.cit., pp. 161-194. 34 le riduzioni culturali alla contrapposizione struttura-sovrastruttura) è stato smentito e superato: la cultura, e i suoi precipitati, connotano ineluttabilmente la geografia di un mondo che Wallerstein, i suoi ispiratori e i suoi epigoni, volevano regolarmente anulare. L'esito è tale che i particolarismi e i localismi (e si badi bene che i due termini non sono sinonimi) costituiscono uno degli addentellati precipui e più significativi proprio del processo di globalizzazione. Giacomo Marramao, in un efficacissimo saggio articolato proprio sulla globalizzazione come conflitto di differenze, sostiene che i processi di unicizzazione prevedano quell'esplosione di pluralismi e differenze che ha connotato questi anni, con maggiore intensità nell'ultimo decennio. “La compressione spaziotemporale – teorizza Marramao – determinata dalle tecnologie globali ha accelerato lo sviluppo delle interpretazioni conflittuali della storia mondiale, inducendo la proliferazione di una domanda di identità basata sulla ricerca dei fondamentali (nella duplice versione del ’fondamentalismo totalizzante’ e del ’fondamentalismo antitotalizzante’)“ E così, mentre Robertson riconosce che il sistema mondo è una compressione di culture connesse a civiltà, Marramao concorda con Eisenstadt nell'identificare il trend espansivo della modernità (qualunque ordinale le si voglia anteporre) con la “produzione di località“. Si tratta di un fenomeno eminentemente culturale e svincolato dall'idea di Norberg-Schulz di locus, del quale segna, al contrario, una fine quasi biologica, con conseguente demolizione e disgregazione: come sintetizza Appadurai, il luogo ha smarrito la sua dimensione ontologica, annichilita dalla deterritorializzazione, per divenire “una pratica sociale dell'immaginazione“. Senza luogo non esiste comunità e diviene a questo punto necessario parlare del secondo termine della nostra endiadi. La comunità come prodotto del Circostante: caratteri e funzioni La rilevanza della comunità è emersa con forza dal dibattito degli ultimi anni sulla crisi ambientale e dalla congerie di soluzioni che le diverse discipline hanno fornito. Se ci si sottrae alla tentazione di consolatorie soluzioni quantitative, appare evidente come la crisi ambientale abbia a che vedere con il nostro esser-ci, e come essa scaturisca dalla medesima sorgente che ha alimentato la tragedia greca, vale a dire da quella violazione del limite che gli antichi chiamarono hybris: non altrimenti, infatti, potrebbe ricomporsi la molteplicità dei fenomeni con cui la crisi si manifesta. La filosofia ha proposto diverse soluzioni, la più considerata delle quali risulta essere l'etica razionalista fondata sul principio di responsabilità di Hans Jonas, la cui formulazione, però, appare insoddisfacente e inadeguata per diverse ragioni. Il principio di responsabilità, nella formulazione "Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana", appare debole nella formulazione e indefinito, non solo perché l'oggetto "vita autenticamente umana" andrebbe debitamente chiarito, ma perché cerca una fondazione ontologica di un principio etico con un "sì ontologico" che, per usare le parole di Nicola Russo, “lungi dall’essere ’assoluto’, è molto ben delimitato e in primo luogo in negativo, ’enfaticamente come no al non-essere’”36. Tralasciando le pur dotte e affascinanti argomentazioni filosofiche, il vulnus principale della formula di Jonas consiste nella sua debolezza come vincolo, perché costituisce un imperativo morale – non categorico – il cui effetto coercitivo si infiacchisce ancora più in ragione della scala sulla quale esso si applica, vale a dire, appunto, l'umanità. In un bacino così ampio si affievolisce e scompare il riverbero delle azioni individuali, stemperando quelle positive e quelle negative in una generale indeterminatezza percettiva; il rimando alle generazioni future, inoltre, allontana il tempo della praxis e ridimensiona la cogenza del problema. Di fatto il principio di responsabilità di Jonas costituisce il contrappunto filosofico al concetto di sviluppo sostenibile come formulato dal ministro norvegese Brundtland, al punto che le due definizioni sembrano sovrapponibili. Non è possibile qui discutere delle contraddizioni e delle ambiguità di questi principi, basterà evidenziare come essi sottraggano efficacia e urgenza alla praxis, anche individuale, la cui scala ottimale è costituita da quell'hic et nunc di relazioni che Ortega y Gasset chiamava Circostante e che può essere riconosciuto senza dubbio nella Comunità37. Su una scala più ridotta le azioni assumono una rilevanza immediatamente percepibile e i loro esiti si riverberano immediatamente sugli individui; le azioni negative, inoltre, sono stigmatizzate e depotenziate dal controllo sociale, debole, quando non impossibile, in contesti più ampi. Dopo decennali studi sugli insetti eusociali, e una lunga propensione per una tesi "familista", il biologo evoluzionista Edward Wilson ha riconosciuto che la comunità è il frutto di potenti forze darwiniane e costituisce il terreno ottimale per la realizzazione delle migliori condizioni di vivibilità per l'uomo 38. Quel complesso equilibrio di comportamenti egoisti e comportamenti altruisti che hanno garantito la sopravvivenza della nostra specie e forgiato la nostra cultura appaiono, infatti, irrealizzabili al di fuori di un contesto collettivo ma di dimensioni abbastanza contenute da tutelare la rilevanza dei comportamenti individuali. Non è un caso, solo per citare un altro studio recente, che nel dichiarare le ragioni del suo interesse per le società tradizionali, il geografo e antropologo Jared Diamond 36 N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli, 2000, pp. 374-392. D. M. Caprioli, Uomo, Circostante e progetto architettonico. Outillage concettuale per una nuova alleanza, Riflessioni, Napoli, 2011. 38 E. O. Wilson, The Social Conquest of the Earth, Liveright Publishing Corporation, New York, 2012, pp. 45-56;,133-157. 37 introduca, per primo, un criterio di scala, proponendo l'ovvia considerazione che, in un contesto più contenuto, sono più perspicue le relazioni fra gli uomini e fra gli uomini e il loro intorno, il Circostante, appunto. Secondo Yona Friedman il tempo della comunità non è affatto il passato, ma il futuro, quando l'attitudine alla flessibilità e all'adattamento garantite dalla solidità dei rapporti personali farà sì che la forma delle città assuma sempre più l'aspetto di agglomerati di gruppi in continua relazione, organizzati su modelli non permanenti e flessibili39. L'immagine di una città come grappolo di villaggi è ripresa anche da Vandana Shiva e, in forme differenti, ritorna con sempre maggiore frequenza nelle dichiarazioni di filosofi, urbanisti, sociologi. La combinazione fra la complessità funzionale del villaggio e la complessità sociale della comunità affascina e sembra la realizzazione, appunto, di un modello utopico. L'immagine che ricorre, parlando di comunità, è quella di un'utopia di villaggio, rurale, artigiana, come la nuova Inghilterra di Morris, e in effetti definiamo comunità degli insediamenti, come The Dancing Rabbit negli Stati Uniti, Hurdal, Vidarsen e Solborg in Norvegia, che al modello di Morris, consapevolmente o meno, si ispirano. Non è privo di significato, però, che anche tali comunità abbiano dovuto soggiacere al divenire storico, modificando in maniera talvolta molto significativa la propria organizzazione, purché fosse preservato l'archetipo utopico originario (operazione ovviamente più agevole presso le comunità religiose e confessionali) 40. La nuance ruralista che attribuiamo al concetto di comunità è una distorsione moderna, facilmente smentita dall'ovvia considerazione che uno spirito comunitario è riconoscibile nelle poleis greche, in contesti, pertanto, eminentemente urbani: cercando di astrarre la definizione dai condizionamenti semantici del contingente, è possibile definire la comunità come una rete di significati e segni che correla un gruppo umano, che in tale rete si riconosce con il suo Circostante; tale rete è prodotta dalla relazione morfogentica fra i suoi nodi, al punto che si può dire che essa secerne ed è secreta. La comunità esiste ovunque tale connessione si realizzi, anche in un quartiere urbano. Lo stesso Colombo afferma che se "il modello comunitario come modello universale ...]può sembrare incongruo oggi e, tanto più, nella prospettiva del futuro... v'è un modello comunitario diversificato e articolato ... uno scalarsi e comporsi di comunità che vanno dalla famiglia alla comunità scolastica e universitaria ... alla comunità politica anzitutto ed essenzialmente come autogoverno ed assemblea locale. Il quadro della società fraterna sembra dunque disegnarsi in questo articolarsi di comunità"41. Il lessico adottato potrebbe generare una confusione con il concetto di villaggio globale proposto da McLuhan, ma si tratta di un errore: McLuhan è, probabilmente, uno degli ultimi grandi utopisti dei mezzi, ma la sua utopia ha scala e vocazione planetaria e non può esistere senza quella che Brzezinski ha indicato come "modello globale di modernità"42, vale a dire quel complesso di istanze e bisogni che costituivano l'american way of life come esportato fra gli anni Sessanta e Settanta. Non è un caso che i temi proposti da McLuhan e Brzezinski si rinvengano nel discorso di Al Gore per la presentazione del GII (Global Information Infrastructure) a un convegno sulle telecomunicazioni a Buenos Aires, nel 1994: il vicepresidente americano caldeggia una nuova Atene consentita dalle comunicazioni simultanee e in tempo reale, un'epoca di concordia globale 43. Le parole di Gore potrebbero rievocare le cosiderazioni di Vandermonde sul telegrafo ottico ma, a ben vedere, esiste una differenza fondamentale: gli Stati Uniti – almeno gli USA di Al Gore – auspicano una democrazia globale, raccordata sì dalle reti telematiche ma, prima ancora, omogeneizzata da un comune sentimento, quel senso di modernità del quale ha scritto Bzezniski (non a caso uno dei membri più autorevoli del bureau della Commissione Trilaterale); Vandermonde, invece, immaginava il telegrafo come raccordo fra comunità differenti per portare a Parigi la loro voce. Quando Mattelart riconosce il fallimento dell'utopia si riferisce, in realtà, all'utopia planetaria, vale a dire a quella aspirazione a ricomporre la Babele umana in un villaggio globale, appunto, che del villaggio abbia non solo la forma delle relazioni, ma la sostanza culturale. Tale intenzione si scontra con le considerazioni espresse prima sulla scala e, più in generale, con l'assenza del luogo, inteso come Circostante nel quale si instaurano rapporti e relazioni non replicabili altrove. È il Circostante che rende irrealizzabile una società globale. Il pensiero utopico ricompone la comunità Il fallimento dell'utopia planetaria non implica il fallimento del pensiero utopico, latore di una forza 39 Su questo argomento, cfr. Yona Friedman L'architettura di Sopravvivenza. Una filosofia della povertà, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. Il testo, un classico giunto alla venticinquesima edizione, compendia le riflessioni – e gli schizzi – dell'architetto ungherese sulla forma delle città e sulle modificazioni che l'ambiente urbano subirà, secondo l'autore, a opera dei suoi stessi fruitori. Come si accennava nel testo, parte degli esempi è tratta dall'esperienza delle incipienti megalopoli sudamericane. Dello stesso autore si veda anche il recente Alternative energetiche. Breviario dell'autosufficienza locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, nel quale gli argomenti relativi alla forma delle città fanno luogo a delle più generali domande sul vivere quotidiano, e Utopie realizzabili, Quodlibet, Macerata, 2003, pp. 179-217. 40 Jan Martin Bang, Eco-villaggi. Guida pratica alle comunità sostenibili, Arianna, Bologna, 2010, pp. 121-127. 41 A. Colombo, op.cit., p. 385. 42 A. Mattelart, op.cit., p. 352. 43 A. Mattelart, op.cit., p. 401. progettuale che deriva dalla combinazione di portata critica, aspirazioni e potenzialità di simulazione finalizzate, come si è detto, alla ricomposizione. Essendo fondata sul nostos, sul ritorno, l'utopia contiene l'istanza fondamentale per ripristinare quella rete di segni che, si è detto, sostanzia la comunità: la vocazione principale del pensiero utopico è restituire un luogo alla comunità e a ciascuno dei suoi membri, per ripristinarne l'armonia originaria. Ma l'utopia contiene anche gli strumenti per realizzare il processo, essendo munita di quel complesso di caratteri che, come si è detto, ne decretano l'energia progettuale. La bella formula di Arrigo Colombo sull'utopia come "progetto popolare implicito" sembra attagliarsi perfettamente – forse ancora meglio che al concetto di utopia – alla comunità, prodotto di un processo bottom-up 44. Si contesta all'utopia l'assenza del divenire e, anche qui, si è detto che essa sia più senza tempo che senza luogo. Sebbene questa osservazione sia corretta, essa scaturisce dall'analisi delle utopie letterarie e filosofiche che ci vengono presentate in medias res, senza renderci conto del processo che le ha generate, e immote nella loro perfezione. Come suggerisce Colombo, però, l'utopia consiste nell'archetipo utopico generatore, vale a dire, appunto, nella reificazione dell'istanza di ricomposizione: le forme che tale vocazione assume per realizzarsi possono mutare, facendo dell'utopia un progetto parziale, in continua riformulazione sull'asse dell'archetipo in relazione al divenire storico. È in questo senso, infatti, che va letto anche il giudizio di Bertelli sulla Repubblica di Platone, interpretata come una continua tensione adattativa fra modello e praxis 45. La forma storica contemporanea non potrebbe prescindere dalla rilevanza che hanno assunto le reti di comunicazione e dal fatto che esse, mentre contribuivano alla demolizione semantica del concetto di luogo, producevano un altro luogo, un metaluogo, quello virtuale. Se la comunità è, per definizione, una rete di segni, la comunità contemporanea non può che proiettare anche all'esterno questa rete, producendo una metacomunità, controparte virtuale di quella fisica, e tale metacomunità non potrebbe non raccordarsi alle altre, in un flusso di segni, significati, contenuti. Su questa direttrice il modello di città come grappolo di villaggi assume una rilevanza differente: superando la suggestiva immagine del grappolo, infatti, le grandi città si configurerebbero come reti di comunità, nelle quali alla rete fisica di relazioni, flussi e scambi, se ne sovrappone una virtuale che non è solo strumento di controllo e ottimizzazione dei flussi, ma una proiezione della rete stessa delle comunità, una metacomunità, appunto. Un simile modello consentirebbe di restituire complessità di funzioni e servizi alle sottounità urbane, ripristinando le comunità di quartiere che hanno caratterizzato gli insediamenti tradizionali europei, a giovamento della qualità della vita e dell'ecocompatibilità, con più relazioni personali, meno spostamenti, meno trasferimenti di materiali e persone: se il quartiere offre servizi avanzati, opportunità di lavoro e spazi per l'autoproduzione, il problema del trasporto si ridimensiona drasticamente e perde di rilevanza, come dimostrano gli esperimenti condotti in alcune città tedesche e nord europee. I servizi e le funzioni che necessitano di scala più ampia, urbana, beneficerebbero delle strutture di controllo informatico garantite dalla rete e ormai ampiamente riconosciute, se è vero che il modello della smart city costituisce il fulcro del piano di investimenti dell'Unione Europea per i prossimi sei anni; gli stessi flussi di risorse potrebbero essere controllati dai software di gestione, consentendo non solo un'ottimizzazione dell'uso delle risorse in entrata, ma anche la possibilità dell'autoproduzione: si instaurerebbe infatti un circuito virtuoso di produzione e scambio di beni e servizi fra le varie compagini comunitarie, un circuito reso più efficiente e tempestivo dall'impiego delle ITC. La scala ridotta della comunità urbana, inoltre, restituirebbe valore statistico alle rilevazioni: i dati, infatti, non si diluirebbero nella generica indefinitezza della metropoli, ma parlerebbero proprio di quei cittadini, di quello specifico gruppo umano. L'aspetto forse più affascinante di questo scenario consiste nel nuovo e più radicale significato che assume, in tale contesto, il concetto di morfogenesi. Si è detto, infatti, che i singoli nodi di una rete comunitaria sono in rapporto morfogentico, poiché ciascuno influenza la forma degli altri e ne è influenzato: la possibilità di esemplare le reti telematiche a uso e consumo dei fruitori, tramite applicazioni informatiche anche autoprodotte, introduce una nuova accezione di morfogenesi delle reti, nella quale si realizza, pienamente, quell'idea di flessibilità e adattabilità che, secondo Yona Friedman, ispirerà l'architettura, fisica, prossima ventura e che già si affaccia, in forma spontanea, nelle metropoli sud americane 46. Sede di scambi, di relazioni, di comunicazione e ipercomunicazione, la metacomunità non si configura semplicemente come una struttura di gestione e di controllo, ma come una vera e propria comunità, in quanto si sostanzia di una rete di segni instaurata con i fruitori e con il metaluogo che essa occupa. In un saggio comparso nell'edizione 2012 di State of the World, Diana Lind 47 ha elencato alcune innovazioni nella gestione delle città intelligenti: si tratta di proposte sviluppate in larga misura con un processo bottom up, spesso direttamente dai cittadini, ma l'aspetto più rilevante riguarda la loro relazione con il contesto 48. Tali esempi, infatti, non 44 A. Colombo, op.cit., pp. 78-91, 395-403. L. Bertelli, L'utopia greca, op.cit., p. 474. 46 Si veda, in particolare Y. Friedman, Utopie realizzabili, op.cit., pp. 179-180. 47 Capo-redattrice di Next American City, una rivista che si occupa di innovazione e urbanistica sostenibile. 48 D. Lind, Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione creano città vivibili, eque e sostenibili, in State of the World 2012, Worldwatch Institute, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, pp. 157-174. 45 costituiscono soluzioni universali a problemi generali, ma nascono dal dibattito interno a un gruppo impegnato sul territorio in risposta a problemi specifici del territorio stesso; realizzati secondo una natura modulare, però, essi possono essere facilmente adattati ad altri contesti, trasferiti attraverso la rete. Si tratta di un fatto nuovo, che supera la strategia del think globally, act locally: in questo caso il pensiero e l'azione sono indissolubilmente legati al luogo e poi arricchiti, modificati e disseminati su scala globale. Si profila, quindi, un futuro (utopico?) nel quale i comportamenti, i modi di fruire le città e porzioni stesse dello spazio urbano saranno prodotti da comunità di cittadini attive in uno specifico luogo; tali prodotti saranno generati dalla relazione fra gruppi umani e Circostante e avranno una duplice natura, materiale e immateriale, connessa ma autonoma. Come scrive Lind, citando un articolo di Carlo Ratti e Anthony Townsend, "si è scoperto che la socialità, e non l'efficienza, è la vera killer app della città. A salvare la vita delle città saranno con ogni probabilità le persone e non la tecnologia, la serendipità e non la programmazione" 49. Il binomio comunità-metacomunità risolve la tensione fra il localismo, peculiare dell'approccio comunitario, e il planetarismo irenico, generalmente ascritto al pensiero utopico, generando un sistema che si sostanzia di una proficua relazione fra i nodi di una rete: ciascun nodo è autonomo ma in relazione morfogenetica con gli altri. Si tratta, a ben vedere, proprio di una ricomposizione, ciò che da sempre l'uomo ha ricercato nell'utopia. 49 Ibidem, p. 160. ARCHITETTURA PER UNA COMUNITA' BIO-ANTROPICA Mario Coppola I periodi che chiamiamo di barbarie sono indispensabili in ogni essere che vive vita non illimitata - destinati a creare o a ristorare le forze perdute... come dalla barbarie risorge sempre una civiltà maggiore, così da una gran crisi della natura risorgerà una specie migliore - anche se una grandissima crisi della natura distrugge tutte le memorie precedenti. Vincenzo Cuoco E' inquietante il numero di film incentrati sulle varie "apocalissi zombie" che spopolano negli ultimi anni: dalla saga di "Resident Evil" all'ultimo, con Brad Pitt, "World War Z" che addirittura nel titolo richiama la guerra mondiale, siamo di fronte a una vera e propria invasione. Grattacieli sventrati, città desertiche, automobili come unica forma di salvezza che, ineluttabilmente, a un certo punto si rompono, vengono distrutte e lasciano ad un tragico destino; come nella scena di "La guerra dei mondi" di Spielberg, in cui i protagonisti, in fuga dagli alieni assassini, vengono letteralmente strappati fuori dalla loro auto da altre persone, alla ricerca della stessa salvezza. Svuotata l'automobile dei proprietari, la folla linciante si getta all'interno dell'abitacolo, che si riempie di esseri umani che scalciano, si picchiano, si buttano dentro da sportelli, finestrini e bagagliaio come fossero molecole d'acqua prive di alcuna coerenza. Liquidità. La paura degli zombie - quale più terribile metafora dell'"altro" - è direttamente proporzionale al successo dei film che illustrano con dovizia di particolari la distruzione del nostro mondo: passata la moda per gli "alieni" che ormai, si è visto, capitolano facilmente sotto le bombe dei nostri aerei da guerra, o muoiono per banali errori propri come nel film di Spielberg - è evidente a questo punto che non è necessario uscire dai confini della nostra galassia per trovare un nemico raccapricciante, in grado di distruggere ogni umana costruzione; e del resto come dimostra il "Prometheus" di Scott, non c'è paura più grande che quella prodotta da un nemico che, alla fine, scopriamo essere in tutto e per tutto "uguale" a noi, forse addirittura nostra "altra" faccia. Così, lentamente, ci si accorge che nella nostra immaginazione gli zombi assassini contro cui si batte il valoroso Pitt non sono altro che un'esagerazione truculenta delle masse che, abitualmente, dalla mattina alla sera scorrono infaticabili e apparentemente innocue nelle metropolitane, sui marciapiedi, nei palazzi delle nostre città; che, in breve, gli zombi siamo noi, o quel che stiamo diventando ora dopo ora, forse a partire dallo scioglimento dei blocchi storici. Blocchi di fragile cristallo con la caduta del muro di Berlino hanno determinato un vero e proprio sgretolamento del "puzzle" umano, costruzione di tessere magnetizzate ad un tratto non più attraversate dalla corrente, rovinate al suolo, senza più alcuna forza a combatterne l'entropia, oceano/brodo primordiale di cellule erranti in attesa dell'avvento degli organismi pluricellulari. Il terrore che scuote nel vedere un uomo diventato bestia tentare di dilaniare un altro uomo proviene dall'inconscia consapevolezza che più probabilmente degli alieni, più probabilmente anche degli alieni "umani" di Scott, dei meteoriti, e degli altri "pericoli" hollywoodiani, con buona pace della fantascienza classica il vero pericolo per l'umanità è l'umanità stessa, la sua incapacità di divenire realmente consapevole del suo intrinseco spirito auto-distruttivo e di porvi rimedio. Lo zombie che demolisce case e sventra uomini e donne "svela" la nostra taciuta verità "trasformando" in veri e propri mattatoi gli edifici per uffici di vetro, laccati in stile internazionale, dove ogni cosa era al proprio posto, pilastri e pannelli allineati come i colletti bianchi dietro le scrivanie in una griglia ottimizzata come una catena di montaggio. La carneficina evoca alla perfezione il destino "edipico" dell'uomo odierno nella sua piena, consapevole e inevitabile sorte suicida: non si tratta della radice "bestiale" dell'origine umana che torna a galla e getta la sua ombra sulla costruzione sociale, bensì, come scrive Esposito1, dell'opposto, e cioè della conseguenza ultima di quel distacco tra corporeità e "cultura", tra natura e storia, tra biologico e antropico dove la seconda radice ormai ha conquistato e nullificato la prima, in una totalizzante, cartesiana, dominazione/prevaricazione sull' "oggetto". 1 "E' vero che, abbandonata a se stessa, al suo eccesso corporeo, alla confusione promiscua dei suoi membri, la communitas non dura, non produce storia. Ma il suo assoluto contrario, la compiuta immunizzazione, non determina un rischio minore - se non di esplosione, certo di implosione dell'organismo cui inerisce. E' quanto, mettendo la vita a riparo dall'eccesso di "comune", produce inevitabilmente l'ipertrofia del "proprio". (...) La storia umana si immunizza dagli effetti ingovernabili delle spinte del corpo - istinti, sensi, passioni. Ma la separazione dal corpo - tesa a salvare e potenziare la vita - finisce per allontanare dal suo medesimo contenuto vitale. (...) il "mostro" non sarebbe l'uomo dai connotati bestiali - che la critica ha visto nella Battaglia [la Battaglia di Anghiari nel dipinto di Leonardo Da Vinci, murato in Palazzo Vecchio a Firenze, ndr] -, bensì la bestia dai connotati umani. (...) Forse è questa - il rischio, tutt'altro che remoto, non della bestializzazione dell'uomo, ma dell'umanizzazione dell'animale - l'origine nascosta, la verità più inquietante murata sotto la parete di Palazzo Vecchio." Roberto Esposito, Pensiero vivente, Einaudi 2010, pp. 83, 84, 98. E lo zombie rappresenta proprio questo rischio - più che rischio, questo fatto - dell'eccesso di sé che diventa letale perché non più produttivo, non più generativo, esaurito nella fertilità creativa e quindi auto-castrante, autodistruttivo: il cannibalismo come estrema espressione di quella atomizzazione sociale che rende ciascuno nemico dell'altro, fin dentro la stessa stanza d'ufficio dove dietro mille ipocrisie il manager, senza bisogno di esser morso da uno zombie, già vuol "mangiare" il manager sopra di lui, dove mangiare vuol dire poter dare ancora più cibo ai propri figli obesi e far morire di fame quelli dello sfortunato rivale caduto in disgrazia, o quelli della popolazione di chi-sa-dove da dove vengono predate quotidianamente - direttamente con la minaccia delle bombe, senza nemmeno l'ipocrisia - risorse naturali e umane come fossero tranci di pesce già affettato sul bancone di un mercato. E alla fine della catena alimentare scopriamo che il "capo dei capi", il megadirettore galattico in persona, è egli stesso frustrato, infelice, divorato dalla necessità di continuare a soddisfare la propria sete di potere, e cioè di autonomia individuale, in barba a tutto e tutti, anzi contro tutto e tutti così come è obiettivamente contro gli altri siano essi gli altri uomini-pedoni, uomini-automobilisti, così come tutti gli altri viventi dell'ecosistema terrestre la rincorsa sfrenata dell'uomo cosiddetto di successo all'acquisto del suv più grosso e potente in circolazione: già, che cos'è il suv se non la perfetta macchina/zombie? Un costrutto meccanico in grado letteralmente di schiacciare l'altro, di scavalcarlo, di prevaricare - fosse anche solo con le dimensioni e il rumore - fin dentro l'apparente "pacifica" guida; un costrutto che si nasconde dietro l'ipocrisia della "necessità" di potersi muovere su un terreno accidentato - naturale cioè, come al solito - "dominandolo" alla perfezione, mantenendo intatto il controllo "antropico" del nodo alla cravatta che lo zombie non può sgualcire durante la guida così come non può allentare una volta arrivato a casa, dove anche nelle più torride estati condizionatori di ultima generazione fanno in modo che la temperatura sia di 15 gradi, in maniera che lo zombie possa restare bello e affascinante, cioè in giacca e cravatta, continuando a distruggere tutto ciò che vive all'esterno delle proprie mura domestiche anche restando comodamente seduto su un divano, come si vede in una nota, illuminante, pubblicità. In realtà, finanche il ritorno a casa dall'ufficio è una pantomima, una lotta fratricida che ricorda gli epici, ma teneri, combattimenti automobilistici dei film di Fantozzi, dove bisognava raggiungere per primi il televisore, effige della territorialità casalinga. La differenza è che adesso, oramai, non vi è più alcunché di tenero: il suv ha rimpiazzato qualsiasi brandello di pietà, e gli zombie hanno invaso completamente le nostre metropoli, a ben vedere concepite apposta per loro, da loro. In questo ormai disperato debordare di antropico, e cioè di "rappresentativo", alla lettura di Esposito potremmo affiancare senza sforzo quelle di Bauman, di Morin, di Deleuze etc., tanto più che il numero di intellettuali che coraggiosamente rilevano il problema è direttamente proporzionale alla velocità con cui l'autodistruzione umana continua ad avanzare: il senso comunitario è ormai smarrito del tutto, e, parafrasando Bauman, ciascun individuo continua a inseguire la vana promessa, di una libertà individuale totale, di divenire una star, un amministratore delegato "capo dei capi" seduto su una poltrona di pelle umana, trofeo - il suv, la megavilla, l'aereo personale, il grattacielo a proprio nome, le guardie del corpo e così via - e giocattolo con cui il fratello vincente, il super-succhiatore, dimostra la sua superiorità e quindi la sua inoppugnabile prevaricazione sul resto dei sottomessi fratelli. Il grattacielo più alto del mondo, l'edificio più costoso e più lussuoso, qualsiasi cosa, tutto, a patto che sia completamente distaccato da ogni "altro" nel circondario, esprimendo l'ego edipico in tutta la sua fragilità, in una quasi ridicola ostentazione di a-relazionalità, come estrema causa e conseguenza della nostra a-comunità: i nostri "gloriosi" costrutti esprimono sfacciatamente la nostra alterità, il nostro disperato e fallimentare tentativo di voler essere autonomi, totalmente indipendenti e a tutti i costi, la nostra volontà di vincere, di godere più degli altri. Nelle nostre metropoli la stragrande maggioranza di edifici è monade a sé, è soggetto triangolato (per dirla con Deleuze e Guattari; altrimenti, più letteralmente, potremmo scrivere "quadrangolato"), guscio concluso in una introversione immorale, individuo atomizzato quanto i componenti delle masse di zombi di cui sopra; ciascun edificio, sia cubo o sfera, resta elemento ostile agli altri edifici, a stento regolato dalle maglie ortogonali che ne governano l'estensione attraverso una separazione che in realtà, nonostante una equità "quantitativa", è di fatto parte dello stesso sistema di distacco/separazione/dominio cartesiano così come marxismo e capitalismo, nella lettura moriniana, sono due facce della stessa medaglia. Questa separazione, codice genetico della dissoluzione comunitaria e infine umana, si riverbera sotto ogni aspetto della civiltà occidentale come nelle civiltà che occidentali non sono ancora ma che non aspirano che a diventarlo: dall'organizzazione/separazione urbana fino agli elementi costitutivi dell'architettura stessa, è tutto un rappresentare questo conflitto interno, che parte dalla scissione cruenta con la vita, con la natura, con il corpo, come se il cordone ombelicale fosse davvero l'unico legaccio - da rescindere - perché il solo visibile. Così, nelle nostre città oltre ai compartimenti stagni per noi, da buoni cartesiani abbiamo relegato il resto della vita, in tutte le altre sue forme, a delle gabbiette di dimensioni ridicole, mentre nella nostra quotidianità, nelle strade più calcate perché più commerciali e alla moda, non c'è albero, non c'è acqua né prato, non c'è altro animale che non sia l'uomo. Ciò che Esposito chiama umanizzazione del naturale, definendo così la prevaricazione del soggetto/uomo sull'"altro" anzitutto inteso come "natura" (ma poi, come corollario, come altro uomo), corrisponde alla perfezione all'assenza che ormai contraddistingue gli habitat umani nella loro stereometria "razionale" ("razionale", cioè cartesiano: divide et impera), nella loro ossatura metallica e meccanica, riprodotta attraverso serie di pezzi standardizzati, cioè prodotti e riprodotti senza la differenziazione che invece contraddistingue la riproduzione naturale, dando luogo agli scenari che poco, pochissimo richiedono alla fantasia cinematografica per divenire spettrali, apocalittici. E infatti è proprio cercando all'interno dell'immaginario hollywoodiano che troviamo elementi di gran lunga più interessanti di quelli proposti dalle scuole - anche, forse soprattutto, quelle più patinate e costose - a proposito della questione per così dire "architettonica", che la dicono lunga riguardo il rapporto tra quest'uomo imprigionato nella sua stessa alterità e l'ambiente che egli, ormai mero fantasma di Edipo, "produce", anzi in realtà rappresenta, visto che ormai non è rimasto nulla che possa essere definito frutto di sincera, fertile produzione. Il film "Elysium", ad esempio, è un ottimo spunto di riflessione: su una polverosa Terra, scenario quasi desertico, ormai distrutta dallo sfruttamento cieco delle risorse naturali, dalla sovrappopolazione e quindi da una conseguente sovra-antropizzazione, vivono i reietti, la gente che non ha alcun potere economico e quindi alcun potere sulla propria vita, e che continua a farsi la guerra, a lottare l'uno contro l'altro per accaparrarsi una mollica di pane. I numerosissimi grattacieli - in questo lo scenario ricorda il pianeta Coruscant della saga di Star Wars, dove il pianeta è di fatto un'intera città senza un solo atomo di vegetazione, ma tanto è possibile in poche ore raggiungere altri pianeti da cui importare ogni materia prima! - sono stati colonizzati come degli alveari: dalle strutture verticali sporgono per dozzine di metri strutture reticolari orizzontali, per così dire "hand-made" dagli stessi derelitti, che tentano di aumentare la superficie vivibile di queste strutture ormai abbandonate dal potere, che disperatamente cercano di "aprire" le torri verso il cielo, verso l'aria, verso l'"esterno". Non c'è più un sol filo d'erba, e si muore di tumore giovani. Eccezion fatta forse solo per la dimensione degli sbalzi dai grattacieli, il quadro non è poi tanto lontano dalla nostra realtà, per esempio dalla nostra inquietante "terra dei fuochi". Questo scenario, terribile, è con buona probabilità profetico di un avvenire prossimo venturo, in cui i nostri più eleganti edifici di vetro opaco, di acciaio e cemento, bozzoli/castelli in difesa di quanto abbiamo accumulato alla faccia degli altri, saranno sventrati ed esploderanno sotto l'assedio di masse di nullatenenti sempre più sconfinate e disperate. Non meno tremendo è, del resto, lo scenario che il regista propone nel film come la soluzione dei più "abbienti": un satellite artificiale che replica la superficie terrestre, nel quale i ricchi e i potenti - proprietari di multinazionali che sfruttano la gente terrestre - vivono come si vive oggi nelle cosiddette "gated communities", sempre più in voga negli Stati Uniti: piccoli parchi con dentro case, chiese, supermercati, negozietti, chiusi, blindati per mezzo di barriere elettrificate, guardiani armati e doppia sbarra all'ingresso, dove la gente vive senza accorgersi di cuocere in un brodo stantio nel quale non può esserci alcuna umanità prima ancora che felicità. Su Elysium, il satellite che replica la Terra, si trovano ville neoclassiche con tanto di colonnato dorico, ed edifici in vetro alla Mies di fatto identici alle attuali residenze dei milionari; edifici sempre più auto-referenziali, dove si raggiunge insieme l'apice della radice antropica "culturale" e "storica" e la massima distanza dalla radice biologica e vitale2: questo binomio di neoclassico e minimal/ortogonalismo di vetro e superfici bianche immateriali esprime alla perfezione quella che di fatto nelle nostre città già possiamo leggere come una perdita totale di contatto con il corpo, che invece ci legherebbe, se gli dessimo un briciolo di ascolto, alla radice biologica, ad una comunanza di origini e di destino con ogni altra forma di vita della Terra, per non dire, ovviamente, con ogni altro essere umano. Ma in "Elysium" il discorso "architettonico" non finisce qui, e forse la nota più interessante può ritrovarsi nell'edificio del potere - ovviamente ben poco democratico - e soprattutto nelle stanze dei bottoni dove una perfida Jodie Foster decide delle sorti del "sotto-mondo": nere e luccicanti superfici fluide, flessuose e sensuali, solcate da linee di luce, descrivono ambienti ultra-lussuosi, ancor più "lussuosi" di quelli razionalisti degli abitanti del satellite, e descritti da una "natura finta", in realtà spudoratamente tecnologica, che mima la biomorfologia. La metafora colpisce direttamente e al cuore tutta quell'architettura che oggi muove verso un biomorfismo totale, ottenuto per mezzo degli strumenti digitali più avanzati, che nella propria doppia curvatura, "identica" solo esteriormente a quella dei viventi, replica il linguaggio naturale cambiandone così di segno il contenuto, la semantica: si tratta di un "troppo natura" che solo apparentemente è l'opposto di quel "troppo cultura" verso cui ci ammonisce Esposito, ma che in realtà, anziché essere espressione di una relazionalità cultura/vita, risulta essere ennesima dimostrazione di una visione della natura come strumento, ancora una volta "oggetto" nelle mani dell'essere umano, che la replica in laboratorio, attraverso la tecnologia più cartesianamente avanzata, per metterla al servizio esclusivo del proprio piacere, e cioè ancora della propria sete di conquista e prevaricazione, 2 "La storia - in particolare quella moderna - scandisce il ritmo di questa deriva. Quanto più avanza, emancipandosi dal proprio limite naturale, tanto più la sua sostanza vitale si essicca fino alla completa atrofia." R. Esposito, ibidem, p. 112. alla faccia di qualsiasi simbiosi, equilibrio che i viventi raggiungono naturalmente tra loro, nella comune voglia di vivere. Come Elysium e le sue stanze del potere dal linguaggio "finto" naturale sono distanti e fortificate rispetto alla Terra, che nel film rende benissimo la metafora del primigenio "altro" da cui emanciparsi e da dominare (un seno materno ormai svuotato, e quindi da distruggere, vendetta finale dell'infante abbandonato), così l'architettura bio-mimetica spopola in tutto il mondo attraverso progetti che si distaccano forse ancora di più dai "fratelli" classici, neo-classici, moderni e minimalisti - i quali almeno tra loro parlano la stessa lingua - rincorrendo una complessità fittizia che in realtà rappresenta soltanto una nuova torre di Babele3 a cui sacrificare ancora una volta qualsiasi spirito umano e naturale, cioè relazionale, in nome di un nuovo strumento ancora più potente e "letale" dei precedenti. Se vogliamo, un vero "troppo natura", da opporre al troppo antropico di cui sopra (in entrambe le salse iperstorico o finto-naturale) è quello in cui vivono gli alieni di Pandora nel film Avatar, che utilizzano foglie come visori per cavalcare animali volanti quasi-addomesticati, e ben rappresentato in un altro film, estremamente significativo, "Into the wild", in cui il protagonista infine muore nel tentativo di vivere una vita in nome della pura radice biologica. Non occorre troppo acume per capire che anche l'utopia avatariana sarebbe fallimentare: un ritorno alla natura selvaggia, sappiamo bene, non è ormai più possibile. Sarebbe una nuova finzione, senza alcun lieto fine, che vedrebbe comunque la distruzione della socialità umana così come scrive alla fine sul suo diario, poco prima di morire, il protagonista di "Into the wild": la bellezza pura della vita nel suo farsi naturale non può dare alcuna felicità senza la condivisione di tale stupore con un altro individuo: la felicità, ancora una volta, non si trova in nessun "oggetto", seppure solo della nostra ammirazione e contemplazione, ma nella relazione, nella connessione tra i viventi che trasforma i singoli pezzi, soli e inutili, in nodi di una rete simbiotica cosciente. Ibridare l'architettura con la natura, al fine di rendere di nuovo fertile e vivente il territorio antropico, resta la sola strada per la salvezza della comunità umana e poi della Terra: un innesto che, a partire dall'aumento netto della biomassa, deterritorializzi di quel tanto che basti ad uscire dal vortice iperantropico in cui l'umanità è ormai prigioniera-suicida, inserendo nella costruzione culturale un elemento "altro", con cui riallacciare i ponti fin dal principio, come nuovo postulato del paradigma culturale di un pensiero vivente a cui apparterrebbe l'architettura che proponiamo. Auspichiamo la diffusione di un linguaggio bio-antropico, mezzo espressivo di una figura sinceramente bioantropomorfa, che non risulti ancora prigioniera della scissione violenta tra uomo e natura - come avviene, per esempio, nel progetto di Eisenman per la Città della Cultura di Santiago de Compostela, dove una morfologia mimetica di quella naturale, che scimmiotta la geo-morfologia, viene poi attraversata e "affettata" ancora una volta da tessuti "storici", presi in prestito dalla città antica esistente per "umanizzare" l'elemento biologico - ma che invece ne porti insieme caratteri e valori, per una coesistenza umana/comunitaria e quindi ecosistemica. Un linguaggio capace, per questo, anzitutto di non dimenticare il chiaroscuro della tradizione culturale antropica, la geometria di superfici planari schiettamente umane, che non tentano di mimare goffamente - e ingannevolmente - la curvatura organica (dimenticando millenni di storia e abbandonando ogni effige dell'umana civiltà, riproponendo ancora una volta una nuova "tabula rasa" in esplicita alienazione/conflitto con ciò che preesiste); ma anche, contemporaneamente, lingua in grado di tenere insieme, in un continuum coerente, questa "linearità approssimata" tipica dell'estro umano con la complessità e la continuità naturale, del mondo della vita biologica. Intendiamo qualcosa che non risulti alieno ostile né ai colonnati classici né alle radici degli alberi: un ponte vero e proprio tra l'elementarismo stereometrico delle origini - codice genetico culturale dell'"umana bestia" - e la fluidità armonica della rete ecosistemica, sola forza all'altezza di tessere insieme oceani di frammenti viventi sciami di insetti, stormi di rondini, distese di coralli, rocce erose dal vento, branchi di animali - in un insieme solidale, coerente e sempre differenziato. Scegliendo di credere in una retromarcia possibile, in un cambiamento che trasformi il destino umano da quello prometeico in uno nuovo, simbiotico, non possiamo esimerci dal mostrare che molto di quanto intendiamo è già sotto i nostri occhi, sotto gli occhi di tutti, che ha sempre serpeggiato, seppur in netta minoranza, come la filosofia vivente a cui si riferisce Esposito tracciandone antiche genealogie. Dal canto nostro basti pensare al progetto per le fortificazioni fiorentine che Michelangelo disegnò nel 1500, ibrido tra i bastioni medievali e il carapace 3 "Più che recuperare un rapporto con la natura - come credevano di fare gli antichi - ai moderni non resta che fingere una «seconda natura», del tutto artificiale e dunque ancor meno naturale. L'esito appare sempre più lontano dall'obiettivo: quanto più si cerca la natura, tanto più si potenzia la tecnica; quanto più si contrasta la ragione, tanto più la si rafforza, con la conseguenza antivitale che inevitabilmente ne deriva. Sovrapposto al dispositivo immunitario della razionalizzazione, incastrato dentro di esso, quello dell'illusione apre una contraddizione ancora più insanabile. E' come se, in questo caso, le due procedure difensive, i due rimedi protettivi, si avvitassero in un cortocircuito che ne moltiplica la carica negativa. Ragione e illusione, piuttosto che conciliarsi, non fanno che distruggersi a vicenda, svuotarsi reciprocamente di sostanza a favore di qualcosa che non é né l'una né l'altra, ma la negazione di entrambe (...)" R. Esposito, ibidem, pp. 118-119. di un'aragosta; al Goethaneum che Steiner scolpì agli albori del secolo breve, costruzione a cavallo tra un Palazzo rinascimentale e una caverna; ancora al Mundaneum di Le Corbusier, mezzo Partenone e mezzo conchiglia. Venendo ai giorni nostri, anche adesso è possibile scorgere questo spirito bioantropico in certe sperimentazioni, purtroppo di nicchia, che riescono a integrare il progetto architettonico con l'apporto biologico senza perdere il seme culturale e quindi umano. A questo ristrettissimo club appartengono diversi progetti dello svizzero Roman Delugan, odierno modernorganico, come lo "strano" caso del centro di ricerca di Riyadh di Hadid, minotauro metà tessuto cellulare e metà bazar arabo. Tra le nuovissime generazioni alcune residenze di Eva Castro/Plasma Studio (si veda, per esempio, lo Strata Hodel e la residenza Paramount di Sesto) sono a metà strada tra formazioni geologiche e leggere costruzioni moderne, composte da materiali semplici e, soprattutto, da lavorazioni estremamente economiche ed ecocompatibili, che però pure riescono a rompere la conclusione dell'edificio tradizionale e il suo storico distacco dall'elemento naturale. In conclusione, per uscire fuori dalla liquidità e dalla distruzione della comunità, non c'è altra strada che lasciarsi andare ad una contaminazione fertile e salvifica, uscendo dal sé edipico chiuso e autarchico e rinunciando alla propria pretesa di autonomia e onnipotenza, per abbandonarsi fino a riscoprirsi parte di un sistema vivente più esteso, e quindi ritrovare il contatto con un'origine vitale, matrice biologica con cui è ormai indispensabile tornare a mescolarsi4. 4 "Sia la comunità che l'immunità, divise dal loro opposto, portano la vita sull'orlo del precipizio. Incontrano la <<barbarie>> - la prima derivandone direttamente, la seconda riattivandola in una forma, se possibile, ancora più minacciosa. L'unica opzione che resta, per non precipitare all'indietro, è tenere lo sguardo puntato sulla linea di tangenza che allo stesso tempo le separa e le congiunge, facendo dell'una l'irriducibile contenuto dell'altra. (...) soltanto se depone ogni volontà di potenza, sentendosi parte del tutto che lo ingloba espropriandolo di ogni proprietà, l'uomo potrà riconoscere il profilo di quella communitas che le sue procedure immunitarie hanno cercato di restaurare finendo per negarla del tutto." R. Esposito, ibidem, pp. 84, 122 ANTIDOTI ALL’ATOMIZZAZIONE GLOBALE Brunella Velardi Non possiamo più identificare il messia in una sola persona…Tutti noi siamo profeti e messia, a partire dalle persone che hanno una maggiore responsabilità sul piano artistico, culturale e scientifico, anche se provenienti da fedi diverse. Michelangelo Pistoletto, 2010 La minaccia dell’incombente e presumibilmente catastrofica – o meglio, apocalittica – fine del mondo che aleggiava nell’Occidente cristiano intorno all’anno Mille, con il conseguente Giudizio Finale cui ognuno sarebbe inevitabilmente stato sottoposto, generò nelle coscienze del tempo, più o meno consapevolmente, un desiderio di rigore e di austerità che potessero restituire all’essere umano l’umiltà necessaria a guadagnarsi il Paradiso in sede di esame divino. Fu così che l’Europa, sotto l’impulso cluniacense e poi cistercense, si vestì di quel “candido manto di chiese”, i cui nuovi caratteri di possanza e verticalità testimoniavano il dominio di Dio sulla Terra e allo stesso tempo imponevano ai fedeli una ricerca spirituale più vera e profonda. Templi in cui ciascuno potesse ricongiungersi con se stesso e con il divino, acquisendo così il diritto all’invocazione della fine delle epidemie e della carestia, il più evidente sintomo della fine. Racconta Rodolfo il Glabro che "la carestia cominciò a propagarsi per tutta la terra, e si poté temere la quasi totale scomparsa del genere umano. Le condizioni atmosferiche si fecero così sfavorevoli, che per nessuna semina si trovava il tempo propizio, né c’era modo di fare i raccolti, soprattutto a causa delle inondazioni. Si sarebbe detto che gli elementi ostili si davano battaglia, senza dubbio per fare vendetta all’insolenza degli uomini" 1. A proposito di corsi e ricorsi storici, il periodo di profonda crisi che sta attraversando il mondo contemporaneo, e che certamente non si limita all’aspetto economico e finanziario ma coinvolge più in generale un sistema capillarmente diffuso di disvalori ecologici, culturali e sociali, non ha connotati meno allarmanti di quelli descritti dal monaco cluniacense. Anzi. Se nel Medioevo l’unica speranza di redenzione era in una profonda spiritualità che si identificava con la religione, oggi, in un mondo industrializzato e prevalentemente laico, l’educazione delle masse spetta (anche) ad altre istituzioni. C’è però una costante, in questo processo di sensibilizzazione, che è il ruolo svolto dall’arte: l’introduzione di nuovi canoni architettonici - che oggi classifichiamo come “romanici” -, così come l’illustrazione delle storie cristologiche o agiografiche, che all’epoca prevalentemente sottoforma di rilievi scultorei accompagnavano l’ingresso ai luoghi di culto così da mostrare anche a un pubblico analfabeta quale fosse la via da intraprendere per la salvezza, corrisponde oggi a tutte quelle forme d’arte, dal cinema alla performance, che cercano di richiamare l’attenzione del pubblico sui grandi temi del nostro tempo e che pure puntano alla salvezza, dell’uomo come dell’intero ecosistema terrestre. A questo proposito si avverte, negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione al concetto di comunità intesa come forza in grado di superare l’atomizzazione sociale, che è la cifra essenziale della nostra attualità, per ritrovare una dimensione di ricongiunzione con le proprie radici. Negli ultimi quindici anni Michelangelo Pistoletto si è unito al coro di filosofi, scienziati, umanisti che denunciano la deriva politica, ambientale e sociale in cui il mondo si trova oggigiorno. L’artista piemontese ha incentrato così sempre più la sua ricerca sulle possibilità dell’arte di incidere sul tessuto sociale, fino alla fondazione, nel 1998, di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, un laboratorio interdisciplinare e intercomunitario che opera attivamente per la formazione di una nuova coscienza sociale attraverso un operare che prende le mosse dall’arte per interagire con la politica, l’educazione, la religione, la scienza, l’economia, al fine di rinnovare il modo di concepire il rapporto sé/altro-da-sé nell’ottica di un riequilibrio delle dinamiche collettive. Il nome stesso dell’organismo a cui ha dato vita porta in sé il duplice significato di luogo protetto e dotato di ogni attività necessaria alla sussistenza, e quello di luogo aperto agli ingressi, agli scambi, alle trasformazioni. Nella scelta del nome, in sostanza, è già racchiuso il riferimento ai temi che l’istituzione intende affrontare: pacifica e solidale convivenza, sostenibilità ambientale ed economica, relazionalità interindividuale portatrice di ricchezza. Impegnato nella critica al consumismo tipico dell’era capitalista già dalla sua adesione alla corrente poverista2, in una delle prime formulazioni di quello che sarebbe poi diventato lo statuto di Cittadellarte scrive: "Sul nostro pianeta si è creato uno squilibrio 'civile' di macroscopiche proporzioni. Un estremo contrasto si è manifestato nel rapporto tra la rapidità dei mezzi di comunicazione che avvicinano gli abitanti della terra e le distanze millenarie che si interpongono tra le etnie, allontanando irrimediabilmente gli individui. E’ una terribile disfunzione di cui non può non rendersi conto l’artista e non chiedersi quale sia il suo ruolo in questo momento, di fronte a questo mondo". La riflessione dell’artista sulla sua funzione sociale si inserisce perfettamente in una corrente 1 Rodolfo il Glabro, in G. Duby, L’Anno Mille, Storia religiosa e psicologia collettiva, Einaudi, 1983. «Noi dell’Arte povera rappresentavamo la vera alternativa a quest’invasione totalitaristica del consumismo, una riflessione sugli elementi primari, come fondamento del processo artistico e anche sociale», Michelangelo Pistoletto, in Francesca Pini, L’utopista felice, Corriere della Sera – Sette n. 40, 6 ottobre 2011. 2 di pensiero che potremmo definire “interventista”, e viene così a coincidere con la funzione dell’urbanista secondo le parole di Argan: "Il suo vero compito è di educatore più che di tecnico; il suo vero fine non è di creare una città ma di formare un insieme di persone che abbiano il sentimento della città. E a questo sentimento confuso, frammentato in migliaia e milioni di individui, dare una forma in cui ciascuno possa riconoscere se stesso e la propria esperienza di vita associata"3: un compito, infine, di rinnovatore e coesore sociale. In altre parole, all’artista e alla sua arte (così come all’urbanista e a chiunque si occupi, in qualche misura, di “bene pubblico” e “pubblica utilità”) spetta trasmettere ispirazione, impeto di trasformazione positiva e di auto-miglioramento, così come accade per la religione. Non a caso, Pistoletto mette in stretta connessione l’ispirazione artistica con la spiritualità, evidenziandone il comune etimo 4. D’altra parte, un passo in questa stessa direzione è svolto dall’arte a scala urbana, strumento attraverso il quale la città (e la cittadinanza) si prende cura di se stessa riconfigurandosi come organismo vitale capace di autorigenerarsi 5. Questo meccanismo, ampliato su scala planetaria e connesso con tutti gli altri aspetti della vita contemporanea, corrisponde in effetti all’”utopia” di Pistoletto. Nel 2002 l’Ufficio Politica di Cittadellarte aveva fondato l’associazione Love Difference – Movimento Artistico per una Politica InterMediterranea, nell’ambito del quale nascono opere come Intermediterraneo, frammenti di specchi e sagome di paesi mediterranei che contengono e frammentano il riflesso dei passanti (2002, Napoli, Stazione della metropolitana di Piazza Dante) e Love Differences, installazione che fu portata nel 2007 a Piazza del Plebiscito: sulla sagoma del Mar Mediterraneo con i paesi che vi si affacciano i passanti possono sedersi per riposare, guardare, conversare come intorno a una grande tavola rotonda. Si tratta di una “visualizzazione” dello slogan “Eliminare le distanze mantenendo le differenze”, che compare già in Progetto Arte del ’94. Il tema della responsabilità sociale è, d’altra parte, cruciale in tutto il lavoro di Pistoletto, di cui egli stesso individua una chiave di volta nell’”invenzione” dei quadri specchianti (anni ’60-’70). Attraverso di essi, infinite possibilità si aprono per lo spettatore, indotto in ogni caso ad assumere se stesso come fulcro di un processo di trasformazione: innanzitutto in quanto elemento contingente con forte connotazione temporale rispetto all’immutabilità e fissità della figura stampata sulla superficie, poi come “punto di fuga” di una rappresentazione prospettica che coincide con tutto quanto si trova alle sue spalle e che è riflessa nello specchio. In tal modo, attraverso il quadro specchiante l’uomo si trova calato nel momento del Giudizio, che dapprima è individuale, per poi farsi universale. Proprio questa necessità di auto-giudizio è alla base delle ultime ricerche di Pistoletto, che nel 2003 elabora l’il concetto di Terzo Paradiso. Luogo di mediazione tra la paritaria convivenza di uomo e natura (primo Paradiso) e la società attuale dominata dall’artificio e dall’uso ormai totalizzante della tecnologia (secondo Paradiso), il Terzo Paradiso è piuttosto una nuova condizione di vita civile cui l’essere umano deve ambire per una riconciliazione con l’altro e con la natura. In tale prospettiva "L’arte costituisce l’elemento reagente che, entrando attivamente nel tessuto della vita sociale, irradia le energie necessarie a produrre il passaggio verso un nuovo stadio della vita civile. L’intera attività di Cittadellarte costituisce un principio attivo per la sostanziale formazione del Terzo Paradiso"6. Il lavoro di Pistoletto, mediante una decisa presa di posizione riguardo il fare artistico7, si configura in questo modo come declinazione in chiave pragmatica del pensiero moderno, che dalla relazionalità di Paci alla liquidità di Bauman alla complessità di Morin, pone la questione della necessità di una sinergia tra le più diverse istanze della cultura umana, premessa imprescindibile per lo sviluppo di un nuovo tipo di “etero”-conoscenza e di autocoscienza. Il nuovo concetto di comunità “responsabile” va dunque di pari passo con quello di sostenibilità ambientale, proprio per quell’intima connessione che esiste tra i vari aspetti del vivente. Va sottolineato che l’obiettivo non è, dal punto di vista economico ed ecologico, un ritorno a un pauperismo di tipo francescano - che corrisponderebbe con la condizione propria del primo Paradiso - ma anzi la ripresa dei suoi tratti “ecologici” alla luce delle conquiste tecnologiche - quelle che caratterizzano il secondo Paradiso -. Allo stesso modo, dal punto di vista sociologico, tale visione si collega al concetto di glocalizzazione, concepito da Zygmunt Bauman come attenzione all’individuo e al suo patrimonio particolare come fondamento della comunità globale. Occorre fare un’ultima considerazione. La nozione di Terzo Paradiso è intimamente connessa con quella di Terzo Paesaggio (Clément) e di Terzo Stato. In questi ultimi due casi si tratta di entità non ben circoscritte e in qualche modo reiette, che tuttavia si rivelano fondamentali nella natura e nella storia. Congiungendo i percorsi dell’una e dell’altra, il Terzo Paradiso diventa allora un simbolo di riscatto che non a caso ha come emblema 3 M. Pistoletto, Progetto Arte, 1994, in www.cittadellarte.it. Cfr. M. Pistoletto, Il Terzo Paradiso, Marsilio, 2010, p. 76. 5 Cfr. A. Trimarco, L’arte pubblica come figura dell’abitare, in E. Cristallini (a cura di), L’arte fuori dal museo. Saggi e interviste, Gangemi 2008 e A. Trimarco, Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli, Mimesis 2009, in part. pp. 75-84. 6 M. Pistoletto, Il Terzo Paradiso, Marsilio, 2010, p. 50. 7 G.C. Argan, Lo spazio visivo della città, 1971, in id., Storia dell’arte come storia della città, Editori Riuniti 1983, p. 251. 4 un’immagine che rielabora l’infinito matematico e allo stesso tempo, nel cerchio centrale che si viene a creare, ha i connotati antropomorfi di un grembo, allusione alla rinascita sociale. Insomma, un riscatto che si identifica con quella sostenibilità “universale” che attraverso nuove “cattedrali”, e cioè per mezzo dell’arte, può dare al mondo una speranza di salvezza cui, forse, aspira fin dall’attesa della venuta di Cristo. Il 17 settembre 2013 Michelangelo Pistoletto è stato insignito del Praemium Imperiale rilasciato dalla Japan Art Association per la sezione “Pittura”, per l’influenza esercitata sul mondo dell’arte a livello internazionale e per il contributo dato alla comunità mondiale. LOCALITÀ/COMUNITÀ Antonio Franco Mariniello Nulla è comparabile. Perché cosa non è del tutto / Solo con se stesso e inesprimibile:/ non designamo nulla, solo subire ci è concesso / e accordarci che forse qui un bagliore /e là uno sguardo ci abbia sfiorati, / come se proprio dentro questo vivesse / ciò che è la nostra vita. A chi oppone resistenza / il mondo sfugge. E a chi troppo comprende/l’eterno passa accanto. Talvolta / in notti così grandi siamo quasi / fuori di pericolo, in lievi parti uguali / assegnati alle stelle. Come incalzano. Rainer Maria Rilke, Passeggiata notturna, scritta a Capri nel 1908 Nel concetto di comunità possiamo rintracciare il corrispettivo politico sociale della Località. Vale la pena, perciò, aiutati dalla riflessione filosofica, tentare un chiarimento aggiornato di un termine tanto diffuso nella terminologia sociologica-urbana, ed anche architettonica, quanto ideologicamente abusato spesso con nebulosa vaghezza. La filosofia politica corrente – nota Roberto Esposito in un suo recente contributo (cfr. R. Esposito, Communitas - origine e destino della comunità, Torino 2006) – stringe la comunità ad un linguaggio concettuale che la stravolge nel momento stesso in cui tenta di nominarla: il linguaggio “dell’individuo e della totalità, dell’identità e della particolarità, dell’origine e del fine. O, più semplicemente, del soggetto con tutte le sue più irrinunciabili connotazioni metafisiche di unità, assolutezza, interiorità.” Con simili premesse la filosofia politica tende a pensare la comunità al modo di “una soggettività più vasta”, o ad ipertrofizzarla nella figura dell’“unità di unità”. Fino a “quelle culture dell’intersoggettività sempre intente a cercare l’alterità in un alter ego simile in tutto e per tutto all’ipse che vorrebbero contestare e che invece riproducono duplicato”. La questione che qui ci riguarda – come architetti – è se comunità come località si corrispondano come omologhe figure dell’appartenenza, questa intesa come appropriazione originaria della propria essenza. L’appartenenza è la stessa figura che, nelle scienze sociali, campeggia tanto nel manierismo postromantico – che in Tonnies oppone la Gemeinschaft (comunità) alla Gesellschaft (società) – quanto nella più sobria e secolarizzata analisi di Weber, che infatti puntualizza: “Una relazione sociale deve essere definita ‘comunità’ (Vergemeinschaftung) se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire poggia (…) su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), degli individui che ad essa partecipano” (Max Weber, in Economia e Società, trad. it. Milano 1986, vol. I, p.38). L’analisi di Esposito prende le distanze dalla sociologia organicista della Gemeinschaft, dal neocomunitarismo americano, da Weber e persino dalla tradizione comunista, secondo le quali concezioni la comunità è un tutto (indoeuropeo *teuta = essere pieno, gonfio, pregno, potente) pieno di potenzialità, cioè “un bene, un valore, un’essenza che… si può perdere e ritrovare come qualcosa che ci è già appartenuta e dunque ci potrà tornare ad appartenere. Come un’origine da rimpiangere o un destino da prefigurare secondo la perfetta simmetria che collega archè e telòs: come il nostro più ‘proprio’ “In tutte queste filosofie – segnala Esposito – la comunità resta legata strettamente alla semantica del proprium. Sebbene il senso di proprietà/possesso che ne deriva, in tutte queste visioni si riferisca soprattutto al territorio (cfr. anche: C. Schmitt, Il nomos della terra), ciò conferma questo senso, in quanto il territorio stesso è definito appunto dalla categoria di “appropriazione” come matrice originaria di ogni altra proprietà successiva. Appare ora con evidenza il dato paradossale della questione: ciò che è il ‘comune’ è identificato esattamente con il suo più evidente contrario (il ‘proprio’); comune - in tali filosofie – si pensa come ciò che unisce in un'unica identità la proprietà (etnica, spirituale, territoriale) di ciascuno dei suoi membri, che avrebbero in comune il loro proprio: essi sono i proprietari del loro comune (R. Esposito, op. cit., p. IX del capitolo introduttivo: Niente in comune). Soltanto una riconsiderazione linguistica radicale può rendere ragione di tale ambiguità semantica. Il filosofo, infatti, con ardito ma convincente acume conduce l’interrogazione attraverso una complessa analisi etimologica sul termine latino communitas – “ciò che non è proprio, che comincia là dove il proprio finisce” – (cui rinviamo: R. Esposito, op. cit., pp. IX e segg.). Ma anche sui differenti e tuttavia convergenti significati di munus, onus e donum, che tutti rinviano – infine – all’area concettuale riconducibile complessivamente all’idea di dovere, obbligo, nella relazione circolare tra dono-scambio-debito: il donum non attende soggettivamente restituzione, ma una volta che hai accettato il munus sei posto in obbligo (onus) di ricambiarlo, in beni o in servizi, sei in “debito”. Il munus è il dono che si deve dare e non si può non dare. Ciò che infine prevale nel senso del munus è la reciprocità del dare, che resta infine l’atto proiettato dall’obbligo di restituire qualcosa che non si può tenere per sé, e di cui non si è più del tutto padrone. Questo non può implicare alcuna stabilità di possesso: è sostanzialmente perdita, sottrazione, cessione. Nella relazione sociale, il munus/onus/donum è pegno, tributo che si paga in forma obbligatoria. Qual è – dunque – la cosa che i membri della comunità hanno in comune? Communitas è l’insieme di persone legate da un im-pegno, non da una proprietà, ma appunto da un dovere o da un debito, non da un “più” ma da un “meno”, da una mancanza. Ciòè: il munus che la communitas condivide non è, dunque, una proprietà o un’appartenenza, ma un debito, un dono che si dovrà dare e che perciò è già, in potenza, una mancanza. Si rovescia così, finalmente, la corrispondenza comune/proprio: il comune non è caratterizzato dal proprio, ma dall’improprio, o – con più radicale conseguenza – dall’altro, da uno svuotamento della proprietà nel suo negativo, fino a condurre i soggetti - nell’impossibilità di un’identificazione individuale fuori della relazione comunitaria - ad uscire da se stessi, ad alterarsi, non potendo contare sul possesso stabile della pienezza ontologica della persona: essi sono mancanti a se stessi (non soggetti) in quanto “donanti a” e ‘donati da’, e in comune non hanno altro che quel “vuoto” prodotto dal perpetuo e necessario donare e donarsi che solo mantiene la comunità. Con folgorante notazione, Esposito ricorda la formidabile duplicità semantica del francese personne = “persona” e “nessuno”. Dunque, questa idea filosofica convenzionale e consolidata di comunità come proprietà (e così demistificata da Esposito) non può essere posta a fondamento costitutivo di quelle “piccole patrie” (come appropriazione/identificazione territoriale dell’abitare appartenente) cui guardano nostalgicamente (e possessivamente) vecchi e nuovi comunitarismi. La località identitaria stessa, cioè, è investita dal paradosso: essa non è una proprietà, un “pieno”, un territorio da separare e difendere rispetto a coloro che non ne fanno parte, ma – al contrario – un vuoto, un debito, un dono (sono i significati riflessi di munus) nei confronti degli altri, che “ci richiama al tempo stesso alla nostra costitutiva alterità anche da noi stessi”. Se la Località è prodotta/costruita/abitata da comunità, omologamente a quest’ultima, essa è soggetto della propria mancanza, Luogo che, nella materia geologica/urbana, naturale/artefatta, riflette fisicamente/poeticamente la mancanza del proprio. La Località è cioè “persona” spaziale, ma, mancante del proprio identificante, è priva - costitutivamente - di univocità figurale fissata: il tragico della Località, nella coscienza moderna e contemporanea, è che può anche essere “nulla”. Come “personne” geografica/spaziale essa esprime sia il massimo di “identificazione” come de-terminazione territoriale, sia la assoluta mancanza di possibilità di appartenenza, di appropriazione individuale. LA COMUNITA' DEI VIVENTI Alberto Cuomo Con la fine, decretata da tempo, degli "eroismi" dell’architettura modernista, rivolta a cambiare il mondo o, almeno, a prendere parte alle politiche rivolte a determinare più significativi livelli di uguaglianza, può la cultura del progetto rassegnarsi ad essere solo propositrice, come è in tante esperienze attuali, di estetizzanti "rivestimenti" per operazioni real estate? E' indicativo che, mentre gli stati non prevedono, nei propri bilanci, sovvenzioni per l'edilizia residenziale sociale, gli architetti più in voga disdegnino dall'occuparsi della residenza, e generalmente dell’ambiente di vita che essa induce, mancando loro, come si evince dai propri scritti, ogni idea sull'abitare, singolare e collettivo. Viene quindi da chiedere, in prima istanza, in cosa possa consistere il vivere-con, ovvero quale possa essere il senso della "comunità" cui improntare i nostri luoghi futuri. In diversi saggi Zygmunt Bauman ha messo in luce la duplicità dell'abitare nella megalopoli contemporanea, quasi una doppia modalità della reclusione che, alla stanzialità immobile di quanti, isolati dagli altri e detentori di incorporei poteri extraterritoriali privi di luoghi deputati, si muovono nell'universo globale con i mezzi informatici, o nel mondo attraverso velocizzati spostamenti meccanici, fa corrispondere l'assorta mobilità di chi è staticamente legato al proprio vivere localizzato, escluso dai territori del globale, non incidente in essi, compreso in una spazialità misurabile su conclusi metri, sino a quella più contenuta di chi è ghettizzato, anche volontariamente, in forza dei suoi connotati, ideologici, sociali, etnici. Ancora secondo Bauman le attuali metropoli, del tutto uniformi negli aspetti architettonici, pur nella riconoscibilità dei siti storici e originari, sono un misto, ed anzi una “battaglia”, di mixofilia e mixofobia, in quanto caratterizzate, da un lato, dall’appeal della mescolanza delle differenze e, dall’altro, dalla paura nei suoi confronti. In particolare può dirsi che in esse venga sempre più meno lo spazio pubblico inteso quale spazio della libera circolazione e del promiscuo, in cui la diversità sia di arricchimento per il singolo, in favore di luoghi “sterili”,ovvero ripartizioni spaziali che, sebbene non private, sono disponibili esclusivamente ad accessi selezionati e specializzati. A questi spazi fanno riscontro quelli residenziali, del tutto separati dal resto della città, detti da Steven Flusty “spazi preclusi”, quali ad esempio le gated communities, dove abitano e si frequentano persone che si riconoscono simili anche nella comune volontà a tenere fuori il dissimile. Pur nella critica al comunitarismo degli ambienti chiusi che si determinano nel timore delle liquide mescolanze della megalopoli, per Bauman è la ricostruzione di spazi urbani, cui far corrispondere la loro appropriazione da parte dei cittadini, ancora la città cioè, il luogo concreto dove si può sperimentare, oltre lo scontro e la paura, un possibile dialogo tra i diversi, rivolto a costituire e formare quell’animus del mondo globale che potrà condurre alla più vasta comunità umana 1. Nei saggi di Bauman,nell'idea della riappropriazione dei luoghi urbani, rispetto alla attuale "sovversione dei territori", da parte di una comunità costituita nell'armonizzazione dei differenti,riecheggia la distinzione di Ferdinand Tönnies tra Gemeinschaft, comunità, e Gesellschaft, società, aggiornata in una possibile commistione. E infatti, sintetizzando il proprio pensiero in una recente intervista, il sociologo polacco, dopo aver ribadito che la comunità è il luogo delle "radici", della sicurezza offerta dalla vita in comune, del senso di appartenenza, del riconoscimento identitario,diversa dalla società, articolata sui diversi inter-essi, sul loro conflitto, aperta alla vastità del mondo e, quindi, insicura, spaesante, disidentitaria, ha osservato come l'uomo non possa non vivere in entrambe, tra la necessità della sicurezza, pure nel rischio di un limite alla sua libertà, che lo conduce a ricostruire comunità diverse nella stessa odierna liquidità dei rapporti sociali, e quella del proprio espandersi nella società globale, malgrado il pericolo della dispersione, così come mostra in qualche maniera la "rete", comunità e società insieme: "la libertà senza la sicurezza sarebbe il caos completo, la sicurezza senza la libertà sarebbe la schiavitù"2. Già in Voglia di comunità, comunque, il testo tradotto in Italia nel 2001, Bauman aveva precisato la propria idea circa il necessario incrocio di comunità e società. Messa ancora in luce l'insicurezza, la solitudine, del cittadino globale, da cui cresce il desiderio di accoglienza, di comprensione, in un ricerca del comunitario, Bauman rilevava nel suo saggio come, oltre l'appartenenza territoriale, è sul terreno della cultura che si fonda una sua possibile ricostruzione, sia riferita ad un radicalizzato vincolo originario - si pensi alle comunità che si riconoscono in un credo religioso- sia ad un più effimero legame connotato da momentanee passioni, come è per i fan-club delle stelle rock, o dalla necessità di contrastare una minaccia comune, come è per i gruppi di "aiuto-aiuto", tutte"comunità-gruccie", fragili "comunità estetiche", utili a determinare identità precarie, proprie all'uomo globale, 1 I testi di Zygmunt Bauman che affrontano l’analisi qui riportata, sino a quella sulla condizione della vita sociale di stranieri, paria, parvenu, vagabondi, eroi e vittime della postmodernità, sono Il disagio della Postmodernità, trad. it. di V. Verdini, Bruno Mondadori, Milano 2002, i capitoli 2,4,5 e 6 e Vita liquida, trad. it. a cura di Policy Press Ltd Cambridge, Laterza, Roma-Bari 2006, al capitolo Rifugiarsi nel vaso di Pandora già riportato in Fiducia e paura nella città trad. it. di N. Cagnone, Bruno Mondadaori, Milano, 2005. 2 L'intervista a Bauman curata da Carlo Bordoni è in Communitas, uguali e diversi nella società liquida, Aliberti, Reggio Emilia, 2013. anche a quello più "affermato"che rifugge da sentimenti ed intimità, nuovo Don Giovanni mozartiano, il quale pure avverte il bisogno di comunità quale luogo però di cui facilmente fare a meno, del tutto flessibile al suo farne parte o uscire. Oltre l'estetico che, come mostra anche nelle sue analisi sul mondo dell'arte, produce solo momentanee comunità del senso, neppure l'etico, sia inteso nella responsabilità e nell'apertura del soggetto verso l'altro, il suo volto, come è nel Levinas criticato in altri scritti, affidato cioè al singolo, sia quale vincolo di solidarietà collettivo (o collettivistico), appare per Bauman idoneo a migliorare i rapporti tra gli uomini nel nostro mondo, dal momento che, nel primo caso, l'etica singolare non si propone come giustizia, e, nel secondo caso, la solidarietà finisce con l'essere una gabbia, un modo di uniformare gli esseri in una condivisione che mortifica l'identità, il proiettarsi di ciascuno verso l'affermazione di sé. Di qui l'idea di una comunità delle identità, la reinterpretazione del multiculturalismo non inteso come ulteriore diserzione nei confronti dell'altro, ovvero quale indifferente accettazione di una neutra convivenza dei differenti, quanto luogo di una loro intersezione (il "creolismo") costituito da diverse identità collettive ovvero da collettività diverse che nell'incontro esaltino la propria identità e l'identità di ciascuno. Ed è anche in questo senso che si pone la riproposta dell'urbano, del ritorno alla città ed ai suoi spazi pubblici, nell'augurio, con Jonathan Manning, che avvenga "uno spostamento d'interesse che faccia passare dalla progettazione di spazi privati a quella di un più ampio spazio pubblico che sia insieme fruibile e stimolante...agendo come un catalizzatore invece che come una barriera all'interazione umana", o, con Nan Ellin, che si produca "un'urbanistica integrale" rivolta "a costruire città che siano tali da alimentare la comunità e l'ambiente che in fin dei conti ci sostenta", per concludere che "si può essere differenti e vivere insieme, e si può imparare l'arte di vivere con la differenza, rispettandola, salvaguardando la diversità dell'uno e accettando la diversità dell'altro. Si può farlo ogni giorno, impercettibilmente, in città...e sviluppare realmente le capacità che serviranno non solo sul piano locale, nello spazio fisico, ma - in fin dei conti - anche sul piano globale" essendo la "società umana diversa dal branco animale...nata insieme con la compassione e con l'aver cura, qualità soltanto umane", una compassione ed una sollecitudine che, rivolgendosi al lettore, è necessario estendere al piano planetario "cominciando dalla vostra casa, dalla vostra città, adesso"3. Il ripensare la comunità,ancor prima del saggio di Bauman del 2001, e in termini del tutto diversi, è stato al centro della riflessione di alcuni filosofie, particolarmente, dei più significativi interpreti di quella che Dario Gentili ha definito Italian Theory: Massimo Cacciari, Roberto Esposito, Giorgio Agamben, con il francese Jean Luc Nancy4. Se in Bauman la comunità, pur non ponendosi in opposizione alla società per coltivare anzi le sue differenze, si riconosce ancora nell'appropriazione, molteplice e comune, sia di prerogative immateriali che di cose fisiche, nell'appartenenza ad un sentire, ad una cultura, ad una tradizione intesa propria o nel far proprio un luogo, la città, gli spazi urbani da allestire nella stessa megalopoli, i filosofi hanno indagato invece il cuore stesso di quel "proprio" che animerebbe il soggetto comunitario. Già nel 1983 Nancy, con un articolo per la rivista «Aléa», La communauté dés oeuvrée, che produrrà un volume dal medesimo titolo,si interroga su ciò che è "in comune", su quanto ci accomuna o si pensa comunemente ci accomuni. A partire dal declino del comunismo e dal considerare, secondo quanto scriverà anche nella introduzione al libro di Maurice Blanchot, Lacommunauté inavouable, che nel mondo globale non vi è guerra di civiltà, quanto "la guerre civile d'une improbabile communaeté mondiale traduite dans l'appelà une communauté suressentielle contre le commun du commerce et de la comunication" che sfugge "la difficulté veritable de l'être en commun", Nancy osserva come l'idea della comunità, in occidente, abbia una natura "sovraessenziale", nel senso che se ne presuppone una essenza, ritenuta essenza dell'uomo, da realizzare: "una comunità presupposta in quanto comunità degli uomini presuppone la realizzazione integrale della sua propria essenza, che diventa così il compimento dell'essenza dell'uomo" 5.Ed è in tale modo di intendere la comunità che si manifesta la sua operosità, ovvero il richiedere, a quanti si riconoscono nella sua presupposta essenza, di operare per la sua e la propria realizzazione. La comunità si pone cioè in una riconosciuta essenza comune che impone il suo inverarsi, poco importa se di natura economica, come in Marx, o fondata sul sangue e sul suolo, possedendo tutte le sue figure un'impronta metafisica (che imparenta tanto il socialismo reale che il più spinto individualismo liberale) identificativa di un assoluto. Sviluppata la critica - la decostruzione - della contraddizione intrinseca all'assoluto, alla sua presunta solitudine e separazione che lascia ciò da cui si separa a propria volta in una separata, assoluta, solitudine sì da renderlo un relativo, Nancy rileva come oltre ogni presupposto, ogni principio metafisico, comune/comunitario, da cui far discendere verticalmente l'operare per il suo realizzarsi, non si dia che l'esposizione orizzontale di diverse "singolarità" - "un corpo, un viso, una voce, una morte, una scrittura" - che com-paiono 3 Z. Bauman, Vita liquida, op. cit. e, anche, Voglia di comunità, trad. it di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari, 2001. Il saggio di Dario Gentili, Italian Theory. Dall'operaismo alla biopolitica, Il Mulino, Bologna, 2012, percorre la parabola del pensiero filosofico italiano recente che va oltre i filosofi citati, i quali però sono quelli che maggiormente si sono interrogati sul concetto di "comunità" e, generalmente, sulle prospettive sociali e politiche del mondo globale. 5 J. L. Nancy, La comunità inoperosa, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 1995, p. 22. 4 (cum-pareo, apparire insieme) nella loro finitezza6. Ed è in tale com-parire che può riconoscersi già il comunitario, essendo il comparire sempre quello dell'uno all'altro, ciascuno nel limite che si determina nell'incontro e che è in fine segnato dalla morte, non intesa nel senso di mero termine della vita, quanto dell'essere-per heideggeriano, della possibilità del non essere nella possibilità che accomuna entrambi, nel loro stesso vivere, o nella "gioia di fronte alla morte" di cui scrive Bataille, esperita da una singolarità che raggiunge, nell'incontro con l'altro, nella somiglianza quale condivisione della finitezza e nella differenza da lui, il proprio con-fine 7. La comunità si determina cioè su tale limite, comune nel suo essere nullo, luogo della fine, il quale, potrebbe dirsi, identifica senza identificare, dal momento che, costituendosi nell'incontro con l'altro dove è condiviso dai due senza che nessuno di essi lo oltrepassi per appropriarsidell'altro, ancora nella terminologia di Bataille soglia della passione, del contagio in cui si forma la singolarità, di fatto non "c'è", sfrangiato com'è nella moltitudine degli affetti e privo di precisati lineamenti, sì che può dirsi non ci sia né definitiva singolarità, né definitivo limite, essendovi solo il molteplice scambio in cui essi, singolarità e limiti, si ritagliano sì che la comunità sia l'immillato tracciato che si intesse nella duale "spartizione" dei bordi che si determinano negli incontri esposti appunto in un neutro, vuoto, limite. Senza soffermarsi qui sulle modalità secondo cui il "bordo" di ciascuno, offra una identificazione ed insieme, quale confine di una affettività nei confronti di un'altra singolarità, un affaccio verso questa che rimane in sé, e su come nelle dualità dei bordi si diano i limiti del comunitario, è palese come una tale comunità non si fondi su proprietà comuni presupposte - e semmai sulla differenza di ciascuno - o su essenze da realizzare, quanto nelle relazioni che ogni singolarità muove costituendosi in un sé plurale,sì da poterla dire, nell'assenza di un lavoro da e verso una essenza comune, inoperosa. L'inoperosità cioè consiste nel fatto che non c'è da realizzare alcun prefissato progetto o solo carattere, comune alle singolarità, e che essa vive nello scambio del "limite", nel "dono" continuo del loro comune-comunicare. In questo la comunità è attiva, ma di una attività che non mette in opera qualcosa se non se stessa così come si determina negli scambi, nei doni, nelle affezioni, nei contagi, nelle passioni tra le singolarità, ovvero di "un'attività inoperosa e inoperante", una "praxis" che ha in se stessa il fine e che quindi discioglie ogni tessuto sociale o comunitario quale definito intreccio di trame, di ruoli, in cui il comune, irrigidendosi in definite parti, di fatto viene meno. Né "l'infinito intrattenimento" dei sensi del comunitario che si determinano nelle spartizioni delle singolarità nasconde ancora un presupposto, il limite nullo su cui esse si ritagliano come fonte originaria sia pure vuota, se tale limite su cui si instaurano le spartizioni, gli incontri, delle singolarità non è inteso né come un prius né come un fine, costituendosi, indecifrato, fuori dal senso, in ogni spartizione, in ogni senso. L'analisi di Nancy, rigorosamente filosofica, possiede implicazioni sociologiche e politiche, ed è sulla necessità di reinterpretare la relazione, anche politica, di Occidente ed Oriente, che Massimo Cacciari si sofferma sulla peculiarità europea per riflettere anche sul cum del comparire/confliggere dei distinti. Sono cioè i due volumi, il primo Geo-filosofia dell'Europa, nato da un intervento al seminario organizzato da Nancy e Lacoue-Labarthe presso l'Università di Strasburgo e pubblicato nel 1994, ed il secondo, L'arcipelago, del 1997,scritto lungo la "traccia" di un saggio pubblicato nella rivista «Études» vol. 384, n.3 del marzo 1996, a soffermarsi, in particolare, sul "conflitto" che è l'Europa sin dall'origine il quale,emergendo proprio all'atto della sua unità comunitaria, impronta tutti i comunitarismi occidentali. Ogni armonia, non solo dell'anima divisa, si fonda in Europa, sin dai primordi in cui si distacca dal tutto, sulla lotta, sull'agon, e solo dal Due, dalla differenza, o meglio, nel Due e nella differenza, emerge la sua e ogni possibile identità. Europa, dalla multiforme Ionia in cui convivono Occidente e Oriente, "senza la fatica di doversi riconoscere", si origina infatti nella scissione determinata dalla hybris greca e confermata dalle guerre persiane, in una divisione cioè che vede entrambe le sponde non poter non essere nel conflitto, assumendo un compito più problematico dello stesso polemos: conoscere se stesse. Alla ricostruzione storica della divisione di Occidente e Oriente corrisponde altresì il mito, il sogno della Regina Atossane I Persiani di Eschilo, che vede due donne imponenti aggiogate come cavalle al proprio carro dal figlio Serse, di cui una, Asia, maggiormente disponibile alle briglie, al sistema imperiale, e l'altra, Ellade, riottosa - unita nell'etnia e nella auto-nomia delle polis -tale da rompere giogo e carro. E' sulla distinzione da Asia quindi che si identifica Ellade, Europa, ed è in tale distinzione, non solo polemos, conflitto, quanto stasis, contesa, rivolta e insieme riappacificazione, che entrambe si riconoscono nel loro convivere nella differenza. Una stasis pure interna ad Ellade, tanto che, se è "idiota", oltre il "dormiente" d'Asia, anche l'agitato elleno che non intenda come il limite della propria autonomia non possa non sussistere con l'illimite, il greco il quale percepisca nel polemos solo la dissonanza o ritenga armonia una determinata connessione, essa stessa conoscerà la catastrofe del Nomos su cui si allestiscono le proprie polis qualora dimentichi il Cum originario da cui si è determinata nella differenza. Parte che vive da e in una de-cisione che in sé rinvia a ciò da cui si decide, Europa non può produrre alcun Ab-solutum, così 6 "... la finitezza com-pare e non può che com-parire, intendendo con questo che l'essere finito si presenta sempre insieme, dunque a molti, e che al tempo stesso, la finitezza si presenta sempre nell'essere in comune ..." ibidem, p. 66 7 "La similitudine del simile è fatta dall'incontro degli 'esseri per la fine' che questa fine, la loro fine, ogni volta 'mia' (o 'tua') assimila e separa con lo stesso limite, al quale e sul quale essi com-paioni", J. L. Nancy, ibidem, p. 75. come al suo interno ciascuna singolarità non può non riconoscersi nella differenza che in sé accomuna in quanto in comune: "É proprio affermando la mia differenza con l'altro, la mia singolarità, che io sono con lui - anzi: che io sto, che stando necessariamente mi oppongo a ciò che mi sta di fronte a sua volta (stásis), e che in questo confronto, in questa contesa, mi riconosco con lui. L'altro diviene l'inseparabile Cum. La mia 'libertà' da lui è la mia 'amicizia' con lui. Per poterlo ospitare dovrà essermi hostis."8 Dal tema preliminare dell'origine divisa di Europa, dal considerare come il dramma di Sofocle rappresenti la necessità di aggiogare la cavalla dorica mediante una Legge più potente dello stesso Grande Re persiano, il"despótes nómos" della polis, che tenga il suo 'giusto' anelito alla libertà nella connessione degli opposti, nella memoria del Cum originario che la fonda, la cui dimenticanza condurrebbe a una rovinosa sconnessione, Massimo Cacciari attraversa le diverse forme, da Platone a Machiavelli, a Hobbes, in cui si è immaginata la possibilità di armonizzare i distinti tenendo viva, o valutando, la loro differenza, costitutiva dell'Occidente, per osservare che nessuna forma, nessuna armonia, nessuna pace possa concepirsi se non quale connessione tra i distinti, ravvisandosi il comune, ciò che accomuna, proprio nell’essere distinti, nel senso che è la differenza condivisa dai distinti, la reciproca opposizione, ad essere già una connessione, tanto più forte quanto più la distinzione implichi la possibilità del venir via, dello sfuggire la relazione, dove la stessa separabilità, limite ultimo della distinzione, costituisce il nodo della inseparabilità. Né la connessione si fonda sulla tolleranza dell’altro, la quale è invece rivelativa della non considerazione della sua verità, o su una mediazione, quanto sulla condivisione di un reciproco distinguersi/opporsi, dal momento che“la perfezione della distinzione implica che ciò che riguarda essenzialmente il distinto sia ciò da cui esso si distingue. Mai l’assolutamente distinto può ek-sistere se non con ciò, insieme a ciò da cui si distingue. Nel Cum, nello Xynón esso è davvero tenuto nella «kraterà Anánke» che lo individua …(e) la singolarità non può darsi se non insiemeall’altro da cui si distingue – ma non ad un altro ‘quieto’ nella sua distinzione, bensì ad un altro che fugge, ad un altro còlto sempre nell’istante del suo prender congedo. E quale assolutamente distinto sarebbe altrimenti? Un distinto fisso nel suo luogo, secondo una definita misura, è apriori elemento e funzione di una composizione armonica, parte di un cosmo, in nessun modo singolarità. Noi cerchiamo qui, invece, quella forma della connessione che non è altro dall’assoluta distinzione…quella relazione che avviene con ciò che fugge sempre… con quel distinto veramente assoluto (e cioè sciolto da ogni necessaria connessione)… con quel distinto che mi abbandona, che mi manca, che mai comunque posseggo, che mai potrò ‘calcolare’ nel Numero di un’armonia, a priori dal suo evenire”, con il quale “io sono in una assolutizzabile (non scioglibile) connessione” 9.Tra i diversi modi di concepire l’armonia dei distinti, o meglio la loro connessione, Cacciari indica quello illustrato nel De pacefi dei di Niccolò Cusano, dove le diverse fedi religiose,a propria volta “distinti”, sono intese quali congetture, modi cioè di rivelare la Verità “inattingibile”, le quali tengono alla propria distinta verità accettando, ed anzi volendo, che altre fedi custodiscano la loro, dal momento che “nessuna congettura è la Verità, ma lo Spirito può, se vuole animarle tutte. Io non so dove spiri più forte, proprio perché spira dove vuole. Nessuna congettura o nome o lettera può destinarlo, così come in nessun luogo lo si venera veramente, se non nel fondo-non-fondo dell’éndonánthropos, dell’uomo interiore. Ma l’uomo interiore è singolarità perfetta e indicibile da questo uomo. E dunque soltanto rivolgendoci alla perfetta singolarità troviamo il comune di tutti i nomi e tutte le preghiere. Le nostre congetture ‘congetturano’ appunto di tale inafferrabile Singularitas; sono in-comune per l’Inattingibile…”. Saprà essere l’Europa, l’Occidente, comunità delle congetture, dei distinti, dell’inattingibile, o non finirà nel naufragio immaginato dai “grandi poeti dell’ultima talassocrazia, … nel naufragio che è destino di ogni potenza del mare e dell’aria, di ogni oblio della terra?”10 Saprà cioè accogliere il proprio tramonto nell’estendersi al globo della propria potenza o non farà di tale potenza il luogo di un naufragio? E la figura del mare apre, da questa interrogazione, il testo successivo su L’arcipelago, modello della comunità dei distinti cui è chiamata Europa, si direbbe figura del comunitario così come delineato da Nancy. Il mare europeo, mare dai molti nomi, è “il Mare per eccellenza”, appunto archi-pélagos, la cui verità “in un certo senso si manifesterà, allora, là dove esso è il luogo della re8 E continuando: "Nessuna armonia mai sarà astratto superamento della differenza, e nessuna differenza è affermabile come astratta negazione dell'armonia. Poiché la connessione che l'armonia esprime è molto più del semplice accordo tra opposti: essa vale come l'opporsi stesso in quanto a tutti comune." In M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, Adelphi, Milano 1994, p.25 9 Cacciari qui prosegue: " Che cosa è propriamente il Comune, to Xynón se non il differire? In che cosa ogni ente è comune se non nel suo differire? Ma la distinzione allora effettivamente vale quando è possibilità della stessa separazione… Il movimento complessivo si dispone, perciò, secondo questi ‘tempi’: riconoscere che il Cumnon è méson, mezzo armonico, né denominatore comune, che esso non è alcun elemento, alcuna rappresentazione in sé determinata, ma il differire stesso; riconoscere che i distinti, proprio perché assolutamente tali, si riguardano l’un l’altro, che l’uno ha bisogno dell’altro nella sua verità, proprio per essere l’assolutamente distinto che è; riconoscere che i distinti così considerati, debbono riguardarsi fino alla possibilità della loro separazione, e cioè del loro stesso venir meno in quanto distinti, che questo è il limite estremo della loro relazione, e dunque ciò che dà forma a tutto il loro rapporto. Non un’armonia, una connessione a priori, una Legge cosmica li costringe alla connessione (ciò che significherebbe annullarne di fatto la qualità di distinti, non tollerarne la reale distinzione), ma essi si connettono per l’apparire stesso della loro differenza - una differenza ‘libera’ di pervenire alla stessa pura separazione". Ibidem, pp. 146-148 10 Ibidem, pp. 149-159. Il testo di Cacciari non si conclude qui, quanto nella lettura del “Dio Ultimo” di Heidegger che appare qui complesso riassumere. lazione, del dialogo, del confronto tra le molteplici isole che lo abitano: tutte dal Mare distinte e tutte dal Mare intrecciate; tutte dal Mare nutrite e tutte dal Mare arrischiate”11. L’arcipelago si manifesta cioè nel non connettere in un’unica terra, o in un’ordinata gerarchia, le diverse isole, né nel lasciarle disperdere in una isolata deriva, per costituirsi di città autonome che, muovendo l’una verso, o anche contro, l’altra, vivono nella inseparabilità del loro essere distinte. E non è forse arcipelago il limite mobile che divide e unisce i bordi, ritagliati dall’acqua, sempre la stessa e pure sempre diversa (non eraclitea) delle singolarità-isole di cui parla Nancy a proposito della comunità? Così come nel testo sull’Europa, anche in quello sull’arcipelago, attraversati i diversi modi in cui, particolarmente nei poeti, si è tentato di offrire all’uomo un luogo stabile, posto oltre la fluidità marina, utopico, o di immergerlo nell’atopia, Cacciari giunge a tratteggiare i lineamenti della singolarità in cui si manifesta una “articolazione aperta” alla molteplicità, all’estraneo, ritrovandola nell’übermensch nietzschiano, colui “che resiste ‘oltre’ tutte le maschere dell’uomo e la morte dei suoi dei dopo averle tutte attraversate… Chi «dona sempre e non vuole conservare se stesso», chi prova orrore di fronte alla specie degenerata che dice «tutto per me», chi resiste ‘aperto’ alla pura dépense, chi sa spegnere in sé ogni volontà di appropriazione delle cose che ama, chi si svuota,… l’Aperto potrebbe essere il suo nomen propinquius: ‘luogo’ che accoglie e che dona, ‘luogo’ che non si appropria di ciò che riceve ma lo alimenta, ‘luogo’ che non trattiene non cattura, ma ri-lascia ogni cosa al suo tramonto. Non altro che questa idea – assolutamente aniconica – è l’Oltreuomo… abbandono di tutte le immagini e di se stesso, il divenire dissimile e straniero a tutto – ma così dissimile da essere dissimile dallo stesso dissimile, e dunque aperto e amico di tutto, donatore e dono per tutti” la cui essenza è una “co-essenza, (ego sum=ego cum), nel senso… della com-possibilità. L’oltreuomo esprime l’idea di una dimensione libera dal gioco delle determinazioni, dove i possibili si partecipano proprio nel custodire la loro distinzione. Nessuna comunità ‘obbligata’, fondata su idola insuperabili – ma comunità di coloro«che amano solo separarsi, allontanarsi», «comunità di quelli che non hanno comunità»… una comunità di «amicizie stellari», dove philìa si dia veramente nei termini di una xenìa, come legame di accoglienza, vincolo di ospitalità nei confronti di chi è veramente straniero” che ci appare come un dono, “e cioè, appunto, donazione di senso, Sinn-gebung”12. Se appare palese in Cacciari un’idea della singolarità e della comunità affine a quella di Nacy, sia pure declinata in modi diversi, è nei saggi di Esposito ed Agamben che pure si avvertono analoghi echi. (segue) 11 12 M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano, 1997, p.16. Ibidem, pp. 144-148. CRONACHE DI UN FALLIMENTO ANNUNCIATO Emmanuele Jonathan Pilia Cronaca bianca Tra le grandi operazioni edilizie pubbliche promosse negli anni ’70 e ’80 in Italia, l’intera vicenda che coinvolge la realizzazione e la gestione del Nuovo Corviale è forse quella maggiormente controversa. Progettato nel 1972 da un team di architetti capeggiato da Mario Fiorentino, il Serpentone, come è stato ribattezzato, avrebbe dovuto rappresentare un modello di sviluppo abitativo nato dalla reazione allo sviluppo urbanistico che ha riversato nelle periferie di Roma i più putrescenti liquami edilizi nell’agro romano. Si parlerà di “boom edilizio”, “edilizia spontanea”, “quartieri dormitorio”. Ma il conio più calzante è quello che farà riferimento agli atti predatori dei lanzichenecchi nel 1527: “sacco di Roma”. La scelta di Fiorentino fu radicale, in linea con le avanguardie più oltranziste che in Italia si erano sviluppate fino ad allora: alzare un’enorme diga di cemento, capace di arrestare la colata che si faceva strada verso il Mediterraneo, lasciando dietro di sé un’infezione cancrenosa in perpetuo assedio ai gangli linfatici della città. Un assedio a cui, infine, partecipò anche il Corviale: affidati ad un’unica impresa edile, i lavori si arrestarono a causa del fallimento dell’impresa stessa, lasciando l’opera incompiuta e priva dei servizi previsti nel progetto. La pachidermica amministrazione capitolina fece poi in modo che le prime abitazioni furono consegnate solo 10 anni dopo l’inizio dei lavori. La recalcitranza della burocrazia ad accelerare le pratiche di assegnazione dei vani, la mancata realizzazione dei tanto acclamati “servizi”, le lacune contrattuali in termini di manutenzione dell’immobile e un atteggiamento di lassismo e indifferenza degli organi di controllo, hanno dato il via alle occupazioni degli appartamenti e del saccheggio delle aree pubbliche. Circa settecento famiglie si insediarono nel colosso prima delle consegne delle abitazioni, saturando le viscere del colosso. Il famoso piano dei servizi, fiore all’occhiello del progetto di Fiorentino, una volta dichiarata la sua morte, ha nutrito con la sua carcassa centinaia di reietti in cerca di un riparo, i quali non hanno esitato a rattoppare come meglio possibile quegli spazi strappati al destino di divenir nulla spaziale. L’alleanza con il centro istituzionale ed amministrativo, quel centro astratto e metaforico da cui vengono prese le decisioni che danno forma alla città e che ha fecondato, con un tratto di penna, l’atto che porterà alla sua nascita, verrà spezzata, e da antagonista della barbarica avanzata verso l’agro, Corviale ne è diventato il campione e il baluardo. Così, da simbolo della rivolta all’anarchia che arriva da nord, il vallo si è trasformato a sua volta nel fortino dei rivoltosi. Si è parlato a lungo del fallimento della disciplina architettonica, troppo a lungo ostaggio delle proprie idiosincrasie, o di un’utopia bruscamente fatta scontrare contro il muro di pietra dei nudi fatti. In realtà, queste affermazioni sembrano dei sottili diti dietro cui nascondere la poca lungimiranza della proposta, il cui principale problema risiede nella stessa concezione del progetto del gruppo di Fiorentino, testardamente cieco di fronte agli sviluppi che il settore dell’edilizia residenziale economica e popolare che si era avuto dal dopoguerra in poi. Corviale non sarebbe mai stata la diga che avrebbe arginato l’avanzare caotico per cui era pensata, che il progetto fosse stato dotato dei servizi e supportato da un coerente sforzo amministrativo o meno. Cronaca gialla Perché questo? Il Nuovo Corviale nasce al tramonto dei dogmi elaborati in un’Europa che accettava senza troppe riserve la coesistenza di governi solo nominalmente democratici con altri dichiaratamente dittatoriali, e che già al termine del conflitto mondiale mostravano le proprie lacune. Occorse trovare una soluzione veloce ed efficace al problema della mancanza degli alloggi. Ma questo fu fatto costruendo identità posticce rigurgitate dalla macchina della propaganda. Identità in cui il riconoscimento di una comunità era delegato all’unico totem del patriottismo. Un totem troppo debole per supportare quello che è uno dei bisogni umani fondamentali. D’altronde, questa identità collettiva non viene sviluppata dal nulla, né viene può essere elaborata dalla comunità stessa. "No: anche i soggetti collettivi arrivano a sapere di essere qualcosa o qualcuno solo se qualcun altro dice loro chi sono. In sostanza, la nostra identità arriva sempre da chi ci identifica dall’esterno, è sempre riflessiva, è un dono (o un furto) dell’altro" 1. Infatti, nella Società dello spettacolo tale riconoscimento non dipende solo dalle relazioni e dai legami che si sviluppano all’interno della comunità, ma anzi, soprattutto, dalle relazioni indirette e mediate che hanno luogo nel dominio della comunicazione. Un dominio che è il principale responsabile della creazione e della diffusione di segni e simboli capaci di dar vita a un immaginario 1 M. Senaldi, Il Corviale immaginario, in Flaminia Gennari Santori, Bartolomeo Pietromarchi, Osservatorio Nomade. Immaginare Corviale, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 23. coerente, monolitico, perfettamente aderente alla pelle del Corviale. Paradossalmente, parlare di immaginario equivale a parlare di cliché, di luoghi comuni, di qualcosa che è stato comunque già visto o sentito. Ovviamente non basta sottolineare la validità degli assiomi che compongono un immaginario, poiché per fissarsi solidamente nella mente di chi farà proprio questo immaginario, tali cliché devono avere una propria potenza, una pervasività ed un’unicità tali da rendersi in qualche modo indistinguibili. Jean-Paul Sartre illustra bene questo meccanismo nel suo testo L’immaginario, nel quale descrive la difficoltà di elaborare l’immagine mentale di un determinato uomo in situazioni diverse dalle quali noi siamo abituati a riconoscerlo. Sartre fa l’esempio dell’immagine del suo amico Pierre, parigino amante di tali passioni letterarie, attualmente a Berlino: ogni tentativo di richiamare l’immagine mentale del suo amico Pierre a Berlino conduce al fallimento, in quanto l’immagine di Pierre, nel suo appartamento parigino, con i suoi abituali abiti, le sue abituali letture, la sua abituale espressione, sovrasta ogni tentativo di richiamare a sé altre immagini. Ogni dettaglio deve essere noto, affinché sia possibile elaborare un immaginario. Ma se ogni dettaglio è già noto, cos’è che stupisce di questo edificio? È vero, ogni dettaglio ci è già noto ma il montaggio della struttura devia la nostra attenzione, facendola focalizzare su determinati oggetti, e non su altri: sono queste le spezie che danno quello specifico “sapore”. “L’apprensione di questi oggetti avviene sotto forma di immagini, cioè essi perdono il loro senso proprio per diventare immagini. Invece di esistere di per sé, allo stato libero, sono integrati in una nuova forma”2. Qualcosa di simile avviene quando leggiamo un testo: non ci accorgiamo della presenza delle singole lettere, così come non cogliamo istintivamente la “forma” delle stesse. La nostra attenzione non cade sulla forma arrotondata di una “O”, o sulla verticalità della lettera “I”. Ignoriamo completamente le “geometrie” delle lettere, “non mi interessano più, non le percepisco più. In realtà ho assunto un certo atteggiamento di coscienza che per mezzo loro mira a un altro oggetto”3, ossia al significato della parola. Lo stesso avviene con il sistema di segni che emerge osservando il Corviale: non è il singolo pilastro, tubo o ringhiera che ci colpisce, a meno che l’attenzione non viene deliberatamente spostata su di essi, ma questi segni concorrono a determinare una particolare atmosfera, un’immagine che rimanda a un determinato universo. In questo meccanismo, ha un ruolo importante l’abitudine e la convenzione, senza le quali non si creerebbe un rapporto così stretto tra segno e ciò a cui il segno rimanda: è necessario che il segno non solo sia comprensibile, ma addirittura immediato, capace di fornire determinate informazioni cromatiche, dimensionali, stilistiche, formali e così via. Ancora una volta, non è sufficiente che il segno abbia un generico “sapore”. Il segno, per poter essere decifrato, deve prevedere un certo livello di conoscenza da parte del fruitore. Insomma, occorre che il segno si riferisca a qualche cliché. L’intenzione, o meglio, lo scopo del segno, “si definisce solo mediante il sapere, perché ci si rappresenta in immagine solo quello che si sa in un modo qualsiasi e, reciprocamente, il sapere qui non è semplicemente un sapere, ma è atto, è ciò che voglio rappresentarmi” 4. Cronaca nera Osservando Corviale, infatti, è facile accedere ad un determinato immaginario vicino a terribili fatti di cronaca nera legati alle difficoltà che si presentano in molti contesti simili sparsi per il mondo, che anche la stesa struttura romana ha contribuito a creare. Eppure, il Nuovo Corviale entra a far parte dell’immaginario collettivo non per gravi casi di cronaca, oppure per l’idiosincratica gestione della sua realizzazione o della sua controversa progettazione, bensì per un film di Pier Francesco Pingitore con Pippo Franco, Sfrattato cerca casa equocanone. Per quanto drammatica fosse la reale e concreta condizione dell’edificio, Corviale entra nell’immaginario tramite lo scherno, come scenografia di eventi ridicoli. Le delicate e drammatiche vicende ad esso direttamente legate non erano ancora entrate a far parte dell’immaginario comune, facendo sì che, in un primo momento, la struttura venga, semplicemente, coperta di ridicolo. Una caduta nella tragicommedia ancora più plateale se pensiamo ai toni tronfi e agli obiettivi al limite dell’epopea messianica con cui il progetto era stato presentato. Tuttavia il modello al quale Corviale faceva capo viveva il proprio fallimento già durante la sua progettazione, nel 1972. In quest’anno si concentrano, infatti, una serie di eventi che segnano la fine di un modo di intendere l’architettura aprendo le porte alla postmodernità. Tra tutti, l’evento simbolicamente più shockante che questo anno ha visto è senza dubbio l’abbattimento del complesso residenziale di Pruitt-Igoe a Saint Louis, opera dell’architetto Minoru Yamasaki. L’intera vicenda è paradigmatica, tanto da diventare il simbolo dell’interno fallimento del progetto del Movimento Moderno. Entrato in servizio nel 1954, già al termine della sua realizzazione, nel 1956, la struttura iniziò a mostrare i primi segni di degrado. Lo stesso degrado che l’intervento avrebbe dovuto scongiurare: negli anni 2 J. P. Sartre, L’immaginario, Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino, 2007 p. 28. 3 Ibidem, p. 35. 4 Ibidem, p. 89. ’40, l’area centrale di Saint Louis era praticamente cinta da varie e variamente tristi slum. La segregazione di matrice razzista aveva costretto la popolazione afroamericana al nord di quest’accerchiamento, continuando ad espandersi in maniera tale da rendere impossibile ogni possibile sviluppo delle aree legate ai quartieri anticamente pianificati e del Central Business District. Velocemente, il degrado raggiunse livelli tali da rendere praticamente impossibili anche le più complesse strategie gentrificatrici. Si sviluppò così la convinzione che l’unica soluzione praticabile fosse quella di sostituire, per fasi, i quartieri “neri” della città con edifici ad alte densità, lasciando così libere aree utili alla realizzazione di parchi ed attività commerciali, lasciando così via libera a possibili finanziatori interessati ad investire in quelle aree. Così, grazie soprattutto alla perseveranza del sindaco Joseph Darst, fu avviato un vasto programma edilizio, di cui l’insediamento di PruittIgoe fu tra i primi ad essere realizzato. La commessa fu ufficializzata allo studio Leinweber, Yamasaki & Hellmuth nel 1950, e fu subito chiaro che PruittIgoe avrebbe messo fine alla segregazione razziale che fino ad allora sembrava essere prassi nella progettazione di questo tipo di interventi negli Stati Uniti: l’intervento prendeva infatti il nome dal Louisiano Wendell O. Pruitt, pilota di caccia afroamericano, morto durante la seconda guerra mondiale, e William L. Igoe, ex membro del Congresso degli Stati Uniti. Ma presto le buone intenzioni lasciarono spazio alle necessità e alla contingenza. La proposta iniziale del gruppo di Yamasaki, che prevedeva un mix di edifici a varia densità e dimensione, fu infatti bocciata per motivi di budget dalla Public Housing Authority, l’ente supervisore dell’intervento, spingendo i progettisti ad una soluzione maggiormente sostenibile. Il conflitto tra Stati Uniti e la Corea del Nord aggravò la situazione, portando addirittura, in certe fasi del cantiere, al razionamento dei materiali. Il risultato fu un complesso di trentatré edifici, alti undici piani, separati tra loro da un vuoto funzionale mai riempito. Un vuoto ancora più opprimente, se pensiamo alle idiosincrasie funzionali che facevano caratterizzarono il progetto: gli ascensori erano progettati per fermarsi solamente al primo, al quarto al settimo e al decimo piano, obbligando i residenti ad usare le scale, con ambienti sottodimensionati e gravi problemi nelle forniture dovuti ai necessari tagli imposti dalla Public Housing Authority. Complessivamente formato da 2.870 appartamenti, gli errori progettuali erano tali che l’occupazione non superò mai la soglia del 60%5. Verso la metà degli anni ’60, solo 600 famiglie avevano deciso di vivere a PruittIgoe, concentrandosi in diciassette blocchi, mentre gli altri sedici furono tempestivamente sigillati. Questo fece sì che venne a mancare il controllo sociale operato dagli stessi occupanti dell’edificio. Chiunque avrebbe attraversato gli spazi che separavano i vari blocchi, sarebbe stato immerso in un’atmosfera spettrale, sotto lo sguardo vigile di centinaia di occhi vitrei e sporchi che si piegavano sul coraggioso avventore. La situazione era così grave che, nel 1968, lo stesso Federal Department of Housing si espose ad incoraggiare i residenti ad abbandonare Pruitt-Igoe, che nel frattempo si erano riuniti in associazioni di quartiere per chiedere l’abbattimento delle torri. Alle 15.00 del 16 marzo del 1972, il primo dei trentatré blocchi venne fatto collassare su sé stesso con delle cariche di dinamite. Il suono di quelle esplosioni hanno coperto quello delle campane: questo “è il giorno in cui l’architettura moderna è morta”6. Dopo appena 19 anni di servizio e 57.000.000 i dollari spesi, il complesso che doveva rivoluzionare la concezione dell’edilizia pubblica americana era stato soppresso come un animale al quale, per spirito pietistico, si era deciso di evitare ulteriori, inutili, sofferenze. Nel periodo più difficile della breve vita di Pruitt-Igoe, sempre negli Stati Uniti, nella città di Los Angeles, si consumava uno degli eventi più tragici della storia americana moderna. La sera di mercoledì 11 agosto del 1965, nel distretto di Watts, i continui abusi che la comunità nera era costretta a subire esplosero in una vera e propria guerriglia urbana capace di devastare grandi porzioni del quartiere e qualunque cosa entrasse in contatto della furia della violenza di quei giorni. Quella sera, infatti, un ragazzo di colore di ventun’anni, Marquette Frye, venne fermato dall'ufficiale Lee Minikus perché sospettato di essersi messo alla guida in stato di ebbrezza. Ronald, il fratello di Marquette, che era in auto, cercò immediatamente la loro madre per tentare di risolvere la situazione, la quale accorse immediatamente per rimproverare animosamente il figlio. Da qui in poi la cronaca riguardo la dinamica della vicenda non è molto chiara: da un lato la polizia afferma che la situazione è velocemente degenerata a causa della lite tra Rena Price e suo figlio, dall'altro, alcuni passanti faranno velocemente circolare la voce che la polizia, stufa di quel litigio, procedette con violenza nell'arresto della donna, allora incinta, e di suo figlio. Al di là delle varie interpretazioni, ai fini della nostra narrazione sono importanti le ore che seguirono: la notizia del pestaggio si sparse rapidamente, facendo sì che l’intero vicinato si riversò per le strade di Watts, accerchiando i poliziotti che sta- 5 L. H. Larsen, Richard Stewart Kirkendall, A History of Missouri: 1953 to 2003, University of Missouri Press, Columbia, 2004, p. 62. 6 C. Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, Rizzoli, New York 1984, p. 9. vano fermando i fratelli Frye e loro madre. Si iniziò con semplici contestazioni, che presto si trasformarono in lanci di oggetti e cariche ai danni degli agenti che stavano trascinando le prede nella loro gabbia su quattro ruote. La tensione non si allentò neppure dopo che la volante fece ritorno alla centrale. In poche ore, migliaia di uomini di colore disperati da anni di segregazione e ingiustizie sociali si riversarono per le strade del distretto di Los Angeles per fronteggiare apertamente la polizia, ideale estensione del potere “bianco”. Il risultato furono sei giorni di violentissimi scontri, da cui si contarono 34 morti, 1.032 feriti, 3.438 arresti e danni per oltre 40 milioni di dollari 7. Cronaca dello spettacolo Le vicende di Pruitt-Igoe e della rivolta di Watts hanno molti punti in comune, ma tra tutti, quello che emerge, è il fallimento di ogni politica di segregazione. O meglio, di ogni politica capace di affrontare il problema della segregazione, in qualunque forma essa si manifesti. Il perimetro degli insediamenti di Saint Louis e di Watts sono tracciati nettamente, vi è un fuori ed un dentro, un confine che censisce l’appartenenza ad un luogo geografico e lo identifica secondo i cliché coltivati dall’immaginario di quel luogo. Ogni individuo viene visto dall’esterno come elemento di quell’insieme, e quindi classificabile secondo i cliché del caso. Il caso losangelino illustra particolarmente bene le conseguenze dell’assenza di una politica urbana capace di gestire la segregazione interna alla città. Nata come aggregazione di diversi distretti e municipalità un tempo autonome, è stato piuttosto naturale per le comunità racchiudersi in aree tra loro omogenee. Lo stesso impianto di Los Angeles, data la storia della sua crescita urbana, ha favorito la creazione di diverse enclave sociali ed etniche. Infatti, il gap burocratico sulla questione razziale tra stati del sud ed il resto degli Stati Uniti, assieme alla corsa verso la costa occidentale, favorì grossi flussi migratori verso la California. Ma sebbene lo stato avesse cancellato ogni forma di segregazione legalizzata, di fatto permanevano delle convenzioni restrizioni razziali che limitavano fortemente la possibilità per neri e ispanici di acquistare degli immobili in certe aree della città. La geografia di Los Angeles poteva quindi essere tracciata con uno scacchiere genetico che vedeva i propri nucleotidi radicarsi in determinati territori 8. Nella paradossale informità della stes7 I dati sono forniti dal sito internet www.blackpast.org, alla pagina http://www.blackpast.org/aaw/watts-rebellion-august1965. BlackPast è una enciclopedia virtuale che raccoglie testimonianze ed articoli dei più importanti fatti ed eventi relativi alla storia della cultura afro americana. 8 Una divisione biologica che colpisce anche l’occhio più distratto se gli ponessimo di fronte una ipotetica mappa simile a sa geometria degli slurbs9, i confini sono sempre meno sfumati, tanto da poter essere tracciati con la stessa precisione con cui gli ingegneri statunitensi amano disegnare le loro strade. Una precisione che rivela una miseria di massa, che rilevabile dall’altissimo indice di stupri, suicidi, omicidi e dalla più ampia diffusione di disturbi psicopatologici riscontrata nel paese10. La cultura popolare, che a partire dalle contestazioni degli anni ’60 aveva iniziato ad abbandonare i propri modelli scolpiti con la sicurezza di un futuro migliore per tutti, si troverà a sposare queste istanze non appena il marmo ben levigato da illusioni e promesse mostrerà il pattume depositato sulla sua superficie. D’altronde, una fetta sempre maggiore della popolazione americana aveva smesso di credere all’american dream, e lo shock causato dalla crisi del Vietnam aveva dato un contributo fondamentale verso l’elaborazione di un’estetica dell’abbandono e del reietto. Fu quindi naturale per registi e autori iniziare ad interrogarsi su cosa accadesse attorno il centro della città. Tra questi, John Carpenter sarà forse l’autore che con maggior ardore andrà ad analizzare una realtà che fino ad allora era stata rimossa, tanto dalle cronache, quanto dall’entertainment, scegliendo di narrare le vicende di personaggi di estrazione proletaria i quali si trovano al centro di fatti che spesso riflettono una forte critica alla società capitalistica americana ed il dissolversi di qualsivoglia sentire identitario nella società moderna. Non è un caso che il suo primo lungometraggio, Distretto 13, sia ambientato proprio in uno di quei sobborghi che diede vita ai fatti di Watts. L’immaginario era stato colpito con così tanta forza da quell’evento che la scelta di Carpenter per un’ideale set per il suo film ricadde su Andersen, uno dei ghetti di Los Angeles. L’anno è il 1975, un periodo di continui scontri a fuoco tra le forze dell’ordine e varie gang che si stavano formando nel territorio. Le strade che la telecamera di Carpenter cattura sono vuote, prive di vita e i pochi individui che attraversano questi strani spazi sono estranei al quartiere. Ogni area pubblica aperta sembra essere stata recintata appena la sua realizzazione è terminata. Le larquella elaborata dal Democraphics Research Group. Questa mappa fornisce solo due informazioni: dove sono locate, all’interno degli Stati Uniti, le singole abitazioni e a quale razza appartiene il proprietario. La mappa è visionabile a questo indirizzo: http://demographics.coopercenter.org/DotMap/index.html 9 Il termine slurbs fu usato per la prima volta da Joel Kotkin per identificare delle aree prive di carattere o identità civica in grado di creare un legame tra gli abitanti. Il neologismo, fusione dei termini “slum” e “suburbs”, è stato usato per descrivere le sacche di estrema povertà che venivano coltivate ed alimentate all’interno delle maggiori città americane. Joel Kotkin, The Next Hundred Million. America in 2050, Penguin Press, New York 2010. 10 Joel Kotkin, ibidem. ghe strade e i molti spiazzali non limitano l’atmosfera claustrofobica della città di Carpenter: transenne, reti metalliche e muri limitano la libertà di movimento. Sensazione sottolineata dai set che si alternano a quelli della città: una prigione e un commissariato di polizia. Il Distretto 13, per l’appunto. Carpenter tornerà a Los Angeles più avanti in uno dei suoi lavori più acclamati, Essi vivono, forse il film in cui lo sguardo sulla città è maggiormente protagonista. Nelle scene iniziali, il protagonista del film, John Nada, è ripreso nel tentativo di avvicinarsi al cuore della città. Come in Distretto 13, la telecamera persevera nel mostrare le barriere che delimita le varie aree della città: dei binari ferroviari, delle mura, una recinzione che costeggia una strada ad alto scorrimento, un cavalcavia. In lontananza, le torri del centro della città appaiono come un miraggio, offuscate dalla leggera nebbia che la macchina della modernità produce per proteggere il cuore di Los Angeles dagli avidi occhi dei condannati all’inferno della città bassa. Ovunque, rifiuti, pozze e automobili vecchie condiscono la scenografia entro cui si svolgono gli eventi. A ben vedere, l’intero film prende avvio dal sogno di conquista del diritto di cittadinanza del centro città: trasferitosi a Los Angeles in cercare un lavoro, Nada viene assunto come operaio in un cantiere edile, per poi trovare alloggio in una baraccopoli. Ma pochi giorni dopo, uno sgombero lo costringe a dover iniziare la sua avventura. Ogni zona dei quartieri in cui si svolge l’azione è continuamente presidiata e controllata dalla polizia, e ogni volta che degli individui intendono radunarsi per poter svolgere qualsiasi azione sociale, questa interviene facendo disperdere i gruppi. Gli elicotteri vigilano sul sonno di chi non ha trovato miglior giaciglio che la strada. La città contemporanea è asservita ad un controllo verticale, in cui ogni azione viene monitorata e corretta tempestivamente. La messa in scena vede la città trasformarsi in un lurido agglomerato di baracche erose dalla sporcizia e dalla povertà. Ma vi sono autori che compongono di contrappunto, mettendo l'accento sugli aspetti alienanti di una città talmente automatizzata da svuotare gli individui di qualsiasi scopo. Vengono elaborate nozioni come quella di gated community, ribaltamento della recinzione un tempo utile al contenimento delle infezioni sociali che si diffondevano ai margini della città, oggi barriera capace di dare almeno l’illusione della protezione al facoltosa gruppo umano che popola l’area perimetrata. Compattato nella dimensione di un singolo edificio, riassemblate le recinzioni a formare un raffinato curtain wall, Il condominio progettato da James G. Ballard è forse la struttura letteraria che meglio riesce a narrare una realtà dominata dal bisogno di pro- tezione dall’esterno di una società che cerca di colmare il proprio senso di colpa e di insicurezza, coprendone la vergogna con beni di consumo. “A causa delle sue dimensioni, il grattacielo conteneva una notevole gamma di servizi. L’intero decimo piano era occupato da un’ampia galleria, larga come il ponte di una portaerei che ospitava un supermarket, una banca, un parrucchiere, una piscina con palestra, uno spaccio di liquori fornitissimo e una scuola materna per i pochi bambini piccoli dell’edificio. Sopra, Laing, al trentacinquesimo piano, c’erano una seconda piscina, più piccola, una sauna e un ristorante. Contento di quell’eccesso di comodità, Laing faceva sempre meno lo sforzo di uscire dall’edificio”11. Negazione della metropoli, il condominio riassume al suo interno le funzioni e le divisioni che la città moderna aveva elaborato fino ad allora. Persino le divisioni sociali, traspaiono cristalline nella divisione dei piani che definiscono l’altezza del condominio: “di fatto, il grattacielo si era già diviso nei tre gruppi sociali classici, la classe inferiore, la classe media, la classe superiore. Il centro commerciale del decimo piano costituiva un chiaro confine fra i nove piani più bassi, con il loro 'proletariato' di tecnici cinematografici, hostess e gente simile, e il settore mediano del grattacielo, che andava dal decimo piano alla piscina e alla terrazza-ristorante del trentacinquesimo piano. I due terzi centrali del condominio formavano la sua borghesia, costituita da membri delle professioni […]. Sopra di loro, ai cinque ultimi piani del grattacielo, c’era la classe superiore, la prudente oligarchia di piccoli magnati e imprenditori, attrici televisive e accademici arrivisti, con i loro ascensori ad alta velocità e servizi di qualità superiore”12. Il grattacielo è inconcepibile senza le innovazioni tecnologiche dell’ini-zio del secolo. Innovazioni capaci di trasformare un edificio da abitazione a ingranaggio, secondo l’abusato motto di Le Corbusier, paradiso tecnologico di una metropoli in miniatura che finisce con il rendere schiavi e dipendenti i propri occupanti, rinchiusi in minuscole enclave sociali formate da poche centinaia di metri quadri. Ma nonostante la loro perfezione tecnologica, appena questi edifici vengono lasciati a sé stessi, essi cadono immediatamente in un degrado che atterrisce: gli intonaci increspati e sporchi, cadono a scaglie come pelle morta, incapaci di resistere alle pressioni che lo scheletro e l’umidità impone alla sua superficie. Le funzioni vitali dell’e-dificio vengono a mancare una dopo l’altra, la pressione dell’acqua diminuisce a causa del degrado delle tubazioni, così come la capacità di irrogare energia elettrica nei vari alvei della struttura. I piloni di cemento che contengono le cavità entro cui si arram11 J. G. Ballard, Il condominio, Feltrinelli Editore, Milano, 2004, pp. 9-10. 12 Ibidem, pp. 58-59. picano gli ascensori diventano in breve tempo inutili tubi strabordanti di rifiuti e urina. Quella del condominio è la cronaca del fallimento annunciato del progetto del Nuovo Corviale. È possibile un riscatto? Occorre essere molto chiari su questo punto: l’esperienza del Nuovo Corviale è un fallimento nato dall’assoluta assenza di lungimiranza della maggior parte degli attori chiamati in scena. Primo tra tutti, Mario Fiorentino, che non è riuscito a vedere al di là delle proprie convinzioni. Convinzioni la cui difesa aveva perso ogni avvocatura già da tempo. Corviale è riuscito a far evolvere la nozione di segregazione ad un nuovo livello. D’altra parte, il problema in Italia era molto meno sentito che negli Stati Uniti, dove era invece addirittura normato dal codice, e quindi di più difficile individuazione. Eppure, forse, è proprio dalla presa di coscienza del fallimento di Corviale che è possibile cercare il suo riscatto. Nel periodo di maggior crisi della sua vita, nonostante il degrado e gli scontri tra le bande, PruittIgoe diede vita a delle sacche di resistenza. Gli abitanti di alcuni appartamenti bifamiliari raggruppati attorno a piccoli pianerottoli organizzarono dei gruppi di lavoro per manutenere alcune aree dell’edificio che, a causa della bassa percentuale di residenti, sono diventate presto dei terrains vagues. Furono formate delle associazioni di inquilini, portando così anche alla creazione di piccole imprese comuni. Alcuni locali furono occupati, ad esempio, da una piccola falegnameria ed uno studio per la lavorazione dei tessuti e delle ceramiche, dando così un’opportunità agli abitanti di potersi riunire e di poter rendere produttivo la struttura. Gli spazi comuni, inutilizzati, sono stati trasformati, rianimati, riacquisiti da una comunità che sembrava non poter mai nascere in un quartiere come questo. Un regime che solo da poco ha coinvolto anche Corviale, da sempre alle prese con l’occupazione abusiva di molti spazi comuni o dedicati ad altre attività e con l’autoreclusione di molti dei condomini. Ma il seme di nuove forme di riappropriazione simbolica del territorio e nuove forme di appartenenza ai luoghi, il seme, insomma, di un immaginario ad uso esclusivo degli abitanti della struttura ha iniziato a germogliare. A distanza di circa trent’anni dalla consegna dei primi appartamenti, il problema Corviale è ancora lì, pesante eredità che opprime ogni tentativo di razionalizzazione. Eppure, è proprio questo diverso immaginario che coinvolge gli abitanti di Corviale a rappresentare la chiave della soluzione del problema. Il riscatto di Corviale non avverrà a partire dall’iniziativa dei centri di controllo, ma dal suo cuore, dalla volontà dei suoi coloni di riprendersi ciò che gli spetta di diritto: la propria identità. 1946-1956. LA RICERCA DI UN LESSICO COMUNE ED IL TEMA DELLA STRUTTURA TRA MARIO RIDOLFI E ADALBERTO LIBERA. Riccardo Renzi “Bisogna solamente arrivare a cambiare, a spostare questi interessi. E, solamente per far ciò, ci vogliono anni. Quello che importa frattanto sono i piccoli spostamenti di idee.” Adalberto Libera, La mia esperienza di architetto. 1960 Le condizioni di uscita dal secondo conflitto mondiale vedono l’Italia, grazie agli aiuti economici forniti dagli Stati Uniti 1, in grado di formulare nuove teorie urbane per la rifondazione di un sistema sociale abile nel fornire differenti modi di vivere dopo i venti anni di regime. La ricerca di un linguaggio comune caratterizza fin dal-l’inizio il programma Inacasa2 e ne determina, assieme a motivazioni di tipo economico e normativo, la sostanziale differenza rispetto a quelle esperienze compiute per impellenti necessità da altri enti nei primissimi anni a seguire dalla fine della guerra 3. La pubblicazione di opuscoli guida4 creati appositamente per fornire indicazioni ai progettisti sparsi sull’intero territorio nazionale, permettono di 1 Il piano Marshall portò all’Italia tra il 1948 ed il 1951 circa duemilaquattrocento milioni di Dollari da impiegare nel rilancio dell’economia post-bellica, a tal proposito v. E. A. Rossi Il piano Marshall e l’Europa. Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1983. 2 Con la legge n.43 del 28/2/1949 detta legge Fanfani inizia l’esperienza Inacasa che durerà per il primo settennio fino al 1956, poi per il secondo settennio fino al 1963 grazie alla legge n.1148 del 26/11/1955. In questo anno viene promulgata la legge n.60 del 14/2/1963 che chiude il programma Inacasa a favore di un nuovo strumento di nome GESCAL e con la legge n.167 del 18/4/1962 si obbligano i comuni sopra i 50.000 abitanti a dotarsi di una area da destinare ad edilizia economica e popolare. A tal proposito si vedano A. Acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi. Cedam, Padova 1980 pp.21-57 e M. Di Sivo, Normativa e tipologia dell’abitazione popolare. Alinea, Firenze 1981 pp.75-111. Per un’ampia visione dei progetti si rimanda a L. Beretta Anguissola, I 14 anni del piano Inacasa. Staderini editore, Roma, 1963. 3 In data 8/5/1946 con Decreto del Presidente del Consiglio fu costituito il comitato Unrra-Casas primo ente ad occuparsi delle abitazioni per gli sfollati ed i senza tetto. 4 Nel corso dei due settennati Inacasa vengono editi quattro opuscoli ad uso dei professionisti il cui contenuto era rivolto ad una guida dei progetti via via che venivano riscontrate situazioni da migliorare. Il primo volume presenta disegni di Mario Ridolfi e Adalberto Libera che ne era il coordinatore del Centro Ricerche. Nel secondo volume vengono illustrati disegni di Adalberto Libera, frutto di riflessioni svolte tra gli anni della guerra ed il 1950, che vedranno la nascita del quartiere orizzontale al Tuscolano finito nel 1954. Gli opuscoli sono: Piano incremento occupazione operaia. Case per lavoratori. Suggerimenti norme e schemi per l’elaborazione dei progetti. Bandi di concorso. Fascicolo I, P. Damasso, Roma, 1949; Piano incremento occupazione operaia. Case per lavoratori. Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica. Progetti tipo. Fascicolo II, M. Daneri, Roma 1950; Piano incremento occupazione operaia. Case per lavoratori. Guida per l’esame dei progetti delle costruzioni Ina Casa da realizzare nel secondo settennio. Fascicolo III, TI.BA, Roma 1956; Piano incremento occupazione operaia. Case per lavoratori. Norme per le costruzioni del secondo settennio. Fascicolo IV, TI.BA, Roma, 1957. attirare l’attenzione sul concetto di interpretazione formale della nuova strutturazione sociale in atto che, espressa attraverso opere architettoniche, diffondono un linguaggio capace di definire una nuova identità per la collettività, differente rispetto a quella dettata dai venti anni di regime e maturata nella drammaticità degli anni bellici. La ricerca di una nuova immagine iconica da affiancare al processo di ricostruzione di una trama sociale ed estetica, sostiene tutto il periodo a partire dalla fine della Guerra che diviene una occasione di rilancio per l’architettura italiana, Razionalista ma non solo5, scavando un profondo solco tra le culture in transizione e creando nuovi riferimenti, non tutti necessariamente figli di un sovrasistema esterofilo, la cui matrice risponde a concetti di verità e di sincerità compositiva. Viene immaginata una collettiva appartenenza sociale ad un modo di vivere instauratosi alla fine della Guerra grazie ad interpretazioni della società attraverso il fenomeno del neorealismo, nel cinema, che diviene principale strumento di diffusione di spaccati del vivere in condizioni di grande difficoltà che colgono il Paese in momenti di sostanziale cambiamento, ma anche nella letteratura e nell’architettura, dove al concetto di verità corrisponde una nuova sintassi compositiva semplificata per i primi interventi di costruzione di edilizia sovvenzionata corrispondente agli anni fino al 1956, ovvero relative al primo settennato Inacasa. Se la codifica di un linguaggio comune sta alla base degli intenti generali, molto deriva anche dal fatto che un così ampio insieme di interventi, difficilmente controllabili da un solo ente, se delegati liberamente alla mano del singolo progettista e dell’impresa vincitrice di appalto, avrebbero richiesto un impegno economico di maggior spessore e sempre differente 6. Le 5 Si veda l’editoriale di «Costruzioni» del Marzo 1946. La rivista «Casabella» aveva il nome provvisorio di «Costruzioni». Si veda A.D’Auria Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta. La vicenda italiana. Marsilio, Venezia 2012. p. 55 e seguenti. 6 Il modello “Gestione Inacasa” I. C. 200/bis del 1952 funzionava da codice di regolamentazione per gli appalti locali: “La Stazione Appaltante, non appena ricevuto il progetto, dovrà controllare che la struttura generale dell’edificio o degli edifici sia realizzabile con i materiali e sistemi locali, e corrisponda a criteri di sana economia. Così pure dovrà controllare che la descrizione particolareggiata ed i grafici siano sufficienti per definire completamente i lavori e per ottenere una buona esecuzione dei lavori stessi. Dovrà altresì verificare le voci di spesa indicate nel computo metrico estimativo, controllando l’esattezza della descrizione e la sua completezza per la finitura dei fabbricati, accessori ed allacciamenti. Sottoporrà in proposito alla Gestione tutte le os- motivazioni formali, per come sono espresse negli opuscoli guida7, intravedono come condizione necessaria la presentazione di una nuova realtà abitativa che nella sua stessa forma determini brani di città con figure riconoscibili abili di far scaturire un dialogo con il paesaggio, naturale ed urbano, italiano. Molti dei progetti sviluppati tra la fine della guerra e la prima metà degli anni cinquanta mirano a ricostruire un repertorio figurativo ad impostazione vernacolare, attingendo dal panorama diffuso di manufatti rurali ed urbani di piccola dimensione sparsi per il Paese, dove la caratterizzazione degli elementi è forte tanto da definire una differenza sostanziale rispetto all’insieme, ed in cui spiccano contrasti ed accezioni nate spontaneamente ignorando gerarchie prestabilite, ma tali da segnalare un ordine complessivo nella composizione del manufatto architettonico. Gli intenti delle prime esperienze di abitare sociale sono quelli generare un sistema-quartiere8 in cui il clima predominante non sia l’effetto urbano ma, al contrario, quello di ricreare le condizioni di un autoreferenziale insieme eterogeneo che, superando il concetto di cittàgiardino ma ad esso ispirandosi, permetta condizioni di vita a contatto con la natura ed al passo con la dimensione umana. Da questi concetti partono le definizioni dei progetti a livello urbanistico che impostano via via anche le caratterizzazioni volumetriche degli edifici, a cui la progettazione architettonica dovrà dare un volto, generale per l’interno quartiere e particolare per il singolo edificio. Sulla base di tali presupposti, rintracciabili nel clima creatosi a fine guerra 9 ed attorno alla istituzione del piano Fanfani espressi a grandi linee nei primi due opuscoli, vengono declinati interventi che ritrovano una comune matrice compositiva nella caratterizzazione di quegli elementi, intuiti da Mario Ridolfi di cui sono i disegni nel primo opuscolo del 1949, da Franco Albini con le case per i dipendenti del cotonificio Dell’Acqua a Legnano del 1947 e da Ignazio Gardella con la casa del viticoltore del 1945 che è una interpretazione del panorama rurale in chiave realista, i quali, facenti parte della tradizione vernacolare itaservazioni del caso, e soltanto qualora non abbia a fare rilievi in merito a quanto sopra, potrà indire la gara d’appalto”. 7 Si veda il primo opuscolo Inacasa (vedi nota 4) pp. 7-12. “...La casa dovrà contribuire alla formazione dell’ambiente urbano tenendo presenti i bisogni spirituali e materiali dell’uomo, dell’uomo reale e non di un essere astratto: dell’uomo, cioè, che non ama e non comprende le ripetizioni indefinite e monotone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria che per un numero;...”. 8 Si veda A. Libera La scala del quartiere residenziale in AA.VV. Esperienze Urbanistiche in Italia. INU, Roma 1952 pp.130-149. 9 Nel 1945 si tiene il primo convegno sulla Ricostruzione, negli stessi anni nasce l’APAO promossa da Bruno Zevi, viene edita la rivista «Metron» a cura di Mario Ridolfi, alla direzione di «Domus» passa Ernesto Nathan Rogers e «Casabella», temporaneamente chiamata «Costruzioni» viene diretta da Franco Albini e Alberto Camus. liana, non hanno gerarchiche volontà decorative ma minime espressioni tecnico-funzionali dell’oggetto architettonico. Si tratta dunque di esprimere una eterogenea caratterizzazione degli edifici attraverso la sillabazione di nuovi elementi che compongono un vocabolario comune, di derivazione diretta delle tecniche costruttive impiegate nella costruzione dei cantieri la cui impostazione di fondo rimane quella imprescindibile di mantenere costi ridotti e facilità di esecuzione a causa del coinvolgimento di manodopera non specializzata, ed al progettista viene rimandata la questione di modulare il panorama di quegli elementi, tali che nasca una attrazione dell’abitante verso il proprio edificio grazie ad una identificazione univoca in un insieme coordinato 10. La definizione vernacolare del tema complessivo si adatta bene a quelle che sono le esperienze relative a costruzioni di nuovi borghi, quali ad esempio Cutro di Mario Fiorentino e La Martella a Matera di Ludovico Quaroni, più per il tipo di vita impostato in tali forme aggregative che per la definizione formale degli edifici progettati che, per forma e per composizione esprimono concetti assimilabili al tema del neorealismo, ricercando un forte dialogo con l’espressione di verità architettonica, espressione direttamente rivolta verso una sincerità capace di coinvolgere una teoria di fondo utile a definire una sostanziale differenziazione da quello che era stato il panorama figurativo del regime. Le architetture si compongono di elementi usati in una nuova chiave, l’apparato tecnologico che compone il manufatto edilizio diviene allora degno di essere mostrato, assurge a sistema decorativo senza tuttavia esserlo, compaiono cordoli in calcestruzzo che segnalano il marcapiano orizzontale, tettoie a sbalzo frutto di prolungamento di solai interni, zoccolature in mattone che evidenziano il sistema costruttivo interno, pareti esterne in pietra lasciata a vista, vani scale a comune che mostrano il sistema strutturale e via dicendo. Ma non solo. 10 Si veda il primo opuscolo Inacasa (vedi nota 4) p.12. Affiora alla superficie dell’edificio quella che è la proiezione dell’ambiente interno, nasce la loggia, promossa dal primo opuscolo Inacasa, come elemento funzionale agli spazi della zona giorno e come elemento di variazione del prospetto grazie al gioco di ombre tra pieno e vuoto. Al terrazzo viene data poi una nuova immagine facendolo interagire nei parapetti, ad esempio, con i mattoni forati che servono alla realizzazione dei tamponamenti interni e creando forme caratteristiche che si discostano dal semplice elemento a sbalzo. Nasce inoltre, per gli edifici di una certa estensione, il concetto di partitura modulare che, grazie ad elementi ricorrenti sia in verticale che in orizzontale scandisce la progressione lineare, in assenza del quale, risulterebbe monotona, ne sono esempi gli interventi al quartiere Harrar di Luigi Figini e Gino Pollini. Alla finestra inoltre non viene dato solo il compito di definire il ritmo del prospetto grazie al chiaroscuro delle bucature, essa viene caricata di una serie di ulteriori approfondimenti, frutto di una logica di ricerca sulla natura del dettaglio di derivazione diretta dal Manuale dell’Architetto 11 utili a generare altri aspetti caratteristici differenti da intervento ad intervento. Nascono così le finestrature incorniciate da una esposizione della struttura portante nel progetto di Cerignola ad opera di Mario Ridolfi, che, esponente di spicco dell’esperienza di abitare sociale, aveva già contribuito con Adalberto Libera con i propri disegni alla composizione degli opuscoli Inacasa. Con il progetto delle torri Ina a Roma, Ridolfi compie un passo decisivo in quella che è la teoria dell’involucro edilizio articolando il volume dell’edificio attraverso la scomposizione tra struttura portante e tamponamento, integrando il concetto di sovrapposizione di ordini ottenuto grazie alla rastremazione dei pilastri in senso verticale, ed intuendo il nuovo ruolo da affidare alla finestra, non più semplice bucatura bensì pernio della composizione di prospetto grazie al ritmo che essa scandisce alternandosi al pieno murario. Ma non solo, viene introdotto infatti per la prima volta un sistema di abitazioni in grande dimensione a sviluppo verticale mai visto in Italia prima d’ora 1212. L’influenza del progetto di viale Etiopia, con le sue innovazioni formali e tecnologiche e per la sua grande diffusione sulle riviste del tempo, sarà determinante per tutto il panorama del dopoguerra, ispi11 Il Manuale dell’Architetto è edito per la prima volta nel 1946 sia dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che dall’United States Information Services (USIS), gli autori sono Mario Ridolfi, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli e Mario Fiorentino. 12 Le torri Ina fatte da Ridolfi a Roma in viale Etiopia disegnate a partire dal 1948 sono un esempio unico per periodo e per innovazione tipologica. Il tema del grande edificio residenziale viene trattato come una torre grazie al rapporto tra lo spessore del lato, il fronte e l’altezza di nove piani. Si veda «L’architecture d’aujourd d’hui» n. 65 del 1956. rando migliaia di progetti ed introducendo nuovi riferimenti lessicali nel repertorio figurativo italiano, non solo limitatamente al campo dell’abitare sociale. L’esperienza di Libera, segnata all’interno dell’Inacasa dal suo ruolo di coordinatore del gruppo di ricerca interno 13, fonda le basi del tema fin dagli anni della guerra quando, per inattività forzata, in ritiro in Trentino progetta e scrive riguardo al tema dell’abitazione, continuando quel percorso intrapreso con Giò Ponti e Giovanni Vaccaro che porteranno all’uscita del volume Verso la casa esatta del 194514. L’impronta dell’architetto segue il processo compositivo da un punto di vista del tutto differente rispetto a quelle che erano state le prassi degli anni di regime, quando aveva costruito le abitazioni di Ostia del 1934 e progettato con Ridolfi le case economiche a Tor di Quinto del 1929. Da un punto di vista strettamente legato alla disposizione planimetrica Libera prosegue il percorso iniziato nel 1940 con il progetto per il quartiere Incis sulla via imperiale a Roma dove compaiono i segni di una integrazione tra arredi fissi e struttura muraria poi sviluppata successivamente nei progetti e negli schemi degli opuscoli Inacasa. L’intervento di Libera al Tuscolano del 1952 segna un passo distintivo forte rispetto alla linea da lui stesso indicata nella pubblicazione degli opuscoli e seguita dalla totalità dei professionisti coinvolti nei cantieri sparsi sul terreno nazionale. Il villaggio orizzontale segna l’espressione di capacità analitiche in grado di sostenere una digressione inaspettata verso una nuova linea di ricerca sperimentale, frutto di una indagine sulla città mediterranea15 e su logiche di vita rivolte verso una attenzione allo spazio domestico inserito in una comunità ma spiccatamente privato. La 13 Per gli anni a partire dal 1947 su invito di Arnaldo Foschini Libera entra a far parte della sfera Inacasa, e dal 1949 al 1952 dirige il centro studi e ricerche. Si veda G. C. Argan Libera. Editalia, Roma 1975, V. Quilici Adalberto Libera l’architettura come ideale. Officina, Roma, 1981 pp.62-72 e AA.VV. Adalberto Libera Opera completa, Electa, Milano, 1989, p. 248. 14 Si vedano A. Libera, G. Vaccaro Per un metodo nell’esame del problema della casa. in «Architettura italiana» n. 5/6 1943, A. Libera, G. Ponti, G. Vaccaro Per tutti, anzi per ciascuno. Appello di tre architetti per la Carta della Casa in «Il popolo d’Italia» 15/6/1943, A. Libera, G. Ponti, G. Vaccaro, Per la Carta della Casa, in «Stile» n. 30 del 1943, A. Libera, G. Beretta Anguissola, P. G. Bosisio, G. Ponti, P. Pozzi, E. Soncini, G. Vaccaro, Verso la casa esatta. Milano 1945. A. Libera, La tecnica funzionale dell’abitazione, Inedito 1943/46, citato in F. Garofalo, L. Veresani, Adalberto Libera. Zanichelli, Bologna 1989. Si veda inoltre una serie di scritti inediti pubblicati da V. Quilici, op.cit., 1981 pp. 62-72. 15 L’intervento ricorda una città mediterranea bassa, in cui il muro esterno in pietra a delimitare il perimetro rimanda alle mura della città. Il progetto è frutto di una riflessione dell’architetto dopo un viaggio in Marocco, di tale esperienza rimane lo scritto Gli spazi all’aperto delle abitazioni nel clima mediterraneo. apparso nella rivista “Architetti” n.12/13 del 1952. Si veda inoltre A. Libera, Il quartiere Tuscolano a Roma, in “Comunità” n. 31 del 1955. logica della tipologia ad atrio, si compone di elementi che per composizione, dialogano con volumi pressoché puri realizzati in intonaco, la cui determinazione formale si allenta solo in occasione del sistema di copertura che diviene strumento di segnalazione del moto delle basse falde, staccate da un intervallo chiaroscurale. Completamente differente è invece la logica che riveste l’edificio a ballatoio, unico di altezza maggiore al singolo piano, posto al centro del quartiere. Qui la sintassi che ha accompagnato i progetti di Libera fin da inizio carriera, si carica di un nuovo elemento formale che diviene espressione di una nuova realtà compositiva che segnerà tutta la produzione successiva. L’edificio appare contrassegnato da un doppio fronte, a ballatoio il principale e compatto con aperture regolari il retro, ma la vera natura di questo corpo di fabbrica consiste nel trovarsi in condizione sospesa, resa possibile da un sistema strutturale che ne diviene matrice e modulo compositivo basato su una sezione a piani sovrapposti con sbalzi da entrambe le parti e copertura inclinata con singola falda a due linee. Il tema della struttura diventa il nuovo soggetto a cui far aderire la sintesi compositiva, non più elemento accennato come ad Ostia o nel progetto di Auditorium a Roma del 1935, ma progetto stesso in quanto generatore di spazi architettonici e regolatore dei ritmi interni ed esterni. La struttura viene elevata ad elemento compositivo per le superfici del volume, segna la linea orizzontale dei solai nel retro accentuando il movimento che le travi interne proiettano sul cordolo di bordo a sbalzo ed esprimono, attraverso la proposizione delle singole travi rastremate, la condizione di sospensione del ballatoio nel prospetto principale. Nei lati corti il tema strutturale si completa determinando, forse in uno dei primissimi casi italiani, un nuovo sistema compositivo ad ordini omogenei sovrapposti, scaturiti dall’incontro fra le movimentate travi ed i pilastri in via di rastremazione. Il lato corto appare quindi come una sezione dell’edificio prospettata al suo esterno e denuncia una duplice condizione, sia l’indefinibilità del limite, che per aggregazione modulare potrebbe intuire una ripetibilità realizzata anni dopo nell’esperienza del Corviale, sia il bilanciamento definito del progetto che, lungi dall’utilizzare la struttura come mero apparato tecnico ne fa assumere il ruolo di determinante spaziale, ripetendo simmetricamente lo sbalzo necessario per la tipologia a ballatoio anche per il retro. Libera, che collaborerà con Pier Luigi Nervi per i progetti futuri, imposterà da qui in poi un concreto metodo di progettazione che coinvolge la struttura come elemento pernio dello spazio architettonico. INSEDIAMENTI RURALI ED URBANI STORICI E NUOVE COMUNITÀ Francesco Sorrentino Reportage dall’ager nolanus Capita spesso a chi vive nella provincia napoletana, devastata da decenni di speculazione edilizia, inquinamento, crescita incontrollata e sviluppo insostenibile, di ritrovarsi in una di quelle sagre estive, sorte dalla volontà di recuperare e valorizzare il patrimonio culturale rurale, che ha contraddistinto per secoli fino al secondo dopoguerra la vita di buona parte del territorio. Di solito tali iniziative si svolgono in aree in cui permangono, seppur umiliati dall’incuria e dall’ignoranza degli abitanti e dalla colposa assenza delle istituzioni politiche e civili, alcuni esempi di edilizia appartenente alla tradizione rurale e contadina. In queste sagre, oltre alle pietanze delle ricette tradizionali, si tenta di allestire scene della vita contadina: si stendono corde tra un balcone e l’altro per appendere lenzuola, si rimettono a nuovo attrezzi di lavoro, esposti come cimeli di una cultura materiale scomparsa, si cospargono le strade asfaltate ed il selciato di paglia; tutto è un fiorire di ortaggi appesi alle pareti, lumini ad olio, in una miscela in cui non si impedisce all’infisso di alluminio anodizzato e alla pluviale in PVC arancione di fare capolino, al di là del banchetto in pagliuzze, che fa da dispensatore di cibo e bevande. Tuttavia, a ben osservare l’architettura di questi ormai rari contesti e facendo un notevole sforzo di immaginazione per cancellare tutte le superfetazioni e manomissioni, è possibile, in molti casi, distinguere l’impianto architettonico della masseria, che ha avuto una notevole diffusione sul territorio agricolo della provincia partenopea. Lo schema edilizio della masseria nell’agro-nolano era in genere costituito da un ampio cortile, di cui una parte pavimentata posta a ridosso delle abitazioni costituiva l’aia; sulla corte si affacciavano le case dei proprietari, il ricovero degli attrezzi e la stalla. Soprattutto nei casi in cui tali insediamenti non avevano origine signorile, la masseria ospitava più nuclei familiari, spesso legati da vincoli di parentela. In molti casi alcuni ambienti venivano ceduti in fitto a operai e braccianti, o venduti a nuovi proprietari. In questo modo l’organismo edilizio subiva interventi di trasformazione e di ampliamento, anche in occasione di matrimoni, che generavano la nascita di un nuovo nucleo familiare. Fulcro della vita contadina e della piccola comunità che abitava l’insediamento agricolo era la corte, caratterizzata da alcuni manufatti, quali l’aia, il pozzo per l’approvvigionamento dell’acqua, ai cui piedi era facile trovare delle vasche che fungevano da abbeveratoio per gli animali, il forno in cui si preparava il pane e, in alcune masserie, il lavatoio comune. Le attività che si svolgevano erano strettamente legate al ciclo produttivo dei campi e alle particolari condizioni economiche che contraddistinguevano i contesti rurali. Lavoro ed abitazione, la condivisione di spazi e servizi, la partecipazione collettiva alle attività quotidiane, a riti e festività, generavano una vera e propria comunità agricola, tanto forte, da imprimere ai propri membri un senso di appartenenza e una identità contraddistinta da caratteristiche comportamentali e caratteriali comuni e riconoscibili, che tuttora permangono nella memoria collettiva delle cittadine della provincia. Le masserie oltre ad esser i centri propulsori di un’economia agricola, strettamente legata alla coltivazione della terra, costituivano un importante avamposto edilizio nel cuore della campagna, lontano dai centri abitati, e un importante luogo di scambio per numerosi commercianti, che vi giungevano per vendere o acquistare merci. Intorno alle masserie più importanti si sono sviluppati nel corso degli anni dei piccoli borghi di case, servite da poche strade, che si sono muniti di cappelle votive o di chiese per soddisfare le esigenze spirituali della comunità. Tuttavia la necessità di conservare terreno per la coltivazione e la scarsa remunerazione che il lavoro contadino comportava, hanno disincentivato uno sviluppo edilizio ed una crescita tale da poter raggiungere dimensioni urbane, per cui le condizioni delle comunità rurali sono rimaste pressoché inalterate fino al secondo dopoguerra. Il radicale mutamento socio-economico del paese, avvenuto a partire dalla metà degli anni cinquanta, ha determinato per queste comunità la fine di quelle condizioni economiche e produttive che ne avevano consentito la sopravvivenza. Con l’industrializzazione del tessuto produttivo italiano, una volta persa la centralità dell’agricoltura nel panorama economico nazionale, tutto il territorio circostante gli insediamenti rurali della provincia napoletana, come di tutte le provincie, è stato sottoposto alle fortissime pressioni di quanti, tentando un avvicinamento alla città, richiedevano per le proprie residenze siti abitati, sino a saccheggiare e sbilanciare l'equilibrio del paesaggio rurale rimasto inalterato da secoli. Il carattere di “avamposto edilizio” della masseria si è reso cioè, in molti casi, catalizzatore di interessi speculativi sul tessuto agricolo prossimo ai centri abitati. Le comunità rurali, che pure avevano una precisa connotazione all’interno del panorama socio-antropologico italiano e un ruolo chiave in uno dei settori produttivi maggiormente diffusi nell'economia del paese, hanno subito un rapido declino, oggi reso ancora più evidente dal degrado in cui versano gran parte degli insediamenti edilizi rurali. Il senso di appartenenza e di condivisione degli spazi di vita collettiva, come l’aia, gli androni di ingresso alle corti, i pozzi e le cisterne, i forni, sono diventati inutili cimeli di un mondo produttivo ormai obsoleto e sostituiti dalle odierne comodità. A testimonianza dell’importanza che essi svolgevano all’interno dell’economia della comunità, i manufatti comuni, quali forni, cisterne di raccolta dell’acqua piovana, lavatoi, talvolta addirittura piante da frutto, erano sottoposti a precisi regimi di proprietà, che venivano minuziosamente trascritti in tutti gli atti notarili, in modo tale da assicurarne la corretta successione ed il pacifico godimento ai futuri beneficiari, e da impedire, quando il bene risultava essere comune a tutti i proprietari, la sua appropriazione indebita. Per ironia della sorte, gran parte dei contenziosi civili in materia di diritti e servitù su proprietà comuni, è generata oggi proprio da tali opere di servizio, una volta fulcro della vita collettiva nelle comunità che abitavano gli insediamenti agricoli. I vecchi forni, o i depositi, le cisterne appaiono oggi nelle corti come objet trouvé, svuotati della funzione avuta in passato, di intralcio al parcheggio o al passaggio delle auto. I singoli condomini, pronti a sbandierare la sfilza di titoli pur di riuscire a dimostrare l’esclusiva proprietà del bene, concentrano le loro spasmodiche attenzioni su tali manufatti, vedendo in essi l’occasione di attuare mirabolanti trasformazioni, al limite della legalità, grazie alle quali un vecchio forno può divenire un'ampia tavernetta, un deposito o un box auto. In altri casi, il pozzo o la cisterna si tramutano in feticci attraverso i quali, sfogare liti e dissapori, inevitabilmente destinati ad accrescere i faldoni pieni di futili cause, depositate presso i tribunali di provincia. In meno di cinquant’anni di storia la vita delle comunità all’interno degli insediamenti rurali, con la condivisione dei mezzi di sostentamento e di produzione di beni, la partecipazione collettiva ai riti del quotidiano, hanno lasciato il posto ai più intensi individualismi, attraverso cui cancellare l’eredità di un passato ancora troppo vicino per essere dimenticato. Le occasioni per manomettere gran parte del tessuto edilizio minore, sono state molteplici, e da ultima, letale, la ricostruzione post-terremoto che, con la complicità degli amministratori locali, piegati a logiche clientelari e la cecità di una classe professionale poco preparata e sensibile, ha avviato un tipo di recupero del patrimonio edilizio, nell’assenza di idonei strumenti operativi e di opportuni organi di vigilanza, soprintendenze incluse, perennemente avvolte in un sonno ad orologeria sistematicamente interrotto troppo tardi per rimediare, alterando nelle forme, nei materiali, nelle tecnologie costruttive, nell'aspetto, gli antichi impianti edilizi. E pure la ragione principale del declino delle co- munità costituitesi negli insediamenti rurali, come le masserie, non va ricercata nell’incapacità della pluralità dei soggetti coinvolti nello scellerato sistema di presunta conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-architettonico dei centri minori adoperato, malgrado tutto in possesso di strumenti legislativi con cui opporsi alle forti pressioni speculative agite su molti territori rurali della provincia napoletana; piuttost oessa va ricercata nel profondo cambiamento avvenuto nella società italiana a partire dallo sviluppo industriale del dopoguerra, quando, cioè, la maggiore sicurezza di un guadagno nel lavoro alle catene di montaggio attirò lavoratori ed agricoltori nelle grandi aree industrializzate del paese. In seguito, anche con il decrescere della produzione industriale, è stato il terziario quale funzione urbana specifica, ad attrarre verso la città le giovani generazioni, nell'abbandono generalizzato dell'agricoltura e degli insediamenti rurali non idonei alla trasformazione in centri di servizi, per cui può sicuramente dirsi che il declino delle comunità rurali sia dovuto a cause di natura economicoproduttiva più che a questioni di tipo sovrastrutturale, culturale. Il vero legante per le comunità, e quelle rurali ne sono un esempio, così come mostra già la sociologia tedesca tra ottocento e novecento, non è del resto solo la condivisione di valori comuni, tradizioni, costumi, senso di appartenenza, quanto l’insieme di “regole” di natura economico-produttiva, il cui superamento ha determinato anche il declino delle altre di natura culturale. Stabilire questo principio può essere d’aiuto per una lettura più disincantata dei fenomeni che attraversano il territorio, comprese le logiche che regolano il rapporto tra questo e i fenomeni edilizi. Un nuovo comunitarismo Il termine comunità entra ufficialmente nel dibattito sull’architettura moderna a partire dalla fine dei CIAM, quando si andava delineando quel gruppo eterogeneo di architetti, appartenenti alla nuova guardia, conosciuto come TEAM10. L’ideologia che stava alla base del cosiddetto movimento moderno non appariva infatti più in grado di confrontarsi con la realtà mutata dallo scenario postbellico. Il Team10 rimproverava agli architetti moderni l’incapacità di confrontarsi con la città storica, l’uso di metodologie fondate su schemi del tipo logico-quantitativo, la suddivisione della città per zone operata attraverso parametri esclusivamente funzionali, l’uso degli standards nel dimensionamento degli alloggi, degli edifici e dei quartieri. Per quelli del secondo dopoguerra, invece, maggiore attenzione si sarebbe dovuta rivolgere al contesto sociale, ovvero alla dimensione sociale del progetto, il quale doveva essere in grado di recepire e rielaborare le logiche fondanti le comunità cui il progetto stesso era destinato. La nozione di comunità veniva quindi legata a quella di “habitat”, il quale rappresentava l’insieme di condizioni e caratteristiche che identificano una comunità. Con il manifesto di Doorn del 1954 il TEAM 10 espose i punti rappresentativi del modus operandi e gli strumenti di analisi prefigurati, che contemplavano gli aspetti sociali e le relazioni tra spazio fisico e comunità: “It is useless to consider the house except as a part of a community owing to the inter-action of these on each other... Habitat” is concerned with the particular house in the particular type of community”... Appropriateness of any solution may lie in the field of architectural invention rather than social anthropology” 1. Le logiche più astratte che appartenevano al bagaglio culturale del Moderno, ovvero l’internazionalizzazione dei linguaggi, l’universalità delle metodologie di intervento e la standardizzazione dei processi costruttivi, venivano sostituite da strategie che interagissero con le specifiche condizioni dei singoli contesti, sebbene fosse ancora presente, tra i giovani membri del Team 10, quello spirito eroico appartenuto agli architetti tra le due guerre, il quale permetteva loro di affermare che il progetto di architettura ancor più delle scienze sociali era in grado di dare risposte appropriate alle emergenze provenienti dai contesti in cui si agiva. L’accezione che il Team 10 dava al concetto di comunità era fortemente debitrice nei confronti dello strutturalismo francese, per cui si prediligeva uno studio dei modelli sociali alla luce delle interazioni tra individui e tra spazio costruito e individuo. L’idea che stava alla base delle analisi, poi ripresa in innumerevoli varianti, consisteva nel considerare la comunità come un insieme strutturato di elementi, interagenti tra di loro, sì che nelle relazioni e nelle modalità in cui esse avevano luogo risiedeva il senso di un comunitarismo variegato con le sue precise configurazioni. Anche nel testo The Aim of Team 10, scritto in occasione del meeting di Londra nel 1961 Concept of Team 10 Primer,sono rintracciabili elementi riconducibili alle interazioni tra istanze sociali e architettura: “to build has a special meaning in that the architect's responsibility towards the individual or groups he builds for, and towards the cohesion and convenience of the collective structure to which they belong, is taken as being an absolute responsibility. No abstract Master Plan stands between him and what he has to do, only the “human facts” and the logistics of the situation” 2. Da queste 1 The Doorn Manifesto, Holland 1954, in AA. VV., Team10 1953 – 1981 In Search of a Utopia of the present, Nai Publishers, Rotterdam 2005, trad. mia: “È inutile considerare la casa se non come parte di una comunità a causa delle reciproche interazioni... 'Habitat' è occuparsi del particolare tipo di casa nel particolare tipo di comunità ...La appropriatezza di ogni soluzione risiede maggiormente nel campo dell’invenzione architettonica piuttosto che nell’antropologia sociale”, nel senso che la stessa architettura determina i contenuti sociali. 2 A. Smithson (ed.), Team 10 Primer, MIT Press, 1974, trad.: “Costruire ha un significato specifico, in quanto è intesa come assoluta la responsabilità dell’architetto nei confronti degli individui o dei gruppi per i quali costruisce, e nei confronti della coesione della struttura collettiva alla quale essi appartengono”. Si considerazioni emerge la figura dell’architettointerprete che ha capacità di ascolto e di mediazione, che dialoga con i futuri utenti e cerca con essi una soluzione progettuale condivisa. Ed è qui che ha origine l'architettura partecipata, quella promossa in Italia da Giancarlo De Carlo, giovane laureato attento partecipante ai CIAM, il quale, introdotto grazie ad E. N. Rogers nel gotha dell’architettura dell’epoca, è stato poi membro attivo del Team 10. La propensione ad un’analisi di tipo strutturalista e la fiducia nei mezzi formali dell’architettura, ritenuta capace di incidere sulla realtà trasformandola, hanno sostenuto un’inclinazione del progetto, che ha prodotto, al di là del fenomeno del tutto particolare ed isolato dell’architettura partecipata, una serie di interventi dall’esito discutibile proprio sotto il profilo dell’integrazione sociale, malgrado influenzati dalle teorie che si articolavano intorno alla nozione di "habitat" inteso in un risiedere solidale e coeso tra i membri della comunità insediata. Dietro molti interventi di edilizia economica e popolare italiana, ad esempio, sorti negli anni a cavallo tra il sessanta ed il settanta, c’era l’idea che l’attività progettuale fosse in grado, attraverso la sua intrinseca capacità di predisporre forme, desunte dallo studio tipologico delle città, di favorire la vita associativa. Seppure gran parte della responsabilità del fallimento di quei progetti “ispirati” sia da ricercarsi nella disattenzione delle istituzioni pubbliche, che sistematicamente eludevano la realizzazione delle strutture a carattere collettivo su cui si fondava la spinta comunitaria, non si può far a meno di notare l’ingenuo utopismo di quei progetti. Così lo Zen palermitano di Gregotti, con il suo schema ad insulae, e la poca distanza tra i corpi edilizi, che si attestavano su misure inferiori rispetto agli standards modernisti, nel tentativo di ripetere le relazioni prossemiche della città storica, risulta una triste utopia, soffocata dalla mancata realizzazione degli edifici a carattere collettivo, e dall’isolamento del quartiere rispetto all’area metropolitana cittadina. Per non dire della “ricostruzione” del vicolo napoletano, nel progetto di Franz Di Salvo per le vele di Scampia, fondato sulla volontà di riproporre l'unità di vicinato nei ballatoi multipiano e quella dimensione “aerea” delle relazioni tra balcone e balcone tipica della vita comunitaria del centro storico di Napoli, risultata altrettanto fallimentare. Lungi dall’esaurire in questa sede l’analisi sulle questioni dell’edilizia residenziale pubblica in Italia, è importante sottolineare quali erano le aspirazioni dei progetti più significativi e su quali fondamenti si costituivano. Se il Team 10 per la sua eterogeneità lasciava spanoti come ritorna il termine “struttura”. L’architetto ha responsabilità assoluta sulla coesione e sulla “convenience” (comodità), in senso di “appropriatezza” della “struttura” collettiva alla quale appartengono i futuri utenti. zio ai differenti membri di seguire una via autonoma del progetto, gli studi sorti in Italia alla fine degli anni sessanta sulla tipologia edilizia e morfologia urbana diedero invece al progetto un indirizzo maggiormente omogeneo. Le analisi dei tipi edilizi nella loro relazione con la forma urbana fornivano ai progettisti gli strumenti operativi per comprendere le logiche dei differenti contesti in cui era possibile riscontrare i caratteri specifici delle diverse tipologie e la maggiore diffusione dell'una rispetto ad un altra. Sebbene un architetto progettista di molti edifici residenziali pubblici, Carlo Aymonino, abbia insistito in particolar modo sulla funzione del tipo quale strumento costitutivo del progetto, da adottare in ragione delle esigenze e dei diversi piani dell’analisi (da quella formale, volta cioè a chiarire le sue invarianti costitutive, a quella circa il suo ruolo in ambito urbano, a quella distributivo-funzionale, maggiormente adatta alla scala architettonica, ecc.) un esame del tipo in relazione agli organismi sociali non è stata mai approfondita. Gli studi condotti in Italia ebbero una notevole influenza all’estero, soprattutto in Spagna, che presentava un patrimonio storico-architettonico per certi versi assimilabile a quello italiano, in special modo riguardo ai contesti urbani minori e all’architettura rurale e vernacolare. Lo studio dell’architettura vernacolare in Spagna, alla luce della tipologia edilizia, condusse ad una visione del tipo secondo la quale la sua applicazione non doveva essere riferita solo alla sua matrice formale, ma anche alle caratteristiche costruttive e alle condizioni tecnologiche, che nel tempo ne avevano reso possibile la determinazione 3. Anche in Spagna però gli studi sulla tipologia pur tenendo conto della maggiore diffusione in una data comunità, come nel caso dei villaggi rurali, di precisate organizzazioni edilizie, non sono però andati oltre l’indagine formale e costruttiva contribuendo a rafforzare l’idea di un progetto capace di rispondere alle emergenze ambientali e sociali delle comunità in chiave prettamente formale, ovvero mediante la predisposizione di forme e spazi che favorissero integrazione e conservazione di valori culturali condivisi senza chiedersi sui reali usi cui avrebbero dovuto corrispondere, . Nella convinzione esplicitata dal Doorn Manifesto, secondo il quale “appropriateness of any solution may lie in the field of architectural invention rather than social anthropology”, si sono condotte la maggior parte delle esperienze progettuali, e per certi versi l'am3 Gli studi sui tipi edilizi dell’architettura rurale sono rintracciabili in numerosi numeri della rivista di architettura barcellonese 2CCostruzione de la Ciudad, vedi: 2C-Costruccion de la Ciudad, La Masia. Historia y Tipologia de la Casa Rural Catalana, n.17-18, Coop. Ind. De Trabajo Asociado, Barcellona, 1976). Sull’architettura vernacolare e sul tema delle permanenze: J. I. Linazasoro, Permanencias y arquitectura urbana. Las ciudades vascas de la época romana a la Ilustración, Editorial Gustavo Gili, Barcellona 1978) biguità circa la capacità dell'architettura di indurre fenomeni sociali sopravvive e accompagna anche l’attuale prassi progettuale. E, pure in tale convinzione, che permane in parte della cultura architettonica, non si può non vedere il fallimento dell'assunto che vuole il “tipo” intrinsecamente rivolto a modi d’uso storici, per cui appare lecito chiedersi perché per le comunità rurali, gli stessi fattori che hanno determinato il fallimento degli interventi socio-tipologici degli anni settanta, quali l'isolamento dalle aree urbanizzate limitrofe (gli insediamenti rurali erano essi pure avamposti edilizi in territori non urbanizzati) e l’assenza di attrezzature collettive, scolastiche, mediche, commerciali, ne abbiano invece consentito la sopravvivenza in epoche diverse. Se si guarda al sopravvivere delle comunità del vicolo e rurali per tanti secoli, pur in contraddizioni analoghe a quelle dei nuovi insediamenti popolari, appare come sia stato ingenuo pensare che le caratteristiche formali e spaziali dell’architettura e la presenza di attrezzature collettive potessero essere il connettivo per la ricostruzione di una vita comunitaria, privata dei suoi aspetti economico-produttivi, delle modalità di produzione e condivisione di beni e servizi, responsabili della nascita di profonde relazioni e interazioni tra i soggetti. La comunità del vicolo o del rione storico, così come quella delle masserie rurali,non avrebbe avuto ragione di esistere se svuotata della sua inestricabile rete di rapporti interpersonali, dell’economia spicciola che ne governava anche i processi produttivi ed economici, creando identità e ruoli tra gli individui coinvolti e intessendo rapporti tra questi e le realtà esterne.Paradossalmente ciò che è avvenuto nei quartieri popolari,da Scampia allo Zen, è stato il nascere di “micro-comunità forti” analoghe a quelle del passato, con caratteri identificativi e comportamentali condivisi, sorte e tenute insieme proprio dalla partecipazione ad una rete economico-produttiva che, non essendo più quella agricola della masseria o quella artigianale del vicolo cui la loro architettura si ispirava e si dedicava, è stata contraddistinta dalle attività delinquenziali. Se si osservano i fenomeni dal punto di vista delle realtà materiali può riconoscersi come il progetto di architettura può anche prestare attenzione verso le realtà sociali sebbene queste, senza i riferimenti economici che le sostengono si sgretolano determinando il decadere della stessa conformazione edilizia offerta alle comunità. Del resto, nel campo delle comunità più ricche invece che "popolari", non sono forse rintracciabili nei fenomeni di cohousing e di vicinato elettivo, oggi molto in voga, ragioni squisitamente economiche, che di tali fenomeni ci restituiscono un’immagine ripulita da deboli posizioni ideologiche? Il nuovo paradigma economico-produttivo sta tentando ormai da tempo di modellare una larga fetta di mercato composto dalla classe sociale medio alta, at- traverso il“green appeal”, nel tentativo di incrementare il crescente mercato legato alle fonti alternative di energia. La risposta del pubblico è resa ancor più favorevole nei confronti di questo settore di mercato, anche a causa dell’avanzare della crisi economica, sempre di più associata a quella energetica, sì che per il cohousing, con i prezzi in genere più alti rispetto alle normali abitazioni, a causa della presenza di un elevato comfort tecnologico, ben appare possibile pensare più a fenomeni di protezione classista, che a scelte fatte in ragione della sostenibilità ambientale. Si direbbe anzi che un tale fenomeno, per altro corretto sotto il profilo dell’impatto ambientale e del contenuto tecnologico delle realizzazioni, sembra far emergere la volontà di indirizzare la società verso il modello di una nuova élite, “green oriented”, composta dalla classe medio alta, bacino più ampio e proficuo per il mercato economico mondiale. Conclusioni Le condizioni del patrimonio architettonico rurale della provincia napoletana ed in particolare dell’agronolano, eccetto qualche raro caso, versano in uno stato di totale abbandono. Anche laddove negli anni si sono effettuati interventi di “recupero”, questi sono stati condotti con scarsa sensibilità. Tali interventi hanno in genere rimosso gran parte delle peculiarità tipiche dell’architettura rurale, per seguire velleità di ammodernamento di una committenza poco consapevole del patrimonio da essa stessa detenuto, cui un’intera classe professionale non ha saputo dare adeguate indicazioni. Delle tante masserie presenti nell’agro-nolano, poche presentano caratteri ancora riconoscibili e la maggior parte di esse, sopravvissute soltanto nella toponomastica dei luoghi, sono state completamente alterate e manomesse. Il tessuto economico e produttivo è andato perduto, la produzione agricola è stata soppiantata, a partire dal secondo dopoguerra, da monoculture estensive, come quella della nocciola, che, sebbene rivolta a favorire il latifondo, la grande proprietà invece che il comunitarismo contadino, stenta spesso a sopravvivere soffocata dalla concorrenza dei produttori stranieri. In altri contesti della Campania interna, rimasti più lontani dalle pressioni speculative che hanno selvaggiamente aggredito il territorio costiero e quello a questo più prossimo, il recupero di masserie e insediamenti rurali è già da tempo vincolato al settore turistico ed al crescente circuito enogastronomico. Se da un lato interventi di questo tipo finiscono per svilire in una riconversione “country chic” l’originaria funzione agricola di tali manufatti, dall’altro riescono a trovare una risposta adeguata alle richieste dell’attuale mercato economico senza rimuginare su un passato ormai irrecuperabile. È necessario pertanto uno sguardo lucido e disincantato, lontano da ingenui romanticismi, consapevo- le della vanità di ogni intervento di recupero sociale se non accompagnato dalla ristrutturazione e dal rilancio del sistema economico e produttivo degli antichi centri agricoli, avvolti da una ormai troppo lunga sonnolenza che stride con l’operosità contadina di un tempo. Il ruolo dell’architetto non può che ritornare nel campo della politica oltre che della cultura, recuperando un ruolo attivo nella sensibilizzazione di istituzioni politiche e civili, anche se l’attuale scenario socio-politico non lascia intravedere un facile percorso. PAOLO SOLERI DA VISIONARIO A VEGGENTE Paolo Sibilio Tra gli architetti contemporanei nessuno più di Paolo Soleri (Torino 1919, Cosanti 2013) ha rivolto il suo interesse verso la ricerca e la sperimentazione di un modello di sviluppo architettonico basato essenzialmente sulla costituzione di una comunità urbana. Arcosanti è stata (e resta) l’esperienza architettonica in cui, in un continuum spaziale, le necessità soggettive e collettive si incontravano inverando quella che Bruno Zevi definiva “Urbatettura” o architettura a scala urbana. Soleri, erede dell’esperienza organica di F. LL. Wright che conobbe e frequentò, contemporaneo e forse ispiratore dei movimenti dell’avanguardia architettonica degli anni ’60 come Archigram e Metabolism, iniziò la sua ricerca negli Stati Uniti d’America dove si era trasferito nel primo dopoguerra (1947). I grandi spazi deserti dell’Arizona lo condizionarono a tal punto da poter immaginare, cosa difficile in Europa, che potesse essere fondata una nuova città: Arcosanti. Nello stesso periodo gli architetti Europei erano costretti, invece, a scontrarsi e confrontarsi con un tessuto storico radicato e stratificato, con problematiche legate alla conurbazione e l’esplosione delle città storiche che negli anni sessanta iniziavano inesorabili a crescere in maniera esponenziale entrando prepotentemente con le loro contraddizioni nel dibattito culturale architettonico. I temi erano la pianificazione e costruzione dei nuovi quartieri residenziali e l’espansione delle periferie metropolitane. L’Arizona offriva a Soleri un nuovo e stimolante scenario nel quale agire: il vuoto. Nella ricerca architettonica ogni esperienza può essere scomposta in tre elementi fondamentali, indipendentemente dall’impianto culturale di riferimento. La scomposizione di un siffatto sistema riconduce sempre all’individuazione di un processo di analisi, alla determinazione di un modello teorico e all’elaborazione di una proposta progettuale. In ogni ricerca che possa definirsi tale questi tre elementi diventano invarianti riconoscibili consentendo allo studioso, al critico o al ricercatore di classificare e catalogare sia i movimenti artistici che i movimenti architettonici storicizzati. Con Soleri ciò non avviene, o meglio non avviene in modo canonico. Gli studi di Soleri sono rivolti alla costruzione di un modello nuovo di sviluppo, una città interamente realizzata per soddisfare l’intero e complesso fabbisogno di una comunità. Nel vuoto non esiste nulla da salvaguardare, nulla da valorizzare, nulla che possa essere pregiudizievole alla realizzazione dell’intervento. Ad Arcosanti, non assistiamo al materializzarsi di un neo razionalismo in cui l’edifi- cato si va configurandosi “a prescindere” dell’esistente perché il nulla non è prescindibile. Il nulla, infatti, non è riconducibile ad un astrattismo della realtà, il nulla non è materico, il nulla sta all’architetto come l’amnesia sta allo storico. La ricerca di Paolo Soleri è immaginare una città autosufficiente, dove si inverino tutte le relazioni umane, progettando ogni spazio, ogni funzione e dare forma a tutti i comportamenti umani, comportamenti da re-inventare. Leggere o rileggere i suoi scritti a distanza di anni, rivedere i suoi disegni che rappresentano megalopoli immaginarie, ci fa riflettere sul perché e sul come si sia formata in Soleri l’idea che tutto ciò che egli progettasse era possibile. Non possiamo, infatti, trascurare la circostanza che, a differenza dei “Maestri” dell’architettura moderna, Paolo Soleri ci provò, investendo in prima persona. Arcosanti esiste: è materia, non è un caso che si trovi nel nulla; non è certamente una megalopoli ma ne rappresenta “in nuce” lo spirito come il DNA, presente in ogni cellula rappresenta la natura e le relazioni che esistono nell’intero organismo complesso. La spinta ideologica di Soleri trovò le sue radici nel dibattito culturale degli anni ’60 statunitensi. La competizione economica tra i due blocchi sociali e politici allora contrapposti stimolava la spinta verso nuovi modelli di sviluppo economici e tecnologici. La corsa alla conquista dello spazio, della Luna ed infine l’idea di colonizzare l’universo erano più di oggi temi di dibattito e studio in tutte le università e centri di ricerca. Il mondo occidentale aveva il suo “Vallum Aelium“ (Vallo di Adriano), come un tempo l’impero romano, rappresentato dalla “cortina di ferro” che divideva l’Ovest dall’Est. Oltre non si andava e non si poteva andare, l’unica direzione in cui estendersi era il vuoto dell’universo cosmico. E’ in questo clima politico e culturale che nascono i primi studi e ricerche per la realizzazione di colonie spaziali; milioni di dollari e rubli vengono investiti nella ricerca di modelli di comunità autonome e autosufficienti. Quale migliore occasione per gli studiosi era questa per comprendere e conoscere il complesso delle necessità umane necessarie per far sopravvivere un gruppo nutrito di persone isolato dal mondo, lontano dal mondo? Si iniziano a studiare spazi dove singoli o gruppi di persone possano vivere per un indeterminato periodo di tempo in un luogo lontano dalle risorse, allora considerate inesauribili, della terra dove anche la razionalizzazione dell’aria era condizione necessaria alla sopravvivenza. Progetti in cui l’Habitat umano andava prima creato e poi mantenuto in costante equi- librio, contraddicendo tutto quanto stava accadendo e accade ancora nelle nostre città. La cinematografia, forma d’arte narrativa, rappresentava questa tensione ideologia: si passò nell’arco di trent’anni dai film come “Metropolis”, in cui il futuro della città era rappresentato da enorme megalopoli divisa in classi sociali che utilizzava gli aerei come mezzi di trasporto urbano ai film degli anni ’60 come “Planet of the Apes”, in cui, in un mondo, dominato dalle scimmie, l’uomo era ridotto in uno stato di schiavitù generato da lui stesso e che non a caso terminava con una maledizione del protagonista all’intera umanità: ”Voi uomini l’avete distrutta [la Terra]! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!”. Si era passato dall’immaginare un futuro fatto di progresso ad un futuro distrutto dal progresso. In questo periodo erano iniziati i primi studi sui comportamenti dei primati, base anche degli studi antropologici. Più che le similitudini tra l’uomo e le scimmie si studiano la differenze, ed esse venivano anche addestrate per missioni spaziali. Nella società si era iniziata a formare anche la convinzione che se i primati avessero potuto parlare avrebbero dominato il mondo perché noi non ne eravamo stati capaci. Negli anni ’60 e 70′ si viveva con la paura di una catastrofe nucleare imminente e la ricerca era spinta ad individuare tutto ciò che valesse la pena di essere salvato. La sopravvivenza della specie umana era legata ad una sopravvivenza culturale, non bastava però salvare gli individui andava salvato e protetto ciò che di grande l'umanità aveva creato. Per farlo era necessario catalogare, codificare, scomporre le esigenze immateriali umane, senza queste l’uomo non poteva che essere poco diverso dai primati. La ricerca continuava su questi temi, le tesi evoluzionistiche si implementavano con quelle antropologiche: come l’uomo socializza e si relaziona con il mondo che lo circonda? come vanno individuati i bisogni psicologici e come sganciarli dai bisogni biologici? quali sono le manifestazioni e relazioni umane che concretizzano il concetto di comunità o comune? In che modo tutto questo influiva sui linguaggi dell’arte? Il razionalismo, per definizione, trasformava un sistema complesso in uno essenziale e, in sostanza, lo rendeva astratto; l’avanguardia successiva, di contro, proponeva un sistema complesso, materico, organico, in cui ritrovare lo spirituale. Nella ricerca architettonica il razionalismo degli anni trenta ci aveva spiegato ciò che era possibile, l’avanguardia degli anni sessanta ciò che era necessario. Un altro filone di ricerca era indirizzato alle singole esigenze umane, all’uomo, questa volta da solo, con l’insieme delle sue necessita biologiche e spirituali, solo nello spazio o solo nel ruolo di sopravvissuto ad una catastrofe nucleare. Saggi, romanzi, film, fumetti avevano tutti un minimo comune denominatore: di cosa si aveva bisogno per sopravvivere. Cosa c’era di diverso nella ricerca del “existenzminimum” fatta con il razionalismo? Tutto. La ricerca razionalista basava il suo paradigma nella cultura sociale: il fine era quello di rendere possibile il necessario per tutti: non solo case a basso costo; razionalizzazione dei trasporti, razionalizzazione attraverso la zonizzazione della città e delle sue funzioni; ma anche la riduzione al minimo delle funzioni all’interno della residenza a vantaggio dei servizi presenti e condivisi nell’edificio: lavanderia, biblioteca, ludoteca, spazi sociali. L’Unité d’Habitation di Marsiglia con i suoi 1500 abitanti, i 17 piani e 337 appartamenti, scuole, asili, negozi, ristoranti al suoi interno ne diventa il monumento. I bisogni vengono divisi in quelli spirituali e psicologici da un lato (individualità) e quelli relazionali e sociologici dall’altro (comunità in cui l’uomo si relaziona). La città, pero, continua ad essere vissuta come un mondo corrotto, la cui trasformazione appare possibile solo con la sua “razionale” espansione. Paolo Soleri immagina altro. Nel 1970 fonda in Arizona la sua Arcosanti prototipo di una città “arcologica”, questa deve essere autosufficiente, energeticamente e produttivamente. Non razionalizza un sito esistente adeguando il costruito alle nuove necessità ma progetta spazi per nuove funzioni. Come nella cultura Hippy, l’uomo non si adatta allo “status quo” ma rinasce. Non ci troviamo di fronte ad una evoluzione tecnologica della società, non è la Roma di Nerone postincendio del 64 d.C., da riprogettare e ricostruire, ma è la “terra promessa” di Mosé dove Soleri vuole guidare tutti noi. Arcosanti inizia a crescere come un villaggio: attorno ad un focolare si costruiscono le prime abitazioni. La comunità in poco tempo raggiunge il centinaio di abitanti. La struttura principale è una semicupola aperta, orientata in modo da filtrare i raggi del Sole d’estate e permettere il loro accesso nei mesi invernali. Nell’arco di trent’anni vengono costruite altre strutture collettive come le fabbrica di produzione di manufatti in ceramica, un teatro, una biblioteca, etc. Arcosanti ripercorre i primi passi della “rivoluzione urbana” del periodo neolitico. La tecnologia è sicuramente contemporanea: il cemento armato e la prefabbricazione delle parti strutturali degli edifici ne testimoniano la contemporaneità. Le abitazioni, disposte circolarmente, sono strutture seminterrate, la loro realizzazione un misto tra scultura e architettura. Come casseri per la realizzazione delle volte viene usata la sabbia del deserto; collinette artificiali diventano l’intradosso delle strutture. La superficie della collinetta viene incisa con segni e simboli che, una volta gettato il cemento, restano impressi sulla superficie voltata dell’abitazione. La casa riprende la sua forma originaria: una caverna con impresse le sue pitture rupestri. Il rapporto di Soleri con la tecnologia è chiaro come egli stesso scrive: “L’intenzione è di chiedere il massimo alla tecnologia senza concederle alcuna libertà”. Per Soleri non può esserci un’evoluzione ma solo una “rivoluzione”. L’unico limite è (e resterà) la difficoltà di trovare persone disposte ad abbandonare i propri stili di vita per trasformarli radicalmente. Vivere o meglio “convivere” nella comunità di Arcosanti per molti rappresenta una “regressione”, per i suoi abitanti una “evoluzione”. Lo stesso Soleri ammetterà: “Il concetto di Arcologia racchiude in sé l'idea della necessità di un cambiamento di coscienza e di atteggiamento - la percezione del fatto che il nostro attuale modo di vita è probabilmente non sostenibile e forse persino non etico (...) Qui, dove vita e lavoro sono una sola cosa, non puoi isolare l'uno dall'altro. In molti aspetti, le persone che stanno lavorando qui sono eroi”. Due anni dopo la fondazione della città di Arcosanti, nel 1972 il Club di Roma, in collaborazione con il MIT (Massachusetts Institute of Technology) pubblicò una ricerca destinata a lasciare un segno indelebile nel dibattito culturale: “The Limits to Growth” (i limiti dello sviluppo). Un lavoro minuzioso, scientifico, dettagliato che non lasciò spazio ad altre interpre- tazioni. Il risultato della ricerca era chiaro: se continuiamo così non sopravvivremo. Nonostante il progresso tecnologico, la crescita della popolazione, e il miglioramento del reddito pro-capite, la progressiva diminuzione delle risorse naturali e, l’espansione industriale, lo sfruttamento dei suoli e il conseguente aumento dell’inquinamento produrranno un collasso socio-economico nei prossimi decenni. Qualunque sia lo scenario che si prospetti, secondo lo studio dei ricercatori del MIT, il collasso avverrà entro il 2100. Sono passati decenni ma è da quel momento che le ricerche utopiche degli anni sessanta, mai prese seriamente, criticate da più parti, diventano oggi possibili alternative di sviluppo. La consapevolezza del disastro naturale imminente (quello di una guerra nucleare ormai scongiurato), sia in America che nella ricostituita Europa post “guerra fredda”, hanno nel giro di pochi decenni costretto i governi a trasformare in norma legislativa quello che decenni prima erano solo appunti su un blocco di schizzi: consumo di CO2 pari a zero; autosufficienza energetica per le grandi città; ciclo di recupero dei rifiuti e delle materie prime; risorse energetiche alternative ai combustibili fossili in esaurimento; contenimento energetico degli edifici; bioarchitettura; Green economy; etc. Soleri aveva visto lontano ma mai avrebbe immaginato che quel luogo inospitale che avrebbe dovuto accogliere una comunità non sarebbe stato lo spazio profondo né un villaggio dell’Arizona ma l’intero pianeta Terra. SOCIAL HOUSING Francesca Buonincontri Secondo la Commissione Europea l’housing exclusion è la più rilevante manifestazione della povertà e dell’esclusione sociale. Il diritto alla casa deve per questo essere assicurato a tutti i cittadini, in special modo nell'attuale periodo di crisi che vede la crescita del numero di homeless (+20% in Grecia, ma anche in UK e Irlanda), ed una nuova categoria a rischio di housing exclusion, la classe media, che non, avendo diritto al social housing, ha tuttavia sempre maggiori difficoltà ad accedere al mercato immobiliare. Uno studio del 2009 riporta che, mediamente, il 6% della popolazione europea (soprattutto quella dell'Europa dell’est) vive in abitazioni sovrappopolate e dalle condizioni igienico-sanitarie o strutturali inadeguate, laddove l'Italia, con il 7,3%, insieme alla Grecia, è purtroppo l'unico paese della UE-15 a superare la soglia media. Occorre pertanto, nel riformare le politiche abitative, tener in gran conto questo fenomeno e, concordemente, tutti i paesi dell’Unione Europea, in modo molto differenziato, hanno stabilito di dover assicurare il diritto alla casa attraverso politiche di social housing, sebbene non concordi sul senso di questa definizione. Il suo significato infatti muta al variare delle situazioni abitative e delle diverse politiche nazionali per la casa, ovvero in relazione alla percentuale di abitazioni sociali sul totale degli alloggi, alle forme legali ed organizzative che assumono i capitali, pubblici e privati (fondazioni, cooperative, società pubbliche, investitori privati, ecc.), alle forme di occupazione delle abitazioni (affitto, proprietà, cooperative, proprietà condivisa ecc.), alle norme per la loro assegnazione. Tra i paesi europei esiste una pluralità di modelli di welfare per l'abitazione che spazia dal modello liberale di welfare state, dei paesi anglosassoni, in cui il social housing è rivolto a coloro che si trovano in situazioni di bisogno e che sono inseriti in liste d'attesa con criteri di priorità gestite da enti locali, al regime socialdemocratico (dei paesi nordici) che ritiene la disponibilità abitativa un diritto sociale e quindi destinato alle persone con redditi bassi e ai gruppi intermedi (Olanda) o a tutti come in Svezia, sino al regime corporativo, dei paesi dell'Europa Continentale, in cui lo Stato tende a seguire un principio di categorialità che privilegia occupati e dipendenti statali, o al modello dei Paesi dell'Europa meridionale dove si è favorito l'accesso alla proprietà, limitando le politiche pubbliche per la casa. Tenendo conto di tali differenze il Cecodhas (Comitato europeo per la promozione del diritto alla casa) ha individuato una definizione basata su quelle proprietà del social housing generalmente condivise da tutti i paesi, definendolo come l'insieme "di soluzioni abitative per quei nuclei familiari i cui bisogni non possono essere soddisfatti alle condizioni di mercato e per le quali esistono regole di assegnazione"1 Il problema della pianificazione e realizzazione di complessi residenziali collettivi inizia a porsi già dalla metà dell'Ottocento. Con la Rivoluzione industriale ed il conseguente espandersi delle città, il social housing, infatti, nasce per risolvere le esigenze abitative dei lavoratori, sebbene le soluzioni, avendo come obiettivo primario l'economicità, portano alla costruzione di quartieri dormitorio, in prossimità delle aree operaie o nelle periferie delle grandi città, spesso senza alcuna valenza estetica e senza servizi. In Italia Settentrionale, intorno al 1860, cominciano a sorgere alcuni villaggi operai dovuti a pratiche di paternalismo aziendale o filantropico, sino alla nascita del social housing, databile agli inizi del novecento, con riferimento alla Legge Luzzatti del 19032, la quale offre la prima normativa in materia d'intervento pubblico nel settore delle abitazioni, consentendo a Enti pubblici e privati, a Cooperative, a Corpi morali o a Istituti autonomi, di costruire "case popolari" con l'obiettivo di risolvere il problema abitativo dei ceti meno abbienti e di opporsi alla speculazione privata. La legge Luzzatti mostra presto alcune carenze, cui si cerca di porre rimedio con il Testo Unico del 27 febbraio 1908, n. 89, il quale, oltre ad estendere gli sgravi fiscali a tutti i settori dell'attività edilizia, porta a 10 anni, dai cinque precedenti, il periodo delle esenzioni e, soprattutto, dispone che le case economiche o popolari non siano più destinate solo al ceto operaio ma anche ai dipendenti pubblici, agli impiegati, ai piccoli commercianti. Gli interventi previsti riguardano da un lato, "i borghesi di domani" e, dall'altro, i "bisognosi di oggi", e di conseguenza si individuano due tipi di intervento,"l'edilizia popolare", da offrire in locazione ai meno abbienti, e "l'edilizia economica", per una popolazione piccolo borghese da destinare alla cessione a riscatto. In tutta Europa, nei primi decenni del Novecento, il tema centrale nel dibattito sull'edilizia popolare, è tra casa unifamiliare in proprietà e edifici multipiano (4-5 piani) in affitto e, allo scopo di ridurre i costi, si incominciano ad adottare tecniche e materiali innovativi con l'utilizzo del ferro, del cemento armato, di laterizi cavi da solaio, estrusi e cotti omogeneamen1 Housing for households whose needs are not met by theopen market and where there are rules for allocating households. Cecodhas, Salonicco2006 2 Legge n. 254/03 del 28 maggio 1903. te, secondo lavorazioni che non richiedono maestranze specializzate. In questo periodo, anche il problema della municipalizzazione dei suoli accende il dibattito urbano, dal momento che il nuovo Testo Unico sull'edilizia economico-popolare, del 1919 3, il quale dispone l'intervento pubblico nel settore delle abitazioni, consente a Enti pubblici e privati, a Cooperative e a Corpi morali o Istituti autonomi di costruire "case popolari" con l'obiettivo di risolvere il problema abitativo dei ceti meno abbienti e di opporsi alla speculazione privata mediante un regime di esproprio dei suoli. Tale Testo Unico include, alla fine della guerra, tra le categorie che possono accedere ad una abitazione economico-popolare anche i mutilati e gli invalidi civili, per essere modificato nel 1938 4, riformando gli istituti per le case popolari, riferiti a basi provinciali e sottoposti al controllo degli organi centrali. La politica abitativa italiana, durante il fascismo, favorisce l'edilizia economica a riscatto con il conseguente miglioramento degli standards abitativi sebbene, privilegiando la costruzione di villette unifamiliari in periferia, si cura poco dell'edilizia popolare, soprattutto nelle varianti "ultrapopolare" e "casa minima". Il numero di case popolari realizzate, quindi, diminuisce in percentuale, mentre la loro costruzione è obbligata a seguire norme precise sia nell'organizzazione delle aree, nella conformazione dei quartieri, nella disposizione degli edifici che nelle planimetrie degli alloggi, essendo esse rivolte all'obiettivo prioritario dell'economicità. A questo scopo vengono ridotte le superfici degli appartamenti, si individua la distinzione tra alloggi popolari, con non più di tre stanze, e gli alloggi economici che possono averne anche quattro o cinque, si ricorre a materiali da costruzione autarchici, quali il laterizio e i materiali ceramici di rivestimento, trascurando il cemento armato e il ferro. Se nei primi decenni del Novecento la situazione dell'edilizia popolare vede in Italia poche abitazioni per i ceti meno abbienti, dalle pessime condizioni igienico-sanitarie, con ambienti scarsi, spesso ricavati in cortili e sottoscale, sebbene la ricerca architettonica tra gli anni '20 e '30 si arricchisca del concetto di "tipo edilizio", le cui caratteristiche si possono sintetizzare in superfici e cubature minime e rispetto degli standards igienici (soleggiamento, illuminazione, ventilazione), nel periodo fascista, pur nel rispetto di tali acquisizioni, le abitazioni popolari, poste nelle periferie, appaiono comunque neglette, prive come sono di servizi urbani. La casa è il tema del secondo Ciam (Congressi Internazionali di Architettura moderna) tenutosi a Francoforte nel 1929, e al centro del dibattito viene posta la questione tipologica e dei parametri relativi alla definizione dell'abitazione e dell'existenzminimum (l'abitazione per il minimo vitale) il cui problema, secondo quanto scrive Gropius nella relazione al Congresso "è quello di stabilire il minimo elementare di spazio, aria, luce e calore, necessari all'uomo per non subire, nell'alloggio, impedimenti al completo sviluppo delle sue funzioni vitali, e cioè un modus vivendi e non un modus morendi"5. Con il CIAM, per la prima volta, il tema della casa viene affrontato come problema di massa a cui dare una risposta egalitaria e viene assegnato, sempre per la prima volta, un ruolo centrale all'interesse pubblico nel processo di pianificazione, ritenendo compito dello Stato e dei governi locali risolvere i problemi inerenti il miglioramento delle condizioni di vita in una città. Il lavoro degli architetti moderni sull’economicità della casa onde offrire anche ai ceti sociali più deboli alloggi e servizi, le ricerche sull'existenzminimum e sulla casa industrializzata, condurrano quindi al progetto di modelli tipologici esposti in varie occasioni o realizzati in quartieri-tipo, sino alla proposta di produrre la case in serie al modo di un'autovettura, una "macchina per abitare" che deve funzionare con estrema precisione per soddisfare i bisogni dei suoi abitanti. (Le Corbusier) Un maggiore sviluppo dell'edilizia popolare in Italia si realizza successivamente alla seconda guerra mondiale, con la ricostruzione, raggiungendo il risultato positivo di dare la casa a molti ma anche producendo la più grande espansione edilizia della storia con un'architettura spesso senza qualità e sicurezza antisismica, e sarà partire dagli anni '50 che si svilupperà l'esperienza dei quartieri residenziali pubblici basati sull'idea dell'autosufficienza onde recuperare, attraverso il modello di città-giardino, la dimensione comunitaria già perduta nelle città più grandi, sebbene l'attenzione verso i servizi da parte dei progettisti sarà delusa nelle realizzazioni. Il primo diffuso programma di edificazione di alloggi e quartieri popolari è il piano Ina-Casa, conosciuto come "Piano Fanfani ", del 1948, (legge n.43) dal nome dell'economista che, ispirandosi al new deal, prevede un intervento edilizio su scala nazionale rivolto a realizzare un "piano per incrementare l'occupazione operaia mediante la costruzione di case per lavoratori", e a interpretare l'attività edilizia in un ruolo trainante dell'economia, dal momento che, non richiedendo impianti costosi, imprenditori esperti, mano d'opera qualificata, essa appare utile a realizzare plusvalenze utilizzabili in altri settori produttivi. A ciò si aggiunge, nella richiesta di case, il pro5 3 Testo Unico approvato con Regio Decreto del 30.nov. 1919. 4 Testo Unico del 24 marzo 1938, n. 1165 sull'edilizia economico-popolare. Walter Gropius, Die soziologischen Grundlagen del Minimalwohnung in W. Gropius, Die Wohnung fur das Existenzminimum, Francoforte 1930, nella traduzione italiana Architettura integrata, Mondadori, ed Milano,1959, p. 126. cesso migratorio verso il nord, il quale si intensifica fortemente nel 1962, con il 70% della manodopera meridionale a Genova, l'85% a Milano, mentre a Torino il Quartiere Le Vallette cresce enormemente addensandosi di immigrati. Il nuovo quartiere INA Casa, realizzato tra il 1951 e il 1955 a Milano, lungo la strada per Novara, è stato uno dei primi grandi progetti di edilizia sociale costruito nell'ambito del programma di espansione per la città, sviluppato e rivisto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. In esso Giò Ponti disegna il masterplan dell'area triangolare di Harrar insieme a Luigi Figini, Gino Pollini e Piero Bottoni, con una chiara presa di posizione propria alla cultura architettonica razionalista rispetto alle trasformazioni insediative un pò strapaesane del dopoguerra, nell'intento di costruire "un tessuto a densità urbana" nella contrapposizione di due diverse tipologie, in linea multipiano ed unifamiliari a bassa densità, che rappresentano due differenti modi di abitare, la dimensione collettiva delle "unità di abitazione" e l'individualismo della casa singola. Il piano Fanfani mira a rivitalizzare il mercato edile, a rispondere alla richiesta pressante di alloggi e all'esigenza sociale, molto sentita, di ricostruire il paese. Inoltre, attraverso l'edificazione di nuovi quartieri operai che facciano da cerniera tra la città e la campagna si tenta di filtrare i processi di inurbamento anche se la scelta di lasciare fuori dai centri le costruzioni popolari ha il risultato di favorire le manovre speculative nei suoli intermedi dove venivano previste, con l'uso del denaro pubblico, le infrastrutture. La citata legge n. 43/48, voluta da Fanfani, dispone la costruzione di case per lavoratori servendosi di un sistema di tassazione dei salari (lo 0,60 % dai lavoratori, l'1,20% dai datori di lavoro, il 4,30% dallo Stato) e definisce le caratteristiche tecniche e tipologiche degli alloggi attraverso quattro "manuali di raccomandazioni e suggerimenti" per i progettisti onde ottenere una "tipizzazione razionale, estetica ed economica delle costruzioni e correlativamente dei loro elementi", individuando, con suggerimenti economici, quattro tipologie edilizie: casa multipiano, casa in linea, casa isolata, e casa a schiera a uno o due piani. L'anno successivo, il 1949, interviene la legge Tupini (n.408) che completa il precedente provvedimento sull'INA-casa applicandosi non solo ai lavoratori dipendenti ma a tutti i cittadini bisognosi di una casa e in possesso di determinati requisiti. Bisogna passare agli anni '60-'70 per vedere il realizzarsi delle politiche nei filoni dell’edilizia sovvenzionata e agevolata, mediante l'emanazione di leggi che regolano gli interventi per la fascia di popolazione a basso reddito e per la fascia intermedia, rappresentata dalle famiglie con reddito eccedente il limite per l’accesso all’edilizia sovvenzionata ma non tale da sostenere il costo delle abitazioni del libero mercato. L’edilizia sociale rimane una questione soprattutto pubblica, un settore a parte rispetto a quello dell’edilizia residenziale di mercato, e continua ad essere finanziata attraverso trattenute sulle buste paga dei dipendenti, prevedendo quartieri in periferia con architetture intensive ed anonime. Nel 1962, quindi, la legge n.167 fissa disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare mediante appositi piani di zona e, per la prima volta, si considera possibile l'integrazione dell'edilizia realizzata dagli Istututi Autonomi per le Case Popolari, sovvenzionata, con quella privata agevolata delle cooperative, mentre l'anno dopo, la legge n.60 sostituisce la gestione INA Casa con la Gescal6. Viene così promosso un piano decennale di costruzione di alloggi e, nel tentativo, di fatto fallito, di proporre un concetto nuovo circa il rapporto casa-servizi e casa-città, gli architetti progettano quartieri integrati al nord come al sud, a Milano, dove si realizzano il complesso residenziale "Monte Amiata", per circa 2400 abitanti, e il quartiere Gallaratese (1967-1974), su progetti di Carlo Aymonino, Alessandro dè Rossi, Aldo Rossi, Maurizio Aymonino, Sachin Messarè, e a Palermo, dove il gruppo Gregotti vince il concorso bandito dallo IACP per la progettazione del quartiere Zen realizzato tra il '69 e il '73. E' in questo quadro di drammatica carenza di alloggi a basso costo, tale da richieder alte densità abitative per i quartieri a finanziamento pubblico, che si determina il gesto tragico di Mario Fiorentino con il progetto dell'edificio del Corviale a Roma, teso insieme ad offrire una risposta ai bisogni residenziali dei meno abbienti ed anche, con la sua dimensione per 7700 abitanti, un limite all'espansione della città. Non mancano altresì importanti iniziative, come la legge 865 del 1971, che assegna alle regioni un ruolo primario, legando gli interventi residenziali pubblici alla programmazione pluriennale "a scorrimento" e, attraverso l'introduzione dei Piani di Recupero, incentivando il recupero dell'esistente con le prime sperimentazioni in campo energetico. Negli ultimi anni il dibattito si è acceso sulla qualità e le dimensioni degli interventi di edilizia residenziale, e anche se con pareri diversi, si è giunti alla conclusione che sia necessario un ridimensionamento della scala d'intervento rispetto alle grandi operazioni degli anni Settanta nella consapevolezza che la casa deve offrire una identità e una protezione all'abitante, non solo numero anonimo in una "cellula" che si ripete. A partire dagli anni Ottanta si è anche assistito al cambiamento del ruolo dello Stato 6 Gestione Case per i Lavoratori, fondo, creato nel 1963,destinato alla costruzione ed assegnazione di case per lavoratori creato con contributi provenienti dagli stessi lavoratori, dalle imprese e ida sovvenzionamenti statali con il trasferimento di gran parte delle competenze dal potere centrale a quello locale in un generale riassetto delle politiche abitative caratterizzato dalla riduzione dell'intervento pubblico, dalla privatizzazione di parte degli alloggi dello stato e dall' aumento delle politiche di sostegno alla proprietà con facilitazioni bancarie e fiscali. Negli stessi anni, mentre l'architettura sembra perdere interesse per le questioni sociali, non ritenendo più prioritario il tema delle abitazioni nella supremazia dell'estetico sull'etico, alla fine del secolo, nel 1998, viene eliminato il Fondo Gescal, che aveva assicurato all’edilizia sociale un flusso annuo di circa 1,5 miliardi di euro, e gli stessi suoli, in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale, non sono più acquisibili con indennizzi espropriativi agricoli inferiori al loro valore di mercato. Il social housing, assente negli ultimi trent'anni dall'architettura, che si è occupata principalmente di intervenire nelle città attraverso edifici specialistici, musei, biblioteche, grandi strutture commerciali o ricettive, ricompare oggi, con forza, come negli anni Cinquanta e Sessanta, nella ricerca anche di un'edilizia sostenibile dai costi non elevati, ecocompatibile, capace di sperimentare tecnologie e di arginare l'enorme consumo del territorio, con la costruzione di agglomerati residenziali che hanno dilatato i confini urbani 7. In Europa, nell'ultimo decennio, numerosi sono gli esempi realizzati di social housing, in Spagna, Ungheria, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda in un panorama di alloggi molto diversificato, i cui costi variano visibilmente, tra investimenti privati affiancati a quelli pubblici e sperimentazioni di nuovi linguaggi e tipologie. Si è capito che rigenerare le città attraverso interventi di social housing significa anche opporsi ai fenomeni di terziarizzazione dei centri storici; si è capito che intervenire, là dove è possibile, con complessi di abitazioni non speculativi crea un salutare mix sociale in quartieri altrimenti noisamente omogenei; si è capito che interventi, anche piccoli che si inseriscono in vuoti lasciati in stato di abbandono e degrado possono trasformare e migliorare aree già urbanizzate, come è il caso, ad esempio, dell'edificio di 26 alloggi per impiegati delle Poste realizzati da Philippe Gazeau in rue de l'Ourcq a Parigi, (Mention Spéciale du Prix Européen Mies Van Der Rohe et Mention du Prix de l’Équerre d'Argent)) o i 41 alloggi di social housing a Budapest in Prater street, progettati da PLANT-Atelier Peter Kis (2006-2008) Nei diversi paesi Europei le politiche per la casa hanno subito profondi cambiamenti derivanti soprattutto dalla carenza di fondi pubblici, cui il potere po- litico, oggi ridistribuito tra i diversi livelli di governo (nazionale, regionale, comunale), tenta di ovviare chiamando a partecipare il capitale privato. Deriva che, se la spesa sociale pubblica è indirizzata verso servizi alla persona e non più verso la casa, considerando che ad essa si accede attraverso le differenziate disponibilità economiche degli acquirenti, nel concept del social housing occorre pensare a chi occuperà le abitazioni tenendo conto del loro target. Il ritiro dello Stato dalla politica della casa riguar da tutti i paesi europei ma assume forme, tempi e modalità differenti. Alcuni paesi continuano nella politica sociale della casa non tanto costruendo nuove abitazioni quanto recuperando o rinnovando quelle esistenti. In Francia, ad esempio, il Piano per la Coesione Sociale del 2004, ha sviluppato l'offerta di alloggi in affitto e promosso l'accesso sociale alla proprietà, per contrastare la segregazione che affligge le aree in cui si concentrano le abitazioni popolari. La Svezia, il Regno Unito e i Paesi Bassi fanno registrare il maggior numero di alloggi a canone sociale. In Olanda a partire dal 1995, il settore del social housing è finanziariamente indipendente dal governo centrale, e ciò è possibile per il numero rilevante di alloggi sociali dati in affitto, finanziati con capitali privati (le housing associations hanno una solida struttura finanziaria) secondo un modello basato sulla rigenerazione urbana e sulla costruzione delle unità immobiliari con l'utilizzazione di nuove tecnologie che riducono costi e tempi di realizzazione e che tengono conto del risparmio energetico onde ridurre anche le spese di gestione. Il Belgio e l'Austria pure destinano solo una piccola percentuale della loro spesa sociale (0,3%) al social housing, anche se, nella "virtuosa" Austria la bassa spesa trova corrispondenza nell'alta percentuale di alloggi per i ceti medio-bassi già esistenti dovuta alla sinergia pubblico-privato (il comune di Vienna, ad esempio, in cambio di agevolazioni fiscali e premialità edilizie, impone ai costruttori di destinare ad alloggi sociali il 30% di ogni nuovo edificio costruito in città). Il fanalino di coda europeo sembra essere, nel campo dell'edilizia sociale, la Spagna, anche se oggi vede un trend fortemente positivo, con 10 alloggi su 100 a carattere popolare. L'Italia destina ormai agli alloggi popolari solo lo 0,1% dell'economia delle costruzioni, contro il 5,6% del Regno Unito, che è il più alto contributo d'Europa8, e il suo trend di crescita è purtroppo pari a zero laddove, dal 1999 al 2006, le unità a carattere sociale sono meno di 2.000 su 300 mila abitazioni costruite, portando la percentuale di social housing sul totale dei nuovi alloggi ad essere la più bassa del resto d'Europa. Considerando che il nostro paese agli 7 Dal 1950 a oggi il consumo di suolo è aumentato del 500% contro un aumento di popolazione del solo 22%. Fonte: Rapporto Ambiente Italia 2011. 8 Fonte Eurostat 2005, Cecodhas, 2007) inizi degli anni Ottanta aveva una quota di famiglie proprietarie della propria abitazione in media con il resto dell'Europa, già nel 2004 si riscontra una quota dimezzata di famiglie in affitto, pari al 21,3% senza che sia aumentata la percentuale dei proprietari.9 Malgrado tali indici negativi, il rapporto OnRe presentato da Legambiente e Cresme nel 2003 indica che già agli inizi del 2000 crescono innovazione e sostenibilità, essendo ben 1003 i comuni che hanno modificato i propri regolamenti edilizi per inserire norme a favore dell'efficienza energetica e della riqualificazione ambientale e per migliorare la qualità degli edifici. Gli interventi innovativi si sarebbero potuti servire anche delle disposizioni del Piano Casa introdotto nel 2008 con il D.L. n. 112, il quale offre agli operatori privati la possibilità di creare fondi immobiliari locali per la costruzione di nuove unità abitative destinate alla locazione a canone ridotto e, successivamente, alla vendita, incrementati dallo stanziamento di oltre 2 miliardi di euro da parte dello Stato10, ma è noto il fallimento di tale dispositivo del controverso decreto. Per quanto riguarda il linguaggio delle realizzazioni di social housing degli ultimi dieci anni in Italia si deduce che la maggior parte dei progetti guarda all'estero, elaborati da una generazione di architetti più europea che nazionale. Secondo l'architetto Mario Cucinella occorre cercare nel progetto per residenze un nuovo approccio che tenga conto dei cambiamenti delle strutture sociali. Il social housing infatti non è più legato alle fasce sociali meno abbienti ma si rivolge alle fasce medie impossibilitate a pagare un mutuo per l'acquisto di un'abitazione a prezzo di mercato, agli anziani che abitano in case inadeguate, ai giovani in mobilità, secondo una domanda già sviluppata in Nord Europa che impone alloggi personalizzabili "legati più alla qualità che alla quantità". Del resto è acquisita nella cultura urbanistica ed architettonica italiana, la necessità di non costruire più grandi complessi residenziali, nel privilegiare piuttosto, anche nella realizzazione degli interventi di social housing, piccoli lotti urbani in cui non creare residenze-ghetto periferiche, quanto sostituzioni o densificazioni rivolte anche a far nascere un nuovo modello di partecipazione diretta degli abitanti alla progettazione di quanto è nelle loro possibilità e nel- 9 Negli ultimi quindici anni in Italia sono state realizzate circa 4 milioni di abitazioni Fonte: Rapporto Ambiente Italia 2011 10 La Corte costituzionale con sentenza n. 121 del 26 marzo 2010 ha dichiarato parzialmente illegittimo il Piano Casa in quanto la possibilità che, nel piano nazionale, trovino posto programmi integrati per promuovere edilizia residenziale priva di carattere sociale entra in contraddizione con le premesse che ne legittimano la costruzione. Allo Stato rimane solo un ruolo d'indirizzo e la podestà legislativa passa interamente alle Regioni. le proprie esigenze 11. Prendendo spunto dall'industria automobilistica, secondo un dettato che fu già della machine à abiter, molti architetti italiani pensano ad un modello base di abitazione che può essere personalizzato con una serie di accessori, in ragione delle tematiche energetiche ed ecologiche, data anche la grande varietà di prodotti industrializzati da utilizzare. Tra essi, ad esempio, Mario Cucinella progetta a Lodi un primo esempio di applicazione di questo tipo di social housing, per un gruppo di famiglie finanziato dalla Banca Etica, sul modello di Casa100K. Questo modello abitativo proposto in collaborazione con Italcementi Group, prevede una casa di 100 mq. (in effetti già la pezzatura fa pensare a possibili acquirenti abbienti) costruita con elementi strutturali biocompatibili ed ecosostenibili, leggeri, smontabili, sostituibili, a 0 emissioni di CO2, con impianti fotovoltaici per il riscaldamento durante i mesi invernali ed accorgimenti per la circolazione d'aria durante i mesi caldi nell'utilizzo di tutte le tecnologie disponibili per limitare i costi di costruzione senza diminuirne la qualità. Come è stato scritto Cucinella è impegnato abitazioni "a basso costo, a misura di desiderio, a basso impatto ambientale, a zero spese e zero CO2" e, non a caso, risulta vincitore del concorso lanciato dall'Aler (Azienda lombarda per l'edilizia residenziale) per la riqualificazione e l'innalzamento di due piani delle quattro torri residenziali che sorgono in un quartiere storico e degradato di Milano, in via Russoli, con 1800 mq aggiuntivi per ospitare residenze per 100 studenti, spazi comuni, servizi commerciali, di ristoro, socialità e verde In particolare, queste ultime sono costruite nella parte alta di edifici-torre e realizzate utilizzando sistemi costruttivi prefabbricati in legno, materiale che, data la leggerezza, consente di innalzare rapidamente i 2 piani aggiunti, senza pesare sul carico delle strutture, con il vantaggio di trattenere CO2, garantendo, correttamente coibentato, un ottimo isolamento termico sia nei mesi invernali che in quelli estivi. Dal punto di vista tipologico queste residenze si sviluppano secondo due schemi differenti, del "microvillaggio" composto da piccole unità abitative indipendenti, diverse nelle dimensioni e per forma, e "ad albergo" con un nucleo centrale intorno al quale si distribuiscono gli alloggi. Gli edifici preesistenti, grazie al rifacimento degli involucri esterni e dei serramenti, potranno contare su un risparmio di energia primaria per il riscaldamento di circa il 50%, mentre il verde sulle coperture degli spazi di collegamento fra le quattro torri, al piano terra, ridurrà il 11 "Le undici più grandi città italiane hanno perduto circa 700.000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti 19912001. Gran parte dello spopolamento proviene dai nuclei storici di quelle città" in P. Berdini, La città in vendita .Centri storici e mercato senza regole, Roma,Donzelli, 2008, p. 3. calore nei mesi estivi, il tutto a vantaggio di quanti sono insediati che non lasceranno i propri alloggi nel corso dei lavori. Per quanto non sia affatto superata la fase rivolta a dare risposte quantitative al problema della casa, il social housing attuale si trova a dare soprattutto risposte sulla qualità, a realizzare progetti, condivisi tra pubblico e privato, che utilizzino nuove tecnologie capaci di sviluppare politiche legate all'impiantistica, all'ingegneria e alla green economy, trovandosi a dover definire progetti finalizzati alla riqualificazione di aree urbane, mediante la creazione di servizi di quartiere tali da innalzare la qualità complessiva della zona di intervento e aumentare la redditività e l'attrattiva per i capitali privati. Il mondo dell’architettura e quello dell’edilizia seguono sempre più le richieste del mercato indirizzate verso costruzioni dai costi contenuti ma dalla sicura qualità, ambientale ed energetica, maggiormente appetibili per le classi medie, per cui il principio progettuale fondante appare essere quello del rispetto dei criteri legati alla bioarchitettura ed alla sostenibilità e gli interventi di architetti come Mario Cucinella o Matteo Thun per A.t.e.r (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale di Treviso) nel comune di Motta di Livenza (TV) rappresentano un segnale nuovo nel campo del social housing che conferma, malgrado l’attenzione alla qualità, nella disattenzione alla ancora attuale, “questione delle abitazioni”, del tutto ormai rimossa, la fine definitiva di ogni “eroismo” dell’architettura. COHOUSING Luisa Mauro Quando si parla di casa, di abitazione non si può non prendere in considerazione l'individuo che la vive e l'insieme delle discipline che ne studiano i comportamenti; allo stesso modo, quando si parla di città, non si può prescindere dagli aspetti che hanno avuto e continuano ad avere una forte influenza sulla vita dei cittadini. La città contemporanea sta cambiando rapidamente sotto molti aspetti (forma, dimensioni, numero e provenienza degli abitanti) e con essa cambiano anche le esigenze abitative dei suoi residenti. L'interrogazione sui cambiamenti dei modi abitativi e sul ruolo che essi assumono nella trasformazione urbana non può che riferirsi anche ad una riflessione riguardante le forme dell’azione pubblica che intervengono in questi cambiamenti i quali sempre più sono orientati non solo da una domanda quantitativa, quanto anche di qualità. La domanda abitativa odierna si è diversificata, inglobando una quota sempre maggiore di situazioni atipiche (principalmente famiglie non tradizionali). Sono entrate in una situazione di disagio inoltre anche figure sociali che in precedenza non erano mai state interessate dal problema della casa. Questo nuovo quadro chiama in causa l’inadeguatezza e l’insufficienza delle politiche pubbliche le quali non sembrano affatto ridurre il disagio abitativo. Serena Vicari Haddock nel suo libro “La città contemporanea”1 ha analizzato le profonde trasformazioni sociali che si sono verificate e che continuano a verificarsi nella città europea e, prendendo in esame gli elementi fisici urbani, come gli spazi costruiti, i recinti che la delimitano (lì dove esistono ancora i recinti) o le infrastrutture che la solcano, senza però tralasciare quelli altrettanto significativi dell’economia, la politica e le questioni sociali, ha rilevato come essa sia un oggetto di studio sempre attuale, data la continuità nel tempo degli elementi che la definiscono e le continue interazioni tra il vecchio ed il nuovo, che ne fanno un “oggetto” complicato, in continua trasformazione e dai confini sempre più in dissoluzione, tale che gli strumenti concettuali appaiono insufficienti a cogliere le numerose sfaccettature in una situazione da “lavori in corso”2. Secondo questa studiosa le problematiche attuali si sono presentate già negli anni 6070 sebbene sia dagli anni ’80 e ’90, che "nella maggioranza dei paesi europei cresce il numero di persone in stato di povertà, cioè si ampliano le forme di deprivazione e- conomica che non consentono l’accesso ai bisogni fondamentali quali l’alimentazione, la salute, la casa, e l’educazione. Nel 1996 si contano in Europa circa 60 milioni di persone statisticamente povere ovvero individui che percepiscono un reddito inferiore del 60% rispetto alla media del reddito nazionale del paese di appartenenza" 3. Il mancato soddisfacimento dei bisogni fondamentali diluito in un lungo intervallo di tempo comporta anche il progressivo indebolimento dei legami sociali che collegano alla collettività, spingendo verso una situazione in cui si affievolisce il senso di appartenenza alla comunità nell'inaridimento della fonte dell'identità. Nelle aree urbane, poi, sono proporzionalmente più numerose le categorie di persone maggiormente esposte a rischi di povertà: coloro che vivono di lavoro precario, a bassa qualificazione e part time, le persone sole, specialmente anziane, oppure le madri sole con i figli che non dispongono di reddito adeguato per il mantenimento di un alloggio. Questa rappresenta una forma estrema di povertà che assume particolare visibilità nelle grandi metropoli e che tende a generare un grande allarme sociale. In Italia, le dinamiche del mercato immobiliare, che hanno portato in passato addirittura al raddoppio dei prezzi delle abitazioni, hanno determinato un pesante aggravio per i bilanci delle famiglie, tanto che, mentre nel 1980, secondo stime dell’ISTAT, la spesa per l’abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel 1998 tale percentuale è salita al 25%. Il panorama italiano non si discosta di molto da quello degli altri paesi europei, dove la crescita del numero di famiglie si è accompagnata a un loro “restringimento” e ad alcuni importanti mutamenti sul piano strutturale con cambiamenti che hanno largamente investito il ciclo di vita familiare. In tal senso, l’analisi dei più recenti dati per i paesi dell’area Ocse mostra in ben 29 casi su 34 la caduta sotto la media dei tre componenti per famiglia. Anche la realtà dei nuclei monogenitoriali, tipica conseguenza degli scioglimenti del vincolo in cui sempre più inciampano le coppie moderne, mostra una crescente generalizzazione, per cui, se è innegabile che il valore della famiglia trova un riconoscimento indiscusso, va preso atto che essa è stata ed è spesso costretta a cedere terreno di fronte a condizionamenti economici, sociali e culturali. Come afferma Giuseppe De Rita, “Per interi secoli la famiglia è stata luogo di valori spirituali e umani. Poi, nel Novecento, si è affermata come unico soggetto economico sociale di questo paese. … Ormai può darsi che la famiglia non goda più di ottima salute, ma di certo 1 S. Vicari Haddock, La città contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2004. 2 Ibidem, nota n. 1, p. 10. 3 Ibidem, nota n. 1, p. 124 non è defunta. Semmai è soggetta a continue trasformazioni. Ed è con questa famiglia, anzi con queste famiglie, che abbiamo a che fare”4. Nonostante ciò, nel panorama europeo, l’Italia continua ad essere il paese più “familista”. La solidarietà intra-familiare resta un insostituibile ammortizzatore sociale che attutisce i bisogni dei più deboli e contrasta quei fenomeni di esclusione e marginalizzazione individuale che si verificano in altri paesi. Dati statistici e ricerche sociologiche concordano: la forma della famiglia sta cambiando e accanto a quella tradizionale, ormai minoritaria, emergono altre, differenti, configurazioni. Si è giunti cioè a nuovi modi di vivere insieme secondo aggregazioni differenti, e se è indubbio, in questi anni di crisi, che la solidarietà tra parenti costituisce un ammortizzatore sociale, più ampie condivisioni possono rappresentare una possibile prospettiva di fiducia. La società, frammentata e multietnica, ha il diritto di avere le opportune risposte in termini di edilizia residenziale alla sua domanda di abitazione e, probabilmente, la prima di esse consiste nell'evitare le diverse settorializzazioni, dalle “case dello studente”, alle “case per anziani”, alle case per ragazze madri”, alle "case popolari", che hanno ghettizzato e chiuso in luoghi destinati i singoli problemi. Una risposta si potrebbe trovare nel crescente orientamento alla coabitazione, che si sta diffondendo per i suoi benefici sia economici che sociali. Tale tendenza, in realtà, ha origini molto remote. Basti pensare alla nascita delle comuni di abitazione negli anni ‘20 in Unione Sovietica, realizzate per far fronte alla carenza di abitazioni per gli operai impiegati nelle fabbriche, o ancor prima al socialismo utopistico sviluppatosi in Europa tra il XVIII e il XIX secolo. In entrambi i casi non mancarono sperimentazioni che tentavano di dare una soluzione alla possibile compresenza di servizi collettivi e spazi individuali all’interno di un’unica costruzione. “Tornare ad occuparsi di abitare collettivo, oggi, non solo è opportuno ma necessario ed urgente. Lo è perché, in una fase di grave crisi economica, politica, ideologica, emergono o riemergono tentativi di trovare nuovi percorsi per il rapporto pubblico – privato, in tutte le sue espressioni. E, in un momento in cui il disagio abitativo è di nuovo crescente e non investe solo fasce di popolazione marginali in condizioni di povertà, ma sta estendendosi a classi sociali che stanno passando da situazioni di stabilità economica a condizioni di fragilità e vulnerabilità sociale, discutere del modo in cui produrre non solo abitazioni ma modi di abitare è un impegno a cui la comunità scientifica degli architetti e degli urbanisti non può sottrarsi”5. Se l’abitare collettivo, dalle esperienze delle "colonie" tedesche alle unità di abitazione, è stato al cen4 Intervista a Giuseppe De Rita nel Dossier Famiglia del "Corriere della Sera" del 30 maggio 2012. 5 cfr. A. Spaziante, in A. Sampieri (a cura di), L’abitare collettivo, Franco Angeli, Milano, 2011, p. 7. tro degli studi sulla città moderna, ad esso, successivamente, si è contrapposta l’esaltazione dell’abitare individuale. Oggi si aprono sullo scenario della ricerca in materia di edilizia residenziale una serie di studi e sperimentazioni che cercano di coniugare nuove forme di condivisione le quali, allo stesso momento, non rinuncino allo spazio della individualità6. Allo stato attuale, l’esempio più diffuso di abitare collettivo è l’abitare in condominio, proiezioni delle singole unità familiari, tanto che anche i vari manuali lo analizzano particolarmente sotto l’aspetto giuridico, quello degli articoli del codice civile che dettano le regole, ai diritti di proprietà e ai doveri dei singoli condomini, senza fare riferimento alle dimensioni, alle forme ed ai possibili modi di abitare gli spazi privati e quelli collettivi7. Secondo Peter Sloterdijk il condominio costituisce "un cristallo topografico sociale o un corpo schiumoso rigido nel quale una quantità di unità sono impilate le une sulle altre e le une a fianco delle altre – queste forme condividono con le schiume instabili il principio del co-isolamento, vale a dire della separazione dello spazio per mezzo di muri comuni. Nella schiuma sociale, l’effetto-isola che rivendica per sé ciascuna cellula individuale è contornato dalla densità dell’accatastamento delle cellule". Ne risultano comunicazioni non sempre desiderabili, sebbene "fondandosi su questa scoperta, la recente architettura dei condomini ha compreso che la propria missione era quella di mantenere al livello più basso possibile lo stress da coesistenza delle unità in connected isolation. Nella misura in cui questa missione non è soddisfatta, i condomini si rivelano spesso come delle incubatrici per patologie sociali, delle quali Le Corbusier ha già fornito la formula ex negativo notando che l’essenziale in un edificio era l’aerazione psichica"8. L'eccessiva cementificazione e la smisurata densificazione delle città dovute in Italia principalmente alle speculazioni edilizie post-belliche e al boom economico, hanno fatto registrare un forte mutamento nella modalità dell'uomo di rapportarsi agli spazi in cui vive, alienandolo completamente da tutto ciò che lo circonda e rendendolo vittima della cosiddetta "violenza urbana", secondo la definizione di Philippe Cohen, che costituisce una delle maggiori cause dell'an6 A. Sampieri, Tornare ad occuparsi di abitare collettivo, in A. Sampieri, ibidem, p. 19. 7 "Edificio oggetto di un diritto di comproprietà e l’insieme dei condomini. Nel condominio alcune parti sono di proprietà comuni a tutti i condomini (muri esterni, tetto, scale, vani di uso comune e simili), altre sono di proprietà esclusiva di ciascun condomino (i singoli appartamenti che fanno parte dell’edificio). Per questo motivo la comproprietà di un edificio condominiale si differenzia dalla comproprietà in generale, per la quale non vi sono parti distinte appartenenti a singoli comproprietari, ma soltanto quote di proprietà dell’intero bene oggetto di più diritti...." In Enciclopedia Zanichelli, 1997) 8 P. Sloterdijk, Nella schiuma della co-abitazione. L’appartamento come bolla autogena dell’esistenza co-isolata, in «Area», n. 118, Condominium, settembre/ottobre 2011, pp. 4-7 sia e dell'infelicità. Di qui la ricerca di una dimensione comunitaria di difesa che giunge sino alla formazione delle comunità virtuali legate da obiettivi comuni e create all'interno del World Wide Web o alle esperienze di cohousing. Il tema del vivere in comunità è stato affrontato anche da Zygmunt Bauman nel testo Voglia di comunità, nel quale l'autore sostiene la tesi secondo cui "la comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere". In realtà la voglia di vivere in comunità che l'uomo contemporaneo sta avvertendo sembra abbia un fondamento anche nel suo codice genetico. Antonio Galdo, in L'egoismo è finito. La nuova civiltà dello stare insieme, riporta un esperimento che il Prof. Reut Avinum, responsabile del dipartimento di Neurobiologia della Hebrew University di Gerusalemme, ha condotto nel 2011, attraverso il quale ha dimostrato l'esistenza, nella componente genetica dell'uomo, del gene AVPR1A (ribattezzato gene dell'altruismo) che rilascia neurotrasmettitori come la dopamina durante gli atti di generosità, conferendo a chi li compie una sensazione di benessere9. Il ventesimo secolo ha consolidato e sviluppato a livello globale il modello dell'edificio residenziale multipiano diffondendolo nel mondo quale icona di una società evoluta e moderna, modello adatto sia a rispondere alle esigenze della città industriale, quanto alla vita delle megalopoli contemporanee e se già l'Unità di abitazione di Le Corbusier, riferimento per tale modello, fondava sui servizi comuni la residenza singolare, oggi sono le stesse esigenze economiche e sociali ad imporre modi di abitare che ritrovino i valori comunitari. Utilizzando le parole di Matthieu Lietaert, "immaginate un certo numero di famiglie (dieci, venti, trenta), ognuna con il proprio appartamento, ma che insieme condividono una serie di spazi comuni come la cucina, la sala da pranzo, il giardino, un'area giochi per i bambini, la lavanderia, una sala per la musica, un laboratorio per il fai-da-te, alcune stanze per gli ospiti, un ambiente-studio ecc."10 ed ecco il cohousing, che si potrebbe tradurre con il termine "coabitazione", una forma di vicinato che vede gli alloggi privati avere servizi in comune in modo da salvaguardare la privacy di ognuno e allo stesso tempo il bisogno collettivo di socialità. Qualcosa di più rispetto al tradizionale condominio, dove ognuno è trincerato all'interno del suo appartamento e qualcosa di meno di una comunità o di un ecovillaggio, dove a legare tutti i membri è la condivisione profonda di un progetto comune di vita. Il principio di base del cohou9 A. Galdo, L'egoismo è finito. La nuova civiltà dello stare insieme, Einaudi, Torino, 2012, pp. 8-9 10 M. Lietaert, Un'altra vita urbana è possibile, in M. Lietaert (a cura di), Cohousing e condomini solidali, Terra Nuova, Firenze, 2007, p. 5 sing sta nel fatto che ogni membro ha il suo spazio abitativo personale ma, allo stesso tempo, fa parte di un gruppo interdipendente dove tutti condividono alcuni servizi e attività. In esso, dal punto di vista progettuale, nulla è rigidamente prefissato, né la dimensione e l'uso degli spazi comuni, né l'organizzazione interna, che vengono decise collegialmente e dipendono, dunque, dalle esigenze e dalle risorse dei componenti, ed il suoi successo può riferirsi alla possibilità di scegliersi i propri vicini condividendo con loro spazi comuni e una parte del quotidiano. Le prime esperienze si sono realizzate in Danimarca, nei pressi di Copenhagen, dove nel 1972 è sorto il primo cohousing, è stata quindi la volta dell'Olanda e della Svezia, dove fin dagli anni '30 esisteva una forte realtà comunitaria, e dove nel 1980 il cohousing è stato riconosciuto e sostenuto dal governo, ed infine di numerosi altri paesi europei sino agli USA, Canada, Australia e Giappone. Oggi si possono stimare circa un migliaio di cohousing attivi in tutto il mondo e numerosi progetti in fase di avviamento anche in Italia. Il cohousing è nato come risposta innovativa e di base ad alcuni bisogni specifici delle società nordoccidentali, dove l'affermazione del sistema neoliberale ha visto insieme alla dissoluzione della rete familiare e parentale tradizionale, la drastica riduzione dei servizi e del welfare. Il fatto che il cohousing sia nato in Danimarca e abbia poi raggiunto per primi la Svezia e l'Olanda non è una coincidenza. Fenomeni come la precarietà, la flessibilità del mercato del lavoro, la dissoluzione della famiglia tradizionale, la crescita del numero di nuclei familiari con un unico genitore e uno o due figli si sono diffusi nel Nord-Europa già a partire dagli anni '70. Da qui la necessità di una struttura come il cohousing, in grado di sostituire almeno in parte i servizi, le affettività e la socialità un tempo assicurate dalla famiglia di origine. Adesso che il neo-liberalismo e la flessibilità del mondo del lavoro, nonché lo sfaldamento della famiglia tradizionale hanno raggiunto anche i paesi mediterranei, il cohousing comincia ad essere visto anche nell'Europa meridionale da un numero sempre maggiore di persone come un'alternativa concreta al modello sociale convenzionale. La decisione di far nascere un cohousing proviene dai futuri residenti e il processo comincia proprio con la scelta dei propri vicini. Seguono poi una serie di incontri dedicati alla scelta del sito, al progetto, al rapporto con gli enti pubblici e con i costruttori e il tutto si conclude con la realizzazione dei lavori. Questo periodo preparatorio ha anche lo scopo di porre le basi della conoscenza tra i singoli membri per prepararli alla futura vita in comunità. Il progetto di un cohousing prevede la presenza di funzioni dedicate alla socializzazione degli abitanti e fin dall'inizio vengono enfatizzati proprio tutti quegli aspetti che aumentano le possibilità di scambio sociale. La progettazione ma- teriale è essa stessa rivolta a facilitare l'atmosfera sociale e il successo dell'operazione spesso dipende dalla comprensione, da parte degli architetti e del gruppo dei promotori, del modo in cui i fattori di tale progettazione agiscono sulla comunità 11. Molti condomini convenzionali hanno in genere locali in comune, ma tali spazi differiscono da quelli del cohousing per il modo e il tempo di utilizzo. La casa comune, infatti, è il cuore della comunità di cohousing e può ospitare i pasti comunitari, gli spazigioco per i bambini, le lavanderie, le zone per il relax, la tv, la musica e le tante altre attività a scelta degli abitanti. Con l'evoluzione del cohousing la casa comune ha avuto un peso sempre maggiore, tanto che è sempre più frequente si decida di ridurre le dimensioni degli alloggi privati in favore di spazi comuni sempre più ampi. La gestione del cohousing è nella responsabilità dei residenti e le decisioni principali vengono prese durante gli incontri comunitari in cui si discutono problemi specifici. Mediamente, un cohousing ospita da 15 a 30 unità abitative, ma ve ne sono anche di solo due appartamenti, così come non mancano realtà di oltre 80 unità abitative. Oggi sono tante le storie relative alla nascita di cohousing nel mondo e ognuna ha una sua caratteristica peculiare, vuoi per i membri che lo costituiscono, vuoi per il luogo scelto per la realizzazione, o ancora per le modalità di acquisto e di finanziamento. Sebbene le varie esperienze di cohousing differiscono tra loro per dimensione, ubicazione, tipologia di proprietà, aspetti progettuali e priorità, si possono identificare alcune caratteristiche comuni, quali la partecipazione, anche alla progettazione, i servizi in comune e la gestione diretta da parte dei residenti. Anche in Italia, principalmente nelle regioni del nord, sta nascendo una rete di cohousing, sebbene per ora possono contarsi solo pochi esperimenti già condotti a termine, il cohousing “Numero Zero” di Torino, nato ad opera dell’associazione CoAbitare, il cohousing “Cortili Aperti” di Ferrara curato dalla associazione Solidaria, ed alcuni esperimenti milanesi alla Bovisa. La differenza sostanziale tra essi sta nel fatto che il primo è nato dal restauro di un edificio storico di Porta Palazzo, al centro storico di Torino, e gli altri si insediano in edifici di nuova costruzione. Per il cohousing di Torino, un gruppo di quindici soggetti (coppie, famiglie, singles), facendo tesoro delle esperienze già in atto all'estero, ha deciso di intraprendere alcune iniziative al fine di realizzazione di un'esperienza di co-abitazione. Il gruppo ha consultato, per la sua riflessione sul tema dell'abitare condiviso, docenti delle Facoltà di Sociologia e Architettura, esponenti delle Amministrazioni locali, esperti di tecnologie ecocompatibili. La riflessione è partita delle pratiche quotidiane individuali e familiari e dai vari desideri abitativi. Costituita l’associazione "CoAbitare", gli aderenti hanno concepito un modello di investimento economico rivolto a realizzare il proprio progetto e a diffonderne l'esperienza. L’accesso alla casa, sia in affitto che in proprietà, è diventato uno dei problemi più sentiti dalla collettività e la cosiddetta "zona grigia" non è occupata solo da "poveri", quanto anche da ceti medi il cui reddito non basta a comprare una casa e CoAbitare si propone di andare loro incontro con abitazioni a basso costo e di buona qualità nell'uso di tecnologie sostenibili. "Numero Zero", il primo progetto promosso da CoAbitare, si trova a Porta Palazzo, nel centro di Torino, in un ambiente, quindi, totalmente urbano. Il progetto di ristrutturazione è stato redatto dall'ingegnere Paolo Sanna e dall'architetto Chiara Mossetti, nel rispetto e la conservazione dell’edificio storico, nell’economicità dell’intervento, nella realizzazione di una costruzione a basso consumo energetico mediante l’uso di materiali ecocompatibili, lo sfruttamento di energie rinnovabili e il recupero dell’acqua piovana. L'edificio, oltre i tre livelli residenziali, vede come spazi comuni un piano interrato di 330 mq circa, un giardino di 90 mq, un terrazzo di 90 mq, un negozio al piano terra di 120 mq, due sale multifunzionali, un laboratorio, la cantina e un locale tecnico, nel rispetto della conformazione preesistente12. Se si considera il risparmio conseguibile con il ricorso all’autocostruzione, nella eliminazione degli utili commerciali si comprende come nel "numero zero" si può avere una casa a buon prezzo, energeticamente sostenibile con bassissimi costi di gestione, costruita con prodotti certificati non nocivi alla salute, spazi verdi, e soprattutto con un alto livello di relazioni sociali. Il cohousing “Cortili Aperti” che sta per sorgere a Ferrara ad opera dell’associazione di promozione sociale Solidaria, era stato promosso a sua volta da un gruppo composto da soggetti di vario genere e ceto sociale. Il nucleo iniziale aveva raccolto, in poco più di tre mesi, 42 famiglie che faceva approvare dal Comune di Ferrara un progetto di cohousing localizzato a Malborghetto di Boara con la realizzazione di un primo insieme di 18 unità immobiliari e servizi collettivi. La defezione di molti membri ha condotto quindi ad un secondo progetto redatto da "Rizoma Architetture" e, allo stato attuale le famiglie che hanno aderito sono solo cinque. Il progetto consiste in un piccolo edificio residenziale di tre livelli, il primo forse di altri tre, con sette unità abitative allestite al piano terra e al primo piano per le cinque famiglie aderenti e con i piani superiori senza divisioni in attesa di eventuali futuri cohousers. A Milano dopo l'Urban Village del 2009, nell'area urbanizzata della Bovisa, un esperi- 11 12 K. McCamant e C. Durrett, Una risposta contemporanea ad un bisogno antico, in M. Lietaert, ibidem, p. 29 Per le notizie riguardanti l'impresa CoAbitare e il progetto torinese cfr. http://www.cohousingnumerozero.org/ mento tra new urbanism e cohousing, che ha ottenuto, diversamente che a Ferrara, un buon successo, sono in costruzione altri complessi più periferici che si configurano di fatto in una sorta di speculazione dolce, nella previsione di nuove volumetrie pur in assenza di incremento demografico. Sebbene improntati alla solidarietà appare evidente come gli esperimenti di cohousing perpetuino quella ghettizzazione che invece si ripromettevano di contrastare, creando piccole comunità chiuse, in posizione difensiva rispetto alla vita urbana. Appare pertanto evidente come tali insediamenti ci portino a riflettere sulle effettiva possibilità che offrono ad una socializzazione più ricca di valori. In questo senso non è assolutamente incoraggiante l'ulteriore esperimento più prossimo alla "terra" in cui si coniuga cohousing e Agrivillaggio, nella realizzazione di un piccolo quartiere rurale situato ai margini della città ideato dall'imprenditore agricolo parmense Giovanni Leoni. Anche qui l'impatto con l’ambiente circostante sembra essere nullo sebbene la piccola comunità appare di fatto trasferita più che in una nuova arcadia in un passato che la rende estranea non solo allo spazio urbano quanto allo stesso tempo presente e, persino, al futuro ADRIANO OLIVETTI E LUIGI COSENZA A POZZUOLI Gaetana Laezza Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Dal discorso inaugurale di Adriano Olivetti La fabbrica dell’Olivetti è l’applicazione reale del concetto di comunità di intenti e interessi. La fabbrica viene cioè vista come ‘espressione del vivere’ a cui partecipano molti soggetti quali i lavoratori, gli investitori, i clienti, i fornitori, ognuno con il proprio ruolo e le proprie capacità lavorative. Ognuno con lo scopo di perseguire degli obiettivi comuni che superino il concetto dell'interesse individuale, in modo che la fabbrica venga vista come una realtà storico-sociale in relazione continua con l’ambiente economico e culturale che la circonda, verso cui assume responsabilità molto al di là del conseguimento del profitto. La scelta della localizzazione a Pozzuoli, e quindi nel sud Italia, dopo la fabbrica di Ivrea, non nasce dalla possibilità di ottenere sgravi fiscali o incentivi pubblici, ma dalla volontà di creare delle politiche di sviluppo economico e sociale che in quegli anni, con Olivetti, tentano di promuovere una crescita anche culturale del Mezzogiorno d’Italia. L’incontro tra Adriano Olivetti e Luigi Cosenza, il quale già aveva dato prova di saper fondere modernità e ambiente mediterraneo, si determina sull’idea di realizzare non solo una migliore condizione lavorativa per l’uomo, progettando un ambiente lavorativo più adatto alle sue esigenze, ma anche di creare una fabbrica aperta al paesaggio (progetto che verrà affidato al paesaggista Pietro Porcinai). Si trattava, quindi, di definire un’architettura pensata per l’uomo, che stabilisse anche una stretta relazione con l’ambiente circostante. Nacque così un opificio industriale inserito però in un contesto naturale secondo un disegno ideato proprio perché la natura diventasse fruibile anche e soprattutto dalla classe operaia che vi lavorava. Infatti Cosenza scrive: “Il visitatore o il lavoratore gode di un senso di appropriatezza e di benessere mentre lavora o si muove attraverso il complesso. La Fabbrica Olivetti è caratterizzata da un magnifico ottimismo nei confronti del lavoro e del suo ruolo in un mondo postbellico ancora turbato ma pieno di speranze”1. Secondo l'idea di Olivetti, cioè, la fabbrica ha in se il concetto di umanità migliore. Siamo nel 1955, anni in cui le fabbriche venivano realizzate chiuse verso l’esterno. Olivetti invece chiede a Cosenza di progettare una fabbrica che dialoghi con la natura e il paesaggio circostante, paesaggio in questo caso ricco di storia e di tradizione. “… l’architettura pensata per l’uomo, operaio o intellettuale, documenta la realizzazione di un ambiente valido nel quale il singolo trova spazi in civiltà” 2. L’idea progettuale prevedeva anche che la relazione tra l’uomo e l’ambiente fosse determinata mediante gli stessi materiali del sito, stabilendo così anche un legame con la tradizione costruttiva locale. Il progetto redatto da Cosenza si orienta sul benessere psico-fisico degli operai attraverso lo studio della giusta illuminazione degli ambienti di lavoro, della dispersione dei rumori, dell’esatta areazione e della definizione dei giusti percorsi da effettuare durante i cicli di lavorazione. La fabbrica occupa un’area di circa 4000 metriquadri con un prospetto di circa 150 m. che affaccia sul Porto di Pozzuoli lungo la Via Domitiana. La stessa relazione tra i corpi costituenti l'intero complesso viene definita in tutti i dettagli: “L’articolazione di questi corpi deriverà dall’orientamento dell’asse maggiore dei due padiglioni fondamentali, l’officina e il montaggio, in rapporto al luogo, al clima e al terreno, raccogliendo le esperienze locali sulle esposizioni a ponente e a mezzogiorno in particolare nella stagione estiva e invernale”3. A propria volta gli edifici destinati alle funzioni amministrative, sanitarie e ricreative dovevano essere posizionate nelle aree verdi. Tutti gli edifici che compongono la fabbrica sono stati progettati secondo uno sviluppo lineare così da poter assecondare lo svolgimento dell’intero ciclo produttivo. La forza dell'impianto è tale che gli ampliamenti successivi, risalenti al 1968, effettuati da Roberto Guiducci e la società Tekne, non hanno modificato la sua struttura originaria. Gli spazi interni destinati alle zone di lavoro sono previste con ampie aperture proporzionate alla intensità della luce da garantire al lavoro e con vista su quelli esterni destinati ad aree verdi. Queste ultime vengono progettate, come si è detto, da Pietro Porcinai, già nel 1953, ed è la prima volta che un paesaggista viene chiamato ad offrire il suo contributo al progetto di un edificio industriale onde definire il giusto rapporto tra la fabbrica e le aree verdi. Il verde assume così un ruolo fondamentale nel progetto diventando elemento principale nell’idea di interrelazione tra esterno ed interno, finendo con l'assumere a sua volta un significato costruttivo. I raggi solari dovevano pe- 1 2 L. Cosenza (a cura di G. Cosenza), La Fabbrica Olivetti a Pozzuoli, Clean Edizione, Napoli, 2006, p. 101. 3 Ivi, p. 19. Ivi, p. 25. netrare all’interno in determinate ore del giorno, a seconda della stagione, così da non creare effetti di abbagliamento o di eccessivo riscaldamento. Far penetrare i raggi del sole nelle prime ore della giornata forniva agli ambienti di lavoro un gradevole tepore, aumentando l’efficienza del lavoratore. Proprio per convogliare il massimo della luce all’interno degli ambienti di lavoro e creare un’atmosfera luminosa la sezione tecnica dei corpi di fabbrica è studiata nei minimi dettagli. La scelta delle alberature sia di tipo spoglianti che sempreverdi e il prato è stata determinata non solo per dare qualità allo spazio esterno ma anche per connettere la natura con la fabbrica. Con l’arrivo di Pietro Porcinai, per la sistemazione del verde, e di Marcello Nizzoli, per la scelta cromatica delle facciate, si definisce un ambiente costruito che, pareggiando la natura intesa quale costruzione, diviene a sua volta natura, prolungamento dell’uomo. “Crediamo che sia compito dell’industriale moderno, e dell’architetto chiamato a costruire la fabbrica attuale, di creare negli ambienti di lavoro non solo gli elementi funzionali e psicologici adatti a conferire al lavoro le migliori condizioni obiettive e all’operaio la massima dignità umana, ma quegli elementi che facendo già parte della preparazione spirituale e culturale della classe operaia ed essendo capaci di aggiungere suggerire ad essa nuovi preziosi apporti, siano determinanti di sviluppo e di quella funzione che la classe operaia esercita in seno alla società”4. La fabbrica, con l'incarico all’architetto napoletano Luigi Cosenza, di ispirazione razionalista, viene realizzata tra il 1951ed il1955. Il progetto che raccoglie le idee di Olivetti, diversamente dall'organicismo zeviano, pure in voga in quegli anni e rivolto a considerare la costruzione come un organismo naturale, intende la ragione stessa quale estensione della naturalità dell'uomo, per cui la precisa intenzione di inserire la costruzione nel paesaggio circostante attraverso il posizionamento di volumi che dialoghino con l’ambiente e rispettando le preesistenze, anche vegetative, non evita l'organizzazione razionale, e razionalistica, di geometrie e funzioni, disponendosi nei termini di una macchina che accoglie la natura senza opprimerla. Anche la scelta del luogo, lungo la via Domiziana a pochi chilometri da Napoli, in una posizione che gode dell’intero panorama del golfo di Napoli, per una fabbrica, esterna alle aree industriali che con la Cassa del Mezzogiorno si andavano definendo, vuole manifestare la possibilità per la macchina, e per la ragione che la determina, di non essere avversa alla natura. "La sistemazione urbanistica definisce l’unità di un territorio costruito, il tessuto connettivo dello spazio esterno. Alberature spoglianti, sempreverdi, arbusti, prato per assorbire il calore dei raggi del sole sono valori ambientali, ma in primo luogo elementi essenziali per qualificare lo spazio esterno” 5. Si tratta del primo esempio di giardino mediterraneo moderno in cui la scelta delle piante viene dettata prevalentemente in base al luogo e alle preesistenze nell’area. Eduardo De Filippo, sensibile alle condizioni dei poveri e degli operai, visita lo stabilimento di Pozzuoli e, salendo sulla terrazza che guarda il mare ed il golfo, sottolinea come anche in una fabbrica si possa e si debba godere esteticamente. Adriano Olivetti in un suo colloquio con il costruttore Ottieri fornisce la sua idea di architettura industriale: "Abbiamo voluto che la natura accompagnasse la vita della fabbrica (...). La fabbrica fu quindi con- 4 5 Ibidem, p. 99. Ivi, p. 72. cepita sulla misura dell´uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza". In un certo senso il dialogo tra l'opificio e la natura, con le sue ampie viste verso il golfo, nel formulare un'idea estetica del lavoro, invece che di sofferenza. tende ad offrire all’operaio anche un luogo di riscatto sociale, di apertura alla comunicazione, con l'ambiente, ed altresì con il mondo. Ancora oggi la fabbrica voluta da Olivetti con il progetto di Luigi Cosenza e Pietro Porcinai conserva quei valori che la fecero grande: la luce e la spazialità interna, oltre che l'inserimento nel sito che la fanno ancora riconoscere come un modello di architettura industriale. Nel lavoro meccanico l'operaio, come è noto, forza la propria personalità deprivandosi di ogni capacità creativa, "alienandosi" nell'oggetto prodotto, egli stesso mero mezzo produttivo. Onde contrastare tutto ciò il principio perseguito da Luigi Cosenza rivolto a creare un ambiente di lavoro che vedesse il lavoratore partecipe del processo produttivo, in modo da avvertire la stessa fabbrica e, generalmente, i luoghi della sua vita, come propri, e sé stesso appropriato ad essi, invece che estraneo ed estraniato. A proposito del rapporto con la natura, Cosenza consiglia a Porcinai, in una lettera, di utilizzare il pioppo con la vite. Questo suggerimento, raccolto dallo stesso paesaggista, dimostra l’interesse e il rispetto di Cosenza verso il paesaggio locale, sebbene tali essenze, pure presenti, poco si adattino alla zona. Contrappone poi a questa scelta, affinché l'ambiente naturale dialogasse con il costruito senza esserne sottomesso, l’idea di piantare un filare di platani, così da scandire la struttura portante dell’edificio composta da pilastri circolari. Il ritmo dettato dalla sistemazione degli alberi è lo stesso del colonnato interno, riprendendo lo schema della fabbrica attraverso l’impianto vegetale. Nelle aree esterne dove erano inserite già alcune preesistenti alberature l’impianto vegetale prescelto è di tipo irregolare con alberature disposte a gruppi. In tal modo il sistema del verde stabilisce un rapporto con il paesaggio circostante mitigando anche gli impatti visivi dell’area di parcheggio e creando un terrapieno rivestito con vegetazione arborea e arbustiva. Luigi Cosenza progetta contemporaneamente alla fabbrica anche un quartiere residenziale, che rispecchia la visione sociale di Adriano Olivetti, concependo cioè una integrazione tra i luoghi di lavoro e le aree abitative. Il progetto prevedeva inizialmente la costruzione nella zona di Fusaro di due unità abitative (28 e 10 alloggi ciascuna) con l’inserimento di una serie servizi: colonia marina, asilo, scuola elementare, cinema-teatro, chiesa, negozi e locali per l’assistenza sociale e sanitaria. Ancora secondo l'idea olivettiana, condivisa da Cosenza, le case dovevano favorire relazioni comuni- tarie con la presenza di orti, che, coltivati dalle famiglie operaie, oltre a determinare più floride economie familiari, potessero essere occasioni di scambio sociale, secondo il modello della campagna ma anche dell'unità di vicinato urbana. Ed anche qui del resto, a denunciare il doppio statuto dell'abitare proposto, urbano e contadino, Cosenza concepisce case "razionali" immerse nel verde, sebbene durante le fasi di realizzazione il progetto subisca trasformazioni sino a mutare luogo per essere realizzato a Pozzuoli nei pressi dell’area dell'anfiteatro romano, dove già insi- stevano i servizi di completamento (il quartiere verrà ampliato con un terzo lotto di 24 alloggi nel 1963). L’esempio della Fabbrica Olivetti di Pozzuoli forse è uno dei pochi progetti di complessi industriali che si inserisce positivamente in un’area di forte interesse paesaggistico ed archeologico. La scelta architettonica adottata è determinata dalla presenza di più corpi e da vari colonnati, immersi nel verde, con al suo interno una serie di funzioni socializzanti, quali, mensa, biblioteca, spazi per il riposo, un laghetto, viali per il passeggio. Come è noto Adriano Olivetti era il fautore di una idea non aggressiva del capitalismo, ritenendo che anche in un regime liberale potesse trovare posto lo spirito della "comunità" propria al mondo contadino o alla città preindustriale. Oltre l'idea politica però, resta, nell'esperienza della sua fabbrica, l'esempio di una possibile integrazione tra ragione, tecnica e natura, così come proposta nel progetto di Cosenza, molto, molto tempo prima della transarchitettura e di Deleuze cui questa si ispira. DAL RAPPORTO FORMA-FUNZIONE ALLA “COMUNITÀ” OLIVETTIANA, AL SOCIAL HOUSING Claudio Roseti Il concetto di Comunità si dispiega in questo numero tematico di Bloom nei suoi aspetti attuativi quale studio delle forme di residenza assegnata con facilitazioni economiche di vari livelli per alloggi con diverse tipologie architettoniche riferibili in varia misura al Social Housing adottato usualmente nel relativo territorio. Il tema proposto riguarda un aspetto fondamentale in architettura focalizzato quale punto chiave del progetto nel Movimento Moderno per cui appare certo opportuno il riferimento a Le Corbusier che sperimenta ed evidenzia questo binomio alla grande scala nel ben noto prototipo costituito dall’Unité d’Habitation di Marsiglia. Il grande maestro della modernità, a conclusione delle sperimentazioni sui rapporti funzionali pubblicati unitamente a un testo teorico, giunge quindi alla macrosperimentazione sull’abitazione collettiva costituita dall’“Unité d’Habitation de grandeur conforme” collocata nell’utopia urbana della Ville Radieuse. Il progetto dell’Unité era preceduto, come detto, da qualificati studi di tipo teorico che comprendevano altresì il ben noto tema del modulor e dei “tre insediamenti umani” coi quali si raggiunse il totale di circa un migliaio di disegni che contenevano inoltre il contributo di ingegneri nonché di altri tecnici che curavano più specificamente la redazione del progetto esecutivo collocato nel comparto urbano designato. Le notevoli dimensioni comportavano comunque interessi di un grado elevato di coinvolgimento quali sono quelli della residenza estesa a finanziamento statale. Le questioni erano dibattute a lungo e risultavano spesso difficili da risolvere. Ma con la regia del grande père Corbu tutto si concluse nel 1952, anno in cui l’Unité d’Habitation fu inaugurata. Per quanto appassionato e instancabile disegnatore e apprezzato pittore (messo a confronto dalla critica con Pablo Picasso) Le Corbusier studiava approfonditamente, e con grande attenzione e rispetto per l’utenza, il rapporto organico tra forma e funzione, valutato in relazione alla disposizione dei volumi e delle superfici esterne curandone in tutte le sue architetture il sostanziale e plurivoco rapporto tra queste due essenziali componenti della modernità esaminate sotto un altro punto di vista ovvero secondo classazioni di tipo culturale /concettuale variate. L’insieme era rispecchiabile in una serie di “ideeforza” che ponevano in relazione le varie funzioni, le relative finalità a formare un complesso strutturato posto in rapporto con gli aspetti più specificamente estetico-architettonici. Queste strutture rispecchiavano il rispetto per la “vita individuale” e la privacy nonché la “protezione familiare” dalle abitazioni circostanti; ed è questo il parametro che regola l’approfondimento delle stanze a più livelli che erano dotate di isolamento acustico e che comprendevano tutto il lungo corpo dove la continuità trasversale serviva inoltre a illuminare tali ambienti, sia pure con la limitazione dettata dalla estesa e inusuale dimensione trasversale. Ma Le Corbusier al tempo stesso non pone l’antitesi “vita individuale e vita in società” cercando piuttosto il giusto equilibrio, l’armonia tra individuo e società. “Le Corbusier rifiuta l’antitesi tra vita individuale e vita in società. Rifiuta il conflitto fra l’una e l’altra.”1 Alle caratteristiche determinate da tale assetto contribuiscono i cosiddetti prolungamenti della casa, i servizi cioè di prima necessità che Le Corbusier situa assialmente al centro del volume architettonico cui si aggiungono la scuola dell’obbligo, con cui si risparmia ai bambini presenti nell’Unité gli attraversamenti della città trafficata. Vi è infine sulla copertura il famoso “tetto-giardino” dove il verde, traslato in quota se pure artificiosamente, è di certo assai gradito a tutti; simmetricamente il piano terra, reso libero attraverso i pilotis che assolvono al ruolo strutturale, è opportunamente destinato al ricovero delle automobili che è reso in tal modo meno invasivo e anzi guadagna lo spazio di parcheggio. Adriano Olivetti (1901-1960) era un personaggio assolutamente straordinario. Imprenditore industriale ma in seguito con interessi nel campo della politica, della cultura, della letteratura e dell’architettura, è rimasto famoso per il genere particolarissimo di rapporto creato con la produzione industriale. A seguito del famoso e paradigmatico operato di Henry Ford che, a fronte della stasi delle vendite e dell’insoddisfazione dei suoi operai raddoppiò loro lo stipendio e questi quindi si misero a ruota libera ad acquistare automobili risolvendo così sia il problema economico dell’imprenditore che la propria gratificazione personale, Olivetti pure incrementò i compensi ai suoi operai coi quali istituì un rapporto paternalistico dove la fabbrica veniva equiparata a un complesso familiare, ovvero alla Comunità. Nel 2012 al Salone del Libro di Torino è stata rifondata la casa editrice “Edizioni di Comunità” creata da Adriano Olivetti nel 1946. “E’ un’antologia inedita degli scritti più significativi, fra cui Dalla fabbrica 1 H. Allen Brooks, a cura di, Le Corbusier. 1887-1965, Electa, Milano, 1993. alla Comunità di Adriano Olivetti, con interventi che corrispondono ai principali temi della crisi che viviamo oggi’” dice all’ANSA il giovane direttore Beniamino dé Liguori Carino, figlio di Laura Olivetti. “‘Vogliamo proporre a un pubblico vasto l’opera di Olivetti e far conoscere la sua esperienza. Il criterio con cui è costruita l’antologia, con scritti inediti mai pubblicati e altri testi apparsi su riviste, mai raccolti in volume, è quello di introdurre alla sua figura in modo semplice ma completo’ aggiunge dè Liguori Carino” 2. Appare assolutamente evidente e indiscutibile il ruolo prioritario, essenzialmente residenziale dell’architettura che deve’essere valutata, collocata e composta in ordine alle sue primarie finalità abitative. Questo aspetto va analizzato e valutato attentamente a monte nelle sue caratteristiche sociali viste a scala territoriale quali componenti umane, culturali e psicofisiche. La socialità, com’è noto, è un aspetto non architettonicamente definibile e individuabile giacché, per sua natura, soggetto ed esposto all’opinabilità che in seguito riesce ad assegnare ed anche a salvaguardare quel margine che consente l’individuazione dei diversi livelli sociali che corrispondono alle diverse tipologie architettoniche. Le tipologie architettoniche sono certamente legate ai fattori estetici e culturali tenendo anche presente, oltre alla sostenibilità, che la moda è sempre stato un fattore dotato di una certa influenza sull’architettura. Ma la sostenibilità per quanto, a mio giudizio, sia andata a sottolineare quanto era semplicemente sequenziale e dovuto per ogni aspetto dell’architettura, non c’è dubbio che costituisce un apprezzabile progresso nel campo che potrebbe migliorare sensibilmente l’architettura, la sua estetica e la sua efficienza conservando ed elevando il tema della sostenibilità qualora queste componenti (V. ad esempio gli impianti fotovoltaici) siano considerate organicamente e strutturalmente parte dell’architettura e con questa composte a pieno titolo quale struttura facente parte indispensabilmente dell’insieme che, non dimentichiamolo, gioca su fattori vitali al massimo livello. Non vi è mai stato alcun dubbio sulla componente sociale che, nel bene e nel male, qualifica l’architettura. La lettura della tipologia abitativa di un centro urbano disegna quindi la struttura sociale del centro stesso. Si traducono in questa sede tre possibili collocazioni della documentazione del Social Housing in rapporto con il tema altrettanto attuale della sostenibilità e che corrispondono ai rapporti del Social Housing con la sostenibilità unita ai criteri estetici e architettonici, fino allo specifico architettonico. 2 M. Capuano, “Salone Libro: Olivetti 'profetico', antologia inedita. Tornano Edizioni di Comunità”, 18 maggio 2013. I parametri secondo cui vanno composte queste scelte sono certamente quelli che caratterizzano la sostenibilità per quanto questa già si sia di recente nuovamente legata alla moda. LO STADTLANDSCHAFT , CITTÀ PAESAGGIO E COMUNITÀ Rossana Noviello Nello sforzo degli architetti del secondo dopoguerra di gestire la fase di ricostruzione e definire ruolo e funzioni della disciplina urbanistica, il confine della città, inteso come limite tra città e contado, diviene oggetto di riflessioni che hanno implicazioni sociologiche oltre che tecniche avendo a che fare con l’atavica differenza tra lo stile di vita di chi abita dentro e fuori il confine dell’urbe. La città medioevale e rinascimentale, accentrata e cinta da mura, diviene simbolo delle disuguaglianze e ingiustizie delle classi sociali del passato. Di contro si elabora lo schema della città moderna socialista, lineare ed estensibile all’infinito 1 con edifici lungo gli assi infrastrutturali della viabilità determinati dalla localizzazione degli impianti produttivi. La disurbanizzazione 2 ovvero la dispersione degli habitat sul territorio avrebbe finalmente liberato l’umanità dalle disuguaglianze portando la città nel contado e annullando l’antitesi città-campagna. La teoria dello stadtlandschaft (city-landscape o paesaggio urbano) si misura sul tema della dispersione urbana con differente approccio. Il termine era già in uso nell’ottocento ad indicare le possibili relazioni economiche intercorrenti tra la città e il suo immediato territorio. L’economista Johann Heinrich von Thünen ne parla infatti riferendosi all’elaborazione del modello dello “Stato isolato”, uno schema astratto con la città al centro di una serie di cerchi concentrici che rappresentano le regioni economiche divise in aree produttive specialistiche. Più tardi il termine sarà usato dal geografo Johann Georg Kohl il quale ipotizza nei suoi diagrammi arborescenti che reti di trasporto e agglomerati urbani funzionino come organi vitali di una regione. Sull’ipotesi della relazione della società urbana con il suo sostrato naturale lavora negli anni trenta anche Siegfried Passarge in Die Stadtlandschaften der Erde. Ma la teoria dello Stadtland-schaft assume la forma teorica più completa nell’elaborazione di Rudolf Schwarz in Von der Bebauung der Erde3 del 1949 e vede la sua prima applicazione nel Pia no per la ricostruzione di Colonia l’anno successivo. Essa si sviluppa all’interno di un contesto culturale prossimo allo spiritualismo di origine espressionista, “l’altra mo1 Nel progetto del Sotsgorod di N.A. Miliutin e nel Magnitogorsk di Ivan Leonidov la forma periurbana veniva schematizzata in una serie di settori lineari paralleli con funzioni specialistiche, organizzate in un sistema estensibile all’infinito. 2 Il termine è legato al progetto “città verde per Mosca” di Moisei Ginzburg. 3 Bebauung significa sia “costruire” che “coltivare”. Il testo è vicino all’ontologia di Martin Heidegger e al pensiero fenomenologico di Max Scheler. dernità”. Per Schwarz Stadtlandschaft è la struttura urbana in cui natura e costruzione umana si fondono l’una nell’altra in armonia con l’ordine naturale del paesaggio: l’organizzazione spirituale dell’urbanizzazione si sovrappone alla massa geologica e alla stratificazione topologica. La conquista della terra che egli chiama landnahme, assume la forma concentrica di elementi più piccoli inclusi all’interno di altri più grandi che seguono la stessa gestalt, in accordo con un piano universale per cui “ogni cosa nata ha una radice”. Schwarz elabora tre schemi fisicoesistenziali dell’evoluzione della città: il primo corrisponde allo spazio della comunità preindustriale; la sua configurazione è circolare, armoniosa e immobile. La forma della città moderna è invece lineare, dinamica, mutevole, orientata alla produzione industriale, è la città lineare socialista; manca però ad essa un centro capace di accogliere la collettività. Nel terzo schema, sintesi del primo e del secondo, il centro simbolico della città antica diviene un punto esterno alla comunità, che la spinge ad una finalità trascendente: è la città alta, istituzionale, finanziaria e religiosa. Il pensiero che sorregge lo stadtlandschaf e l’idea della dissoluzione della città non nega, contrariamente all’idea socialista di infinito procedere lineare, un principio di centralità. La Hochstadt (la città alta) contrasta il mondo industriale liberale con un “nuovo desiderio di comunità” 4. Sono evidenti i rimandi a Bruno Taut, al pathos costruttivo della sua utopica Die Auflösung der Städte, volta a riunire l’umanità intorno al simbolo della Kristalhaus e a ricostruire la “comunità dello spirito”. In Die Erde Eine Gute Wohnung, infatti, egli afferma: “Se ci solleviamo sopra la superficie terrestre su di un pallone aerostatico, vediamo sotto di noi le case, sparse come granelli di sabbia e talvolta aggregate in file. I granelli di sabbia si stringono gli uni agli altri e quanto più saliamo tanto più essi sembrano simili a una nebbia che ricopre il terreno verdeggiante. E in questa nebbia brillano come stelle in cielo alcuni punti splendenti. Sono gli edifici di culto, fatti di vetro che rilucono nella notte” 5. L’utopia, ovvero il progetto di costruzione di luoghi felici in cui la condizione di vita individuale si possa elevare a condivisione della coesistenza democratica del vi4 P. Mantziaras,“Rudolf Schwarz and the concept of citylandscape” in Arquitectura, ciudad e ideología antiurbana, Pamplona, 2002. 5 M. Schirren, “Natura, cosmo, Weltbild, proporzione. Bruno Taut teorico”, in Bruno Taut 1880-1938, Milano, 2001, p. 100. vere comunitario, come “spazio di vita”, è anche il percorso condotto senza soluzione di continuità da Hans Scharoun dagli anni ’20 fino alle proposte per il Kollektivplan di Berlino nel 1958 che egli elabora seguendo il principio dello stadtlandschaft. Nel progetto per il Concorso per un Centro Culturale a Gelsenkirken e in quello per il Museo di Storia Naturale di Dresda del 1920 è presente chiaramente il tema della kulthaus, cosi come nel progetto per il Concorso per la Piazza della Cattedrale di Prenzlau del 1920 Sharoun disegna una bassa cortina intorno alla cattedrale gotica, racchiudendola ed esaltandone la centralità; ancora, a Elville, un elemento centrale circolare è circondato da due corone più basse a pianta poligonale. Nei progetti degli anni 1922-23 assistiamo ad una evoluzione nella direzione di un più avvertito dinamismo: il tema del paesaggio urbano, come Schwarz aveva già postulato, prosegue nella ricerca scharouniana del wesenheit6 (essenza dell’interno) e della sua disseminazione in uno spazio aprospettico. L’Edificio della Borsa a Königsberg incorpora forme fluide e rotte. Il movimento non è solo metaforico o formale ma è generato dall’organizzazione del flusso di traffico. Nel progetto di Concorso di un Edificio per Uffici sulla Friedrichstrasse a Berlino, il passaggio diagonale che frattura il fronte prospettico appare un’anticipazione delle fratture della Philharmonie, la tenda squarciata all’ingresso, proprio lungo lo spigolo verticale dell’edificio. Negli stessi anni egli esegue degli acquerelli di architetture, volumi di grandiose costruzioni pubbliche che si articolano in forme circolari in cui il violento movimento genera squarci orizzontali; il colore dominante è il giallo oro, la leggerezza della massa è gonfiata dall’interno come da un soffio vitale. In questo prima elaborazione non ci sono uomini e non c’è traccia delle funzioni se non nei titoli, “Teatro”, “Cinema”, “Parlamento”, “Sala espositiva”. La società che gli edifici intendono servire resta astratta.; solo più tardi, con i disegni della “Resistenza” degli anni 1939-45, le architetture-paesaggio accoglieranno l’uomo: una processione di figure cammina su piani scolpiti in forma di scale, rampe, tetti e giganti terrazzo. I tetti assomigliano a tende o a lenzuola liberamente fluttuanti nel vento. L’essenza delle cose, il nucleo immateriale e spirituale di cui la costruzione organica è manifestazione, è energia che si dissemina nello spazio come forma organica e come conformazione della vita della società, in un’identificazione di vita umana e architettura: l’esplosione dello spirito dei primi schizzi prende le forme di un edificio laico del popolo e per il popolo. Häring par6 P. Blundell Jones, Hans Scharoun, Phaidon, London, 2000, p. 40. lerà similmente di Verlebendigung (vivificazione): l’edificio, coltivando la configurazione essenziale che è rinchiusa al suo interno, è azione insieme morale e politica. L’identità monadica del comune procedere di paesaggio e spirito include una co-evoluzione della stessa “costruzione” sociale: all’integrazione di vita e costruzione aspira la wohnzelle, wohngehofte, schulschaft – unità della vita della casa, unità della vita sociale della città, società scolastica – e se la casa è la cellula germinale della società formata organicamente, la scuola nel processo biologico sociale rappresenta il primo passo dell’individuo nella comunità. La forma di volta in volta segue la cellulare evoluzione della funzione che si conforma come corrente di vita, non schematizzabile in regole. La scuola femminile di Lünen è un esempio di questo processo del progetto teso a riformare relazioni e condizioni umane. Le aule si dispongono intorno a chiostri completamente chiusi per il ginnasio inferiore, chiusi su tre lati per quello superiore, e aperti su terrazze per il liceo con una chiara allusione al processo di chiarificazione, di luce, che accompagna la conoscenza. Esse circondano una lunga hall centrale, caratterizzata da un voluto disordine e da una noncuranza per il dettaglio: è il luogo della convivenza sociale, il paesaggio dentro l’architettura. Già nel 1951 egli aveva presentato una Volksschule (scuola per il popolo) in occasione della famosa conferenza dal titolo “Mensch und Raum”, che si tenne a Darmstadt, la stessa in cui Martin Heidegger presentò la lezione dal titolo Bauen, wohnen, denken. In quella occasione era presente anche Rudolf Schwarz e sicuramente qui Scharoun maturò compiutamente la prospettiva comunitaria della creazione spaziale. Solo negli anni ’60 egli avrà finalmente l’opportunità di realizzare con il Kulturforum l’insieme urbano come forma della città democratica che aveva da sempre perseguito: la comunità che si raccoglie, architettura, città, paesaggio come una cosa sola. Ecco come egli descrive la Philarmonie, l’edificio germinale dello stadtlandschaf del Kulturforum: “La costruzione segue l’esempio del paesaggio, l’auditorio come una valle, l’orchestra circondata da disordinati vigneti che si arrampicano sui fianchi delle vicine colline. La copertura assomiglia a una tenda, incontra questo paesaggio terreno come un paesaggio celeste. Convessa in carattere, la copertura a tenda è legata all’acustica, permettendo la massima diffusione del suono. Il suono non è costretto dalle strette mura di una sala ma sale dalla profondità e dal centro, muovendosi in tutte le direzioni, per ridiscendere e diffondersi sugli ascoltatori più in basso. Ogni sforzo è teso a trasmettere le onde del suono dalla più lontana parte dell’auditorium, nella via più breve. La diffusione è garantita dalla ri- flessione dei muri, e dalla disposizione su più piani delle terrazze-vigneti. In ciò siamo stati aiutati dai progressi fatti nel campo della scienza acustica: un territorio vergine è stato scoperto, esplorato e conquistato. Le richieste dell’auditorio determinano ogni dettaglio costruttivo di questo edificio monumentale. Per quanto riguarda la forma esterna, è chiaramente dimostrato dal tetto a forma di tenda”7. La pianta della Philharmonie è scossa da un vortice concentrico di matrice pentagonale che, orma tettonica della costruzione, genera un movimento barocco, rotto ma allo stesso tempo perfetto. La costruzione a pianta centrale si dissemina in mille ramificazioni verso la città: il paesaggio urbano entra nell’architettura e questa si dilata in lui, in una interazione tra individualità dell’ambiente interno e condivisione della vita pubblica 7 Ibidem, p. 178. Carlo Prati Alien Urbs Prospettive edizioni, Roma 2013 cose" (tautà aeí), ogni volta incontri quanto ancora in esse resta da vedere. Topologia è questo: una pratica di pensiero che nell'orizzonte del presente - e non del presente eterno, ma del presente che passa - fa esperienza di tempi molteplici, ove Hegel è, insieme, contemporaneo di Agostino e di Schelling, e questi di Plotino e di Hegel, secondo lo strato di tempo che essi di volta in volta abitano. La seconda favola parla della "difficile felicità" di vivere questo tempo stratificato nella consapevolezza che il presente in cui si rivela la molteplicità infinita dei tempi, è solo un attimo, un battito d'occhio, he ripè toû ophtalmoû, in cui tutto come vive, così può scomparire. Il tragitto dalla prima alla seconda "favola" descrive l'ethos della topologia: un modo di abitare il mondo e il tempo senza essere del mondo e del tempo. Una Roma che si veste da megalopoli asiatica, la Roma a macchia di leopardo delle immense periferie e del nuovo fronte della città, la Roma dei migranti e dell'emergenza abitativa, della lottizzazione selvaggia, degli scandali dei Mondiali di Nuoto. La Roma Capitale dell'amministrazione Alemanno. Una Roma piena di astronavi, quella di Alienlog, ma non per questo meno reale. Alien URBS sceglie il linguaggio della fantascienza per raccontare e provocare questa città. La città che ha visto tutto e che nulla riesce a scuotere. Ma che in verità, al di là di questa indifferenza di facciata, ci appare ogni giorno più sofferente, rabbiosa e inospitale. Roberto Esposito Due Einaudi, Torino 2013 Massimo Cacciari Il Potere che frena Adelphi, Milano 2013 Vincenzo Vitiello L'ethos della topologia Le Lettere, Firenze 2013 Questo libro inizia con una favola e con una favola termina. La prima narra della "felicità" di trovarsi in tutti i "luoghi" (tópoi) della storia e del tempo "a casa propria", come un signore che, nel suo Castello, muovendosi sempre tra "le stesse sioni politiche che hanno segnato la nostra civiltà ruotano intorno a queste domande, e nell'opera di alcuni dei suoi più grandi interpreti, da Agostino a Dante a Dostoevskij, trovano una drammatica rappresentazione. Il volume è corredato da un'antologia dei passi più significativi della tradizione teologica, dalla prima patristica a Calvino, dedicati all'esegesi della "Seconda lettera ai Tessalonicesi", 2, 6-7. Nella "Seconda lettera ai Tessalonicesi", che la tradizione attribuiva a san Paolo, compare l'enigmatica figura di una potenza: il katechon, qualcosa o qualcuno che trattiene e contiene, arrestando o frenando l'assalto dell'Anticristo, ma che dovrà togliersi o esser tolto di mezzo - affinché l'Anticristo si disveli - prima del giorno del Signore. E l'interpretazione di quella figura è qui lo sfondo su cui si dipana una riflessione generale - in costante 'divergente accordo' con la posizione di Carl Schmitt - sulla 'teologia politica', e cioè sulle forme in cui idee e simboli escatologico-apocalittici si sono venuti secolarizzando nella storia politica dell'Occidente, fino all'attuale oblio della loro origine. Con quale sistema politico può trovare un compromesso il paradossale monoteismo cristiano, la fede nel Deus-Trinitas? Con la forma dell'immuro o, invece, con quella di un potere che frena, contiene, amministra e distribuisce soltanto? Oppure occorre cercare una contaminazione tra le due? Non poche delle deci- Alla fine di un dibattito che ha attraversato l'intero Novecento, il significato ultimo della nozione di "teologia politica" continua a sfuggirci. Nonostante i tentativi di venirne a capo, parliamo ancora il suo linguaggio, restiamo ancora nel suo orizzonte. Il motivo, per Roberto Esposito, sta nel fatto che la teologia politica non è né un concetto né un evento ma il perno intorno al quale ruota, da più di duemila anni, la macchina della civiltà occidentale. Al suo centro vi è l'articolazione tra universalismo ed esclusione, unità e separazione. La tendenza del Due a farsi Uno attraverso la subordinazione di una parte al dominio dell'altra. Tutte le categorie filosofiche e politiche che adoperiamo, a partire da quella, romana e cristiana, di persona, riproducono ancora questo dispositivo escludente. Perciò il congedo dalla teologia politica - in cui risiede il compito della filosofia contemporanea - passa per una radicale conversione del nostro lessico concettuale. Solo quando avremo restituito al pensiero il suo "posto" - relativo non al singolo individuo ma all'intera specie umana - potremo sfuggire alla macchina che da troppo tempo imprigiona le nostre vite.