In copertina: Studenti del Mayo College di Ajmer (foto di Roy Lewis, particolare). «La verità e la non-violenza sono antiche come le colline». M.K.Candhi «Le future generazioni a stento potranno credere che un uomo di siffatta statura morale sia passato in carne ed ossa sulla terra». Albert Einstein Da una delle più alte espressioni della coscienza morale del nostro secolo, un messaggio di intatta attualità. Questa antologia - che comprende una scelta degli scritti politici 191948, dall'Autobiografia e da La forza della verità vuole mettere in luce I momenti essenziali in cui si articola la non-violenza gandhiana, intesa come unità di pensiero e azione. Nella prima parte sono stati raccolti e ordinati gli scritti concernenti I principi fondamentali della non-violenza: la concezione etica di Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), la distinzione fra non-violenza del forte e non-violenza del debole, il rapporto fini-mezzi, l'atteggiamento nel confronti della violenza e della guerra. Nella seconda, le pagine più importanti per la comprensione della prassi della non-violenza: i requisiti e la preparazione dei non-violenti, le varie tecniche di lotta. Nuova edizione a cura di Giuliano Pontara, docente di filosofia pratica presso l'Università di Stoccolma. (Traduzione di Fabrizio Grillenzoni e Silvia Calamandrei.) M. Κ. Gandhi Teoria e pratica della non-violenza λ cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara Traduzione di Fabrizio Grillenzoni e Silvia Calamandrei Nuova edizione Einaudi © Navajivan Trust, per concessione del Navajivan Trust, Ahmedabat – 14 © 1973 e 1996 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Prima edizione «Nue» 1973 ISBN 88-06-14085-X GLOSSARIO Abkari: tassa su bevande alcoliche e narcotici. Ahimsa: non-violenza, il non far del male, amore. Akhada: istituto di educazione fisica. Aparigraha: non-possesso. Ashram: eremo, ritiro, centro di studi e meditazioni, spesso del tipo del nostro convento, ma non necessariamente tale. Centro di ritiro e preparazione di Gandhi e dei suoi collaboratori. Avatar: incarnazione divina, profeta, veggente. Bramacharia: castità, purezza, celibato. Charkha: arcolaio, filatoio. Dharma: dovere religioso, legge morale, religione. Goonda: bandito, facinoroso, malfattore. Harijan: intoccabile, letteralmente « Popolo di Dio ». Hartal: chiusura dei negozi in segno di protesta, sospensione del lavoro e in generale di ogni transazione economica. Himsa: violenza, ingiuria, male. Hizrat: esilio volontario, emigrazione di massa. Khaddar, Khadi: stoffa filata e tessuta a mano. Kirpans: spade di cui sono armati gli sikhs. Kisans: contadini. Lathi: specie di manganello di bambù in dotazione alla polizia indiana. Moksha: emancipazione dagli affetti terreni, salvezza religiosa, distacco dalle cose di questo mondo. «Navajivan»: letteralmente «Vita nuova»; nome di un settimanale fondato e diretto da Gandhi e della casa editrice da lui fondata. Panchayat: originariamente consiglio di villaggio formato da cinque membri scelti fra i più anziani. In Gandhi consiglio di villaggio democraticamente eletto. Ramanama: nome per Dio. Satya: verità. Satyagraha: forza-verità, forza che proviene dall'attenersi alla verità, nome usato da Gandhi per designare il suo metodo di lotta non-violenta. Satyagrahi: seguace del satyagraha. Swadeshi: amore e difesa di cose e tradizioni indigene e native. Swarai, Purna swarai: autogoverno, vera indipendenza. Takli: strumento per filare. Tapasya, Tapas: contrizione religiosa, sacrificio, austerità. Zamindar: proprietario terriero. Indice Abbreviazioni p. VII A Autobiography. MR My Religion. MS My Socialism. NVPW, I Non-violence in Peace and War, vol. I. NVPW, II Non-violence in Peace and War, vol. II S Satyagraha. SFG Selections from Gandhi. SSA Satyagraha in South Africa. TNVS Towards Non-violent Socialism. Premessa all'edizione 1996 IX Il pensiero etico politico di Gandhi di Giuliano Pontata CLXIII Nota biografica Teoria e pratica della non-violenza PARTE PRIMA I principi della non-violenza I. Che cos'è la non-violenza? 5 1. A guisa d'introduzione. (MR, p. 156) 5 2. Gandhi spiega la sua scoperta della non-violenza e ne dà una generale caratterizzazione. (SFG, § 439, pp. 153-54) 6 3. La disposizione a soffrire invece di far soffrire gli altri essenza della nonviolenza. Sulla non-violenza tra stati. (NVPW, I, pp. 47-48) 8 4. Riferimento ai sacri testi indiani in una caratterizzazione della non-violenza in sei punti. (NVPW, I, 47, pp. 126-28) II 5. Sulla non-violenza come azione diretta e forza positiva fondata sull'amore e includente tutta la creazione. (NVPW, I, pp. 121-229) 12 6. Caratterizzazione della non-violenza, qui chiamata resistenza passiva, come fondata sulla disposizione a soffrire e esprimentesi nella disobbedienza civile nonviolenta. (S, II, pp. 51-53) 14 7. Differenza tra satyagraha e resistenza passiva. Significato del termine «satyagraha». (S, 3, pp. 6-7) 16 14) 8. Ancora sulla differenza tra satyagraha e resistenza passiva. (SSA, pp. 112 e 113- 18 9. Tra codardia e violenza scegliere la seconda. Ma la non-violenza è infinitamente superiore alla violenza. Caratterizzazione della non-violenza. (NVPW, I, I pp. 3-6) 22 10. La violenza moralmente cattiva ma la codardia peggiore. (NVPW, II, 97, p. 151) 22 11. Satyagraha al servizio di una causa ingiusta è impossibile. Satyagraha esclude la violenza sotto ogni forma. (S, 12 pp. 56) 23 12. La non-violenza è compatibile con l'appoggio della violenza di chi non crede nella non-violenza, quando la violenza è impiegata al servizio di una causa giusta. (NVPW, I, pp. 64-65) 24 13. Superiorità della non-violenza sulla violenza in quanto la seconda abbrutisce. (NVPW, I, 25, pp. 323-25) 26 14. Sulla quasi non-violenza dei polacchi nella seconda guerra mondiale, e caratterizzazione della non-violenza o ahimsa. (NVPW, I, p. 341) 27 15. Impossibilità di usare la non-violenza da parte di coloro che non hanno coraggio e altri presupposti dell'impiego del satyagraha. (SFG, § 551 pp. 218-20) II. Fini e mezzi a) Verità e ahimsa. 30 30 1. Caratterizzazione del satyagraha come ricerca della verità. (SFG, § 55, p. 17) 2. Verità = Dio. Ahimsa il solo mezzo per realizzare la verità. La verità e l'ahimsa implicano l'identificazione con ogni essere vivente. (A, pp. 370-71) 32 3. Sul concetto di Verità-Dio e sulle diverse vie ad essa. (S, pp. 38-40) 34 4. Sulla relazione tra verità e non-violenza o ahimsa. (S, pp. 40-42) 36 5. Ancora sulla relazione tra verità e non-violenza. (S, pp. 29-30) 38 6. Ahimsa come il mezzo per raggiungere la verità. (NVPW, II, 66, pp. 99-100) P39 7. Sul posto del sacrificio nella concezione generale dell'ahimsa. Il sacrificio inteso come atto diretto al bene degli altri senza alcun desiderio di ricompensa. Fondamenti religiosi del sacrificio. (S, pp. 47-50) 43 8. Rispetto per la verità significa cercare di capire la verità parziale da cui muove il nostro oppositore e cercare di convertirlo con il nostro soffrire. (SFG, § 563, pp. 221-22) 44 9. Sulla relazione mezzi-fine: un fine buono può essere raggiunto soltanto con mezzi buoni. Vari esempi concreti. (S, 4, pp. 9-15) b) Il programma costruttivo. 49 1. Sul posto centrale di un programma costruttivo nella non-violenza. (S, 137, pp. 307-8) 50 2. Un impegno continuo in un lavoro costruttivo condizione necessaria a formare un'atmosfera in cui praticare le forme di lotta non-violenta. (S, 42, pp. 100-1) 52 3. Il programma costruttivo parte centrale della nonviolenza e presupposto di una lotta non-violenta. (SFG, § 415, pp. 144-45) c) La gerarchia dei mezzi nella lotta nonviolenta. 53 1. La lotta non-violenta diventa legittima solo dopo che tutti gli altri mezzi leciti sono stati messi alla prova. (MR, p. 66) 53 2. Principio fondamentale della lotta non-violenta: non allargare l'obiettivo della lotta e non iniziare la lotta con i mezzi più radicali. (SSA, pp. 208-10) 55 3. Sullo stesso argomento. (SSA, p. 271) III. Le premesse etico-psicologico-religiose 56 1. Sull'assunto concernente l'unità della natura umana e sulla fede che quindi anche un Hitler o un Mussolini, messi di fronte alla non-violenza del forte, possono reagire in modo umano e morale. (NVPW, I, p. 186) 57 2. La fede in Dio necessaria per praticare la non-violenza. (S, 171 pp. 364-65) 58 3. Capacità delle masse di comportarsi in modo nonviolento. (SFG, § 586, p. 230) 59 4. La non-violenza o ahimsa come legge della specie umana e fondamento della storia. (NVPW, I, 126, pp. 325-29) 64 5. La non-violenza fondamento e legge della storia. (S. pp. 15-17) IV Violenza e non-violenza a) Criteri di distinzione tra violenza e nonviolenza. 66 1. Lettera contenente l'obiezione che la non-collaborazione è una forma di violenza. Risposta di Gandhi con concreti esempi di non-collaborazione violenta e non-violenta. (S, 70, pp. 166-69) 69 2. Non-violenza non significa non uccidere. In certe occasioni uccidere imperativo della non-violenza. Fondamento della non-violenza e distinzione di essa dalla violenza o himsa. (MR, pp. 74-76) 72 3. Sul dovere di uccidere animali quando vite umane sono minacciate da essi. Ma lo stesso principio non applicabile al mondo umano perché l'uomo è fornito di ragione. (NVPW, II, 39, p. 65) 72 4. Eutanasia in pieno accordo con la non-violenza. (SFG, § 445, p. 156) 73 5. Sulla maggiore violenza di chi costringe un altro a non mangiare pesce rispetto a quella di chi mangia pesce. La non-violenza come sforzo di diminuire il più possibile la violenza nel mondo, sotto tutte le sue forme. (NVPW, II, 37, p. 63) 74 6. La non-violenza non significa che non si faccia una gradazione tra vita e vita. Impossibilità di eliminare completamente la violenza dalla nostra vita. Difficoltà di tracciare una chiara linea tra violenza e non-violenza. (NVPW, II, 40, pp. 66-68) 77 7. Nessuna attività è completamente libera da violenza. L'ahimsa come sforzo di ridurre il più possibile la violenza. (MS, pp. 34-35) b) Gandhi di fronte al problema della guerra. 78 1. Argomenti con cui Gandhi difende la sua partecipazione alla spedizione contro gli zulù come compatibile con la dottrina della non-violenza. (A, pp. 231-32) 81 2. Argomenti con cui Gandhi difende la sua partecipazione alla guerra contro i boeri. (SSA, pp. 71-74) 84 3. Argomenti con cui Gandhi difende il suo appoggio agli inglesi nella prima guerra mondiale. (A, pp. 255-56) 87 4. Risposta a critiche circa gli argomenti addotti nel precedente passo. (A, pp. 25758) 89 5. Risposta ad una lettera in cui Gandhi è criticato per il suo atteggiamento nei confronti della rivolta degli zulù e della prima guerra mondiale. (NVPW, I, II pp. 2327) 94 6. Altra risposta ad una lettera in cui Gandhi è criticato per la sua partecipazione alla prima guerra mondiale. (NVPW, I, 29, pp. 75-77) 97 7. Ulteriore risposta ad altra lettera critica circa l'atteggiamento di Gandhi nei confronti della guerra al tempo della prima guerra mondiale. (NVPW, I, 50, pp. 13336) 100 8. In risposta ad una lettera critica Gandhi precisa la sua posizione nei confronti delle guerre da lui appoggiate e chiarisce in che misura la sua posizione nel momento in cui scrive si distanzia da quella precedentemente presa. (NVPW, I, 28, pp. 73-75) 103 9. Ci troviamo di fronte, continuamente, ad una scelta tra doveri contrastanti, per esempio quello di comportarci in modo non-violento e quello di ubbidire alle leggi dello stato. Non sempre la scelta è in favore del primo dovere. Inoltre Gandhi si trovò spesso nella situazione di non-violento che tuttavia era il leader riconosciuto di uomini che alla non-violenza non credevano. In tale situazione egli considerò suo dovere appoggiare la loro violenza in quanto usata in una causa giusta. (NVPW, I, 20, pp. 53-54) 104 10. In risposta alle critiche del pacifista belga De Ligt, Gandhi chiarisce ulteriormente la sua posizione nei confronti della guerra. (NVPW, I, 30, pp. 78-80) 107 11. Ulteriori precisazioni di Gandhi in risposta ad una lettera di un tolstoiano scritta in seguito al precedente articolo. (NVPW, I, 32, pp. 83-88) 112 12. Risposta di Gandhi ad altra lettera critica scritta da De Ligt in seguito all'articolo di Gandhi riportato sotto 10. 116 13. Ahimsa coerente con l'appoggio alla violenza in una causa giusta. (SFG, § 434, p. 151) V. Non-violenza, socialismo e stato 117 1. Inadeguatezza della violenza e adeguatezza della non-violenza come mezzo rivoluzionario delle masse sia occidentali che afro-asiatiche sistematicamente sfruttate e sottoposte a violenza. (NVPW, I, 15, pp. 32-34) 120 2. Disaccordo con i bolscevichi sui mezzi impiegati, per quanto i motivi che li muovono siano gli stessi che muovono Gandhi ad agire. (NVPW, I, 13, pp. 29-30) 122 3. Il comunismo inteso come espressione dell'ideale gandhiano del non-possesso. Distacco di Gandhi da esso nella misura in cui esso sancisce l'uso dei mezzi violenti. Ma l'ideale sanzionato dai sacrifici di un uomo come Lenin non può essere un ideale vano. (SFG, § 287, p. 84) 123 4. Una rivoluzione violenta può soltanto significare un nuovo giogo. Rispetto per i rivoluzionari violenti e il loro eroismo al quale Gandhi tuttavia oppone co me superiore l'eroismo dei non-violenti. (SFG, § 486, pp. 164-65) 124 5. Incapacità dei comunisti di assicurare l'uguaglianza economica qui ed ora. Lo stato non deve «imporre l'uguaglianza» ma «realizzare la volontà del popolo». Impossibile combattere per la realizzazione dell'uguaglianza economica senza condividere la vita e i disagi di coloro in nome dei quali si lotta. (NVPW, II, 44, p. 71) 125 6. Il socialismo è fondato sull'ideale dell'uguaglianza. Ma è irraggiungibile con la violenza. Soltanto mezzi puri possono condurre a fini puri. Solo la nonviolenza può condurre ad un vero socialismo. (NVPW, II, 168, pp. 265-66) 126 7. Uguaglianza significa a ciascuno secondo i suoi bisogni naturali. L'idea dell'«amministrazione fiduciaria» come conseguenza della rinuncia alla violenza. La non-violenza non soltanto come mezzo di lotta individuale ma anche di massa. (TNVS, 13, pp. 21-24) 130 8. Sulla teoria dell'«amministrazione fiduciaria» in risposta ad alcune obiezioni sollevate da un critico. (TNVS, 82, pp. 151-53) 132 9. Domande e risposte sulla teoria dell'«amministrazione fiduciaria». Lo stato nonviolento come presupposto della sua realizzazione. (TNVS, 84, pp. 155-56) 134 10. Sulla lotta non-violenta al capitalismo e ancora sull'idea dell'«amministrazione fiduciaria». (TNVS, 97, pp. 173-74) 135 11. Proposta di J. p. Narajan per una organizzazione dell'India su basi socialiste. Commento di Gandhi (mette in luce in modo indiretto la posizione gandhiana). (MS, 4, pp. 16-21) 140 12. Contro la «democrazia» occidentale presentata come una «forma diluita del nazismo» e sulla «vera democrazia» fondata sulla non-violenza. (NVPW, I, 108, pp. 285-86) 142 13. Sul tipo e le funzioni di un corpo di polizia in uno stato non-violento. (NVPW, I, 133, pp. 350-52 145 14. Sulla organizzazione di un'India indipendente fondata sul decentramento del potere. (NVPW, II, 69, pp. 106-9) 148 15. Schizzo per la costituzione di un'India non-violenta redatto da Gandhi per il Congresso nel giorno del suo assassinio. (NVPW, II, 22I pp. 379-81) PARTE SECONDA La prassi della non-violenza A. LE TECNICHE DELLA NON-VIOLENZA I. Requisiti e preparazione del satyagrahi o nonviolento 153 154 1. Autodisciplina, purificazione, stato sociale riconosciuto, requisiti necessari di un satyagrahi. Mobilizzazione dell'opinione pubblica condizione necessaria di una lotta non-violenta efficace. L'ostracismo sociale come tecnica di lotta non-violenta. (S, 25, pp. 77-78) 2. Sette requisiti del non-violento. (S, 34, pp. 87-88) 156 3. Come si diventa un non-violento. Quattro requisiti di un non-violento: castità, povertà, fermezza nella verità, coraggio. (S, p. 53-55) 158 4. Coraggio e disciplina virtù tipiche del non-violento. La disobbedienza civile come criterio di distinzione della non-violenza del forte da quella del debole. (S, 14, pp. 57-58) 160 161 165 5. Umiltà e altri requisiti dei non-violenti. (S, 15, pp. 58-59) 6. Regole per il comportamento di un non-violento a) come individuo, b) come prigioniero, ε) come unità di una brigata non-violenta. (S, 26, pp. 7881) 7. Sul comportamento del non-violento in stato di arresto. (S, 18, pp. 64-66) II. Disobbedienza civile e non-collaborazione 168 169 170 172 1. Satyagraha, disobbedienza civile e non-collaborazione. (S, I pp. 3-4) 2. Sull'ahimsa come atto positivo d'amore e sulla disobbedienza civile come concreta espressione di esso. (S, 68, pp. 161-62) 3. Otto fasi in una campagna di non-collaborazione. (S, 49, pp. 117-19) 4. Dovere dei giudici e pubblici ufficiali in generale di dare le dimissioni e non collaborare con un governo che non rappresenta il popolo. (S, 50, pp. 119-121) 174 5. Caratterizzazione della disobbedienza civile e presupposti di essa. Non opporre resistenza nel caso di arresto in seguito alla commissione di un atto di disobbedienza civile. (NVPW, II, 92, pp. 144) 175 6. La disobbedienza civile, per essere veramente civile, richiede la più severa osservanza della disciplina carceraria. La disobbedienza civile come il più puro tipo di agitazione costituzionale. (S, 16, pp. 60-61) 177 7. La disobbedienza civile è libera da violenza. Esempi particolari di disobbedienza civile: non pagamento delle tasse; invasione pacifica di basi militari, ecc. Disciplina e rispetto della legge (in quanto si accetta liberamente la pena connessa alla violazione di essa) costituenti della disobbedienza civile. (SFG, § 578, pp. 226-27) 179 8. Disobbedienza civile a) individuale, b) di massa, ε) totale. Differenze e requisiti. (S, 72, pp. 170-73) 182 9. Disobbedienza civile difensiva e offensiva. (S, 75, p. 175) 183 10. Sulla connessione tra impegno in un lavoro costruttivo e disobbedienza civile. (SFG, § 419, pp. 146-147) 185 11. Sul diritto di ogni cittadino a ricorrere alla disobbedienza civile. (S, 74, p. 174) III. Il digiuno 186 1. Importanza del digiuno nell'arsenale del satyagrahi. Breve enumerazione dei digiuni intrapresi da Gandhi. Sul pregiudizio dei politici contro il digiuno come atto politico. La non-violenza significa attiva partecipazione alla lotta politica. (NVPW, I, 165, pp. 431-32) 188 2. Il digiuno come arma del satyagrahi. Distinto dallo sciopero della fame. (S, 149, pp. 320-21) 189 191 3. Distinzione tra digiuno coattivo e non coattivo. (MR, pp. 67-68) 4. Spiegazione dell'ultimo digiuno intrapreso da Gandhi. Contro l'obiezione che sia stato un digiuno coattivo. (NVPW, II, 213, pp. 335-38) IV Le brigate non-violente 195 1. Idea di una brigata non-violenta impegnata continuamente in un lavoro costruttivo e sempre pronta a opporre alla violenza l'azione non-violenta diretta. (S, 32, p. 86) 196 2. Requisiti essenziali dei membri di una brigata non-violenta. (S, 35, pp. 88-9o) 198 3. Presupposti della formazione di una brigata nonviolenta. Sette regole per il comportamento di essa. (NVPW, II, 54, pp. 83-84) 200 4. Educazione fisica ed esercitazione dei volontari di un corpo non-violento. (S, 37, pp. 92-96) V. Picchettaggio, boicottaggio, sabotaggio e sciopero. 206 1. Il primato della donna nell'azione non-violenta. Le donne come le più adatte ad azioni di picchettaggio. (S, 152, pp. 325-27) 209 2. Alcune regole per il picchettaggio degli spacci di alcoolici e manufatti stranieri. (S, 157, pp. 336-337) 211 3. Contro certe forme di picchettaggio come atti di violenza. (S, 159, pp. 338-39) 212 238) 4. Contro certe forme di «sit-down» in quanto atti di violenza. (SFG, § 623, p. 213 5. Sul boicottaggio dei tribunali e delle scuole. (S, 60, pp. 142-44) 216 6. Contro certe forme di boicottaggio intese come atti di rappresaglia. (S, 61 pp. 145-46) 218 7. Contro il boicottaggio sociale e in favore del boicottaggio non-violento e dell'ostracismo sociale nonviolento. (S, 62, pp. 147-48) 219 8. Contro il sabotaggio e la clandestinità. (S, 179, pp. 378-80) 221 9. Sul non-pagamento delle tasse. (S, 59, pp. 140-42) 223 10. Mette in guardia contro gli scioperi di solidarietà e stabilisce tre condizioni necessarie per la condotta degli scioperi non-violenti. (S, 64, pp. 149-51) 225 11. Sulla distinzione tra sciopero economico e sciopero politico e a proposito dello sciopero di solidarietà. (NVPW, II, 50, pp. 78-80) Β. LE LOTTE NON-VIOLENTE I. La lotta non-violenta all'invasione straniera 228 1. Resistenza non-violenta da parte della popolazione attraverso a) la noncollaborazione totale, b) la formazione di un «muro vivente» alla frontiera. (S, 169, pp. 358-61) 232 2. Risposta a due domande: a) improbabile che l'India adotti una politica nonviolenta, ma, b) se ciò avvenisse allora vi sarebbero due modi di resistenza all'invasione straniera: 1) totale non-collaborazione, 2) azione di resistenza nonviolenta diretta da parte dei corpi non-violenti. (NVPW, I, 106, pp. 280-82) 235 3. La resistenza non-violenta nell'era della guerra aerea e meccanizzata, in cui non vi è possibilità di contatto con l'oppositore e sulla possibilità di convertire anche un Hitler o un Mussolini. (NVPW, I, pp. 185-86) 237 4. Sulla resistenza non-violenta dell'India ad un temuto attacco del Giappone. Necessità di essere disposti agli stessi sacrifici cui sono disposti coloro che oppongono resistenza violenta. (S, 178, pp. 377-78) 238 5. Ancora sulla resistenza non-violenta ad un'eventuale invasione giapponese dell'India e sul posto centrale del programma costruttivo in ogni forma di lotta veramente non-violenta. (MVPW, I, 160, pp. 417-19) II. La resistenza non-violenta al nazismo 242 1. A proposito della resistenza non-violenta di Niemöller al nazismo e sulla possibilità di smuovere anche un Hitler. Nessun tiranno può governare se il popolo non collabora. (NVPW, I, 70, pp. 190-92) 245 2. L'hitlerismo non può essere combattuto dal « contro-hitlerismo », in quanto questo conduce ad un hitlerismo ancora peggiore. Come combattere l'hitlerismo in modo efficace e non-violento. Superiorità della resistenza non-violenta su quella violenta. (NVPW, I, 110, pp. 288-90) 248 3. Appello ad ogni inglese a combattere l'hitlerismo con la non-violenza. Impossibile distruggere il nazismo usando gli stessi mezzi che esso impiega. Per vincere il nazismo è necessario andare oltre la violenza. (NVPW, I, 114, pp. 296-99) 251 4: Critica: la resistenza non-violenta può in certe occasioni indurre chi ne è fatto oggetto a ricorrere alla violenza e quindi rendere più difficile la sua con versione. Risposta di Gandhi. (NVPW, I, 123, pp. 320-21) 253 5. Invito agli ebrei ad opporre una resistenza non-violenta al nazismo. Il modo di agire degli ebrei in Palestina completamente ingiusto. La Palestina appartiene agli arabi. (NVPW, I, 64, pp. 170-74) 258 6. Risposta a critiche ricevute in seguito all'articolo sopra riportato. (NVPW, I, 67, pp. 178-80) 260 7. Gandhi ribadisce, in risposta ad alcune critiche, la sua idea di una resistenza nonviolenta degli ebrei al nazismo e riafferma la sua condanna all'aggressione israelita alla Palestina araba. (NVPW, I, 77, pp. 218-19) 262 8. A proposito del Patto di Monaco e invito ai cecoslovacchi ad adottare la resistenza non-violenta ad oltranza. (NVPW, I, 60, pp. 159-61) 265 9. Rinnovato invito ai cecoslovacchi ad adottare la nonviolenza. (NVPW, I, 61 pp. 161-63) 268 10. Risposta ad obiezioni sollevate in seguito all'articolo sopra riportato. (NVPW, I, 63, pp. 167-69) 271 11. Domande e risposte concernenti la difesa di uno stato fondato sulla nonviolenza. (NVPW, II, 56, pp. 87-89) III. La lotta non-violenta al dominio inglese (la marcia del sale) 274 1. Il 2 marzo 1930 alla vigilia all'inizio della campagna di disobbedienza civile Gandhi scrisse una lettera al viceré elencando le ingiustizie che dovevano essere eliminate immediatamente dal governo inglese dell'India. Nella parte finale della lettera che qui si riporta Gandhi espone il metodo del Satyagraha e notifica la sua decisione di iniziare una campagna di disobbedienza civile contemplante la violazione pubblica della legge del sale. (S, 100, pp. 226-28) 277 2. Dichiarazioni e disposizioni di Gandhi nell'eventualità di un suo arresto. Lotta non-violenta e ad oltranza contro il giogo inglese finché un solo non-violento è in vita. (S, 99, pp. 223-25) 280 3. Vari chiarimenti di Gandhi sulla campagna nonviolenta. (S, 101, pp. 229-32) 284 4. Discorso di Gandhi alla vigilia della marcia del sale. (S, 102, pp. 233-36) 288 5. Sulla necessità di correre il rischio che la non-violenza possa sfociare nella violenza. La lotta non-violenta deve in tutti i casi continuare ad oltranza. Discussione sulla possibilità e proprietà di violare altre leggi oltre quella del sale. Preferibili varie forme di picchettaggio. Fissa la data per l'inizio della disobbedienza civile di massa. (S, 105, pp. 239-42) 292 6. Bisogna vivere al livello dei poveri per avere il diritto di attaccare chi li sfrutta e li tiene in povertà (identificati con coloro per cui lotti!) (S, 106, 242-246) 296 7. Disposizioni in vista della disobbedienza civile di massa. (S, 108, pp. 249-50) 297 8. Resistenza non-violenta significa star saldi e far fronte alle cariche della polizia senza battere ciglio. (S, 112, pp. 258-61) 301 9. Minuta di una seconda lettera di Gandhi al viceré stesa alla vigilia del suo arresto e in seguito alle brutalità della polizia. Annunzia una nuova mossa nella campagna non-violenta: l'invasione pacifica delle saline. (S, 119, pp. 272-76) 305 10. Considerazioni di Gandhi in seguito alla tregua nella campagna del sale. (S, 121 pp. 278-80) 3o8 11. In occasione della riunione del Partito del Congresso dopo la campagna del sale e su quello che rimane da fare per portare l'India all'indipendenza. (S, 122, pp. 28082) IV La non-violenza nel conflitto indo-musulmano 311 1. In risposta ad una lettera che invita Gandhi a scendere direttamente nella mischia per sedare la violenza indo-musulmana egli risponde che la sua ora verrà presto. (NVPW, II, 81 pp. 126-27) 313 2. Sul posto della non-violenza nel mezzo della violenza fra comunità religiose e accenni allo stato non violento. (NVPW, 11, 83, pp. 129-31) 316 3. Sulla inopportunità di appoggiarsi alle truppe e alla polizia inglese per sedare il conflitto indo-musulmano. Superiorità della violenza sulla codardia. Fondamentale importanza del programma costruttivo nel tentativo di risolvere il conflitto indomusulmano. (NVPW, II, 90, pp. 139-41) 319 4. Risposte a quattro precise domande sulla non-violenza nella situazione di conflitto tra indù e musulmani. (NVPW, II, 91, pp. 141-43) 322 5. Appello alla popolazione del Bihar in seguito alle violenze commesse dagli indù nei confronti dei musulmani. Accenno alla sua idea di digiunare a morte se la violenza continua nel Bihar. (NVPW, II, 107, pp. 168-69) 325 6. Dichiarazioni alla stampa in occasione della sua partenza per il Bengala dove Gandhi si propone di risiedere presso una famiglia musulmana (qui in minoranza) per pacificare la situazione. (NVPW, II, III pp. 176-77) 327 7. Contro l'idea di uno scambio di popolazioni tra India e Pakistan e accenno alla sua decisione di iniziare un pellegrinaggio di villaggio in villaggio per sedare gli animi e riportare la concordia. (NVPW, II, 116, pp. 192-93) 329 8. Nel seguente discorso, scritto da Gandhi in lingua indù perché fosse letto pubblicamente durante l'ora della preghiera il 6 gennaio (che coincideva con il suo giorno di silenzio) Gandhi chiarisce lo scopo con cui ha intrapreso il suo pellegrinaggio tra i villaggi lacerati dal conflitto indo-musulmano. (NVPW, II, 117, pp. 197-99) 331 9. Sul fallimento della sua azione, da non intendersi come fallimento della nonviolenza. (NVPW, II, 162, pp. 257-58) 333 10. Cronaca degli avvenimenti che portano Gandhi a intraprendere il digiuno, nella versione di uno dei suoi seguaci. (NVPW, II, 185, pp. 289-96) 342 11. Appello agli indiani del Gujarat e dell'intera India nel secondo giorno del suo ultimo digiuno. (NVPW, II, 212, pp. 333-35) 344 12. La fine del digiuno. Cronaca degli avvenimenti che portarono ad essa, nella versione di un seguace di Gandhi. (NVPW, II, 218, pp. 356-61) Conclusione: La non-violenza nell'era atomica 352 1. Sulla non-violenza come l'unica alternativa al suicidio di massa nell'era atomica. (NVPW, II, 58, p. 90) 353 2. La bomba atomica ha segnato la fine dei sentimenti più nobili che hanno sostenuto l'umanità per millenni. La scoperta della bomba atomica può tuttavia segnare la fine della violenza e il trionfo della nonviolenza. (NVPW, II, 60, pp. 9293) Appendice 357 1. Lettera di De Ligt alla quale Gandhi risponde nell'articolo stampato alle pp. 11216. La lettera fu pubblicata da Gandhi sull'«Harijan» in due parti. (NVPW, I, pp. 436-48) 368 2. Articolo di un ebreo in seguito allo scritto di Gandhi riportato alle pp. 253-58 e discusso da Gandhi nello scritto riportato alle pp. 260-62. (NVPW, I, appendice, V, pp. 461-67) 373 Note 387 Glossario Einaudi Tascabili Pubblicazione settimanale, 17 giugno 1996 Direttore: Lorenzo Fazio Direttore responsabile: Ernesto Franco Registrazione presso il Tribunale di Torino, n. 4848 del 20.11.95 Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso Milanostampa s. p. a., Farigliano (Cuneo) Premessa all'edizione 1996 È opinione abbastanza diffusa che da Gandhi, considerato una delle più alte espressioni della coscienza morale del nostro secolo, di tutti i secoli, venga un messaggio che è tuttora di grande, anzi crescente attualità. Condivido questa opinione. Le linee essenziali del messaggio gandhiano rimangono a mio vedere quelle che, agli inizi degli anni '70, cercavo di delineare nel saggio introduttivo che ha accompagnato la presente silloge in tutte le precedenti edizioni; e l'interpretazione che ivi fornivo del pensiero etico-politico di Gandhi mi pare, essenzialmente, ancora oggi valida. Questo non significa, naturalmente, che non vi siano temi da rivedere, altri da ampliare e altri ancora da trattare ex novo. In occasione della presente edizione ho proceduto in due modi: da una parte ho riveduto quel saggio (correggendo anche alcuni refusi e alcune imprecisioni) e ampliato l'apparato delle note, tenendo presenti vari lavori sulla figura, l’operato e il pensiero di Gandhi apparsi nei venti e più anni che sono trascorsi dalla prima pubblicazione di questa antologia; dall'altra, ho aggiunto un ulteriore capitolo in cui rivisitando il pensiero di Gandhi sviluppo il discorso su alcuni temi allora appena accennati e sui quali mi pare oggi importante richiamare l'attenzione: il pensiero religioso di Gandhi e il suo ecumenismo; il principio del sarvodaya o benessere di tutti; i rapporti tra stato e cittadino in una società non-violenta; la disobbedienza civile e la sua giustificazione; i due concetti di swaraj e swadesbi, autogoverno e autosufficienza. Ho anche riveduto (lievemente) la nota biografica correggendo un brutto errore che ha seguito tutte le precedenti edizioni di questa antologia: la data di morte di Gandhi è 30 gennaio 1948 (e non 25 gennaio, come erroneamente indicato nelle precedenti edizioni). Ho cambiato il titolo del saggio introduttivo da Introduzione (che aveva nelle precedenti edizioni) in Il pensiero etico-politico di Gandhi: questo titolo indica in modo più preciso la tematica che discuto. G. P. Stoccolma, aprile 1996. (ritorna all'indice) IL PENSIERO ETICO-POLITICO DI GANDHI I. IL MESSAGGIO DI GANDHI. 1. In un saggio che pubblicai nel 1962[1] e che, se non m'inganno, rappresentava un primo tentativo in Italia di mettere in luce la natura dell'etica di Gandhi in base ad un esame del suo atteggiamento nei confronti della violenza e della non-violenza, iniziavo constatando la pressoché totale assenza nella nostra lingua di studi critici di vasto respiro sulla concezione e anche sull'azione politica del leader indiano, e lamentavo la mancanza di una vasta e organica silloge di scritti di suo pugno la quale fornisse al lettore italiano la possibilità di farsi, sui testi e non soltanto di seconda mano, una più esatta idea delle posizioni e dell'impegno politico gandhiano[2]. Negli anni che sono passati dalla pubblicazione di quel saggio, si è registrato (anche) nel nostro paese un crescente interesse sia per la conoscenza e la valutazione critica del pensiero e dell'azione di Gandhi, sia più in generale per le varie correnti di non-violenza e pacifismo, imposte all'attenzione del pubblico soprattutto dagli scritti e dall'attività di Aldo Capitini e dal rilievo drammatico assunto dal problema dell'obiezione di coscienza per opera di un crescente numero di obiettori[3]. Nel '72 (quando stavo portando a termine la stesura di questo saggio) uscirono quasi contemporaneamente quattro lavori i quali contribuirono variamente a diffondere in Italia una maggiore conoscenza critica della figura, delle idee e dell'operato di Gandhi. Intendo riferirmi alla traduzione dell'edizione ridotta della biografia gandhiana di Louis Fischer [4] (ma sarebbe stato meglio puntare direttamente sulla traduzione della sua biografia integrale, assai più interessante [5]), al fascicolo de «I Dossier» di Mondadori dedicato a Gandhi[6], alla traduzione della voluminosa monografia di Erik N. Erikson, Gandhi's Truth. On The Origins of Militant Nonviolence[7] e al lavoro di Icilio Vecchiotti, Che cosa ha veramente detto Gandhi[8]. Di questi due ultimi lavori, il primo, quello di Erikson, è prevalentemente un'analisi, in chiave psicoanalitica, della personalità di Gandhi e dell'origine della sua concezione non-violenta con particolare attenzione alla sua interpretazione della verità e della ahimsa (il libro avrebbe anche potuto avere come titolo «psicoanalisi della non-violenza»). Il secondo, quello di Vecchiotti, è invece un'analisi in chiave storicistico-marxiana dell'attività (più che non delle idee) del politico Gandhi[9]. Nell'ambito di questo aumentato interesse per Gandhi la presente silloge si colloca come un tentativo di fornire al lettore italiano una base sufficiente, sia per un riscontro critico delle varie interpretazioni e dei vari giudizi sulla figura e la concezione etico-politica del leader indiano contenuti nelle opere su citate, sia per un ulteriore lavoro d'indagine volta a mettere in luce e a discutere criticamente i vari momenti in cui quella concezione si articola. Ciò che mi ha spinto a proporre e a curare questo volume è stato soprattutto il desiderio d'incoraggiare una tale indagine critica, di contribuire ad aumentare l'interesse per la non-violenza di tipo gandhiano, di porre o riproporre il problema dell'attualità di Gandhi. Può essere qui opportuno fare un breve accenno ai criteri che hanno presieduto alla scelta e organizzazione degli scritti gandhiani raccolti nel presente volume. L'idea fondamentale che mi ha guidato nella compilazione di questa antologia è stata quella di mettere in luce i momenti essenziali in cui, a mio avviso, si articola la non-violenza gandhiana, intesa come unità di pensiero e azione. Di qui la suddivisione della presente raccolta in due parti. Nella prima ho raccolto e ordinato tutta una serie di scritti concernenti i principi fondamentali della non-violenza, mentre nella seconda sono raccolti e ordinati scritti importanti per la comprensione della prassi della non-violenza. Quelli raccolti nella prima parte illustrano a concezione etico-politica di Gandhi, la distinzione, su cui non cessò mai di insistere, fra non-violenza del forte e non-violenza del debole, la sua concezione del rapporto fini-mezzi, il suo atteggiamento nei confronti della violenza e della guerra, le sue idee sociali e politiche. Quelli raccolti nella seconda parte illustrano invece tutta una serie di questioni pratiche concernenti i requisiti e la preparazione dei non-violenti, la natura delle varie tecniche di lotta non-violenta, sia quelle che Gandhi stesso praticò sia quelle che egli suggerì ad altri come possibili ed efficaci. Parte degli scritti qui raccolti illuminano anche, per cosi dire dal di dentro, certi momenti salienti della lotta non-violenta condotta da Gandhi. Si tratta degli articoli che figurano nel III e IV capitolo della sezione Β[10] e attraverso i quali si può seguire, sia pure solo parzialmente, l'agire non-violento di Gandhi in occasione della grande campagna non-violenta del 1930-31 nonché nel momento più critico del conflitto indo-musulmano all'indomani della liberazione dell'India dal giogo inglese. Sempre in base all'idea fondamentale di mettere in luce in modo sistematico - o nel modo più sistematico possibile - gli aspetti centrali della concezione etico-politica di Gandhi, nonché allo scopo di porre nel modo più chiaro ed efficace possibile il problema se vi sia un messaggio gandhiano e, se si, quale sia la sua attualità e validità, ho volutamente tralasciato di evidenziare quegli aspetti della concezione gandhiana che giudico secondari, marginali o contingenti, ad esempio le idee di Gandhi sul vegetarianesimo, sulla vita sessuale, sulla cura naturale delle malattie[11]. Tuttavia, ove nell'ambito di uno scritto da includere in questa raccolta, apparissero accenni a siffatte o simili idee, ho spesso ritenuto opportuno non sopprimerli, sia allo scopo di non ridurre questa raccolta ad una nuova silloge di pensieri, aforismi e citazioni, sia allo scopo di dare al lettore la possibilità di farsi un'idea esatta della natura degli scritti - e attraverso di essi del pensiero - di Gandhi. L'intento sopradichiarato di mettere in luce quelli che ritengo gli aspetti o le componenti essenziali della concezione di Gandhi spiega anche perché ho organizzato gli scritti qui raccolti non in un ordine cronologico bensì in un ordine « ideologico ». In seguito a quanto sin qui detto, nonché al fatto che Gandhi non fu, né in verità amb’ mai ad essere, un pensatore sistematico risulterà chiaro che sia per quanto riguarda la scelta degli scritti sia per quanto riguarda l'organizzazione di essi nelle varie parti e nei vari capitoli in cui il presente volume si articola, esso si presenta come espressione di una particolare interpretazione della concezione etico-politica di Gandhi con la quale altri studiosi possono anche non trovarsi pienamente d'accordo. Una delle maggiori difficoltà in cui si imbatte chi miri ad un'organica e sistematica raccolta di scritti di Gandhi è costituita dalla loro natura spesso asistematica e rapsodica. Infatti la maggior parte di essi è costituita da centinaia e centinaia di articoli, vertenti sui temi più disparati, molti scritti in occasione di determinati accadimenti, molti altri allo scopo di chiarire a se stesso e a terzi aspetti o implicazioni o problemi della non-violenza che di volta in volta si presentavano alla sua mente, altri ancora in risposta alle innumerevoli domande e critiche che gli vennero rivolte e agli altrettanto innumerevoli consigli che gli vennero richiesti durante la sua lunga vita[12]. Quasi tutti questi articoli apparvero nei settimanali «Indian Opinion>>, «Young India», «Navajivan», «Harijan» attraverso i quali Gandhi parlò per quasi venticinque anni non solo al popolo indiano ma al mondo intero[13]. Essi non sono nemmeno tutti di suo pugno, giacché sovente vennero stesi da suoi segretari o vicini collaboratori in base ad appunti presi durante incontri, discussioni, comizi, discorsi, ecc. Aumenta la difficoltà il fatto che spesso nello stesso articolo sono toccati temi assai disparati, ragion per cui lo stesso articolo può spesso servire ad illustrare non uno ma diversi momenti in cui la concezione di Gandhi si articola. Ciò fa sì che la collocazione di molti scritti nella presente antologia è in parte arbitraria: spesso infatti lo stesso articolo avrebbe figurato altrettanto bene sotto altra rubrica, in altro capitolo, o in altra sezione o parte che non quella in cui di fatto appare. Ciò spiega anche il fatto che alcuni passi in questa silloge ricorrono più di una volta. L'assenza di sistematicità, il carattere rapsodico, ad hoc, della maggior parte degli scritti gandhiani - per quest'aspetto assai simili a quelli di Gramsci - se da una parte rappresentano dunque una non piccola difficoltà, dall'altra però costituiscono anche un continuo stimolo, un'affascinante tentazione per chi voglia cimentarsi nel tentativo di fornire attraverso o in base ad essi una sistematica ricostruzione della concezione eticopolitica di Gandhi. Il quale, come ho già sopra accennato, non fu, né mai volle essere, un sistematico teorizzatore della non-violenza. Egli infatti fu sempre più attento alle improvvise folgorazioni, alla verità come gli si presentava in un dato momento, a quello che gli dettava «la voce interiore», che non a mantenere una coerenza fra le idee o opinioni espresse in diversi momenti della sua vita. Egli stesso ha innumerevoli volte sottolineato il carattere provvisorio, non definitivo, sperimentale della sua concezione. Scriveva ad esempio nel 1936: « Le opinioni che mi sono formato e le conclusioni a cui sono giunto non sono definitive. Potrei modificarle in qualsiasi momento»[14]. Ε nel 1939: «Nel momento in cui scrivo non penso mai a quanto ho detto precedentemente. Il mio intento non è quello di essere coerente con le precedenti affermazioni che posso aver fatto relativamente ad una determinata questione, bensì quello di essere coerente con la verità come essa mi si presenta in un dato momento. Il risultato di ciò è stato che sono venuto evolvendomi di verità in verità risparmiando alla memoria un inutile fardello»[15]. Tutto ciò ha attirato su Gandhi l'accusa di incoerenza, di eclettismo, e, in politica, quella di opportunismo. Ora, è indubbio che nei suoi scritti di incoerenze ve ne sono, e non poche, ed è anche vero che in essi appaiono affermazioni che mettono a dura prova la pazienza di chi voglia fare entrare tutto quanto Gandhi dice nelle maglie di un coerente sistema. Da una parte, per esempio, tutte le affermazioni che fanno di Gandhi un totale e assoluto oppositore della violenza, dall'altra tutto quanto egli dice a giustificazione del fatto che non solo partecipò in alcune occasioni alla guerra o la appoggiò attivamente, ma anche in svariate occasioni invitò altri a parteciparvi. Si vedrà tuttavia in seguito come la posizione di Gandhi su questi punti sia in realtà assai coerente[16]. Quanto all'accusa di opportunismo non si potrà certo negare che Gandhi fu un abilissimo e consumato politico e come tale fornito di una particolare capacità di sfruttare certe situazioni nel modo giusto, di cogliere le occasioni propizie ad una azione efficace, di fare mosse geniali che improvvisamente piegavano la situazione in suo favore. Cosi scrisse di lui il Viceré Lord Willingdon al Segretario di Stato Hoare in occasione dell'arrivo di Gandhi in Inghilterra per partecipare alla cosiddetta Conferenza della Tavola Rotonda, nel 1931 : «Penso che lo troverà piacevole e ansioso di aiutare, sinceramente desideroso di giungere ad una costituzione soddisfacente. Non credo che troverà in lui un estremista violento... Devo confessare che il fatto che per alcuni brevi mesi sarò liberato da questo ometto mi arreca un grande sollievo, giacché anche se siamo ottimi amici egli è certamente un uomo molto difficile quando si tratta di negoziare. Potrà essere un santo, potrà essere un uomo di altissima eccellenza morale; ritengo che egli creda sinceramente nei principi che professa; ma di questo sono perfettamente sicuro, egli è uno degli ometti più astuti e politicizzati in cui io mi sia mai imbattuto (one of the most astute politicallyminded little gentlemen I even came across)[17]. Gandhi non fu però un intrigante, una persona che quanto ai mezzi non va per il sottile, che mette l'avversario con le spalle al muro, che sfrutta fino in fondo le sue debolezze. Né fu un eclettico, se con ciò si intende qualcosa di diverso dall'atteggiamento di colui che si perita di cercare la verità dovunque essa possa apparire e, una volta trovatala, d'incorporarla tra le altre verità che egli già crede di possedere. Del resto, per quanto riguarda la concezione non-violenta, Gandhi era dell'opinione che si trattasse di una dottrina in divenire, che, quantunque certi principi fondamentali di essa fossero «antichi come le colline», tuttavia essa fosse sostanzialmente nata con lui e dovesse essere continuamente sviluppata, riveduta, modificata, allargata, alla luce di nuove intuizioni e di nuovi «esperimenti con la verità». Sostenne di conseguenza che un trattato volto a dare una sistemazione definitiva della sua dottrina sarebbe stato, almeno finché egli era in vita, impossibile; e declinò sempre l'idea di stenderne uno egli stesso anche perché, da quell'uomo di azione che fondamentalmente era, aveva ben altre cose cui badare che non scrivere trattati. Ad un amico che lo invitava, verso la fine della sua vita, a scrivere un trattato sull'ahimsa rispose: «Scrivere un tale trattato supera le mie possibilità. Non sono fatto per stendere scritti accademici. Il mio dominio è l'azione... Un siffatto trattato sarebbe, finché vivo, necessariamente incompleto. Semmai potrebbe essere scritto dopo la mia morte. Ma anche in tal caso debbo mettere in guardia che fallirebbe pur sempre nell'intento di dare una completa esposizione dell'ahimsa. Nessun uomo è mai stato capace di fornire una descrizione completa di Dio. Lo stesso vale anche per l'ahimsa. Non posso dare alcuna garanzia che farò o crederò domani quello che faccio o ritengo vero oggi»[18]. Nonostante le difficoltà accennate e le affermazioni in contrario dello stesso Gandhi, pare tuttavia possibile costruire o ricostruire, in base ad un attento esame dei suoi scritti, una dottrina etico-politica abbastanza articolata e sistematica circa la quale è stato affermato trattarsi «forse della più importante idea politica del ventesimo secolo» [19]. Nel corso di questo saggio introduttivo cercherò di mettere in luce alcune componenti fondamentali di tale dottrina e in particolar modo la concezione etica, le idee sociali-politiche e i principi di una modalità di azione non-violenta che costituiscono parte notevole di essa. 2. Sulla persona, come sull'operato politico e sulle idee di Gandhi, esistono i pareri più discordi. Cominciamo con la persona di Gandhi. Da una parte vi è il giudizio che ne diede Winston Churchill il quale, in occasione dell'incontro fra Gandhi e il vicerè dell'India Irwing, nel '31, affermò di essere nauseato alla semplice vista di quel sedizioso avvocatuccio, di quel fachiro di una specie ben nota nell'Oriente, che sale seminudo le scale del palazzo vicereale. Dall'altra parte il giudizio datone da Albert Einstein il quale affermò che le future generazioni a stento potranno credere che un uomo di siffatta statura morale sia passato in carne ed ossa sulla terra. Si avvicinano al modo di vedere di Churchill tutti coloro i quali, cogliendo e sottolineando in modo particolare certi elementi ascetici, e più ancora certi tratti oscurantistici e fumosi della personalità di Gandhi, si son fatti di lui l'idea di un santone o fachiro che la storia per puro caso ha portato alla ribalta, ma che in realtà è privo di ogni messaggio o che al massimo ha un messaggio del tutto contingente per il popolo indiano, anzi soltanto per quella parte di esso che abbraccia l'induismo e in un particolare momento della sua storia. Si avvicinano sempre di più al modo di vedere di Einstein coloro i quali, colpiti dalla purezza della vita e dalla grandezza del sacrificio del Mahatma, tendono a fare di lui un santo, un uomo completamente fuori del comune e il cui messaggio non è per questo mondo in quanto supera di troppo i limiti della natura dei comuni mortali soprattutto allorché si organizzano in gruppo e agiscono collettivamente. Ambedue questi modi di vedere sono, ancor più che unilaterali, sbagliati. Guardando da questi due opposti angoli visuali sfugge in realtà la più vera figura dell'uomo Gandhi e anche la possibilità di cogliere criticamente il nucleo fondamentale del suo pensiero etico-politico e con ciò la possibilità di valutarne in modo spassionato la sua importanza e attualità. Fra tutti i giudizi che sono stati dati sull'uomo Gandhi il più ponderato e corretto rimane forse quello che ne diede Gandhi stesso anzitutto nella sua Autobiografia e poi anche in diverse altre occasioni. Quale che sia la formulazione che egli di volta in volta sceglie, il giudizio rimane sostanzialmente sempre lo stesso: «Non pretendo di essere perfetto. Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro, —che un sinonimo di Dio. È nel corso di tale ricerca che ho scoperto la non-violenza. La diffusione di essa è la missione della mia vita. Non ho altri interessi nella vita che lo svolgimento di questa missione»[20]. o ancora: «... non sono un profeta, sono soltanto un comune mortale che procede dall'errore verso la veri tà»[21]. Ε di errori Gandhi nella sua vita non ne commise certo pochi, da quelli che fecero di suo figlio maggiore uno spostato alcolizzato dedito al gioco, a quello - in seguito riconosciuto - di credere possibile l'emancipazione politicomorale del popolo indiano entro l'ambito del sistema imperialistico britannico, e a quello, da lui stesso caratterizzato come un «errore himalayano», di credere, nel 1920, che il popolo indiano fosse pronto per una lotta non-violenta. Né si può tacere il fatto che talora nei suoi scritti ricorrono passi che, per venire dalla penna di un non-violento, sono abbastanza sconcertanti: ad esempio quello in cui dice di giudicare «la perdita anche di milioni di vite... prezzo molto modesto» per guadagnare una vittoria sulle armi giapponesi[22]. Senonché, dopo avere ammesso tutti quei lati della sua persona che fanno di lui un comune mortale, bisogna anche riconoscere quanto di vero vi è nel parere di quanti vedono in lui un uomo del tutto fuori del comune. È indubbio che egli fu un appassionato, indomito, continuo contestatore, con una profonda fede in se stesso, e, come ebbe a riconoscere anche Nehru, nonostante le sue dure critiche alla non-violenza gandhiana, il più grande rivoluzionario che è sino ad oggi apparso sulla scena politica indiana. Se è vero che egli fallì nel suo intento di rivoluzionare la società indiana e che l'India di oggi non rappresenta affatto il tipo di società che Gandhi intendeva porre in essere, rimane, come fatto indubitabile, che egli riuscì a scuotere un intero popolo da un lungo torpore, a portare le masse indiane ad una coscienza politica, ad un nuovo senso della propria indipendenza e dignità. Ciò riuscì a fare in parte grazie al fatto che egli si appellò quasi esclusivamente a tradizioni e concetti profondamente radicati nel popolo indiano, infondendo però in essi nuovi contenuti e significati, in parte grazie alla sua capacità d'immedesimarsi con le grandi masse indiane, a livello delle quali egli capì ben presto di dover ridurre la sua esistenza se voleva riuscire a portarle alla insurrezione contro il giogo britannico. Nessuno forse meglio di Nehru ha descritto ciò che significò l'apparizione di Gandhi sulla scena politica indiana in un momento in cui sembrava che nessuna forza fosse in grado di scuotere l'abulia, l'inerzia, la miseria delle masse indiane e di mettere seriamente in questione il dominio inglese nel subcontinente asiatico. Scrive Nehru: «Fu allora che apparve Gandhi. Fu come una potente corrente di aria fresca che ci investì, facendoci stirare le membra e respirare profondamente, come un raggio di luce che squarciò la tenebra e tolse le squame dai nostri occhi, come un turbine che sconvolse molte cose ma soprattutto il modo di pensare e di atteggiarsi degli uomini. Egli non discese dall'alto; sembrò emergere dalle masse dell'India, parlando la loro lingua e incessantemente indirizzando l'attenzione su di loro e la loro terrificante condizione. Togliete i piedi dalla schiena di questi contadini e lavoratori, egli ci disse, tutti voi che vivete sul loro sfruttamento; liberatevi da un sistema che produce questa povertà e questa miseria»[23]. Ε infatti l'obiettivo di Gandhi, man mano che egli crebbe politicamente, divenne sempre più vasto contemplando ben altro che non la semplice cacciata degli inglesi, cosi come il suo nazionalismo andò sempre più depurandosi da ogni vestigia di egoismo di gruppo. Egli vide sempre più chiaramente la necessità di una profonda trasformazione della società indiana e divenne col tempo ognor più cosciente che l'indipendenza politica dell'India dal dominio inglese non avrebbe significato molto per il popolo indiano, come ben poco significa l'indipendenza politica di ogni popolo da un potere imperialista, senza la realizzazione, allo stesso tempo, della sua emancipazione economica, sociale, morale. Il Programma costruttivo che Gandhi presentò alla nazione nel 1920 - e sul quale ritornerò più a lungo in seguito - era un programma di misure pratiche, di proposte concrete, la cui realizzazione avrebbe portato - almeno nell'opinione di Gandhi - non soltanto alla cacciata degli inglesi bensì anche ad un profondo rivolgimento della struttura sociale, politica ed economica della società indiana. Senonché, l'India non seguì Gandhi. Tranne un ristretto gruppo, l’intera classe dirigente indiana si allineò sulle posizioni di Gandhi soltanto nei momenti più drammatici e spettacolari della lotta contro il dominio britannico, ma le abbandonò allorché si trattò di attuare la trasformazione della società indiana. Ε le grandi masse indiane, che egli era riuscito a portare ad una nuova coscienza politica, si lasciarono forse troppo facilmente abbagliare dalla personalità di quest'uomo, che era sorto dal seno di esse, sì da credere che egli avrebbe fatto per loro ciò che in realtà soltanto esse potevano fare. Di qui la triste constatazione che Gandhi andò sempre più spesso facendo negli ultimi anni della sua vita, che l'India che si veniva costituendo non corrispondeva per nulla all'«India dei (suoi) sogni», che la non-violenza praticata dagli indiani era sempre stata la «non-violenza del debole» e che il suo paese mano a mano che l'indipendenza si avvicinava si incamminava sempre di più sulla strada di una politica di potere, basata sulla violenza e sullo sfruttamento. 3. Sulle idee etico-politiche di Gandhi sono stati dati giudizi e interpretazioni altrettanto disparati e divergenti quanto riguardo alla sua figura e al suo operato. Ad un estremo della gamma di tali giudizi e interpretazioni stanno quelli di coloro che vedono nella non-violenza gandhiana il toccasana di ogni male: Gandhi stesso, talora, sembra far parte di questa schiera. All'altro estremo si collocano i giudizi di quanti nella non-violenza vedono una posizione sterile, utopistica, quando addirittura non la considerano una posizione reazionaria[24]. Più spesso, forse, la si considera uno strumento di lotta da impiegarsi da coloro che non dispongono di armi o i cui obiettivi non sono comunque per il momento raggiungibili mediante la forza armata, un'arma per i deboli, qualcosa che «normalmente non viene soltanto predicata ai deboli ma pretesa da essi - è una necessità piuttosto che una virtù, e normalmente non danneggia seriamente la condizione dei forti»[25]. Secondo siffatte interpretazioni il termine «non-violenza» starebbe insomma a designare una mera tattica da usare in quanto e sin quando serve in modo efficace a realizzare determinati obiettivi, ma che in nessun modo esclude l'uso della violenza in altre situazioni o anche contemporaneamente. John Lewis, a lungo considerato uno dei più acuti critici della posizione pacifista, interpreta espressamente in tal senso la non-violenza gandhiana. Per Lewis, infatti, «Gandhi è più contrario agli inglesi che non alla guerra», «egli adotta tattiche non-violente in quanto esse si presentano come il modo più efficace per una moltitudine disorganizzata e disarmata di resistere alla truppa armata e alla polizia. Egli non ha mai proposto che l'India, una volta acquistata la piena indipendenza, dovrà dissolvere l'esercito indiano. Il Congresso Nazionale Indiano non ha mai contemplato, nemmeno per un momento, l'abbandono della violenza come strumento necessario dello stato che un giorno spera di governare»[26]. Ora, a chi esamini con una certa attenzione gli scritti di Gandhi raccolti in questo volume riuscirà, penso, abbastanza agevole vedere come i vari giudizi negativi sopra accennati non tocchino la posizione di Gandhi bensì, piuttosto, in quanto denuncia di posizioni mistificatorie, essi ci siano di aiuto a delimitarla e caratterizzarla in modo più rigoroso. Per quanto poi riguarda in modo particolare il giudizio datone da Lewis, pur concedendo che negli scritti e anche nell'azione di Gandhi vi sono certi spunti in suo favore, va però sottolineato che il corpo delle affermazioni di Gandhi sulla non-violenza non corrobora quel giudizio. A rifiutare il quale basterebbe citare la sola, ma per lui fondamentale, distinzione fra la non-violenza come convinzione (« non-violence as a creed ») e la non-violenza come scelta tattica (< non-violence as a policy») e la sua reiterata affermazione di aver sempre aderito alla prima, pur riconoscendo di non essere che in minima misura riuscito a far aderire ad essa anche le masse indiane, le quali in complesso praticarono la non-violenza come scelta tattica. Si aggiunga a ciò il fatto che, contrariamente a quanto afferma Lewis, Gandhi non solo si è pronunciato in favore della desiderabilità, possibilità ed efficacia di una resistenza non-violenta a livello nazionale contro l'invasione straniera, ma si è anche più volte espressamente pronunciato a favore di una difesa non-violenta di un'India indipendente, anche se, allo stesso tempo e da buon realista com'era, non nutriva troppe illusioni sulla possibilità che ciò avvenisse mentre lui era in vita o nel prossimo futuro [27]. Che poi, come Lewis afferma, il Partito del Congresso non si sia mai dichiarato favorevole alla adozione dell'idea gandhiana di una difesa non-violenta può ben essere vero, ma ciò non prova certo che Gandhi per conto proprio non si attenesse a quell'idea, bensì semmai soltanto che la sua influenza sul Congresso, per quanto riguarda l'adozione di questa idea, fu praticamente nulla. È qui opportuno riassumere brevemente, trattandosi di un'idea gandhiana fondamentale, la distinzione fra non-violenza come convinzione e non-violenza come scelta tattica o, sempre in termini mutuati da Gandhi, fra la non-violenza del forte o Satyagraha e la non-violenza del debole o resistenza passiva. Tale distinzione è anche ampiamente documentata nella presente silloge[28]. Ciò che contraddistingue la non-violenza come convinzione o non-violenza del forte è, secondo Gandhi, il rifiuto morale della violenza (non la semplice astensione da essa per ragioni tattiche)[29], nonché la convinzione di aver trovato una valida alternativa ad essa. Un'ulteriore caratteristica che distingue la non-violenza del forte da quella del debole è che la prima richiede la presenza al massimo grado di tutte quelle virtù che l'uso della violenza al servizio di una causa giusta richiede: coraggio, abnegazione, disciplina e una profonda fede nella giüstezza degli obiettivi per cui si lotta [30]. Soprattutto, e come si vedrà più addentro in seguito essa è caratterizzata, oltre che da determinate tecniche di lotta incruenta, da un continuo, quotidiano impegno volto a realizzare una serie di obiettivi sia a breve sia a lunga scadenza contemplati in quello ché Gandhi chiama il programma costruttivo. Tutte queste caratteristiche non bastano tuttavia, a mio avviso, a fornire una compiuta caratterizzazione della non-violenza come convinzione. Secondo l'interpretazione che a me sembra la più plausibile oltre che la più interessante, e che è compito di questo volume, come del presente saggio introduttivo, far emergere, quella che Gandhi chiama la non-violenza come convinzione è ulteriormente contraddistinta dal fatto di poggiarē su una più comprensiva dottrina politica, le cui linee essenziali appariranno man mano che si procede nella lettura del presente scritto. Quanto alla non-violenza come scelta tattica, o non-violenza del debole o resistenza passiva, Gandhi precisa che si tratta della posizione di chi non ricorre alla violenza perché non si sente abbastanza forte per impugnare le armi, oppure per altre ragioni tattiche. La non-violenza come scelta tattica è anche tale in quanto non si fonda su di una particolare dottrina o concezione etica ma anzi è compatibile con le più diverse dottrine o concezioni[31]. Più che di non-violenza è qui proprio il caso di parlare di resistenza passiva, la quale può rappresentare la prima fase di un conflitto violento ma può anche, a certe condizioni e sotto la guida di un leader e di un'avanguardia che professa la non-violenza come convinzione, svilupparsi sempre di più in direzione di quest'ultima. Vi son passi in cui Gandhi esprime l'opinione che sul piano di massa non ci si può aspettare una piena aderenza alla non-violenza come convinzione, ad esempio il seguente: «La pratica del satyagraha da parte di grandi masse di uomini sarà impossibile se si esige che esse assimilino la dottrina in tutte le sue implicazioni. Non posso io stesso dire di averle assimilate o di conoscerle tutte. Un soldato di qualsiasi esercito non conosce l'intera scienza militare; allo stesso modo un combattente satyagraha non conosce l'intera dottrina. È sufficiente che egli abbia fiducia nel suo comandante, che segua con onestà le sue istruzioni e sia pronto ad andare incontro alla morte senza nutrire odio contro il suo cosiddetto nemico»[32]. D'altra parte egli ha anche però reiteratamente denunciato come un «profondo errore» l'idea che la nonviolenza come convinzione o «legge di vita che pervade tutto l'essere» «sia applicabile per gli individui e non lo sia per le masse dell'umanità»[33]. La non-violenza del debole o resistenza passiva va a sua volta, secondo Gandhi, nettamente distinta da quella che egli chiama la non-violenza del codardo, cioè dall'atteggiamento di colui ché si astiene dalla violenza per semplice vigliaccheria o per altri motivi puramente egoistici. A coloro che appartengono a questo gruppo Gandhi non ha che un consiglio da dare, quello cioè d'imbracciare le armi e riscattarsi piuttosto che sottomettersi o adeguarsi opportunisticamente al potere dello sfruttatore, del tiranno, del carnefice, in nome di una presunta non-violenza. Nella scala gandhiana dei valori la non-violenza del forte occupa dunque il primo posto, la cosiddetta non-violenza del codardo l'ultimo. Ε se vi può essere discussione circa la questione se Gandhi preferisse la non-violenza del debole alla violenza, non vi può essere dubbio alcuno che egli sempre preferì la violenza, ove naturalmente la causa fosse ritenuta giusta, alla codardia. «... Non ho mai considerato la violenza - egli ha scritto in una occasione - come una cosa permessa. Ho semplicemente distinto tra il coraggio e la codardia. L'unica cosa lecita [lawful] è la non-violenza... Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione»[34]. Similmente, in altra occasione, scrisse che pur essendo convinto che «la non-violenza è infinitamente superiore alla violenza», tuttavia «nel caso in cui l'unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza»[35]. Scrisse anche di aver «notato che spesso le persone deboli invocano a giustificazione delle loro azioni la fede... nei principi da me predicati, quando, a causa della loro codardia, si rivelano incapaci di difendere il loro onore e quello di coloro che avrebbero dovuto proteggere» [36]. Ε ricordando un episodio analogo, egli disse di aver pubblicamente denunciato tale condotta affermando che la sua non-violenza «giustificava pienamente la violenza usata da coloro che non credevano nella non-violenza e che erano chiamati a difendere l'onore delle loro donne e dei loro bambini». Ε aggiungeva: «La non-violenza non è una giustificazione per il codardo, ma è la suprema virtù del coraggioso. La pratica della non-violenza richiede molto più coraggio della pratica delle armi. La codardia è assolutamente incompatibile con la nonviolenza. Il passaggio dalla pratica delle armi alla non-violenza è possibile, e a volte perfino facile. La non-violenza dunque presuppone la capacità di colpire. Essa è un cosciente e volontario freno imposto alla propria volontà di vendetta. Ma la vendetta è sempre superiore alla passiva, imbelle e impotente sottomissione. Il perdono però è ancora superiore. Anche la vendetta è sintomo di debolezza»[37]. 4. Già questi brevi accenni alla triplice distinzione fra non-violenza del forte, non-violenza del debole e non-violenza del codardo, congiunti col fatto che la non-violenza gandhiana va identificata con il primo termine di questa distinzione, possono forse bastare a giustificare l'affermazione sopraddetta per cui i sommari giudizi negativi formulati nei confronti della non-violenza da Sartre, Fanon, Malcolm X, Marcuse non toccano la posizione di Gandhi, anzi ci aiutano a distinguerla da altre con le quali è assai importante che non venga confusa. E particolarmente importante è che essa non venga identificata con quella del tradizionale pacifismo religioso, del quale il maggior esponente è forse Lev Tolstoj. Un autore che recentemente ha proceduto a questa identificazione è Irving L. Horowitz. Il quale, facendo di tutte le erbe un fascio, denuncia in un capitolo intitolato The Pacifist Dream[38], il carattere a priori e assolutistico del rifiuto alla violenza proprio di Gandhi e di Tolstoj, in quanto esso porterebbe entrambi su posizioni politicamente sterili ed eticamente insostenibili. «Gandhi - scrive Horowitz - non ci presenta, più che non faccia Tolstoj, una concezione morale descrittiva, basata sulle scoperte delle scienze sociali, ma ci presenta invece un'etica normativa assolutistica, orientata verso quello che la natura umana dovrebbe essere»[39]. Ciò porta, secondo Horowitz, « a porre l'accento sui sentimenti e i desideri piuttosto che sulla valutazione delle conseguenze in base a criteri verificabili»[40]. «Invece di distinguere il carattere di ogni specifico conflitto di interessi, la filosofia pacifista esamina le cose in termini di astratti imperativi e ancor più astratti motivi. Il pacifismo viene a trovarsi in conflitto con la fluidità delle relazioni umane. La mutevole natura della società costringe gli uomini ad investigare i valori oggettivi di una data guerra prima di condannarla. Nella vita, la stima viene prima del giudizio. Nel pacifismo, il giudizio è a priori e la stima concreta non esiste»[41]. Inoltre parrebbe che per Horowitz la posizione pacifista comporti la negazione di ogni conflitto[42]. Con questa e simili interpretazioni della posizione di Gandhi mi trovo in profondo disaccordo. Anzitutto, e per cominciare con l'ultimo punto, giammai Gandhi ha rifiutato il conflitto. Egli non ha mai sostenuto che allo scopo di non creare conflitti o di non portare alla luce conflitti latenti si debba accettare lo status quo. Direi, semmai, che è vero proprio il contrario, che cioè, in quanto rifiuto di ogni forma di violenza, di sfruttamento e d'ingiustizia, la non-violenza gandhiana si presenta con le caratteristiche di una contestazione permanente e quindi essa stessa creatrice di conflitti. «Nessun uomo può essere attivamente non-violento e non ribellarsi contro l'ingiustizia sociale, dovunque si verifichi»[43]. Soltanto che Gandhi propone una sua alternativa alla rivolta e alla lotta violenta. Né egli prospetta l'ideale di una società senza conflitti di alcuna sorta, statica. Ε nemmeno, come si vedrà in seguito, egli fu cosi cieco da non vedere l'acutezza del conflitto tra capitale e lavoro, anche se non accettò mai l'idea che si trattasse di un conflitto antagonista di natura classista[44]. Ciò che egli rifiuta non è dunque il conflitto bensì soltanto la violenza come mezzo di conduzione e di risoluzione dei conflitti. In secondo luogo, se è indubitabile che alle radici della concezione non-violenta di Gandhi stanno alcuni fondamentali assunti di ordine religioso e quindi non verificabili nell'ambito delle scienze sociali, è però parimenti indubbio che accanto ad essi si trovano alcune fondamentali ipotesi la discussione delle quali rientra chiaramente nell'ambito di quelle scienze. Tali sono, ad esempio, l'assunto concernente la possibilità della resistenza non-violenta a livello di massa e quello concernente la capacità della natura umana di essere influenzata da un comportamento non-violento[45]. In terzo luogo, e come si vedrà più addentro in seguito[46], se per un verso è vero che Gandhi rifiuta la violenza a priori, per un altro verso è però anche vero che egli rafforza questo suo rifiuto con una serie di ipotesi di carattere fattuale circa le conseguenze che l'uso della violenza nella conduzione dei conflitti acuti fra gruppi tende a provocare. Ε, come pure si vedrà in seguito, a differenza di quanto sostiene Horowitz e con lui non pochi altri, il rifiuto che Gandhi oppone alla violenza non è di carattere assoluto. Inoltre non è vero, per quanto riguarda Gandhi, che in lui manchi la stima concreta delle situazioni conflittuali in cui si trovò ad operare. È infatti arcinoto come egli, ogni volta che fu coinvolto in tali situazioni, sempre per prima cosa, e in ottemperanza ad uno dei fondamentali principi della non-violenza che impone di attenersi alla verità, si peritò di raccogliere e di valutare nel modo più coscienzioso e imparziale possibile tutti i dati e le informazioni rilevanti nella situazione in questione. Da ultimo, la non-violenza gandhiana non comporta la impossibilità di distinguere una causa giusta da una causa ingiusta anche laddove ambo le parti impieghino la violenza, e non esclude nemmeno un attivo - anche se non-violento - appoggio a coloro che, in nome di una causa che risulta giusta dal punto di vista della non-violenza, si battono con metodi violenti. «Colui che crede nella non-violenza - scriveva Gandhi nel 1921 - è tenuto a non ricorrere alla violenza o alla forza fisica, direttamente o indirettamente, in difesa di alcuna causa, ma non soggiace alla proibizione di aiutare uomini o istituzioni che non operano sulla base della non-violenza... Il mio dovere è di astenermi da ogni violenza e di indurre con la persuasione e il servizio quante più creature di Dio a seguire il mio esempio nel pensiero e nelle azioni. Ma sarei insincero nella mia fede se rifiutassi di sostenere in una giusta causa degli uomini o dei provvedimenti la cui azione non coincide perfettamente con i principi della non-violenza... Anche quando entrambe le parti credono nella violenza, spesso la giustizia si trova da una delle parti»[47]. È in forza di ciò che nel '38, pronunciandosi sul conflitto palestinese, e rifiutando come irragionevoli le rivendicazioni da parte degli ebrei ad un territorio nazionale, poteva denunciare l'aggressione ebraica dietro lo scudo dei fucili britannici e prendere apertamente posizione in favore degli arabi. Scriveva infatti: «Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della non-violenza per resistere contro quella che giustamente considerano una ingiustificabile aggressione del loro paese. Ma in base ai canoni comunemente accettati del giusto e dell'ingiusto, non può essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie»[48]. La posizione gandhiana si differenzia da quella del tradizionale pacifismo occidentale anche per altri versi che non quelli sin qui menzionati. Quest'ultimo, infatti, trova sul piano pratico la sua più cospicua espressione nella obiezione di coscienza fondata su di una norma che proibisce nel modo più assoluto l'uccisione di un proprio simile. All'obiettore di coscienza, i cui diritti Gandhi naturalmente riconosce, egli fa però osservare come non vi sia, eticamente, differenza alcuna tra uccidere di mano propria e lasciare che altri lo faccia per noi, e quindi come non basti rifiutare di prestare il servizio militare per avere le mani pulite, ma occorra, se non si vuole in ogni caso essere complici della violenza, impegnarsi attivamente per ridurla in ogni sua forma, dissociandosi da ogni sistema basato su di essa. Scrive nel '31: «Io dico che limitarsi a rifiutare di prestare il servizio militare non è sufficiente. Rifiutare di prestare il servizio militare quando arriva il momento significa fare qualcosa quando ormai praticamente non c'è più tempo per combattere il male. Il servizio militare è soltanto un sintomo di una malattia che ha radici più profonde. Affermo che coloro che non hanno l'obbligo di prestare il servizio militare partecipano ugualmente al male se appoggiano in qualsiasi modo lo stato... organizzato militarmente» [49]. La nonviolenza gandhiana non si esaurisce dunque nel semplice rifiuto del servizio militare o della violenza diretta, bensì comporta un costante intervento volto a diminuire la violenza nella maggiore misura possibile. « A rigor di termini nessuna attività e nessuna occupazione è possibile senza un certo grado, per quanto limitato, di violenza. La stessa vita è impossibile senza una certa misura di violenza. Ciò che dobbiamo fare è limitare questa violenza quanto più possibile»[50]. Giusta è pertanto l'interpretazione di coloro per i quali l'imperativo della non-violenza gandhiana non è tanto il negativo «Astieniti dalla violenza! » quanto il positivo «Agisci in modo tale che la tua azione porti alla maggior riduzione possibile della violenza a lungo termine e in tutte le sue forme! »[51]. Senonché, e qui la mia interpretazione si diparte da quella di coloro che vedono in questo imperativo l'unica o la più fondamentale norma dell'etica gandhiana, esso fa parte di un sistema di norme ciascuna delle quali è fornita di uguale validità e tale che, ove venga a conflitto con una o più delle altre, può essere da quella o da quelle soverchiata. Si che si possono dare situazioni in cui l'uso della violenza, pur essendo proibito in base all'imperativo accennato, potrà tuttavia essere sancito come legittimo in quanto richiesto da una o più norme in misura più forte che non sia proibito dall'imperativo della non-violenza[52]. Va anche notato come, a differenza di tante varianti del pacifismo occidentale, Gandhi non fonda la sua concezione sulla norma che proibisce di uccidere. Rifiutare la violenza non significa per Gandhi ipso facto rifiutare sempre di uccidere: vi sono situazioni in cui uccidere una persona non comporta usarle violenza. «Uccidere - egli ha scritto in una occasione - può essere un dovere… Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole. Dal punto di vista dell'ahimsa è chiaro dovere di ciascuno uccidere un simile uomo... L'astenersi dall'uccidere in determinate circostanze può non essere un dovere assoluto»[53]. Questo è uno dei punti fondamentali su cui la posizione gandhiana si differenzia da quella di Tolstoj il quale afferma che un vero cristiano non ucciderà neanche il pazzo che figura nell'esempio di Gandhi[54]. Questi considera anche l'eutanasia, il togliere la vita a una persona votata a morte scura a l'unico fine di liberarla da sofferenze inutili, in pieno accordo con la sua dottrina della non-violenza. Si ha qui un'altra occasione in cui uccidere, secondo lui, non è violenza. Scrive in un luogo: « Vedo che esiste un orrore istintivo ad uccidere delle creature viventi in qualsiasi circostanza. Ad esempio è stato perfino suggerito di isolare i cani idrofobi in un determinato posto e lasciarli morire lentamente. Orbene, la mia concezione della compassione mi rende impossibile approvare una simile cosa. lo non posso sopportare neanche per un istante di vedere un cane o qualsiasi altro essere vivente soffrire impotente la tortura di una morte lenta. Io non uccido un essere umano che si trova in tali condizioni perché possiedo dei rimedi più efficaci. Ma devo uccidere un cane idrofobo, perché nel suo caso non posseggo alcun rimedio. Se mio figlio fosse contagiato dalla rabbia e non vi fosse nessun rimedio per alleviare la sua agonia, dovrei considerare mio dovere ucciderlo. Il fatalismo ha i suoi limiti. Noi lasciamo che il Fato compia il suo corso dopo aver esaurito tutti i rimedi. Ε il rimedio estremo per alleviare l'agonia di un bambino straziato è quello di togliergli la vita»[55]. Sul concetto gandhiano di violenza e sulla distinzione fra violenza e non-violenza ritornerò più avanti[56]. (ritorna all'indice) segue da pag. XXXIV riprende da pag. 1 Teoria e pratica della non-violenza Voglio illudermi che alcuni dei miei scritti mi sopravvivranno e potranno essere di qualche utilità alla causa per la quale sono stati scritti. M. K. GANDHI, 1939 Parte prima I principi della non-violenza I. CHE COS’È LA NON-VIOLENZA? 1. A guisa d'introduzione. Le opinioni che mi sono formato e le conclusioni a cui sono giunto non sono definitive. Potrei modificarle in qualsiasi momento; non ho niente di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non-violenza sono antiche come le colline. Ho solo tentato di metterle in pratica su scala più vasta possibile. A volte ho sbagliato, ma ho imparato dai miei errori. La vita e i suoi problemi sono divenuti cosi per me il terreno su cui sperimentare nella pratica la verità e la non-violenza. («Harijan», 28 marzo 1936). 2. Gandhi spiega la sua scoperta della non-violenza e ne dà una generale caratterizzazione. Fino al 1906 mi sono affidato esclusivamente alla ragione. Ero un riformatore molto attivo ed un ottimo redattore di petizioni, in quanto avevo sempre una chiara visione dei fatti, che mi proveniva da una rigorosa osservanza della verità. Tuttavia, quando giunse il momento critico, nel Sud Africa[57], dovetti scoprire che la ragione non era sufficiente. La mia gente era eccitata - anche la pazienza ha un limite - e si cominciava a parlare di vendetta. Mi trovai di fronte all'alternativa tra aderire anch'io alla violenza o trovare un altro metodo per risolvere la crisi e far cessare l'ingiustizia, e allora mi venne in mente l'idea di rifiutare di obbedire alle leggi discriminatorie, affrontando per questo anche la prigione. Nacque così l'equivalente morale della guerra. A quel tempo ero ancora lealista, in quanto ritenevo che tutto sommato l'azione dell'Impero britannico giovasse all'India e all'umanità. Giunto in Inghilterra poco dopo lo scoppio della guerra mi arruolai, e poi, quando fui costretto a ritornare in India a causa di una pleurite, organizzai una campagna di arruolamento a rischio della mia stessa vita, con sommo scandalo di alcuni dei miei amici. La disillusione avvenne nel 1919 dopo l'approvazione del Black Rowlatt Act[58] e il rifiuto del governo di riparare i torti che ci erano stati fatti. Cosi nel 1920 divenni un ribelle. Da allora mi sono andato sempre più convincendo che la ragione non è sufficiente ad assicurare cose di fondamentale importanza per gli uomini, che devono essere conquistate attraverso la sofferenza. La sofferenza è la legge dell'umanità, cosi come la guerra è la legge della giungla. Ma la sofferenza è infinitamente più potente della legge della giungla, ed è in grado di convertire l'avversario e di aprire le sue orecchie, altrimenti chiuse, alla voce della ragione. Nessuno probabilmente ha redatto più petizioni o difeso più cause perse di me, e posso dirvi che quando volete ottenere qualcosa di veramente importante non dovete solo soddisfare la ragione, ma toccare i cuori. L'appello della ragione è rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza. Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La sofferenza, e non la spada, è il simbolo della razza umana. («Young India», 5 novembre 1931). 3. La disposizione a soffrire invece di far soffrire gli altri essenza della nonviolenza. Sulla non-violenza tra stati. La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della non-violenza e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo. Non è perché io stimi poco la vita che approvo con gioia che migliaia di persone perdano volontariamente la vita per il satyagraha, ma perché so che a lungo andare ne risulterà minore perdita di vita e, cosa ancor più importante, perché penso che quest'atto nobiliti coloro che perdono le loro vite e che il mondo risulti arricchito moralmente dal loro sacrificio. Penso che l'autore della lettera[59] abbia ragione quando afferma che la non-collaborazione non è solo un ideale, ma anche « una via rapida e sicura verso la libertà dell'India». Io ritengo che tale dottrina sia valida anche nei rapporti tra gli stati. So di affrontare un argomento delicato volendo far riferimento all'ultima guerra[60], ma temo di esservi costretto, allo scopo di chiarire a fondo la mia posizione. Si è trattato di una guerra espansionistica, per entrambe le parti. È stata una guerra per spartirsi il bottino dello sfruttamento delle razze più deboli - chiamato eufemisticamente mercato mondiale. Se la Germania oggi mutasse politica e decidesse di usare la sua libertà di azione non per la spartizione del mercato mondiale ma per proteggere, grazie alla sua superiorità morale, le razze più deboli della terra, essa potrebbe sicuramente far ciò senza bisogno di armamenti. Si comprenderebbe in tal modo che prima dell'inizio in Europa di un disarmo generale, che prima o poi dovrà essere realizzato, se l'Europa non vuole andare incontro al suicidio, qualche nazione deve avere il coraggio di procedere autonomamente al proprio disarmo, accettando i gravi rischi che ciò comporta. In tale nazione il livello di non-violenza, se per buona ventura questa scelta venisse fatta, naturalmente salirebbe ad una altezza tale da imporre il rispetto universale. I giudizi di questa nazione sarebbero ritenuti infallibili, le sue decisioni inappellabili e si avrebbe una grande capacità di sacrificio eroico e una volontà di vivere per il bene delle altre nazioni quanto per il proprio. Non voglio trattare più a lungo un argomento delicato come questo. So che sto facendo della teoria su una questione pratica di cui non conosco tutti gli elementi. La mia unica scusante è che, se ho ben capito, è questo che l'autore della lettera mi chiedeva. Io approvo la completa non-violenza e la considero possibile nei rapporti tra uomo e uomo e tra nazione e nazione; ma questa non è «una rinuncia ad ogni lotta concreta contro l’ingiustizia». Al contrario, nella mia concezione la non-violenza è una lotta contro l'ingiustizia più attiva e più concreta della ritorsione, il cui effetto è solo quello di aumentare l'ingiustizia. Io sostengo una opposizione mentale, e dunque morale, all'ingiustizia. Cerco con tutte le mie forze di ottundere l'affilatura alla spada del tiranno, ma non contrapponendo ad essa un'arma più affilata, bensì deludendo la sua aspettativa di una resistenza fisica da parte mia. La resistenza morale che io opporrò servirà a disorientarlo. Dapprima lo frastornerà, e alla fine lo costringerà al riconoscimento dell'ingiustizia, riconoscimento che non lo umilierà, anzi lo nobiliterà. Si potrà sostenere che di nuovo ci si pone nel regno dell'ideale. Ε in realtà è cosi. I principi da cui ho ricavato le mie convinzioni sono veri quanto lo sono le definizioni di Euclide, che non pèrdono di verità perché nella pratica non si è neppure in grado di tracciare una linea euclidea su di una lavagna. Malgrado ciò perfino per uno studioso di geometria è impossibile andare avanti senza tenere presenti le definizioni di Euclide. («Young India », 8 ottobre 1915). 4. Riferimento ai sacri testi indiani in una caratterizzazione della non-violenza in sei punti. Lo « Statesman » di Delhi ha dedicato quattro articoli ad una totale condanna del movimento pacifista inglese guidato da Canon Sheppard e da altri ferventi cristiani. Il giornale ha addotto a sostegno delle proprie posizioni l'autorità del Bhagavadgita, scrivendo: « In realtà il vero ma difficile insegnamento del cristianesimo sembra essere che la società deve combattere i suoi nemici ma amarli allo stesso tempo. Tale anche - e Mr Gandhi voglia cortesemente prenderne nota - è il chiaro insegnamento del Bhagavadgita, nel quale Krishna dice ad Arjuna che la vittoria spetta a colui che combatte con completo sprezzo del pericolo e che è del tutto privo di odio. In effetti la disputa tra l’obiettore di coscienza e il combattente cavalleresco viene definitivamente risolta, ad altissimo livello, nel secondo libro di questo grande classico. Abbiamo poco spazio per le citazioni, e l'intero poema merita di essere letto, non una sola ma numerose volte ». L'autore degli articoli forse non sa che anche i terroristi hanno utilizzato in loro difesa gli stessi versi che egli cita. Il fatto è tuttavia che una lettura spassionata del Bhagavadgita mi ha rivelato un senso del tutto contrario a quello addotto dal giornalista dello « Statesman ». Egli ha dimenticato che Arjuna non era un obiettore di coscienza come lo sono gli attuali pacifisti occidentali. Arjuna credeva nella guerra. Egli aveva già combattuto più volte contro gli eserciti di Kaurava. Ma si scoraggiò quando i due eserciti furono schierati in ordine di battaglia ed egli improvvisamente comprese che avrebbe dovuto combattere contro i suoi più prossimi congiunti e i suoi venerati maestri. Non fu l'amore per l'uomo o l'odio per la guerra a spingerlo a porre la domanda. Khrisna da parte sua non poteva dare una risposta diversa da quella che diede. L'immortale autore del Mahahharata, di cui il Gita è una - e senza dubbio la più splendida - delle molte gemme contenute in questo filone letterario, ha mostrato al mondo l'inutilità della guerra dando ai vincitori una vuota gloria, lasciando sopravvivere soltanto sette vincitori dei milioni di uomini che si erano impegnati in quella battaglia, durante la quale furono commesse da entrambe le parti atrocità inenarrabili. Ma il Mahahharata contiene un messaggio più importante anche della descrizione della guerra come illusione e follia. Esso è la storia dell'uomo considerato come essere immortale, ed esamina con la lente di ingrandimento un episodio storico considerato a quei tempi di grande importanza per il piccolo mondo di allora, ma che rispetto al metro di giudizio dei giorni nostri ha ben poco significato. A quei tempi il mondo non si era ancora ridotto, come è oggi, alle dimensioni di una capocchia di spillo, nella quale il minimo movimento che avviene in un punto si ripercuote su tutti gli altri. Il Mahahharata descrive l'eterna lotta che quotidianamente si verifica tra le forze del bene e del male nell'animo umano, lotta nella quale, sebbene il bene riesca sempre vincitore, il male riesce a fare bella mostra di sé e inganna anche la coscienza più accorta. Esso mostra inoltre la sola via che conduce al retto comportamento. Ma quale che sia il vero messaggio del Bhagavadgita, ciò che interessa ai leader del movimento pacifista non è quello che dice il Gita, ma quello che dice la Bibbia, che è la loro guida spirituale, e per di più non nell'interpretazione che di essa danno le autorità ecclesiastiche, ma nell'interpretazione che una lettura devota suggerisce al credente. Ciò che interessa soprattutto è la coscienza da parte degli obiettori del significato della legge dell'amore o ahimsa, che in inglese viene resa impropriamente con il termine non-violenza. Probabilmente gli articoli dello « Statesman » sono una critica leale nei confronti degli obiettori. Mi rincresce di non conoscere abbastanza il movimento per poter dare un giudizio definitivo. La mia opinione naturalmente non ha alcun peso riguardo al movimento degli obiettori. Può avere tuttavia qualche importanza in quanto conosco bene alcuni di essi, con i quali sono anche in corrispondenza. Inoltre essi ora hanno compiuto un ulteriore passo in avanti, adottando quasi come testo fondamentale il libro di Richard Gregg intitolato Il potere della non-violenza[61], che il suo autore sostiene essere l'interpretazione occidentale di ciò che io intendo per non-violenza. Non credo dunque sia presuntuoso da parte mia voler tracciare sinteticamente le caratteristiche e le condizioni del successo della non-violenza. Esse sono: 1) La non-violenza è la legge della razza umana ed è infinitamente più grande e più potente della forza bruta. 2) Essa non può essere di alcun aiuto a chi non possiede una fede profonda nel Dio dell'Amore. 3) La non-violenza offre la più completa difesa del rispetto di se stesso e del senso dell'onore dell'uomo, ma non sempre garantisce la difesa della proprietà della terra e di altri beni mobili, sebbene la sua pratica continua si dimostri anche nella difesa di questi ultimi un baluardo migliore del possesso di uomini armati. La non-violenza, per la sua stessa natura, non è di nessun aiuto nella difesa dei guadagni illegittimi e delle azioni immorali. 4) Gli individui e le nazioni che vogliono praticare la non-violenza debbono essere pronti (le nazioni fino all'ultimo uomo) a sacrificare tutto tranne il loro onore. La non-violenza dunque è incompatibile con il possesso di paesi di altri popoli; vedi ad esempio l'imperialismo moderno, il quale deve chiaramente basarsi sulla forza per difendersi. 5) La non-violenza è un potere che può essere posseduto in egual misura da tutti - bambini, ragazzi, ragazze e uomini e donne adulti, posto che essi abbiano una fede profonda nel Dio dell'Amore e che quindi possiedano un uguale amore per tutto il genere umano. Quando la non-violenza viene accettata come legge di vita essa deve pervadere tutto l'essere e non venire applicata soltanto ad azioni isolate. 6) È un profondo errore supporre che questa legge sia applicabile per gli individui e non lo sia per le masse dell'umanità. («Harijan», 5 settembre 1936). 5. Sulla non-violenza come azione diretta e forza positiva fondata sull'amore e includente tutta la creazione. «Dal suo punto di vista la non-violenza è una forma di azione diretta?», domandò il dottor Thurman. «Non è una forma, ma la sola forma, - disse Gandhi. - Naturalmente io non limito il senso del termine "azione diretta" al suo significato letterale. Senza una diretta e attiva espressione di essa, la non-violenza per me è priva di significato. Essa è la più grande e la più attiva forza del mondo. Non si può essere non-violenti passivamente. Infatti quello di «non-violenza" è un termine che ho dovuto coniare per esprimere il significato profondo dell'ahimsa. Malgrado la particella negativa "non”, non si tratta di una forza negativa. Nella vita di tutti i giorni siamo circondati da conflitti e spargimenti di sangue, dall'oppressione di alcuni uomini su altri uomini. Ma un grande profeta, che molto tempo fa giunse a penetrare il cuore della verità, dice: non è con la lotta e la violenza, ma con la non-violenza che l'uomo può compiere il suo destino e il suo dovere nei confronti del suo prossimo. È una forza più positiva dell'elettricità, e più potente perfino dell'etere. Al centro della nonviolenza sta una forza spontanea. Ahimsa significa "amore" nel senso paolino, e qualcosa di ancora più forte dell'"amore" definito da san Paolo, anche se sono convinto che la bella definizione di san Paolo è valida per tutti gli scopi pratici. L'ahimsa include tutto il creato, e non solo il genere umano. Nella lingua inglese la parola "amore" ha altri significati, e dunque sono stato costretto ad utilizzare un termine negativo. Ma questo, come ho già detto, non esprime una forza negativa, ma una forza superiore a tutte le altre forze messe insieme. Una persona che nella vita riesce a praticare l'ahimsa esercita una forza superiore a tutte le forze della brutalità». D.: Ε questo è possibile per qualsiasi individuo? GANDHI: Certamente. Se la pratica della non-violenza fosse riservata solo a pochi, dovrei ripudiarla immediatamente. (« Harijan », 14 marzo 1936). 6. Caratterizzazione della non-violenza, qui chiamata resistenza passiva, come fondata sulla disposizione a soffrire e esprimentesi nella disobbedienza civile nonviolenta. LETTORE: Deduco che la resistenza passiva è una splendida arma per il debole, ma che quando si è forti si possono prendere le armi. AUTORE: Questo è un errore madornale. La resistenza passiva, ossia la forza dell'anima, è una forza invincibile. Essa è superiore alla forza delle armi. Come può dunque essere considerata soltanto un'arma del debole? Gli uomini che fanno uso della forza fisica non possiedono il coraggio che è il requisito di chi pratica la resistenza passiva. Credete che un codardo possa mai disubbidire ad una legge che giudica ingiusta? Gli estremisti sono considerati i sostenitori della forza bruta. Perché dunque parlano dell'obbedienza alle leggi? Io non li biasimo per questo. Non potrebbero fare diversamente. Quando riusciranno a cacciare gli inglesi e saliranno al governo, essi pretenderanno che lei ed io obbediamo alle loro leggi. Ε questo è coerente con i loro principi. Ma un seguace della resistenza passiva sosterrà che non obbedirà ad una legge che sia contro la sua coscienza anche a costo di essere legato alla bocca di un cannone e fatto a pezzi. Che cosa pensa? In che cosa ci vuole più coraggio, nel legare altri ad un cannone e farli a pezzi o nell'avvicinarsi sorridenti ad un cannone per essere fatti a pezzi? Chi è il vero combattente; chi giudica la morte sempre come un intimo amico o chi decide della morte degli altri? Mi creda, un uomo privo di coraggio e di umanità non potrà mai praticare la resistenza passiva. Tuttavia ammetto questo: anche un uomo fisicamente debole può opporre tale resistenza. La può opporre un uomo come possono farlo milioni di uomini. Possono opporla sia gli uomini che le donne. Essa non richiede l'addestramento di un esercito; non richiede lo jiu-jitsu. L'unica cosa necessaria è il controllo sulla mente, e una volta raggiunto questo, l'uomo è libero come il re della foresta e il suo solo sguardo fulmina il nemico. La resistenza passiva è una spada a doppio taglio, che può essere usata in ogni circostanza; essa colpisce colui che ne fa uso e colui contro cui è usata. Senza versare una sola goccia di sangue produce risultati di enorme portata. Essa non si arrugginisce mai e non può essere rubata. L'emulazione tra coloro che praticano la resistenza passiva non ha mai fine. La spada della resistenza passiva non ha bisogno di fodero. È strano dunque che lei consideri una tale arma soltanto un'arma del debole. LETTORE: Lei ha detto che la resistenza passiva e una particolarità dell'India. Forse che in India non sono mai stati usati i cannoni? AUTORE: Evidentemente per lei India significa i suoi pochi prìncipi. Per me invece significa i milioni di uomini dai quali dipende l'esistenza dei principi e quella di noi stessi. I re continueranno sempre ad usare le loro armi regali. L'uso della forza è radicato in essi. Essi vogliono comandare, ma coloro che devono obbedire ai loro ordini sono contro la violenza: e nel mondo questi sono la maggioranza. Essi acquisteranno o la forza fisica o la forza dell'anima. Se acquisteranno la prima, sia i governanti che i sudditi diverranno come tanti pazzi; ma se acquisteranno la forza dell'anima, gli ordini dei governanti non riusciranno a superare la punta delle loro spade, poiché il vero uomo non si cura degli ordini ingiusti. I contadini non sono mai stati sottomessi dalla spada e non temono l'uso di essa da parte di altri. Un popolo è grande quando poggia la testa sulla morte come su un cuscino. Coloro che sfidano la morte sono liberi da ogni paura. Per coloro che sono preda del fascino illusorio della forza bruta questo quadro non è esagerato. Il fatto è che in India il popolo nel suo complesso ha in genere usato la resistenza passiva in tutti i campi della vita. Noi cessiamo di collaborare con i nostri governanti quando le loro azioni ci sembrano ingiuste. Questa è la resistenza passiva. Ricordo un caso in cui, in un piccolo principato, gli abitanti di un villaggio ritennero ingiusto un ordine emanato dal principe. Essi cominciarono immediatamente ad abbandonare il villaggio. Il principe divenne nervoso, si scusò con i suoi sudditi e revocò l'ordine. In India possono essere trovati numerosi esempi di questo genere. Un vero governo indipendente è realizzabile solo se la resistenza passiva sarà la forza che guiderà il popolo. Qualsiasi altro ordinamento è un ordinamento estraneo al popolo indiano. (Hind Swaraj or Indian Home Rule, cap. XVII). (ritorna all'indice) segue da pag. 14 [1] Cfr. L'etica di Gandhi alla luce del suo rifiuto della violenza, in «Rivista di filosofia», vol. LIII, 3 (1962) pp. 273-313 Alcune delle analisi e delle tesi ivi svolte e suggerite sono state riprese e integrate in questo saggio introduttivo. Ciò vale anche per due altri articoli, Non-violenza e costrizione nell'etica di Gandhi, in «Rivista di filosofia», vol. LIV, 3 (1963), pp. 294-316 e Etica e conflitti di gruppo, in «De Homine», 24-25, 1968, pp. 71-90 nonché per il saggio The Rejection of Violence in Gandhian Ethics of Conflict Resolution, in «Journal of Peace Research», 3, 1965, pp. 197-215 [2] Fino al '62, se non vado errato, di Gandhi nella nostra lingua era accessibile solo una breve raccolta di Pensieri, curata da don Primo Mazzolari, Vicenza 1960. Praticamente irreperibili erano invece l'edizione ridotta della sua Autobiografia, curata da C. F. Andrews, Milano 1931; la Guida alla salute e altri saggi morali e sociali, Roma 1925 e Il tormento dell'India, Napoli 1930. Su Gandhi fino al '62 esistevano solo - se si fa eccezione per la voluminosa biografia di B. R. NANDA, Gandhi il Mahatma, Mondadori, Milano 1961 - lavori pubblicati tra gli anni venti e quaranta e prevalentemente intesi a dare un resoconto della sua vita e del suo operato e a stabilire il suo posto nella lotta allora in corso per l'indipendenza dell'India. Cfr. R. ROLLAND, Mahatma Gandhi, Milano 1922; Ε. CAPRILE, Gandhi, Roma 1925; R. FÜLOP-MILLER, Gandhi. Storia di un uomo e di una lotta , Milano 1930; C. FORMICHI Sette saggi indiani, Bologna 1938; C. BORSA, Gandhi e il risorgimento indiano, Milano 1942 e E. T. PRIVAT, In India con Gandhi, Milano 1944. La valutazione critica più seria della non-violenza gandhiana reperibile in italiano rimane a lungo quella contenuta nel cap. LXVIII della Autobiografia di J. NEHRU, Feltrinelli, Milano 1955. Ad essa si aggiungono i commenti critici contenuti nel lavoro di K. JASPERS, La bomba atomica e il destino dell'uomo, Milano 1960, pp. 60-70. Discorso del tutto a parte meriterebbero le opere di Aldo Capitini. Capitini è infatti più interessato ad elaborare una sua personale concezione della non-violenza che non a indagare su quella di Gandhi, anche se nelle sue opere si trovano sempre più spesso accenni assai illuminanti a Gandhi. Per una dettagliata rassegna della letteratura gandhiana in Italia a cavallo tra le due guerre mondiali vedi G. SOFRI, Gandhi in Italia, il Mulino, Bologna 1988, pp. 111-50. [3] 1 Alcune delle tappe che segnano questo crescente interesse per la posizione di Gandhi e più in generale per la non-violenza e il pacifismo possono qui essere brevemente indicate. Nel '62 usciva, presso Comunità, il libro di A. CAPITINI La non-violenza, oggi, nel quale, oltre a ripetuti richiami a Gandhi si trova anche un capitolo espressamente dedicato a Gandhi e i! suo metodo. Nel '63, sempre presso Comunità, appare la silloge di pensieri e passi gandhiani Antiche come le montagne. Nel '65 la rivista «Terzo Programma (3)» pubblica i testi delle trasmissioni radiofoniche sulla filosofia della guerra e la non-violenza tenute da Norberto Bobbio, Sergio Cotta, Aldo Capitini, Umberto Segre, nonché quello del dibattito finale cui parteciparono oltre a Capitini, Cotta e Segre anche Paolo Rossi e Guido Gonella. Nello stesso anno appare presso la CEI, Milano, il Gandhi di Giorgio Borsa. Nel '66 Bobbio ritorna, con un ampio e bel saggio dal titolo Il problema della guerra e le vie della pace , in «Nuovi Argomenti» (n. 3-4), sui temi e le tesi trattati nella sua trasmissione radiofonica, segnalando in modo particolare l'importanza di un più attento esame della concezione non-violenta di Gandhi. Su di essa verte in notevole misura il libro di A. CAPITINI Le tecniche della non-violenza pubblicato nel '67 presso Feltrinelli. Nello stesso anno la SEI di Torino pubblica di M. I. KING, La forza di amare e nel '68 dello stesso autore Il fronte della coscienza. Sempre nel '68 escono tre libri che vertono in varia misura su Gandhi e la non-violenza: il grosso volume di C. FUSERO Gandhi, Dall'Oglio, Milano; il lavoro di F. CASΤRLLUCCIO, La rivoluzione indiana, Dall'Oglio, Milano e quello di C. DREVEΤ, Gandhi interpella i cristiani, La Cittadella, Assisi. Inoltre nello stesso anno esce presso la Jaca Book in traduzione italiana il lavoro di R. NIEBUHR Uomo morale e società immorale che contiene un capitolo, il nono, esclusivamente dedicato ad una discussione della non-violenza gandhiana. Nel '69 vede la luce la seconda silloge di scritti di Gandhi in italiano, pubblicata con il titolo La forza della non-violenza, dalla casa editrice EMI Milano. Nello stesso anno, presso Feltrinelli esce, a cura di Franco Fornari, Dissacrazione della guerra, che contiene materiale variamente connesso alla problematica della non-violenza e del pacifismo. Problematica recentemente ripresa, soprattutto da un punto di vista psicologicopedagogico, da G. CACIOPPO, Non-violenza come educazione, Lacaita, Firenze 1972. [4] I. FISCHER, La vita di Gandhi, La Nuova Italia, Firenze 1971. [5] ID., The Life of Mahatma Gandhi, New York 1950 (ma i riferimenti nel corso di questo saggio sono all'edizione Collier Bock, New York 1962). [6] Pro e contro Gandhi, Milano 1972. [7] E. H. ERIKSOV, La verità di Gandhi, Feltrinelli, Milano 1972. [8] I. VECCHIOTTI, Che cosa ha veramente detto Gandhi, Ubaldini, Roma 1972. [9] Debbo però sottolineare che quanto interessante e piena di acute analisi e osservazioni è la trattazione e la valutazione storica, altrettanto insoddisfacente è però - a mio avviso - la trattazione della questione se in Gandhi vi sia un messaggio o una indicazione di qualche attualità per l'uomo dell'era atomica. Quest'ultimo problema non è in realtà mai seriamente affrontato nel libro di Vecchiotti; esso è piuttosto accantonato, come del resto ci si poteva anche aspettare in un lavoro che muove da un approccio storicistico; e in ciò sta il limite più serio di un buon libro. [10] Cfr. pp. 274-351. Tutti i riferimenti di questo tipo sono a passi che appaiono nel presente volume. [11] Già nel '77, qualche anno dopo aver scritto queste righe, riconoscevo l'errore che avevo commesso nel considerare le idee di Gandhi sul vegetarianesimo «secondarie» o «marginali» (cfr. il saggio pubblicato nel volume di AA.VV., Marxismo e non-violenza, Editrice Lanterna, Genova 1977, pp. 233-34, e ora ristampato in edizione riveduta e ampliata con il titolo La violenza levatrice della storia?, in G. PONΤARA, Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Εditori Riuniti, Roma 1990, pp. 104-5); nello stesso anno scrissi un breve saggio in difesa degli animali dal titolo Chi ha diritto alla vita e a non essere fatto soffrire?, pubblicato sul mensile «Azione nonviolenta» (novembre-dicembre 1977). Sulla non-violenza di Gandhi nei confronti degli animali sono ritornato brevemente nello scritto Gandhi e la giustificazione della violenza, in G. PONTARA, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996. [12] La raccolta completa degli scritti di Gandhi è stata pubblicata sotto gli auspici del Governo indiano; cfr. Government of India, Ministry of Information and Broadcasting, The Publication Division, The Collected Works of Mahatma Gandhi, Dehli 1958-84. [13] «Indian Opinion», settimanale, venne fondato da Gandhi in Sud Africa nel 1903 e continuò ad uscire anche alcuni anni dopo che Gandhi ebbe lasciato quel paese (a dirigerlo mandò il figlio Manilal). «Young India» fu pubblicato in veste di settimanale dal marzo 1919 fino al febbraio 1932; «Navajivan», settimanale in guijarati, cominciò pure ad uscire nel 1919; «Harijan» (lett. «Il popolo di Dio»), pure settimanale, uscì col suo primo numero l’11 febbraio 1933, subì un'interruzione per quasi quattro anni, dal 16 agosto 1942 al 10 febbraio 1946, e riprese poi a uscire fino al 1951. [14] Cfr. p. 5. [15] «Harijan», 30 settembre 1939 (in Non-violence in Peace and War, vol. I, Ahmedabad 1962 [1942], pp. 242-43). Ove non indicato diversamente, tutte le traduzioni di passi tratti da scritti di Gandhi o di altri autori sono mie. [16] Cfr., poi, cap. II. [17] Willingdon to Hoare, 28 August 1931. IOL, Templewoods Papers, Mss. EUR. Ε. 240 (5) (cit. da J. M. ΒROWN, Gandhi prisonier of Hope, Yale University Press, New Haven - London 1989, P. 254), La biografia della Brown (che, come ogni biografia di Gandhi, è anche la ricostruzione e interpretazione di un pezzo di storia dell'India) è un lavoro seriamente documentato e anche spesso critico nei confronti di Gandhi: da questo punto di vista è un ottimo antidoto contro tutta quella letteratura agiografica sorta attorno alla figura del Mahatma. Il libro della Brown è scritto da un punto di vista filobritannico: a volte ciò appare in modo assai patente, per esempio là dove l'uccisione di 22 poliziotti da parte della folla inferocita a Chauri Chaura viene caratterizzata come «un massacro di una brutalità nauseante» («a massacre... of a sickening savagery», p. 167), mentre l'eccidio di centinaia (secondo le stime del Congresso di un migliaio) di civili inermi, nella piazza di Jallianwalla Bagh ad Amritsar, perpetrato dalle truppe inglesi comandate dal generale Dyer, viene caratterizzato come una «sparatoria» («the Jallanwalla Bagh firing», p. 143) [18] «Harijan», 3 marzo 1946 (in Non-violence in Peace and War, vol. II, Ahmedabad 1960 [1949] pp. 43-44). [19] K. BOULDING, Conflict and Defence. A General Theory, New York 1963, p. 337. [20] Cfr. p. 250. [21] Cfr. p. 56. [22] Cfr. p. 237. Lo studio che forse più di ogni altro corrobora il giudizio che Gandhi dà di se stesso è quello di ERIKSON, La verità di Gandhi cit.; cfr. specialmente parte III, cap. I. [23] J. NEHRU, The Discovery of India, Anchor Books, New York 1959, p. 274. [24] Cfr. per recenti accenni in tal senso quanto J.-P. Sartre dice nella sua prefazione a F. FANON, I dannati della terra, Torino 1967, p. XXI; il giudizio di Fanon stesso alla p. 25; nonché quelli di MALCOM X, in Ultimi discorsi, Torino 1968, pp. 56, 135-36, 161-62. [25] H. MARCUSE, La tolleranza repressiva, in R. P. WOLF, B. MOORE jr e H. MARCUSE, Critica della tolleranza, Torino 1970 p. 95. È interessante però osservare come, non potendo non riconoscere l'efficacia del movimento gandhiano in India, Marcuse, per non contraddirsi, ricorra al troppo facile stratagemma di negare che la lotta degli indiani contro la dominazione inglese fosse di natura nonviolenta. Cfr. ibid. [26] I. LEWIS, The Case Againτt Pacifism, London 1940 (1937). Una interpretazione sostanzialmente simile della non-violenza gandhiana fornisce anche w. H. HANCOCK, in Four Studies of Peace and War, Cambridge University Press, 1961, cap. III: Non-violence. [27] Cfr. soprattutto gli scritti raccolti nella parte II, sez. Β, cap. 1: La lotta non-violenta all'invasione straniera, nonché molte affermazioni ricorrenti negli scritti raccolti nel cap. II della stessa sezione sotto il titolo La resistenza nonviolenta al nazismo. [28] Cfr. in primo luogo parte I, cap. 1, scritti 7-10 e 13. [29] Sugli argomenti in base ai quali Gandhi rifiuta la violenza cfr. pp. XLVII-LVI. [30] Cfr. a questo proposito gli scritti raccolti nel cap. 1: Requisiti e preparazione del satyagrahi o non-violento, parte II, sez. A, e in special modo gli scritti 1-4 [31] Sulla distinzione tra non-violenza del forte e non-violenza del debole, o tra satyagraha e resistenza passiva o duragraha verte il saggio di J. V. Bondurant, Satyagraha vs. Duragraha: The Limits of Symbolic Violence, in G. RAMACHANDRAN e T. K. MAHADEVAN (a cura di), Gandhi: His Relevance for Our Time, Bombay 1964, pp. 67-81. [32] «Harijan», 22 ottobre 1938, in Satyagraha, Ahmedabad 1951, pp. 362-363 [33] Cfr. p. 11. [34] Cfr. p. 22. [35] Cfr. pp. 18-19. Cfr. anche pp. 319-20. [36] Cfr. p. 13. [37] Cfr. p. 23 e cfr. anche pp. 318-20. [38] I. L. HOROWIΤΖ, The Idea of Peace and War in Contemporary Philosophy, New York 1957. [39] Ibid., p. 104. [40] HOROWIΤΖ, The Idea of Peace and War cit., p. 105. [41] Ibid., p. 106. [42] Ibid., p. 103 [43] Cfr. p. 319. [44] Cfr. le osservazioni a pp. XCI-XCVIII. [45] Cfr. sugli assunti etico-psicologico-religiosi gli scritti nella parte I, capitolo III. [46] Cfr. pp. LII-LVI. [47] 1 Cfr. p. 116. [48] 2 Cfr. p. 257. Questa presa di posizione di Gandhi a favore dei palestinesi (nell'ambito di un articolo nel quale egli allo stesso tempo invitava gli ebrei tedeschi ad opporre una resistenza non-violenta al nazismo) provocò in varie parti del mondo numerose reazioni critiche. In particolar modo reagirono molto criticamente tre intellettuali ebrei allora assai noti: il filosofo Martin Buber, il rabbino Judah L. Magnes e il laburista sionista Hayim Greenberg, direttore della influente rivista «The Jewish Frontieτ». I primi due scrissero a Gandhi ciascuno la propria lettera, pubblicando poi le due lettere nell'opuscolo Τwo letters to Gandhi from Martin Buber and J. L. Magnes (tradotte recentemente in italiano e pubblicate su «Micromega», 2/91). Il terzo pubblicò un articolo di risposta a Gandhi sulla sua rivista, numero di marzo del '39 (le parti centrali di questo articolo sono riportate sotto; cfr. pp. 368-71). Ho discusso più addentro la posizione di Gandhi nei confronti degli ebrei in Palestina e nella Germania nazista nel saggio Gandhi e la questione ebraica, in «Linea d'ombra», n. 63, settembre 1991, pp. 23-28 (ora in versione riveduta e ampliata con il titolo Gandhi, il sionismo e la persecuzione degli ebrei, in PONTARA, Guerre, disobbedienza civile, non-violenza cit.). Uno studio (fatto da un punto di vista sionista) volto a ricostruire la formazione della posizione di Gandhi nei confronti degli ebrei in Palestina è il saggio di G.SHIMONI, Gandhi, Satyagraha and the Jews: A Formative Factor in India's Policy Towards Israel, Jerusalem Papers on Peace Problems, Leonard Davis Institute for International Relations, Hebrew University, Jerusalem 1977. La tesi fondamentale che emerge dal saggio di Shimoni è che la posizione filo-araba di Gandhi fu essenzialmente dovuta al fatto che egli non voleva entrare in conflitto con i musulmani che in India facevano capo alla Lega musulmana. Cfr. anche B. L. KING, Gandhi, Non-violente, and the Holocaust, in «Peace and Change», 16 febbraio 1991, pp. 176-96. [49] Cfr. p. 229. [50] Cfr. p. 77. [51] Cfr. ad esempio A. NAESS, A Systematization of Gandhian Ethics of Conflict Resolution, in «Journal of Conflict Resolution», vol. II, 2 (1958), p. 142 [52] Questa interpretazione dell'etica di Gandhi scaturisce dall'analisi dei suoi argomenti pro e contro la violenza, come si vedrà nel prossimo capitolo. [53] Cfr. pp. 69-70. [54] Cfr. L. TOLSTOJ, Il regno di Dio è in voi, Publiprint - Manca Editrice, Trento 1988, pp. 40-41. Su Gandhi e Tolstoj cfr. M. GREEN, Τolstoi and Gandhi. Men of Peace, New York 1983; P. C. BORI e G. SOFRI, Gandhi e Tolstoi. Un carteggio e dintorni, il Mulino, Bologna 1985. [55] Cfr. pp. 71-72. Vari articoli di Gandhi sul problema dell'eutanasia figurano in R. IYER (a cura di), The Moral and Political Writings of Mahatma Gandhi, Oxford University Press, Oxford 1986, vol. II, pp. 234-47, 256-58, 269-282. Ho svolto alcune considerazioni sulla posizione di Gandhi nei confronti dell'eutanasia nel saggio Gandhi e la giustificazione della violenza cit. [56] Cfr. pp. XLIV-XLVII e C-CIV. [57] Il momento critico cui Gandhi qui accenna è quello in cui si trovò allorché le autorità del Sud Africa, con un'ordinanza del 22 agosto 1906 proposero una serie di provvedimenti legislativi discriminatori nei confronti degli indiani abitanti nel paese. Tali provvedimenti contemplavano l'obbligo da parte di tutti gli indiani, compresi i bambini di età superiore agli otto anni, di registrazione presso le competenti autorità. All'atto della registrazione avrebbero anche dovuto lasciare ciascuno le proprie impronte digitali. Inoltre agli indiani cosi registrati sarebbe stato rilasciato uno speciale certificato che essi avrebbero dovuto portare sempre con sé per esibirlo dietro richiesta della polizia. Coloro che non si fossero registrati sarebbero stati imprigionati, multati o deportati nel Transvaal. Inoltre, secondo tali provvedimenti, un indiano che fosse stato colto senza certificato sarebbe stato possibile di varie punizioni, dalla multa alla prigione e alla deportazione. Fu in occasione della lotta organizzata contro la proposta di siffatti provvedimenti che il termine satyagraha venne coniato per denotare il metodo di lotta adottato da Gandhi e dai suoi compatrioti. I provvedimenti legislativi divennero legge, con il nome di Asiatic Registration Act, a decorrere dal 31 luglio 1907. [58] Il Rowlatt Act è una serie di proposte legislative fatte nel luglio del 1918 da Sir Sidney Rowlatt, incaricato dal governo inglese di studiare l'amministrazione della giustizia in India. Secondo le sue proposte l'India avrebbe dovuto essere tenuta sotto il regime speciale in cui era stata tenuta durante l'intera guerra mondiale, il che significava che una serie di misure restrittive della libertà individuale sarebbero divenute stabili. La proposta di legge Rowlatt venne approvata dal governo inglese il 18 marzo 1919 È la data in cui Gandhi apre gli occhi sulla vera natura del dominio inglese in India e che segna la fine della sua speranza di poter raggiungere l'indipendenza dell'India sotto la sua egida. [59] Lo scritto di Gandhi qui riportato è la risposta a una lunga lettera in cui un suo interlocutore tedesco gli rivolgeva varie domande, tra cui quella se la non-violenza fosse possibile anche nei rapporti internazionali o se nei grandi conflitti fra stati non fosse invece necessario ricorrere alla violenza. [60] Gandhi si riferisce qui alla prima guerra mondiale. [61] Il libro di Gregg, The Power of Non violence, cui Gandhi fa qui riferimento, è uno dei primissimi lavori sulla dottrina e sul metodo non-violenti apparsi in Occidente. La Iª ed. è del 1935; l'ultima edizione, riveduta e ampliata, è del 1959 (Fellowship Publications, Nyack, N.Y.). [62] La Commissione Hunter fu nominata dal governo inglese allo scopo di indagare sui fatti che, in seguito alla campagna di opposizione allo Rowlatt Act (cfr. nota 2), portarono a gravi disordini e culminarono il 13 aprile del 1919 nel massacro di Amritsar. In questa città del Punjab, si era in quel giorno raccolta in una specie di piazza, chiamata Jallianwalla Bagh, una folla di circa dieci-ventimila persone (secondo il rapporto della Commissione) per assistere a un comizio indetto in violazione a un ordine del generale di Brigata R. Ε. H. Dyer promulgato il giorno precedente e che proibiva qualsiasi comizio e dimostrazione. Avuta notizia di questo comizio, il generale Dyer si presentò sul luogo con una truppa composta di un centinaio di uomini. Dopo averli disposti nei due punti strategici della piazza, Dyer, come si legge nel rapporto della Commissione Hunter, « senza dare alla folla alcun ordine di disperdersi, ordine che egli considerava inutile dato che essa già violava la proibizione da lui promulgata il giorno precedente, diede alle sue truppe l'ordine di far fuoco», Alla fine della sparatoria, che durò dieci minuti, giacevano al suolo, sempre secondo quanto ci dice il rapporto Hunter, 379 morti e il triplo di feriti. (Cfr. East India... Report of the Committee Appointed by the Government of India to Investigate the Disturbances in the Punjab, Etc. , His Majesty's Stationery Office, London 1920; Cmd, 681).