L'ARCHIBUGIO DEL CAPPELLANO I.R. INTRODUZIONE Questi profili di sacerdoti non vogliono minimamente costituire un libro di storia o di storie del clero della nostra diocesi. Per far questo occorrono gli specialisti. E il sottoscritto, che ha avuto sempre come hobby il giornalismo, imbattutosi più volte in preti complici o vittime dei casi più strani della vita, ha ritenuto suo dovere farne conoscere almeno qualcuno. Purtroppo nell'anonimato dei secoli sono scomparse figure sacerdotali che avrebbero meritato di essere messe in adeguato rilievo. Per dirci, che santi e peccatori, intelligenti e originali, seri e umoristi non sono mai mancati nelle file del nostro clero. Quelli che qui segnalo sono stati in gran parte ripescati dagli archivi o suggeritici dall' inesauribile tesoro delle tradizioni orali delle nostre comunità parrocchiali. Onestà vuole anche che io confessi che alcuni di questi racconti già hanno trovato spazio in pubblicazioni più o meno note: il settimanale della diocesi di Padova "La Difesa del Popolo", la rivista "Familiari del Clero", i libri dell' editrice Venilia. Il titolo di questo volume è preso proprio dal primo dei racconti che negli anni '80 ottenne il primo premio di narrativa Arquà Petrarca. Qualcuna delle storie che sono qui raccontate ha avuto bisogno dell'aiuto di un pizzico di fantasia letteraria. Bisogna pur dare una mano a coloro che per pudore o per pigrizia non avrebbero mai scritto certe loro simpatiche o drammatiche vicende personali. L'Autore STORIE CURIOSE DI PRETI 1 L'archibugio del cappellano 2 La lampada del S.S. mo non resta accesa: "Colpa della finestra, signor Abate" 3 Il berretto cardinalizio per un giorno 4 Un prete povero ma creduto ricco 5 Non sopportava la Repubblica di S. Marco 6 Marito e moglie a sorpresa 7 Padovano uno dei cappellani di Garibaldi 8 Tra parroco e cappellano ... basta un pianoforte 9 Il vecchio cappellano diventato papa non dimentica il dialetto veneto lO Chi ha rubato l'uva del papa? 11 Si possono staccare i hattagli anche per una damigiana di vino 12 Tra l'olio dei fascisti e l'amicizia con Nuvolari 13 La campanella interrompe una predica noiosa 14 Vengo a Roma se mi nomina capo delle sacre cantine 15 Quando sul far dell'alba l'arciprete andò a prelevare le campane 16 Al cappellano infreddolito tante scuse e un mantello 17 Quel venerdì santo il crocifisso non si mosse 18 Sottoscrisse con il sangue la sua promessa di fedeltà 19 La guerra, un salame e la testata di un giornale 20 Quando il parroco si fa assolvere dal cappellano 21 E l' insegnante mangiava la pastasciutta. sulla cattedra L'ARCHIBUGIO DEL CAPPELLANO Quando arrivò in paese, tutti sapevano che don Giovanni Domanighetti portava con se l'archibugio che gli aveva regalato suo padre. Ma cosa cifaceva un giovane cappellano, chiamato per dare una mano al parroco don Tommasini con quell'arma? Era arrivato a Carrara San Giorgio quasi alla chetichella. La domenica precedente, il parroco don Pietro Tommasini aveva raccomandato: "Vogliategli bene, è giovane e anche bravo a suonare l'organo". Ma ad accogliere il giovane cappellano non c'era nessuno, perché in quei giorni del luglio 1659 la gente era impegnata nella mietitura. Il grano era maturato tardi. C'era stato un maggio piovoso e un giugno bizzarro, tanto che le donne erano andate in pellegrinaggio al Santo a Padova a chiedere il bel tempo. I cauli erano cresciuti piccoli sui solchi, ma le spighe erano finalmente riuscite a inturgidire: "Avremo pane anche quest'anno" commentavano alla sera i vecchi sulle aie, mentre saliva dai prati odorosi di fieno il canto dei grilli. Don Giovanni non se n'ebbe a male, anche se in cuor suo avrebbe desiderato, com'era costume nella Bassa padovana, che Toni il sagrestano suonasse, per il suo arrivo, la campana grande. Scese dal biroccio davanti alla canonica, prese le sue masserizie e, accortosi che nella grande piazza deserta c'era un ragazzino, lo chiamò: "Mi dai una mano?". Gigi aveva dieci anni, ma ne dimostrava almeno tre di più. Corse verso il nuovo arrivato: "Sei tu - gli disse - il cappellano? Mio papà Santino Pisarello è bravo come te a sparare con l'archibugio". Don Giovanni restò un attimo sorpreso: "Chi ti ha detto che io ho l'archibugio?". Gigi si fece avanti. "Qui in paese lo sanno tutti. Mia sorella ieri ha raccontato che le ragazze del paese hanno saputo che a Ospedaletto ti chiamavano don Archi". Il ragazzino aveva la lingua sciolta e le cose che snoc- 8 ciolò misero il buon umore al cappellano. Lo scarico della roba fu fatto in fretta, grazie anche all'aiuto del parroco che, sentito lo zoccolare del cavallo, s'era affacciato alla porta. "Buon giorno, arciprete" gli disse don Giovanni, subito incuriosito dagli strani occhi cisposi del curato sui quali incombevano due sopraccigli nerissimi e lunghi. Don Pietro lo prese sottobraccio bisbigliandogli tra il serio e il faceto: "Sono contento che il vescovo abbia mandato te. Gira, da queste parti, brutta gente, specialmente alla notte. Sono già venuti a far visita alla canonica. Hanno rovesciato tutto, volevano i soldi. A Battaglia hanno bastonato il parroco, a Sant'Elena hanno messo una corda al collo della perpetua. Viviamo con la paura addosso. Ma adesso ci sei anche tu che sai maneggiare l'archibugio". Il cappellano avrebbe voluto replicare e chiedergli, tra 1'altro, da chi aveva saputo che lui era un archibugiere. La cosa non gli dispiaceva, ma lo disturbava di essere lui prete già etichettato con un titolo che si poteva prestare a tanti equivoci. L'archibugio glielo aveva regalato dieci anni prima suo padre, che era stato tiratore scelto della Serenissima tra gli Schiavoni della Dalmazia. Era un'arma da fuoco bellissima con una canna molto lunga, cesellata con teste di turco e racemi d'ulivo. Portava incisa la data del 1640 ed era uscito da un'armeria di Desenzano dove, si raccontava allora, il proprietario aveva venduto l'anima al diavolo perché gli insegnasse il mestiere dell' armaiolo. Un archibugio di tutto rispetto costava tantissimo; il mercato delle armi a percussione era libero, ma il Consiglio dei Dieci, dopo il ripetersi di efferati delitti nelle campagne della Marca Trevigiana e della Saccisica, aveva istituito un registro per i detentori di qualsiasi tipo d'arma. Anche quella di Domanighetti era stata catalogata e il vecchio funzionario di Padova, addetto a tale compito, aveva scritto in margine alla denuncia del prezioso archibugio: il possessore è un prete forestiero. Don Giovanni infatti era entrato a far parte del clero padovano soltanto dopo la consacrazione sacerdotale ricevuta a Mantova. Ma, era lui stesso ad ammetterlo, non aveva trovato alcuna difficoltà a legare con i preti della nuova diocesi. 9 Dopodomani, seconda domenica di luglio e festa della Madonna del Carmine - gli disse l'arciprete durante la cena - tu predicherai alla messa ultima. CosÌ avrai modo di presentarti ufficialmente alla parrocchia. Alle 11 c'era la messa 'grande' con organo, cantori e addobbi sulle pareti. Il nuovo cappellano si avviò all'altare con passo deciso. Gli occhi dei fedeli si puntarono su di lui: "È bello - dissero le donne dei primi banchi, - guarda che occhi, somiglia a Lanzi (il giovane del paese che aveva preso parte alle guerre di Francia e non aveva paura di nessuno)". I vecchi notarono che era troppo giovane e commentarono sottovoce: "Si farà, se avrà pazienza". Al vangelo, don Giovanni salì sul pulpito e con tono di voce robusto e gradevole parlò della Madonna. Gli scappò a un certo punto una frase che i presenti commentarono con un sorriso di malizia: "La Madre di Dio non ha bisogno di archibugi per difenderci dal demonio". Più tardi sul sagrato i commenti si sprecarono: "La Madonna non ha bisogno di armi, ma se gliene occorressero, c'è don Giovanni pronto a darle una mano". Passata la festa, nessuno tornò più sull'argomento e il nuovo cappellano in breve tempo poté prendere contatto con tutte le famiglie e raccogliere problemi e simpatie. Il parroco, un carattere mite e senza invidia, godeva della stima che il giovane collaboratore si andava guadagnando tra i fedeli. Lo metteva però in guardia da certi tipi che sapevano fare la doppia faccia e i cui nomi saltavano fuori sempre quando accadeva nella zona qualche furto o delitto. "Non ti fidare, don Giovanni. È gente che non ha né arte, né parte, e si serve dell'amicizia del prete per i propri interessi". Peccato che si trattasse proprio dei migliori tiratori del paese: Nando Voltan, Silvestro Borgesse, Nicolò Barbiero, Samuele Fortin. Uscivano insieme e si fermavano all'osteria di Ponte manco a mangiare fagiano arrosto e a discorrere soprattutto di armi. Il più esperto di tutti era naturalmente il cappellano che alla scuola del padre s'era fatto una cultura sugli archibugi. Nessuno come lui sapeva che le prime canne con l'uncino (da qui il nome haak-bus) erano state prodotte nel paese dei mulini e dei tulipani. Poi, passate in Francia, avevano preso il nome di harquebusches, cambiato subito dai soldati di ventura dei conti di Savoia in archibugio. Ce n'era di tutti i tipi: a miccia, a forcella, ad acciarino per lO pietra focaia, e poi quelli a ruota, a percussione e altri da muro, da campo e da posta. Gli avventori della bettola restavano a bocca aperta ad ascoltare i discorsi di don Giovanni che sapeva condire le descrizioni delle armi con i racconti di battaglie e di uomini passati alla storia per la loro mira infallibile. Avevano ragione le ragazze ad insistere nel chiamarlo don Archi, tanto più che lui si faceva vedere spesso con quello che lui chiamava il suo "diletto", cioè l'amico archibugio. Nei pomeriggi ancora assolati del settembre, vestito con un sanrocchino marrone e un cappello dalla larga tesa, percorreva i capezzali dei campi folti d'erba verde, a far la posta alle quaglie, alle cince e alle lepri. Non ne sbagliava una. Tra le barzellette che circolavano in paese c'era quella degli uccelli che, appena lo scorgevano da lontano, si passavano la parola: "Arriva Domani": abbreviazione del cognome dell'esperto cacciatore. Ma fu proprio l'archibugio a tradirlo. Nel1660 la Pasqua s'era preannunciata "bassa" e la Quaresima capitò quasi all'improvviso con giorni ventosi e rive piene di primule. Santino Pisarello, presidente della confraternita della Madonna del Carmine, l'ultimo lunedì di febbraio andò in canonica per scambiare con il parroco un parere sulla situazione contabile del gruppo. Don Pietro lo accolse con grande cordialità, lo fece accomodare in ufficio sulla vecchia poltrona, vicino all' armadio dei registri parrocchiali. Tra un discorso e l'altro: "Perché non vieni una sera a cena con i tuoi? Mangiamo qui un boccone - gli disse - in compagnia di don Giovanni. Non dirmi di no. Ti sono debitore di tanti servizi: mi aiuti nel brolo, vieni alle questue per il paese, tieni l'amministrazione della parrocchia, vai a Padova ogni mese a comperare tutto ciò che occorre a questa benedetta chiesa, fai da padrino per i figli di nessuno e poi, lascia che mi confessi, sei l'unico che ha il coraggio di dirmi quello che si pensa, in paese, nei miei confronti" . Santino diventò rosso: "Lei, signor parroco, è troppo buono con me" rispose con tono che voleva dire: "Grazie dei complimenti, ci sto all'invito". S'accordarono per la sera del 5 marzo, un giovedì in cui sarebbe stato presente anche padre Bonifacio, il 1I francescano che teneva tre volte la settimana la predica del quaresimale. La famiglia del Pisarello era composta dai sei figlioli, oltre ovviamente la moglie e un'anziana zia che nonostante i suoi ottantatré anni, era vispa come una ragazzina in boccio. Una pattuglia consistente, che avrebbe certamente fatto onore alla mensa del parroco. La sera fissata, la canonica era tutta in fermento. Lina, la perpetua, aveva tirato fuori la tovaglia delle grandi occasioni e la posateria d'argento che aveva ereditato dal padre, che a sua volta l'aveva ricevuta in dono dal vecchio conte Mescalchin di Porta Pontecorvo di cui era stato maggiordomo. Dalla cucina usciva un buon odore di tacchino arrosto e di vaniglia e un brontolio di pignatte con l'acqua calda pronta per la pastasciutta. S'era fatto buio pesto. Uno spicchio di luna stava sorgendo oltre le magnolie del sagrato, addormentate tra un andirivieni di piccoli banchi sfilacciati di nebbia. Il parroco commentava con padre Bonifacio le notizie del giorno: "Ho sentito padre, ieri a Padova, che si parla del Barbarigo come nostro nuovo vescovo. Dovrebbe addirittura esserne imminente la nomina". Il cappuccino si fece un attimo pensoso, poi sbottò: "Arriva il castigamatti. Quello, non scherza. Ho saputo che a Bergamo, proprio l'altro mese, ha voluto esaminare personalmente i preti che concorrevano per le parrocchie rimaste vacanti. Su cento, ne ha ammessi appena quattro, e tutti gli altri li ha mandati a studiare". Il cappellano ascoltava in silenzio ma a un certo punto volle dire la sua: "Speriamo che non sia come tanti altri vescovi veneziani, che amano prima la repubblica, poi la chiesa. Mi ha detto il cappellano dei marchesi Papafava, don Giobatta Boscain, che a Bergamo il vescovo Barbarigo mantiene continui rapporti epistolari con il senato veneto. E poi, che è un uomo di grande mortificazione. A proposito di digiuni e astinenze, io ho fame. Non si cena stasera ?" . Erano passate da un pezzo le otto, e il parroco Tommasini era diventato un po' nervoso anche lui nell'attesa: "Va' loro incontrogli disse -. Attento a non perderti e soprattutto, occhi aperti". Era l'epoca e la stagione dei ladri. Non c'era notte che qualche pollaio 12 o stalla non subisse la loro visita. A Monselice, qualche settimana prima, due abitazioni erano state messe a soqquadro e i proprietari bastonati a sangue. Un ragazzino che aveva riconosciuto i banditi era stato rapito e abbandonato più tardi in mezzo ai campi con la faccia gonfia di botte. Domanighetti per precauzione prese l'archibugio, ne lisciò la canna e ridendo disse al parroco: "Il primo che mi capita a tiro lo faccio fuori". Quello lo rimbeccò con allegria: "Toccherà poi a me cavarti dai guai". Il cappellano uscì. Appena sull'uscio sentì il bisogno di tirarsi su il bavero della casacca. C'era una brezzolina tagliente che pare-va spuntare dall'abside della chiesa. Infilò la carrareccia che portava verso lo stradone, di qui, svoltando a sinistra, si avviò verso la casa del Pisarello. Arrivato sull'aia diede un fischio: "Siete pronti? O vi devo portare la cena a domicilio?". Don Giovanni aveva una voce potente, ma ci volle del tempo, perché la pattuglia si mettesse in movimento. C'erano tutti, anche la zia, anche la piccola Nicolosa di sette anni, felice di uscire per la prima volta di notte. "Don Archi - disse affettuosamente Santi no, il capofamiglia - sei venuto a prenderci con l'arma come fossimo dei banditi". Camminavano sul tratturo pieno d'erba, tra un filare di viti ancora spoglie e una riva di pioppi altissimi. "Facciamo presto - raccomandò il cappellano - perché altrimenti dovremo sorbirci la predica di padre Bonifacio. E poi, non vorrei facessimo qualche brutto incontro". Non aveva ancora terminata la frase che senti qualcosa muoversi a distanza. Da giorni in zona circolavano facce poco simpatiche. Erano i "bravi", gente spiantata che viveva arraffando. Portavano la fromboliera piena e lo schioppo carico. Avevano fatto amicizia proprio con la squadra di Voltan, Borgesse, Barbiero e Fortin e s'erano divisi i compiti in modo da tenere in scacco la gendarmeria in tutto il circondario. Improvvisamente si udì un richiamo. Pareva il verso del cuculo, ripetuto e prolungato. Poi una voce stridula che sembrava venisse dalla strada: "Alto là, chi va là". Era il parroco don Tommasini che, preoccupato del ritardo, veniva incontro agli ospiti. Ripeté, sempre con voce irriconoscibile: "Alto là, chi va là". Voleva dare, in questo strano modo, il benvenuto agli amici. Disgraziatamente 13 non s'era ricordato che proprio il mese prima, il procuratore della giustizia di Venezia aveva proibito a tutti i cittadini del LombardoVeneto di usare quella formula intimidatoria "imperocché - era scritto nel bando - viene usata da li cosiddetti bravi, gente sciagurata". Il cappellano sentì rimescolarsi il sangue. Qualcuno dentro l'anima gH comandò: "Figlio del vecchio tiratore scelto, fatti onore". Non ci pensò un minuto. Non ebbe un dubbio. Quelli erano i "bravi". Bisognava dare loro una lezione. Chissà quanti in paese lo avrebbero ringraziato. Dietro di lui la piccola ciurma tratteneva il respiro. Innestò la canna, prese la mira verso un'ombra che si andava sempre più avvicinando in silenzio e sparò. Riecheggiò un colpo secco nell'aria notturna e poi un grido. Don Domanighetti restò fermo qualche attimo, poi, sentendo che dal fondo della strada veniva un lagno, corse, sempre con l'archibugio in mano, verso la pozza detta delle "pecore". Sul bordo, avvolto nel mantello, il parroco, colpito in fronte, mormorava alcune parole incomprensibili. Il cappellano alzò il piccolo fanale che teneva in mano e vide che il sangue usciva a fiotti, trasformando il volto di don Pietro in una maschera spaventosa. La vittima aveva gli occhi spalancati quasi per dire: "Don Archi, che cosa hai fatto?", poi si girò sul fianco, e rimase immobile. I Pisarello corsero in paese urlando: "È morto il parroco! È morto il parroco!". Qualcuno andò al campanile e suonò la campana mezzanella, quella del transito e dei temporali. Fu un accorrere da tutte le case. I più svelti furono quelli della Boschetta che erano nelle stalle a vegliare le vacche malate, poi arrivarono i Bertani che stavano festeggiando Tita Spigarolo che compiva ottant' anni. Don Giovanni si vide perduto. S'era mai sentita al mondo la storia di un cappellano che uccide il parroco? Non l'aveva fatto apposta, ma adesso chi avrebbe spiegato alla gente com'erano andate le cose? Fece un salto al di là della pozza e infilò lo stradone che portava a Padova. Tenendosi lungo il canale, arrivato al ponte della Cagna, lo varcò e si disperse nella campagna di Abano. Laggiù si vedeva qualche lumino occhieggiare sui colli Euganei. Più in alto le finestrelle delle casette dei monaci del Rua quasi improvvisamente s'accesero. Era l'ora del mattutino. Don Archi si disse: "Vado da loro" e corse, come un disperato. Giunse 14 all'eremo che era quasi l'alba, suonò all'uscio e qualcuno aprì. Il giorno seguente arrivò a Carrara il capitano del popolo con una pattuglia di gendarmi. Dov'è il cappellano?". Nessuno ne sapeva niente e i Pisarello, che l'avevano visto fuggire verso la strada principale, si limitarono a rispondere: "Era buio, signor capitano, e poi, avevamo altro da pensare in quel momento". Don Domanighetti, otto giorni dopo, fu processato in contumacia. E la sentenza fu dura. Se l'avessero beccato entro il territorio della Serenissima, sarebbe finito su una delle galere in rotta verso Levante a remare per cinque anni. Lasciò qualche giorno dopo anche il rifugio segreto del Rua e scomparve per sempre. Una traccia del suo ritorno in paese la trovò, qualche mese dopo, il custode del cimitero. Era giugno. Le tombe ricoperte di grosse margherite e papaveri parevano vestite a festa dopo una primavera stentata e piovosa. Quella del parroco don Tommasini biancheggiava di gigli. Sulla lastra campeggiavano queste parole: "Tragico errore lo tolse alla vita, agli affetti, alla sua gente. Pace a lui e all'involontario assassino". Il custode stava scavando la buca per Gino delle Nogare, un poveretto morto di stenti due giorni prima nella sua casupola e che aveva sempre rifiutato il ricovero all'ospizio di Porta Saracinesca. Butta l'occhio sulla tomba del parroco es' accorge di qualcosa che stranamente luccica. Vasi d'ottone, catenelle della recinzione, borchie della lastra? S'accosta e vede appoggiato sullistello del basamento un archibugio. La canna è spezzata e sul fondo, tra le testine di turco e i racemi d'ulivo c'è scritto in rosso: "frater perfuga", il fratello fuggiasco. Don Archi era passato qualche notte prima e inginocchiato sulla tomba, aveva chiesto perdono al povero don Pietro. Adesso erano in pace tutti e due. (Racconto storico l° Premio Assoluto Arquà Petrarca 1989) 15 LA LAMPADA DEL S.S.MO NON RESTA ACCESA: "COLPA DELLA FINESTRA, SIGNOR ABATE" Un curioso interrogatorio nel corso di una visita pastorale svoltasi il 27 giugno 1599 a Civè, una piccola parrocchia che sorge sul terreno riscattato dalla laboriosità dei monaci benedettini ai margini della laguna di Chioggia. Nulla da dire sulla sua condotta morale e pastorale, ma ... Nel 1599 era parroco di Civè (un paesino verso Chioggia, le cui terre erano state riscattate al mare qualche secolo prima dai monaci benedettini dell' Abbazia di S. Giustina in Padova) don Giovanni Piacentini da Crema. Un prete come gli altri della zona, destinati a condividere una vita di sacrifici coi loro fedeli. Il lavoro dei campi che d'estate durava anche diciotto ore, teneva impegnate le famiglie intere. Fatta salva la domenica, c'era poco tempo da dedicare alle attività formative. Quasi tutti i parroci nelle visite pastorali, si lamentano che i genitori non mandano i figli a dottrina. Gli Abati visitatori molto comprensivi si limitano ad esigere che i fidanzati per sposarsi sappiano almeno il Padre Nostro, l'Ave Maria, il Credo e i dieci Comandamenti. Abbiamo detto Abati visitatori, perché i titolari della comunità monastica della gloriosa Abbazia (S. Giustina) avevano acquisito dalla Santa Sede una serie di privilegi, fra i quali quello delle visite pastorali a poco più di una dozzina di parrocchie della diocesi di Padova. La cosa evidentemente non è mai garbata ai vescovi locali che ne hanno fatto in passato un pretesto di innumerevoli polemiche nelle quali fu coinvolto lo stesso S. Gregorio Barbarigo. Il 27 giugno del 1599 si presentò di mattino presto per la visita alla comunità di Civè don Giovanni Evangelista, Abate di S. Giustina. Aveva con sé altri due monaci, più il notaio, colui cioè 16 che era incaricato di redigere il verbale della visita. Salutato il Piacentini, l'Abate visita il tabernacolo, la chiesa, i luoghi adiacenti, le suppellettili. Tutto è in ordine. AI popolo che lo attende in chiesa raccomanda la vita cristiana e l'educazione dei figli, in particolare, l'accordo in famiglia. È poi il momento dei "massari": sono quattro. Tocca loro dare un giudizio complessivo "sulla vita e costumi" del parroco. Dalle risposte fornite singolarmente all' Abate appare chiaro che la pattuglia si è già messa d'accordo sulle cose da tacere e da dire. "Il parroco fa bene l'officio e debito suo et l'ho per homo da bene": nulla da eccepire quindi sulla sua condotta, ma! ' Il primo a sbottonarsi è Luigi ScarabeIlo: "Il parroco è un brav'uomo; chiamato però una volta al capezzale di un moribondo, ritardò di molto l'arrivo, così che l'altro se ne andò senza sacramenti". Il secondo è Lorenzo Biasio, che, premesso un giudizio positivo sul parroco, ha pure lui un "ma" da far presente. Don Piacentini è troppo assente dalla parrocchia, specialmente quando va a Chioggia o a Venezia, e poi non accende mai la lampada del Santissimo. Questa storia della lampada spenta viene ripresa dal terzo e dal quarto massaro: "È vero, sento dire che non accende mai la lampada". E aggiunge: "Con tutto quello che paghiamo noi della parrocchia". Bravo sì, il Piacentini, ma con alcune pecche pastorali. Frutto, queste, di pigrizia o di temperamento? Dopo i massari, ha luogo l'interrogatorio del parroco. Don Piacentini ha pronta la sua difesa: il moribondo non assistito? Ma si trattava di un fedele di un'altra parrocchia, comunque di una zona che sarebbe bene definire una volta per sempre a quale comunità appartiene. Nota bene: il problema è tuttora aperto! I viaggi nelle città vicine? "Ma - dice il parroco - quando prevedo che non potrò tornare puntualmente incarico un altro sacerdote". Non spiega però perché sta via settimane intere senza avvertire i parrocchiani di sua fiducia. La cosa però che disturbò di più l'Abate fu la faccenda della lampada. Lo sorprendeva l'insistenza della lamentela. I fedeli si 17 lagnavano sì, perché in fondo erano loro a pagare l'olio, ma tra le parole c'era un sincero rimpianto perché l'Eucaristia rimaneva sola. Il sapere che la fiammella vicino al tabernacolo ardeva giorno e notte avrebbe dato loro conforto. L'Abate ne chiese conto al Piacentini e questi o facesse il furbo, o volesse inventare pretesti, sbottò in questa battuta: "Ma come? La lampada è quasi sempre spenta? Quei signori che sono venuti a lagnarsene sanno bene che la colpa non è mia". La ragione è un'altra. In presbiterio c'è una finestra rotta e di là entrano il vento, gli spifferi, le "baveselle", per cui bisognerebbe esser pronti ad ogni istante a riaccendere la fiamma. La scusa era banale, ma non maldestra. Toccava all' Abate infatti, far sistemare la finestra, essendo la chiesa proprietà del monastero di S. Giustina di Padova. L'interessato capì la cosa al volo e il giorno dopo, la lampada ardeva tranquilla a fianco del tabernacolo. La finestra nuova campeggiava sulla parete e il parroco godeva della piccola vittoria riportata sui "massari" che a lui erano sembrati pettegoli, ma che in realtà, a loro modo, avevano manifestata la loro fede nell 'Eucaristia. 18 IL BERRETTO CARDINALIZIO PER UN GIORNO In un paese della vallata del Brenta, quasi cinque secoli fa, un vecchio curato ebbe il coraggio di dire no per ripicca al Vescovoprincipe di Trento. Primolano è una delle più piccole parrocchie della Diocesi di Padova, in provincia di Vicenza: 270 abitanti, con le case disseminate all'incrocio della Valbrenta con la Valsugana. In passato aveva anche una funzione strategica: qui confinava 1'impero austriaco, di qui partivano le famose "scale", cioè le svolte strette e ripide della strada, che portavano da una parte a Fonzaso e dall' altra a Feltre. Luogo di passaggio quindi e di traffico. Nella chiesa c'è una lapide che ricorda che "Questo edificio è stato costruito con le offerte dei fedeli e transeuntium, cioè dei passeggeri". Il Parroco che la ideò e la portò a termine mendicò l'elemosina dei carrettieri e dei carrozzieri, per anni, senza badare alle offese più o meno velate che gli venivano rivolte. Adesso vi è Parroco il giovane sacerdote Don Roberto Calderaro che regge contemporaneamente anche la comunità di Fosse di Enego (336 abitanti), situata sulla strada nord-est dell' Altopiano di Asiago. Anche lui, nel giorno dell'ingresso ha fatto la singolare esperienza dell' "imbarettamento cardinalizio". I parrocchiani, concluso il rito canonico-liturgico della presa di possesso della comunità, tra evviva e stappi di bottiglie, gli hanno messo in testa un berretto color rosso-porpora, quale solo i cardinali possono usare. La storia risale addirittura al 1492 ed è riassunta approssimativamente in una pergamena custodita in canonica. In quell'anno (il mese e il giorno non sono indicati), il Parroco di Primolano, allora in territorio trentino, si recò a Trento per sbri- 19 gare alcune pratiche in Curia. Fatto il viaggio a piedi, alla sera arrivò stanco e andò subito a dormire presso amici. Il mattino seguente, prima di risolvere le faccende per cui era venuto, va nella Chiesa - Cattedrale dove chiede di poter celebrare messa. Prima il sacrestano, poi l'arciprete, poi i canonici gli dicono di no: "Qui celebra solo il Vescovo e ... noi". Il povero parroco insiste: "Vengo da lontano, ho le ore contate, non voglio essere privato della messa, proprio qui in Cattedrale ... chissà che cosa diranno i miei fedeli!". Niente da fare. Esce, va in Curia, poi in alcuni negozi per acquisti e verso le prime ore del pomeriggio riprende la strada di casa. È tranquillo, ma ripete più volte in cuor suo: "Me la pagheranno!". E l'occasione della simpatica vendetta si presentò presto. Un giorno, tra le tante persone che di buon mattino arrivavano dalla Valsugana con meta Bassano - Padova - Venezia, c'era anche il Vescovo di Trento. Il Presule, per antica tradizione si fregiava del titolo di Arcivescovo - Principe e addirittura re di un piccolo paese. Lo accompagnava un codazzo di laici e preti, tutti intenti a custodire i cavalli. Scende dalla carrozza e va in canonica, e con un tono amabile, ma anche autoritario, dice al parroco: "Sono di passaggio, e poiché più tardi non mi sarà possibile, vorrei celebrare messa qui, nella sua chiesa". Il parroco lo guarda diritto negli occhi e, quasi gridando perché lo sentano anche quelli di fuori: "No - gli dice - a Primolano Lei non celebra". L'Arcivescovo, non abituato a simili affronti tanto più pesanti quanto provenienti da un Sacerdote, s'irrigidisce e alzando la destra in segno di reazione e di minaccia ripete per tre volte la domanda: "Non sa che io sono il Vescovo-Principe di Trento?". Era proprio quello che il parroco si aspettava. Che importano a un povero parroco di vallata i titoli e le insegne di chi esercita con supponenza l'autorità? Gli vengono in mente i sorrisi di rifiuto ricevuti nella Cattedrale di Trento e risponde baldanzoso e sicuro: "Non sa che io sono il cardinale di Primolano?" Anche lui ripete per tre volte la domanda. Evidentemente non c'entrava, tanto più che il poveruomo era allora semplice curato. Ma quel suo rifarsi 20 alla dignità della porpora deve aver suggerito al Vescovo-Principe di non insistere. Nella famosa pergamena che racconta questa vicenda non sono segnalati i nomi dei protagonisti. Poco importa. Da quel momento i fedeli di Primolano sono stati sempre convinti che il loro pastore è cardinale, almeno nel giorno in cui prende possesso della parrocchia. 21 UN PRETE POVERO MA CREDUTO RICCO Nella bassa padovana dei primi dell'Ottocento, un parroco condivide la grama esistenza della sua gente. Chissà come, chissà perché, si diffonde la voce che in canonica nasconda soldi e parecchi. Non era vero ma per quella diceria don Titta Vicini fu torturato e ucciso. Era scontroso, ma non cattivo. Del resto neppure un santo si sarebbe salvato dalla tentazione sempre ricorrente, laggiù, di inselvatichire. Ai primi dell' 800 Calcinara era una frazione di Codevigo e fare il parroco in un paese del genere, oltre a tanta fede, occorreva una salute d'acciaio. Quando il vescovo chiese se accettava di andare laggiù tra le barene don Giobatta Vicini: "Mi lasci pensare qualche giorno, Eccellenza - disse - poi le darò la risposta. S'informò da don Domenico Guadagnino di Arzergrande e da don Domenico Pastorello di Codevigo come stessero le cose a Calcinara. Gli dissero che il paese contava poco più di 300 persone: "Buone persone, un po' chiuse e con tanta ... fame". La chiesa era in buone condizioni; più difficile abitare in canonica, una vecchia catapecchia dove d'inverno il vento della laguna fischiava con la voce che pareva quella dei morti. In parrocchia si arrivava con il calesse, ma a percorrerla tutta non bastava una giornata. Parte del paese era di pertinenza del comune di Codevigo, parte di Correzzola e parte di Chioggia. Quest'ultima andava, tra un dedalo di canali, a smarginare verso Ca' Bianca e Brondolo. Per un parroco c'era poco da illudersi; poteva contare solo sulla generosità dei fedeli e sulla propria iniziativa. Don Giobatta Vicini, sciolse la riserva, dopo essersi detto che più in là di Calcinara il vescovo non lo avrebbe potuto mandare. Si consolò pensando che era lui il titolare della parrocchia e che al 22 piccolo villaggio di Conche c'era già un curato, don Francesco Cottoli. In passato anche l'antica Fogolana apparteneva alla chiesa matrice di Calcinara, ma da quando Venezia aveva voluto il taglio del Novissimo, quella zona, già infestata di zanzare e di malaria, era diventata troppo lontana. La povera gente gli fece un dignitoso ingresso, le due campane suonarono a festa a lungo, e appena sentito il discorso del nuovo parroco, i fedeli conclusero che don Titta (lo chiamarono subito così) aveva si una voce un po' legnosa, ma non doveva essere tanto severo. Ci vollero dei mesi prima che si capissero. Le case erano in gran parte di paglia. D'inverno, dopo il tramonto, nessuno usciva di casa perché ogni strada finiva in un groviglio di canali. Don Vicini raccomandava la pulizia e puntuale ad ogni questua, condivideva con i poveri il poco che riusciva a raccogliere. Mangiavano miglio e fagioli. I più industriosi andavano nelle campagne della Sista alla stagione del fieno. Una ventina di famiglie viveva di pesca. Partivano che era ancor notte e andavano verso la laguna. Bragozzi e burchi si intuivano al chiaro della luna con i grandi tramagli stesi a pelo d'acqua e le lampàne accese nelle piccole stive. Le barche più lunghe si inoltravano attraverso i canali in direzione dei lumini smorti dei balconi delle case di Cavarzere. Vita dura per tutti. I vecchi avevano facce gialle e rugose indurite dal salso del mare, i più giovani bestemmiavano dentro l'unica bettola vicino alla chiesa. Le donne avevano anch'esse un cipiglio quasi irritante così che don Vicini si trovò via via sempre più imbarazzato a dialogare con la sua gente. Il medico di Correzzola dott. Giobatta Federigo insisteva nel dirgli: "Li prenda come sono, non s'arrabbi quando predica, è gente che vive patendo". Don Titta scambiava qualche idea anche con il medico di Codevigo, il dott. Giacomo Franchini il quale per salvarsi dalla solitudine aveva piantato casa a Piove ma era puntualissimo ad accorrere al capezzale dei suoi pazienti: "Don Titta - gli diceva - li conosco meglio di lei: sono castigati da Dio e abbandonati da tutti. Non li irriti". Probabilmente don Vicini si era stancato presto della parrocchia che gli era stata affidata. Nella curia di Padova c'è la relazione della visita pastorale fatta laggiù dal vescovo Modesto Farina. Una nota dell'amanuense dice: "Manca la relazione del parroco 23 perché retrocessa onde la riformasse". Eravamo nell'aprile del 1822 e il vescovo dovette accorgersi che qualcosa non funzionava. Respinse la relazione scritta che don Titta gli aveva fatta della sua Calcinara invitandolo a rifarla. Mancavano i nomi dei fabbricieri, le cifre dello stato patrimoniale, la relazione sull'andamento della dottrina cristiana. Qualcuno però del paese doveva aver detto qualcosa al presule, tanto che don Vicini dopo la visita pastorale andò incupendo a vista d'occhio. Lui stesso s'era lagnato con il vescovo perché era stato oggetto di un ignobile tentativo di furto. Al presule che lo incoraggiava, egli quasi presago che il peggio avesse ancora da venire, disse fuori dei denti: "Qui c'è solo da rimetterci la vita". Nessuno aveva saputo indicare, nemmeno per sospetti, chi fossero stati i banditi che nel febbraio del 1821 erano penetrati nella canonica, durante una notte di nebbia, lo avevano caricato di botte e urlato più volte: "Fuori i soldi". Lo avevano lasciato mezzo sanguinante sul pavimento di terra della canonica. Vennero il commissario da Piove e l'altro da Chioggia, interrogarono anche Nani del Granchio e Fornaio detto Moscheta, i due disperati che avevano passato la loro vita rubacchiando e terrorizzando le persone sole. Ma non erano riusciti a ottenere nemmeno un indizio. Probabilmente c'era molta omertà. Il paese era piccolo, tutti si conoscevano, chi avesse parlato sarebbe certamente finito in uno dei tanti canali, senza possibilità di risalita. Chissà come, chissà perché, si diffuse la voce che don Titta nascondeva soldi e parecchi. Quando li avesse fatti, nessuno era in grado di dirlo, ma il pettegolezzo prese una tale consistenza che dire prete di Calcinara e dire prete danaroso era la stessa cosa. I ladri si rifecero vi vi e fu dopo la visita pastorale. Era da poco tempo passata la festa dell' Assunta e l'acqua verdastra delle barene era immobile sotto un sole cocente. Aie deserte, strade bianche di polvere e lungo frinire di cicale. Don Vicini s'era appisolato sotto il piccolo pergolato di uva che si andava annerendo tra i grandi pampini giallastri. Da un ciuffo di canne palustri spuntarono improvvisamente due figuri, uno alto e tarchiato, l'altro più mingherlino. Il primo che teneva una borsa s'accostò di soppiatto al parroco e gli legò le braccia con una 24 lunga cordicella e gridò: "Fuori i soldi". Don Titta si svegliò di soprassalto, e non fece nemmeno in tempo di rendersi conto di quanto stava succedendo, che l'altro figuro gli sferrò un pugno in faccia. Qualcuno doveva aver visto la scena; la stessa sera infatti tutti in paese sapevano fino nei dettagli quanto era accaduto. Ma nessuno scucì una parola, neppure quando alcuni gendarmi austriaci, venuti appositamente da Padova, promisero a chi fornisse qualche indicazione una lauta mancia. Il gesto lasciò il segno. Da una parte il povero parroco fu preso da un continuo tremito e da una profonda depressione, e dall'altra la gente si confermò nella convinzione che, se i ladri erano tornati per la seconda volta, il "morto", cioè il grumolo di denaro, doveva esserci. Invece non c'era perché don Titta non andava, come gli altri suoi colleghi preti della zona, al mercato di Piove e, pur essendo nato a Padova, non s'era mai interessato di affari. Ma doveva esserci una cattiva stella nella sua vita se, anche nei paesi disseminati tra le barene, s'era diffusa la chiacchiera che lui fosse un avaro e che, alla sera, contasse le zvanziche austriache al lume della candela. Aveva 54 anni, ma era come portasse i secoli sulle spalle, tanto pareva invecchiato. L'estate del 1824 passò in fretta, tra temporali e gruppi di contadini che andavano verso Monsole e Cavarzere per i raccolti. La gente cantava, ma si sentiva che era di malavoglia, anche perché i grossi terrieri pagavano poco e controllavano perfino i respiri. Arrivò il novembre. Quell'anno la nebbia scese presto e fitta. Durava giorni e sembrava impigliarsi tra i ligustri dei fossi creando atmosfere irreali, rotte di quando in quando dal rauco gracchiare dei gabbiani nascosti a gruppi tra il musco degli isolotti emergenti dalla laguna. Erano le settimane in cui nelle case i contadini uccidevano il maiale. I salami venivano messi ad asciugare in cucina e sulle padelle continuavano a friggere i pezzi di salsiccia appena insaccata. Anche nella canonica ci fu un discreto trafficare. Don Vicini non se ne intendeva molto di queste cose, ma appena arrivato in parrocchia, aveva capito che una famiglia non vive se alla stagione giusta non uccide il maiale e non si prepara una riserva di carne per tutto l'inverno. 25 Venne il norcino di Ca' Bianca con altri due garzoni e gli fece il servizio completo. Il maiale di don Titta era discretamente grasso e ne ricavò parecchia roba, tanto che la domenica successiva finita la messa il parroco chiamò in disparte due povere donne e disse loro che aveva messo via qualcosa anche per le loro famiglie. La notte tra il 29 e il 30 novembre don Titta era appena andato a letto quando sentì dei rumori provenienti dal cortile. Stette in ascolto ed ebbe subito la sensazione che si trattasse dei ladri. Fu questione di attimi, non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che se li trovò addosso come furie. Questa volta erano più di tre: "Fuori i soldi, dov'è l'oro?" gli gridarono e lo buttarono giù dal letto. Uno dei malviventi teneva in mano un fanalino che gettava piccoli sprazzi di luce sul groviglio di braccia. Lo sfortunato sacerdote continuava a ripetere che era povero in canna, che i soldi non gli importavano niente. Lo spogliarono stretto per le braccia e le gambe, gli versarono addosso olio bollente. "Di', dove nascondi i soldi?" insistevano gli aguzzini. Don Titta preso dal terrore non sillabò più una parola; la faccia spellata dal liquido infernale era in carne viva. Continuarono a buttargli sul corpo il lardo fuso bollente mentre qualcuno di loro frugava nella cassapanca dei paramenti della chiesa. Don Titta si raccomandò l'anima, mugolò qualcosa che nessuno capì, ebbe un forte sussulto in tutto il corpo e spirò. Gli assassini lasciarono immediatamente la preda e, sicuri che nessuno li aveva visti, scesero in fretta le scale e si dileguarono nella nebbia. Il corpo straziato e irrigidito del Vicini fu trovato alla mattina dal lattivendolo che vista la porta della canonica aperta salì, insospettito da uno strano odore, fino alla stanza del parroco. Diede l'allarme, ma ormai era troppo tardi. Funerali, rimpianto, esecrazione. Ma ancora una volta, bocche cucite. Non si seppero mai i nomi degli autori del misfatto. Sulla tomba del povero parroco per un po' di tempo una mano anonima portò fiori di campo. Poi il silenzio. Trent' anni più tardi lo storico Andrea Gloria, che era in grado di sapere com'erano andate le cose, non esitò a scrivere che "il buon prete era morto, soprastato dallo spavento e da quel martirio". L 26 NON SOPPORTAVA LA REPUBBLICA DI S. MARCO Non faceva nulla per farsi ben volere, anzi estroso com'era, finì con il trovarsi contro tutta la parrocchia. La sua storia merita di essere raccontata, anche perché a distanza di secoli abbiamo scoperto una cosa interessante. Nel 1630 era cappellano a Saonara (un paese della provincia di Padova, oggi noto nel mondo per l'esportazione di piante da giardi no) un certo don Domenico Filippini. A volte umanissimo, a volte intrattabile, fu preso di mira da un gruppo di donne del paese, le quali accatastarono un cumulo tale di accuse nei suoi confronti che il vescovo sentì il dovere di richiamarlo più volte. Filippini era come uno zolfanello e invece di chiarire e di correggersi s'incattivì. Al disprezzo per le malelingue, aggiunse un comportamento nelle celebrazioni liturgiche, spesso discutibile. Era convinto che la ragione fosse tutta dalla sua parte. Ma un giorno gli arriva una lettera dal tribunale ecclesiastico che lo informa che il vescovo gli ha comminato la "sospensione a divinis" con la conseguente proibizione di amministrare i sacramenti. Il Filippini ha un soprassalto di rabbia e vorrebbe stracciare il documento, ma s'accorge che nel retro c'è scritto qualcos'altro. "Ella è comandata di comparire davanti a questo stesso tribunale per il 17 maggio prossimo". La cosa lo impensierì, non al punto però da suggerirgli di preparare una sua difesa. Disse tra sé: "Sentiremo cosa vogliono, tanto in Curia mi conoscono bene". Invece lo conoscevano male. Se ne accorse quando, introdotto nell'aula del processo, il presidente del tribunale ecclesiastico lesse i capi d'imputazione: l) Reca ogni giorno il Santissimo sotto il mantello ai malati con iscandalo degli abitanti; 2) Spesso all' altare celebrando il sacrificio sgrida e strapazza la gente; 3) Si appropria delle elemosine della chiesa; 4) Maltratta e percuote perfino sua madre. 27 Aperto il dibattito, il Filippini spiegò che le accuse erano frutto d'una congiura paesana: c'era stata si qualche cattiveria da parte sua e forse anche qualche atteggiamento disdicevole, ma non nelle proporzioni delineate nel testo accusatorio. Il tribunale si limitò a fargli qualche domanda soprattutto sul terzo capo d'accusa: il furto del denaro in chiesa. L'imputato ricordava bene che scherzando con un amico aveva detto: "Ai laici è permesso rubare fino a lO soldi al giorno, ai preti fino a 20", ma si trattava di una battuta allegra, addirittura paradossale, da non prendersi quindi sul serio. Il tribunale, alla fine, non gli credette e lo condannò ad alcuni mesi di detenzione da scontarsi nel carcere vescovile di Padova. Il Filippini, proclamatosi di nuovo innocente, si alzò di scatto e, vista la porta aperta della sala, scappò attraverso il corridoio che immetteva sullo scalone di uscita. Non si seppe più nulla di lui fattosi come si suoi dire, uccel di bosco. Se non che, alcuni mesi dopo, entra in scena la magistratura civile veneziana. Viene aperto contro di lui un processo in foro civile, nel quale sono riprese le quattro imputazioni del tribunale ecclesiastico, con un'aggiunta: quella che ci spiega finalmente il perché dell'accanimento, sia ecclesiastico che civile, nei suoi confronti: "Sparla - dice il testo - della Repubblica di S. Marco". I padovani non hanno mai digerito il governo della Dominante, che nel 1408 con un ignobile tranello aveva fatto catturare e poi assassinare gli ultimi discendenti dei principi di Carrara. Il Filippini non faceva mistero della sua insofferenza politica verso quelli che definiva gli "occupanti": "Sono ladri - diceva anche nelle prediche - sono sleali, sono insaziabili". Non gli andava giù l'ambiguità nei rapporti di Venezia con i turchi, lo spionaggio, le denuncie anonime, le usurpazioni terriere. Il Filippini non si presentò al processo, sicuro com'era che lo avrebbero condannato. "Citato in giudizio - è scritto nelle carte dell' archivio civile delle sentenze criminali - non comparve". Per cui fu bandito in perpetuo "con minaccia, se varcasse il confine, della galera per 12 anni e, se inabile a questa, al taglio della testa". Fuggi Oltrepò, dove sotto altro nome, esercitò il ministero pastorale per lungo tempo. 28 MARITO E MOGLIE A SORPRESA Quasi un precedente dei "Promessi sposi" nella cronistoria parrocchiale di Maserà. Durante una messa due fidanzati si uniscono improvvisamente in matrimonio contro il volere del parroco. Francesco e Giustina, due nomi come tanti altri che non dico-' no un gran che nella storia secolare di un paese, ma possono diventare importanti se chi li porta diventa protagonista almeno di una cronaca cunosa. Questa storia l' abbiamo pescata nell' archivio parrocchiale di Maserà di Padova tra le pagine di un vecchio registro di matrimoni. Si sa che in volumi del genere difficilmente trovano spazio narrazioni di fatti e tanto meno, trattandosi di atti pubblici, considerazioni o commenti. Il registro di cui stiamo parlando, fa invece una preziosa eccezione e dobbiamo essere grati al parroco di quel tempo (siamo nel '700) che ha avuto l'accortezza di confidare alle "carte" un episodio che documenta una delle tante difficoltà che potevano sorgere allora in occasione di matrimoni. Ricordate i "Promessi Sposi" del Manzoni? Renzo e Lucia, visto che don Abbondio, spaventato dai "bravi" di don Rodrigo, non li vuole sposare, decidono di capitargli in casa improvvisamente e dichiararsi marito e moglie, con la presenza di due testimoni pagati Tonio e Gervaso. Purtroppo il tentativo va in fumo per la pronta e rabbiosa reazione di don Abbondio che era pavido ma anche scaltro. L'iniziativa di sorprendere il parroco e costringerlo a "presenziare" ad un matrimonio non fu una bella trovata del Manzoni, ma una prassi che si ripeteva qua e là in Italia e spiegabile con la situazione economica o psicologica dei contraenti. Il Concilio di Trento aveva messo un po' d'ordine in materia di matrimonio precisando tra l'altro le condizioni perché questo fosse lecito e valido. Dopo secoli e secoli di abusi il sacramento del matrimonio rientrava così in un alveo di serietà e i sacerdoti erano 29 tenuti gravemente a rispettare le norme fissate dal sacro consesso. Ma alla buona volontà dei legislatori non corrispondeva sempre quella dei nubendi o meglio, le cose non andavano sempre lisce. Ed ecco il caso di Maserà. Nel 1736 era parroco e vicario foraneo del paese don Ignazio Suarez, un sacerdote della cui diligenza fanno fede anche i registri dei morti, dei battesimi e dei matrimoni da lui puntualmente compilati. Il 4 gennaio dello stesso anno gli accadde questo pasticcio pastorale-liturgico: "Francesco Barison figlio di Santo - egli scrive nel registro dei matrimoni - e Giustina Pizzeghello figlia di Antonio: sono comparsi in chiesa in tempo che celebravo la messa all'altare della B.Y. del Rosario". Si tratta della vecchia chiesa parrocchiale, attualmente chiusa al culto e sostituita da un edificio moderno. "Nel finire di questa messa s'accostarono all'altare - prosegue il documento - supplicandomi che io avessi ad assistere al loro matrimonio". Il documento a questo punto non spiega il perché dell'irruzione dei due fidanzati e della comune decisione di sorprendere il parroco durante la messa. Probabilmente, qualcuno non voleva che i due si sposassero: un don Rodrigo qualsiasi, i rispettivi genitori, l'autorità civile? O c'erano impedimenti tali che un matrimonio regolare non poteva essere celebrato? Bisogna però ammettere che Francesco e Giustina furono molto più furbi di Renzo e Lucia perché, prevedendo la reazione del parroco, approfittarono di sorprenderlo durante la celebrazione della messa, in un momento cioè in cui non poteva, come il povero don Abbondio, buttare il "tappeto" sulla testa alla sposa e darsi alla fuga: "Restai soprafatto - scrive don Ignazio con l'ortografia di allora - da questa improvvisa rissoluzione (sic!), e mi opposi gagliardamente (non potendo fuggire) rinfacciandoli ch'era contro le forme prescritte dal Sacro Concilio di Trento". Ma i due "piccioncini" avevano previsto tutto" ... ed essi ad alta voce senza altra replica si diedero il mutuo consenso per verba dei presenti ... ", fecero anzi qualcosa di più " ... citando - aggiunge il povero vicario - per testimoni tutti quelli che erano ad udire la santa messa, tra questi, Domenico Mellato, Domenico Olivato, Nadal Santi di questa pieve e don Gio.Batta Rigoni d'Asiago". 30 Quest'ultimo era il cappellano e probabilmente era stato coinvolto nella faccenda come gli altri tre, dagli sposi senza saperlo. Il tiro era riuscito a perfezione: il mutuo consenso era stato espresso davanti al parroco, i testimoni c'erano e in abbondanza, attendibili. Che si voleva di più? Il parroco, che se fosse stato colto all'improvviso in un altro ambiente si sarebbe dato alla fuga, meditò qualche giorno sull' accaduto. I registri non dicono se successivamente ebbe modo di incontrare i "due sposi d'assalto", ma pare di sÌ, perché il 22 dello stes- . so mese di gennaio annota nel registro: " ... con mandato della Curia penitenziale furono riuniti in matrimonio e si supplì alle cerimonie della benedizione: dopo che li sudetti hanno accettata la penitenza che da pubblica è stata commutata in pecuniaria per giusti motivi e fu di Ducati da L. 6,4 (trentamila lire?)". Oggi si direbbe che il matrimonio fu "sanato in radice" e i "reprobi" furono condannati ad una multa. C'è però da credere che Francesco e Giustina, ormai marito e moglie, l'abbiano pagata volentieri. 31 PADOVANO UNO DEI CAPPELLANI DI GARIBALDI Nato a Rocca d'Arsié don Angelo d'Arboit sentì molto presto la passione per l'Unità d'Italia. Malato a Mantova riceve la visita del Vescovo mons. Sarto suo compagno di seminario. Sacerdoti e Risorgimento italiano. Il tema è tornato a galla recentemente alla scadenza della beatificazione del papa Pio IX. I moti rivoluzionari del 1848 soprattutto quelli che avevano come obiettivo l'unità della nostra nazione non potevano non trovare risonanza e spesso accoglienza anche presso il clero. Uno dei temi allora più dibattuti era il "potere temporale" dei papi. Parecchi preti, alcuni profeticamente, altri per gusto di consorteria, pur restando fedeli alle loro scelte religiose, contestavano l'attualità del potere temporale del papa, in particolare l'esistenza dello Stato pontificio. Si registrarono dolorosi conflitti all'interno dei presbiteri diocesani. Vesti alle ortiche e sospensioni a divinis si alternavano negli anni più duri. Il dramma toccò in modo profondo anche la diocesi di Padova. Dell'argomento ne ha parlato diffusamente in un suo volume il prof. Angelo Gambasin. Segnaliamo qui una figura poco nota di sacerdote contestatore: don Angelo Arboit. Nasce a Rocca d' Arsié (diocesi di Padova, provincia di Belluno) il 15 marzo 1826 da una modesta famiglia di agricoltori. Grazie all'aiuto del suo parroco, dopo le elementari, può frequentare l'intero corso ginnasiale - liceale - teologico nel seminario di Padova. Ha come compagno di studi tra gli altri, Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X. Mentre si dedica alla teologia segue con passione quanto sta avvenendo nella società. Aveva la politica nel sangue. Nel 1848 cioè a 22 anni lascia la talare e si arruola volontario nei cacciatori delle Alpi. Ferito ritorna a casa e si iscri ve a Lettere 32 presso l'Università di Padova; laureato rientra in seminario dove nel 1857 è ordinato sacerdote. Ma il desiderio di partecipare alla vita attiva per l'unità d'Italia è così forte che lascia l'insegnamento di Modena per raggiungere le truppe di Garibaldi raccolte a Caserta. Tempo di combattimenti per lui, ma anche di amicizie. Incontra molti dei Mille ai quali presta assistenza morale come cappellano militare. Garibaldi, che subito riconosce in lui la stoffa dell' italiano entusiasta, gli affida particolari compiti strategici e più tardi gli _ manderà una foto con questa dedica: "Al mio fratello d'armi prof. Angelo Arboit". Nel 1862 riprese l'insegnamento prima a Mantova, poi a Udine intervallando lo studio con lunghi viaggi che gli offrirono l'occasione di incontrare l'anarchico Michele Bakunin e di conoscere le nuove correnti filosofico - politiche - religiose. Nunustante la "sospensione a divinis" mantenne sempre una condotta cristiana ineccepibile, quantunque i suoi detrattori non mancassero di provocarlo alla ribellione nei confronti della Chiesa Cattolica. Preside del liceo classico di Mantova nel 1893 si ammala gravemente. In quegli anni era vescovo della città proprio quel mons. Giuseppe Sarto che gli era stato affettuoso amico di seminario. Nonostante alcune resistenze di chi assisteva l'infermo, il presule riesce, al sopraggiungere della notte, ad entrare nella stanza. L'Arboit si commuove e il vescovo oltre che a confortarlo gli assicura che sul suo "ribellismo" passato è già stato steso un velo. Che cosa si sono detti i due ex compagni di seminario? Ce lo rivela lo stesso Sarto in una lettera molto confidenziale al suo amato mons. Giuseppe Callegari allora vescovo di Padova: "Eccellenza, posso assicurarvi che l'Arboit conserva ancora i buoni principi della buona educazione ricevuta, e quel che più conta, la fede. Aggravatissimo l'Arboit non volle prendere mai medicine e pare che debba la sua salute a qualche bicchiere di buon vino, che gli veniva portato da un buon amico, l'oste con il quale se la passava tutte le sere. Oh! I farmacisti possono chiudere bot- 33 tega. E i medici? Che si contentino di essere onorati propter necessitatem, ma alla larga! ". L' Arboit però usci cosÌ fiaccato dalla malattia che chiese il collocamento a riposo e si ritirò nella pace del suo paese natio. Muore tre anni dopo assistito dal parroco di Mellame don Marco Ceccon e confortato dalla benedizione del vescovo Callegari e del Sarto diventato cardinale e patriarca di Venezia. Nella lettera scritta da Mantova a Padova, il Sarto, pare però non abbia raccontato tutto del suo colloquio con l' Arboit. Ma qui si intrecciano le versioni leggendarie, perché il Sarto diventato papa avrebbe rivelato di aver messo in pace parecchi dei suoi amici preti che non volevano saperne del potere temporale deva Chiesa. Quella notte a Mantova (ma ne dubitiamo) il dialogo tra i due si sarebbe svolto in questi termini: "Dai - dice il vescovo - vediamo di combinare. Ti suggerisco io la formula di sottomissione". "Riconosco i miei errori - interviene l'Arboit - ma è bene che sia cessato lo stato pontificio". Il Sarto scuote la testa: "No, no cosÌ". L'Arboit sorride e dice: "Riconosco di aver sbagliato, ma è giusta l'unità d' Italia". Cade un silenzio d'attesa ed è stavolta l'ammalato a prendere l' iniziativa: "Riconosco di aver sbagliato ... e credo che Dio nella sua infinita sapienza abbia permesso l'unità d'Italia". Adesso i due amici sorridono e s'abbracciano. 34 TRA PARROCO E CAPPELLANO ... BASTA UN PIANOFORTE Da direttore didattico don Antonio Mugna era diventato parroco, vicario foraneo e amministratore dei campi dei suoi fedeli. Un carattere forte che solamente un giovane collaboratore riuscì a domare. Lo chiamavano il "Vicarione", non tanto per la sua mole tutt'altro che pesante, quanto per la sua sapienza e i suoi modi energici di fare. Don Antonio Mugna era nato a Trissino (Vicenza) nel 1839. Ordinato sacerdote a Padova nel 1862, fu dapprima insegnante nelle scuole elementari pubbliche di cui fu anche direttore. Successivamente, su invito del vescovo, si dedica all'attività pastorale accettando di reggere la parrocchia di Vescovana (Padova) nel 1870. I sacerdoti della zona capirono ben presto che il Mugna era un prete eccezionale, sia per intelligenza che per santità di vita e lo scelsero come vicario foraneo. Vivacissimo di temperamento e forbito nel parlare, non trovò agli inizi alcuna particolare difficoltà, se non quella della sprovvedutezza della gente in gran parte povera e analfabeta. La famiglia dei conti Mocenigo gli affidò l'amministrazione dell'intero territorio del paese di cui era proprietaria. Compito che egli accettò subito e portò avanti con scrupoloso senso di giustizia. I parrocchiani - fittavoli lo amavano proprio perché sapeva fare l'arciprete con amore e l'amministratore con equità. I vecchi raccontavano che il Mugna quando doveva fare i conti, usava, se era buio, la candela dei padroni; se doveva invece recitare il breviario, accendeva la sua. Ma con il tempo, il "vicarione", forse per una progressiva arteriosclerosi incominciò ad assumere gesti di intolleranza e ad usare in chiesa parole pesanti. Il mormorio diventò protesta e qualcuno 35 andò a lagnarsi in Curia. Il vescovo, capita l'antifona, pensò di risolvere il problema mandando un cappellano che affiancasse il Mugna senza timori reverenziali. Non gli fu facile trovare il soggetto adatto, perché l'interessato, venuto a conoscenza del traffico di pettegolezzi nei suoi confronti, aveva indirizzato il seguente telegramma a Padova: "Alla reverenda Curia. Dio castighi questa pseudo-banca". Il cappellano adatto saltò fuori poco dopo. Era don Antonio Cavalli, (morto a metà degli anni '70) un prete intelligente e coraggioso, pronto ad espugnare la fortezza-Mugna. Nel luglio del 1920 si presenta alla canonica di Vescovana. Suona il campanello e attende un po'. Nessuno si fa vivo. Ripete l'operazione, e dal di dentro una voce gli fa eco: "Chi è? Cosa c'è? Un po' di pazienza e arrivo subito". Era quasi mezzogiorno. Risponde il Cavalli: "Sono il nuovo cappellano. Mi manda il vescovo, il quale la prega di accettarmi". II "vicarione" s'infuria: "Santi del paradiso! Quante volte devo ripetervi che non voglio cappellani. Via ... ". Il Cavalli, per niente intimidito, si ferma sulla porta. Alle 14, suona di nuovo il campanello. Stavolta è la sorella dell'arciprete ad arrabbiarsi. "È inutile che insista. Torni a Padova". Sono le 16 e il Cavalli ritenta, una, due, tre volte. Finalmente ricompare il Mugna, il quale afferra il malcapitato per un braccio e lo spinge verso il tinello urlando: "Ma come devo dirglielo, che non voglio nessuno?". Si sposta e va a sedere davanti al pianoforte. Mugna è un buon intenditore di musica e toccando la tastiera improvvisa un moti vetto con queste parole: "lo non voglio cappellani. lo non voglio cappellani". Ce n'era abbastanza, ma il Cavalli, duro come l'acciaio, ribatte: "Signor vicario, permette?". E siccome sapeva lui pure suonare il pianoforte, siede e suona con note allegre: "E a me non importa niente, a me non importa niente". Il Mugna rimase di stucco e disse: "Tu sei il cappellano giusto. Resta qui con me". Non fu facile la convivenza, ma il cappellano resistette fino al 1925, quando il "vicarione", colpito da emiparesi si ritirò presso i fratelli a Lonigo, dove morÌ nel 1928. 36 IL VECCHIO CAPPELLANO DIVENTATO PAPA NON DIMENTICA IL DIALETTO VENETO Nelle cronache della parrocchia di Cittadella c'è la relazione di una affettuosa udienza concessa a un gruppo di giovani da S. Pio X. Per ricordo, una medaglia agli ospiti e una benemerenza all'arciprete. Fu uno dei pionieri, agli inizi del '900, sul piano pastorale catechistico - sociale. Mons. Emilio Basso resse la popolosa parrocchia di Cittadella (Padova) dal 1908 al 1955. Su di lui e della sua attività si potrebbe scrivere un volume di estremo interesse, anche dal punto di vista anedottico. Ci limitiamo ad un episodio più che significativo. Egli inizia il suo ministero a Cittadella nel 1908, e lo fa visitando le singole famiglie. Arriva ad una casa abitata da due vecchi coniugi. La donna gli dice: "Arciprete, ella siede dove sedette tante volte il Papa Pio X". Don Giuseppe Sarto, (futuro Papa dal 1903 al 1914) era stato cappellano nella parrocchia di Tombolo che confina con il territorio di Cittadella. Invitato dall'arciprete di allora di questa comunità, predicò più volte e precisamente per la festa del Rosario nel 1859, per 1'Avvento del 1861 e per la Quaresima nel 1865. Mons. Basso scartabellando nell' Archivio parrocchiale trovò parecchie ricevute firmate da don Sarto: "Ricevo fiorini tanti ... dalla Fabbriceria di Cittadella per la predicazione". Ne mandò una al cappellano diventato Papa e questi gli rispose inviandogli un medaglia d'oro. Nel 1913 il Vescovo di Padova, Mons. Luigi Pellizzo inaugura la nuova facciata del Duomo di Cittadella e a conclusione del rito annuncia ai fedeli che Papa Sarto aveva in quei giorni concesso a mons. Basso e agli arcipreti suoi successori il titolo di Protonotario Apostolico "ad instar partecipantium". Chi gli aveva ottenuto il 37 titolo? Un gruppo di giovani dell' Azione Cattolica della parrocchia qualche settimana prima era andato a Roma in pellegrinaggio. Chiesero ed ottennero l'udienza del Papa. Il colloquio si svolse in puro dialetto veneto: "Cosa domandeo buoni giovani?" disse il Papa. E quelli: "Un' onorificenza per il nostro arciprete". "Molto volentieri - rispose il Papa - A proposito, gavìo anche una lettera del vostro Vescovo?". I giovani esibirono la lettera autografa del loro presule. E Pio X continuò: "Lo volìo Abate mitrato? Lo volìo Protonotario apostolico? Ecco fioi, ... se Abate mitrato, l'arciprete poI far pochi pontificali; se invese Protonotario apostolico, el poI far quanti pontificali che el vole in Cittadella, fora che quelo da morto". I giovani sono imbarazzati nella scelta, e il Papa chiama un addetto alla sua segreteria e gli fa scrivere un documento con il quale conferisce a mons. Basso e ai suoi successori il titolo di Protonotario apostolico. La pergamena porta la data del 2 dicembre 1913. I giovani felicissimi ringraziano il Papa e fanno per andarsene: "Un momento - dice questi - gavìo soldi da spendare?". La domanda era imbarazzante, ma la piccola pattuglia risponde all'unisono: "Santità, semo poareti!". Ed era più che vero. Per pagarsi il treno e soggiornare a Roma avevano messo mano a tutti i loro risparmi e nessuno aveva più un soldo in tasca. Facciamo a questo punto notare ai nostri lettori che tra quei giovani c'era il laureando Gavino Sabadin, una figura di laico cattolico destinato a diventare successivamente un protagonista della vita sociale e politica del mandamento di Cittadella e della provincia di Padova. Dobbiamo proprio a lui che guidava il gruppo il ricordo dell'incontro gioioso con Pio X. Il Papa risolse così la faccenda: "Tosi, deme quel foglio". Riprese in mano il documento e vi scrisse di suo pugno: "Gratis data". In concreto, voleva dire che non c'era niente da sborsare. Poi, chiamati vicini a sei giovani, bisbigliò sottovoce: "E adesso andarì a casa, ma nel partire dal Vaticano, no ste' andare par quel corridoio là, parché ghe xe tanti uffizi e ogni uffizio voI savere e poI domandarve soldi; andé subito xo par sta scala e tolé el treno e torné subito a Cittadella, e portè a tutti la me benedission". 38 Ci furono altre battute del Papa, ma la commozione dei componenti il gruppo era tale, che nessuno si preoccupò di memorizzarle. Naturalmente, a missione compiuta, il più felice fu mons. Emilio Basso il quale, vestitosi con veste paonazza, fibbie d'argento sulle scarpe e anello d'oro in di to, celebrò il suo primo pontificale. Poi prese la penna e scrisse al Papa ricordandogli l'episodio della sedia e aggiungendovi ovviamente il suo grazie. "La gioia e l'onore - scrisse tra l'altro - non sono per la mia persona, ma per la parrocchia di Cittadella". 39 CHI HA RUBATO L'UVA DEL PAPA? La singolare figura di Mons. Angelo Candeo, prete - inventore di macchine agricole, studioso dei problemi dei campi, insignito di numerose onorificenze per la sua attività scientifica. La simpatica vicenda delle viti nei giardini vaticani. Di lui si è interessato a suo tempo anche il noto vaticanista Silvio Negro, qualificandolo come "prete padovano ingegnoso e curioso". Troppo poco per don Angelo Candeo, "Sacerdote singolare scrive invece don Giuseppe Bellini, - credo non si trovi l'eguale tra quanti in qualunque tempo educò il Seminario di Padova". Il Candeo nasce il 30 novembre 1843 a Faedo, un paesi no smarrito tra il verde dei Colli Euganei. Diventato sacerdote, presta il suo ministero, prima come cappellano, poi per 53 anni parroco di Mestrino, un borgo popoloso che sorge lungo la statale Padova - Vicenza. Si fa amare e stimare subito per la sua attenzione ai poveri, per la solida preparazione culturale, il carattere gioioso e l'attaccamento alla Chiesa. Promuove la costruzione della nuova chiesa parrocchiale e del campanile e l'avvio delle associazioni cattoliche per la catechesi e lo sviluppo sociale. Un giorno viene bloccato con modi gentili ma perentori da un suo parrocchiano, fittavolo intelligente e da anni colpito dalla sfortuna. "Senta, arciprete, Lei che ha studiato tanto e conosce le cose meglio di noi contadini, perché non ci dà una mano? La filossera sta distruggendo i vigneti, l'afta epizootica svuota le stalle, la terra s'è fatta dura come il sasso. Inventi qualcosa per noi". La supplica del pover'uomo colpisce profondamente il Candeo il quale studia i vari problemi della campagna e ne trova delle originali soluzioni. l 40 Per primo in Italia suggerisce l'uso dei fertilizzanti e di nuovi attrezzi per i campi, le tecniche di protezione dei bovini e della difesa dei vigneti dai parassiti, l'impiego delle macchine irroratrici. Scrive opuscoli, tiene conferenze e presta la sua opera a favore dei contadini, in Italia e all' estero. Cacciatore provetto, ma soltanto di fauna dannosa all'agricoltura, nel libro "Difetti e rimedi della viticoltura", rimprovera ai nostri governanti (siamo nel marzo 1888!) di non curare una legislazione chiara sull'attività venatoria. E qui il Candeo sciorina una conoscenza dell'avicoltura che ha dell'incredibile. Scrive: "Se ci fossero leggi serie e migliore educazione popolare, avremmo nelle rondini, nei rondoni, nei cuculi, nei pigliamosche, nelle sterpazzole, nel picchio, nel rosignolo, nel pettirosso, nel verdone, nel merlo, ecc. e in tutti gli altri stormi dei gentili cantori un forte esercito di soldati di polizia ben equipaggiati, destinati a difendere le viti, gli orti, i giardini, i campi, i boschi, le acque da quelle immense schiere di coleotteri, che oggi, come un tempo i barbari del Settentrione, calano ed infestano la misera Italia! Credete forse che io esageri? Vi basti sapere che il regolo distrugge in un anno 3 milioni mezzo dei pidocchi delle piante. La cinciallegra per sostenere i suoi 12 16 nati fino all' età adulta ha bisogno di circa 27 milioni di uova di insetto. Il codirosso distrugge in un'ora più di 100 bruchi di sei linee di lunghezza. Le rondini uccidono dai 18 - 20 insetti volatili al giorno". E conclude sempre rivolto ai politici: "Togliete (con la caccia!) questa grande famiglia di insettivori e poi mi direte se non avevo io ragione di dire che è rotto l'equilibrio naturale, cioè la legge di compensazione posta dalla provvidenza a bene dell'uomo". L'Accademia dei Lincei lo nomina suo socio e numerose città e istituzioni lo premiano con medaglie al valore scientifico. Quando il 17 ottobre 1897 il Candeo ebbe la gioia di inaugurare la nuova chiesa parrocchiale frutto di tante fatiche ci fu chi, in riconoscenza anche dei suoi meriti "agricoli", propose che sul pinnacolo del tempio fosse eretto un gruppo marmoreo composto di pompe irroratrici, soffietti vagliatori, zappe viticole, solforatori e tappi enotecnici. Ma il buon senso dell'arciprete bocciò la strana idea e suggerì che le eventuali offerte andassero a favore della nuova scuola materna. 41 Il sogno di don Candeo però era di arrivare al Papa, convinto che se a Roma avessero prestato attenzione alle sue invenzioni, l'agricoltura italiana e ... vaticana ne avrebbero tratto grandi benefici. Nel maggio del 1886 inviava al Pontefice Leone XIII un iniettore idraulico con la spiegazione di come usarlo. L'illustre destinatario s'incuriosÌ dell'aggeggio e nel ringraziare il donatore fece capire che desiderava conoscere di persona l'inventore. Leone XIII aveva un debole, diciamo pure una mania, per la viticoltura tanto che appena eletto Papa fece sistemare un vigneto nei giardini vaticani. Si trattava di tre appezzamenti di terreno sui quali i vitigni, fatti venire appositamente dalla Borgogna, attecchirono facilmente ma non produssero mai un'uva dignitosa. Quantunque i competenti gli facessero osservare che le viti francesi non erano adatte ai colli romani, il Papa era fortemente convinto di aver piantato un vigneto modello e (racconta un giornalista del tempo) lo visitava ogni giorno "segnandone appositamente le vicende stagionali, dalla potatura alla vendemmia, attento a ogni cosa, mentre, scortato dal vignaiolo e seguito in fila indiana dagli accompagnatori abituali, camminava sotto la pergola". Reduce da una serie di conferenze nell' Abruzzo, nel luglio del 1889 il Candeo è ricevuto in udienza dal Papa. Parla con tale entusiasmo dei suoi interventi a favore delle viti che il Pontefice ne rimane affascinato. Seguono altre udienze. Leone XIII vuole che il Candeo visiti il vigneto vaticano. L'agronomo arciprete di Mestrino esamina attentamente ogni cosa e poi sbotta, con la sua solita franchezza: "Santità, mi spiace, ma qui si usa un sistema di potatura del tutto sbagliato". Il Papa capisce che l'osservazione dell' interlocutore è giusta, prende il Candeo sottobraccio e dice. "Vi do piena libertà di entrare a qualunque ora nei miei giardini per ispezionare il llÙO vigneto e il mio frutteto". Il Candeo non si accontenta e chiede di poter piantare qualcuna delle sue viti venete. Leone XIII che a qualunque altro avrebbe detto un no secco: "Pigliate subito accordi col maestro di casa - aggiunge - scegliete un angolo dei giardini e ... fate quel che volete". 42 Il parroco torna a Mestrino, prende alcuni vitigni di "raboso" e alla stagione giusta li trapianta in Vaticano. Tre anni dopo, la verifica. Le viti sono cresciute e tra i pampini si intravedono i primi grappoli. Il Candeo gongola di gioia e chiede di esser ricevuto in udienza. "Santità. C'è l'uva, venga a vedere". Qui il racconto dei testimoni si arricchisce di alcuni particolari fantastici. Il Papa incuriosito più dalla testardaggine del Candeo che dall'uva primaticcia, scende nei giardini e va verso il minuscolo vigneto. Guarda, riguarda, sfoglia, risfoglia, non c'è nemmeno un ricciolo di uva. "Glielo avevo detto, caro monsignore padovano - precisa il Papa tra il serio e il faceto - che a Roma la sua uva non attecchisce" . Il Candeo mortificato risponde: "Mi scusi santità, ma la prossima volta mi porterò i miei giardinieri che facciano la guardia ai grappoli perché qui a Roma appena volti l'occhio ti mangiano tutto". Risero di cuore tutti e due. E il Candeo tornato a casa la domenica successiva raccontò con dovizia di particolari l'episodio alla sua gente, concludendo che non basta piantare viti, sia pure nell'orto del Papa, se poi non c'è nessuno che custodisce l'uva. 43 SI POSSONO STACCARE I BATTAGLI ANCHE PER UNA DAMIGIANA DI VINO I dispetti tra sindaco e parroco finiscono in caserma. Ma il giorno della sagra patronale tutto si conclude con un pranzo. La storia è tutta vera, ma non possiamo dirvi i nomi dei luoghi e dei protagonisti, perché ci sono voluti anni prima che gli animi dei parrocchiani s'acquietassero. Il Paese contava allora (1919) circa duemila persone. Le case disseminate tra il verde fitto dei campi, sembrano parlare di tranquillità e di pace. Siamo lungo la spalliera sinistra del Brenta. Da tempo c'è una specie di tacita guerriglia tra i simpatizzanti del sindaco e quelli del parroco. Se il primo è furbo, il secondo è testardo. Le ragioni, come al solito, sono futili: il suono delle campane, l'erba sulla piazza, le pozzanghere in cimitero ad ogni pioggia. Tocca al comune, no, tocca alla parrocchia. Ma il motivo del contendere è un altro: la figlia del sindaco, la quale non fa mistero, né delle sue bellezze, né del fatto che il suo genitore sieda sullo scranno più importante del Comune. Si dà troppe arie. Una domenica pomeriggio essa partecipa al canto del vespro con le amiche e coetanee. Prima della benedizione con il Santissimo, il parroco passa tra i banchi per la solita questua. La ragazza allunga anche lei il braccio per porre nella borsa il suo obolo, ma improvvisamente il parroco le dà uno schiaffo sulla mano e aggiunge: "Svergognata". La ragazza non è vestita a modo, parecchi se ne erano già accorti, ma adesso tutti la guardano. Lei non batte ciglio: non sai se dentro covi furore o voglia di piangere. Il giorno dopo, il caso della sberla è sulle labbra di tutti. Ad ,arrabbiarsi per primo è il padre che si sente offeso non tanto come genitore (dice alla moglie che la figlia si meriterebbe ben altre sberle), ma come primo cittadino: e invece di chiedere spiegazio- 44 ne al parroco come il buon senso suggerirebbe, organizza una sua piccola ma clamorosa vendetta. La sagra del paese cade il 25 luglio con titolare l'apostolo S. Giacomo. È usanza alla vigilia della festa scampanare fino a sera inoltrata. Dopo il tramonto, quando non c'è più nessuno in piazza, il sindaco entra di soppiatto in campanile: "Ragazzi - dice ai tre vigorosi campanari - volete darmi una mano?" e spinge avanti una damigiana piena di vino bianco. Il patto è chiaro: "Nessuno deve sapere niente, voi salite sulla cella campanaria e staccate i battagli delle tre campane". II vino ad operazione compiuta sarà tutto e soltanto per loro. Lo sbullonamento delle viti richiede parecchio tempo, ma a mezzanotte i battagli sono già a ridosso della scala. La mattina seguente, il sacrestano, che non sa nulla della faccenda, entra in campanile e tira più volte le corde ... ma le campane non suonano. La messa è alle sette es' è già fatta su gente. Cosa succede? Provate voi. I più mattinieri provano e riprovano, ma lassù è silenzio. Poco dopo arriva il parroco: si arrabatta anche lui tra le corde per qualche minuto, poi gli viene un sospetto. Infila la scala e sale fino alla cella dove scopre i battagli accatastati. Adesso non ha dubbi: è una canagliata del sindaco. Dopo la prima messa, va alla caserma dei carabinieri: "Signor maresciallo, voglio giustizia". L'ufficiale ascolta con pazienza e si limita a dire: "Verrò più tardi". Alla messa ultima, in prima fila c'è il sindaco con l'intera giunta comunale. Il parroco se lo vede davanti e vorrebbe dirgli un sacco di cose, ma in fondo alla chiesa c'è il maresciallo in alta uniforme con i due attendenti. Finisce il canto del coro, finisce la predica, finisce la messa. Il parroco, deposti i paramenti, corre sul sagrato dove lo attendono il sindaco e le forze dell'ordine. La voglia di sfogarsi è tanta. Ma il sindaco lo previene: "Signor parroco, signor maresciallo, vi invito a pranzo a casa mia". 45 TRA L'OLIO DEI FASCISTI E L'AMICIZIA CON NUVOLARI È tuttora vivo il ricordo di don Luigi Corradin (1881 - 1961) parroco di Barbano (Vicenza). Molti episodi della sua vita fanno parte delle curiose storie del suo paese. L'imprevedibile incontro con l'asso delle Mille Miglia. Era nato per sorridere e per far ridere. Madre natura gli aveva regalato un' intelligenza di eccezione, aggiungendovi una buona dose di equilibrio. A Barbano, la parrocchia che resse dal 1926 al 1961, lo ricordano tutti e le cose che di lui si raccontano sono entrate ormai a far parte della leggenda locale. Don Luigi Corradin nasce a Lusiana (Altopiano di Asiago) nel 1881. Suo padre era sindaco del paese, un uomo cortesissimo, e di coscienza intemerata. Sulla fede e sull'onestà non accettava compromessI. Luigi entra nel seminario maggiore di Padova dove dopo aver percorso il normale iter di studi classici e teologici viene consacrato sacerdote nel 1909. È cappellano successivamente nelle parrocchie di Concadalbero, Agna e Stanghella. Come altri preti è richiamato al servizio militare durante la guerra del' 15 - '18. Rientrato in diocesi, nel 1921 gli viene amdata la curazia di Conche, un mucchi etto di case sparse sulla gronda della laguna di Chioggia. Il piccolo paese è frazione del comune di Codevigo, un borgo che in quegli anni metteva paura perché le autorità civili non solo erano iscritte al partito fascista, ma usavano olio e manganello contro chi la pensava diversamente. Oppositore esplicito era il curato don Corradin e, con lui, i fabbricieri della comunità. Qui accadde il primo clamoroso episodio che mise in luce il suo temperamento, allegro e forte. Una sera un camion si ferma davanti alla porta della canonica: quattro facce spiritate scendono e chiamano il curato. "Cosa vole- 46 te?". "Salga" gli intimano gli ignobili figuri. Don Luigi s'arrampica sulla macchina e scopre che ci sono altre persone ad attenderlo. Le conosce tutte, tra queste, il suo medico: gente del Fascio della prima ora. n camion percorre un lungo tratto di strada fino alla vecchia trattoria "AI Gambero". Qui lo fanno scendere, e, spinto lo dentro la sala illuminata da una lampada ad acetilene, lo costringono a bere un grosso bicchiere di olio da motori. n Corradin trangugia il tutto senza battere ciglio. Poi esce a piedi e ritorna in canonica. Fortunatamente, lungo la strada lo stomaco si libera dall'intruglio. Don Luigi (era lui a raccontare, in diverse edizioni la vicenda) chiama la zia: "Venite in chiesa e accendete sei candele e poi, ripetete amen ad ogni versetto". La buona donna eseguì a puntino le prescrizioni del nipote, il quale andò all' altare, apri il tabernacolo e, inginocchiatosi sul primo gradino, recitò adagio il famoso salmo 108 (109). Conseguenza o coincidenza? Nel giro di poche settimane se ne andarono all'altro mondo i capi dell'odiosa bravata. All'infuori del medico che il giorno dopo era andato a chiedergli scusa. Nel 1926 il vescovo Elia Dalla Costa lo nomina, prima curato e poi parroco di Barbano, un luogo disseminato lungo la statale Padova - Vicenza. Don Corradin eredita dal suo predecessore don Boldi una situazione pastorale esplosiva a causa delle contrapposizioni politiche: leghe bianche, leghe rosse, fascisti, grossi terrieri. Chiama tutti a raccolta per il completamento della chiesa, del campanile e della canonica. n suo buon umore e l'intelligente autorevolezza riportano gli animi alla calma. Nella nuova chiesa mancano le finestre. Perché spaventarsi? Una domenica, prima del vangelo, sciorina una decina di nomi di famiglie benestanti: "Le ringrazio sentitamente - dice - perché ciascuna ha offerto il corrispettivo per l'acquisto di una finestra". Finita la messa, gli interessati si precipitano in sacrestia: "Ma signor parroco, noi non abbiamo promesso niente". E lui: "Calma! Se proprio insistete, io domenica prossima dirò in chiesa che voi non intendete fare l'offerta". O prendere o lasciare. Gli offerenti ... involontari si rassegnano e dopo qualche settimana le finestre sono sistemate. ..-----------------------------------------------. 47 Non dimenticava una questua, né tralasciava le famiglie dei mangiapreti. Don Luigi si presenta sull'aia d'uno di costoro. Il vecchio padrone è ricco, ma non ha mai scucito niente per la chiesa. "Reverendo, cosa desidera?". Il parroco sorride: "Niente, tanto sei povero in canna". L'altro si infuria, va in granaio e riempie di granoturco un sacco da quintale. "Se riesce a portarlo giù, è suo". C'erano due rampe molto ripide da fare e don Luigi era tarchiato sì , ma non un colosso. La scommessa però valeva la candela. Il parroco prende il sacco per la bocca, se lo piazza sulla spalla destra e, sicuro come un alpino tra le rocce, ridiscende i gradini. La questua è fatta e da quel giorno l'avversario diventa suo simpatizzante. Don Corradin era un formidabile barzellettiere. Naturalmente, i destinatari erano i suoi confratelli sacerdoti, i quali sapevano che era lui il protagonista di molte situazioni umoristiche. La più curiosa fu quella di Nuvolari, l'asso italiano delle mille miglia. Don Luigi aveva la cattiva abitudine di arrivare quasi sempre in ritardo. Deciso un giorno di recarsi per affari a Padova, s' accorse di essere fuori orario per prendere la corriera di linea. Si piazzò in mezzo alla statale e chiese un passaggio alla prima macchina. "Suonava mezzogiorno al mio paese - era solito raccontare - e arrivai a Padova che le campane suonavano mezzogiorno. Al volante c'era nientemeno che Nuvolari". I due rimasero amici per tutta la vita. 48 LA CAMPANELLA INTERROMPE UNA PREDICA NOIOSA Non è sufficiente essere bravi arcipreti. Anche l'età ha il suo peso e allora c'è qualcuno che ce lo ricorda. Un giudizio umoristico del vescovo Elia Dalla Costa. "Sono nato vecchio, mi toccherà morir giovane". Invece, è vissuto 89 anni, pagando però il simpatico scotto di sentirsi sempre chiamare con il nomignolo "el vecion: il vecchione". Mons. Antonio Rampazzo (1849-1938), ordinato sacerdote nel 1872, dopo una duplice esperienza in diocesi di cappellano, fu assunto come segretario personale dan' allora Vescovo di Padova, Mons. Giuseppe Callegari. La scelta non fu occasionale, perché il Rampazzo era dottore in teologia e predicava magnificamente. Di lui si conservano ancora nella biblioteca del Seminario il volume delle prediche quaresimali, tenute nella Basilica di Sant' Antonio, e quello dei panegirici recitati nelle circostanze liturgiche più varie. Svolse così bene l'attività di segretario che un giorno il Vescovo gli disse: "Sono vecchio e vorrei sistemarti, prima di morire. Ti mando parroco al Carmine" (una grossa parrocchia della città di Padova). Affare fatto. Al Carmine, il Rampazzo fu parroco per 21 anni. Nel 1903, il Callegari che aveva ricevuto il titolo di Cardinale dall'amico Pio X, Papa Sarto, mandò a chiamare il Rampazzo. Era vacante la parrocchia della Cattedrale: "Ho bisogno - gli disse - di un Arciprete di polso, chi, secondo te, potrei scegliere?". Il Rampazzo, senza battere ciglio, rispose: "Mandi me, tanto, li conosco tutti i preti della Cattedrale". Il Presule sorrise: "Tu no, tu sei ancora troppo giovane". E l'altro a ribattere: "Ma poi diventerò vecchio, Lei sa che mi chiamano il vecchione". Aveva oltre 60 anni sulle spalle e molta esperienza pastorale. Poteva fare anche il vescovo. Il Callegari gli affidò la nuova par- 49 rocchia e cosÌ ricevette pure la nomina di Presidente del Capitolo della Cattedrale. Incominciava una nuova stagione sacerdotale, ma le energie non erano più quelle. Pregava, discuteva, predicava, senza però quel piglio che gli era stato caratteristico in passato. Anzi. Un giorno gli capita in sacrestia un suo cappellano che ha in tasca la nomina a parroco: "Arciprete - gli dice - sono venuto per salutarla e ringraziarla". Il Rampazzo lo guarda negli occhi: "Chi è lei?". L'altro lo guarda come per dire: "Non mi conosce?". E infatti, l'Arciprete non lo conosceva, o almeno, non lo ricordava: eppure il cappellano già da quattro anni lavorava con lui. Uno sprizzo di fantasia lo ebbe nel gennaio del '31: per la festa del papa era stato officiato come oratore don Giacomo Meneghello segretario del vescovo Dalla Costa. Com'era tradizione tutti i fedeli delle parrocchie della città convennero in Cattedrale. Concluso il canto del vespro, il Meneghello sale sul pulpito e inizia il discorso sulle prerogative della Chiesa: una, santa, cattolica, ed apostolica. Il Rampazzo, piviale addosso e mitria in testa, come gli altri canonici, sonnecchia ma tiene l'occhio sull'orologio. Dopo un'ora esatta l'oratore sta ancora dimostrando che Gesù ha istituito la Chiesa "una". Il vecchio arciprete guarda in giro e vede facce stanche e annoiate. Si alza, va alla porta della sacrestia e suona con violenza la campanella urlando: "Basta!". "Deo gratias! - commentò la gente - il vecchio Arciprete è tutt'altro che rimbambito". Il Vescovo Dalla Costa che presiedeva la liturgia si alzò e andò all'altare per la benedizione eucaristica, ma si guardò bene dal fare commenti, tanto più che si trattava del suo fedelissimo segretario. Sui rapporti tra il Dalla Costa e il Rampazzo circolava tra il clero questa barzelletta. La prima volta che aveva incontrato l'anziano Arciprete, il Dalla Costa si era lasciato sfuggire sottovoce un: "Mio Dio, quanto è vecchio". L'anno successivo, vedendoselo nuovamente davanti, aveva detto: "Mio Dio, questi è immortale". AI terzo incontro, esaurì ogni commento osservando: "Mio Dio, il Rampazzo è eterno!". Nel 1932 il Dalla Costa passa dalla sede di Padova a quella di Firenze. Gli succede il Vescovo Carlo Agostini (1939 - 1949): uomo intransigente con se stesso e con gli altri. I canonici, per la circostanza del suo ingresso, decidono di andare in episcopio a 50 porgergli il benvenuto. Poiché spettava al Presidente del Capitolo assolvere il compito, il Rampazzo ottantatreenne pensò che era meglio improvvisare. Trovatosi però davanti al Presule e ai colleghi che lo scrutavano, farfugliò una serie di incredibili papere, di cui segnaliamo soltanto l'inizio: "Eccellenza, in questi tempi cosÌ difficili in cui si dice: fatti in là io che ci voglio stare tu ... " Continuò imperterrito, ma i presenti si resero conto che era diventato davvero "il vecchio ne" . 51 VENGO A ROMA SE MI NOMINA CAPO DELLE SACRE CANTINE Farebbe un gran servizio alla diocesi e al clero chi andasse a spulciare nei vecchi archivi alla ricerca di quelle simpatiche figure di sacerdoti antico stampo, che avevano una carica umana grandissima ed una riserva di umorismo da risuscitare anche ... i morti. Nella galleria dei preti estrosi certamente non potrebbe mancare don Giovanni Lazzarotto che fu parroco di Rivai (diocesi di Padova) dal 24 giugno 1896 fino al 2 febbraio 1935, giorno della sua morte. Era nato a Valstagna nel 1871 e dopo l'ordinazione sacerdotale era rimasto cappellano in parrocchia con la mansione di curato di Collicello. A Rivai, sulle montagne Feltrine passò praticamente tutta la vita segnalandosi per tante cose, non ultima, una rara competenza in fatto di vini. Dotato di un'intelligenza non comune, "teneva" di quelle prediche da far restare, come si suoi dire, a bocca aperta gli uditori. Aveva in canonica come ospite, nientemeno che una nipote del cardinale Gaetano De Laj, maestra in paese. In autunno lo zio porporato andava lassù a trovare la nipote e aveva quindi modo di parlare e di conoscere a fondo (almeno così il cardinale supponeva) il Lazzarotto. Una volta, di ritorno a Roma, il De Laj, che era rimasto straordinariamente impressionato del parroco di Rivai, gli scrisse un biglietto dove diceva pressappoco cosÌ: "Visto che lei ha tante doti ecc .... avrei pensato, se non ha niente in contrario, di chiamarla a Roma. Se viene, le troverò un posticino ... " Ci sarebbe stato da fare un infarto per un comune parroco di montagna di fronte a un invito del genere. Non succede infatti tutti • S2 i giorni che un cardinale proponga a un parroco, senza titoli di studio e senza raccomandazioni, di entrare a far parte degli addetti ad una delle tante Congregazioni romane! Ma il Lazzarotto non si scompose per nulla. I sette colli di Roma non erano per niente più affascinanti delle montagne di Rivai, né tantomeno lo interessava il prestigio di scribacchino monsignorile presso un dicastero dell'Urbe. Avrebbe almeno potuto, per schermirsi dalla proposta, fare una letterina infiocchettata di giustificazioni, magari esprimendo gioia e commozione per il lusinghiero invito. Fece appello invece al suo umorismo di sempre e rispose con questo brevissimo biglietto: "Eminenza: accetto subito e volentieri la proposta, purché ella mi metta a capo delle sacre cantine". Ma al cardinale lo scherzo non piacque: mandò una lettera raccomandata alla nipote in cui le ingiungeva di allontanarsi subito dalla scuola e dal paese di Rivai perché lui si era già interessato di trovarle un altro posto. E il Lazzarotto sorrise, beato anche per questa partenza. 53 QUANDO SUL FAR DELL' ALBA L'ARCIPRETE ANDÒ A PRELEVARE LE CAMPANE È accaduto sull'Altopiano di Asiago all'inizio del secolo. Una lezione per insegnare alla gente la puntualità. Se n'era andato in punta di piedi, la vigilia del Natale 1917. Aveva 88 anni, ma ne dimostrava molti di meno. Qualche giorno dopo, la stampa locale nel ricordarne la figura, scriveva: "È scomparso il prete delle campane". Mons. Domenico Bortoli nasce ad Asiago (Vicenza) il 16 marzo 1830. Ordinato sacerdote, lo troviamo parroco, prima a Romano d'Ezzelino, poi ad Asiago, la piccola capitale dell' Altopiano dei Sette Comuni, dove rimarrà come arciprete fino al 1916, quando per l'invasione austriaca dovrà esulare con tutta la popolazione. Pastore di grande equilibrio, si distinse anche per la sua cultura e per le notevoli doti di oratore e scrittore. Rimangono di lui una trentina di opere. La più importante riguarda proprio le campane. Il 20 settembre 1880, per ricordare la presa di Porta Pia, alcuni suoi parrocchiani facinorosi sfondarono la porta del campanile e, nonostante le rimostranze dell' arciprete, suonarono le campane. Il parroco non si diede per vinto e dopo avere protestato in chiesa, si rivolse alla magistratura. La causa andò per le lunghe con appelli su appelli, fino alla Cassazione che riconobbe ai soli parroci il diritto di regolare l'uso delle campane. Il Bortoli fece murare all'interno della chiesa una lapide (purtroppo distrutta dalla -guerra) su cui in latino elegantissimo raccontava la vicenda. Ma qui lo ricordiamo per un altro motivo. Stimato per le sue capacità pastorali era temuto per la sua puntigliosità. Gli anziani raccontano, a questo proposito, un episodio che ha il sapore della leggenda. 54 I l, I Agli inizi del '900 ci fu un inverno particolarmente lungo e nevoso. Il comune di Asiago doveva provvedere al sostentamento dei più bisognosi, fra i quali c'erano quasi tutte le famiglie della piccola frazione del 'Sasso'. I "sassesi" soliti recarsi come carbonari in Croazia o addirittura in Ungheria, dopo mesi di duro lavoro, tornavano a casa con parecchi soldini in tasca. Quell'inverno, poiché nessuno aveva potuto muoversi, venne a mancare il pane. Si rivolsero al sindaco del capoluogo, che, controllate le casse del Comune, rispose desolato che non poteva far niente. "Rivolgetevi - disse - all'arciprete Bortoli, può darsi che abbia lui una soluzione". L'arciprete si trovò una mattina davanti alla scrivania dell' ufficio parrocchiale i rappresentanti della frazione del Sasso. "Monsignore - gli dissero abbiamo fame. Può farci un prestito? Salderemo tutto alla fine della prossima estate". Il Bortoli che non era danaroso, ma parsimonioso, rispose di sì subito; conoscendo però la scarsa lealtà degli astanti, precisò: "Quando me li restituite?". E quelli: "Il primo settembre del prossimo anno". Lui insistette: "La data l'avete fissata voi, non io. Dunque, d'accordo per il primo di settembre". Passano i mesi. I sassesi vanno a lavorare all'estero e tornano con parecchi soldi. II primo giorno di settembre Mons. Bortoli è puntualmente al tavolo di lavoro, aspetta i ... reduci. Ma questi non si fanno vedere, nemmeno il giorno seguente. La mattina dopo, l'arciprete noleggia una carretta trascinata da un paio di buoi e va al Sasso. I due uomini che l'accompagnano collocano un'incastellatura di legno attorno al campanile; poi con complicate operazioni staccano le due campanelle e le pongono sulla carretta. L'arciprete è seduto sull' avancarro e recita il breviario. Concluso il lavoro (nel frattempo s'era fatta su gente), il convoglio si muove verso Asiago. I sassesi lo seguono implorando: "Arciprete, pagheremo presto, ci lasci le campane". C'è da fare più di qualche chilometro, ma il Bortoli non si scompone, anche se dietro al carro c'è tutto il paese che supplica. Arrivato alla canonica, calmo e tranquillo scende e, accompagnato dai due operai, va ad affacciarsi al poggiolo della canonica stessa. La gente del Sasso, sorpresa dalla strana manovra, guarda verso l'alto. Il Bortoli è tutto sOITidente, allunga la mano destra in segno di riconciliazione e 55 dice: "Cari amici del Sasso. E adesso che mi sono tolta la soddisfazione di vedervi tutti qui, ripigliatevi le vostre campane. Vi condono il debito delle diecimila lire che dovevate restituirmi l' altro ieri. Ma, prima di andare a casa, passate dalla trattoria della Nena: bevete un buon bicchiere. Pagherò io anche quello". 56 AL CAPPELLANO INFREDDOLITO TANTE SCUSE E UN MANTELLO L'episodio a Balduina nell 'inverno del 1925. Il giovane sacerdote era "provvisoriamente" nella piccola parrocchia da due mesI. Nato a Ron di Valdobbiadene (Treviso) il 9 febbraio 1900, inizia giovanissimo la strada che dovrà portarlo al ministero sacerdotale. La prima guerra mondiale lo costringe ad interrompere gli studi e, durante l'occupazione austriaca del luogo, aiutò, anche a rischio della sua vita, i compagni di sventura ed organizzò un servizio di informazioni per gli italiani al di là del Piave servendosi di piccioni viaggiatori. Conclusa la guerra e rientrato in seminario, don Luigi Dalla Costa venne ordinato sacerdote nella basilica di S. Giustina a Padova, per mano dell'allora vescovo mons. Elia Dalla Costa, il 19 luglio 1925. Da quell' epoca, la sua vita è stata tutta un susseguirsi di peregrinazioni nei posti più sperduti della vastissima diocesi. Cappellano a Montegalda, Schievenin, Collicello, Cismon del Grappa, fu parroco di Rivai per 13 anni. Muore il 5 aprile 1983 a Guia S. Stefano. Tra i vari primati che don Luigi Dalla Costa deteneva, c'era anche quello di cappellano per soli due mesi a Balduina, adesso un paesino piantato lungo l'Adige, ma che allora era una grossa comunità della diocesi di Padova. Nella storia della parrocchia una presenza così breve potrebbe anche non contare nulla se ad essa non fosse legato un commovente episodio che ha per protagonisti Dalla Costa e il suo omonimo vescovo di Padova. "Di ritorno da Alano - raccontava don Luigi - trovo un biglietto del vescovo Elia Dalla Costa che mi dice che sono stato nomi- 57 nato cappellano di Valdobbiadene. Mi presento all'arciprete Bonato il quale appena mi vede: "sbagliato! - grida - sbagliato! Non ti voglio!". Don Dalla Costa che era un prete novello, di fronte a un rifiuto così deciso, scrive al vescovo il quale immediatamente risponde: "Venga giù subito per alcuni giorni". Convinto che si trattasse di un incontro chiarificatore, don Luigi andò a Padova con sotto il braccio una grossa scatola di cartone con dentro una camicia di ricambio. "Appena entro dal vescovo - egli racconta - mi sento dire: Se ... mi fa piacere di andare a Balduina". "Dov'è Balduina? dico io". Il vescovo tace per un istante poi risponde: "Non lo so neanche io". Chi sbrogliò la matassa fu mons. Pretto, allora cancelliere della Curia, che suggerì a don Luigi di andare a dormire quella sera da don Carlo Riva, parroco delle Grazie di Este; di lì il mattino successivo, qualcuno gli avrebbe insegnato la strada. Infatti il mattino seguente don Luigi poté arrivare a Balduina. Era l'inverno del 1925, un anno freddissimo, tanto che in quei giorni anche l'Adige era a tratti gelato. Il giorno dopo Natale, il vescovo Dalla Costa arrivò a Balduina per la visita pastorale: tutto andò per il meglio tanto che alla sera don Luigi si fece coraggio e salutando il presule: "Eccellenza - gli disse - Potrei andare a casa per qualche giorno?". Il vescovo sorpreso ribatté: "Come? Non è mica contento di stare qui ?". Il cappellano precisò: "lo non ho niente contro Balduina, anzi! Ma almeno mi sia consentito di andare a casa a prendermi un po' di roba: sono venuto qui senza niente perché Lei mi aveva detto che era solo per pochi giorni". Il vescovo Dalla Costa stette per un attimo soprappensiero poi esclamò: "Oh si, mi ricordo che le ho detto così, mi ricordo". Poi mettendosi le mani nei capelli, disse forte: " ... E sei vescovo! E stai nel tuo vescovado al caldo e qui i tuoi sacerdoti a soffrire il f re dd o ... e seI. vescovo.l" . "Ebbi la convinzione - ricordava don Luigi - di aver sbagliato a fare la richiesta". 58 Invece, prima di partire, mons. Dalla Costa aggiunse: "Tra qualche giorno lei riceverà un bigliettino per la nuova destinazione. Mi perdoni sa, mi perdoni sa". E scoppiò a piangere: si tolse il mantello e lo mise sulle spalle di don Luigi il quale fece il gesto di schernirsi: "No, no - insiste il vescovo - io sono al caldo in vescovado e lei è qui che soffre il freddo". 59 QUEL VENERDÌ SANTO IL CROCIFISSO NON SI MOSSE Due sacerdoti simpaticissimi amici s'accordano sul rito e la predica della Passione. Tutto era stato previsto ma all'ultimo momento qualche cosa non funzionò. Amici per la pelle. Lo furono per tutta la vita: li accomunava lo zelo per le anime, l'amore al crocifisso, lo spirito di povertà e ... l'estrosi tà. Il primo ad andarsene fu don Felice Velluti nel 1972 a 89 anni: chiuse gli occhi presso l'Opera della Provvidenza Sant' Antonio a Sarmeola (Padova) dov'era noto come "il prete adoratore". Aveva sulle spalle un percorso pastorale vario e assai lungo: sei volte cappellano (rischiò il carcere per aver difeso i diritti delle donne operaie), due volte parroco (l'ultimo fu agli Eremitani a Padova dove ricostruì la chiesa gravemente lesionata nel 1943 durante un bombardamento) . Non aveva mai un soldo in tasca; se arrivava un povero all'ora di pranzo, gli dava tutto quello che la domestica aveva preparato sulla tavola; sorprese più volte i ladruncoli a manomettere le cassette delle elemosine, ma non li denunciò mai: "Se lo fanno - era solito dire - significa che hanno fame". Aveva un temperamento forte per cui talvolta sbottava in rimproveri improvvisi. A farne le spese erano i cappellani. Ma puntualmente anche dall'altare chiedeva scusa. Quando rinunciò alla parrocchia, se ne andò con due valigie e il breviario sottobraccio. "Chiuda la canonica a chiave" gli disse il sacrestano. E lui di rimando: "Non c'è più niente da rubare". Lo segui nella pace, un decennio dopo, Don Girolamo Tessarolo. Consacrato sacerdote nel 1915, costui si distinse subito per l'intraprendenza e la generosità. Lo chiamavano "uragano". Nelle parrocchie dov'è passato ha lasciato un segno: istituì 60 compagnie teatrali, promosse numerosi gruppi bandistici e corali, riscrisse drammi e commedie, tenne corsi di esercizi spirituali e di formazione sociale. Ebbe anche per alcuni anni l'incarico di assistente diocesano (Padova) della Gioventù femminile di Azione Cattolica. Trascorse gli ultimi anni presso la locale Casa del Clero. In data 21 giugno 1980 scrive nel suo diario, ricordando i 65 anni di sacerdozio: "Come si svolse il cammino della mia vita?: nec labore victum; mai piegato dalla fatica (1915 - 1943); nec morte vinciendum, coraggioso fino alla morte (dal 1943 al 1945 fu arrestato, minacciato, sorvegliato dalla polizia fascista); nec mori timere; senza paura della morte (dal 1945 in poi), nec vivere in cruce recusare; non rifiutò di patire sulla croce (dal 1975 fino alla morte). Aveva le sue piccole manie. Alle 21 era già a letto, ma caricava la suoneria della sveglia perché a mezzanotte doveva prendere le gocce per dormire. Dicevamo: estrosi tutti e due. Il Velluti aveva pregato il Tessarolo di tenere nella Chiesa degli Eremitani il discorso della Passione del venerdì santo del 1939. L'amico gli aveva detto subito di sì, anche perché il tema gli era più che congeniale. Il Tessarolo era facile a commuoversi, ma riusciva spesso anche a far commuovere. La sera del venerdì santo la chiesa è zeppa di fedeli. In sacrestia tutto è pronto: i chierichetti con i candelieri che affiancano la croce, i confratelli del SS.mo con le torce accese, il sacrestano con le mani vicino agli otto interruttori della luce, il Velluti accanto alla porta che dà sulla navata. L'accordo tra i due sacerdoti è che, non appena il Tessarolo che sta predicando dirà: "Vieni o Croce di Cristo", il sacrestano dovrà spegnere tutte le luci della chiesa, il Velluti spalancherà le due porte, verranno avanti i chierichetti con la croce e i candelieri, i confratelli andranno a inginocchiarsi davanti alla balaustra. Ed ecco che nel silenzio del tempio si sente la voce del Tessarolo: "Vieni o Croce di Cristo". La sacrestia si mette in movimento, ma la croce portata da un robusto chierichetto, s'incaglia sull'arpione dell'architrave. il Velluti cerca di dare una mano al ragazzo e intanto grida: "Avanti, fermi, spegni le luci, no, lascia acceso, confratelli indietro!". La croce non si muove: il Tessarolo 61 che non sa cosa sta succedendo in sacrestia, perde la pazienza e urla: "Vieni o non vieni, Croce di Cristo?". Niente da fare. La porta è spalancata e le luci rimangono accese. Il Velluti sgambetta qua e là come un grillo, per risolvere la situazione. Ma è troppo tardi: il pubblico ha capito e ride sonoramente. Domani è sabato santo e l'allegrezza di quel piccolo incidente ha già preparato tutti alla gioia della Pasqua. 62 SOTTOSCRISSE CON IL SANGUE LA SUA PROMESSA DI FEDELTÀ Dai quattro quaderni di appunti personali emerge lo stupendo profilo spirituale del sacerdote don Palmiro Stefani. "Ho lavorato sodo. Ho parlato. Ho pianto per le anime". C'è in questa frase del suo diario personale tutto il senso e lo stile del sacerdozio di don Palmiro Stefani. Il giorno dei suoi funerali un suo amico aveva definito don Stefani un "prete autenticamente padovano, equilibrato e sereno". Adesso occorre dire qualcosa, anzi molto di più. Anche noi che gli eravamo amici non lo conoscevamo a fondo come adesso che abbiamo avuto ]' inestimabile fortuna di leggere i volumetti dei suoi appunti spirituali e pastorali. "Voglio stare attento ad essere Gesù Cristo nel comportamento, nei gesti, specie nelle parole: spersonalizzarmi per sentirmi umile, ma dignitoso, preparato solo per Te, o Signore, e in vista dei diritti che ha il popolo di Dio". Così si esprimeva in occasione degli esercizi spirituali nel luglio 1968, ricordando il trentennio della sua ordinazione sacerdotale. "Signore - egli aggiunge - perdonami se non sono stato sempre zelante, pronto, presente". La sua prima preoccupazione era di offrire a tutti coloro che lo avvicinavano un'immagine autentica e credibile di sacerdote: "Il Vangelo e l'anima di ogni apostolato dello Chautard saranno i miei amici di viaggio. Non mi avvilirò mai né farò professione di superuomo, né mi lamenterò con i laici che il lavoro è troppo; farò e tacerò ... sempre di buon umore e di belle maniere con tutti, specie con i poveri e con i peccatori". I momenti forti della sua ripresa e verifica spirituale erano costituiti dai ritiri e dagli esercizi. I quattro libretti di note perso- 63 nali, i fogli sparsi con minuziosi programmi di vita e gli appunti in margine ai libri rivelano come dagli esercizi spirituali ritraesse l'ispirazione costante a rinnovare tutta la sua vita interiore con l'insegnamento della Chiesa. "Non amministrare alcun sacramento senza avere premesso una preghiera. Chi non obbedisce a Dio, obbedisce a un sacco di sciocchezze. L'amore ha le sue esigenze, e quindi non si violenta la libertà insistendo". Fedele agli insegnamenti ascetici ricevuti in seminario costruiva la sua pietà sacerdotale attraverso le "cose" sante che maneggiava: ritorna infatti di frequente nei suoi scritti la frase" imitamini quod tractatis". Il sacerdozio gli dava una gioia continua, anche se sofferta e contrassegnata dagli inevitabi I i contrattempi e dalle segrete croci di cui era testimone solo Gesù nel tabernacolo. Nel suo programma la preghiera occupa un posto fondamentale: "Il mio orario: due ore di preghiera al giorno ... Riposo alla sera con prima la meditazione di almeno venti minuti, in studio, e preghiera serotina". Catechesi ammalati, bambini, visitatori, confratelli: Tutti gli sono presenti: "Come la mamma che veglia accanto al capezzale della sua creatura dì e notte, così io pastore devo vegliare, preoccuparmi dei miei figli. I parrocchiani non sono schiavi ma figli. La bontà non vuoI dire rinuncia ai principi. Posso essere contro gli errori e i disordini ma devo fare in modo che vedano che sono costretto a malincuore a fare un rimprovero, un ammonimento. La bontà è un tempio che poggia su quattro colonne: umiltà, preghiera, contentezza, pazienza". Le tappe del suo ministero sono state: cappellano a Boara e a Monselice, parroco a Prozzolo dal 1947 e a Torreglia dal 1959. Ma dappertutto ha avuto la preoccupazione di considerarsi il primo parrocchiano, quello a cui gli altri guardano come ad un esempio. "In tutto osserverò il massimo ordine. Nella mia persona serietà, povertà ed eleganza, austerità. Sarò maturo nel carattere, ponderato nei giudizi, educato nei modi, paziente con i penitenti, gli ostinati, i servienti. Compatirò sempre i giovani; pregherò, farò pregare quando ho cose importanti da risolvere e grazie da ottenere per l'apostolato. Le mie prediche saranno ben preparate e non di punta o di bersaglio o di sfogo. Farò capire che mi dispiace dire 64 certe cose. Saprò compatire, di più, andare in cerca senza spegnere il lucignolo fumigante ... ". Quando la morte lo colse aveva 63 anni, ma non era impreparato. Quattro anni prima, e precisamente l' 11 febbraio 1970, a Torreglia dove era parroco, durante la messa ebbe uno sbocco di sangue. "Quel giorno - annota nel libri cino di commento al corso di esercizi fatti successivamente - poteva essere il mio dies natalis. Non ero pronto? Impreparato forse ... Comunque sono qui ancora una volta per apprendere dalla lezione a fare di più, a fare meglio e ringraziare: Nos qui vivimus, benedicimus Dominum, come ' disse Mosè dopo il mare Rosso. Anch'io ho attraversato il rosso del mio sangue: poteva essere la fine. Oh, quanto è buono il Signore. Grazie!" Finita la guerra aveva scritto: " ... Ne inizio un'altra, quella contro me stesso ... per vincermi e salvare l'anima mia. Sono sacerdote del Dio Altissimo. Ogni mia giornata è un guadagno o una inesorabile perdita. Con l'aiuto di Dio mi santificherò. Basta che io lo voglia. Non baderò mai a che cosa dirà la gente e diranno i superiori. Baderò a che cosa scrive ogni sera Dio nel libro della mia eternità che mi attende presto". Gli ultimi appunti riguardano ancora un corso di esercizi spirituali. Sono frasi che rivelano la costante preoccupazione di essere fedele allo stile di vita sacerdotale scelto nel giorno della sua ordinaZIOne. "La povertà dov'essere sposata, non portata in piazza. Povertà è essere servi degli uomini: dire sempre di sì". Il motto che spiega il suo atteggiamento di serenità e di vivacità giovanile era: "Volontà di Dio, paradiso mio". E ad esso rimase tenacemente attaccato, sicuro di non tradire mai gli impegni di santità personale che all'indomani della sua ordinazione sacerdotale aveva voluto sottoscrivere con il suo sangue. Nel suo "libricino" d'oro (quello che teneva più segreto), tra le pagine del primo regolamento di vita sacerdotale sono vergate a sangue queste parole: "A Maria, mamma del mio Sacerdozio la triplice purezza: mente - cuore - corpo. Questo è scritto con il mio sangue: mai smentire quanto di tuo sangue tingi. Tutto spargerlo o don Palmiro! Mai cessare la lotta aspra e pur bella. Parola d'ordine: 65 Fino all'ultimo respiro! Gesù, davanti - Maria a fianco - Angelo Custode alle spalle!". Durante l'agonia fu udito bisbigliare in latino le parole della liturgia della messa "Per Lui, con Lui, in Lui ... ". Era la suprema conferma di fedeltà alla parola data a Cristo il giorno della sua ordinazione sacerdotale. 66 LA GUERRA, UN SALAME E LA TESTATA DI UN GIORNALE Mentre i nazifascisti gli mettono a soqquadro la canonica il parroco coraggioso si riprende i generi alimentari custoditi nel granaio. Di cappellani ne aveva avuti parecchi. Duravano poco, sia perché non sapevano come prenderlo, sia perché lui aveva un carattere molto forte. L'ultimo, tuttora vivente, era riuscito ad ammansirlo, tanto che dopo un lungo periodo di collaborazione, gli era succeduto nel governo della parrocchia. Don Vittore Spada nasce ad Alano di Piave nel 1888. Nel 1915 passa dal seminario alla trincea. Di ritorno, nel 1920, è ordinato sacerdote. D'indole battagliera, non gli riesce facile lavorare con altri confratelli. In dieci anni cambia, sempre con il ruolo di cooperatore, ben sette parrocchie. Finalmente, nel '31 gli viene affidata la comunità di Pove, un paese accoccolato ai piedi del Grappa, nella immediata periferia di Bassano, a specchio del fiume Brenta. Vi rimane fino al 1961, quando rinuncia alla parrocchia. Amato e benvoluto, muore il 14 gennaio, quattro anni dopo. A chi gli faceva osservare di avere poca esperienza della vita, ricordava, tra l'altro, che aveva combattuto nella guerra di Libia nel 1911. La sua figura di prete ha assunto un alone di leggenda e di storia proprio negli anni più difficili della seconda guerra mondiale. Antifascista doc, dopo lo sfacelo dell' esercito italiano (8 settembre 1943) si schiera dalla parte degli sbandati e successivamente del movimento partigiano. Si dà da fare per nascondere i "ribelli" nel granaio della canonica e per provvedere al sostentamento delle famiglie povere. 67 Il 21 settembre 1944 ventimila militari della Repubblica di Salò, tedeschi e russi (prigionieri passati al III Reich), dopo aver posto l'assedio a tutti i paesi della pedemontana, sferrano l'attacco al massiccio del Grappa dove sono annidati numerosi gruppi di partigiani. Il rastrellamento avviene palmo a palmo sui costoni dell'immensa montagna. Ogni paese, casa, strada, bosco, viene setacciato. Gli assassinii, i soprusi e gli arresti non si contano. Saranno più tardi i parroci delle comunità coinvolte nella tragedia a dare un resoconto e un giudizio su quanto accadde in quei giorni. Preziosa, a questo proposito è la testimonianza di don Spada, scritta nella "Cronistoria" parrocchiale. Anche la sua parrocchia fu invasa dai nazifascisti. Lui stesso, arrestato con l'imputazione di connivenza coi partigiani, viene processato a Bassano del Grappa, ma se la cava brillantemente senza bisogno di difensori. Come viene ricordato dai testi di storia della Resistenza, il dramma del Grappa si conclude con la sconfitta dei "resistenti". I nazifascisti ne impiccarono 171, alcuni dei quali del paese di Pove, 600 fucilati, centinaia e centinaia avviati ai campi di concentramento in Germania. Don Spada in quei giorni era impegnato a consolare le famiglie degli uccisi e dei deportati, a scongiurare i comandi "repubblichini" perché rispettassero la popolazione e lasciassero liberi i civili innocenti. Nella sua cronistoria c'è un curioso episodio che egli volutamente ha tralasciato. Il 20 settembre 1944, cioè un giorno prima dell'inizio del rastrellamento, forti contingenti di truppe "repubblichine" occupano i paesi della Val brenta a ridosso del Grappa. Tra questi, Pove. Una pattuglia delle "brigate nere" trascorre la notte tra violenze e furti terrorizzando gli abitanti. Don Spada esorta gli occupanti ad essere più corretti ma costoro fingono di non capire. Alcuni entrano in canonica con il pretesto di ricercare i partigiani nascosti. Mettono tutto a soqquadro, dalla cucina alla soffitta. Un brigatista si accorge di una piccola riserva di generi alimentari e, data una rapida occhiata, sceglie un salamone (in dialetto veneto "sopressa" ). 68 Ai piedi delle scale c'è ad attenderlo don Spada, braccia incrociate e cipiglio severo. "Quella è roba mia - dice al ladro in divisa - l'ho comprata io". E l'altro: "Reverendo, lei si sbaglia, questa "sopressa" me l' hanno data in fureria". Ladro bugiardo ma purtroppo con il mitra in mano oltre alla refurtiva. Il parroco che non ha mai avuto paura di nessuno: "Giovanotto - ripete - quella è roba mia e tu me la restituisci". Il tono di voce non ammette replica, ma il "repubblichino" incattivito insiste: "La smetta, questa è mia". Don Spada gli va vicino e lo spinge sotto la luce, poi gli strappa la "sopressa" e la scartoccia. Il foglio del giornale è sporco di grasso, ma la testata è leggibilissima: "L'Osservatore Romano". "Questo è il giornale dei preti - osserva don Spada - non delle brigate nere", quindi la "sopressa" non può essere tua. 69 QUANDO IL PARROCO SI FA ASSOLVERE DAL CAPPELLANO Il vecchio arciprete era un santo ma non accettava le bugie. Capace diforti rimproveri ma anche di grandi gesti di umiltà. Di lui abbiamo raccontato la storia in un libriccino ormai introvabile, dal titolo "Leggenda di un Patriarca". Lo strano aggettivo era stato volutamente scelto per indicare la sua eccezionale personalità di sacerdote e di pastore di anime. Mons. Pio Stievano nasce a Roncaiette (Padova) nel 1866. Consacrato prete nel 1888, è stato successivamente insegnante di lettere e di teologia morale nel seminario maggiore di Padova. Nel gennaio del 1908 riceve la nomina di arciprete e di abate mitrato di Piove di Sacco (Padova), una cittadina capoluogo della Saccisica, del territorio cioè che si estende tra il Bacchiglione e il Brenta, dalla periferia di Padova fino alla laguna veneta. Il suo ministero si caratterizzerà nell' attenzione ai poveri, nella catechesi fatta in gran parte in lingua dialettale, nell' attività di consigliere spirituale familiare e sociale. Autorevole e autoritario, era presente in ogni situazione difficile, suggerendo sempre le soluzioni adeguate. Anche i non praticanti la chiesa avevano per lui il massimo rispetto. Uomo di preghiera, ebbe la soddisfazione di vedere fiorire nella sua parrocchia una ventina di vocazioni sacerdotali e altrettante alla vita religiosa femminile. Muore a Piove di Sacco il 29 agosto 1939. Anche le generazioni che non l'hanno conosciuto continuano a tramandarsi i tanti e simpaticissimi aneddoti della sua vita. Particolarmente vivo è il ricordo del "patriarca" nei suoi rapporti con i cappellani. Ne ha avuti molti e quasi tutti giovanissimi. Tra questi, segnaliamo Don Lelio Bordin (1906 - 1987), un prete pieno di brio, fatto apposta per stare con i giovani. Dopo l'esperienza pastorale di Piove, diventerà cappellano militare (dal 1941 70 al 1971) guadagnandosi la stima e l'affetto dei soldati e degli ufficiali. L'otto settembre 1943 preferì consegnarsi prigioniero ai tedeschi piuttosto che abbandonare la sua truppa. Don Lelio portò a Piove le prime innovazioni ... clericali: la lettura del quotidiano, i capelli a spazzola, l'uso della radio e della motocicletta. Mons. Pio ogni tanto lo richiamava; di lui non gli piaceva quell'aria sbarazzina che faceva sospettare anche la presenza di qualche sotterfugio. Infatti. L'arciprete aveva introdotta la "piccola adorazione" del giovedì pomeriggio. Si recitavano alcune invocazioni eucaristiche intervallate da momenti di riflessione comunitaria. I sacerdoti della parrocchia non dovevano mai mancare. Un giovedì, Don Lelio prende la bicicletta e va a gironzolare per il paese dimenticandosi del!' appuntamento eucaristico. Arriva in duomo che è tardi. I suoi amici cappellani stanno uscendo di chiesa e uno di essi gli fa cenno che l'arciprete è nei paraggi. Meglio affrontare il p~ricolo, che scappare. Anche se lo tentasse, non servirebbe a nulla, perché l' onnipresente abate gli è già davanti. "Dove sei stato? La domanda è a caldo, ma precisa. Don Lelio risponde secco secco: "All'ospedale, Monsignore". È una bugia bella e buona, tanto più grossa, quanto più immediata. L'arciprete continua: "Che cosa c'è di nuovo a quest'ora in ospedale?" E il giovane cappellano risponde con sfrontata semplicità: "Sono stato a trovare un'anziana signora che è grave". Mons. Pio intuisce tutto, ma tace e va verso la canonica. Neanche farlo apposta, dopo cinque minuti arriva il cappellano dell'ospedale locale don Ettore Fabris. Battute rapide tra i due: "Chi è la donna grave all'ospedale? "Nessuna, Monsignore". L'abate insiste: "Ma me l'ha riferito appena adesso Don Lelio". II Fabris assicura che di malati all'ospedale "in questo momento ve ne sono tanti ma nessuno è grave". Il buon uomo pensava di dare un'informazione esatta, invece offriva un prezioso elemento di prova a ciò che Mons. Pio sospettava. La mattina seguente, come è sua consuetudine, l'abate sta recitando il breviario in sacrestia. Entra Don Lelio, ciuffo a spazzola e occhi pieni di sonno. "Dove sei stato ieri pomeriggio?" gli chiede l'arciprete. E lui imperterrito risponde: "All'ospedale a trovare una 7I malata grave". Apriti cielo! "Un'altra bugia - urla l'arciprete proprio qui, a me, tuo parroco, tu, cappellano giovane!" Gliene disse tante davanti alla fila dei chierichetti, che Don Bordin scoppiò a piangere. Improvviso cambio di scena: l'abate spinge Don Lelio verso uno degli sgabuzzini attigui, adibiti a confessionali e gli dice porgendogli la stola: "Confessanti". Il cappellano, tutto confuso, ascolta in silenzio l'accusa del suo parroco e gli dà l'assoluzione. L'abate si alza dopo essersi segnato e grida: "Qui, qui sono peccatore anch'io come tutti gli altri, ma ... in sacrestia sono il tuo arciprete". 72 E L'INSEGNANTE MANGIAVA LA PASTASCIUTTA SULLA CATTEDRA Lafigura di don Antonio Schiavo ci riporta agli anni '30 quando a far scuola nei ginnasi preseminariali parrocchiali c'erano i cappellani. Spero che a qualcuno venga la voglia di scrivere la storia delle "scolette" cioè dei provvidenziali ginnasi parrocchiali che durarono fino agli inizi degli anni' 40. La loro origine risale alla notte dei tempi quando i preti venivano "fabbricati in casa" ed ogni parroco o comunità presbiteriale aveva la preoccupazione di avviare qualche ragazzo al sacerdozio. Più recentemente erano organizzate a livello vicariale e rispondevano non solo ad un' esigenza di preparazione preseminariale ma anche a quella di consentire ai ragazzi più svegli la possibilità di continuare la scuola dopo le elementari. Ricordiamo tra le altre, le "sco lette" di Piove di Sacco, Cittadella, Asiago, Solagna, Monselice, Montagnana, Este, Padova (Seminario Maggiore), dove gli insegnanti erano sempre i cappellani ai quali bisognerebbe fare un monumento per la loro preparazione e capacità didattica. Voglio qui rendere omaggio ad un mio cappellano di Piove di Sacco (Padova), don Antonio Schiavo che negli anni '36 - '37, facendo il paio con don Lelio Bordin, mi insegnò il rosa, rosae e mi preparò con un'altra dozzina di ragazzi ad entrare in quella che noi allora si chiamava la terza ginnasio a Thiene (Vicenza), nell'indimenticabile Barcon. Don Antonio Schiavo (più tardi monsignore) era nato a Montagnana nel 1904. Ordinato sacerdote nel '27 fu cappellano a Montagnana, S. Giustina in Colle e Piove di Sacco. Nel '38 è parroco a Polverara e poi a Casale di Scodosia. Nel 1977 lascia l'im- 73 pegno pastorale ed è insignito del titolo di Canonico residenziale della Cattedrale di Padova. Muore il 25 agosto 1983. Ricordava sempre con rimpianto gli anni di ministero a Piove di Sacco dove a noi ragazzi insegnò un sacco di cose. Come facesse a tener testa a tutti gli impegni e contemporaneamente a mandare avanti la scuola è stato per me sempre un mistero. La scuola incominciava di solito alle 8.30. Diciamo "di solito" perché quasi ogni giorno noi alunni che eravamo anche chierichetti dovevamo prendere parte ai funerali, magari portando quei pesanti "penelli' (bandiere di lutto) che ci ammazzavano di fatica e poi ritornare in aula. Non c'erano sconti sull'orario. Le cinque ore erano implacabilmente cinque e quindi se ritornavamo a scuola alle 10.30 don Antonio non mancava di ricordarci che la chiusura era alle 15.30. Non c'era fame e non c'erano pianti capaci di commuoverlo. Devo però confessare che andare a scuola da lui era una festa perché sapeva stimolare la nostra ambizione di ragazzi variando le materie e impegnandoci in originali ricerche di storia e di letteratura. "Dovete essere i migliori dell' esame - era solito ripetere - e non voglio che, una volta in seminario, i professori mi abbiano a scrivere che qui non si fanno le cose sul serio". L'esame di ammissione al seminario si faceva a conclusione della seconda ginnasiale e bisognava presentare alla commissione il programma svolto. Nel '37 presentammo per l'italiano: 20 brani dell'antologia del!' Angelini, in riassunto scritto e orale e le seguenti poesie: Dante: "La bocca sollevò dal fiero pasto"; Carducci: "Quando sull'aure"; Zanella: "Odio l'allor; Pio Ciuti: "La resa dei Boeri"; Manzoni: "Soffermati sull'arida sponda"; "Ei fu; siccome immobile"; "Dagli atri muscosi dai fori cadenti"; Cervantes: "Terra di Spagna, terra di leggende e d'incanti"; Leopardi: "O patria mia, vedo le mura, gli archi e le colonne"; "Passero solitario"; "La donzelletta vien dalla campagna". 74 A proposito di quest'ultima, mi sia consentito raccontare un episodio che dà la misura della severità con cui don Schiavo ci allenava al senso del dovere. Una mattina di gennaio del '37 ci furono in parrocchia due funerali. Pace ai morti: noi scolari - chierichetti ci stropicciammo le mani in segno di esultanza. "Oggi - ci diciamo - si torna a mezzogiorno e don Schiavo si limiterà a spiegare. Niente interrogazione quindi". Considerammo provvidenziale la coincidenza dei due funerali perché nessuno di noi aveva mandato a memoria "Il sabato del villaggio" come toccava quel giorno. Rientrati, ci infilammo nei vec- . chi banconi della "scoletta" ricavata da una stanza delle millenarie canoniche della Corte Milone. Don Schiavo va in cattedra, apre il registro: "Balasso" dice. Era il primo dell'alfabeto. Il ma1capitato si alza, prima farfuglia alcune parole e poi confessa: "Professore, non ho studiato la poesia". "Zampieri, Grassetto, Burattin ... " e giù la sfilza degli altri nomi. Nessuno, quasi per un tacito accordo, ha mandato a memoria "Il sabato del villaggio". Quando l'insegnante pronuncia l'ultimo nome scoppiamo tutti a ridere. Mal comune mezzo gaudio, pensiamo. Ma incautamente. Infatti lui si alza e con un tono che non ammette replica: "Scrivete - dice - undici volte: La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole". Facemmo buon viso a cattiva sorte e ci buttammo a scrivere come forsennati. "Tanto - ci dicevamo l'un l'altro - si fa presto". Alla terza edizione avevamo i crampi alle mani; alla quarta eravamo in tilt. Ma il peggio non era ancora venuto. Don Antonio, come se non gli interessassimo più si fa passare dall' Angelina, la perpetua di canonica, attraverso la finestra della scuola che era attigua a quella della sua cucina, tovaglia, posate, bicchiere, pane, vino e ... pastasciutta. Fa il segno della croce tutto compunto e raccolto e poi si mette a mangiare. E noi a scrivere: "Godi fanciullo mio, stato soave, stagion lieta è cotesta". Avevamo le lacrime agli occhi dalla fame e dalla stanchezza, ci dimenavamo sui banchi come topini nella tagliola. Niente da fare. Alle cinque del pomeriggio arriva mio padre. Guarda in giro, strizza l'occhio a don Antonio e mi viene vicino. Ero alla decima edizione: "Sbrigati - mi dice - ne hai ancora un' altra". 77 INDICE L'archibugio del cappellano La lampada del S.S. mo non resta accesa: "Colpa della finestra, signor Abate" Il berretto cardinalizio per un giorno Un prete povero ma creduto ricco Non sopportava la Repubblica di S. Marco Marito e moglie a sorpresa Padovano uno dei cappellani di Garibaldi Tra parroco e cappellano ... basta un pianoforte 11 vecchio cappellano diventato papa non dimentica il dialetto veneto Chi ha rubato l'uva del papa? Si possono staccare i battagli anche per una damigiana di vino Tra l'olio dei fascisti e l'amicizia con Nuvolari La campanella interrompe una predica noiosa Vengo a Roma se mi nomina capo delle sacre cantine Quando sul far dell'alba l'arciprete andò a prelevare le campane Al cappellano infreddolito tante scuse e un mantello Quel venerdì santo il crocifisso non si mosse Sottoscrisse con il sangue la sua promessa di fedeltà La guerra, un salame e la testata di un giornale Quando il parroco si fa assolvere dal cappellano E l'insegnante mangiava la pastasciutta sulla cattedra pago " " " " " " " " " " " " " 5 15 18 2] 26 28 31 34 36 39 43 45 48 51 " 53 56 59 62 66 69 " 2 " " " " "