geniodonna
www.geniodonna.it • www.geniodonna.ch
Avere futuro
è un diritto
Fotografia di Carmen Ancora.
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Premiato dalla UE - progetto Geniodonna I.D. 7671128 - Interreg Italia/Svizzera Fondo Fesr
Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Como
Periodico delle pari opportunità di Como e del Cantone Ticino - Anno 2 - N. 21/22 - Luglio/Agosto 2011
gd
gd
per un progetto di pari opportunità
Le frecce all’arco dei
Congedo di paternità obbligatorio anche per il partner – Parità retributiva – Recupero nel lavoro delle donne e dei giovani “inattivi” – Norme temporanee perché
siano elette nel Parlamento un numero adeguato (30%) di donne – Quattro linee
di ricerca proposte da Geniodonna a tutta la rete dei movimenti delle donne
Quattro ipotesi
che Geniodonna propone alla discussione
• Conciliazione famiglia-lavoro. Anche il partner, alla
nascita di un figlio, deve usufruire di un congedo obbligatorio per paternità della stessa durata di quello per
maternità della madre, retribuiti entrambi al 100% e
agganciati alla fiscalità generale: questo renderà reale la
condivisione nella coppia delle incombenze e conferirà
all’evento nascita il giusto valore sociale ora minacciato
dalla assenza di una organica assistenza e incentivazione pubblica.
• Parità salariale donna-uomo. L’Istat calcola un differenziale tra il 10 e il 20% a cui si aggiungono carriere in
settori meno pagati, ruoli dirigenziali riservati ai maschi,
presenza minima (6%) nei ruoli dirigenti di responsabilità amministrativa delle società. Bisogna stabilire che
cosa è discriminazione, quando scatta, quando e come
va prevenuta e sanzionata.
• Recupero al lavoro delle donne e dei giovani inattivi. Circa 2 milioni e mezzo di donne e 2 milioni e 100
di giovani fino ai 29 anni, scoraggiati, hanno smesso di
cercare lavoro e sono fuori da ogni attività. Quest’area
sociale è una grande opportunità di sviluppo (lo suggerisce anche la Ue), se viene resa appetibile per le
aziende con crediti fiscali specifici e se, con un sostegno alle retribuzioni dei singoli, le persone vengono
indotte a mettersi di nuovo nella ricerca del lavoro e
nel mercato.
• Nuove regole elettorali. La presenza delle donne
in Parlamento è del 21,3% alla Camera, del 18,3% al
Senato, il che ci colloca al 55° posto su un totale di
188 Paesi. Bisogna rompere gli impedimenti economico-sociali che tengono le donne lontane dalle elezioni,
iniziando anche dai meccanismi elettorali che limitano
il numero delle donne elette. Le liste elettorali dovrebbero essere, obbligatoriamente e non per “liberalità”
dei partiti, formate per metà da donne e per metà
da uomini; poi regole elettorali temporanee dovranno
assicurare alle minoranze di genere una quota minima
di elette (30%) in tutte le assemblee e gli organismi
elettivi. Infine bisogna restituire agli elettori il diritto di
scegliere le persone da eleggere, di cui i partiti si sono
appropriati.
di Maurizio Michelini
O
ttocentomila.
Avevano deciso di avere
un figlio e in ottocentomila hanno immediatamente ricevuto il licenziamento o sono state
costrette alle dimissioni, firmate
in bianco nelle mani del datore
di lavoro all’atto dell’assunzione:
ottocentomila donne, dice il recente rapporto annuale dell’Istat.
Una grave violenza, la negazione disumana di un diritto. Un’alternativa barbara tra maternità e
lavoro. E ancora, gli “inattivi”: 2 milioni e mezzo di donne e 2 milioni
e 100mila di giovani fino ai 29 anni hanno rinunciato
a cercare un lavoro
che non c’è, e ora sono costretti a
non fare nulla; e poi la minaccia della povertà e della disoccupazione
per il 24% della popolazione, dice
l’Istat.
Il pensiero corre alla manifestazione del 13 febbraio scorso e
alla forza che le donne hanno allora mostrato, alla loro capacità
di proporre un ruolo di parità
e di sviluppo a tutto il Paese,
di raccogliere anche gli uomini
attorno a un progetto di nuovi
rapporti di collaborazione e di
condivisione fra i partner.
“Se non ora quando? Adesso!”.
Lo slogan del 13 risuona ancora
nella mente: ma ora urla la disperazione degli inattivi, l’indignazione
delle ottocentomila donne, ottocen-
T
Tre donne
re donne con grande esperienza nella comunicazione hanno contribuito alla nascita e
alla crescita del nostro periodico: Giovanna Galeazzi esperta redattrice di libri e riviste,
Graziella Monti redattrice a cui si deve anche l’aspetto e la vivacità dell’impaginato e
della linea grafica, Katia Trinca Colonel giornalista acuta e attenta cronista dei fatti e degli
avvenimenti culturali.
A queste tre “ragazze” viene ora affidata la direzione del giornale su mia proposta e con il pieno
assenso dell’editore, Il Senato delle Donne.
Abbiamo costruito un nuovo strumento editoriale, una serie di eventi culturali (cinema, teatro,
musica, corsi) per realizzare il progetto Geniodonna mirato sulla necessità delle pari opportunità fra donne e uomini, progetto che l’Unione Europea ha premiato. L’esperienza è stata corale
e lo sarà ancora di più.
è giunto il momento di dare un’impronta nuova, nella convinzione che la sensibilità femminile individuerà altre aree di comunicazione. Tre donne quindi per dare più forza al giornale e
metterlo in grado di confrontarsi con più efficacia in un futuro ormai vicino con il mercato: la
sensibilità femminile fatta di concretezza e creatività sarà quanto mai opportuna.
Nei prossimi mesi Geniodonna cercherà di portare la propria attenzione e quella dei movimenti
femminili sull’autonoma individuazione di precisi contenuti su cui giocare il proprio peso per
realizzarli. La nostra voce, nell’area comasco-ticinese si è posta come la voce del punto di vista
femminile: chiediamo alle donne e agli uomini di darci sempre di più il segno di una concreta
adesione.
Anche in vista degli sviluppi futuri la scelta di tre donne alla direzione del giornale ci pare una
garanzia.
Maurizio Michelini
Hanno collaborato a questo numero
PIETRO BERRA, SUSANNA CASTELLETTI, ELENA D’AMBROSIO, LAURA DOTTI, VERA FISOGNI, IL GRUPPO DI LECCO (Lelia, Nicoletta, Onorina, Tina, Tiziana, Valeria,
Vera) GRAZIELLA LUPO, daniela mambretti, MADDALENA MASSAFRA, MANUELA MORETTI, GIULIANA PANZERI, PIERANGELO PIANTANIDA, MARIALUISA RIGHI,
alina rizzi, TIZIANA ROTA, MARIA TATSOS, KATIA TRINCA COLONEL.
GENIODONNA
Direzione: Giovanna Galeazzi, Graziella Monti, Katia Trinca Colonel.
Direttore responsabile: Maurizio Michelini ([email protected]).
Art director: Graziella Monti ([email protected]).
Redazione Como ([email protected]): Guido Boriani, Andrée Cesareo, Cristina Sonvico, Idapaola Sozzani.
Segretaria: Selika Magatti, Giulia Pelizzari.
Fotografia di copertina: Carmen Ancora.
Como, viale Giulio Cesare 7 - tel. 0312759236 - Fax 0312757721
[email protected] • www.geniodonna.it • Facebook: Genio donna
Redazione di Lugano-Massagno: Antonella Sicurello • [email protected] - via Foletti, 23
Condizioni di abbonamento per la Svizzera: frs. 50.- annuali.
Editore: Senato delle Donne, presidente: Cristina Sonvico - via don Minzoni, 12 - Como - tel. 334.2308707
p. Iva e c.f.: 03145230136 - E-mail: [email protected]
FAFT (Federazione Associazioni Femminili Ticino), presidente: Fabrizia Toletti - via Foletti, 23 Lugano-Massagno. www.faft.ch
Progetto Geniodonna I.D. 7671128 Interreg Italia/Svizzera Fondo Fesr • Genio Donna, Reg. Trib. Ord. di Como n. 2/09 del 22/01/2009 – Copyright© by Geniodonna.
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autorizzazione scritta dell’editore.
SOMMARIO
1
2
Le frecce all’arco
dei movimenti
femminili
di M. Michelini
di A. Sicurello
13
10
Ho smesso
di bere perché
amo vivere
14
Focus
Lo slancio
delle donne
16 per rigenerare
i valori
Idee&Parole
Donne migranti
i fantasmi nel
21 “libro delle facce”
Ticino.
La violenza domestica
si combatte
informando
20 di A. Sicurello
Le quattro
“sorelle”
del patriottismo
Vocazione
non solo lavoro
di G. Lupo
37
44
di P. Berra
32 Identità femminile
di E. D’Ambrosio
e maternità
due universi autonomi
38 di M. Righi
Studentessa
si prostituisce
per pagare le spese
e avere denaro
di M. Massafra
di P. Berra
34
46
Uniamoci
per aver aiuto
e diventare
madri
25
Il profilo di
donna antidoto
alla morte
di T. Rota
35 Felici
senza figli
è possibile?
di A. Rizzi
di K. Trinca Colonel
Le donne dei
rifugi montani
Nucleare
addio!
di G. Panzeri
di P. Piantanida
40
Martha Graham
La danza linguaggio
libero del corpo
di S. Castelletti
Il piede
lo specchio
del corpo
e dell’anima
di L. Dotti
L’invasione
delle donne
lombarde
22 negli States
di M. Tatsos
Vivisezione
una ferita
all’etica
della natura
18
di V. Fisogni
Testimonianza
30
Gruppo di Lecco (Lelia, Nicoletta, Onorina,
Tina, Tiziana, Valeria, Vera)
Ticino. Dossier alcolismo di A. Sicurello
Quando l’alcol
Con un bicchiere di
era il mio Dio
troppo si schiaffeggia
la salute
11
Ticino. Dossier alcolismo di A. Sicurello
Goccetto antistress?
Pericolosa illusione
Una Giunta “rosa”
per il bene comune
di M. Moretti
Poliziotta per caso
tra risse e rapine
9
4
Il bisogno urgente
della democrazia
paritaria
42
48
Ticino.
Pari opportunità?
In azienda si può
di A. Sicurello
delle donne nel sociale e in politica
gd
movimenti femminili
tomila madri cacciate dal lavoro e l’angoscia di coloro che sono disoccupati e senza mezzi.
è urgente che i movimenti delle donne individuino programmi concreti, costruttivi, chiari che diano contenuti di reale miglioramento e tutela alle
donne e ai bisogni fondamentali di tutti. Occorre
progettare autonomamente meccanismi di promozione e di parità: soluzioni costruite con la ricerca
e la discussione fra tutti i movimenti femminili di
tutte le città, evitando centralismi di vecchio stampo e ricercando anche il contributo degli uomini.
L’esperienza storica delle donne e la consapevolezza di se stesse sono le risorse da cui trarre nuove
regole di promozione sociale e di partecipazione alla direzione politica e amministrativa a tutti
i livelli: sulle soluzioni individuate sarà necessario
dare vita ad un coinvolgimento e a una pressione
politica per farle passare.
Questa capacità di portare avanti e proporre al
Paese e alle forze sociali e politiche un proprio
progetto è la parte nuova e forse più difficile: un
programma messo a punto coralmente e autonomamente è il presupposto perché i movimenti
femminili “parlino” a tutti e propongano una meta da realizzare, da cui scaturisca un assetto sociale
più giusto e nuove possibilità di sviluppo generale
anche economico (se le donne avessero
tali, che respinga la loro riduzione a oggetto sessuale, la mercificazione del loro corpo e l’uso della
loro immagine a fini del mercato.
Non aspettiamo da altri (enti, associazioni, partiti)
quelle nuove norme - istituti di aiuto, di solidarietà,
di promozione - che solo i movimenti delle donne
possono elaborare, da cui scaturisca una presenza femminile paritaria nel sociale, nelle amministrazioni e in politica arrivando fino al Parlamento.
Contribuire ad accendere “i fuochi di ricerca” nei
movimenti sarà il lavoro dei prossimi mesi di Geniodonna, che darà vita ad un gruppo di studio composto anche da esperti su alcuni punti (vedi box) che
appaiono decisivi e in grado di generare processi
innovativi, di riscatto e di giustizia: e poi sarà il momento della discussione fra tutti i movimenti delle
donne in tutte le città, seguito da manifestazioni
e iniziative per sorreggere e realizzare il progetto.
pieno accesso nel lavoro
secondo gli economisti il Prodotto Interno Lordo farebbe un salto di 5/7 punti, cioè vivremmo
meglio tutti).
E allora, forti del 13 febbraio, riprendiamo dalla costruzione di una presenza paritaria delle donne nella società e nel lavoro che rompa
i meccanismi maschili di esclusione, che spezzi il
depotenziamento del loro ruolo di direzione nella politica e nelle amministrazioni, che abbatta la
chiusura delle donne dentro il nucleo famigliare,
schiacciate da molteplici ed esclusivi compiti di
madri, di educatrici, di dispensatrici di cure parenluglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
Scultura di Diana
di Augustus Saint-Gaudens.
1
gd
l’equilibrio di una nazione
Intervista a Vittoria Franco ricercatrice di Storia della Filosofia
Il bisogno urgente della
Si fonda sulla possibilità di conciliare famiglia e lavoro, sul congedo paterno
obbligatorio per condividere il lavoro di cura, sulla parità salariale per le stesse funzioni, sull’aumento della presenza delle donne nelle assemblee elettive
di Manuela Moretti
manifestazione del 13 febbraio,
vuole essere un piccolo monito
per le nuove generazioni, affinché le giovani donne di oggi ricordino le conquiste femminili
del passato e guardino al futuro con la consapevolezza degli
sforzi che è ancora necessario
compiere per una reale parità.
L’autrice approfondisce con noi
i punti fondamentali del suo libro.
“Care ragazze, ho incontrato tante di voi, in circostanze e
luoghi diversi: nelle scuole, nelle università, nei partiti, nelle associazioni. Alcune entusiaste e
consapevoli, altre sfiduciate, dal
futuro incerto, rassegnate. Altre
ancora desiderose di affermarsi,
di superare ogni ostacolo pur di
realizzare i propri progetti di vita…”. È con queste parole che
Vittoria Franco si rivolge alle
nuove generazioni di donne in
un breve e intenso volume dal
titolo Care ragazze. Un promemoria (Donzelli, € 16). Il libro, che
è stato recentemente ripubblicato con un capitolo dedicato alla
2
sul passato. Ho voluto semplicemente raccontare la mia storia,
la mia esperienza, che in molto
coincide con quella di una parte
del femminismo italiano.
Uno dei rischi della contemporaneità, come lei afferma
nel suo libro, è di confondere
la libertà con la mercificazione del corpo…
Questo è il punto cruciale che è
emerso anche in occasione della
Vittoria Franco, lei definisce manifestazione del 13 febbraio,
il suo libro “un promemoria”. quando alcuni opinionisti hanno
Perché?
tentato di far credere che in fonPerché il mio intento è quello di do si trattava di una protesta di un
offrire alle giovani donne una certo moralismo, oppure l’hanno
serie di appunti, senza metter- attribuita al desiderio di prendere
mi in cattedra e impartire lezioni distanza rispetto alle parole d’or-
- GD n.
21/22 -
luglio/agosto 2011
gd
alla Scuola Normale di Pisa e senatrice del Partito Democratico
democrazia paritaria
Alexander Calder, sculture
in movimento (mobile).
dine del femminismo. In realtà
non è così: la libertà conquistata
dalle donne della mia generazione era la possibilità di decidere
del proprio destino, di scegliere
se e come diventare madri, per
esempio, di decidere come impostare la relazione con l’altro
genere. Prima di quell’epoca le
donne erano in balia del destino,
di quello biologico innanzitutto:
molte donne erano, ad esempio,
vittime delle gravidanze indesiderate, o di un matrimonio da
cui era difficile sottrarsi. Da quel
momento in poi le donne sono
divenute padrone del loro destino: è questo il senso profondo
della libertà. Invece la libertà di
cui oggi parlano molti uomini è
un’altra forma molto insidiosa di
assoggettamento, si tratta di una
libertà tesa a soddisfare il desiderio maschile di impossessarsi del
corpo della donna, quindi è un
equivoco della libertà.
Concretamente, che cosa sarebbe ancora necessario fare,
a suo avviso, per difendere i
diritti delle donne?
Io riassumo tutto quello che si
può fare in una espressione che è
“democrazia paritaria”: significa
in sintesi riconoscimento per le
donne del loro desiderio e della
loro capacità di partecipare alla
costruzione di tutte le istituzioni
della democrazia. Dentro questa
espressione rientra la parità sul
lavoro, quindi più lavoro per le
donne, più servizi che aiutino la
conciliazione tra maternità e lavoro e condivisione del lavoro
di cura tra uomini e donne. Oltre alla conciliazione, è necessaria infatti una condivisione, e un
intervento in questo senso è sicuramente il congedo paterno
obbligatorio.
Sono due parole diverse – conciliazione e condivisione – che
servono entrambe a stabilire
condizioni di partenza di maggiore parità tra uomini e donne:
finché non ci mettiamo su questo piano di uguale partenza,
non ci potrà essere parità.
Il problema delle donne è che
partono diseguali e purtroppo la
maternità rimane ancora un elemento di discriminazione. Sono
necessarie inoltre leggi che facciano innalzare la rappresentanza istituzionale delle donne: se
dopo tanti decenni di battaglia
le donne sono ancora così poche
nelle istituzioni, vuol dire che c’è
qualcosa che non va e che è necessario correggere con un lavoro di cultura politica.
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
3
Cos’è la libertà per le donne?
Luce Irigaray definisce la libertà come “etica dell’amo a te”: ha
inventato non una sola parola,
ma un’espressione che in italiano è anche un errore, rendendo
intransitivo un verbo transitivo.
Quella intransitività indica che
deve esserci tra l’uomo e la donna uno spazio di rispetto, che
definisce l’autonomia della donna e che non può essere invaso
dall’uomo. È questa la premessa
per combattere la violenza nei
confronti della donna: se l’uomo
la considera come un suo possesso, allora diviene lecito anche
violentarla, e se si sottrae ai suoi
desideri, può anche ucciderla,
come purtroppo accade.
Uno spazio
di rispetto
che l’uomo
non può invadere
e che definisce
l’autonomia
della donna
gd
amministrazione al femminile
Una Giunta “rosa”
di Valeria Campagni
con Nicoletta Erba, Tina Nasatti, Lelia Natali, Tiziana Rota,
Onorina Schiano Moriello, Vera
Ventola
cantante di musica leggera recentemente scomparsa, e per la presenza della fabbrica automobilistica
Lamborghini. Gli abitanti sono circa 7.300: la maggior parte autoctoni, altri provenienti dalla città, da cui
si sono allontanati per vivere un’esistenza “più a dimensione umana”,
lontano dal caos, dal traffico di Bologna o di Modena, e un modesto
La forza delle donne…
Il sesso è una delle tante variabili che determinano il percorso politico di una persona.
Per le donne spesso è una penalizzazione.
Ciò che davvero dovrebbe contare sono le
idee che una donna porta nella politica e
quanto la sua coscienza di gruppo e la sua
consapevolezza delle reali esigenze femminili siano sviluppate.
Sant’Agata Bolognese
Comune
fra i pochissimi
in Italia
con amministrazione
al femminile
S
iamo a Sant’Agata Bolognese, paese situato tra Modena
e Bologna nella ricca pianura padana, un tempo terra paludosa
che una donna, la contessa Matilde
di Canossa, volle bonificare nel lontano Medioevo.
Questo paese è ricordato per aver
dato i natali a Nilla Pizzi, la famosa
4
numero di stranieri ben integrati
nella realtà sociale del territorio.
Grazie a Valeria, originaria di questo paese, siamo venute a conoscenza dell’unicità dell’amministrazione,
tutta al femminile, di questo Co-
- GD n.
21/22 -
mune: un’amministrazione tutta di
donne. Ma non è stata una scelta:
sono state le dimissioni per motivi
di lavoro di due assessori che ha fatto diventare rosa la compagine. Siamo sette amiche e siamo partite da
Lecco, dove abitiamo, per capire come agisce questa amministrazione.
Siamo arrivate un po’ prima dell’orario stabilito e questo ci ha permesso
di girare sotto i portici del centro
storico del paese, entrare in un bar
e bere un caffè, ascoltare qua e là
la gente che a piccoli gruppi chiacchierava, individuare il palazzo della
Partecipanza, la chiesa parrocchiale,
e in mezzo alla piazza, un pozzo con
una secchia di bronzo e un gran librone su cui si legge, inciso a futura
memoria, l’incipit dell’antica storia
di Sant’Agata Bolognese.
Poi l’incontro con le Assessore e la
Sindaca, anche loro curiose di conoscere sette amiche intraprendenti e
pronte per una chiacchierata a tutto
luglio/agosto 2011
amministrazione al femminile
gd
per il bene comune
campo sull’essere donne impegnate
in politica, nel lavoro, in famiglia…
e nei piaceri della vita.
Come vi sentite per essere l’unica
giunta del tutto femminile in Italia? E il paese come ha reagito?
Giorgia. In modo molto positivo,
perché già eravamo conosciute come amministratrici (come me, assessore al secondo mandato, o come
Daniela, sindaco al secondo mandato) o come operatrici nel sociale.
Comunque molte donne ci hanno
appoggiato perché vedevano in noi
concretezza e operatività.
Daniela. Ci sono state chiacchiere
e battute da parte di qualcuno: “Son
donne, vedremo che cosa sono capaci di fare…”
Comune di Sant’Agata
bolognese.
Il sindaco e la Giunta;
da sinistra:
Fabiana Ferioli,
assessore Lavori Pubblici
e Ambiente
Giorgia Verasani,
vicesindaco
Daniela Occhiali, sindaco
Francesca Cavrini,
assessore Servizi Sociali,
Sanità e Pari Opportunità
Erika Zambelli,
assessore alla Cultura.
Come conciliate l’impegno in Comune con famiglia e professione?
Giorgia. Sono mamma di un bambino di 8 anni e di professione sono
insegnante: se non fossimo aiutate dai nostri compagni e dai nostri
genitori, che credono e supportano
il nostro impegno politico, sarebbe
molto dura.
Io, se non avessi l’aiuto costante dei
miei famigliari, non ce la farei. Tutte noi lavoriamo per cui gli spazi
che ritagliamo per la famiglia sono
pochi, tenuto conto dell’impegno
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
5
Quali sono stati i motivi che vi
hanno spinto a impegnarvi in
politica? Avete avuto consuetudini famigliari nel fare politica?
Daniela. L’impegno politico femminile, in queste terre, ha radici lontane. Alcune di noi provengono da
famiglie o da madri impegnate, per
esempio, in associazioni come l’Udi,
gli Scout o la Lega Ambiente… altre
no. Per tutte noi la prima esigenza
è stata quella di lavorare per il bene
del proprio paese.
gd
amministrazione al femminile
Francesca. Ottimi. Il rapporto con
le associazioni, che conoscono bene
le esigenze e i problemi del territorio, è una delle cose più confortanti.
Sentiamo molto più vicine le persone che lavorano gratuitamente per la
comunità che i partiti politici.
costante che occorre nell’amministrazione del paese.
Daniela. Al mio primo mandato
di sindaco, ho sempre lavorato come insegnante elementare. Avendo
3 figli, devo dire che è stato difficile,
pur avendo i famigliari che mi aiutavano. Per questo ho deciso di stare in aspettativa in questo secondo
mandato: è troppo impegnativo e il
tempo da dedicare all’amministrazione è continuo e quotidiano, per
cui non posso esercitare la mia professione d’insegnante che esige impegno, tempo e dedizione.
Il nocciolo
della questione non è
“quante” donne
amministrano ma la
“qualità” delle donne
che amministrano
Riuscite a staccare la spina dai
problemi politici-amministrativi
quando siete in famiglia?
Daniela. Non riesco a dividere la
mia vita a pezzettini. Dentro mi restano non solo i problemi… ma anche quando un progetto è andato a
buon fine non riesco a staccarmi dal
mio essere responsabile del paese…
se vado in giro in bicicletta e vedo
l’erba alta, ai lati della strada, vorrei
poter risolvere subito il problema.
L’amministrazione del paese per me
è totalizzante. A me però piace questo coinvolgimento.
Giorgia. Poco fa, prima venire in
Comune, sono andata a bere un caffè al bar con mia madre e subito sono stata coinvolta da un cittadino
che aveva un problema da risolvere.
Sant’Agata è un paese piccolo, dove
tutti si conoscono, per cui è difficile
avere una privacy nel tempo libero.
Voi assessore siete state scelte
per competenze professionali?
Fabiana. Alcune di noi praticano professioni molto diverse dai
compiti amministrativi a cui sono
delegate dal Sindaco, ma siamo supportate dai tecnici e dal personale
comunale: con loro c’è un rapporto trasparente, serio e professionale;
si lavora tutti insieme e c’è sintonia
fra noi, abbiamo principi e ideali comuni. Sono il nostro braccio. Occorre che i soldi pubblici siano usati
in modo oculato. Ecco perché è importante lavorare insieme, tecnici,
assessori, impiegati. Le competenze si acquisiscono nel tempo, con il
contributo di tanti.
Qual è l’idea migliore su cui avete investito e di cui siete orgogliose?
Daniela. Di particolare rilevanza è l’avvio delle procedure per la
sostituzione del vecchio Piano Regolatore Generale (Prg) con i nuovi strumenti previsti dalla legge
regionale dell’Emilia Romagna per
il nuovo Piano Strutturale Comunale (Psc) concertato con l’associazione intercomunale Terre d’acqua e la
Il vostro essere donna vi aiuta, vi
facilita nel rapporto con i cittadini?
Daniela. Tre sono le caratteristiche
tipicamente femminili che ci contraddistinguono: saper ascoltare,
saper comunicare con i cittadini ed
essere operative. Quando dobbiamo realizzare un progetto passiamo
molte ore ad analizzare e approfondire ogni dettaglio per poi attuarlo.
E il nostro modo di lavorare i cittadini lo vedono, lo sperimentano e,
quindi, ci danno fiducia. Soprattutto
le donne.
Come sono i rapporti con le associazioni?
6
- GD n.
21/22 -
luglio/agosto 2011
amministrazione al femminile
Provincia di Bologna. Questo nuovo Psc ha il compito di definire in
un arco temporale di 15 anni uno
scenario strategico di assetto del territorio, garantendo nel contempo la
tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio comunale nonché la salvaguardia dei valori
culturali ambientali e paesaggistici.
Concretamente che cosa significa?
Daniela. Abbiamo scelto di crescere pochissimo, anche se gli oneri di
urbanizzazione fanno piacere a tutti gli amministratori comunali. Però
più cresci più snaturi l’identità del
paese; per cui vogliamo incentivare
la ristrutturazione dei vecchi nuclei,
assegnare aree edificatorie vicino al
paese sottoscrivendo accordi con i
privati al fine di ottimizzare al meglio le sinergie pubblico-privato. Realizzare nuovi interventi su terreni
che oggi sono agricoli significa un
aumento del numero di abitanti. Ciò
comporta la necessità di garantire
più servizi e aree pubbliche come il
verde, i parchi, le piste ciclo-pedonali. Da qui la nostra scelta di garantire uno standard elevato di qualità
urbana dei nuovi insediamenti. Siamo contrarie a insediamenti in mezzo alla campagna che non hanno
alcun contatto con il centro, tanti
piccoli nuclei chiusi dove gli stessi
abitanti non si conoscono. Vogliamo che le persone si incontrino, e
noi come amministratori cerchiamo
di conoscerle, di comunicare… nei
luoghi pubblici, anche al bar…
La cementificazione in Italia è
molto intensa, e coinvolge aree
agricole e naturali. Quanto a
Sant’Agata viene rispettato l’ambiente?
Daniela. Il Comune di Sant’Agata
Bolognese ha numerose aree verdi
gd
pubbliche, all’interno dell’area urbana e non. Nei nostri parchi, oltre alla manutenzione ordinaria, le
opere di miglioria sono svolte anche grazie all’attività di cittadini volonterosi che si sono resi disponibili
per la piantumazione o per ripristinare le panchine in disuso dei parchi. Non basta avere parchi e prati,
occorre avere una cura continua. E
poi abbiamo il bosco di Santa Lucia, un’area verde nella campagna
in prossimità del centro. Realizzato sui terreni della Partecipanza e
con la convenzione del Comune, è
reso fruibile alla comunità ed è entrato a far parte nel sistema museale delle Terre d’Acqua (sei Comuni
limitrofi accomunati da progetti) e
viene visitato dalle scuole, oltre a essere area di studio di gruppi naturalistici e scientifici. Un’altra area di
studio legato all’ambiente è il progetto che l’industria automobilistica
Lamborghini, presente nel territorio di Sant’Agata, sta attuando con
la partecipazione dell’Università di
Bologna e di Bolzano in collaborazione con il Comune in un ampio
spazio agricolo; il progetto prevede
la messa a dimora di 10mila querce,
che serviranno per studiare la relazione tra piante, anidride carbonica
e clima.
Quanto e come investite in attività culturali?
Erika. Tanto, perché riteniamo che
proporre opportunità per stare bene insieme e condividere occasioni
di musica, di teatro, di letteratura e
poesia sia valore e condizione irrinunciabile per la formazione di un
pensiero libero e critico. Abbiamo un piccolo teatro storico che
ha ospitato e ospita attori di livello nazionale. D’estate proponiamo
il festival Sonica, soprattutto per i
giovani: tanti, in quell’occasione,
vengono non solo dai paesi e dalle città vicine ma da tutta Italia. In
collaborazione con i Comuni che
fanno parte dell’associazione intercomunale Terre d’Acqua, ogni anno proponiamo percorsi culturali e
tematiche che spaziano dalla poesia
alla memoria storica, dal monologo
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gd
amministrazione al femminile
me scrive il nostro responsabile alla
Cultura sul giornalino municipale.
alla conoscenza di percorsi artistici.
E poi c’è la fiera di fine maggio, opportunità non soltanto di fare festa
e di musica, ma anche di promozione (o di semplice conoscenza) dei
prodotti agricoli, commerciali e industriali del territorio (per esempio
l’automobile Lamborghini) e, perché no, anche dei nostri animali da
cortile… così poco conosciuti dai
bambini del giorno d’oggi. Questi investimenti hanno anche un ritorno economico per la comunità.
Tanti artisti ospiti di Sant’Agata, apprezzandone il clima culturale, ritornano e, nonostante siano attori
di fama nazionale, pur di recitare in
paese chiedono compensi modesti.
Il regista Massimo Martelli ha scelto di girare a Sant’Agata Bolognese
gli esterni del film tratto dal libro di
Stefano Benni Bar sport, che ha come protagonista Claudio Bisio, consacrando così Sant’Agata “a luogo
dove la conservazione della tradizione e la spinta al futuro si fa paese,
identità culturale della nazione”, co-
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Il vostro lavorare nel sociale è
frutto di una storia e di una tradizione antica?
Erika. Ricordo la Partecipanza,
l’antica forma di proprietà collettiva
di terreni, tuttora in uso in molti paesi dell’Emilia e in Veneto, nel Polesine. La Partecipanza di Sant’Agata
è nata nel Medioevo ai tempi in cui
i terreni paludosi e malsani erano di
proprietà della contessa Matilde di
Canossa, che li diede in gestione ai
contadini poveri, e prevedeva di tramandare solo ai discendenti maschi
di alcune antiche famiglie del luogo
la gestione delle terre feudali.
Giorgia. In questi ultimi anni anche le donne dal cognome “antico”,
come per esempio il mio, possono
beneficiare dei terreni comuni (non
però il loro figlio, perché porta il
cognome del marito…) Un tempo queste terre comuni servivano
al sostentamento di tutto il paese,
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che era formato da poche famiglie:
erano i cosiddetti “fuochi”, e con
questo nome sono stati tramandati.
Comunque l’abitudine a impegnarsi,
a sentirsi responsabili concretamente attraverso associazioni o partiti o
enti per il bene comune non la vogliamo perdere.
Vi aspettate un ritorno per ciò
che fate in politica?
Daniela. Innanzitutto vogliamo
chiarire che il nostro impegno non
ha un ritorno di potere o economico come per un politico di professione…, ma certamente ognuna di
noi si aspetta una gratificazione, un
riconoscimento da parte dei cittadini. È umano per chi come noi si
espone tanto. Sarebbe bello che il
nostro grande impegno, alla fine del
mandato, abbia inciso per il miglioramento sociale e culturale dei cittadini di Sant’Agata.
Sala del palazzo pubblico di Siena,
Allegoria del Buon Governo
affreschi di Ambrogio Lorenzetti.
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gd
professioni
In Ticino
le gendarmi sono
mosche bianche.
Ma questo lavoro
non è precluso alle
donne: basta avere
un carattere forte
e un uomo
comprensivo.
Parola di una di loro
Poliziotta per caso
tra risse e rapine
di Antonella Sicurello
O
gni mattina indossa la
divisa e non sa che cosa
l’aspetta: un incidente,
un’aggressione, una rapina o forse una rissa. Un lavoro non certo alla portata di tutti, quello della
poliziotta, che Martina MaroniMariotti, 27 anni di Arzo, svolge
da quattro anni nel Reparto mobile del Sottoceneri.
È una delle 33 donne gendarme
della Polizia cantonale ticinese,
che rappresentano, su un totale di
428 agenti, solo l’8 per cento della
forza lavoro della Gendarmeria.
Complessivamente le donne attive nella Polcantonale, inclusi i
servizi amministrativi, sono 92 su
657 (14 per cento). Le donne sono più presenti nella polizia giudiziaria: 32 su 113 (28 per cento).
Alla scuola di polizia è attualmente iscritta solo un’alunna (su 23).
organizzato a turni. E se ci sono imprevisti, bisogna lavorare
a oltranza, fino alla conclusione
dell’intervento. Al di là di questo,
ogni donna ha le proprie attitudini: io, per esempio, non farei mai
l’infermiera.
Ma forse, rispetto all’infermiera, le donne non percepiscono
il mestiere di poliziotta come
adatto a loro.
Invece lo è. Certo, non bisogna
avere un carattere fragile, altrimenti si rischia di farsi coinvolgere troppo e di non riuscire a
smaltire le emozioni accumulate
durante la giornata.
È possibile conciliare lavoro di
poliziotta e vita privata?
È difficile trovare uomini che capiscano questa professione, perché spesso non digeriscono il
lavoro a turni e il fatto che un intervento non possa essere lasciato
a metà.
Personalmente è un problema
che non mi riguarda, dato che sono sposata con un gendarme che
lavora nel mio stesso reparto. Diverse colleghe sono legate a poliziotti.
È stata mai discriminata solo
per il fatto di essere donna?
No. Con i colleghi non ho mai
avuto problemi. A volte capita
che durante gli interventi le persone facciano battute, ma solo
sulla mia giovane età.
Fare il gendarme era il suo sogno di bambina?
No, ho scelto questa professione
per caso. Prima ho frequentato la
scuola d’arte come pittore e decoratore, perché mi piaceva disegnare. Sono stata poi sei mesi in
Australia e al rientro ho lavorato
in un bar nel periodo estivo e a
Zugo come decoratrice espositrice per circa quattro mesi. Una volta in Ticino, ho visto sul giornale
l’inserzione per la scuola di polizia. Un mio amico si era iscritto e
mi sono detta: “Perché no?” Oggi
sono contenta di quella scelta.
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Perché così poche donne scelgono di entrare nel corpo di
polizia?
Forse perché si ha a che fare
con le armi o perché il lavoro è
Non ha mai avuto paura?
No, però per determinati interventi, come le violenze domestiche o le risse, preferisco essere
con i colleghi.
gd
laalcolismo
coppia
Dossier di Antonella Sicurello
Con un bicchiere di
troppo si schiaffeggia
la salute
L’alcolismo è la malattia sociale più diffusa in Svizzera e ogni anno causa costi pari a tre miliardi di franchi – Il consumo pro capite è tra i più alti al mondo
S
i inizia con un bicchiere, con l’illusione di
poter soffocare i dispiaceri o per conformarsi alle abitudini degli amici. Dall’euforia alla
sbornia il passo è spesso breve, e quando la bottiglia si trasforma nel migliore amico farne a meno
diventa molto complicato. L’alcolismo non va infatti sottovalutato. Spesso considerato solo un vizio, in realtà è una vera e propria malattia sociale,
la più diffusa in Svizzera.
Difficile dire con esattezza quante siano le persone
colpite, poiché i malati visitati dal proprio medico non rientrano nelle casistiche. In generale, ci si
basa soprattutto sulle morti da cirrosi epatica per
stimare il numero di alcolisti in un Paese (il 90%
della mortalità per cause legate al fegato è dovuto
all’alcolismo). Si fanno poi altre valutazioni, come
la disponibilità di bevande alcoliche sul mercato, il
consumo pro capite annuo di alcol puro, i ricoveri ospedalieri, gli infortuni e le assenze dal lavoro.
La Svizzera è tra i Paesi al mondo che consumano
più alcol: 8,6 litri annui pro capite, che sale a 10,2
se si considerano soltanto le persone con più di
15 anni.
Va comunque detto che, se si beve in modo moderato, la salute non è messa in pericolo. Secondo
Ingrado, il Servizio ticinese di cura dell’alcolismo
e altre dipendenze, non bisognerebbe andare oltre
i due bicchieri di bevande alcoliche al giorno, che
possono diventare quattro in occasioni eccezionali, da consumare però lentamente (un bicchiere
all’ora). Le donne, che assimilano più velocemente l’alcol, dovrebbero bere ancora meno. L’alcol
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è bandito durante la gravidanza e agli adolescenti
con più di 16 anni è raccomandato un consumo
più moderato rispetto agli adulti. Se si eccede nel
consumo, si può compromettere seriamente il proprio benessere. L’alcol colpisce il fegato, il sistema
nervoso, muscolare ed endocrino, il pancreas e il
cervelletto. Su 60 mila decessi all’anno, circa 3 mila sono dovuti all’abuso di alcol. I costi sociali che
ne derivano, dovuti a malattie, decessi prematuri,
invalidità, incidenti, ammontano a tre miliardi di
franchi all’anno.
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la coppia
alcolismo
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SUL WEB
• Sul sito del Servizio ticinese di cura dell’alcolismo e altre dipendenze si trovano informazioni e consigli. www.ingrado.ch
• L’associazione Radix realizza progetti per la promozione della salute e la prevenzione delle dipendenze. www.radixsvizzeraitaliana.ch
• Nell’ambito della campagna nazionale 2008-2012, si mira a promuovere il dialogo sulle bevande alcoliche.www.io-parlo-di-alcol.ch
Il vuoto dopo un abbandono e la carenza di affetto sono spesso alla radice della
dipendenza – L’hanno confessato alcuni alcolisti durante una riunione di Aa
C
Quando l’alcol
era il mio dio
arlito ha 71 anni e da 24 non beve più.
Lo confessa con orgoglio ai suoi amici,
la voce spezzata dall’emozione e gli occhi
leggermente velati, durante la riunione degli Alcolisti anonimi (Aa), una delle tante cui partecipa da
quando ha avuto la forza di uscire dal baratro alcolico. Attorno a un tavolo ovale, sorseggiando acqua
e caffè e gustando cioccolatini, biscotti e caramelle,
si svolge l’atto di condivisione tra undici persone,
sei donne e cinque uomini, che cercano e danno
sostegno nella comune battaglia contro l’alcol. Il
silenzio che segue ogni intervento sembra voler
dare il tempo a ognuno di loro di fare propria
l’esperienza narrata e la consapevolezza di non
essere soli. Con loro, nel seminterrato della Chiesa evangelica a Lugano, c’è anche Geniodonna. Una
volta al mese, infatti, la riunione è aperta anche ai
non alcolisti.
La lettura delle tradizioni e del quarto passo apre
l’incontro del Gruppo Arianna. Secondo la filosofia degli Alcolisti anonimi, la strada verso la
sobrietà va percorsa a piccoli passi (dodici) e seguendo le dodici tradizioni dell’associazione. Il
quarto passo, che invita a fare “un inventario morale profondo e senza paura di noi stessi”, sembra
essere il più difficile da intraprendere.
“Sono a metà ed è davvero tosto”, confessa Luigi, tossicodipendente e alcolista (tutti si presentano con il nome di battesimo e come alcolisti). A
occhio avrà circa 40 anni. “Le comunità e la psichiatria non sono servite a farmi smettere di bere
e drogarmi. Per me, che non ho avuto i genitori
vicini e sono stato sbattuto da un collegio all’altro, l’alcol e la droga erano la mia medicina. Vivevo nel mio mondo, senza problemi. Ora faccio
fatica a scavare in me stesso. Ma con Aa sono arrivato ad avere tante 24 ore alle spalle da sobrio.”
Infanzie negate, matrimoni falliti, abbandoni e
amori sbagliati accomunano le storie di questi alcolisti. Gregor ha dovuto toccare il fondo prima
di capire che doveva combattere l’alcolismo, ma
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alcolismo
Un giorno alla volta...
Gli Alcolisti anonimi sono un’associazione di persone che si aiutano a vicenda per rimanere sobri. Ne fanno parte in tutto
il mondo due milioni di persone. In Svizzera sono attivi circa 200 gruppi. L’obiettivo di chi si rivolge all’associazione, che si
basa sull’anonimato, deve essere quello di stare lontani dal primo bicchiere “un giorno alla volta”. Gli Alcolisti anonimi della
Svizzera italiana sono divisi in sei gruppi, di cui uno in lingua inglese. L’associazione garantisce reperibilità di 24 ore al giorno
chiamando il numero 0848 848846 oppure lo 091 8262205. Internet: www.aasri.org
ora è pensionato e dice di essere felice della propria
vita. “Proseguo il cammino in Aa anche se non rispetto tutti i passi alla lettera”, ammette. “Per me è
importante venire qui, stare con gli amici e capire
che sono alcolista.” Alcolisti, infatti, secondo Aa, si
è per tutta la vita.
La fame di affetto è alla radice della dipendenza di
Andreas. Orfano e poi adottato, ha ricercato la figura materna nelle donne. “Ogni volta che una storia andava male, iniziavo a bere”. “Oggi sostituisco
l’alcol con una sigaretta o una passeggiata. Faccio
di tutto per superare i momenti difficili.”
Per Tania, che avrà suppergiù 40 anni, non è stato facile accettare di essere alcolista. “Ho iniziato a
bere a 14 anni. L’alcol era il mio dio. Ho costruito
la donna che sono oggi bevendo. Il quarto passo
mi ha dato serenità. Prima mi vestivo sempre di
nero, oggi anche con capi colorati.”
Per fare il primo passo, cioè ammettere di essere
impotente di fronte all’alcol, Cristina ha impiegato tre anni. “Avevo perso la fede, con tutto quello
che avevo passato”.
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“Ora mi affido ogni giorno a un potere superiore e
cerco di migliorarmi.”
Ester, invece, è ancora al primo passo. “Ero arrivata a un punto in cui il ‘subdolo’ mi rendeva la
vita impossibile. Dopo un anno in Aa capisco ora i
passi. Sono più serena e non mi riconosco più. Oggi, infatti, ero in colonna, ma sono riuscita a non
arrabbiarmi. Non mi era mai successo.”
Sabrina ammette di non avere compiuto i passi a
fondo. “Sono pigra, lo ammetto. Ma prima di venire in Aa non ero mai contenta. Vengo qui altrimenti so che ci ricasco.”
Esauriti gli interventi (due donne e un uomo si
sono limitati ad ascoltare), la riunione è decretata
chiusa dopo un’ora e mezzo. Ognuno dà un’offerta
per pagare l’affitto del locale, acquistare i libri e gli
opuscoli, le bevande e il cibo. L’ultimo atto prima
di lasciarsi è la lettura della preghiera della serenità, stando in piedi e tenendosi per mano: “Signore,
concedimi la serenità di accettare le cose che non
posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che
posso e la saggezza di conoscerne la differenza”.
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alcolismo
gd
Per le donne l’alcol è una fonte di energia e un ansiolitico per far
fronte alle incombenze quotidiane – Daniele Intraina, direttore di
Ingrado, le mette in guardia sulle conseguenze di un abuso
Goccetto antistress?
Pericolosa illusione
I
l Servizio ticinese di cura dell’alcolismo e altre
dipendenze (Ingrado) è un ente specializzato
nella consulenza e nel trattamento di persone
che abusano di alcol e altre sostanze. Chi vi si rivolge è seguito da équipe multidisciplinari a livello ambulatoriale (nei consultori) oppure nel centro
diurno o in quello residenziale (con ricovero). Il
30% delle persone dipendenti da alcol che chiedono aiuto a Ingrado sono donne (336 nel 2010).
Per saperne di più, abbiamo interpellato il direttore, Daniele Intraina.
Quante donne abusano di alcol in Svizzera?
Si stima che vi siano circa 300 mila persone dipendenti dall’alcol e un terzo sono donne. Per dipendenza s’intende il consumo quotidiano massiccio,
ma anche l’abuso intensivo ripetuto, per esempio
durante i fine settimana.
L’alcolismo femminile è un fenomeno che desta preoccupazione?
Oltre all’aspetto quantitativo, preoccupa quello di
tipo qualitativo. Infatti, per motivi fisiologici, una
donna, a pari condizioni rispetto a un uomo (quantità di alcol ingerita, peso corporeo ed età), diviene
più velocemente dipendente dall’alcol. E a causa
delle differenti modalità di assorbimento gastrico, il suo organismo è più vulnerabile e quindi più
soggetto allo sviluppo di complicanze epatiche e
psichiche dovuto all’abuso.
Quali sono i motivi che spingono le donne a
cercare una soluzione nell’alcol?
L’illusoria ricerca di soluzioni attraverso il consumo di alcol ha un’origine psicologica, individuale. Il desiderio di controllare l’ansia derivante da
conflitti interni ed esterni, la ricerca di carica ed
energia per affrontare le innumerevoli richieste derivanti dalla famiglia o dal lavoro e, più in generale,
dal proprio ruolo sociale portano a un consumo
eccessivo che può tramutarsi in una dipendenza.
Tra le situazioni che possono far sorgere o alimentare l’abuso vi sono l’eccessiva routine, l’autonomia e l’allontanamento dei figli, il disinteresse da
parte del compagno o marito, la sensazione di indifferenza rispetto al proprio ruolo.
Come viene affrontata la malattia?
La dipendenza da alcol femminile non si affronta
in modo differente rispetto a quella maschile. Ma
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alcolismo
verso le donne vi è più attenzione alla dimensione
psicologica-emotiva, con particolare sensibilità rivolta alle tematiche della famiglia e della maternità. Quest’ultimo aspetto è delicato e di particolare
importanza per i significati simbolico-psicologici
che riveste e per un fattore molto concreto: durante una gravidanza non solo l’abuso, ma anche
il consumo di alcol costituisce un grave fattore di
rischio rispetto al normale sviluppo psicofisico del
nascituro.
L’approccio degli Alcolisti anonimi si differenzia molto dal vostro?
Gli Alcolisti anonimi costituiscono una forma di
auto-aiuto, dove vige la reciprocità e si segue la
teoria dei dodici passi che mira al riappropriarsi
della propria vita. Per alcuni alcolisti questa modalità può essere efficace, in altri casi può servire da
complemento accostandola ad altri interventi professionali quali quelli offerti da Ingrado. Si affronta
la dipendenza in più fasi. L’accertamento del grado
di motivazione al cambiamento, la successiva disintossicazione e disassuefazione alla sostanza, il sostegno psicosociale, la prevenzione alla ricaduta e
il mantenimento del benessere riacquisito costituiscono passaggi obbligati durante i quali l’intervento va scelto e calibrato secondo le caratteristiche
individuali e famigliari della persona dipendente.
Testimonianza
Ho smesso
di bere
perché
amo vivere
Mariella beveva tre bottiglie di champagne
al giorno. Quando ha capito che l’alcolismo
l’avrebbe uccisa, si è rivolta agli Alcolisti
anonimi e ne è uscita vincente
M
i chiamo Mariella e potrei avere qualsiasi età, essere
adolescente, una mamma, una stimata professionista. Essendo donna, la mia vita di bevitrice è stata segreta: ho fatto di tutto per nasconderlo, anche a me stessa. La
bottiglia mi dava il coraggio di compiere le medesime azioni
Qual è la differenza sostanziale tra alcolismo
femminile e maschile, anche nell’immaginario
collettivo?
Storicamente l’abuso alcolico femminile è ricondotto a motivazioni di tipo psicologico, mentre
quello maschile a fattori di tipo socioculturale, dove il consumo-abuso si associa al ruolo sociale e
alle dinamiche di gruppo. Se da una parte questa
distinzione mantiene una sua valenza, negli ultimi decenni c’è stata una progressiva diminuzione
della differenziazione tra i sessi nelle motivazioni che portano all’abuso alcolico. Questo è particolarmente evidente nelle fasce giovanili: sia nella
modalità d’abuso sia nelle motivazioni, tra ragazze
e ragazzi si rilevano sempre meno differenze. La
percezione sociale dell’abuso alcolico femminile e
il relativo immaginario collettivo rimane comunque discriminante. Nei confronti della donna vi è
ancora un’elevata stigmatizzazione che, purtroppo,
non fa che alimentare un profondo senso di colpa
già presente nella donna dipendente da alcol.
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alcolismo
che un’altra persona poteva intraprendere con facilità. Certamente non sono diventata alcolista per una maledizione o
per malvagità. La medicina e la psichiatria hanno stabilito
che molti bevono per cause emotive. Io credevo di poter fare
cose meravigliose con la mia vita, e quando questo non è avvenuto, non sono riuscita ad accettare la delusione.
E pensare che l’alcol neppure mi piaceva. Non ho bevuto
fino a 40 anni. Ho iniziato a bere sporadicamente un goccio
di champagne: mi toglieva l’ansia, mi dava euforia e sollievo.
Era come assumere un antidepressivo.
Mi sono avvcinata alla bottiglia dando la colpa alla fragilità, alla vita compulsiva, al divorzio, ai figli irriconoscenti ai
miei sforzi di mamma monoparentale e ai vuoti della mia
vita. Dilatata dal mio Io, la richiesta di indulgenza, la delusione nella mia ambizione di perfezione, ho creduto alle illusorie promesse dell’alcol, crudele ingannatore. Da bevitrice
ciclica, sempre sola in casa, nell’arco di tre-quattro anni ho
aumentato le quantità, fino a smettere solo da ubriaca. Ho
dovuto lasciare il lavoro e ho perso la famiglia. Il medico diceva che ero depressa, ma le pastiglie non servivano a nulla.
Mi sono rivolta anche a Ingrado ma senza risultati. Ero
morta dentro, niente poteva raggiungermi né volevo esserlo.
Senza alcol non potevo più vivere. Sono stata male per un
anno ininterrottamente, bevendo già al mattino, di nascosto.
Nessuna crisi d’astinenza: l’alcol era ovunque. Di notte,
chiamavo un taxi che andava ad acquistare lo champagne in
un night. Mi sono resa conto di aver toccato il fondo quando
gd
ho fatto un sogno tremendo: il mio cane mi sbranava i piedi.
Al risveglio ho chiesto di essere ricoverata immediatamente.
In clinica ho potuto disintossicarmi fisicamente, ma uscita
da lì dovevo affrontare la vita quotidiana. Non avevo bisogno né di prediche ipocrite né delle accuse risentite che finora
mi avevano fatto: “Se ci volessi bene, smetteresti”, “Dovresti
vergognarti”. Non ero né un mostro sgradevole né immorale.
Ero una donna disperatamente malata.
Sei mesi prima dalla mia uscita da questa clinica, su indicazione del mio medico di famiglia, avevo partecipato a un
paio di riunioni di Alcolisti anonimi, ma credo per fare piacere ai famigliari. Non facendolo per me, avevo continuato a
bere. “Se vuoi smettere di bere è affare nostro, se vuoi continuare è affare tuo”, mi fu detto.
Onestamente, peggio di così non poteva andare. Tutte le
strade battute non avevano avuto alcun successo e ho ripreso
a frequentare le riunioni.
Per due anni ho partecipato senza proferir parola, ascoltavo
e basta. Leggevo la letteratura che avevo acquistato, e con la
lista dei telefoni degli amici che mi fu consegnata alla prima
riunione, ho imparato a chiedere aiuto prima che l’ansia o
una paura sul lavoro, o in ogni momento della giornata,
salisse. Avevo persone amiche 24 ore su 24. Con medici
e terapeuti non era mai stato possibile. Nell’anonimato ho
trovato la seconda libertà. In Aa nessuno mi diceva nulla.
Riconoscere le mie paure e la devastazione che racchiudevo
in me, sintomo del mio alcolismo, è stato fondamentale per
farmi aiutare. Tuttavia l’ammissione d’impotenza di fronte
all’alcol è stato il primo passo verso la sobrietà.
In primis, ho tolto tutto quel che era alcolico in casa, persino
i cioccolatini con il liquore. Dopo un mese ho ricominciato
a lavorare.
Sono alcolista, pur non bevendo da undici anni. Si è alcolisti
per tutta la vita, perché l’alcolismo è una malattia inguaribile, fisica, psichica e mentale. In Aa ho imparato a convivere con questa malattia. Chi ne ha sofferto non potrà mai
tornare a bere normalmente. L’allergia durerà per tutta la
vita, ma con Aa la paura è svanita. Occorre solo stare in
guardia sempre dal primo bicchiere. E questo è possibile un
giorno alla volta.
Io continuo a frequentare Aa dedicando amore all’associazione. Il recupero da questa indecifrabile tortura deve includere la cura per l’ossessione mentale. E io, in Alcolisti
anonimi, l’ho trovata.
Ora nella mia casa l’alcol c’è, ma solo per mio marito o
per gli ospiti che ricevo. Non per me, perché io ho troppa
voglia di vivere. Tutti i giorni ringrazio per aver ritrovato
la libertà.
Dossier illustrato con quadri del pittore statunitense Edward Hopper.
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gd
focus
Lo slancio delle donne
di Vera Fisogni
questa dimensione al centro del
13 febbraio può spiegare almeno
due (misteriosi) fenomeni correlati al movimento di oltre un
milione di persone nelle piazze
italiane:
1) la presenza di tanti uomini,
che difficilmente una questione
percepita come “soltanto” femminile avrebbe mobilitato e 2)
il mancato seguito di iniziative
di quella portata. Subito dopo il
13 febbraio, se ci pensiamo, non
si sono avute manifestazioni –
C
he il vento, in Italia, stia
cambiando, è un dato di
fatto.
Un soffio rigenerante di primavera ha attraversato le città, da
Milano a Napoli, sovvertendo
equilibri di potere ormai inadatti a rappresentare le istanze della
popolazione.
Al di là del dato politico, questo
vento del mutamento possiede
una consistenza primariamente morale: ci si aspetta una rigenerazione dei principi ai quali
orientare la condotta, premessa
di quella vita buona in cui, fin da
Aristotele, si è vista l’essenza del
cittadino e, in un ultima analisi,
della virtù politica.
promosse da donne – capaci di
muovere un così ampio consenso.
Qualcuno si aspettava un 8 marzo decisamente diverso, più “assertivo”, e molti analisti si sono
chiesti in quel momento se l’onda lunga della piazza non fosse
stata un fuoco di paglia.
Evidentemente c’era al lavoro
qualcosa di diverso, più spirituale e archetipico, rispetto a quanto
animava i cortei del femminismo
storico.
Rispetto e dignità. Ma proprio
questo aspetto, tanto cruciale
nella spiegazione del fenomeno,
ha una radice tutta femminile,
che va cercata in quel 13 febbraio, data tanto densa di significati
quanto difficile da comprendere
nella sua complessità.
La mia idea è che la rifondazione
dei valori – a cui la società civile
guarda con grandi aspettative –
sia iniziata proprio dalla mobilitazione delle donne.
In Adesso basta!, il motto con cui
quell’evento è passato alla storia,
sono stati rivendicati il rispetto
e la dignità: i pre-requisiti, a ben
vedere, di qualsiasi discorso morale, perché senza guardare (respicio) all’altro, riconoscendolo
degno di una qualche attenzione,
non è proprio possibile tratteggiare nessuna priorità valoriale.
Un fuoco di paglia? Riportare
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- GD n.
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gd
focus
per rigenerare i valori
La forza morale. Con sorpresa, vediamo oggi come stia lavorando, sottotraccia – ma non
troppo – quello slancio morale
di matrice femminile, originato
da uno sfregio che vede le donne
nel ruolo di vittime e di prime attrici. Tutto è nato, come sappiamo, dallo scandalo dalle ragazze
che si vendevano al Sultano Silvio Berlusconi, con l’aspettativa
di un posto in tv o di un seggio
al Parlamento. Ma come si spiega
che lo slancio morale sia (prio-
ritariamente) femminile? Al di là
degli svantaggi patiti dalle donne, nel lavoro, nel riconoscimento dei diritti e dell’immagine in
senso lato, tutte condizioni che
inclinano a una reazione, andrebbe fatta luce su una dimensione più metafisica.
L’orientamento femminile alla
vita è particolarmente sensibile
al concreto. Ora, il valore è qualcosa che si scopre nell’esperienza, nel rapporto con i bisogni
primari, a cui proprio le don-
Wassily Kandinsky, Passioni.
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ne principalmente fanno fronte, misurandosi con la gestione
dell’economia familiare, con i figli e la rete degli affetti.
Il senso del concreto. Le donne sono tanto vicine a questa
concretezza quanto la politica
come “sistema” (fatto anche di
donne, ma questa è un’altra storia) appare lontana.
Nel rapporto con la realtà si sperimenta il positivo della vita, quel
“positum” che in senso metafisico è all’origine dell’orientamento
al bene, cioè al perseguimento di
quanto ci realizza, a partire dalla
vita. Mai come oggi meriterebbe
di essere riletto un pensatore del
livello di Max Scheler, autore di
una fondamentale Etica materiale
dei valori.
Per concludere, è molto interessante – e a mio giudizio prova il
ruolo decisivo delle donne nella ricostruzione della morale – il
fatto che i giovani siano ritornati
a partecipare alla politica.
Il linguaggio femminile, che va
diretto al concreto, ha fastidio
degli orpelli retorici e sa esprimere i problemi, si presta magnificamente ad essere inteso da
menti aperte al confronto e da
interlocutori affamati di progettualità, tratti peculiari dei ragazzi.
Non a caso la lingua materna –
come ha magistralmente spiegato Luisa Muraro – è decisiva
per la costruzione della realtà.
In qualche modo, proclamando
i valori, le donne hanno assunto, forse senza rendersi conto,
un ruolo antico e sempre attuale
di guida, dalle dirompenti potenzialità politiche.
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gd
lettura olistica
Il piede: specchio
Intervista alla riflessologa Roberta Bonafede che legge nella dita dei piedi
di Laura Dotti
to “olistico” (dal greco olos che
significa intero), quindi considera l’individuo come un’entità inscindibile di corpo, mente e
spirito. Il riflessologo non isola
la malattia per tentare di eliminare i sintomi, né agisce su di
un organo e apparato, ma opera piuttosto sulla persona nella
sua interezza, allo scopo di raggiungere o, meglio, di farle raggiungere, uno stato equilibrato
e armonico. Il dolore che si manifesta nei punti del piede, in
aree precise, può corrispondere
a organi o ad altre strutture; esso è un segnale che consente al
riflessologo di riconoscere una
disarmonia, prima ancora che si
manifesti, e di attivare il potenziale autocurativo della persona.
Roberta Bonafede è riflessologa plantare da oltre dieci anni, si occupa di
fitoterapia, lettura delle dita dei piedi
(dattiloscopia) e cromoterapia plantare. È cofondatrice della neonata associazione I 5 Elementi che si prefigge
di divulgare tutto ciò che riguarda la
“medicina naturale”.
La riflessologia ha una storia
molto antica?
Era nota già al tempo degli antichi egizi – spiega Roberta Bonafede. In realtà le sue origini si
confondono con quelle dell’uomo: pensate al gesto della madre
che accarezza i piedini del figlio
e come il neonato insista nel giocare con i suoi piedi e nel succhiarsi gli alluci, ricordandosi del
piacere provato nel premere le
piante contro la parete dell’utero materno prima di nascere. In
Egitto, a Saqqarah è stata ritrovata la tomba di Ankhmahor,
conosciuta anche come la tomba
del “Medico”, risalente alla VIa
dinastia, circa 4300 anni fa. In
essa c’è una pittura murale, dove
si vede all’opera un medico che
stimola le dita dei piedi e delle
mani del paziente. I geroglifici
tradotti riportano questa frase:
“non farmi male”, e la risposta
del medico: “agirò in modo da
meritare la tua lode”.
Il piede è il riflesso del nostro
modo di “muoverci” nella vita. Cosa svela?
La lettura del piede è lo specchio
della nostra anima, ovvero di tutto il nostro modo di esprimerci
nel mondo. La forma del piede,
le dita dei piedi, le righe, i calli,
i gonfiori e altri segni ci possono dare un’interpretazione del
vissuto sia fisico che emozionale della persona. I piedi sono un
libro aperto nella “conoscenza”
del vissuto di ognuno di noi. Ho
organizzato un seminario per la
lettura delle dita dei piedi che si
chiama dattiloscopia: le dita dei
piedi, che possono cambiare
molto velocemente, ci danno informazioni specifiche sul carattere della persona.
Puoi spiegare in cosa consiste
e qual è la finalità di un trattamento di riflessologia?
La riflessologia è un trattamen18
- GD n.
21/22 -
Senza il “dito”
delle ambizioni,
incapaci
di decidere
In un tuo seminario hai
raccontato
di come un
ragazzino,
privato del secondo dito in
quanto “fuori
misura”, non
sia stato più
in grado di
prendere decisioni. Esiste
una biunivocità tra il piede e
la mente?
Assolutamente!
“Riflessologia”,
è un qualcosa che
si riflette in ambedue le direzioni. Al
ragazzino era stato amputato il “dito delle ambizioni”,
era un bambino molto propositivo fino a
che non gli hanno amputato il dito; a seguito dell’operazione la
mamma ha notato un
grande cambiamento.
Questo succede anche
a chi viene donato un
organo di un’altra persona. Un altro esempio che posso fare è
quello di un uomo a cui,
da un giorno con l’altro, si
luglio/agosto 2011
gd
lettura olistica
del corpo e dell’anima
e nella cromoterapia plantare la personalità e gli squilibri
gonfia un testicolo, apparentemente
senza spiegazioni; guardando i piedi
si è notato un
rossore e un
rigonfiamento
nella zona riflessa del testicolo e
gli è stato chiesto se avesse
preso un colpo
in quel punto:
la sua risposta
è stata che due
giorni prima aveva giocato a calcetto e aveva ricevuto
un calcio proprio in
quel punto del piede!
Nella tomba egizia
di Ankhmahor di 4300
anni fa il disegno
di un medico
che stimola
le estremità.
Il piede ha la forma
di un seme di ciò
che è l’uomo al suo
punto di partenza
ne l’alluce, e poi fasciate. Queste
donne erano considerate “intoccabili”, trattate come bambole.
Tutte le loro emozioni venivano così messe a tacere, tanto che
non erano in grado di prendere
decisioni, di avere voce in capitolo rispetto a nulla e neanche di
Donne orientali
avere emozioni: non potevano
prive di emozioni
essere indipendenti perché non
una volta rotte
più in grado di camminare da sole dita dei piedi
le. Avendo le dita spezzate, non
erano in grado di avere emozioE la storia del piede fem- ni, essendo le dita, soprattutto
minile? Viene in mente le ultime quattro, legate a delle
la dolorosa e antica usan- emozioni specifiche: gioia, doloza orientale di fasciare re, desideri, sessualità, creatività,
i piedi delle giovani per legami affettivi! Lasciavano solo
ridurne le dimensioni. la parte puramente razionale, la
Che impatto aveva que- testa, ovvero l’alluce.
sto trattamento sul loro mondo emozionale e Più controllabili le donne
con i tacchi altissimi
sulla loro vita?
Le donne cinesi, soprattutto quelle nobili, erano Veniamo ora a un fatto che risottoposte a questo terribi- guarda anche il nostro monle trattamento: venivano loro do: il tacco.
spezzate le dita dei piedi, tran- In un mondo dove la donna cerluglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
ca di diventare sempre più manager e meno mamma o donna,
i tacchi diventano sempre più alti. Io personalmente non seguo
molto il mondo della moda, ma
mi sembra che quest’anno siamo
arrivati al plateau e a un tacco 13.
Considerando il fatto che la zona
del tallone è legata alla materialità, alle cose concrete della vita,
e che le dita sono legate, invece,
alle emozioni e alla parte più spirituale, il tacco porta a stimolare
la parte emozionale, molto di più
di quella pratica: porta, paradossalmente, ad avere la testa ancora
più tra le nuvole!
Rende la donna “leggera” e quindi più controllabile. Senza considerare le gravi problematiche
che porta a livello fisico, per cui
problemi di schiena, di postura,
dolori alle gambe…
Il calzare delle libertà
è andare scalze
Qual è allora la calzatura capace di rispettare ed esaltare,
senza sottometterlo, il nostro
essere femminile?
Bella domanda! L’ideale sarebbe lo stare senza scarpe. Così si
potrebbe esprimere liberamente la nostra femminilità e la nostra personalità, senza timore di
esporci o di essere giudicati!
Servirebbe a prenderci più cura
dei nostri piedi e quindi di noi
stesse, cosa che, forse, è ancora
troppo difficile da immaginare
nella nostra società.
19
gd
Ticino/violenza
La violenza domestica
si combatte informando
In netto aumento nel 2010 gli interventi della polizia ticinese, secondo il principio
“chi picchia se ne va”. Allontanate dalla propria abitazione anche alcune donne
famiglie in cui si verificano maggiormente gli atti di violenza. “Prima gli interventi erano suddivisi
equamente tra le famiglie miste e
con entrambi i coniugi stranieri e
svizzeri”, puntualizza Pierluigi Vaerini, capitano della Polizia cantonale ticinese. “Nel 2010 i casi di
violenza si sono avuti soprattutto
nelle famiglie di stranieri: 322 interventi contro i 216 nelle famiglie
miste e i 251 nei nuclei con partner svizzeri”.
Ma a che cosa si deve la crescente richiesta da parte delle vittime
di violenza di un intervento delle
forze dell’ordine? “Soprattutto a
una maggiore sensibilizzazione su
questa problematica attraverso le
campagne e conferenze pubbliche
e alla facilità di accesso alle informazioni”, risponde Vaerini. “Gli
agenti possono così reagire tempestivamente alle richieste di aiuto, che arrivano per il 50 per cento
dal luganese.”
di Antonella Sicurello
A
tre anni dalla modifica della
legge sulla polizia, che prevede l’allontanamento dalla propria
abitazione di chi commette violenza, gli interventi degli agenti ticinesi sono aumentati di quasi il 50
per cento. Il forte incremento si è
registrato nel 2010 (789 interventi,
+ 47 per cento rispetto al 2009),
mentre nei due anni precedenti
gli interventi erano rimasti stabili (circa 500). Per quanto riguarda
il 2010, si è avuta una crescita del
22 per cento degli allontanamenti ordinati dall’ufficiale della polizia cantonale (109). Tra le persone
allontanate dalla propria casa, secondo il principio “chi picchia se
ne va” (vedi Geniodonna, novembre
2009), vi erano anche sette donne
(6,4 per cento del totale). Stabili,
invece, gli allontanamenti volontari (65). Rispetto agli altri anni, è
cambiata anche la tipologia delle
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- GD n.
21/22 -
Le vittime di violenza possono
quindi fare affidamento su un’ampia rete di sostegno. Così non è,
almeno in Ticino, per le persone violente. Da tempo, infatti, si
discute, senza risultati concreti,
sull’opportunità di realizzare strutture specifiche che si prendano carico degli autori di violenza. Altri
Cantoni (circa la metà) ci sono già
riusciti. Alcune deputate ticinesi, che nel novembre 2010 hanno
presentato una mozione in questo
senso, sono ancora in attesa di ricevere una risposta dal governo.
“L’allora consigliere di Stato Luigi Pedrazzini aveva reagito positivamente, dichiarando l’intenzione
del governo di muoversi in questa
direzione”, sottolinea Pelin Kandemir Bordoli, prima firmataria
della mozione. “Spero che nella
nuova legislatura il Consiglio di
Stato mantenga questa posizione,
rispondendo positivamente con
un progetto alle nostre richieste.”
luglio/agosto 2011
idee&parole
gd
Donne migranti
i fantasmi
nel “libro delle facce”
di Pietro Berra
L
a “specificità di essere donna”: un’espressione
che al giorno d’oggi viene declinata in tutti i
campi, dal lavoro alla salute, dallo sport alla
politica. A volte si esagera persino un po’. Rischia di
diventare un luogo comune, una frase retorica. Provate, allora, a declinarla al passato. Agli eventi storici
di cui le donne sono state parte “silente”, o meglio
“silenziata”, e spesso più importante di quanto non
si trovi scritto nei libri di storia. Possono saltare fuori
– dalla memoria e dagli archivi – delle sorprese inaspettate. Perciò Geniodonna sta dedicando dall’inizio di questo 2011, centocinquantesimo dell’Unità
d’Italia, una serie di articoli sull’apporto femminile
al Risorgimento. Serie che si conclude su questo numero con nuovi interessanti documenti scovati da
Elena D’Ambrosio, per lasciare posto a un’altra, che
qui cominciamo e che porteremo avanti nei prossimi
mesi: la storia, e le storie, delle italiane emigrate. Ed
è un’epopea che davvero ci riguarda tutti. Provate,
qualora aveste dei dubbi, a inserire il vostro cognome nel motore di ricerca della Ellis Island Foundation,
che sta digitalizzando i registri degli sbarchi negli
Stati Uniti dal 1880 al 1920. Io ho rintracciato 351
potenziali “zii d’America”, cioè persone con il mio
stesso cognome. Otto sono addirittura miei omoni-
mi. Uno di questi l’ho ritrovato su Facebook, ma con
la biografia del mio bisnonno. Che, però, in America
non è mai stato. Ho provato a scriverlo a chi ha avuto
l’idea – peraltro simpatica – di creare i profili degli
emigranti che hanno fatto grandi gli States. Ho provato a dirgli che probabilmente si è sbagliato: ha “copiaincollato” da un altro sito la biografia del mio avo
musicista, applicandola però a un altro Pietro Berra,
che tra gli emigranti celebri è finito non già per meriti personali, ma per essere stato il padre di uno dei
più fenomenali giocatori di baseball di tutti i tempi,
Yogi Berra. E così il mio falso bisnonno è ancora lì,
sul “libro delle facce”.
Non risponde alla mia richiesta di amicizia, ma ne
ha stabilite numerose con gli altri espatriati celebri,
da Einstein a Walt Disney. Nella lista, a dire il vero,
scarseggiano le donne: quattro su 52, di cui solo una
ha effettivamente brillato di luce propria (l’attrice di
Broadway Lily Claudette Colbert), mentre le altre
sono dei “numeri fortunati”, e niente più: la prima
persona sbarcata nel nuovo centro accoglienza di Ellis Island nel 1892 e due sopravvissute del Titanic.
Dimenticata persino Ella Grasso, il primo governatore donna (eletto, altre avevano preso il posto del
marito morto) degli Sati Uniti d’America. Nelle pagine seguenti troverete la storia di questa formidabile
figlia di una casalinga di Voghera.
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
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idee&parole
gd
L’invasione delle donne
Nella migrazione all’inizio del ‘900 fu il nord Italia a fornire il 57% degli espatri
di Pietro Berra
L
a proverbiale casalinga di Voghera – per
la verità l’espressione nasce solo nel 1966,
quando da un’indagine della Rai risulta che
il campione di telespettatori cui risultano più ostiche le cronache politiche è composto da signore del
comune pavese – ha partorito la prima governatrice degli Stati Uniti d’America. Non è una battuta,
bensì è la storia di Maria Oliva, che il 4 ottobre del
1906, all’età di 14 anni, sbarcò a Ellis Island e nel
“nuovo Mondo” si innamorò di un altro emigrato,
Giacomo Tambussi, contadino di Perleto (provincia di Alessandria), arrivato negli States nel 1904.
Dall’unione tra i due nacque, nel 1919, Ella Rose
Giovanna Oliva Tambussi. I genitori si sacrificarono per farla studiare. E lei non li deluse: nel 1942
si laureò al Mount Holyoke College (South Hadley,
Massachusetts); nel 1952 cominciò la carriera politica nelle fila del partito democratico; nel 1975 fu
la prima donna ad essere eletta governatore di uno
degli Stati della federazione americana, per la precisione il Connecticut. Dovette lasciare a metà del
secondo mandato per motivi di salute: il 5 febbraio
del 1981, dopo 28 anni di vittorie ininterrotte alle
urne, perse la lotta contro il cancro.
Lombardia. All’ultimo censimento dell’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, ovvero quelli
che hanno conservato fino ad oggi la cittadinanza
italiana, risultano 318.414 lombardi fuori dai patri
confini, su un totale di 4.115.235 italiani. E Como è
al quarto posto tra i 12 capoluoghi di provincia con
35.391 emigrati (prima Milano con 89.926, seguita
da Varese con 39.818 e da Bergamo con 39.032). Ma
il fenomeno migratorio ha coinvolto gli italiani ben
più massicciamente di quanto non dicano i numeri degli iscritti all’Aire. Secondo i dati raccolti dal
Centro studi emigrazione di Roma, ben 2.300.000
cittadini hanno lasciato la Lombardia, tra il 1876
Ella Grasso punta di un iceberg
Non sono mancate le onorificenze postume, per
questa pioniera del “femminismo applicato”. Subito dopo la morte, Ronald Reagan le assegnò la
Medaglia presidenziale della libertà e nel 1993 è
entrata nella National Women Hall of Fame. Ma, quel
che più conta ai fini del nostro discorso, è il fatto
che la sua figura sia stata rivalutata anche dalla Ellis
Island Foundation, che sul proprio portale l’ha inserita nell’elenco “degli immigrati e figli o figlie di
immigrati”, che hanno “contribuito a tenere accesa
la lampada della libertà”. Peraltro è l’unica donna
in una lista di soli uomini, dal compositore Irving
Berlin al segretario di Stato Colin Powell.
La figura di Ella Grasso è solo la punta di un icerberg: quello composto da oltre dodici milioni di
nostre connazionali emigrate all’estero, dove per
decenni hanno vissuto nell’ombra. Un fenomeno
che ha coinvolto massicciamente anche la ricca
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- GD n.
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luglio/agosto 2011
idee&parole
lombarde negli States
gd
I legami femminili diedero struttura e coscienza ai gruppi che diventarono comunità
e il 1976, per stabilirsi all’estero. E negli anni della Grande emigrazione, quando le navi dirette in
America salpavano a ritmo quasi quotidiano, fu il
Nord, più ancora che il Sud, a veder partire i propri figli in cerca di un futuro migliore: Lombardia,
Veneto, Piemonte e Friuli fornirono, da soli, il 57%
degli espatri (3.015.360 persone su 5.257.830).
Una lunga rimozione
Il fenomeno migratorio è stato a lungo rimosso
nel nord Italia: è dell’11 gennaio 2005 il riconoscimento del portale www.lombardinelmondo.org da
parte della Regione ed è ancora in fase di costru-
La prima donna eletta governatore del Connecticut.
A lato: Ellis Island, controllo degli immigrati appena sbarcati.
zione, sullo stesso sito, la sezione dedicata alle ricerche genealogiche (http://ricerchefamiliari.lombardinelmondo.
org/, tra le prime banche date già disponibili in rete
quella dell’Archivio di Stato di Como). Un’antropologa veneta, Francesca Massarotto, si sta invece
prodigando per portare l’attenzione sul ruolo delle
donne in questo esodo. E nei suoi studi non manca
di sottolineare le molte analogie tra le nostre emigrate di cento anni fa e le straniere che arrivano
oggi in Italia. Le une e le altre spesso invisibili, ma
determinanti per trasformare, spesso ricorrendo ai
ricongiungimenti familiari, “accozzaglie” di lavoratori stranieri in una comunità. “In Europa e negli
Stati Uniti i primi flussi italiani erano soprattutto di
manovali precari e stagionali i quali, finito il lavoro,
tornavano a casa o vagavano alla ricerca di nuove
occupazioni – scrive la Massarotto in uno dei suoi
saggi. Gli uomini soli vivevano ammassati in camerate e baracche di prima accoglienza, dove dormivano e cucinavano insieme, attendendo il momento
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gd
idee&parole
di poter tornare in patria. Le cronache del primo
Novecento raccontano con dovizia di particolari
del proliferare di truffatori e approfittatori senza
scrupoli (i moderni “banchisti”), che lucravano
sulla buona fede degli emigranti e sulle loro necessità. [...]. La donna ha cambiato definitivamente
la composizione di queste collettività, rendendole
permanenti, basate sulla famiglia, sulla salvaguardia delle proprie origini e allontanandole dagli
24
sfruttatori”. Molte hanno fatto i mestieri più umili
(allora le chiamavano “serve”, oggi si definiscono
colf e badanti), ma alcune delle loro figlie e nipoti
hanno fatto carriera.
Ella Grasso è stata la prima di una serie. Non a
caso, in tempi recenti una giornalista Rai, Patrizia
Angelini, ha creato un’associazione e un premio
per valorizzarle. Per saperne di più: www.italianwomenworld.com
- GD n.
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luglio/agosto 2011
idee&parole
gd
Il profilo di donna
antidoto universale
alla morte
La figura femminile nella scultura monumentale e funeraria nell’area lecchese
di Tiziana Rota
L
a donna, immagine privilegiata dagli scultori, non è mai il soggetto di monumenti
commemorativi, per definizione riservati ai
“grandi uomini” protagonisti, dove compare come
corollario narrativo o più spesso sotto forma di allegoria: la musa, la patria, le cinque giornate, la madre, la sposa, la storia ecc.
Nei monumenti funerari gli scultori di fine Ottocento e del Novecento possono ancora esaltare il
corpo femminile anche al di fuori dell’iconografia
religiosa, strettamente vincolata a modelli classici,
nelle figure angeliche sempre più femminilizzate,
nelle sinuose fanciulle liberty, ma soprattutto nella
realistica rappresentazione di donne contemporanee: le dolenti che visitano, vegliano, custodiscono
la memoria dei defunti e, incuranti degli sguardi,
esibiscono la bellezza dei corpi con l’intensità dei
sentimenti. Attraverso alcuni esempi presenti nel
lecchese ma abbastanza rappresentativi di un fenomeno culturale più diffuso cercherò di percorrere le trasformazioni di questa particolare iconografia come ho documentato nella
ricerca Scultura all’aperto a Lecco e provincia
(2009).
Cimitero monumentale, Lecco.
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idee&parole
La sinuosità liberty
Nella cultura europea di fine Ottocento si assiste
alla progressiva metamorfosi delle classiche figure
angeliche, intermediarie tra l’uomo e il divino, in
ambigue e misteriose figure femminili. L’angelo di
Giulio Monteverde (Tomba Oneto, Staglieno, 1882) è
l’immagine profondamente sensuale che colpisce
il gusto dei contemporanei e diventa un modello
per la scultura simbolista. Ed ecco caste fanciulle
ancora munite di ali ma ben definite dai morbidi e sinuosi panneggi mossi dal vento, (Francesco
Confalonieri, Lecco, 1896) ad esprimere attraverso la
gestualità la gamma di sentimenti consolatori dal
dolore straziante, alla mestizia incredula, alla fiducia nella fede. Due giovani accosciate si consolano
in un abbraccio che esprime la pietà verso il defunto. Le vesti trasparenti, i capelli raccolti in morbida crocchia, mazzi di fiori abbandonati in grembo
declinano le simbologie del cordoglio nelle
forme sensuali del Liberty. (Luigi De Paoli, Mandello del Lario, 1910). Dolcissima ed invitante una giovane donna
si china porgendo un ricco bouquet
variegato di fiori. Morbida è la linea
della sua postura che scende dal capo
piegato alla spalla nuda, si insinua tra i
seni evidenziati dalla trasparenza del tessuto, si piega attorno alla gamba protesa e ci fa
dimenticare il marmo. (Giuseppe Mozzanica, Lecco,
1937).
Nella cappella Borletti (Monumentale, Lecco) una
giovane seduta con le mani congiunte, riccamente adornata, bracciale, collana tra i capelli, veste
operata e sandali è collocata su di un piedistallo
affiancato da due sedili. Alle sue spalle una nicchia
a tutto sesto rivestita di mosaico dorato in cui campeggia una croce. Il contesto suggerisce le frescure
di un ninfeo in cui una languida e sensuale figura
anni Trenta brilla tra le dorature secessioniste.
Mentre il gusto realistico ottocentesco indugiava
nella descrizione minuta dei particolari, dei costumi, dei comportamenti della moda del tempo
rendendo con assoluta fedeltà e crudezza il mondo
borghese dei committenti, il simbolismo accentua
la componente intimista e soggettiva e offre immagini indeterminate in cui le certezze positiviste
sono messe in discussione.
In alto: Francesco Confalonieri, Lecco, 1886.
A lato: Giuseppe Mozzanica, Lecco, 1937.
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idee&parole
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Il dolore vero di donne reali
Se l’angelo diviene figura seducente e simbolica,
la dolente dei primi cinquant’anni del Novecento,
realistica rappresentazione della donna contemporanea, esprime, nella sua gestualità e fisicità tutte le sfumature del lutto e della sua elaborazione
(raccoglimento, rassegnazione, preghiera, supplica,
distacco…). Gli scultori hanno così l’opportunità di
modellare, scolpire donne vere, credibili nella loro
fedeltà al modello; sempre meno impongono pose
eclatanti e preferiscono cogliere gli atteggiamenti
quotidiani.
Così splendidi ritratti a figura intera o a mezzo busto popolano i cimiteri e si affiancano alle iconografie più classiche dei soggetti religiosi.
L’abbraccio ai morti in guerra
Anche le allegorie ispirate a moduli classici
che rappresentano la famiglia sacrificata dal
valoroso soldato alla Patria, spesso presente nei monumenti ai caduti, si umanizzano,
compensano la retorica del genere e rappresentano spesso il lato più interessante
delle composizioni.
Così la bella figura classica nel rilievo della
cappella Torri Tarelli (Francesco Confalonieri,
Monumentale Lecco, 1907) bilancia l’altisonanza delle allegorie della guerra e della fede,
mentre la madre col puttino giocoso nel
Monumento ai Caduti di San Giovanni (Angelo Montegani, 1925, Lecco) è
più credibile dell’esultante soldato e
infine l’abbraccio del bimbo che quasi sfugge alle braccia della splendida
donna che lo regge, per trattenere il padre soldato nel Monumento ai Caduti di
Lecco (Giannino Castiglioni, Lecco) è certo
molto convincente.
La donna madre
Il tema della maternità è presente in ambito funerario, oltre che nelle Pietà, soggetto privilegiato ad esprimere dolore della
madre di fronte alla morte del figlio,
nell’iconografia della Madonna col
Bambino della tradizione cristiana,
dove la madre, dallo sguardo triste
In alto: Cimitero monumentale, Lecco,
A lato: Luigi De Paoli, Mandello del Lario, 1910,
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idee&parole
e assorto, già conscia del destino che attende il figlioletto, è fonte di identificazione per chi ha subito
una perdita ed è fonte di speranza e attesa di protezione per chi a lei si rivolge. Non mancano poi
elaborazioni in chiave laica del tema secondo due
connotazioni di segno opposto: la giovane madre
disperata per esprimere il vuoto e l’abbandono, o
la serena coppia madre figlio, per ribadire grande
fiducia nella vita. Il giovane Luigi Milani scolpisce
in marmo di Carrara un’imponente giovane donna
che stringe il suo figlioletto e un mazzolino di fiori.
Il corpo massiccio e solido sottolinea la forza di reggere, assieme al bimbo, il dolore espresso nel bel
volto, assorto e sollevato, a cui fa da contrappeso la
capigliatura/velo che scende dalle spalle ai piedi.
Una delle migliori prove di questo artista lecchese
che ha popolato nel corso degli anni i cimiteri del
territorio (Monumentale, Lecco, 1937).
Lo scultore Fulvio Simoncini (Monumentale, Lecco,
1991) è originale interprete dell’accento più vitalistico e rasserenante della maternità, e della figura
femminile in genere, nella scultura funeraria. Propone qui una giovane madre nuda, seduta a terra,
come una moderna Madonna del prato, mentre stringe al seno il piccolo con un gesto protettivo. Serena
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Fulvio Simoncini, Monumentale, Lecco.
Sotto: Giannino Castiglioni, Monumento ai Caduti di Lecco.
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e sorridente, esprime il caldo abbraccio totalizzante e originario che è all’inizio di ogni vita e a cui
i viventi tendono in una nostalgia inconscia ed
inesauribile.
Un inno alla vita che nasce, perfettamente coerente con la sua destinazione, il gruppo scultoreo Madonna della maternità in pietra serena, realizzato
nel 1935 da Luigi Supino (Genova 1984-?) per
il Padiglione Gianbattista Sala dell’Ospedale di Lecco ed ora felicemente trasferito nel
piazzale d’ingresso del nuovo Ospedale Manzoni. Una bellissima
Madonna accoglie benevola e
protettiva i neonati che le donne offrono e consegnano alla
sua protezione. Le tre figure di
donna con i due bambini creano un gruppo piramidale
in cui scorre circolarmente un’intesa affettuosa di
gesti e di sguardi.
I volti molto somiglianti,
differenziati dalle capigliature o dalle aureole, sembrano voler alludere ad una
sequenza temporale del ruolo materno: l’attesa piena di incognite della donna inginocchiata a occhi
chiusi che chiede protezione, l’offerta del neonato
in fasce della puerpera, il legame aperto madrefiglio della Madonna e del bambino. La superficie
picchiettata e scabra della pietra, i volumi semplici
e maestosi sembrano voler suggerire un arcaismo
mitico, nonostante la classicità delle figure e la modernità dei volti.
gd
Luigi Supino, Madonna della maternità.
Sotto: Lydia Silvestri, She, Abbadia Lariana.
She, la pura forma
E infine She, una donna, pura forma in divenire
della scultrice Lydia Silvestri, affacciata sul nostro
lago, si offre ai naviganti come le sculture e le logge delle antiche ville, pensate per essere ammirate
dall’acqua (Abbadia Lariana, 1971).
Il bronzo “monumentale” si svolge e, inarcandosi con profonda curvatura, compete con il profilo
dei monti sull’altra sponda. Si sente la spinta delle
gambe rimaste in un piedistallo celato dall’edera:
imprimono uno slancio rotatorio alle forme morbide e poderose, che si generano dalla forte tensione
ascensionale. Una linea astratta indugia sull’anatomia di Lei (She), scava profondi golfi, espone rotondità esasperate, sconvolge l’unità della visione
in un gioco di ambiguità e, come una spirale senza
fine, attrae nel calmo vortice carico di promesse.
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idee&parole
Le donne comasche
Le quattro “sorelle”
Luisa De Orchi, Anna Martinez, Amalia Biancardi e Virginia Sironi
di Elena D’Ambrosio
I
l patriottismo femminile comasco, che annovera tra i suoi massimi esempi personaggi del
calibro di Giuseppina Perlasca Bonizzoni, che
operò in collegamento con Luigi Dottesio, diede
altre ammirevoli prove all’indomani della liberazione di Como dagli austriaci ad opera dei Cacciatori delle Alpi guidati da Garibaldi, “avanguardia
– riprendiamo dal periodico locale Il Corriere del
Lario del 28 maggio 1859 – dell’esercito liberatore
sardo-francese”. Il Municipio di Como si era subito
mobilitato per allestire provvisori ospedali militari,
utilizzando alcuni istituti destinati alla educazione
dei giovani, quali il Collegio Gallio, e adattando
allo stesso scopo case private messe a disposizione
dai cittadini.
Fu costituita una apposita Commissione con il
compito di raccogliere biancheria, bende, filacce e
offerte in denaro, mentre a una “gentile signora”,
Virginia Sironi, fu affidato l’incarico di raccogliere
presso la propria abitazione “offerte di tela”.
In questi improvvisati ospedali furono alla fine
ricoverati soprattutto i soldati francesi feriti nella
battaglia di Solferino, provenienti da Bergamo e da
Brescia dove avevano ricevuto le prime cure.
è importante in questo frangente proprio il ruolo
svolto da numerose donne comasche che con diverse mansioni prestarono gratuitamente assistenza ai
ricoverati.
Il Corriere del Lario, diretto da Annibale Cressoni,
nel supplemento del 7 settembre 1859, segnalò “alla
pubblica riconoscenza” le cittadine più meritevoli,
alcune delle quali, (e cioè: Felicita Molteni, la stessa
Virginia Sironi, Luigia Pagani, Giuseppina Novati),
ricevettero in seguito una medaglia dal governo
imperiale francese, che volle nella medesima circostanza premiare con un attestato “tutta la città
che con entusiasmo concorse a sollievo dei sofferenti soldati di Francia”. Allorché nell’ottobre del
1859 Garibaldi lanciò una sottoscrizione nazionale
per l’acquisto di un milione di fucili, le donne di
Como furono tra le prime ad aderirvi il 2 novem-
30
bre, in cui viene annunciata la lodevole iniziativa
di “una privata associazione di molte cittadine
comensi, d’ogni condizione” che aveva offerto “la
collettiva somma” di fr. 660.00 a cui si aggiungeva
una sottoscrizione femminile nel comune di Rovenna, per un totale di fr. 703.50. La notizia fu ripresa
dal giornale milanese Il Pungolo, affinché il nobile
esempio delle “generose sorelle di Como” fosse
imitato dal “sesso gentile degli altri luoghi d’Italia,
con unanime concorso”. Le diverse sottoscrizioni
che furono aperte a Como registrarono una larga
partecipazione delle donne e seguirono il corso degli eventi: dalla sottoscrizione per la spedizione in
Sicilia, alla sottoscrizione per un dono nazionale a
Garibaldi subito dopo il successo dell’impresa, alle
sottoscrizioni successive ai fatti dell’Aspromonte
in soccorso di Garibaldi ferito e dei suoi, rinchiusi
nelle fortezze sarde, fino alla creazione dei Comitati
di provvedimento per Roma e Venezia. Scorrendo
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idee&parole
protagoniste del Risorgimento
gd
del patriottismo
raccolsero fondi, armi, risorse – Aiutarono Garibaldi a Caprera
Gerolamo Induno, Il ritorno.
i lunghi elenchi dei sottoscrittori, ricorrono tra le
“firme” femminili i nomi di Luisa De Orchi, Anna
Martinez, Amalia Biancardi e Virginia Sironi. Questo quartetto costituì a Como il punto di riferimento principale per qualsiasi iniziativa patriottica “al
femminile”. La De Orchi in particolare era in contatto con il Comitato femminile per il fondo sacro
per Roma e Venezia, istituito a Genova nell’estate
del 1861, che a Milano faceva capo a Laura Solera
Mantegazza. La Mantegazza divenne la principale
referente di Luisa, la quale mantenne costanti contatti epistolari con la patriota comasca Elena Casati Sacchi (figlia di un’altra patriota comasca, Luisa
Riva Casati) anch’essa membro del Comitato femminile (si veda, Luisa De Orchi, Lettere di una garibaldina, a cura di Costaza Bertolotti e Sara Cazzoli,
Marsilio, Venezia 2007).
Lo stesso Garibaldi in uno dei diversi appelli alle
donne italiane, ripreso anche da Il Corriere del Lario,
cita Como e i nomi della De Orchi, Martinez, Biancardi e Sironi tra le più attive nella raccolta di fondi.
Del resto il Generale ebbe un sincero legame d’affetto con la popolazione di Como, scaturito dai fatti
del ‘48 e del ‘59, e in particolare con il gentil sesso
comasco, che nemmeno la rottura, quasi istantanea, del suo matrimonio con Giuseppina Raimondi
nel gennaio del 1860, spense. Un sentimento ampiamente corrisposto dalle “donne comensi” che
nutrivano verso il “redentore dei popoli”, come dimostrano le diverse lettere “di risposta” scritte da
Garibaldi e conservate presso l’Archivio storico risorgimentale del Museo Civico Garibaldi di Como
(Archivio Mori, cart. XVI, fasc.1), ad esempio una
minuta indirizzata alle “carissime e gentilissime
donne di Como” che scrisse da Caprera il 6 gennaio
1863 e che probabilmente consegnò nelle mani del
medico comasco Gilberto Scotti, giunto in visita:
“Voi m’avete mandato una parola d’affetto, ed un
felice augurio, io v’invio l’anima mia. A voi mi legano certe reminescenze che non possono finire. Io le
ricordo con orgoglio baciandovi la mano”.
Nell’Archivio Mori (cart. XVI, fasc. 6) abbiamo trovato uno dei piccoli dipinti rappresentanti la casa
di Garibaldi a Caprera che Luisa De Orchi, improvvisatasi pittrice, si era messa a vendere per raccogliere denaro per la liberazione di Roma e Venezia.
Il Corriere del Lario nel numero del 26 aprile 1862,
pubblicava una sorta di “rendiconto” dei dipinti
della De Orchi, da lei stessa stilato: 200 le copie vendute (il costo variava da L. 1 a L. 3)con un introito
di L. 370, denaro che inviò direttamente a Garibaldi, con cui ebbe sempre contatti. Alla fine la donna
ringraziava di cuore “le buone patriote di Como”
che l’avevano coadiuvata nella distribuzione. Ringraziava inoltre “Elena Sacchi in Genova, Ida Rampoldi di Gessate, ed in particolar modo la benemerita signora Laura Mantegazza Solera di Milano”.
Un’altra iniziativa patriottica intrapresa dalle donne di Como fu il dono di due bandiere alla Brigata
Cacciatori delle Alpi, che nel maggio del 1860 aveva assunto la definitiva denominazione di Brigata
Alpi.
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gd
donna e/o madre
Identità femminile
e maternità
due universi autonomi
Suscita polemiche in Francia il libro della filosofa francese Elisabeth Badinter
Le Conflit la femme et la mère – A settembre uscirà anche in Italia
di Maria Tatsos
L
a maternità è davvero l’essenza dell’identità femminile? Il desiderio di avere un figlio è il denominatore comune di tutte le donne, a qualsiasi
latitudine? Chi sceglie di non avere figli è una perfetta egoista? A questi interrogativi, la filosofa femminista francese
Elisabeth Badinter ha dedicato il saggio Le Conflit – La
femme et la mère (Flammarion) che alla sua uscita lo
scorso anno in Francia è diventato subito un bestseller e
oggetto di grandi polemiche. Al punto che l’autrice è stata bollata da alcuni come “veterofemminista”. A settembre
sarà pubblicato finalmente anche nella traduzione italiana,
da Corbaccio. E si può prevedere che farà discutere, essendo
l’Italia al contempo patria del mammismo e uno dei Paesi
che meno sostengono le madri, con il risultato che il nostro
tasso di fecondità è fra i più bassi d’Europa.
minismo contemporaneo, che esalta un ritorno alla
natura. Insieme dipingono il ritratto della madre
ideale: totalmente devota al bebè, che deve allattare
a oltranza - finché lui lo richiede - a lavare pannolini ecologici per non inquinare l’ambiente e a decifrare grugniti e vagiti del neonato.
Attenzione, donne: portata all’estremo, questa visione diventa la migliore alleata del maschilismo
più spinto. Incoraggiare le madri a consacrarsi totalmente al bambino e a ogni suo desiderio significa
allontanarle dal mondo del lavoro che è sinonimo
di autonomia, non solo economica. Una pacchia
per l’uomo di casa, che in Italia è già più restio che
altrove a condividere il carico del lavoro domestico.
Un toccasana per la coppia? Non necessariamente.
“Fare un figlio modifica sempre gli equilibri”, com-
La filosofa, 67 anni, che è madre di tre figli e nonna, è nota per le sue posizioni controcorrente.
Questa volta, il suo è grido d’allarme. La crisi economica con il dilagare della disoccupazione e del
precariato ha colpito soprattutto le donne. E la sirena di un’ideologia naturalista le sta seducendo.
“Se il mondo del lavoro è deludente e non vi dà il
posto giusto che meritate, né lo status sociale e l’indipendenza economica che sperate, perché farne
una priorità?”, scrive Badinter, per illustrare questa
posizione. C’è una generazione di giovani donne,
cresciute da madri perennemente stressate tra famiglia e lavoro, che di fronte a questa situazione
si è convinta che “le cure e l’educazione dei loro
bambini potrebbero essere il loro capolavoro”. In
fondo, l’istinto materno non è quanto di più naturale esista? A spingere le donne verso casa c’è una
coalizione eterogenea composta da ecologisti, studiosi del comportamento umano e un certo fem32
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donna e/o madre
menta Paola Leonardi, sociologa, psicoterapeuta e
fondatrice della Scuola di Socio-psicologia delle
donne a Framura, in Liguria. “Il neonato dipende
totalmente dalla madre, che subisce cambiamenti
fisici, psicologici, sociali. Il rapporto fusionale fra
madre e figlio a volte può allontanare il padre”. Il
sesso va in crisi e la coppia scoppia. Elisabeth Badinter difende il modello materno francese, che ha
radici storiche precise. Non a caso, la Francia è il
gd
Paese in cui sono stati inventati i nidi e gli asili.
Presso la nobiltà, in seguito imitata dalla borghesia, una donna era, nell’ordine, sposa, persona con
doveri sociali e infine madre. Ecco perché era invalsa l’abitudine di affidare i neonati a una nutrice.
L’identità femminile non poggiava solo sulla maternità. Eredi di questa cultura, le francesi sono fra
le poche europee a fare felicemente figli e a rientrare al lavoro, senza sentirsi troppo in colpa per non
essere madri a tempo pieno.
Certo, dagli anni Settanta a oggi, la condizione
femminile è mutata radicalmente. Molte di quelle
donne che hanno portato avanti le battaglie femministe hanno rotto con la generazioni delle loro
madri, scegliendo di non avere figli. Lo raccontano
in una serie di interviste Paola Leonardi e Ferdinanda Vigliani nel libro Perché non abbiamo avuto figli,
edito da Franco Angeli, facendo parlare la prima
generazione di italiane che hanno vissuto il passaggio dalla maternità per obbligo a quella per scelta.
Avanguardia di un cambiamento epocale, che consente oggi alle donne di rivendicare a testa alta la
scelta di essere childfree, senza figli per libera scelta.
È quella “ridefinizione dell’identità femminile” di
cui parla anche Badinter.
Secondo una ricerca della sociologa americana
Kristin Park, la motivazione primaria delle childfree
è la libertà, che la condizione di non-madri offre
per la crescita personale e l’autonomia affettiva ed
economica. Sono per lo più donne metropolitane,
colte e con prospettive di lavoro e gratificazioni
per la propria autostima. Ma in Italia l’immagine
della donna senza figli continua a oscillare fra la
vittima di un destino avverso e l’egoista dedita solo
a compiacere se stessa.
“È ancora forte il peso della riprovazione sociale,
commenta Paola Leonardi. “In realtà, come vedo
dalle donne che frequentano la nostra Scuola, c’è il
desiderio di capire quali sono i propri desideri. La
completezza del proprio essere donna non passa
per forza attraverso i figli”.
Insomma, se da una parte c’è chi tenta di far leva sui sensi di colpa delle madri per rispedirle a
casa, dall’altra ci sono donne che non ci stanno
più. Donne che vogliono avere tutto, soddisfazioni
professionali e materne al contempo. E donne felici, anche senza essere madri.
“Che si voglia o no, la maternità è solo un aspetto
importante dell’identità femminile, non più il fattore necessario per acquisire il sentimento di pienezza del proprio sé femminile”. Parola di nonna
Elisabeth Badinter.
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donna e/o madre
Uniamoci per avere aiuto
e diventare madri
L’ultimo saggio di Nicoletta Sipos Perché io no? Quando non si riesce a diventare mamma: storie, consigli e soluzioni – 60mila coppie chiedono aiuto alla
scienza – Le difficoltà procedurali spingono molte al turismo procreativo
di Katia Trinca Colonel
N
icoletta Sipos non ha solo scritto un libro,
ha intrapreso una battaglia. Il romanzosaggio Perché io no? Quando non si riesce a
diventare mamma: storie, consigli e soluzioni (Sperling
& Kupfer) non è solo il racconto di un gruppo di
donne alle prese con i problemi della maternità,
è anche una leva che squarcia la disinformazione
sull’infertilità, sulle difficoltà legislative, psicologiche e pratiche che le donne italiane incontrano sulla
loro strada quando decidono di mettere al mondo
un figlio e non ci riescono in modo naturale.
Ogni anno, nel nostro Paese, 60mila nuove coppie
che non possono procreare naturalmente chiedono
aiuto alla scienza. Si parla addirittura di un’emergenza sanitaria. Eppure, la legislazione italiana pone numerosi ostacoli sul cammino di chi decide di
34
utilizzare la procreazione medica assistita. Nicoletta Sipos ha preso a cuore la causa delle coppie infertili e con il suo libro – e il relativo blog che ne è
scaturito – ha lanciato un appello alle donne. Unitevi, fate conoscere le vostre storie, rompete le scatole per ottenere quello che è un vostro diritto, così
che non sia necessario intraprendere il cosiddetto
“turismo procreativo”: vagare per l’Europa (Barcellona, Madrid, Austria, Repubblica Ceca) con
un dispendio economico che solo le coppie benestanti possono permettersi. è giunto il momento
che si riesca, nel proprio Paese, ad avere la massima assistenza, a poter utilizzare tutte le risorse
che la scienza mette a disposizione. E soprattutto,
amiche, non smettete di riflettere su ciò che state vivendo, mettetelo in comune con altre donne.
L’informazione è la cosa più importante per potere
decidere in libertà, senza condizionamenti politici
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donna e/o madre
o religiosi. “L’infertilità è ancora un tabù – spiega
la Sipos – se ne parla poco e male. Poi si conosce
poco il proprio corpo. Le giovani non sono bene
informate sui tempi della fertilità, sul concepimento, la contraccezione. Questo libro l’ho scritto anche per loro, perché sappiano cosa significa cercare
un bambino. Così, quando verrà il momento di desiderare una gravidanza, saranno più preparate.”
Le storie di Angelica (vuole un figlio, non arriva
ma non si pone il problema), Carlotta (niente figli
per convinzione), Rosa (insieme a uomo divorziato che ha già tre figli e in cerca di una gravidanza),
Monica (l’unica felicemente “toccata” da una maternità naturale), Chiara (in cerca del secondo figlio), la 18enne Sandra e le altre numerose amiche
di cercounbimbo.net, tutte le seguiremo nelle loro peripezie tra esami clinici, conta dei giorni fertili, in-
gd
Nicoletta Sipos – giornalista e scrittrice (intervistata da
Laura Dotti per il n.13 del novembre 2010 di Geniodonna)
ha lavorato per diversi quotidiani tra cui Avvenire e Il Giorno, è stata inviata speciale del settimanale Gente prima di
diventare, nel 1994, redattore capo di Chi che ha lasciato
nel giugno 2009 – ha particolarmente a cuore la causa
delle donne e lo ha dimostrato già nel suo primo romanzo “impegnato” Il buio oltre la porta (Sperling & Kupfer)
arrivato alla terza ristampa, storia vera di una signora della
buona società massacrata di botte dall’insospettabile marito. Ha contribuito alle raccolte Mondadori Cuori di pietra
(2007), Facce di bronzo (2008) e Corpi (2009); Alle signore
piace il nero (Sperling & Kupfer, 2009) e al Supergiallo 2010
Eros e Thanatos.
dirizzi di luminari, rocamboleschi viaggi all’estero.
E soprattutto vorremo condividere la nostra storia
e abbracciarle idealmente. Grazie alla battaglia di
Nicoletta.
Felici senza figli è possibile?
Intervista ad Angelica protagonista del romanzo di Nicoletta Sipos
di Alina Rizzi
N
onostante l’indice di natalità italiano sia
bassissimo, sembra comunque che per
una donna scegliere di non avere neppure un figlio sia un’esperienza poco diffusa. Infatti si
discute molto sulla legge 40 che riguarda la procreazione assistita, sui limiti e le difficoltà che derivano dal volere un figlio quando la natura non aiuta.
Il libro Perché io no? (Sperling & Kupfer, 2010, €
17) di Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, offre
un panorama esaustivo dell’argomento, trattandolo
però con la levità e a volte l’ironia di un romanzo.
Un romanzo “corale” in cui si intrecciano le storie
vere di tante donne che hanno voluto un figlio con
l’aiuto della scienza. Tra queste, protagonista del
romanzo, c’è Angelica. Il nome è di fantasia ma la
storia assolutamente autentica. Non è stato difficile intervistare questa donna di 43 anni, manager,
e chiederle come si affronta una tardiva voglia di
maternità negata della natura e alla fine anche dalla
scienza. “Lo dico nel finale del romanzo e ci credo
fermamente: non è stato facile ‘resettarmi’ per affrontare l’esistenza non più come futura madre ma
come donna, e basta. Ciò nonostante non ho voluto cedere alla tentazione di commiserarmi. Mi sento completa come donna anche se, come ha detto
qualcuno, non si smette mai di desiderare un figlio
proprio. Ma posso assicurare che si può vivere una
bella vita, piena e serena, anche senza figli.”
Ma Angelica non è giunta a questa conclusione senza aver tentato tutte le strade possibili
per diventare madre, e non ha problemi a raccontarlo.
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gd
donna e/o madre
“Ho conosciuto Massimo, il mio attuale compagno, il primo anno di università e la sera stessa
in cui ci siamo conosciuti abbiamo fissato la data
delle nozze: 9/9/99, ma non ci siamo mai sposati. Però siamo cresciuti insieme, abbiamo finito gli
studi, iniziato a lavorare e comprato la nostra casa.
A trent’anni abbiamo iniziato a pensare a costruire una famiglia. Un giorno però sono stata male,
sembrava un’appendice finita in peritonite, ma nel
corso dell’intervento il chirurgo si è accorto che in
realtà si trattava di una ciste di endometriosi ‘esplosa’ che aveva infiammato il peritoneo. Questo ha
comportato il mio primo cesareo (ironia della sorte, ho subito due cesarei senza fare neanche un figlio) e da lì è iniziato il calvario. A causa di una serie
di errori medici ho avuto un’emorragia interna, ma
non pensavo di aver subito anche un danno riproduttivo.”
Ad Angelica il suo ginecologo non aveva fatto esami approfonditi e lei è vissuta tranquilla, posticipando la maternità a tempi migliori.
Solo a 37 anni, dopo altri interventi, un nuovo
ginecologo ha scoperto come stavano le cose.
“L’intervento mi aveva molto danneggiato le tube,”
spiega Angelica, “e reso molto difficile procreare.
In più, la legge 40 aveva allungato enormemente i
tempi di attesa. Ma il mio orologio biologico correva sempre più veloce. Così, concluso l’iter degli
esami di routine vengo iscritta nelle liste di attesa per una Pma (Procreazione Medicalmente As-
sistita) di 2° livello in una struttura pubblica. Ma
mi viene comunicato che occorrono due anni di
attesa. A questo punto decido di rivolgermi a un
centro privato di una città vicino alla mia, ma esco
dalla prima visita devastata, con l’impressione di
essere solo un’opportunità di ricavo per medici ai
quali non interesso assolutamente come persona.”
Decidi quindi di rinunciare?
“No! Anche perché nel frattempo mi ero avvicinata al sito cercounbimbo.net dove avevo trovato tantissime indicazioni, Dopo questo contatto decido
di tentare la strada estera in Austria, dove trovo
un ambiente completamente diverso da quello del
centro italiano. Con il morale risollevato mi preparo all’avventura austriaca ma, pochi giorni prima
di partire, scopro di essere incinta! La mia felicità
dura poco e alla settima settimana la gioia lascia
posto a un dolore immenso. Non mi voglio arrendere e negli anni successivi supero tutti i limiti fisici
e mentali che mi ero imposta pur di raggiungere il
mio sogno. Passo dal Belgio alla Repubblica Ceca,
dalla Pma omologa a quella eterologa che comporta un lungo e profondo percorso di elaborazione,
ma sempre senza successo.”
Quando hai capito che non potevi andare oltre?
“Nel 2009. A causa di una stimolazione sbagliata
eseguita nella Repubblica Ceca, i miei valori legati
alla funzionalità della tiroide si ‘sballano’ completamente e ci vorrà più di un anno per normalizzarli.
Questo episodio inatteso mi fa riflettere sul fatto
che forse era ora di dire basta ai tentativi.”
Nonostante tu abbia accettato di non diventare madre, aiuti però le altre donne che provano
anche per anni ad avere un figlio.
“Sì. Nel corso di questi anni, incontrando tante
persone e sentendo raccontare tante storie, ho sentito la necessità di fare qualcosa per aiutare chi si
trovava in una condizione simile alla mia. Tramite il sito cercounbimbo.net ho cercato di raggiungere
più persone possibili, mettendo a disposizione la
mia storia e quella delle mie amiche, anche per il
libro di Nicoletta Sipos, così da fornire informazioni utili alle coppie che si scoprono infertili (una
su 4), ma anche a tutte le donne (e sono tante!) che
non sanno bene come funziona il proprio corpo.
Le moltissime testimonianze che sono arrivate al
sito in questi tre mesi di vita del libro mi hanno
commosso e convinta di aver fatto la scelta giusta.”
Il servizio fotografico per donna e/o madre è di Marco Boriani.
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chirurgia plastica
gd
Vocazione
non solo lavoro
di Graziella Lupo*
S
ul primo numero che ho ricevuto di Geniodonna (n° 9)
ho avuto la soddisfazione di
trovare presentata una mia intervista, quale donna chirurgo plastico.
La cosa mi ha fatto molto piacere,
perché ho dedicato tutta la mia vita
e con la massima passione a questo
mestiere che non ho mai considerato solo un “lavoro”, ma una vocazione personale: io dovevo fare
proprio quello. Mi ricordo che già
a tre anni d’età, quando mi chiedevano cosa avrei fatto da grande,
rispondevo sempre: “il dottore”.
Tutti i miei giochi sono stati ispirati quasi esclusivamente a quel mestiere che io non giudicavo tale, ma
alla stregua di un bellissimo “gioco” del quale non ho mai potuto
fare a meno.
Ho avuto una vita molto fortunata,
ho potuto esercitare la mia professione per cinquant’anni senza mai
fermarmi e ne ero felice. Naturalmente ciò ha comportato dei sacrifici, che non ho mai considerato
tali, ma solo strade per raggiungere
la meta. Non mi stancavo di lavorare, e la vita ospedaliera mi si calzava come un guanto. L’amore per
e dei miei pazienti mi ha largamente compensato di qualche fatica in
più. Naturalmente l’inizio è stato
arduo, tuttavia ho avuto la grande
fortuna di avere un maestro, allora
unico al mondo: il professor Gustavo Sanvenero Rosselli, al quale
devo tutto il mio sapere nel campo
della chirurgia plastica. Dopo quarant’anni di primariato ho dovuto
– con sommo rincrescimento –
lasciare l’ospedale per raggiunti limiti d’età, ma, grazie al cielo, ho
potuto continuare a lavorare ancora, privatamente, sino a 83 anni.
Poi c’è qualcuno che ha detto: “Alt,
ora basta, hai lavorato abbastanza!”, e un piccolo ictus mi ha ridotto all’inattività chirurgica. Non
l’ho considerata una catastrofe, ma
un segno del Signore che mi diceva
di smettere, cosa che non ero capace di fare da sola. Da una vita
di totale abilità ho dovuto imparare a essere “diversamente abile”
come sono ora. Ho colto tuttavia
l’occasione per seguire la mia passione per la pittura, per mettermi a dipingere, cosa che ho fatto
con grande entusiasmo grazie a un
valido e noto maestro, Germano
Bordoli, al quale va tutta la mia riconoscenza. Ecco, ora ho 90 anni
e da otto ormai sono “ferma”, ma
ho una bella carrozzina elettrica
con cui posso ancora uscire da sola. Naturalmente gli anni sono tanti, e passano, ahimè, con la velocità
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mentre gli acciacchi non mancano.
Non ho mai avuto rimpianti! Solo
riconoscenza di aver potuto con le
mie mani fare più felici tante persone e questa è solo gioia. Purtroppo vivo sola, i miei più cari amici
sono morti o più infermi di me e
non possiamo mai incontrarci. Sono sempre più curiosa delle cose
del mondo attorno a noi, ma con
grande dispiacere vedo che queste
cose non vanno come dovrebbero
andare: la guerra, gli omicidi continui, i rapimenti, la fame, la disonestà, la mancanza di lavoro…
Ma i veri colpevoli siamo noi, non
il Padre Eterno, che ci ha regalato
un mondo meraviglioso del quale non siamo capaci di capire e di
gioirne la magnificenza ogni giorno. Un fiore che sboccia, il mio
gatto che dorme beato, il pensiero
dei miei genitori, pochissimi amici rimasti, una telefonata, un raggio di sole. Non posso non essere
riconoscente. Ho avuto un’infanzia felicissima con dei genitori assolutamente straordinari, loro non
ci sono più, ma vivono sempre in
me. Non sono religiosa, nel senso
stretto della parola, ma porto un
rispetto infinito per tutto ciò che è
Vita, che ci è elargita. Aspetto con
fiducia la fine perché sarà stabilita e condotta da un “Altro”, e non
da me per fortuna. Se siete invalidi
e vecchi, cercate di essere riconoscenti verso coloro che hanno cura
di voi: sono i nostri angeli. Pensate in positivo. Ci sono ancora tante
cose da scoprire anche da vecchi:
la vita è una scoperta continua,
non ve ne siete ancora accorti?
*Chirurgo plastico ex primario all’Ospedale
Sant’Anna di Como
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Intervista alla scrittrice
Deborah Gambetta
Vivisezione una ferita
di Marialuisa Righi
tuivo quanto fosse insultante costringere un animale in gabbia e
crescendo ho approfondito, elaborato questo mio “sentire” leggendo, informandomi sui diritti
e sul destino degli animali.
“Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ogni tanto ci dica: ‘ Non temere, è tutto a posto, anche se non è vero
per niente, anche se le cose, a posto,
non lo sono affatto.’ Questa la riflessione di Stefano Marri, protagonista
dell’ultimo avvincente romanzo scritto
da Deborah Gambetta per la collana
Verdenero (Edizioni Ambiente) intitolato per l’appunto è tutto a posto.
In copertina l’immagine di un cane nero schiacciato contro una parete grigia,
gli occhi svuotati di preghiere e una cerniera che gli chiude la bocca.
Le pagine del libro cercheranno di
aprire quella cerniera, lasciando che le
vicende umane dei protagonisti diano
voce all’orrore della vivisezione, dei canili lager, del traffico internazionale di
cuccioli e di tutto il rimosso quotidiano
che vede negli animali le vittime predestinate di una discesa agli inferi, con
l’uomo al centro, senza vergogna.
Incontriamo la scrittrice a margine della presentazione al pubblico del suo
libro, organizzato dall’Associazione
Gruppo Ambiente 2 febbraio.
La causa animalista è al centro del romanzo con la vivisezione come cardine su cui
ruota la caduta e la rinascita
del protagonista: perché hai
scelto questo argomento?
Il maltrattamento degli animali in qualsiasi forma sia esplicato mi angoscia, la vivisezione
poi per l’incalcolabile dolore che
causa agli animali è una mia particolare ossessione. Penso che la
vivisezione sia un crimine assolutamente inutile, che non serve
a salvare vite umane ma solo a
mantenere un mercato al cui vertice ci sono le multinazionali farmaceutiche.
Che fare?
Ci vorrebbe una rivoluzione culturale che può passare solo attraverso l’informazione, bisogna
che la gente sappia cosa accade
in quei centri di ricerca e quali
sono le associazioni che usano
ancora la sperimentazione animale, tipo la Theleton. Io sarei
per segnalarle…
Ad esempio, mi sta bene che sui
pacchetti di sigarette ci sia scritto
che il fumo fa male, uccide, avvelena chi ti sta intorno ma vorrei vedere una cosa simile anche
per le associazioni che richiedono donazioni, un banner sotto
la richiesta che precisa: “Se doni a questo ente, vai a finanziare in parte anche la vivisezione, e
la vivisezione è questa cosa qui”.
Come nasce la tua passione
animalista?
Fin da piccola sono cresciuta con
la costante presenza di animali
in casa e fuori, mio padre faceva il rappresentante di mangime
per piccoli animali, lo accompagnavo spesso negli allevamenti,
diciamo che la naturale predisposizione alla cura e osservazione
degli animali ha trovato un terreno fertile su cui crescere. Ero
una bimba che detestava il circo,
rifiutavo di andarci perché non
capivo cosa ci fosse di divertente
nel vedere animali trattati come
pagliacci, snaturati. Già allora in38
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Ed ecco una foto di un gatto o
di una scimmia con un elettrodo
piantato nel cervello.
C’è differenza tra approccio
maschile e femminile rispetto
alla causa animalista?
No, assolutamente, penso sia un
comune sentire che prevarica il
luglio/agosto 2011
animali in gabbia
all’etica della natura
piumini d’oca, scelgo farmaci
da banco generici, uso cosmetici e prodotti per la casa, per
quanto mi è possibile cruelty free,
ho smesso di comprare borse in
pelle. E per le scarpe ci sto arrivando. Controllo sempre che gli
inserti in pelliccia siano ecologici
e mi informo su tutto.
Che cosa pensi dei veterinari
intesi come addetti ai lavori?
Il mio più caro amico è un veterinario, ho sempre avuto il mito del veterinario che non solo
cura gli animali, ma li salva. Il
protagonista del romanzo è un
veterinario e lo è anche la figura orribile che si arricchisce con
il traffico dei cuccioli. Come in
tutte le categorie ci sono i corrotti e gli incorruttibili, certo è
che se tutti veterinari fossero come il mio amico il business dei canili lager e il traffico dei cuccioli
crollerebbe sotto il peso di scelte
etiche e coerenza professionale.
sesso di appartenenza. Credo sia
solo una questione di sensibilità,
di empatia soggettiva.
Come vivi nel quotidiano il
tuo impegno animalista?
Piccole cose, piccoli passi che
fanno la differenza. Sono diventata vegetariana. Non compro
Si può sperare in un mondo
senza più questo assordante e
inascoltato dolore?
Penso che, se l’evoluzione esiste,
una concezione dove gli animali
non siano più considerati oggetti
ma esseri senzienti sarà inevitabile. Il mio sogno è che la gente
smetta di mangiare la carne, ma,
senza arrivare a tanto, basterebbe
insegnare il rispetto per la vita e
la morte di ogni creatura vivente.
Il fermo immagine che ti strazia di più e quello che ti consola?
Vedere un animale in gabbia. La
consolazione è che ci sia della
gente che apre quella gabbia.
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
Qual è il tuo animale totem?
Senza dubbio il gatto. Sono
avanti millenni…
ANIMALI “SACRIFICATI”
N
el triennio 2007-2009 sono
stati uccisi a causa della vivisezione oltre 1.200 scimmie e 2.571
cani, tanto per citare gli animali più
vicini all’uomo. Il numero complessivo di animali “sacrificati” è molto
maggiore e risponde alla cifra di
2.603.671 (in lieve calo rispetto al
triennio precedente quando erano
2.735.887). Le specie più utilizzate rimangono topi (1.648.314) e
ratti (682.925), seguite da uccelli (97.248), altri roditori e conigli
(73.362) e pesci (59.881).
“Animali largamente impiegati a
causa del loro basso costo e perché
facilmente maneggiabili, piuttosto
che per ragioni strettamente scientifiche” scrive la Lega Antivivisezione
(Lav).
Dai dati appena pubblicati in Gazzetta Ufficiale emergono due aspetti
sconcertanti: l’aumento dell’utilizzo
di primati, una categoria di animali
che dovrebbe essere protetta dal
decreto legislativo 116/92, il cui
impiego dovrebbe rappresentare
un’eccezione e non una regola.
Pessimo destino anche per i cani impiegati “per esperimenti fortemente
invasivi” scrive la Lav “che comportano alti e prolungati livelli di dolore come studi di tossicità e indagini
legate a problematiche nervose e
mentali umane e cancro”. Il secondo aspetto è rappresentato dall’aumento degli animali utilizzati vivi e
soppressi per fini didattici. Anche in
questo caso, così come per i primati, si dovrebbe trattare di un’eccezione, grazie soprattutto alla legge
413/93 che dà diritto all’obiezione
di coscienza, una “legge” scrive la Lav
“che evidentemente rimane silente
o addirittura viene ostacolata”.
39
gd
nucleare
Vogliamo vivere senza minacce
Nucleare
Dopo Germania e Svizzera, anche il popolo italiano col referendum dice no
all’energia atomica, sconfessando il Governo e salvaguardando salute, ambiente e avvenire dei figli – Affermata anche l’eguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge e l’acqua come bene di tutti
di Pierangelo Piantanida
dotta col Decreto Omnibus è stato
spazzato via e sono state respinte le manovre denigratorie sullo strumento referendario. Una
scelta, quella dell’elettorato, che
non solo è affluito copiosamente alle urne, raggiungendo un
quorum di oltre il 57%, come da
decenni non si vedeva nel Paese, ma che con una maggioranza
schiacciante, più del 95% dei votanti, ha segnato quella che dovrebbe essere la parola fine per
l’atomo, come è stato costretto a
riconoscere lo stesso Presidente
del Consiglio, secondo cui “dovremo dire addio al nucleare dopo il voto popolare”.
V
enticinque milioni e
mezzo di “sì” per dire
“no” all’energia atomica. Tanti sono stati infatti gli italiani che hanno scelto di abrogare
il nucleare, di tutelare l’acqua come bene comune e non come
merce, e di affermare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge, senza alcun salvacondotto
per il presidente del Consiglio, i
presidenti delle Camere e i ministri. Sul nucleare è stata bocciata
senza appello la costruzione di
nuove centrali in Italia: il trabocchetto della “moratoria” intro-
40
- GD n.
21/22 -
Oggi come 25 anni fa
Un voto arrivato sull’onda lunga di quanto accaduto 25 anni
fa a Chernobyl – e per la cronaca si ricorda fra le maggiori
affluenze ai referendum la consultazione del 1987, guarda caso
riguardante proprio l’abbandono
dell’atomo all’indomani del disastro in Bielorussia –, ma che ha
trovato sicuramente vigore dopo
l’incidente all’impianto giapponese di Fukushima. Evento che
ha dimostrato, una volta di più
e si direbbe “al di là di ogni ragionevole dubbio”, l’intrinseca
rischiosità e pericolosità di tali
strutture per l’ambiente e la sa luglio/agosto 2011
nucleare
liberi di scegliere, uguali nei diritti
gd
L’erba del vicino è più verde!
Così la confinante Svizzera, attraversata da grandi mobilitazioni come non accadeva da tempo,
con 15-20mila persone a darsi appuntamento nei pressi del-
la centrale di Beznau, nel nord
del Paese, il cui Consiglio Federale ha deciso che non verranno
eretti nuovi impianti dopo che i
cinque esistenti termineranno il
loro ciclo vitale (fra il 2019 e il
2034).
Ma soprattutto ha indicato per
il domani una nuova strategia
energetica, che entro il 2050
porterà la Confederazione a prediligere il risparmio e l’efficienza
oltre che l’energie pulite, potenziando cioè l’idroelettrico e le
fonti rinnovabili: utilizzando i
combustibili fossili (con impianti di cogenerazione e centrali a
gas a ciclo combinato solo se necessario).
Di decisione “irreversibile” ha
parlato pure il Governo tedesco
(stimolato dalle decine di migliaia di manifestanti da Berlino a
Monaco, da Amburgo a Friburgo…), che farà terminare l’esistenza delle 12 centrali del Paese
entro il 2022, per optare su “una
nuova strada”, ha dichiarato la
Cancelliera tedesca Angela Merkel, in cui “l’elettricità del futuro
sia sicura, affidabile ed economicamente sostenibile”.
Prima potenza industriale a rinunciare all’energia atomica, la
Germania dimostra, come sostengono scienziati e ambientalisti, che una strategia energetica
che non prevede tale forma di
approvvigionamento energetico
è tutt’altro che utopistica e irrealizzabile, ma che può essere perseguita.
E ciò grazie a un mix di azioni
quali la riduzione del consumo
di elettricità, il coinvolgimento
delle industrie energivore, l’adeguamento delle abitazioni per
renderle più efficienti a livello energetico, l’incremento della quota di energia derivante da
fonti rinnovabili e la diminuzione delle emissioni di gas serra.
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
41
addio!
lute delle popolazioni: la fissione
nucleare non è controllabile, una
volta innescata. E poi vi è il pericolo per le generazioni future a
cui verrebbero lasciate in eredità delle vere “bombe ad orologeria” e l’insoluto problema delle
scorie radioattive, con cui convivere forzatamente per centinaia,
migliaia di anni.
Una scelta razionale di salvaguardia, non frutto soltanto
dell’emotività, ma che riprende
considerazioni ambientali, sanitarie, economiche e sociali fatte
proprie dalla maggioranza degli italiani, grazie anche al grande sforzo compiuto da una larga
fetta della realtà civile (organizzazioni ecologiste in primis) per
favorire l’informazione e la sensibilizzazione sulle tematiche anti-nucleari. Temi compresi, come
s’è visto, dalla maggior parte dei
nostri concittadini, che si sono
dimostrati capaci di ragionare
sugli avvenimenti, di saperli vagliare a differenza della ottusità
del governo accecato dal giro di
affari che la combriccola nucleare si porta appresso.
Tutto al contrario di quanto è accaduto recentemente in altre nazioni: la Germania, la Svizzera e
in parte la Francia, Paesi in cui
proprio l’evento nipponico ha
aperto gli occhi alla classe politica dirigente, che ha saggiamente
deciso di abbandonare l’opzione atomica per i propri bisogni
energetici.
gd
vita sulle cime
Le donne dei rifugi montani
centro di calore e di sapienza
La presenza femminile ha assicurato la sopravvivenza di insediamenti familiari in alta quota come punti di ristoro
di Giuliana Panzeri
pravvivere fino ad oggi grazie
all’attività di rifugio o di trattoria
praticata tradizionalmente, ma
anche per la continuità rappresentata da una figura femminile
che ha accomunato almeno una
parte di essi: in questi punti di
ristoro, di accoglienza, di vero e
proprio ritrovo sociale in suggestivi e panoramici ambienti naturali, la madre di famiglia era un
vero e proprio perno materiale e
psicologico nei molteplici ruoli
di cuoca, dispensiera, organizzatrice del servizio ai tavoli, punto di riferimento per le mansioni
di marito e figli e per l’armonia
dell’ambiente.
La storia di queste donne è fatta
di una quotidianità dura ed operosa, condotta per l’intero arco
dell’esistenza in rapporto diretto
con l’ambiente di montagna, la
sua severità e la sua dimensione
libera e grandiosa, ma anche di
L
’Alpe di Carella, baita ristorante che domina il
paese di Eupilio, è un antico insediamento tra i tanti sorti sui diversi versanti del monte
Cornizzolo, avamposto prealpino del Triangolo Lariano: uno
degli alpeggi dalla tradizionale
economia silvopastorale ancora
numerosi e in piena attività dopo
l’ultima guerra.
Ma negli anni ’50 del secolo
scorso le cose avevano iniziato a
cambiare: sul versante nord della montagna, in val Ravella, gli
alpeggi venivano abbandonati o
addirittura abbattuti per lasciar
posto alla foresta e a una nuova idea di bosco e di natura, figlia dell’economia moderna e dei
suoi rituali di evasione.
Eppure, alcuni di questi insediamenti sarebbero riusciti a so-
42
- GD n.
21/22 -
capacità di accoglienza e di mediazione.
Dalla Pia
Molti, ad esempio, ricordano ancora che, fino agli anni ’80 e oltre, chi si proponeva di passare
dall’Alpe di Carella diceva soltanto: “Andiamo dalla Pia”.
La Pia – Pia Ratti, classe 1921,
scomparsa nel 2004 – era quasi
un’istituzione, sempre presente
con il suo sguardo vivace sotto la crocchia dei capelli rossi
poi striati di grigio; il suo grande grembiule nero appariva dalla cucina dietro le grandi pentole
che diffondevano gli aromi del
brasato e della lepre in salmì, sostava al banco per servire vino e
caffè, si dileguava verso la stalla per poi tornare con il secchio
caldo del latte appena munto,
senza fare mancare una parola e
un saluto.
luglio/agosto 2011
vita sulle cime
Monte San Primo.
Da Maria Pia e Iside
Più a nord, nel cuore del Triangolo Lariano, nella baita ristoro
di famiglia sui monti di Sormano, ai piedi del San Primo, sui
prati alti da cui affiorano maestose le Grigne, ancora oggi è
Maria Pia Ceresa, classe 1937,
a cucinare la polenta con il brasato, il coniglio, il capriolo. Il lavoro in montagna per Maria Pia
non è però iniziato qui: i ricordi
più intensi sono quelli della gestione del Rifugio Palanzone, a
quasi 1300 metri di quota. Fu il
marito, Flavio, racconta la donna, a decidere per questa attività all’indomani del matrimonio,
nel 1964, e lei si adeguò a questa scelta dovuta alla necessità.
Fu così che Maria Pia conobbe
l’ambiente spettacolare e difficile
della montagna, quello in cui ancora oggi iniziano i suoi mattini:
“Salivamo fin lassù da Palanzo,
il nostro paese, con il cavallo, e
più tardi, in jeep; d’inverno, con
la neve, si saliva a piedi, con i
bambini ben imbacuccati.” A gestire il rifugio erano spesso Maria Pia e la suocera, Iside: fu così
che il passaggio del sapere che è
il cuore stesso dell’accoglienza,
le ricette di cucina, avvenne da
suocera a nuora, e quei piatti tradizionali sono ancora oggi il vanto dell’attuale ristoro.
Da Martina e Giuliana
Sull’altro versante del Monte
San Primo, che domina il promontorio di Bellagio e l’Alto La-
gd
rio, Martina Boleso, di Lezzeno,
giovane sposa nel 1921, era destinata a dare il suo nome al rifugio che il marito volle costruire
pochi anni dopo accanto all’alpeggio di famiglia, a oltre 1200
metri di quota. Più tardi toccò alla nuora, Giuliana Vaccani, di fare i conti con quel luogo di cui
la suocera era ancora il perno –
lo sarà fino agli anni ’70 – ma la
cui continuità, fino alla moderna
gestione attuale, sarebbe poi stata riposta nelle sue mani. Circa
le scelte di vita delle due donne,
nonna Giuliana, conversatrice
brillante e senza peli sulla lingua
dall’alto dei suoi 83 anni, assicura: “Allora comandavano gli uomini” dice convinta “e ci siamo
adattate per necessità. Da Lezzeno, sul lago, si saliva a piedi fin
lassù e prima che al rifugio, si doveva star dietro all’alpeggio e agli
animali, con la paura dei fulmini
d’estate e delle valanghe d’inverno.” Ma quella vita finì per appartenere a Giuliana, e per farle
ereditare quel ruolo centrale e
insostituibile che già era stato di
Martina. E i piatti a base di polenta che ai nostri giorni decretano il successo del rifugio sono
ancora una volta frutto del passaggio di saperi.
Veduta dall’Alpe Carella - Cornizzolo sul lago di Pusiano.
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
43
gd
video squillo
La studentessa
si prostituisce
per pagare le spese
e avere denaro
Intervista a una giovane video squillo, una cam-girl – Dalle foto messe sul
web agli incontri per appuntamento alla creazione di un giro di habitués
di Maddalena Massafra
no consigli per trovare lavoro.
Un ragazzo mi ha contattata per
segnalarmi un sito nel quale, a
suo dire, avrei potuto guadagnare molto in breve tempo.”
Il sito in questione è molto visitato, ce ne sono tanti. è il regno
delle cam girl, ragazze video squillo, spesso poco più che maggiorenni, che si spogliano davanti
allo schermo di un computer, e
per farlo si fanno pagare bene.
Usano nickname accattivanti per
chattare con i clienti. Sono sexy,
disinibite, trasgressive. Sono le
Lolite del terzo millennio, viaggiano veloce, su banda larga, si
destreggiano ai bordi di una prostituzione senza sporcarsi troppo le mani, la coscienza.
“I voyeur del web – racconta Sara – pagano profumatamente
per qualche minuto di conversazione, se così possiamo definirla.
Si spendono fino a 150 euro, di
cui 70 vanno ai responsabili del
sito e 80 a me. Studiavo sempre
con il computer acceso e quando qualcuno mi contattava accendevo la cam per mostrarmi.
Poi riaprivo i libri e continuavo
a studiare.”
M
i sono incontrata con
Sara, ventitre anni,
mia coetanea e con la
sua storia: si mantiene agli studi
universitari prostituendosi. Non
è stato semplice ascoltarla, mettendo da parte i pregiudizi, lo
ammetto.
Prostituzione: di solito sinonimo di violenza, tratta di schiave,
coercizione, degrado. qui è una
scelta, storie di ragazzine che
si vendono, senza scendere sul
marciapiede. Quella di Sara D. è
una di queste storie, che squarcia il velo sulla prostituzione
studentesca: mamma casalinga
e papà operaio, ragazza normale, sogna di diventare avvocato;
ma nel frattempo, tra una lezione e l’altra, si sfila jeans e maglietta da studentessa modello,
per indossarne altri, più succinti
e trasgressivi. La “prostituzione
part-time” – come la definisce lei
– per Sara è arrivata quasi per caso, con Internet.
“Un anno e mezzo fa stavo chattando su un forum di discussione
nel quale gli studenti si scambia-
44
- GD n.
21/22 -
Il portale precisa di non essere
un sito di escort, bandendo nel-
luglio/agosto 2011
video squillo
la maniera più assoluta la parola
“incontro”.
“Tuttavia – come spiega Sara
– il confine tra la cam e il letto
può essere molto sottile: tramite il sito ho conosciuto altre ragazze che, come me, sfruttavano
il proprio corpo per mantenersi.
Una di loro mi disse che, oltre a
vendersi su Internet, lo faceva
anche dal vivo e che i guadagni
erano nettamente superiori. Ho
deciso di provare. Ho aspettato
che mi contattasse uno dei clienti abituali e poi gli ho proposto
un incontro dal vivo. Lui, ovviamente, ha accettato. Aveva l’età
di mio padre.
Le prime volte ti senti sporca,
colpevole. Poi, pian piano, ci fai
l’abitudine, e a quel che non ti
abitui sopperiscono i soldi. I pri-
mi incontri sono serviti da volano per nuovi appuntamenti. Nel
giro di qualche mese sono riuscita a crearmi un giro di clienti e
di habitués non indifferente, con
guadagni intorno ai tremila euro
mensili. Poi – dice sorridendo –
dipende dal mese.”
Sara parla con disinvoltura, sembra sicura di sé, non se ne vergogna, lo fa per il proprio futuro,
come ripete più volte mentre
racconta la sua storia.
“Malattie, gravidanze inattese,
violenze, non mi spaventano
quanto l’idea che i miei genitori
possano scoprire quello che faccio.”
Non è più BambolinaSexy86 che
parla adesso, ma Sara. La stessa
Sara che il fine settimana torna
a casa e dorme nella cameretta
gd
di quand’era bambina, che la domenica accompagna la mamma a
fare la spesa, che poi va a casa
della nonna a mangiare con tutta
la famiglia e fa giocare i cuginetti. La Sara dei buoni voti, degli
esami da trenta e lode. Un velo
di tristezza le offusca lo sguardo,
ma solo per qualche istante, poi
ritorna ad essere impenetrabile,
come sempre.
Nello spiraglio di confidenza che
s’è creato, domando perché lo fa.
“Alcune ragazze fanno le cameriere, altre le baby-sitter, altre ancora lavorano come commesse
nei negozi. Io vendo il mio corpo. Fare l’università è un lusso,
un privilegio che i miei genitori mi avrebbero potuto garantire. Ma a stento, con uno stile di
vita al limite della povertà. Questo lavoro mi permette di pagare l’affitto, le tasse universitarie,
comprare tutto ciò che voglio e
avere più tempo per i miei studi
e per il divertimento.”
Prostituirsi per mantenersi all’università sembra una
semplificazione troppo spiccia. Davvero non c’è altro modo per guadagnarsi da vivere?
“La differenza che c’è tra chi lo
fa per necessità e chi invece per
avere accesso a uno stile di vita più elevato, è marginale. La
verità è che, se vuoi, se lo vuoi
veramente intendo, un lavoro alternativo che ti consenta di sopravvivere lo trovi. Parliamoci
chiaro però, un guadagno veloce
ed elevato alletta molto più che
trascorrere il sabato sera a girare hamburger in un fast food, o
a rispondere ai clienti di qualche
call-center che, il più delle volte,
ti appendono il telefono in faccia, scocciati. Certo, devi essere
disposta a scendere a compromessi. Ma queste sono le regole
del gioco.”
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
45
gd
ritmi liberi
Danzatrice e coreografa statunitense creatrice del moderno vocabolario coreografico
Martha Graham
La danza è il linguaggio
libero del corpo
e intimo dell’anima
di Susanna Castelletti
na? Martha Graham
nasce a Pittsburgh
l’11 maggio del 1894
in una famiglia piuttosto agiata. Nel 1911
assiste, in compagnia
del padre, a una perfomance di Ruth St. Denis durante la quale
in Martha sboccia
un grandissimo amore per la danza che segnerà tutte le sue scelte
future. Dal 1913 al 1920
essa si dedicherà infatti allo studio di questa disciplina proprio
presso la Denishawn School di Los
L
’11 maggio 2011 è stato il
117° anniversario di nascita di Martha Graham,
danzatrice e coreografa che ha
costruito la danza moderna: il
motore di ricerca Google le ha
dedicato un doodle (logo) costituito da una sequenza di figure
tratte da schizzi della stessa Graham tracciati attorno al 1930.
Chi è Martha Graham, considerata la più grande danzatrice e
coreografa americana del XX secolo? Quale è stato il suo ruolo
nell’evoluzione di questa discipli46
- GD n.
21/22 -
Angeles diretta dalla St.
Denis e dal marito
Ted Shawn. L’iniziazione presso Ruth St. Denis è
fondamentale dal momento che
essa è una delle figure chiave del
balletto del primo Novecento. Il
panorama mondiale della danza
appare fortemente influenzato
da quello che viene definito come cosmopolitismo culturale.
Contemporaneamente le donne
luglio/agosto 2011
ritmi liberi
iniziano ad acquisire una maggiore consapevolezza di sé che
le porta a rifiutare i principali
modelli diffusi dalla società patriarcale. È in questo clima che si
distinguono le madri della prima
danza moderna: Isadora Duncan
(1878-1927), grazie alla quale nasce la cosiddetta “danza libera”, e la già citata Ruth St. Denis
(1879-1968). Donne che cercano
di fare la differenza danzando!
In questo clima libero e favorevole si forma Martha Graham, il
cui debutto avviene nel 1919 con
un assolo creato appositamente
per lei da Ted Shawn. Da questo
momento prende il via una carriera di interprete lunghissima e
molto intensa che si concluderà
solo nel 1969 con il ritiro ufficiale dalle scene. Dopo svariati anni passati presso la Denishawn
School, Martha si unisce ai Greenwich Village Follies con i quali
nel 1923 debutta felicemente a
New York.
Gesto e psicologia
Il grande successo di pubblico e
di critica ottenuto le permette di
dedicarsi alla sperimentazione e
alla propria creatività coreografica. Nel 1926 fonda la Martha
Graham Dance Company e, in
questi anni, crea tutta una serie
di assoli, nei quali mette in pratica le possibili relazioni tra gesto
e motivazione psicologica. Le
creazioni della Graham hanno
assunto una fortissima valenza
politica e per certi versi dichiaratamente rivoluzionaria: basti
pensare che tra le sue creazioni si annoverano Heretic (ispirata alle teorie femministe); Letter
to the World (un omaggio alla vita
della poetessa Emily Dickinson);
Frontiers (con tematiche legate al
nazionalismo) oppure Chronicle
(opera fortemente antimilitarista). Intanto, nel corso degli anni,
la compagnia evolve – vengono ingaggiati interpreti maschili,
è tra le prime a ospitare ballerini di colore e prendono il via le
tournée internazionali – così come evolve lo spirito creativo della sua fondatrice. A partire dagli
anni Quaranta infatti le pièces risentono della forte influenza dei
concetti della psicoanalisi e della
mitologia classica e, in particolare, delle figure femminili che la
caratterizzano (Medea, Clitemnestra, Fedra…). Nonostante il
successo, nel 1969, all’età di 76
anni, Martha Graham si vede costretta ad abbandonare le scene.
La Legion d’onore
Una decisione che la danzatrice
vivrà molto male e alla quale seguirà un periodo di intensa depressione. Continua però la sua
attività coreografica e non mancano i riconoscimenti: nel 1976
è la prima danzatrice a ricevere
dal presidente degli Stati Uniti la
medaglia presidenziale della libertà e nel 1984 viene insignita
gd
della Legione d’Onore da parte del governo francese. Martha
Graham muore il primo aprile
del 1991 a Barcellona lasciando a perpetuare la sua memoria
non solo la sua compagnia, ma
anche un vero e proprio vocabolario coreografico: il metodo
Graham che nel corso degli anni
ha influenzato e influenza ancora intere generazioni di ballerini
e coreografi.
La libertà del corpo
La base di quest’ultimo è costituita dalla libertà dalle cinque posizioni del balletto classico, dai
suoi passi prestabiliti, dalle scarpette a punta e dai tutù a favore di un approccio gestuale fatto
di principi semplici e dinamici in
una vera e propria arte corporea, attraverso la quale l’essere
umano può esprimere le proprie
emozioni liberandosi da vincoli e da tabù, che permettono al
corpo di esprimersi liberamente senza doversi adattare a rigidi
schemi e posture.
Como, Parco di Villa Olmo, sabato, 9 luglio, ore 21.30 - Prima data tour italiano
MARTHA GRAHAM DANCE COMPANY, Coreografie Martha Graham
luglio/agosto 2011 - GD n. 21/22 -
47
gd
Ticino /aziende virtuose
Pari opportunità?
In azienda si può
di Antonella Sicurello
tro vincitori: Citibank Svizzera (categoria grandi imprese del
settore privato), Ergon Informatik di Zurigo (medie imprese
private), il Dipartimento federale dell’economia (Dfe) con il suo
Ufficio dell’agricoltura (amministrazione pubblica) e il Centro
giovani e famiglia Schlossmatt di
Berna (organizzazioni no profit).
P
remiare le aziende più
virtuose in materia di pari opportunità è da anni
nell’agenda della Società svizzera degli impiegati di commercio
(Sic). Con il Prix égalité, consegnato per la quinta volta a
Zurigo a fine maggio, la Sic attribuisce un riconoscimento che
va oltre il premio monetario di
1.000 franchi: le imprese pubbliche e private che si distinguono
per politiche aziendali a favore
della parità di genere sono un
esempio positivo per il mondo
del lavoro.
Attraverso un questionario, 234
aziende (di cui cinque ticinesi)
hanno tracciato un bilancio sul
lavoro svolto al loro interno a
favore della parità. La giuria l’ha
poi valutato, decretando i quat-
48
È stato consegnato a Zurigo
il Prix égalité istituito
dalla Società svizzera degli
impiegati di commercio.
Tra i finalisti la Cooperativa
Migros Ticino
Da sottolineare lo sforzo compiuto dal Dfe, che negli ultimi
tre anni ha raddoppiato la percentuale di donne con cariche a
livello dirigenziale o di quadro.
- GD n.
21/22 -
E l’Ufficio federale dell’agricoltura ha fatto di più: quattro anni
fa non c’erano donne a occupare ruoli dirigenziali, oggi rappresentano il 33 per cento. La quota
di donne a livello di quadri è passata dal 2 al 32 per cento.
L’esempio positivo
di Migros Ticino
Tra i finalisti, oltre a Banca Coop e alla Polizia cantonale del
Canton Lucerna, c’era anche
un’impresa che parla italiano,
la Cooperativa Migros Ticino.
L’impresa leader nel commercio al dettaglio ha ricevuto una
menzione quale esempio positivo nell’applicazione delle pari
opportunità, soprattutto per l’inserimento di donne tra i quadri
superiori.
“Le pari opportunità rappresentano un aspetto importante della
politica di gestione delle risorse
umane di Migros Ticino”, afferma la portavoce Francesca Sala.
“Le donne sono presenti a tutti
i livelli, in particolare in quelli di
maggiore responsabilità: 19 per
cento tra i quadri, 36,7 per cento
tra i quadri inferiori, 25 per cento nel Comitato di direzione e 40
per cento a livello di Consiglio
di amministrazione, di cui presidenza e vicepresidenza sono occupate da donne”.
Come si sono raggiunti questi risultati? “L’azienda si è dotata di
un metodo di gestione basato su
una valutazione del livello delle
qualifiche necessarie a esercitare ogni singola funzione”, spiega Sala.
“Questo metodo fa capo a un
sistema informatico che, considerate funzione, esperienza e
prestazione individuali, permette
di definire le singole retribuzioni
in modo obiettivo e scientifico”.
luglio/agosto 2011
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