Canonico GIOVANNI BATTISTA REVELLI
STORIA DI UN BUON PRETE DEI NOSTRI GIORNI
DON GIACINTO BIANCHI
Genova - 1915
Tip. G. Vaccarezza
Piazza Fossatello 11-1
Alle R. Suore Missionarie di Villa Pasquali
Reverende e benemerite Suore,
A voi buone e zelanti Figlie di Maria, che vi ornate del bel titolo di Suore
Missionarie, dedico con animo riverente questi brevi cenni della santa ed
operosa vita del vostro Fondatore, il compianto e indimenticabile Don Giacinto
Bianchi Missionario Apostolico. Non appena l’uomo di Dio abbandonò il terreno
esiglio per volare al porto dei suoi desideri infuocati, cioè alla patria celeste,
surse nella vostra Congregazione il pio pensiero di tramandare ai posteri la
storia del vostro buon Padre, per ricordarne i fulgidi esempi e le luminose virtù;
pensiero pio gentile e santo che oggi s’incarna in queste povere pagine vergate
dalla penna di chi col venerato Don Giacinto visse tanti anni in comunione
d’ideali e in soave amicizia. Non mi nascondo le difficoltà che incontrerò nello
scrivere la sua fruttuosa e travagliata vita, pure accettai di buon grado il
difficile e onorifico incarico non appena mi fu offerto da buoni amici, perché del
zelante Missionario serbo memoria così dolce e cara che certo nel mio cuore
non si spegnerà mai. E del Sacerdote esemplare, operosissimo, caldo d’amor di
Dio dirò con semplicità e fraterno affetto; laonde, ove io venga meno al nobile
ufficio non sarà per manco di buon volere, ma sì per la pochezza dell’ingegno
mio. Voi buone Sorelle, gradite il buon volere e l’opera, comunque dessa sia
per riuscire. Leggetela con occhio chiaro e con affetto puro, fatela leggere a chi
ama la virtù ed il sacrificio e forse qualche anima se ne avvantaggerà,
crescendo nell’amore di Dio. Graditela ed abbiatela come cosa vostra, come
caro ricordo d’un amato Padre. Dal Cielo Egli benedica alle nostre intenzioni;
Voi pregate per me mentre imploro da Gesù benedetto molte misericordie
divine alle vostre anime ed al vostro Istituto.
Can.co G. B. REVELLI
Camogli (Genova), Ognissanti del 1914
G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
I
Narrare ai popoli le gesta degli eroi, dei grandi, dei santi fu sempre opera
altamente nobile, proficua e bella, poiché gli esempi facilmente attraggono gli
animi al ben fare; e a persuadere il giovane onde affretti il passo sulla retta e
gloriosa via assai più che i sermoni, i consigli, le esortazioni, giovano gli esempi
di chi visse in santità di costume, operando il bene, sacrificandosi per i propri
fratelli. Laonde volendo onorare chi fu veramente virtuoso e proporre all’altrui
imitazione un santo sacerdote dei nostri giorni; di buon grado e con amore di
amico scrivo la storia di quel buon prete che fu Don Giacinto Bianchi
Missionario Apostolico.
In Villa Pasquali, graziosa borgata della provincia di Mantova in Diocesi di
Cremona, egli vide la luce del sole il 15 Agosto 1835. Primo tra gli undici figli
degli avventurati coniugi Giovan Claudio Bianchi e Paola Solci, ebbe la bella
ventura di nascere in un giorno auspicatissimo perché sacro all’Assunzione di
Maria e la Vergine Augusta inoltre dopo 78 anni il condurrà per mano al
Paradiso in altra delle sue Feste, quasi a mostrare quanta dilezione Ella avesse
per questo suo beneamato figliuolo.
Fu battezzato nella chiesa Parrocchiale sacra a S. Antonio Abate il giorno 16,
commemorativo di S. Rocco e gli furono imposti i nomi di Giacinto, Carlo,
Gioacchino. I genitori, onesti ed integri contadini, ricchi di fede e di pietà
cristiana, crebbero questo primo fiore del loro affetto con ogni cura,
educandolo all’amore di Dio e istruendolo nella dottrina cattolica; cotalché a
soli sei anni, cioè il 7 Ottobre del 1841, poté ricevere il Sacramento della
Cresima in Sabbioneta (sede del Vicariato Foraneo dal quale dipende Villa
Pasquali) per mano di Monsignor Bartolomeo Casati, Vescovo di Cremona.
Dopo tre anni, nella parrocchia natia, col fervore di un angelo, il novenne
Giacinto, si accostava al Convito del Divino Amore, ché il Prevosto Giuseppe
Antonio Aymi non dubitò ammetterlo alla prima Comunione, attesa la buona
condotta, la pietà e l’istruzione del fanciullo.
Compiuto il corso delle scuole elementari in patria, passò al Ginnasio di
Casalmaggiore ove si distinse per ingegno e applicazione, né, mentre attende
allo studio, ommette le pratiche di pietà, imperocché Iddio aveva disegni di
molta misericordia su quel giovinetto e con soavi modi e dolci inviti chiamavalo
a Sé. Era proprio sull’aurora della vita e già sentiva la vocazione allo stato
sacerdotale e per meglio accertarsi pregò, si consigliò con persone prudenti, si
affidò alla protezione di Maria SS. e poi ottenuto l’assenso dei genitori entrò nel
Seminario di Cremona in cui percorrerà con lode e profitto il corso della
Filosofia e Teologia.
Durante il corso teologico dai superiori gli venne affidato un ufficio che è di
tutto suo gusto, l’ufficio d’infermiere dei seminaristi malati e quella mansione è
adempita dal Bianchi con zelo, con amore fraterno e con una certa intelligenzaa
di farmachi e di igiene. Da tale esercizio si sviluppò in lui un amore tutto
speciale per la medicina, cresciuto poi con l’andare degli anni, infatti volentieri
conversava con medici, parlava con entusiasmo di cure moderne, di ritrovati, di
scoperte fatte dai cultori della scienza, e non si può negare che avesse un tal
quale bernoccolo in materia, onde è che sovente ai poveri infermi, assieme ai
conforti dello spirito, suggeriva qualche sollievo nell’ordine fisico. Pei confratelli
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
sacerdoti, che sovente nel richiedevano, aveva sempre pronto qualche
consiglio igienico, o rimedio efficace, però per sé non prendeva mai nulla, né
mai pensò a curare i propri malanni, se ne togli qualche bicchier di vino in cui
aveva diluito un po’ di corteccia di china.
Gli anni nel Seminario passarono veloci; la voce di Dio si faceva sentire nel suo
cuore sempre più chiara, e crescendo nella pietà e negli studi come colui che
era molto inclinato a divozione e l’ingegno aveva pronto e perspicace, giunse a
quel giorno auspicato del 29 Maggio 1858 in cui il suo Vescovo, Monsignor
Antonio Novasconi, il consacrò in Sacerdote, essendo egli in età di anni 23 non
ancora compiuti. Fu quello il giorno più bello della sua vita, da tanti anni
sospirato, giorno in cui tutto si consacrò all’amore di Dio e del prossimo,
rinunciando a qualsiasi aspirazione terrena per essere un sacerdote santo,
benefico, zelante del bene altrui, acceso di carità pel suo Signore.
Celebrò la sua prima Messa nella Cappella del Seminario, col fervore di un
serafino e subito venne mandato in qualità di coadiutore a S. Matteo delle
Chiaviche ove fermossi assai poco, per andarne con lo stesso ufficio a Cella
Dati e poi a Scandolara Ripa Po ove con zelo illuminato, pietà e giovanile
ardore edificherà quelle campestri e buone popolazioni.
Però Iddio aveva destinato quel giovine sacerdote ad altro e più vasto campo.
Abbenché avesse avuto da natura robusta costituzione, pure soffriva di
frequenti emottisi, l’aria dei piani Lombardi gli era nociva, forse in riva al mare
avrebbe trovato un rimedio efficace ai suoi mali e la Provvidenza gli venne in
aiuto in un modo al tutto inaspettato.
II
Più volte gli avvenne di chiedere consiglio per lettera, in certe difficoltà di
coscienza, a quel santo ed illustre Teologo che fu il nostro Frassinetti, l’umile
Parroco di Santa Sabina in Genova, così grande nei suoi scritti teologici e
ascetici. Al Frassinetti piacque il carattere franco ed aperto del giovane, ne
concepì stima come di sacerdote dai generosi sensi e quando intese che egli
era infermo ed ebbe consiglio di condursi a respirare aria marina, gli scrisse
invitandolo a Genova, nella propria canonica, poiché aveva bisogno di un
coadiutore, o come qui impropriamente si dice, di un curato. Il Bianchi rispose
di accettare di buon grado, però temeva che il Priore facesse una cattiva scelta,
perché: «Io conosco bene V. S., ma Ella non conosce me» (parole testuali); ma
dopo un secondo invito del Frassinetti, egli, ottenutane facoltà dal suo Vescovo,
venne a Genova, alloggiando nella povera canonica di Santa Sabina.
Così Don Giacinto nell’anno 1864 lasciava Cremona, la sua Villa Pasquali, la
famiglia, per diventare genovese e discepolo di un Parroco dotto, piissimo e
venerando; decoro non solo del clero ligure, ma gemma preziosa e luminoso
astro di virtù nel clero italiano. Ed ora comincia più propriamente la vita
pubblica e l’apostolato di questo buon prete lombardo, la cui storia scriviamo a
edificazione del clero e del popolo.
La Chiesa di Santa Sabina è modesta assai, modestissima la casa parrocchiale,
il numero dei parrocchiani molto ristretto, poco meno di 2000; ma quella
piccola chiesa è cara ai genovesi, poiché ivi ebbe il battesimo la Beata Vittoria
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
Strata De Fornari fondatrice delle claustrali Turchine, perché illustrata dai
meriti di un Pastore santo qual fu il Frassinetti. In casa [con] il Priore,
coabitavano due suoi fratelli sacerdoti, Don Giovanni e Don Raffaele, ambedue
pii e laboriosi, commendevoli per scienza e pietà, autori di buoni scritti ascetici;
il quarto fratello appartenente all’ordine dei Canonici Regolari Lateranensi, era
Parroco a Coronata (vicin di San Pier d’Arena), e l’unica sorella Paola (ora
Venerabile) occupavasi dell’educazione cristiana della gioventù femminile,
poiché dessa è la fondatrice delle Suore Dorotee. Una famiglia totalmente
consacrata a Dio nel ministero apostolico, emula della santa famiglia di Basilio
e Gregorio.
Don Bianchi si trovò in luogo di pascolo ubertoso, in un giardino di virtù, in
mezzo a nobili e santi esempi; laonde si sentiva felice e gustava spirituali gioie
non mai provate, grato alla Provvidenza Divina che così largamente l’ebbe
benedetto. Alla grazia del Signore egli corrispose con generosità, con zelo
ardente e pietà singolare. Oltre la cura degl’infermi, il confessionale e tutte le
mansioni inerenti all’ufficio di vice-parroco, si slanciò nel campo apostolico,
dedicandosi con tutto l’animo alla predicazione e ne riportò non vani trionfi di
plausi e di lodi fallaci, ma frutti copiosi di conversioni, di pietà e di santi
propositi, di vero e spiritual bene in ordine alla vita eterna.
Don Giacinto era un bel tipo lombardo, dallo sguardo vivace, dagli zigomi
sporgenti come hanno comunemente i figli della sua terra, dai capelli castani,
alto della persona, slanciato e robusto; dal largo petto, con voce tonante, dai
movimenti rapidi e risoluti. Spirito ardente, ricco di fede, di amore, di
entusiasmo, dotato di bello ingegno, di parola pronta, rapida e sopratutto
efficace; era un valente oratore popolare, capace di attrarre le moltitudini
come infatti avvenne. La sua parola era intesa dal nostro popolo con brama
sempre crescente, talora nello stesso giorno predicava più volte e in diverse
Chiese e quel pulpito era assiepato, quella Chiesa affollata, perché Don Bianchi
parlava la parola di Dio, perché in lui si appalesava l’apostolo del Signore,
perché i suoi sermoni erano informati alla semplicità evangelica, alla carità del
Divino Maestro. Fra le altre doti aveva una singolare prontezza; la parola non
gli venne meno mai e quantunque non sempre brillasse in lui la proprietà della
lingua e l’ordine della dicitura, pure aveva sempre pensieri buoni, utili, efficaci
onde lo si ascoltava volentieri e con profitto dell’anima.
Non aveva la soavità di S. Francesco di Sales, ché l’indole sua santamente fiera
inclinava più alla severità di S. Pier Damiani, se non vogliamo dire, del
Savonarola, però il suo gran segreto, per cui operava meraviglie, si era la
convinzione, l’intenzione rettissima e la stima onde il popolo lo circondava
vedendo in lui il sacerdote povero, disinteressatissimo, umile e pronto al
sacrificio di sé. In tanti anni di fraterna familiarità non gli vidi mai alcuno
scritto, forse aveva traccie e schemi, come si pare dalle carte che ci rimasero
dopo la sua morte; più comunemente leggeva un libro spirituale (di preferenza
le opere di S. Bonaventura), leggeva, meditava e poi saliva il pergamo.
Né accontentavasi di predicare in Genova, ma percorse in gran parte
l’Archidiocesi e la Provincia Ecclesiastica dettando missioni e spirituali esercizi
in qualità di Missionario Urbano di S. Carlo, benemerita Congregazione
genovese che fiorisce di bella vita e produce tuttodì frutti ubertosi di
santificazione del nostro popolo.
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
Egli non conosceva il riposo, sempre primo al lavoro indefesso, paziente,
costante e pronto a qualsiasi fatica, si dice che talora seppe e poté resistere in
ascoltare le confessioni fino a quattordici ore, cioè buona parte della sera e poi
tutta la notte. Di cibo e bevanda niun pensiero, come nessuna cura della
salute, avvegnaché non sempre florida: «Come sta Don Giacinto?». «Non ci
penso a queste cose»: era la solita risposta. «Gradirebbe una bibita, un
rinfresco...». «No», un no tondo, forte, risoluto che non ammetteva replica!!
Eppure aveva i suoi incomodi, benché velati da quel passo svelto, ardito,
soldatesco, da una forza singolare di muscoli, dalla voce forte (sebbene col
tempo perdesse di sonorità e limpidezza), dal vivo colorito del maschio volto.
A Traso in Val di Bisagno, sendo in missione, ebbe una spaventosa emottisi, i
suoi colleghi impaurirono come di un infortunio irrimediabile, il più calmo fu il
malato e per solo rimedio chiese un po’ di limone. Si cercarono tutti i limoni del
paese, e non furono molti, perché quel terreno non ne produce, però di quei
pochi ricevuti egli preparò una bibita sprizzandoli tutti in una tazza, quindi
bevve quel liquido acido astringente, cessò il vomito sanguigno ed egli proseguì
la sua missione.
Di tal guisa lavorando indefessamente, con tutti i nervi dello spirito e operando
molto bene, senza un pensiero per sé, ma sempre animato da fulgida carità
cristiana pel prossimo, Don Giacinto trascorse circa quattro anni in compagnia
del Frassinetti, forse gli anni più belli della sua vita, anni pieni e ridenti d’una
giovinezza calda di amore, di sacrificio, di entusiasmi religiosi.
Ma nulla è duraturo quaggiù, il santo Priore di Santa Sabina nell’anno 1868
moriva nelle braccia del suo fido Giacinto, che con l’animo straziato dal più
cocente dolore ne accompagnava la venerata salma al Camposanto di
Staglieno e poi usciva da quell’umile canonica in cui aveva respirato tant’aria di
vita spirituale, ove il suo intelletto si era illuminato a tanta luce di sapienza, e
aveva ammirato tanti esempi di sacerdotale virtù unita alla più soda e profonda
dottrina.
III
Nel 1870 il Bianchi va in missione a Pigna nella Diocesi di Ventimiglia, e anche
là il popolo accorre ad ascoltare il missionario dall’accento infocato, perché
acceso di zelo apostolico. Quella popolazione era un gregge senza pastore, in
preda alle fazioni, ai litigi, ai partiti; il Parroco espulso, la Chiesa parrocchiale
cadente, le anime senza nutrimento spirituale, il disordine regnava sovrano;
all’ingresso del paese si sarebbe potuto scrivere con tutta verità quanto dice
Geremia: Viae Sion lugent... La missione ottiene ottimi effetti, specialmente
per opera del Bianchi e questa terminata, Monsignor Lorenzo Biale Vescovo
diocesano gli offre il Governo della Parrocchia. La proposta è subito accettata
poiché si trattava di far molto bene a quelle povere anime, e poi Genova,
morto il Frassinetti, aveva perduto ai suoi occhi ogni attrattiva.
In Pigna stette Don Giacinto quasi sette anni quale Economo - reggente la
Parrocchia e vi seminò grazia, e di benedizioni divine, ché nulla tratteneva i
suoi santi ardimenti, e qualunque difficoltà dovea scomparire innanzi a quella
volontà ferrea, a quella tenacia di propositi, avvalorata dalla grazia celeste, dal
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
santo prete invocata con preghiera continua e fidente.
Per prima cosa si studiò di ristorare la Chiesa materiale, ornandola di un
marmoreo pavimento e fuor del paese edificò una Grotta di Lourdes di mirabile
bellezza, poscia impegnò una crociata per la coltura dello spirito, e contro la
furia del male, degna di S. Bernardo e di S. Vincenzo Ferreri. Non gli
mancarono disillusioni, lotte, disgusti e animosità accanite, con ingiurie e
vigiacchi abbandoni, ma nulla poté arrestarlo sulla buona via. A guisa di
valoroso soldato che non indietreggia davanti al nemico, egli continuò a fronte
alta e a bandiera spiegata la sua opera di civiltà cristiana.
Una domenica nella predica della sera ossia nell’esposizione del catechismo
volle raccomandare all’uditorio l’asilo infantile di Betlemme, fondato da poco
dal Can. Belloni, in cui si sentiva il bisogno di alcune Suore per il governo
domestico di quell’istituto e per la cura dei molti bambini, accoltivi dalla carità
del Belloni. Il giorno dopo gli si presenta una giovane ascritta alla pia società
delle Figlie di Maria e di S. Agnese, certa Caterina Orengo pronta a partire per
la Palestina. Però una sola era troppo poco, egli ne vorrebbe almeno tre;
ebbene la domane erano in quattro e presto raggiunsero il numero di sei. Il
Bianchi consiglia quelle pie di ritirarsi a vita comune, le istruisce saggiamente e
nella notte del S. Natale benedice ed impone loro un abito uniforme di colore
nero, quindi al sopraggiungere del nuovo anno partono per Betlemme e
restano al governo dell’asilo sedici anni, cioè finché ritiratosi il Belloni, la
direzione passò alle mani dei benemeriti figli del Venerabile Bosco.
Questo fu il principio di quella Congregazione di Suore Missionarie che fu il
pensiero continuo della travagliata sua vita, il più caldo dei suoi affetti quaggiù
e che gli costò tanti affanni, tante fatiche e tanti sudori. Suo ideale era di
fondare una società di religiose che avessero il nobile ufficio di aiutare i
Missionari nella conversione degli infedeli, nel tempo stesso che curassero
l’educazione cristiana delle povere figlie del popolo e che la pia società fosse
aggregata alla Propaganda Fide con dipendenza dalla Congregazione Romana.
A tal fine egli ha lavorato per oltre 40 anni; intraprendendo frequenti e
malavegoli viaggi; scrivendo un’infinità di lettere, non risparmiando fatica,
spese, travagli senza fine e pregando sempre col fervore di un martire per la
sua cara Congregazione. Or il buon Dio benedisse al piccolo seme sbocciato in
Pigna; infatti in Italia sono attualmente otto case di queste Suore Missionarie, e
una in Francia, sparse in diverse provincie con a capo la Centrale di Villa
Pasquali eretta nella casa paterna del Bianchi, presso la Chiesa di Santa
Ermelinda, patrona della Congregazione: bella chiesa e capace assai che
ancora non è finita e costò al pio missionario molti pensieri e molti affanni.
Nella casa di Pigna vive ancora la prima missionaria, quella generosa Caterina
Orengo (vulgo Fortunina) che fu 16 anni in Palestina, poi resse con amore la
Congregazione quale Superiora Generale ed ora avanzata negli anni e nei
meriti governa la piccola Famiglia del loco natio, amata e venerata dalle buone
Suore cui fu guida, maestra e madre: mentre il governo della Congregazione è
affidato a Suor Consolata Zampieri assistita dalle Suore Annunciata Capra e
Maria Solimani.
Tuttavia Don Giacinto con tanto affaccendarsi, dopo infiniti ricorsi ad alti
personaggi ecclesiastici non poté ottenere al suo Istituto l’approvazione della S.
Sede, e si partì da questa vita senza un tal conforto da tanti anni invocato. Ma
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
il degno sacerdote uso a leggere le vite dei Santi, ben sapeva che anche S.
Alfonso De’ Liguori morì senza vedere approvato il suo Ordine dei Missionari
Redentoristi, però l’approvazione venne dopo la sua dipartita da questa terra;
sapeva che S. Giuseppe Calasanzio sul letto di morte dovette vedere la
soppressione dell’opera a lui così cara, l’Istituto delle Scuole Pie, che pure,
dopo la sua morte, ritornerà a vita novella e rigogliosa, smagliante di luce
bellissima, ricco di scienza e di carità eroica. Impertanto, rassegnato e fidente
nell’infinita Misericordia divina egli benedisse all’Istituto delle Missionarie e morì
serenamente nella fiducia che l’opera sua non si estinguerà, ma farà molto
bene nella Chiesa.
Eppure, secondo pare a me, il nostro Giacinto ebbe da Dio una grande
misericordia negli ultimi giorni suoi. Soleva dire il sacerdote Carlo Candia
Arciprete di Camogli, che il Bianchi con quel suo viaggiare senza interruzione,
con qualsiasi tempo, nulla curando le intemperie o l’inclemenza delle stagioni,
spesso digiuno per lunghe ore, probabilmente sarebbe morto in qualche
carrozzone di un treno ferroviario. E così pensavano non pochi che giudicavano
secondo i poveri giudizi umani, invece al buon Dio piacque disporre ben
diversamente. Quando il benefico uomo si sentì male in salute, invecchiato e
stanco, volle ridursi nella Casa delle Missionarie di Villa Pasquali. Di tal guisa
poté avere dalle Suore un’assistenza intelligente e affettuosa, e confortato
dall’amico parroco Don Domenico Rizzi, chiuse placidamente gli occhi sotto il
tetto dei suoi vecchi, là ove 79 anni innanzi aveva respirate le prime aure di
vita; il che fu di certo, a chi mira le cose con l’occhio della fede, una grande
benedizione e un gran favore del cielo.
IV
Alla morte di Monsignor Biale Vescovo di Ventimiglia che sempre aveva dato al
Bianchi molti segni di stima e di benevolenza, egli decise di ritornare in
Genova. È vero che il successore del Biale, Monsignor Tommaso dei Marchesi
Reggio, gli usò molte cortesie, come pure gli fu cortese l‘attuale Vescovo
Monsignor Ambrogio Daffra e ciò si fa manifesto da alcune lettere che potei
leggere nei manoscritti lasciati dal Bianchi. Pure il zelante Missionario volle far
ritorno all’amata Genova per aver miglior agio a veleggiare in Terrasanta e
meglio attendere all’incremento dell’Asilo di Betlemme.
Or il campo di azione per il nostro Giacinto si allarga in modo meraviglioso, la
sua operosità si esplica in modo addirittura ammirabile. In Genova prende ad
abitare nel Convitto degli Artigianelli, fondato e diretto dal benemerito Sac.
Don Francesco Montebruno e lavora alla cultura spirituale di quei giovinetti
operai di buzzo buono; laonde riesce di valido aiuto al zelante Direttore, per
non dire addirittura il suo braccio destro, specialmente quando il Montebruno
accettò la cura spirituale dell’Ospedale di S. Andrea. Il Montebruno era la
mente direttiva, ma al letto degli infermi stava Don Giacinto.
Intanto dalla Rev.ma Curia Arcivescovile gli vengono assegnati altri uffici, come
monasteri di claustrali o istituti religiosi, ricoveri, ospedali, carceri, convitti
maschili e femminili; né contento di tuttociò Don Giacinto persevera con animo
invitto nel ministero delle Missioni in Città ed in Diocesi, nelle valli del Polcevera
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
e del Bisagno, nelle due Riviere di Levante e Ponente, nei monti liguri, nelle
Diocesi suffraganee, in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto, con quaresimali,
spirituali esercizi, tridui, missioni. Di lui si può dire come fu scritto di S. Pier
Damiani che nella regione Urbinate ed Eugubina non c’è chiesa di cui il Santo e
severo monaco non sia benemerito, così Don Giacinto che del corpo suo fa
veramente strazio, a tutti risponde cortesemente, corre ovunque è chiamato,
sia sano o infermiccio, sempre pronto all’avanguardia ed allo sbaraglio, senza
un pensiero di terrena gloria o di lucro qualsiasi, che disinteressato fino
all’eroismo, conviene fargli dolce violenza per fargli accettare i denari del
viaggio.
Inoltre con una gentilezza mal nascosta da quella fiera apparenza, rende
servizi ai numerosi conoscenti; e talora manda immagini, o libri, o quadri, anzi
sovente,egli stesso porta oggetti ai buoni parrochi dei nostri colli, superando
salite malagevoli, sotto la sferza del sole, e mentre infuria il vento o scrosciano
le acque.
A Recco (in Riviera di Levante) si rende vacante la Parrocchia per la
promozione dell’Arciprete Boccoleri, traslocato in Genova; ebbene l’Economo
deve essere il Bianchi, che penserà a Recco, senza smettere la sollecitudine di
tante altre opere di carità e beneficenza e più tardi reggerà pure la parrocchia
di Sori, durante l’assenza dell’Arciprete Ghio ora Arcivescovo di Urbino.
Però il suo cuore è in Palestina, e là veleggia con frequenza e con una facilità
da non si dire; per lui andare a Gerusalemme gli è come condursi a Torino od a
Milano: non temeva il mare, non l’impaura il clima, nulla il trattiene. Senza
mezzi pecuniari, senza conforto di vesti o di Viatico, va; poi ritorna per ripartire
a rivedere l’amata Betlemme, Gerusalemme tutta, la Palestina, gran parte
dell’Arabia, donde conduceva in Italia fanciulle e fanciulli arabi.
Scriveva ogni giorno lettere alla Congregazione di Propaganda Fide, a Cardinali,
a Vescovi, raccomandando le sue Missionarie, le Missioni, tante opere
benefiche e ne ha in risposta lettere gentilissime dal Cardinale Vannutelli, dal
Gotti, dal Cardinale Agliardi che tengo sul mio scrittorio e dalle quali si pare in
quanta estimazione egli fosse tenuto da cotali Principi di S. Chiesa. Ci fu più di
uno che altamente si meravigliava come Don Giacinto potesse far fronte a tali
spese di viaggi e di posta, spese addirittura ingenti ed egli era povero e nulla
ricavava dall’esercizio del suo ministero; ma la Provvidenza di Dio è infinita e il
vero zelo fa miracoli.
Era il giorno del S. Natale, un giorno assai mesto pel nostro Bianchi, poiché egli
ha assolutamente bisogno di 3000 lire pel suo Istituto e si trova al verde. Entra
in una chiesa e prega fervidamente tutta la mattinata; nell’uscire incontrò un
signore amico il quale gli domandò: «Perché in un giorno così lieto, la sua
fronte è così mesta?». Don Giacinto apre il suo cuore con tutta sincerità e colui,
tratto dal portafogli un effetto bancario, vi scrive una parola dicendo: «Ecco,
vada a riscuotere le 3000 lire e stia allegro».
Quando le Suore ricevettero l’ordine di andare a Vicovaro (Tivoli) egli non
possedeva che 3 lire (dico lire it. tre). Per provvedere alle prime necessità,
scrive ad un amico in Genova, chiedendogli in prestito cento lire, ma l’amico
non si trova a Genova, è in viaggio, perciò bisogna tentare altra via e la
Provvidenza per altra via gli viene in aiuto con 180 lire. Intanto l’amico ritorna
a casa, legge la lettera e manda le 100 lire; così la Divina Provvidenza ha
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
moltiplicato le 3 lire fino a 283.
Amava la Palestina con amore ineffabile, e dei suoi piccoli Arabi o Turchi
parlava con dilezione paterna, quando gli si porgesse l’occasione. E a questo
proposito ricordo che trovandoci insieme nella missione di Alpicella in Diocesi di
Savona incominciammo ambedue l’insegnamento della dottrina cristiana ai
ragazzi; egli da un lato della chiesa insegnava alle ragazze; io dall’altro
ammaestrava i fanciulli e per un po’ labisogna procedette discretamente.
Senonché ad un certo punto cominciò a parlare di Betlemme, dei fanciulli neri,
del deserto, di cento altre cose africane, raccontando aneddoti bellissimi, e non
solo le ragazze stavano a bocca aperta: ma anche i miei quando intesero così
belle cose si voltarono tutti verso di lui; del mio catechismo non ne vollero più
sapere e il povero scrivente rimase in asso, senza uditorio e senza scolaresca!
V
Mi piace qui pubblicare una lettera del Cardinale Parocchi al nostro Bianchi,
scritta di proprio pugno con un carattere minutissimo. Non so se il Cardinale
alluda alla missione di Oriente o a quella della Svizzera, di cui parleremo
presto; ecco senz’altro l’autografo del Card. Vicario di Sua Santità Papa Leone
XIII.
V.G.É M.G. - Roma, 31 8bre 1892.
M. R. Sig. D. Bianchi,
vada nel nome del Signore, onde i voleri sono manifesti, dopo il decreto della
S. Congregazione. Appena avrà messo in assetto le povere figlie, ricorra alla
Propaganda, esponendo con diligenza e chiarezza, tutte le circostanze del caso
e domandando gli opportuni provvedimenti. Vir oboediens loquetur victorias: a
Lei, Don Giacinto non è venuta meno la volontà e la costanza nell’obbedire e il
Signore L’ha compensata. Majora his videbis... quando perseveri; e V. R.
ottenga pure a me la santa perseveranza e mi abbia
Aff.mo suo in G. C.
L. M., Card. Vicario.
Ripeto che non so se quel vada alluda alla Missione di Oriente o a quella della
Svizzera per gli operai italiani, o ad altro ufficio; sta il fatto che il Cardinale con
questa lettera mostrò stima e benevolenza verso il nostro Missionario.
Quando l’Asilo di Betlemme passò alle mani dei Salesiani egli rinunciò ai viaggi
di Terrasanta intrapresi, dirò così, in forma ufficiale come Missionario
Apostolico nominato dalla Congregazione di Propaganda, ma seguitò a
viaggiare in Francia, donde ricevette invito per le Suore; in Isvizzera per gli
operai e specialmente a Roma ove andava frequentemente: e poi per
divozione, a Lourdes, Fourviers, Einsiedeln.
Nella Svizzera lavorò alcuni anni, e anche là fece molto bene alla nostra
gioventù, ai poveri emigrati italiani; né avrebbe smesso il fruttifero apostolato
se l’età avanzata e i conseguenti malanni non gli avessero consigliato di non
esporsi più a quel clima così rigido. E a proposito della Svizzera trovo una
lettera dell’illustre Vescovo di Cremona Monsignor Bonomelli, in data Luglio del
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
1900, che volentieri trascrivo:
Cremona, 8-7-1900.
Caro Don Giacinto
Stupii ricevendo la sua dalla Svizzera, La credevo in Liguria, in ogni luogo,
fuorché in Isvizzera. Me ne rallegro perché costì vedrà le cose come sono e
farà del bene. Vi sono altri preti, Cremonesi, coi quali potrà trovarsi. Le fo
avere l’opuscolo desiderato. Pur troppo sono frequenti i casi come quello
lamentato da Lei. Ma il Ministro d’Italia costì potrebbe fare, Egli è un eccellente
Signore. Di cuore la saluto. In Agosto farò una corsa in Isvizzera, a Ginevra,
Losanna, Friburgo, Berna ecc. ecc. Chissà che ci troviamo!
Dev.mo
Geremia Vescovo
Durante il suo soggiorno a Winterthur, il Bianchi scrisse un regolamento per
un’associazione di uomini che egli appellava i Cavalieri di Cristo. I cavalieri
dovevano essere buoni cristiani, nemici del rispetto umano, esemplari in ogni
virtù religiosa e civile e principale dovere era quello di accompagnare Gesù
Cristo in Sacramento quando esce per le vie in solenne processione e quando
vien portato Viatico agli infermi. Quale Patrono i Cavalieri di Cristo avrebbero il
Ven. Alessandro Luzzago. Non so se si attuò questo progetto, certo però che gli
amici del santo prete non ne ebbero notizia.
Rinunciando alle Missioni di Oriente e del Nord, non ismise l’esercizio del
sacerdotale Ministero in Genova; predicava con l’antica energia e ascoltava le
confessioni nella Chiesa di S. Ambrogio, Chiesa che gli fu cara fino agli ultimi
giorni. Presso quell’insigne parroco l’Abate Giacomo Poggi, venerando vegliardo
di oltre 90 anni, tutt’ora vivente in vegeta vecchiezza, aveva soggiornato
parecchi anni; or fra il Prevosto e il missionario si strinse una bella amicizia,
spentasi soltanto con la morte del Bianchi. E quando egli porrà sua stanza
nell’Istituto degli Artigianelli prima, poi presso il parroco di S. Giacomo di
Carignano, (Monsignor Cesare Augusto Chighizola, Protonotario Apostolico, che
arricchì Genova di una nuova e magnifica chiesa sacra al Cuore di Gesù e S.
Giacomo Apostolo) o a S. Bartolomeo degli Armeni alla mensa dei Barnabiti,
pure continuerà a dirigere la sua cara chiesa di S. Ambrogio, per lasciarvi dopo
il suo tramonto molta eredità di affetti.
E grande eredità di affetti egli lasciò in S. Sabina, come nel Collegio degli
Artigianelli ch’egli amava di paterno amore quai figli di Francesco Montebruno
vero padre degli orfani e dei derelitti, a cui Don Giacinto era avvinto di amicizia
soave e santa. E anche dopo la morte del benemerito e venerando Direttore,
egli ancora andrà sovente a rivedere quei fanciulli, quelle mura benedette,
quella stanza testimone di tante virtù, di tante preghiere e di tanti dolcissimi
affetti. Questo prete dall’aspetto rude albergava in seno un bel cuore e
maritava in sé potenti energie, ferrei propositi, tenacia di volontà, con un
amore paziente, uno spirito di sacrificio non comune, per i miseri e gl’infelici;
poiché nel suo animo ardeva di potente fiamma l’amore di Dio, fonte di
misericordia e di benevolenza ai propri fratelli.
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
VI
Don Giacinto fu uomo di fede, di fede viva, ardente, incrollabile e alla Divina
Provvidenza si affidò totalmente senza mai pensare al domani, senza mai
dubitare dell’aiuto divino. Fu pio, di una pietà soda, intelligente, affettuosa e la
pietà si appalesava nella preghiera fervida, negli scritti ascetici, nei suoi
sermoni ridondanti d’amore di Dio e di zelo per le anime. Pregava molto e
molto volentieri si intratteneva innanzi a Gesù Eucaristico, sprigionando dal
cuore orazioni, giaculatorie infocate, o meditando la Passione di Gesù
Crocifisso. Non recitava l’Ufficio divino perché dispensato in causa di salute,
recitava invece il S. Rosario e talora l’Ufficio della Madonna, ma lo spirito di
preghiera avvampava in lui come fiamma ardentissima. Bello era il vederlo
all’altare celebrare la S. Messa; soleva leggere a voce appena intelligibile, per
la raucedine, più accentuata nelle ore mattutine, ma la compostezza, il
portamento suo indicava che quel celebrante era veramente un uomo di Dio.
Le devozioni di Maria Vergine e di S. Giuseppe ebbe carissime e molto si
compiaceva nella lettura delle vite dei Santi. Però ove più rifulse la sua virtù si
fu nell’umiltà profonda; per cui si credeva l’ultimo dei suoi confratelli, cercava
sempre l’ultimo posto, nemico di ogni distinzione, degli onori, delle lodi, dei
titoli, delle onorificenze; e molto si ammirò la virtù ed il merito suo in quel
totale distacco di se stesso, congiunto ad un vero e sincero disprezzo della sua
personalità.
Già abbiamo detto che da natura ebbe ingegno svegliato e fornito di buoni
studi; aveva sode cognizioni abbenché potesse poco studiare, attese le
continue e laboriose sue occupazioni. Amò la teologia ascetica e mistica,
quell’uomo che pareva nato fatto per predicare alle turbe frementi, o meglio a
carcerati, a detenuti con quella sua eloquenza irruente, predicava pure alle
religiose claustrali, a Congregazioni di pie fanciulle, con sentimento di pietà, di
celeste amore, per guidare quelle anime elette sulla via della cristiana
perfezione.
Esistono molte lettere da lui scritte a persone pie, lettere ricche di buoni
consigli che mostrano nello scrivente una persona illuminata. Fra lequali
piacemi trascrivere la seguente diretta ad una certa Sofia e vergata in uno stile
tutto suo, quasi di sonetto acrostico che egli intitola: Pro memoria:
Sei giovane
Ora:
Fatta esperienza delle cose, e delle persone
Intenderai che le sole virtù cristiane
Adornano la donna, perché la rendono di carattere forte e prudente e quindi
felice in qualunque stato.
Sofia: significa Sapienza, la quale è il primo dono dello Spirito Santo e serve a
renderci perfetti, ordinando tutte le opere e patimenti della nostra vita alla
maggior gloria di Dio ed alla nostra felicità temporale ed eterna. Significa pure
quel lume col quale vediamo la vanità, malignità e falsità del mondo, e
contempliamo il nostro principio e nostro fine che è Dio.
Onorata fu sempre la Sapienza e nella nostra religione produce l’amor di Dio;
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
persuade le menti, e spinge la volontà delle persone a porre ogni
Fiducia in Dio, anzi ad appoggiarsi a Lui: ed
In tutti i bisogni ricorrere prima a Lui, che alle persone. O Sofia, sii sapiente ed
Avrai il conforto d’essere esaudita in ogni buon desiderio.
Se vivrai ferma nei buoni propositi, credi
O Sofia a Dio carissima, addiverrai virtuosa:
Farai molto bene, senza nessuna fatica, perché
In te la grazia divina si moltiplicherà e così
Avrai lumi e forza per vincere ogni difficoltà.
Se a tutta prima sembra duro questo Pro memoria,
O Sofia, a te nel fiore degli anni e delle speranze
Farà impressione, il tuo cuore trepiderà:
Intendo, carissima anima, ma non scoraggiarti:
Anzi, ti assicuro che crescendo negli anni ricorderai con piacere questi avvisi e
godrai d’averli messi in pratica.
Sofia, intanto
Ogni giorno
Fatti dovere di
Innalzare brevissima preghiera
A Dio, perché disponga di te secondo la sua volontà.
Se tu, O Figlia Carissima, Farai In questo modo, Avrai presto lo stato che ti
piace.
Probabilmente questi consigli sono indirizzati ad una Sofia ideale col santo fine
che vengano messi in pratica da tutte le Sofie reali, cioè dalle giovani cristiane,
ma il pio autore avrebbe potuto benissimo scriverli per una qualche fanciulla di
buona indole e di buona volontà! A ogni modo sta il fatto che contengono del
buono e del bello, e in questo lavoretto il Bianchi si chiarisce un asceta, esperto
direttore di spirito poiché rispecchia la fede, la pietà del sacerdote di Dio, e di
Missionario zelatore delle anime. Egli poté dire con molta ragione e verità: Da
mihi animas, caetera tolle; unico suo desiderio furono le anime così care a
Gesù benedetto, la divina gloria, la salvezza eterna; tutto il resto per lui era
meno che nulla!
VII
In quella guisa che un quadro non è completo senza la cornice, in quel modo
che le ombre fanno meglio risaltare un bel dipinto e gli aggiungono venustà e
vaghezza, così il ritratto del nostro Bianchi non sarebbe esatto ove gli
mancasse quella parte, che possiamo dire umana. Non già ch’io voglia
accennare a quei piccoli difetti ch’egli potesse avere qual figliuolo di Adamo,
no; ma intendo presentare il nostro santo prete, tale qual fu con certe sue
inezie, oggidì comunemente dette: originalità ed eccentricità.
Fra le figure retoriche gli era molto simpatica l’iperbole, ragion per cui era
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
conveniente fare qualche sottrazione allorquando egli aveva pronunciato un
numero o di soldati, o di navi o di milioni o... di che so io!
Vedendosi sovente nelle vie di Genova a causa dei moltissimi impegni e
conoscendo un’infinità di persone veniva fermato, si può dire, ad ogni passo da
colui o da coloro, a parlare di cose talora importanti e talora più o meno...
quindi aveva di solito un gran repertorio di notizie che volentieri regalava a chi
gliene facesse domanda. Or non era sua costumanza che tali notizie fossero
sempre appurate o controllate, direbbe un giornalista, e chi si fosse affidato a
tali informazioni forse avrebbe corso rischio di accattarsi beffe o derisioni dalle
persone serie. Nelle sue frequenti apparizioni a Camogli, noi gli si stava attorno
a chiedergli di cento cose e non era mai che dicesse di non saperne; dava
subito e senza esitare, una risposta più o meno attendibile, ma per lui sempre
vera, perché corrispondeva all’autosuggestione del suo cervello. Similmente
aveva pronte certe frasi, non sempre parlamentari, che i suoi conoscenti
prendevano pel loro verso; figuratevi gli si fosse detto: il tal prete al mattino è
assai restio a levarsi e suole venire in Chiesa un po’ tardi... egli con una
prontezza ammirabile rispondeva tantosto: «Quando vien giù (coll’u lombardo)
in sacristia, dategli una fracca di legnate!». Pareva un uomo feroce e non
avrebbe torto un capello a chi si sia.
Usò per alcun tempo di andar a desinare alla Trattoria Fieschi diretta dal bravo
Sebastiano Ferrari e dalle sue buone figliuole; or guai se alcuna di esse gli
avesse domandato che cosa desiderava! Ùn cannon! Era la sua risposta. Non
voleva ordinare mai; gli si portasse una minestra e un piatto come piaceva al
trattore, e lui seduto al tavolo trangugiava (senza pane) tutta quella roba in
fretta e in furia come se buttasse giù in un acquaio, quindi si alzava e via a
gran corsa, come se lo portasse il vento!...
Di aneddoti o fatti avvenuti in Africa, sul vascello, in treno o dove chessia, ne
sapeva a dovizia e noi si ascoltavano volentieri poiché li raccontava con frase
viva e colorita, non dimeno bisognava aver non troppo grande concetto della
critica. Come fiero nemico dell’ipercritica, non si curava gran che neppur della
critica sana e giudiziosa!
Se gli si parlava di onorificenze, di titoli, di onori gli saltavano i battistini; se poi
alcuno avesse accennato a croci, o commende, allora andava addirittura fuori
dai gangheri. Trovandosi egli in una parrocchia per la festa di Capo d’anno, in
quella stessa mattina di buonissima ora, mentre il Parroco con lui discendeva le
scale che conducono alla Chiesa, volle dirgli una celia come si suole tra buoni
amici: Don Giacinto, mi permette in questo primo giorno dell’anno di fargli un
augurio? – Si, risponde l’interrogato, guardando fissamente l’interrogante di cui
conosceva l’umore: Ebbene, io auguro che in quest’anno Ella sia nominato
Cavaliere della Corona d’Italia... ma le ultime parole furono pronunciate in gran
fretta e ad una rispettosa distanza, perché il Bianchi, al suono della parola
cavaliere aveva di repente levato in alto il suo pugno d’acciaio!
A proposito di cavalierati, avvenne un caso abbastanza curioso in una cittadina
dell’Alta Italia. Un buon parroco cerca un predicatore per la propria Chiesa, e
un suo conoscente, uomo di bello spirito e fecondo fabbricatore di fandonie da
vendere ai semplici, gli propone Don Giacinto, il quale accetta di buon grado.
Intanto l’amico scrive a quel Parroco che il predicatore è persona di molto
merito, ma ha una debolezza... cioè gli piace che lo si chiami: Sig. Cavaliere,
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
quindi egli è avvisato e non sia avaro nel qualificarlo così. Anzi farebbe bene a
porgere invito a tutti i Cavalieri del paese, perché vadano alla stazione a
riceverlo; il buon prete ne sarebbe stato felice! L’ingenuo parroco beve a larghi
sorsi la cavalleresca fandonia e si fa in quattro pur di radunare una dozzina di
crocesignati che vadano alla stazione. Infatti, non appena il Bianchi mette
piede a terra, si vede circondato da un gruppo di signori a lui sconosciuti, tutti
con la croce sul petto, che gli fanno enormi scappellate, profondi inchini, che si
sdilinguiscono in complimenti: ben venuto sor Cavaliere! Come sta sor
Cavaliere? etc. Don Giacinto attonito prima, sdegnato poi, lancia su quella
turba ossequente uno sguardo feroce, e s’invola a quel supplizio, accelerando il
passo, anzi addirittura correndo verso la chiesa. Il parroco in vedendo
quell’uomo quasi furibondo, cade dalle nuvole, ma cresce in lui la meraviglia
quando si vede assaltato da una filippica più fiera del famoso: quo usque
tandem... Perché questa storia? Così si tratta un povero uomo che ama i
cavalierati come il fumo negli occhi? E chissà come se la sarebbe finita se il
parroco a propria discolpa non gli avesse squadernato sotto il naso la lettera di
quel caro e gentile amico il quale si compiacque di giuntare il povero
predicatore, il buon parroco e quei compiacenti crocesignati! Forse qualcuno
dei miei dieci lettori penserà che l’amico del bello spirito poteva avere un po’
più di carità cristiana e fraterna, nevvero? È il caso del proverbio: dagli amici
mi guardi Iddio, che dagli amici mi guardo io.
Dal pulpito non rinunciava mai di toccare il tasto della loquacità femminile; il
gentil sesso ascoltava, ma anziché emendarsi, quasi, quasi ci rideva
insipientemente, ed egli imperterrito continuava a battere il chiodo, con qual
frutto lo immagini il discreto lettore... Fra le altre originalità, il santo e benefico
uomo sentiva una inesplicabile antipatia verso i Piemontesi! Che cosa gli
avevano fatto quei poveri Piemontesi di così buona pasta? Forse perché i
Piemontesi cacciarono gli Austriaci dalla Lombardia? Potrebbe essere; poiché
egli nutriva verso l’Austria molta simpatia; secondo lui l’Austria era un governo
severo, ma giusto, un governo che dava il sale ai poveri, che aveva molto
impegno per la moralità, quindi magnificava l’Austria quante volte si
presentasse l’occasione. Probabilmente su questo punto i miei lettori avranno
altra opinione e son di credere che ben pochi pensino come lui; ma egli la
vedeva così e niuno gliela avrebbe cavata dal capo.
Nel 1908, se non erro, Don Giacinto poté vedere, la Dio mercé, il
cinquantesimo anniversario della sua prima Messa, non ne fece cenno ad
alcuno e guai a parlargliene, ma alcuni amici vollero celebrar il suo sacerdotale
giubileo, suo malgrado. In quel giorno si faceva una bella festa della Madonna
nella chiesa di S. Marta e il Bianchi è invitato a cantare la Messa, però egli si
rifiuta poiché non è buono di cantare; ma si prega, si insiste mancando il
celebrante, né si sa a chi ricorrere, finché il sant’uomo per rendere un servigio,
si piega, accetta e va all’altare, parato con grande solennità.
E fin qui la faccenda va pel suo verso, ma al Vangelo sale il pulpito Mons.
Bartolomeo Norero, Canonico di N. S. del Rimedio e Prof. di Diritto Ecclesiastico
in Seminario, il quale recita uno splendido discorso della Madonna e dopo la
Madonna, viene il venerando Festeggiato, ché l’oratore fa un bel panegirico di
Don Giacinto. L’umilissimo sacerdote arrossa in volto, freme, si agita, vorrebbe
gridare, imporgli silenzio, vorrebbe fuggire ma non è possibile, egli deve
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
rimanere là su quella sedia in mezzo a tanta pompa religiosa e inghiottirsi
amaramente quel serto di lodi! Finalmente l’oratore tace, termina la Messa e
Don Giacinto ritorna in sacristia disposto a minacciare scapaccioni a quei buoni
biricchini di amici che l’han così solennemente tradito... ma vedi ironia del
caso! In sacristia sono molte persone per bene, venute a congratularsi,
offerendo regali... che fare in tale frangente? Quell’alma sdegnosa non trovò
migliore espediente che infilare la porta e fuggire a gambe levate: pure nel suo
buon cuore, dovette poi sorridere e ringraziare chi l’aveva ingannato, mosso
dall’affetto e dalla stima.
Per quanto altri si sia adoperato, anzi arrovellato, giammai si poté avere la sua
fotografia; nel suo spirito di umiltà, disprezzava queste cose come singolarità,
amando vivere nella privazione di ogni lusso o comodità non solo, ma anche di
quanto non sia assolutamente necessario. Viaggiando in treno scelse sempre la
terza classe e nel vestire (piuttosto pesante in grazia dei suoi fisici malanni)
usava stoffe dozzinali e scarpe più acconcie ai sentieri della campagna che non
alle vie di una città. Vero uomo di Dio, penitente, disinteressato, benefico, al
tutto dimentico di se stesso.
VIII
Quel santo amabilissimo che fu S. Filippo Neri soleva dire: datemi dieci uomini
veramente distaccati da se stessi e io mi sento di convertire il mondo. Questa
massima fu bene intesa e praticata dal nostro D. Bianchi che non visse un
giorno per sé, ma sempre e tutto si adoperò per il bene altrui, anche tribolato
da infermità. Dieci sacerdoti ardenti di zelo come lui, di certo opererebbero
meraviglie nella società civile e cristiana. Unico suo ideale era: farsi santo;
costi quanto vuole, la croce sia pure pesante, le difficoltà insormontabili, non
monta; non si indietreggia mai, sempre avanti in mezzo alle tribolazioni, ai
disinganni, a dolori, e, se occorre, fino al martirio.
Di tale stampo era il nostro ammirabile amico. Sappiamo di lui che la durava
lavorando indefessamente lunghe ore, anzi giornate intere, ma non sappiamo
quanti giorni trascorsero senza che egli si sdigiunasse; ci è nota l’enorme fatica
incontrata nell’esercizio del suo ministero, lo strapazzo di lunghe corse a piedi,
mal nutrito e male arredato, tuttavia a Dio solo sono conte le notti vegliate o
pregando o scrivendo, e soltanto Iddio benedetto conosce tutti i disinganni, le
amarezze e gli affanni del suo cuore sacerdotale.
L’anima che s’incammina sulla via della perfezione e vuol percorrere l’irto
sentiero calcato dai Santi per raggiungere il monte di Dio, sarà travagliata
dall’afflizione, vivrà nel dolore, dovrà tracannare il calice dell’amarezza. È
disposizione divina: i seguaci di Cristo non debbono gustare le gioie dei
peccatori, debbono placare Iddio sdegnato per le umane iniquità, debbono
imitare il Divino Maestro d’ogni virtù il quale disposa a Sé l’anima santa e
generosa in uno sposalizio di sangue. Impertanto le tribolazioni, i triboli, il
dolore santificato sulla croce, sono l’eredità dei veri figli di Dio.
Al nostro santo missionario, dal Signore favorito con tante grazie di spirito, non
doveva mancare il pane della tribolazione, non la prova dei giusti che avrebbe
purificata la sua anima e l’avrebbe arricchita di molti meriti. Non tutti intesero
lo spirito suo, né le sue intenzioni; ad altri spiaceva quella sua vita randagia,
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
non uniforme, non ordinata; alcuni l’ebbero per un mestatore, un uomo
disordinato, testereccio, eccentrico. Fu qualificato di illuso, allucinato,
disturbatore e mattoide e molti si sbizzarrirono a mordere la sua fama. Si volle
censurare il suo modo di predicare, di dirigere le anime, si rise di quel suo
continuo correre a Roma e della sua quotidiana e stragrande corrispondenza
postale. Il sant’uomo sapeva tutto ciò; taceva e si affidava a Dio, pur ne
dolorava assai nell’animo e seguitava a fare del bene pensando che Dio solo
doveva giudicarlo. Il cardinale Parocchi, che forse ne sapeva qualche cosa, lo
conforta in una lettera con queste parole: Lasci dire le male lingue e tiri diritto
per la sua via... Sono tante che neppure la parola del Santo Padre le
azzittirebbe... Forse l’insigne Cardinale allude ai dispiaceri provati in causa
della missione di Palestina e per la Fondazione delle Suore Missionarie.
Negli ultimi anni dovette portare anche la croce delle strettezze finanziarie.
Visse alcun tempo in assoluta povertà e senza mai muovere un lamento, senza
che gli amici potessero conoscere il suo stato miserando. Dimorava in una
stanzuccia e una volta al giorno prendeva un po’ di ristoro, alla mensa di un
amico generoso a mezzodì; or per un uomo infermo e vecchio di oltre 75 anni,
era troppo poco.
Nei suoi scritti trovai a tal proposito alcune parole che mi strinsero il cuore. È
un frammento, non saprei se di una nota per suo uso personale, o di una
lettera confidenziale a qualche intimo di cui non ci è dato conoscere il nome. A
pranzo, egli scrive, andavo da Garibaldi, alla sera prendevo qualche cosa
quando ne avevo...
Questo Don Michele Garibaldi qui nominato era Parroco all’Albergo dei poveri:
un eccellente sacerdote morto nel fiore dell’età, virtuoso, istruito e di assai
belle speranze. Vuol dire che alla sera nella romita e squallida cella, dopo una
giornata di lavoro e di stenti indicibili, egli prendeva forse qualche frutto (pane
non mangiò mai) e non sempre, ma soltanto quando ne aveva... povero
martire! Non so esprimere l’impressione dolorosa che mi causarono quelle
poche parole, non le dimenticherò mai, ché mi si piantarono nell’animo
amareggiandolo di un dolore infinito. Ponderiamole bene e ci si farà palese
quanta virtù di rassegnazione fiorisse in quell’anima addolorata e stanca, ma
ricca di fede nel Dio delle misericordie.
Intanto la salute deperiva visibilmente, non più quel passo rapido e marziale,
non più la persona eretta e quella bella fronte alta, ma procedeva a passo lento
come di uomo affaticato e appariva leggermente incurvato. Lagnavasi di
incomodi allo stomaco e di dolori al capo e sovente andava soggetto a vertigini
o capogiri. Non una volta sola temette di cadere a terra, quindi procedeva lento
e cauto, ma un giorno però attraversando la splendida Via XX Settembre,
stramazzò al suolo, né poté alzarsi senza l’aiuto di pietosi accorsi a sollevarlo.
Decisamente la sua gloriosa giornata piegava al tramonto, mancavano le forze
fisiche e morali, la memoria soprattutto, né egli si illudeva; aspettava
rassegnato e fidente l’ora della dipartita, calmo e fiducioso nell’infinita
misericordia del Signore.
Ma la Divina Provvidenza pensava a lui e Monsignor Pietro Riva Arciprete di
Camogli, Protonotario Apostolico e amico suo da lunga data, lo invitò presso di
sé a Camogli. Don Giacinto venne volentieri tra noi, poiché amava Camogli ove
aveva predicato tante volte e sperava qualche ristoro da questo clima dolce e
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
sano. Per noi la sua compagnia fu un vero simposio e tutto il clero il circondò di
affettuosa riverenza; né qui si stette con le mani in mano, invece seguitò a
predicare e a scrivere con solerzia ed energia. Ben sovente si recava a Genova
a confessare nella Chiesa di S. Ambrogio, o per visitare infermi, o per altre
sollecitudini, ché di impegni, di affari, di cure di qualsiasi genere ne ebbe
sempre a josa.
Nei pochi mesi trascorsi sotto il nostro cielo fece pure qualche gita a Roma a
sollecitare l’approvazione del suo Istituto, e a Villa Pasquali ove il chiamava
l’amore del luogo natio, e di quella splendida chiesa parrocchiale adorna, per
opera e merito suo, di un ricco pavimento marmoreo nel coro e nel presbitero,
o per attendere alla erezione della Cappella sacra a S. Ermelinda Vergine di
Lovanio, Patrona delle Suore Missionarie come già dicemmo.
Avvegnacché in Camogli si trovasse bene e vi soggiornasse assai volentieri,
pure un pensiero grave e continuo tormentava la sua mente, cioè l’erezione
della Cappella di S. Ermelinda, che volle piantata in un terreno di sua proprietà
a fianco della casa dei suoi avi, ora mutata in sacro asilo delle Suore
Missionarie. E per meglio attendere a tale bisogna venne in pensiero di
abbandonare Genova, Camogli, il cielo ligure già così caro al suo cuore e partì
per Villa Pasquali, donde non uscirà più perché il male di cui era tormentato
incalzava di giorno in giorno. Or questo suo divisamento fu consiglio di
Provvidenza, fu una grande misericordia di Dio che l’ebbe condotto a chiudere
gli occhi là ove era nato, in quella modesta casa che forse non aveva più
sperato di rivedere, in mezzo alle Religiose figlie della sua anima infocata di
amore divino, circondato da figliale affetto, da riverenza tenera e affettuosa, da
assistenza cordiale, da cure intelligenti e sollecite.
Anche là continuò per alcuni mesi a purificarsi nel dolore e nelle infermità, per
ingemmare viemeglio l’eletto spirito di meriti in ordine alla vita eterna, per
affinarsi nella virtù, per lasciare alle sue figlie spirituali, agli amici, ai
conterrazzani esempi di sacrificio, di rassegnazione, di aspirazioni sante e
sublimi.
Prima che fosse colpito dalla paralis, che doveva condurlo alla tomba, un
mattino quasi presago del morbo imminente, si veste, prende la valigia e si
avvia verso la porta. La Suora portinaia stupefatta a quella vista: «Dove va,
Padre?».
«Vado a Genova». «A Genova? Così malato! e con questo freddo! No, Lei non
deve andare».
«Vado a Genova, all’ospedale, perché se resto qui vi darò troppo disturbo». La
Suora sapendo che col Padre non la si può vincere, né impattare, ha un’idea
luminosa: manda subito pel Parroco, il quale viene e comanda a Don Giacinto
di restare, in virtù di santa ubbidienza. Il sant’uomo ubbidisce e dopo alcuni
giorni è inchiodato in letto dalla paralisi. Il virtuoso prete non voleva che le
povere Suore avessero a lavorare per lui, e preferiva andarsene all’ospedale a
morire coi poveri.
Il giorno 11 Febbraio 1914, sacro alla Madonna di Lourdes (l’Immacolata
Vergine apparve la prima volta a Bernardina Soubirous precisamente l’11
Febbraio 1858) confortato dai Sacramenti della Chiesa serenamente e
santamente a guisa dei martiri, spirò l’anima giusta e santa, in età di anni 78 e
sei mesi, sendo nato il 15 Agosto 1835.
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
Nel buon popolo di Villa Pasquali la morte di Don Giacinto fu sentita come una
sciagura comune. Il buon Prevosto Domenico Rizzi partecipò telegraficamente
l’infausta notizia alla Rev.ma Curia Arcivescovile di Genova (sendo il Bianchi
ascritto al Clero genovese) e a qualche amico: ed è in grazie della sua
sollecitudine se noi fummo informati nella stessa mattina del decesso avvenuto
alle ore 5.
Ai modesti funerali accorse, si può dire tutta la popolazione, siccome avviene
quando muore un benefattore del popolo, o qualche persona adorna di preclare
virtù o di meriti eccezionali. In Genova destò largo compianto, fra i tanti amici
ed ammiratori; nella Parrocchia di Pigna gli si tributarono funerali solenni: i
giornali pubblicarono affettuose necrologie, le anime pie da lui beneficate non
gli furono avare di suffragi e nel popolo nostro molto si parlò del pio e generoso
sacerdote: anzi tuttora se ne parla con memore e grato affetto. Né morrà fra
noi la sua memoria, poiché non muore negli animi bennati e cortesi la memoria
del giusto, e Genova benedirà per lungo volgere di anni il nome di Don Giacinto
Bianchi; sendo scritto che è preziosa al cospetto di Dio la morte dei Santi e il
nome del giusto sarà in benedizione.
Così scomparve dalla scena del mondo l’umile e povero prete che seppe
operare tanto per la gloria di Dio, pel bene delle anime, a conforto degli afflitti,
dei poveri, degli sventurati. Le sue armi onde poté vincere tante battaglie
nell’ordine spirituale furono una gran fede, la fervida e costante preghiera,
l’umiltà ed uno spirito di sacrificio assai raro ai giorni nostri.
Io avrei voluto scrivere di Lui con migliore eloquenza e maggiore ampiezza di
notizie storiche, invece la Storia di un buon prete mi è riuscita modesta assai,
ma il venerato amico così amante dell’umiltà e del nascondimento, vorrà
gradirla dal Cielo, poiché soltanto l’amore della verità fu guida in queste povere
pagine, all’inesperta mia penna.
Ora le sue sacre ceneri dormono il sonno dei giusti nel natio Camposanto e da
quella tomba, al duro mondo ignota, predicano la virtù, la carità, il sacrificio,
mentre l’anima fervorosa vive e trionfa nella patria del gaudio eterno. Se io
dovessi scrivere il suo epitaffio, inciderei su quella pietra le parole che si
leggono nella Messa di S. Francesco d’Assisi: Pauper et humilis Coelum dives
ingreditur. Povero ed umile Don Giacinto Bianchi visse e morì, dopo aver
consumata la propria vita pel bene dei suoi fratelli e Dio sempre grande e
divinamente provvido l’ebbe confortato di gloria immensa e non peritura.
Hymnis Coelestibus honoratur.
Da quella gloria altissima benedica Egli alle Suore Missionarie, agli amici, a
tante anime un giorno alle sue cure paterne affidate, alla nostra cara Genova in
cui lasciò tanta eredità di affetti, affinché nella terra di S. Giorgio, oggidì
paganeggiante per la nequizia dei tempi, rifiorisca l’antica fede e ritorni il buon
costume dei nostri avi gloriosi e forti di fortezza cristiana, che sentirono
fortemente la carità di Patria non disgiunta dall’amore della Religione.
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G. B. REVELLI, Storia di un buon Prete dei nostri giorni. Don Giacinto Bianchi (1915)
V. Nulla osta alla stampa.
Camogli, 8 settembre 1914
Mons. Pietro Riva Arcip.
V. F. Revisore delegato
Imprimatur.
Genuae die 5 ianuarii 1915.
C. De Amicis Vic. G.
SI VENDE A BENEFIZIO
dell’erigenda Chiesa di S.ERMELINDA
a Villa Pasquali
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G.B.REVELLI, Storia di un buon prete (1915)