PROGRAMMA ESAMI DI IDONEITA’ STORIA INDICE Biennio: la preistoria il neolitico la mesopotamia gli egizi la polis Sparta le guerre Persiane Pericle Alessandro Magno le origini di Roma la repubblica Le guerre Puniche i flavi 3° e 4° ANNO Papato ed imperi le monarchie nazionali crisi economica e demografica formazione dello stato moderno riforma e controriforma l'assolutismo francese il 1848 la Rivoluzione Francese il feudalesimo la restaurazione: Il Congresso di Vienna la rivoluzione industriale il socialismo La rivoluzione Americana il secolo dei lumi il liberalismo di fine 800 La preistoria La preistoria è convenzionalmente indicata come il periodo della storia umana che precede l'invenzione della scrittura. Con la comparsa di testimonianze scritte infatti gli storici hanno a disposizione per la loro ricostruzione degli eventi una più vasta e chiara documentazione che giustifica questa periodizzazione convenzionale. La lunghissima fase della storia dell'uomo antecedente all'invenzione della scrittura a rigor di termini dovrebbe iniziare 200 mila anni fa quando nella regione dell'attuale Sudafrica appare un tipo umano detto Homo sapiens sapiens che dal punto di vista morfologico risulta in tutto identico all'uomo attuale. Tuttavia circa 2 milioni di anni fa, un tipo di ominide vivente nella regione intorno al Lago Vittoria (nel luogo dove attualmente confinano l'Uganda, il Kenia e la Tanzania) ha utilizzato per la prima volta degli utensili dando inizio alla storia della tecnica. Per estensione, si può ipotizzare una contemporanea origine del pensiero, che darà a sua volta inizio alla religione, all'arte, alla filosofia ed alla scienza pura. L'invenzione del primo strumento di lavoro potrebbe giustificare l'estensione della preistoria a circa 2 milioni di anni fa, con il primo utensile, anche se i gruppi di ominidi che utilizzarono utensili non erano fisicamente simili agli umani attuali (Homo sapiens sapiens). La preistoria viene convenzionalmente suddivisa in tre periodi: paleolitico (ossia pietra vecchia), mesolitico (pietra di mezzo) e neolitico (pietra nuova), per quanto sarebbe più corretto parlare di fasi in quanto i periodi preistorici sono caratterizzati da differente durata temporale e termine nelle diverse regioni geografiche. Presso le società preistoriche la memoria dei fatti accaduti, i miti e le conoscenze tecniche erano tramandati oralmente di generazione in generazione; tale patrimonio di sapere scompare il più delle volte con l'estinzione del gruppo. L'archeologia costituisce pertanto l'unico mezzo per ricostruire gli eventi preistorici, attraverso l'esame delle testimonianze materiali lasciate dai popoli: abitazioni, utensili, rifiuti, modificazioni del contesto ambientale, monumenti e opere d'arte. Accanto all'analisi dei reperti portati alla luce dagli scavi archeologici, lo studio della preistoria si avvale degli apporti di altre discipline – quali la geologia, la paleontologia, l'antropologia fisica – al fine di ricostruire il contesto ambientale in cui si trovarono a vivere aggregati umani preistorici, e quindi di conoscere il loro modo di interagire con esso, sfruttando le risorse offerte. Grande importanza assumono inoltre le dinamiche di sviluppo delle civiltà, nel campo delle conquiste materiali e dei mutamenti culturali, e gli spostamenti geografici dei popoli. Occorre tuttavia specificare che il concetto di preistoria ha un significato non necessariamente cronologico, in quanto esistono ancora oggi, in alcune aree del nostro pianeta, gruppi umani che non conoscono alcuna forma di scrittura. Il processo di astrazione, che nella nostra specie si era avviato con il primo strumento di lavoro e che non si era fermato ma era proseguito con la costruzione di strumenti che permettevano di realizzare a loro volta altri strumenti, ebbe ricadute non solo sulla vita concreta ma anche sullo sviluppo degli organi di fonazione, del linguaggio, della comunicazione e inultimaanalisidelpensiero. All'inizio della protostoria, con lo sviluppo di società complesse tra l'età neolitica e l'età dei metalli, viene favorita la nascita della scrittura, come mezzo per registrare e trasmettere informazioni, e il processo di astrazione raggiunge un nuovo traguardo, anche se questo stadio dell'evoluzione umana presenta una casistica molto complessa (sono esistite civiltà che pur giungendo all'organizzazione sociale dello stato non sviluppano, almeno per quanto ne sappiamo, la scrittura). Le prime forme di registrazione scritte compaiono, quasi contemporaneamente, in varie parti del mondo: in Mesopotamia (Sumeri), valle del Nilo (Antico Egitto), Cina circa 5000 anni fa. Per convenzione si usa utilizzare la datazione dei primi reperti ritrovati di documenti scritti come spartiacque tra l'epoca preistorica della specie umana e una nuova era che convenzionalmente viene designata con il termine più appropriato di storia. Se convenzionalmente con l'invenzione della scrittura si suole far concludere il racconto delle vicende umane della preistoria, di fatto la fase successiva di queste vicende detta propriamente Storia si fa iniziare con l'esposizione del fenomeno delle prime tre grandi civiltà mondiali, dette "civiltà idrauliche", in quanto sorte intorno a dei grandi fiumi e anche perché impegnate in opere di ingegneria idraulica per sfruttare le acque dei fiumi che hanno fatto la loro prosperità, ai fini di un incremento ancora maggiore della nuova economia agricola. Queste sono la civiltà dell'antico Egitto sorta sulle rive del fiume Nilo, quella Mesopotamica tra i fiumi Tigri e Eufrate e infine sul fiume Indo la civiltà della valle dell'Indo. Ma questa nuova fase del passato dell'umanità, benché anch'esso ormai lontano nei millenni, non è più preistoria. Vi è anche da valutare l'ipotesi che la datazione dell'inizio della storia non sia generalizzabile a tutta l'umanità, ma sia diversa, a seconda della località, in funzione dello sviluppo umano ivi avvenuto. Il neolitico Il neolitico è un periodo della preistoria, l'ultimo dei tre che costituiscono l'età della pietra. Etimologicamente il termine "neolitico" deriva dalle due parole greche νέος neos, "nuovo" e λίθος lithos, "pietra": fu infatti contraddistinto da notevoli innovazioni nella litotecnica, tra le quali la principale è rappresentata dall'uso della levigatura. Altre innovazioni furono l'introduzione dell'uso della ceramica, dell'agricoltura e dell'allevamento. La diffusione in Europa della cultura neolitica che si era sviluppata nel Vicino Oriente, e in particolare il passaggio dall'economia di caccia e raccolta alla pratica dell'agricoltura e dell'allevamento, sono avvenuti con modalità e tempi tuttora discussi. Vere Gordon Childe aveva ipotizzato già negli anni '20 che le comunità autoctone di cacciatori e raccoglitori delle culture mesolitiche europee, fossero state sostituite da comunità di agricoltori migrate più a nord dal Vicino Oriente, con un processo durato per più generazioni. Una prima corrente migratoria avrebbe seguito la via continentale lungo la penisola balcanica e il corso del Danubio, mentre un'altra, leggermente più tarda, si sarebbe diffusa attraverso la navigazione marittima lungo le coste del mar Mediterraneo da est ad ovest. L'affermazione delle tecniche di coltivazione e allevamento procedette per via continentale anzitutto lungo direttrici che attraversavano terreni particolarmente favorevoli, come quelli formatisi per deposito di polveri portate dal vento (loess) nell'Europa centrale. Seguì il corso di grandi vie fluviali, come il Danubio, ed ebbe successo nelle ampie vallate dei Balcani e della Grecia orientale, con inverni freddi e piovosi e con lunghe estati, ambiente ideale per la pastorizia e la transumanza; penetrò invece con difficoltà nelle fredde foreste del Nord Europa e nelle regioni poste ai bordi della catena alpina. A partire dagli anni '70 e '80, Albert Ammerman e Luigi Cavalli-Sforza sulla base dei loro studi di genetica, hanno ipotizzato una massiccia migrazione di agricoltori, spinti dalla crescita demografica e dalla ricerca di nuove terre coltivabili, che avrebbe respinto e cancellato le precedenti comunità locali di cacciatori e raccoglitori mesolitiche. Colin Renfrew, sulla base dei suoi studi archeologici e linguistici ha ipotizzato inoltre che la diffusione della cultura neolitica in Europa sia avvenuta parallelamente a quella dell'indoeuropeo, differenziatosi nell'Anatolia neolitica del VII millennio a.C., in opposizione alla teoria di Maria Gimbutas di una più tarda indoeuropeizzazione nel corso del calcolitico. Un modello alternativo ipotizza invece una trasmissione delle nuove conoscenze per diffusione culturale, in seguito allo spostamento di piccoli gruppi, per la ricerca di materie prime o per i commerci, e che la cultura neolitica sia stata gradualmente adottata dalle locali comunità mesolitiche di cacciatori e raccoglitori, le quali utilizzavano già pratiche di sfruttamento e selezione nel procacciamento del cibo e avevano conosciuto forme precoci di insediamenti stabili. Mesopotamia con il termine Mesopotamia si intende una regione del Vicino Oriente, parte della cosiddetta Mezzaluna Fertile. Il nome stesso (en mésos potamós, o µέσος ποταµός in greco) la indica come "terra tra due fiumi": il Tigri e l'Eufrate. La Mesopotamia fu conquistata prima dai Sumeri, poi dai Babilonesi e infine dal popolo degli Assiri. Con il termine Mesopotamia i greci intendevano la zona settentrionale che si estende tra il Tigri e l'Eufrate. Con il tempo l'uso di questa definizione divenne di più ampio respiro, fino a comprendere anche le zone limitrofe. Oggi possiamo impropriamente definirne i confini indicandoli con la catena dei monti Zagros ad est, quella del Tauro a nord, steppe e deserti ad ovest e sudovest e, infine, il golfo Arabo-Persico a sud (la zona paludosa dello Shatt al-'Arab). La regione era considerata uno dei corni della mezzaluna fertile e vi si trovavano, allo stato selvatico, quelli che sarebbero diventati gli alimenti base della dieta dell'uomo nell'antichità: cereali, leguminose, ovini e bovidi. Foreste di tipo mediterraneo sulle montagne a nord ospitavano una flora di querce, pini, cedri e ginepri ed una fauna di animali selvatici quali leopardi, leoni e cervi che ritroviamo anche nell'iconografia dell'arte giunta fino a noi. Da questa catena montuosa, il Tauro, parte il percorso dei due fiumi, dono per questa regione. Un dono che ha influito molto sulla vita e mentalità dei popoli che l'abitavano, infatti, sorgendo in una catena montuosa a clima mediterraneo, entrambi i fiumi erano soggetti ad una portata variabile e ad improvvise e disastrose inondazioni, tanto che nel corso dei millenni più volte hanno cambiato il corso del proprio letto. Proseguendo verso sud, i due fiumi si gettavano nel golfo con estuari separati ma, con il passare del tempo, costituirono la regione paludosa dello Shatt el-Arab unendo il proprio percorso. spesso il bacino mesopotamico viene raffrontato per similitudine con quello del Nilo, entrambi hanno infatti favorito lo sviluppo delle civiltà umane ma con sostanziali differenze. Il grande fiume africano, a causa della sua nascita in zona monsonica, assicurava piene regolari e feconde grazie al limo che depositava, mentre il Tigri e l'Eufrate, per la loro imprevedibilità, furono un importante stimolo per la costruzione di opere di irrigazione e di regolazione delle acque. Le differenze non si mostravano solo nella gestione dell'ambiente ma anche sulla cultura dei due popoli: tanto gli Egizi si sentivano sereni in un mondo immutabile quanto i popoli della Mesopotamia svilupparono una cultura pessimista e sempre in lotta con la natura ostile. La conoscenza delle grandi culture della Mesopotamia è, sorprendentemente, una storia relativamente recente. All'inizio del XVIII secolo, la traduzione della raccolta favolistica araba delle "Mille e una notte" provocò un rinnovato interesse per questa terra, considerata misteriosa ed ostile. Numerosi studiosi intrapresero viaggi dai quali tornarono carichi di osservazioni e reperti archeologici relativi alle antiche civiltà mesopotamiche. Come dopo la spedizione napoleonica in Egitto, con la riscoperta della sua civiltà millenaria, molti studiosi si avventurarono, all'inizio del XIX secolo, nella "terra dei due fiumi". Fu a metà del secolo che iniziarono le prime vere e proprie rudimentali esplorazioni di siti quali Ninive, Dur Sharrukin, Nimrud e Assur (da parte di Paul Emile Botta e Austen Henry Layard) e, in seguito, Uruk e Ur. Quando, nel 1855, un battello carico di reperti da Dur Sharrukin si rovesciò causandone quasi l'intera perdita nel Tigri (si salvò solo un decimo del materiale), le operazioni vennero sospese per un ventennio. Fu in questo periodo che George Smith, nel 1872, decifrò la scrittura cuneiforme di una tavoletta proveniente da Ninive riportante il racconto di un mitico diluvio. Ciò produsse una nuova spinta nell'esplorazione, questa volta più sistematica, e furono scavati nuovi siti, come Babilonia, e ne furono ripresi altri, come Assur, per merito dell'archeologo tedesco Robert Koldewey, anche se non sono da trascurare altri studiosi come von Oppenheim, Thomas Edward Lawrence e Leonard Woolley. Da allora fino ad oggi la volontà di riportare alla luce queste importanti civiltà ha trovato ostacolo solamente nella seconda guerra mondiale e nella prima e seconda guerra del golfo. Gli egizi Con Antico Egitto si intende la civiltà sviluppatasi in quella sottile striscia di terra fertile che si distende lungo le rive del Nilo a partire dalle sue cateratte al confine col Sudan fino allo sbocco nel Mediterraneo, e riconosciuta come entità statale a partire dal 3300 a.C. fino al 31 a.C., quando ci fu la conquista romana. Le tracce di insediamenti lungo il Nilo sono molto antiche e si calcola che l'agricoltura (in particolare la coltivazione di grano e orzo) abbia fatto la sua comparsa in quelle regioni intorno al 6000 a.C.[1] Proprio la presenza del fiume, che rende possibile la vita in una regione peraltro desertica, è il motore primo del precoce nascere della civiltà urbana e del suo persistere quasi immutata, ai nostri occhi, per quasi tremila anni. Le acque del Nilo, con le loro piene annuali, non portano solo fertilità ma anche distruzione se non vengono costantemente controllate, imbrigliate, incanalate, conservate per i periodi di siccità; ed è proprio da questo stato di cose che nasce la necessità di uno stato organizzato, uno stato che garantisca la manutenzione di quelle strutture da cui dipende la sopravvivenza di tutti. La necessità di avere una struttura statale per la gestione delle opere (dighe e canali) collegate con le acque del Nilo, ha portato alla formazione di uno dei primi stati della storia, nel 3300 a.C. Infatti questa esigenza fece sì che le tribù nilotiche impararono a vivere prima sotto l'autorità di capi locali (fase della formazione dei distretti o nomos). I vari nomos si scontrarono e si allearono tra loro, nell'arco di circa un millennio, fino a formare due regni, l'Alto Egitto al sud (costituito dalla parte meridionale della valle del Nilo) ed il Basso Egitto al nord (costituito principalmente dal delta del fiume), che vennero unificati nel 3000 a.C. in un solo impero da Menes (da identificarsi probabilmente con il sovrano egizio Narmer), re dell'Alto Egitto, che inaugurò le trenta dinastie dell'antico Egitto. Tra i monumenti più famosi dell'Antico Egitto vi sono sicuramente le piramidi, tombe di sovrani dalla III alla XII dinastia. Le piramidi più famose si trovano presso Giza, vicino alla città moderna del Cairo. La loro imponenza testimonia la potenza dello stato e l'importanza delle credenze religiose sull'oltretomba. La grande piramide, la tomba del sovrano Khufu (conosciuto anche come Cheope), è l'unico monumento sopravvissuto delle sette meraviglie del mondo antico. L'antico Egitto raggiunse l'apice della sua potenza ed estensione territoriale nel periodo chiamato Nuovo Regno (1567 a.C.-1085 a.C.), quando i confini dell'impero andavano dalla Libia all'Etiopia al Medio Oriente. L'antico Egitto conobbe anche momenti di debolezza e di polverizzazione del potere come avvenne nei tre Periodi Intermedi, nel secondo dei quali l'Egitto cadde sotto il controllo dei dominatori detti Hyksos. Con Periodo predinastico dell'Egitto si intende la fase precedente alla formazione dello stato unitario egiziano. La fase comincia indefinitamente nella preistoria e arriva fino al 3100 a.C., il paese è suddiviso nei due regni del Basso Egitto e Alto Egitto. Le prime comunità agricole si stabiliscono presto nel Delta del Nilo e nell'oasi del Fayyum, subendo nel Basso Egitto un'eccezionale sviluppo, che porta, dalla metà del V millennio, alla nascita delle prime città. Secondo alcuni studiosi, lo sviluppo delle attività legate all'agricoltura ha permesso un'enorme crescita demografica; secondo altri, invece, è la crescente pressione demografica a portare ad uno sviluppo dell'agricoltura. Aumenta anche la ricerca delle risorse minerarie del Medio e dell'Alto Egitto, soprattutto oro, da parte di coloni che adorano già Osiride e Horo, provocando al contempo un conflitto con le popolazioni meridionali che adorano Seth. Gli adoratori di Horo e quelli di Seth si scontrano dunque e sono i primi a vincere. Si forma così un primo nucleo di regno, con capitale la città di Ieraconpoli. L'Egitto è ora diviso in Alto e Basso Egitto, due regni distinti e separati. on Periodo Arcaico o Periodo Thinita (dal nome della città di Thinis forse mutuato sul culto della dea Tanit, probabile città natale dei primi sovrani, Narmer compreso, e capitale della prima nazione egizia unitaria, per poco tempo prima del trasferimento a Menfi[2]) si intende l'arco di tempo coperto dalle prime due dinastie egizie. n dalle prime dinastie il re si afferma quale dio in terra, con la precisa funzione di conservare maat "l'ordine", il sistema, anche cosmico, che da lui dipende. Da qui deriva il regime faraonico, autocratico per diritto divino, che accentra ogni funzione dello stato sul re e che, sia pure con alternative e variazioni, si mantenne tale sino alla fine della civiltà egiziana. L'affermazione del dogma faraonico ha la sua massima espressione nell'Antico Regno e precisamente nella IV dinastia, quando possiamo prendere a simbolo della straordinaria autorità regale e dell'accentrato interesse sociale sul faraone in questo periodo le piramidi, cioè i monumenti funerari dei faraoni di quella dinastia: Cheope, Khefren e Micerino. La polis Le poleis erano piccole comunità autarchiche, rette da governi autonomi; una sorta di piccoli stati indipendenti l'uno dall'altro. Il carattere autonomo delle poleis deriverebbe dalla conformazione geografica del territorio greco, che impediva facili scambi tra le varie realtà urbane poiché prevalentemente montuoso. Spesso, le varie poleis erano in lotta tra loro per l'egemonia del territorio greco; ne è un esempio la celebre rivalità fra Sparta e Atene. Apparsa intorno all'VIII secolo a.C., la polis fu il vero e proprio centro politico, economico e militare del mondo greco. Ogni polis era organizzata autonomamente, secondo le proprie leggi e le proprie tradizioni. Vi furono esempi di poleis dal regime politico democratico, come Atene, e oligarchico, come Sparta. L'indipendenza e la mancata unità delle poleis furono le cause principali della loro caduta. Il re macedone Filippo II e suo figlio Alessandro Magno infatti sfruttarono a loro vantaggio le lotte interne fra le città stato per dominarle e sottometterle. Anche in Italia meridionale, nella Magna Grecia, le poleis caddero sotto il dominio di Roma tra il IV secolo a.C. e il III secolo a.C. proprio per le lotte interne e la loro disunione. Nel 900 a.C. in Grecia si conobbe un aumento dell'uso del ferro, che ne conseguì un miglioramento della sua lavorazione e permise un aumento demografico. Quindi i popoli non potevano più vivere in villaggi di difficile accesso, sperduti e in mezzo alle montagne, ma dovevano organizzarsi per difendersi dagli attacchi esterni e bisognava accumulare provviste per le carestie, così avvenne un rifacimento della struttura urbana. La polis comprendeva sia il centro urbano, cinto da mura e costituito dall'acropoli, dall'agorà (ἀγορὰ, "piazza") e dalle abitazioni, sia il territorio circostante: la cosiddetta chora , dal greco "regione". La parte bassa della città era chiamata asty ed era di norma la parte delle abitazioni più povere, dove vivevano contadini ed artigiani che però a volte diventavano così ricchi grazie al commercio intenso, e la zona così vasta da essere più prestigiosa della parte alta (definita a volte anche solo polis). L'acropoli, la parte alta della città, era il fulcro della vita religiosa della polis, mentre l'agorà (la piazza), situata solitamente più in basso e rivolta verso l'esterno e i porti, era il cuore pulsante della città; il suo centro politico, economico e sociale. Nell'agorà, infatti, vi erano edifici con funzioni prettamente politiche (bouleuterion, ekklesiasterion, pritaneo, ma anche strutture destinate allo svolgimento delle attività commerciali e finanziarie (botteghe e cambiavalute), i tribunali, gli impianti ricreativi (dromos, orchestra), e alcuni edifici religiosi con una forte valenza civica (vedi gli heroon). La chora, la parte fuori dalle mura, era il luogo dove i contadini coltivavano i campi e si dedicavano all'agricoltura. Anche se era fuori dalle mura, la chora non era meno importante dell'acropoli: infatti i greci avevano uno stretto rapporto con la terra e non svilivano in nessun caso il lavoro dei contadini. Le strade principali, che univano l'agorà, i santuari, le porte della città, avevano un aspetto monumentale ed erano lastricate con grande cura. Per il resto, la rete stradale era fatta di stradine piccole, che consentivano a malapena il transito dei pedoni e degli animali da soma. Questo perché le attività economiche (artigianato e commercio) e quelle residenziali erano concentrate in aree specifiche. Questo assetto urbanistico riduceva il traffico dei quartieri residenziali. Oltre all'unità territoriale, però, le poleis erano caratterizzate da un'unità sociale ed una strettamente politica: si trattava, infatti, di un gruppo di cittadini che si dotava di leggi che si impegnava a rispettare. I cittadini, dunque, non erano più sudditi come nelle società antecedenti, ma esercitavano il proprio potere eleggendo i rappresentanti (magistrature) ed intervenendo durante le assemblee. Sparta Sparta (in greco moderno Σπάρτη, Sparti; in dorico Σπάρτα, Spártā) o più comunemente nel mondo antico, Lacedemone, è una città della Grecia situata nel Peloponneso meridionale, sulla destra del fiume Eurota tra i rilievi del Parnone a est e del Taigeto a ovest. Fra le protagoniste della storia della Grecia antica, principale polis rivale di Atene, oggi è una città di circa 18.000 abitanti, capoluogo del nomo della Laconia, modesto centro industriale e commerciale. Della città antica, che sorgeva nelle immediate vicinanze della Sparta attuale, sono rimasti pochi reperti archeologici: i resti di un santuario dedicato ad Artemide Orthia, risalente all'inizio del IX secolo, dell'acropoli con il tempio ad Atena Chalkioikos e di un teatro di epoca ellenistico-romana. L'espansione di Sparta in Laconia sarebbe iniziata nell'VIII secolo, sotto la guida dei re Archelao e Carillo (ca 770-760) annettendo il territorio lungo il corso settentrionale dell'Eurota e poi, «durante il regno di Teleclo [ ... ] non molto prima della Guerra messenica», [3] e cioè verso il 750, con la colonizzazione di Pharis e Geronthrai e l'annessione di Amicle e dei suoi abitanti nella comunità spartana [4] che consentì la rapida annessione di tutta la valle meridionale dell'Eurota, avvenuta dopo il 740 al comando del re Alcamene, compresa la città di Elo, i cui abitanti furono resi schiavi. Dal nome della città avrebbe avuto origine, secondo la tradizione greca, il termine di Iloti. [5] L'eventuale espansione di Sparta a oriente e sul mare avrebbe dovuto scontrarsi con la potenza di Argo; fra la montagnosa Arcadia, a nord, e la pianura della Messenia, ad occidente, gli Spartani scelsero quest'ultima, «buona da lavorare e da piantare», come nota Tirteo. Prendendo a pretesto l'assassinio di re Teleclo (740) attribuito ai Messeni, e assistita da mercenari cretesi e corinzi - mentre la Messenia beneficiava del sostegno delle tribù arcadiche, di Argo e di Sicione - Sparta iniziò una guerra ventennale (la prima guerra messenica) che si concluse con la caduta dell'ultimo bastione messenico del monte Itome intorno al 715 a.C.). Alcuni aristocratici messeni fuggirono [6] in Arcadia [7] mentre la massa della popolazione fu costretta a versare metà della sua produzione agricola ai nuovi padroni. Tirteo, che è la nostra principale fonte sull'argomento, scrive che: «Come asini sotto una pesante soma, erano costretti a trasportare per i loro padroni la metà di tutte le messi che un campo poteva produrre»[8] Non vi fu un'occupazione militare e una cinquantina d'anni dopo i nuovi tributari insorsero, approfittando della sconfitta subita da Sparta a Ilie nel 669 per mano di Argo, che aveva compreso da tempo la pericolosità dell'espansionismo spartano. La seconda guerra messenica durò una decina di anni e si concluse con l'annessione di gran parte del territorio della Messenia e la riduzione dei suoi abitanti alla condizione di Iloti; solo le città costiere mantennero una relativa indipendenza prendendo lo statuto di città periecie. La conquista della Messenia influenzò tutta la politica spartana. A differenza delle altre città greche, che sopperivano alla mancanza di terre colonizzando i territori d'oltremare, Sparta - a parte l'episodio della colonizzazione di Taranto nel 708 - dedicò tutte le sue energie allo sfruttamento della nuova ricchezza che l'aveva resa la città più potente del Peloponneso. Durante la seconda guerra messenica l'esercito spartano adottò una nuova tecnica militare, nella quale raggiunse l'eccellenza, basata sull'impiego di opliti schierati in formazione chiusa. Questa tattica, nella quale erano essenziali il coordinamento e la disciplina e non le iniziative individuali, influenzò profondamente la cultura spartana. L'ordinamento dello stato spartano che conosciamo in epoca classica è in misura significativa il risultato dell'organizzazione delle formazioni oplitiche. Dopo la definitiva sottomissione della Messenia, i potenziali rivali ai confini di Sparta erano l'Arcadia e Argo; alla metà del VI secolo a.C. Sparta sconfisse la più importante delle città arcadiche, Tegea. Gli Spartani non ridussero gli abitanti allo stato di iloti, ma preferirono stringere alleanza con Tegea e altre città dell'Arcadia, impegnandole ad "avere gli stessi amici e nemici dei Lacedemoni". Nasceva così il primo embrione di quella che sarà la Lega Peloponnesiaca. La posizione di Sparta nel Peloponneso si rafforzò ulteriormente dopo un'importante vittoria su Argo ottenuta intorno al 546 a.C., che le consentì di impadronirsi della regione nord-orientale della Cinuria e della fascia costiera fino a Capo Malea. A metà del VI secolo a.C. Sparta aveva raggiunto lo status di potenza regionale, avviata verso l'egemonia del Peloponneso, e il tipico ordinamento, che la rese famosa nel mondo greco e nel ricordo delle epoche successive. Guerre Persiane Con il termine Guerre Persiane si definisce la sequenza di conflitti combattuti tra le poleis greche e l'Impero Persiano, iniziati intorno al 500 a.C. e continuati a più riprese fino al 449 a.C. Alla fine del VI secolo a.C., Dario I, "Gran Re" dei Persiani, regnava su un impero immenso che si estendeva dall'India alle sponde orientali dell'Europa (nello specifico le zone orientali della Tracia). Nel 546 a.C. infatti, il suo predecessore, Ciro il Grande, fondatore dell'impero, aveva sconfitto il re della Lidia, Creso, e i suoi territori, comprendenti le colonie greche della Ionia, furono incorporate all'Impero Achemenide. Le città stato ancora governate da sistemi tirannici condussero ognuna per proprio conto l'annessione all'impero persiano, la sola Mileto riuscì a imporre le proprie pretese. Questa situazione di frammentazione aveva comportato la perdita definitiva da parte delle colonie di ogni indipendenza (prima godevano comunque di ampie autonomie) e una drastica riduzione della loro importanza commerciale, a causa del controllo totale che i Persiani esercitavano sugli stretti di accesso al Mar Nero. Nel 492 a.C. Mardonio tentò l'impresa della conquista greca, dopo aver eliminato tutti i tiranni nelle poleis asiatiche e soggiogato il regno di Alessandro I di Macedonia, ma fallì a causa di una terribile tempesta presso il monte Athos, nella penisola calcidica, che distrusse la flotta. Nonostante l'insuccesso, nel 490 a.C. la spedizione fu ritentata sotto il comando del generale Dati e di Artaferne. La flotta persiana passò per Samo, espugnò Nasso, sottomise il resto delle isole Cicladi e proseguì verso Eretria e la distrusse. Atene a quel punto si ritrovò da sola a fronteggiare l'esercito persiano: l'unico aiuto che ricevette fu quello della città beotica di Platea, che inviò un contingente di mille opliti. Grazie alle capacità militari di Milziade riuscì a resistere alle truppe guidate da Dati e i Persiani furono sconfitti nella Battaglia di Maratona e respinti sulle navi. Secondo il mito l'esito positivo di questo scontro fu riportato direttamente dal campo di battaglia ad Atene da Filippide: la sua impresa che consisté nel ricoprire tale distanza correndo è ricordata ancor oggi con, appunto, la gara atletica della maratona. A quel punto, il resto delle truppe persiane capitanato da Artaferne e pronto per un attacco via mare, pensò di sfruttare l'occasione: la flotta mosse verso Atene, doppiando Capo Sunio, con la sicurezza di poter sbarcare incontrastata al Pireo e trovare Atene indifesa, visto che tutto l'esercito si trovava a Maratona. Milziade, però, intuito il piano nemico, ricondusse i suoi uomini a marce forzate verso la costa occidentale, così che, quando i Persiani arrivarono in vista del Pireo, trovarono l'esercito ateniese già schierato e rinunciarono all'impresa, tornando in Persia. La polis a quel punto decise di intraprendere, nel 489 a.C., una spedizione per liberare le isole Cicladi dai Persiani, ma con esito negativo, poiché l'isola di Paros, alleata dei Persiani,resistette. La sconfitta costò a Milziade la carriera; fu anche accusato di complicità con il nemico e di aspirare alla tirannide, e subito dopo morì. Pericle Nel conflitto instauratosi ad Atene tra il partito aristocratico-conservatore, guidato da Cimone, fautore di una politica filo-spartana, e quello democratico, capeggiato da Efialte, Pericle si schierò con quest'ultimo. Quando nel 462 a.C. l'invio di truppe in soccorso degli spartani assediati alla rocca di Itome si rivelò un disastro, Cimone fu esautorato ed Efialte e Pericle ne approfittarono per esautorare l'areopago a favore della bulè e della ecclesia. Nel 461 a.C., in seguito dell'ostracismo di Cimone e della morte di Efialte, Pericle divenne la figura principale della scena politica ateniese. Pericle fece approvare una legge che istituì la mistoforia, cioè il pagamento di un'indennità giornaliera a coloro che ricoprivano cariche pubbliche. Tutti i cittadini dell'Attica ebbero la possibilità di presentarsi candidati e di svolgere, una volta eletti, l'incarico loro affidato. Pericle attuò una politica sociale che prevedeva l'istruzione degli orfani, il pagamento di pensioni ai mutilati di guerra e agli invalidi, l'ingresso gratuito a teatro per i poveri, una paga regolare ai soldati e marinai e una razione di viveri. Tali modificazioni sono state ripetutamente dibattute e contestate poiché, di fatto, la remunerazione trasformava i cittadini in funzionari facendo perdere alla partecipazione il suo carattere di privilegio personale; tuttavia tale opera giovò alla polis poiché, con i soldi della Lega, Atene finanziava la sua amministrazione. Nel 451 a.C. propose la legge per cui potevano diventare cittadini ateniesi solamente coloro i quali avessero entrambi i genitori con la cittadinanza. Molte furono le opere pubbliche che Pericle promosse grazie anche ai tributi della lega delio-attica, come l'ingrandimento del Pireo, fortificando la strada che lo collegava alla città, e l'abbellimento dell'Acropoli di Atene con l'edificazione del Partenone, dei Propilei, dell'Eretteo e del tempio di Atena Nike. Alessandro Magno Alessandro Magno (greco: Μέγας Ἀλέξανδρος, Mégas Aléxandros), ufficialmente Alessandro III (greco: Ἀλέξανδρος Γ' ὁ Μακεδών, Aléxandros trίtos ho Makedόn; Pella, 6 ecatombeone 356 a.C. – Babilonia, 30 targelione 323 a.C.) è stato un condottiero antico macedone, re di Macedonia a partire dal 336 a.C. È considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia. È conosciuto anche come Alessandro il Grande, Alessandro il Conquistatore o Alessandro il Macedone. Il termine "magno" deriva dal latino magnus che significa per l'appunto "grande", che in greco antico è "mégas". In soli dodici anni il celeberrimo condottiero conquistò l'Impero Persiano, l'Egitto ed altri territori, spingendosi fino agli attuali Pakistan, Afghanistan e India settentrionale. Le sue vittorie sul campo di battaglia, accompagnate da una diffusione universale della cultura greca e dalla sua integrazione con elementi culturali dei popoli conquistati, diedero l'avvio al periodo ellenistico della storia greca. Il suo straordinario successo, già durante la sua vita ma ancor più dopo la sua morte, ispirò una tradizione letteraria in cui egli appare come un eroe mitologico, assimilato ad Achille, da cui vantava una discendenza. Morì a Babilonia il 30 del mese di daisios (targelione) del 323 a.C., forse avvelenato, oppure per una recidiva della malaria che aveva contratto in precedenza. Dopo la morte, il suo impero fu suddiviso tra i generali che lo avevano accompagnato nella sua spedizione e si costituirono i regni ellenistici, tra cui quello tolemaico in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e quello dei Seleucidi in Siria, Asia Minore, e negli altri territori orientali. La vita e la figura di Alessandro Magno hanno presto assunto colorazioni mitiche. Le storie a lui riferite si ritrovano non solo nelle letterature occidentali: nella Bibbia (Primo libro dei Maccabei), ad esempio, si fa esplicito riferimento ad Alessandro, mentre nel Corano il misterioso Dhu al-Qarnayn (il Bicorne o letteralmente "Quello dalle due corna") viene per lo più identificato con lui. Alessandro era figlio del re Filippo II di Macedonia e della moglie, Olimpiade, principessa di origine epirota; dal ramo paterno vantava una discendenza da Eracle, mentre dalla parte materna egli annoverava tra i suoi antenati l'eroe omerico Achille. Secondo la leggenda, in parte da lui stesso alimentata dopo essere salito al trono, e riferita da Plutarco, il suo vero padre sarebbe stato lo stesso dio Zeus. All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia che l'Epiro erano ritenuti stati semibarbari, alla periferia settentrionale del mondo greco. Filippo volle dare al figlio un'educazione greca (precisamente atticaateniese) e, dopo Leonida e Lisimaco di Acarnania, scelse come suo maestro nel 343 a.C. il filosofo greco Aristotele, che lo educò, insegnandogli la scienza e l'arte, gli preparò appositamente un'edizione annotata dell'Iliade e gli restò legato, come amico e confidente, per tutta la vita. Si narra che il giovane Alessandro, all'età di dodici o tredici anni, manifestasse la propria straordinaria natura riuscendo a domare da solo il cavallo Bucefalo, regalatogli dal padre Filippo II di Macedonia: avendo infatti notato che il cavallo era spaventato dalla propria ombra, lo mise col muso rivolto verso il sole prima di montargli in groppa. L'unicità del personaggio si riscontra persino in una sua singolare caratteristica fisica: aveva, infatti, un occhio di colore azzurro e l'altro nero. Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione del padre contro Bisanzio gli fu affidata la reggenza in Macedonia. L'anno successivo (339 a.C.) Filippo ebbe una seconda moglie, Euridice (nipote del suo generale Attalo), ma Olimpiade restò con il titolo di regina. Nel 338 a.C. Alessandro guidò la cavalleria macedone nella battaglia di Cheronea. Nel 336 a.C. Filippo venne assassinato da un ufficiale della sua guardia di nome Pausania, durante le nozze della figlia Cleopatra con il re Alessandro I d'Epiro; Pausania venne immediatamente ucciso dalle guardie macedoni dopo l'assassinio del sovrano. Seguendo il racconto tradizionale di Plutarco, sembrerebbe che della congiura fossero a conoscenza, se non direttamente coinvolti, sia Olimpiade che Alessandro, venuto in contrasto con il padre a causa del suo divorzio dalla madre; è inoltre possibile che l'assassinio sia stato istigato dal re di Persia Dario III, appena salito sul trono. Secondo Aristotele, Pausania, amante di Filippo, avrebbe ucciso il re macedone perché oltraggiato dai seguaci di Attalo, zio della nuova moglie Euridice. Il fatto che esistessero complici, in attesa di Pausania in fuga, depone tuttavia a favore dell'esistenza di un complotto organizzato e non semplicemente di un episodio legato a faccende private (teoria ancora da valutare). Dopo la morte di Filippo, Alessandro, all'età di 20 anni, fu acclamato re dall'esercito ed immediatamente si occupò di consolidare il suo potere, facendo sopprimere i possibili rivali al trono. Perirono Aminta, figlio di Perdicca III di cui Filippo era stato tutore, diversi fratellastri di Alessandro ed Euridice, la giovane moglie di Filippo, il cui zio Attalo fu raggiunto da un sicario in Asia Minore. Consolidato il suo potere in Macedonia, egli cominciò ad espandere la propria autorità nei Balcani cominciando dai Greci. Arrivato a Larissa, egli ribadì ai Tessali le proprie buone intenzioni nei loro confronti offrendosi come protettore nei confronti dei Persiani. Ad un'assemblea della Lega Tessalica, Alessandro fu eletto capo, gli venne affidata l'amministrazione delle entrate e gli fu promesso l'appoggio nella Lega Ellenica. Successivamente gli stati greci nella Lega di Corinto, eccetto Sparta, proclamarono Alessandro comandante delle loro forze contro la Persia. Appoggiato da tutti i Greci, Alessandro avviò la campagna dei Balcani contro i Triballi e gli Illiri ed avanzando nella Tracia sterminò quasi completamente tutti i suoi nemici. Egli trascorse quasi 4 mesi nei Balcani orientali prima di puntare a ovest ed entrare nel territorio degli agriani. Clito, figlio di Bardilo II, che regnava in quello che è l'odierno Kosovo sui Dardani e Glaucia, re dei Taulanti (presso Tirana), erano in rivolta. Saputo ciò Alessandro raccolse tutti i suoi uomini: circa 25000 fanti e 5000 cavalieri. La battaglia cruciale si combatté a Pelio, occupata da Clito e fu vinta grazie ad una mossa geniale di Alessandro nel "Passo del lupo". In Grecia, tuttavia, si sparse la voce che Alessandro fosse rimasto ucciso in battaglia, e questa notizia provocò una nuova ribellione delle province greche , alimentata dai Persiani. Con una marcia rapidissima di più di 200 km, Alessandro raggiunse Tebe, la circondò e la rase al suolo, risparmiando solamente i templi e la casa del poeta Pindaro, ottenendo la sottomissione completa delle altre città, eccetto Sparta. Nel 324 a.C. il re con l'esercito riunito fece ritorno a Susa. Qui scoprì la cattiva amministrazione dei molti satrapi da lui un tempo "graziati" e comandanti. Il re procedette energicamente contro i colpevoli e sostituì molti satrapi locali con governatori macedoni. Per perseguire l'unione tra Greci e Persiani spinse ottanta alti ufficiali macedoni alle nozze con nobili persiane e altri diecimila veterani si sposarono con donne della regione. Egli stesso impalmò Statira, figlia di Dario, mentre un'altra figlia del gran re persiano, Dripeti, andava in sposa al suo amico Efestione. Passò per la prima volta in rassegna il nuovo corpo militare di 30.000 giovani persiani, accuratamente scelti ed addestrati a formare una falange macedone. Diecimila veterani furono congedati e rimandati in Macedonia con Cratero, destinato a sostituire Antipatro che era venuto in contrasto con la madre di Alessandro, Olimpiade. Questi doveva ora recarsi in Asia con nuove reclute. Durante l'inverno la corte si ritirò ad Ecbàtana secondo il costume della corte persiana e qui morì Efestione, per il quale Alessandro soffrì terribilmente. Rase al suolo un villaggio vicino passando alla spada tutti i suoi abitanti come "sacrificio nei suoi confronti" e rimase a lutto per sei mesi; inoltre progettò un grandioso monumento funerario mai finito. Nella primavera del 323 a.C. Alessandro condusse una spedizione contro il popolo montanaro dei Cossei ed inviò una spedizione per esplorare le coste del Mar Caspio. Una misteriosa malattia lo colse durante i preparativi per avviare l' occupazione dell' Arabia e la costruzione di una flotta con cui intendeva attaccare i domini cartaginesi, portandolo alla morte il 10 giugno del 323 a.C., al tramonto. Così morì Alessandro, a quasi trentatré anni, nel tredicesimo anno del suo regno. Nel testamento commissionava la costruzione di templi magnificenti in diverse città, la costruzione di un mausoleo intitolato a Filippo che avrebbe dovuto rivaleggiare con le piramidi in imponenza, la prosecuzione dell'unione fra persiani e greci, la conquista dei territori cartaginesi (Libia, Nord'Africa, Sicilia e Spagna), l'espansione verso occidente e la costruzione di una lunga strada in Africa che passasse lungo tutto la costa; ma i suoi successori ignorarono molto del testamento ritenendolo eccessivamente megalomane ed infattibile. Sulle cause della sua morte sono state proposte varie teorie, che includono l'avvelenamento da parte dei figli di Antipatro o da parte della moglie Rossane, o più probabilmente una ricaduta della malaria che aveva contratto nel 336 a.C. Ebbe due figli: Eracle di Macedonia, nato nel 327 a.C. da Barsine, figlia del satrapo Artabazus di Frigia, e Alessandro IV di Macedonia, figlio della moglie Rossane, nato nel 323 a.C. Gli storici successivi gli attribuirono anche numerosi amanti, tra i quali l'amico Efestione e Bagoas. Le origini di roma La data della fondazione di Roma è stata fissata al 21 aprile dell'anno 753 a.C. (Natale di Roma) dallo storico latino Varrone, sulla base dei calcoli effettuati dall'astrologo Lucio Taruzio. I Romani avevano elaborato un complesso racconto mitologico sulle origini della città e dello stato, che ci è giunto attraverso le opere storiche di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e quelle poetiche di Virgilio e Ovidio, quasi tutti appartenenti all'età augustea. In quest'epoca le leggende riprese da testi più antichi vengono rimaneggiate e fuse in un racconto unitario, nel quale il passato mitico viene interpretato in funzione delle vicende del presente. I moderni studi storici e archeologici, che si basano sia su queste ed altre fonti scritte, sia sugli oggetti e i resti di costruzioni rinvenuti in vari momenti negli scavi, tentano di ricostruire la realtà storica che sta dietro al racconto mitico, nel quale man mano si sono andati riconoscendo alcuni elementi di verità. Nell'Iliade, Enea durante il duello con Achille viene salvato dal dio Poseidone, che ne profetizza il futuro regale. Questo vaticinio e il fatto che non ne sia narrata la morte nelle vicende della caduta della città di Troia, permise la creazione delle leggende sulla sorte successiva dell'eroe. Nell'Iliou persis di Arctino di Mileto, della metà dell'VIII secolo a.C., si racconta la sua partenza verso il monte Ida, mentre nell'Inno omerico ad Afrodite, della fine del VII secolo a.C., Enea viene visto regnare sulla nuova Troia ricostruita, al posto della stirpe di Priamo. Anche la città di Ainea nella penisola calcidica si riteneva fondata da Enea e una moneta cittadina della fine del VI secolo a.C. rappresenta la fuga dell'eroe da Troia. Con Stesicoro, nel VI secolo a.C., viene introdotto il viaggio di Enea verso l'Occidente. Il testo letterario non ci è giunto, ma ne rimane testimonianza nelle raffigurazioni con "didascalie" della Tabula Iliaca (rilievo proveniente da Boville nei Musei Capitolini di Roma, databile al I secolo d.C.). Nel V secolo a.C. i Greci crearono quindi probabilmente la leggenda della fondazione di Roma da parte di Enea: Dionigi di Alicarnasso ci riporta il racconto di Ellanico di Lesbo e di Damaste di Sigeo che avevano preso a modello le altre fondazioni di città greche attribuite agli eroi omerici. Viene anche inventata un'eroina troiana che avrebbe dato il suo nome alla nuova città ("Rome"). La presenza di raffigurazioni del mito di Enea su oggetti rinvenuti in centri etruschi tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. ha fatto ipotizzare in alternativa che il mito si sia sviluppato in quest'epoca in Etruria. La relazione di Enea con Lavinia viene introdotta, alla fine del IV secolo a.C., da Timeo di Tauromenio, che, come testimoniato nuovamente da Dionigi di Alicarnasso, racconta di avervi visto con i suoi occhi i Penati troiani. Il legame con Lavinio è testimoniato anche dal poeta Licofrone. Si tratta forse di un mito di fondazione di origine latina o romana, attestato anche archeologicamente: un tumulo funerario, databile in origine al VII secolo a.C., mostra un adeguamento a funzioni di culto proprio alla fine del IV secolo a.C. e corrisponde ad una descrizione di Dionigi di Alicarnasso del cenotafio dell'eroe, costruito nel luogo in cui era scomparso (rapito in cielo) nel corso di una battaglia. Nel VI-V secolo a.C. lo storico siceliota Alcimo da Messina descrive per primo il mito della fondazione della città, con la lupa che salva ed alleva i due gemelli discendenti di Enea. Tra il IV e il III secolo a.C. infatti, dopo una lunga elaborazione di molteplici materiali tradizionali, tra cui ebbe forse particolare peso quello di origine gentilizia (le "storie di famiglia" del patriziato), viene a delinearsi il racconto della fondazione della città da parte di Romolo e Remo. Questa"gestazione"della leggenda e la selezione dei materiali della tradizione, fino a quel momento probabilmente trasmessi essenzialmente per via orale, dipende fortemente dal contesto contemporaneo: Roma deve poter essere accolta nel mondo culturale greco, minimizzando invece l'apporto etrusco. La storia arcaica di Roma, a partire dalla sua fondazione viene quindi riferita da Fabio Pittore (che scrive in greco) e sarà ripetuta nelle Origines di Catone, negli scritti di Calpurnio Pisone e negli Annales di Ennio. Ad Eratostene di Cirene si deve l'invenzione della dinastia regale di Alba Longa, a coprire lo scarto cronologico tra la data della caduta di Troia, agli inizi del XII secolo a.C., e la tradizionale data di fondazione della città, alla metà dell'VIII secolo a.C. Secondo Ennio, Romolo e Remo sono invece figli della figlia di Enea, di nome Ilia. Saranno infine Catone il Censore, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Appiano e Cassio Dione a narrare la leggenda così come è conosciuta dell'Eneide di Virgilio. Questi aggiunge tuttavia alle peregrinazioni dell'eroe la sosta presso la regina Didone, che rappresenta la spiegazione mitica dell'ostilità tra Roma e Cartagine. La repubblica. La Repubblica romana (Res publica Populi Romani) fu il sistema di governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. ed il 27 a.C., quando l'urbe era amministrata da una repubblica oligarchica. Nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della dominazione etrusca sulla città, ed al parallelo decadere delle istituzioni monarchiche. La sua fine viene invece convenzionalmente fatta coincidere, circa mezzo millennio dopo, con la fine di un lungo periodo (circa un secolo) di guerre civili che segnò de facto (benché formalmente non avvenne una riforma istituzionale) la fine della forma di governo repubblicana a favore di quella del Principato. La Repubblica rappresenta una fase lunga, complessa e decisiva della storia romana: costituì un periodo di enormi trasformazioni per Roma, che da piccola città stato quale era alla fine del VI secolo a.C. divenne, alla vigilia della fondazione dell'Impero, la capitale di un vasto e complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti, avviato a segnare in modo decisivo la storia dell'Occidente e del Mediterraneo. In questo periodo si inquadrano la maggior parte delle grandi conquiste romane nel Mediterraneo ed in Europa, soprattutto tra il III ed il II secolo a.C.; il I secolo a.C. è invece, come detto, devastato dai conflitti intestini catalizzati dai mutamenti sociali, ma è anche il secolo di maggiore fioritura letteraria e culturale, frutto dell'incontro con la cultura ellenistica e riferimento "classico" per i secoli successivi. poteri che erano riservati al re (comando dell'esercito, potere giudiziario e massima autorità religiosa) furono assegnati a due consoli e, per quanto riguarda l'ambito religioso, al pontifex maximus. Con la progressiva crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono a costituire le magistrature. Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità, ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta, ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro, e la gratuità. Ad esempio, se l'esercito romano scendeva in campo sotto il comando dei due consoli, questi alternavano i giorni di comando. Mentre i consoli erano sempre due, gran parte degli altri incarichi erano retti da più di due uomini - nella tarda Repubblica c'erano 8 pretori all'anno e 20 questori. Tra i magistrati una importante distinzione era quella tra magistrati dotati di imperium (cum imperio; ne facevano parte solo consoli, pretori e dittatori) e quelli che ne erano sprovvisti (sine imperio, tutti gli altri); ai primi erano affiancate delle speciali guardie, i littori. Nel tempo, per amministrare i nuovi territori di conquista senza dover moltiplicare il numero dei magistrati in carica, fu istituita la figura del promagistrato (proconsole, propretore), dotato della stessa autorità del magistrato di riferimento ma formalmente non tale. Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari, che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo, secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie. Ciononostante il peso della plebe veniva comunque ad essere accentuato rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo assembleale (i comizi curiati) costituito da soli patrizi. L'accesso della plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata, varata all'inizio del periodo repubblicano, spinse il ceto popolare a pretendere maggiori riconoscimenti, che nell'arco di due secoli (vedi più avanti) vide tra l'altro la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal concilio della plebe. Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente nell'età della monarchia. Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari. Esisteva poi la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione all'annualità e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un singolo dittatore veniva eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la guida dello Stato. Eleggeva un suo collaboratore (che comunque gli rimaneva subordinato) detto maestro della cavalleria. Caduto in disuso dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo incarico tornerà ad essere praticato nella fase della crisi della repubblica. Le Guerre puniche Le Guerre puniche furono una serie di tre guerre combattute fra Roma e Cartagine tra il III e II secolo a.C., che si risolsero con la totale supremazia di Roma sul Mar Mediterraneo; supremazia diretta nella parte occidentale e controllo per mezzo di regni a sovranità limitata nell'Egeo e nel Mar Nero. Sono conosciute come puniche in quanto i romani chiamavano punici i cartaginesi. A sua volta il termine punico è una corruzione di fenicio, come Cartagine è una corruzione del fenicio Karth Hadash (città nuova). Le due città, quasi "coetanee" (814 a.C. Cartagine), (753 a.C. Roma), per lunghi secoli tennero un atteggiamento di reciproco rispetto anche se dai trattati stipulati nel corso del tempo, traspare una certa tendenza probabilmente motivata - di Cartagine a sentirsi "superiore". Polibio ci informa di quattro trattati fra Roma e Cartagine: 509 a.C., 348 a.C., 306 a.C., 279 a.C. L'ultimo è addirittura un'alleanza (anche se non stretta) in funzione anti Pirro, re dell'Epiro, che imperversava prima nel sud Italia chiamato da Taranto contro i romani e poi in Sicilia chiamato da Siracusa contro i cartaginesi. Proprio la sconfitta di Pirro a Maleventum sancì il definitivo ingresso di Roma - che arrivò così a controllare saldamente tutta l'Italia peninsulare nel novero delle grandi potenze del Mediterraneo. Proprio la precedente sconfitta di Pirro in Sicilia per opera dei cartaginesi segnò la divisione dell'isola in due settori: a ovest i punici, a est Siracusa. Quest'ultima città, per poter estendere il suo potere dovette rivolgersi contro i Mamertini di Messina che inviarono ambasciatori per chiedere aiuto a entrambe le città. Un'antica comunità di intenti, basata sulla simmetria degli interessi (terrestri per Roma, navali per Cartagine) cessò all'improvviso. Per 110 anni la guerra imperversò, gradualmente estendendosi a tutto il Mediterraneo. Fino alla totale distruzione di uno dei contendenti: Cartagine. La Prima guerra punica (264 a.C. - 241 a.C.) fu principalmente una guerra navale. Le richieste di soccorso dei Mamertini contro Siracusa raggiunsero Roma e Cartagine. Roma, impegnata nella pacificazione del territorio sannita e nell'inizio di espansione nella Pianura Padana era riluttante a impegnarsi in Sicilia, Cartagine inviò subito una squadra navale. La conquista di Messina gettava segnali favorevoli nella secolare lotta con Siracusa; Cartagine poneva finalmente piede anche nel settore orientale dell'isola. Probabilmente vedere Cartagine a poche miglia dalle coste del Bruttium appena conquistato dovette creare qualche apprensione nel Senato romano che acconsentì a inviare soccorsi a Messina. Questo andava contro il trattato del 279 a.C. che vietava gli interventi di Roma in Sicilia. Cartagine dichiarò guerra. Visto il pericolo, si alleò con la sua nemica storica, Siracusa, contro Roma ed i Mamertini. La maggior parte della Prima guerra punica, comprese le battaglie più decisive, fu combattuta in mare, uno spazio ben noto alle flotte cartaginesi. Però entrambi i contendenti dovettero investire pesantemente nell'allestimento delle flotte e questo diede fondo alle finanze pubbliche sia di Roma che di Cartagine. All'inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma non esisteva una Marina. La prima grande flotta fu costruita dopo la battaglia di Agrigentum del 261 a.C. Ma Roma mancava della tecnologia navale e quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e quinquiremi (navi che avevano ordini di due o tre remi e ciascun remo era manovrato da più rematori) cartaginesi catturate. Per compensare la mancanza di esperienza in battaglie con le navi, Roma equipaggiò le sue con uno speciale congegno d'abbordaggio: il corvo che agganciava la nave nemica e permetteva alla fanteria, trasportata, di combattere come sapeva fare. In almeno due occasioni 255 a.C. e 253 a.C. intere flotte furono distrutte dal maltempo. Il peso dei corvi sulle prode delle navi fu il maggior responsabile dei disastri. Tre battaglie terrestri di larga scala furono combattute durante questa guerra. Nel 262 a.C. Roma assediò Agrigento in un'operazione che coinvolse entrambi gli eserciti consolari (quattro legioni). Giunsero rinforzi cartaginesi guidati da Annone. Dopo alcune schermaglie si venne a una vera battaglia che fu vinta dai romani. Agrigento cadde. La seconda operazione terrestre fu quella di Marco Attilio Regolo, quando, fra il 256 a.C. e il 255 a.C. Roma portò la guerra in Africa. Cartagine venne sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo da una grande flotta romana appositamente approntata e le legioni di Attilio Regolo sbarcarono in Africa. All'inizio Regolo vinse la battaglia di Adys. Cartagine chiese la pace. I negoziati fallirono e Cartagine, assunto il mercenario spartano Santippo, riuscì a fermare l'avanzate romana nella battaglia di Tunisi. La guerra fu decisa nella battaglia navale delle Egadi (10 marzo 241 a.C.) vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo, nel fazzoletto di mare che bagnava la roccaforte cartaginese Lilibeo. Buona parte del relitto di una nave affondata in questa guerra, sono conservati nel Museo Archeologico "Baglio Anselmi" di Marsala. La Seconda guerra punica (219 a.C. - 202 a.C.) consistette essenzialmente in una serie di battaglie terrestri. Spiccano le figure di Annibale e Publio Cornelio Scipione detto successivamente per le vittorie avute in Africa "l'Africano". Il casus belli scelto da Annibale fu la sfortunata Sagunto. Alleata di Roma ma posta a sud dell'Ebro, cioè entro i "confini" punici, la città fu assalita, assediata e distrutta (La città di Sagunto aveva chiesto l'intervento di Roma ma il Senato era diviso sull'intervento tanto che è rimasta celebre la frase "Mentre a Roma discutono Sagunto cade"). Roma chiese a Cartagine di sconfessare Annibale. Cartagine rifiutò e accettò la dichiarazione di guerra. Annibale partì dalla Spagna con un esercito di circa 50.000 uomini, 6.000 cavalieri e 37 elefanti. Attraversate le Alpi, presumibilmente al passo del Moncenisio o del Monginevro, Annibale giunse nella Pianura padana con più o meno metà delle forze. Nell'ottica di portare dalla sua parte le tribù galliche in lotta con Roma, combatté e sconfisse i Taurini, avversari degli Insubri che gli si allearono assieme ai Boi. Con magistrale uso della cavalleria sconfisse le forze romane in due importanti battaglie sul Ticino e sulla Trebbia. L'anno successivo attraversò l'Appennino e batté seccamente le legioni di Roma nella battaglia del Lago Trasimeno. Sapendo di non poter assediare Roma prima di aver raccolto attorno a sé le popolazioni dell'Italia centrale e meridionale si diresse verso la Puglia dove, a Canne, inferse una tremenda sconfitta all'esercito romano. Ancora una volta non osò attaccare Roma che già si aspettava l'assedio e si limitò a operare nelle regioni del sud Italia. Roma, lentamente si riprese e adottando nuovamente la tattica del dittatore Quinto Fabio Massimo, che poi prenderà il soprannome di "cunctator" (temporeggiatore) per anni e con alterne fortune, combatté il generale cartaginese restringendo sempre di più il territorio della sua azione riconquistando man mano le città che Annibale conquistava, non appena le condizioni militari o sociali lo consentivano. Così Capua, Taranto, per citare le più importanti, passarono di mano da Roma ad Annibale e di nuovo a Roma. Nel frattempo Roma portava la guerra in Spagna, prima con i fratelli Publio (padre dell'Africano) e Gneo Cornelio Scipione, e poi dopo la loro morte con Publio Scipione (futuro Africano) che attaccarono Asdrubale e Magone (fratelli di Annibale). La Spagna fu conquistata e Asdrubale venne in Italia cercando di portare rinforzi al fratello. Al fiume Metauro fu sconfitto e ucciso. Magone provò a muovere le tribù galliche della Pianura Padana ma fu sconfitto e ferito. Richiamato in patria, morì per le feritedurantelatraversata. In maniera non determinante fu coinvolto anche il re Filippo V di Macedonia che si alleò con Annibale e provò a combattere i romani i quali si stavano espandendo nell'Illiria e quindi si avvicinavano ai suoi territori. Roma mosse la sua diplomazia e le sue legioni riuscendo a fermare i Macedoni senza grandi sforzi e aiutata dal re di Pergamo. Altre figure importanti della seconda guerra punica sono i re numidi Massinissa e Siface. Massinissa entrò in guerra come alleato di Annibale e la terminò come alleato di Scipione. Specularmente, Siface era alleato di Roma e finì la guerra come alleato di Cartagine. Senza rifornimenti e rinforzi da Cartagine e senza riuscire a far sollevare le popolazioni del centro Italia contro Roma, Annibale si ritrovò praticamente assediato sui monti della Calabria dove, in seguito, gli giunse l'ordine di Cartagine di tornare in Africa per portare aiuto contro Publio Cornelio Scipione (Africano). Contrastando il volere del Senato, guidato da Quinto Fabio Massimo che riteneva prioritario estromettere Annibale dalla Penisola, Scipione, in qualità di proconsole della Sicilia e aiutato dalle città italiche, partì per l'Africa attaccando direttamente Cartagine. La città punica si vide costretta a richiamare Annibale che rientrò in patria dopo 34 anni di assenza. Nel 202 a.C. a Zama, Scipione volse contro Annibale la sua stessa strategia e lo sconfisse, determinando la fine della Seconda guerra punica. Non appena si seppe che i romani erano partiti con un esercito di 80.000 uomini e 4.000 cavalieri Cartagine capitolò, inviando 300 ostaggi scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica. L'esercito romano sbarcò vicino a Utica, che si arrese. I consoli ricevettero gli ambasciatori di Cartagine che dovettero accettare le condizioni poste: Cartagine consegnò armature, catapulte e altro materiale bellico. Resi inermi i cartaginesi, Censorino disse che la città doveva essere distrutta e ricostruita 15 km all'interno. Il popolo cartaginese si ribellò; furono uccisi tutti gli italici presenti in città, furono liberati gli schiavi per avere aiuto nella difesa, furono richiamati Asdrubale e altri esuli, fu chiesta una moratoria di 30 giorni per inviare una delegazione a Roma. In questi 30 giorni, si ebbe una frenetica corsa al riarmo. I cartaginesi riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi. Quando i romani arrivarono alle mura di Cartagine trovarono un intero popolo stretto a difesa della sua città. Fu posto l'assedio. Cartagine era estremamente ben difesa. La sosta aveva dato ad Asdrubale, posto a capo dell'esercito, la possibilità di raccogliere circa 50.000 uomini ben armati e l'assedio si protrasse. Nel 148 a.C. i nuovi consoli furono inviati in Africa ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori. Gli insuccessi romani resero audaci i cartaginesi, Asdrubale prese il potere con un colpo di stato e ordinò di esporre sulle mura i prigionieri orrendamente mutilati. I romani, inaspriti, non avrebbero concesso mercé. Nel 147 a.C. Publio Cornelio Scipione Emiliano venne nominato console, avendo come collega Caio Livio Druso. Asdrubale che difendeva il porto con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a Birsa.Scipione bloccò il porto da cui arrivavano i rifornimenti per gli assediati. Questi scavarono un tunnel-canale e riuscirono a costruire cinquanta navi ma Scipione distrusse la flotta e il tunnel-canale fu chiuso. Nel frattempo Nefari fu attaccata da truppe romane e cadde; questo portò la resa delle altre città. I romani si poterono concentrare su Cartagine. L'agonia della città si protrasse per tutto l'inverno senza viveri e attaccata da una pestilenza. Scipione non forzò l'attacco che venne lanciato solo nel 146a.C. I sopravissuti per quindici giorni impegnarono i romani in una disperata battaglia per le strade della città. Ma l'esito era scontato. Gli ultimi soldati si rinchiusero nel tempio di Eshmun altri otto giorni. Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. Cartagine fu rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto. Venne sparso del sale a dimostrare che quel luogo era maledetto[e quindi inabitabile ed incoltivabile. La terza guerra punica era terminata. I Flavi Vespasiano Vespasiano era stato un Generale Romano di notevole successo ed aveva amministrato molte parti esterne dell'Impero. Sua grande azione fu la repressione della rivolta in Giudea. veva sostenuto la candidatura imperiale di Galba; tuttavia alla sua morte, Vespasiano divenne il maggior aspirante al trono. Dopo il suicidio di Otone, Vespasiano riuscì a dirottare la fornitura invernale del grano per Roma, mettendosi in ottima posizione per sconfiggere l'ultimo rivale, Vitellio. Il 20 dicembre 69, alcuni sostenitori di Vespasiano occuparono Roma. Vitellio fu ucciso dalle sue truppe, ed il giorno successivo il Senato confermò Imperatore Vespasiano. Vespasiano fu praticamente un autocrate, ed ebbe molto meno appoggio dal Senato dei suoi predecessori Giulio-Claudii. Questo è esemplificato dal fatto che lui stesso riferisce la sua salita al potere il 1º luglio quando fu proclamato Imperatore dalle truppe, invece del 21 dicembre quando fu confermato dal Senato. Egli volle, negli anni successivi, espellere i Senatori a lui contrari. Vespasiano riuscì a liberare Roma dai problemi finanziari creati dagli eccessi di Nerone e dalle guerre civili. Aumentando le tasse in modo drammatico (talvolta più che raddoppiate), egli riuscì a raggiungere una eccedenza di bilancio ed a realizzare progetti di lavori pubblici. Egli fu il primo committente del Colosseo e costruì un Foro il cui centro era il Tempio della Pace. Vespasiano fu inoltre effettivamente imperatore delle province. I suoi Generale soffocarono ribellioni in Siria e Germania. Infatti in Germania riuscì ad allargare le frontiere dell'Impero, e gran parte della Bretagna fu portata sotto il dominio di Roma. Inoltre estese la cittadinanza romana agli abitanti della Spagna. Un altro esempio delle sue tendenze monarchiche fu la sua insistenza che gli succedessero i figli Tito e Domiziano; il potere imperiale non era visto allora come ereditario. Tito, che aveva avuto qualche successo militare all'inizio del regno di Vespasiano, fu visto come il supposto erede al trono; Domiziano era visto come meno disciplinato e responsabile. Tito affiancò il padre nei compiti di censore e console e lo aiutò nel riorganizzare i ruoli del Senato. Il 23 giugno 79, alla morte di Vespasiano, Tito fu immediatamente confermato imperatore. Tito Il breve regno di Tito durato circa due anni fu segnato da numerosi disastri: nel 79 l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano, e nell'80 un incendio distrusse gran parte di Roma. Nello stesso anno poi si diffuse una pestilenza. La sua generosità nella ricostruzione dopo le tragedie, lo rese molto popolare. Tuttavia il Colosseo fu completato solo durante il regno di Domiziano. Tito fu molto fiero dei suoi progressi nella costruzione del grande anfiteatro cominciato dal padre. Egli tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato durante gli anni ottanta, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono cento gladiatori e che durò cento giorni. Tito morì nell'81 a 41 anni e ci furono voci che fosse stato assassinato dal fratello Domiziano impaziente di succedergli. Domiziano Fu con Domiziano che i rapporti già tesi tra la dinastia flavia ed il senato si andarono sempre più logorando. Le cause di questo difficile sodalizio furono dapprima la divinizzazione del culto personale dell'imperatore secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in seguito il divorzio dalla moglie Domizia, di estrazione senatoria. Anche sul fronte esterno le cose non andavano meglio; nonostante i successi della guerra britannica, finita nell'84, e la vittoria sui Catti, la Guerra Dacica (85-89) finì col pagamento dell'alleanza con Decebalo. Nell'89 Domiziano dovette reprimere la ribellione di Antonino Saturnino a Magonza. La parte finale del suo regno fu macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla persecuzione contro i Cristiani. L'anno seguente Domiziano morì, vittima di una congiura. 3° E 4° ANNO IL POTERE TEMPORALE DELLO STATO DELLA CHIESA NELL'ALTO MEDIOEVO C'è una differenza sostanziale tra il sacro romano impero di Carlo Magno e quello di Ottone I. Il primo partiva da una posizione di debolezza: per legittimarsi aveva dovuto cedere ai compromessi con la chiesa romana e coi vari feudatari francesi; il secondo invece pretende d'imporsi con la forza, facendo nascere il cesaropapismo. L'impero di Carlo Magno era così debole, nonostante le conquiste coloniali nell'Europa centro-orientale e la facile vittoria contro i Longobardi, che già alla morte del suo fondatore si sfasciò in maniera irreversibile, e solo con Ugo Capeto (987) si riformò una sovranità regale per un regno da cui, pur restando per otto secoli in mano alla dinastia capetingia, rimase sostanzialmente indipendente la feudalità nazionale, frammentata in una cinquantina di domini molto potenti. Il feudalesimo creato da Carlo Magno, che altro non era se non un applicazione del principio romano del do ut des, senza alcun particolare ideale da realizzare, s'era trasformato, subito dopo la morte di Carlo Magno, da obbedienza formale, da parte dei vassalli, al loro imperatore, appoggiato dal papa, in una sostanziale disobbedienza civile e politica. Spieghiamo meglio le caratteristiche dell'impero carolingio. Esso s'era imposto sostanzialmente sulla base dell'illegalità, in quanto esisteva già a Bisanzio un "sacro romano impero", sin dai tempi di Teodosio. Il pretesto per eleggere Carlo Magno sovrano di pari titolo fu per la chiesa non solo quello di cacciare dall'Italia i longobardi ariani o comunque avversi alla curia romana, ma anche quello di impedire che i territori conquistati dai longobardi tornassero ai bizantini: in particolare la chiesa, che si trasformò in Stato proprio grazie alla sconfitta dei longobardi, voleva assolutamente impadronirsi dell'esarcato e del ducato romano, ch'erano in mano bizantina prima ancora dell'invasione longobarda. La chiesa cattolica, utilizzando il falso della Donazione di Costantino (che verrà creduta vera per sette secoli), concedeva abusivamente ai franchi il titolo di imperatore e si incorporava, altrettanto abusivamente, di territori che non le appartenevano e che le permetteranno di trasformarsi in un'entità politico-ecclesiastica, totalmente avversa a una unificazione della penisola che non avvenisse sotto la propria egemonia. I bizantini dovettero accontentarsi della sola l'Italia meridionale, esclusi i pochi territori rimasti ai longobardi (ducato di Benevento e qualcosa in Puglia), e neppure per molto tempo, poiché, a causa delle continue intromissioni della curia pontificia, dovettero presto affrontare, uscendone nettamente sconfitti, dapprima le invasioni arabe in Sicilia, in seguito quelle normanne in tutto il Mezzogiorno. In politica estera l'impero carolingio organizzò numerose guerre di conquista contro gli arabi di Spagna, gli àvari, i longobardi, le popolazioni slave e soprattutto quelle sassoni, quest'ultime convertite a forza al cattolicesimo latino. Concluse le 53 spedizioni militari, l'impero carolingio aveva praticamente raddoppiato i propri confini. Per la prima volta coi Franchi, i barbari, cattolicizzati e romanizzati, si erano mossi militarmente da ovest verso est, rappresentando così il nuovo volto dell'Europa occidentale: bellicoso, intollerante, colonialista... Solo nei confronti degli arabi di Spagna essi non riusciranno a conseguire significativi successi. Questo perché, sottovalutando la loro forza, si era pensato di poterli facilmente sconfiggere limitandosi a valicare i Pirenei: invece proprio questa difesa naturale permise agli arabi di restare in Spagna sino alla fine del 1400. Che l'impero carolingio fosse una realtà del tutto fittizia, basato unicamente sull'uso militare della forza, è dimostrato anche dal fatto che subito dopo la morte di Carlo Magno, esso si frantumò in tre aree ben distinte, che a loro volta costituiranno l'embrione delle prime nazioni europee: Francia, Germania e Italia. Dei tre il regno che, a causa delle resistenze del papato, dei bizantini, degli arabi e degli ultimi longobardi rimasti, riuscì a realizzare l'unificazione nazionale per ultimo fu quello italico: un regno talmente effimero che già nel 961 era scomparso, inghiottito dai nuovi imperatori sassoni (gli Ottoni). L'uso militare della forza si rifletteva, sul piano sociale, dalla pratica del vassallaggio. Il rapporto di dipendenza personale da parte di un suddito nei confronti del proprio diretto superiore, fu usato da Carlo Magno per costituire la propria entità statale. Il suddito doveva giurare fedeltà al superiore, che, in cambio, gli concedeva una proprietà (feudo). Ovviamente il superiore si serviva di tale rapporto soprattutto nei momenti in cui occorreva usare la forza militare (p.es. per convertire i non cristiani) o semplicemente poliziesca (p.es. per reprimere il dissenso). Era quindi un rapporto basato sul reciproco interesse: politico, per il superiore, economico, per il suddito. Lo Stato non era basato su un'idea in cui il sovrano e il suddito si riconoscevano: la cultura, beninteso, c'era ed era quella del cattolicesimo latino, ma questa restava in subordine rispetto alle caratteristiche del patto di vassallaggio. Ciò che più importava non era l'ideale di cristianità, ma la subordinazione gerarchica, in virtù della quale il sovrano poteva esercitare un potere assoluto. Tale meccanismo, di derivazione culturale papista, cominciò a incepparsi nel momento stesso in cui il suddito, una volta ottenuto il beneficio economico, pretendeva anche un certo riconoscimento politico da parte del sovrano: il vassallo voleva contrattare alla pari col proprio sovrano, e quando questi opponeva resistenza, ecco che nasceva, come reazione automatica, la cosiddetta "anarchia feudale". Nel feudalesimo dell'Europa occidentale non sembra esserci un ideale condiviso, ma soltanto un interesse da far valere: un rapporto politico basato sulla forza veniva distrutto dalla forza di chi aveva dovuto subire le condizioni del proprio superiore. Il Capitolare di Quierzy (877), in tal senso, costituisce un vero spartiacque tra una dittatura sub condicione e una vera e propria anarchia politica, in cui il perimetro del territorio locale, avuto prima in usufrutto, poi rivendicato come proprietà privata, diventava il luogo ove esercitare un dominio assoluto, dispotico, da parte del signorotto che aveva prestato giuramento di fedeltà al suo sovrano. I vari feudatari si trasformarono in piccoli imperatori nei loro possedimenti, continuamente in lite tra loro per questioni di confine. Ci vorrà molto tempo prima che la Francia si costituisca come nazione vera e propria, cioè ci vorrà Giovanna d'Arco e la guerra contro gli inglesi. L'impero carolingio ebbe termine nell'887, con la deposizione di Carlo il Grosso, avvenuta dopo 73 anni dalla morte di Carlo Magno (814). Il Capitolare di Quierzy fu l'ultimo tentativo disperato di tenere unito un impero i cui protagonisti volevano invece spezzarlo il più presto possibile. La Francia, tuttavia, seppur formalmente, vide riconosciuta una corona regale. L'Italia invece, oppressa dalla presenza della chiesa romana, non riuscì a riconoscere un re neppure formalmente e venne abbastanza presto incorporata nella sovranità imperiale germanica. Ottone I unificò la corona d'Italia e di Germania senza ancora avere il titolo imperiale (951). Egli era re di Germania dal 936, ma doveva combattere l'anarchia feudale con non meno vigore del suo collega francese. Il sovrano italiano (della parte settentrionale della penisola) non era riuscito assolutamente a porre un argine all'anarchia feudale. Ottone invece per riuscirvi escogitò una trovata geniale: nominare dei propri vescovi di fiducia, aventi tutte le cariche politiche dei feudatari laici, ma caratterizzati da una diversità fondamentale: l'obbligo del celibato, che la chiesa romana voleva imporre a tutto il clero senza però riuscirvi. In tal modo i beni del vescovo-conte, ottenuti in usufrutto, non potevano essere lasciati in eredità e, alla sua morte, tornavano al sovrano, che così vedeva accrescere i propri domini. Poiché Ottone I si sentiva il vero erede di Carlo Magno, si fece incoronare imperatore da papa Giovanni XII nel 962, dando così inizio al sacro impero romano-germanico, che durerà sino al 1806, allorché Napoleone gli metterà una pietra sopra. La cosa più curiosa di questa incoronazione è che il papa vi acconsentì nonostante che Ottone avesse imposto una condizione molto umiliante per l'autonomia della chiesa, e cioè il fatto che l'elezione del pontefice, d'ora in poi, sarebbe dovuta dipendere dal consenso dello stesso imperatore (privilegium Othonis). Per quale ragione la chiesa istituzionale si risolse in un primo momento a sottostare a un diktat così restrittivo, quando poi, di lì a poco, avrebbe scatenato una durissima lotta per le investiture ecclesiastiche contro i sovrani germanici? I motivi forse possono essere due: da un lato essa aveva ricevuto assicurazione che il nuovo sovrano avrebbe espulso definitivamente dall'Italia meridionale i bizantini (cosa che i Franchi non erano riusciti a fare), consegnando questi territori allo Stato della chiesa; dall'altro si può pensare che all'interno della cristianità occidentale la corruzione, favorita peraltro dagli stessi vertici ecclesiastici, abituati da tempo a ragionare in termini di puro potere, era già così forte o così vasta che il papato temeva che anche all'interno dello Stato della chiesa si potesse formare una sorta di anarchia feudale in grado di minare il principio di autorità ecclesiastica. Insomma il consenso all'incoronazione fu il frutto di un compromesso dovuto a un momento di debolezza della chiesa romana, che aveva pertanto bisogno di un "braccio secolare" con cui reprimere il dissenso. Forse essa aveva sottovalutato il fatto che in questa nuova intesa politica chi andava ad acquisire maggiori poteri era soltanto il sovrano tedesco. Tuttavia l'autoriforma in senso dittatoriale della chiesa romana non si fece attendere e, col Dictatus papae (1075) di Gregorio VII si pongono le basi del futuro Stato teocratico, che non avrebbe certo potuto accettare alcun rapporto di sudditanza nei confronti dell'imperatore tedesco, e che infatti impose il principio, col Concordato di Worms (1122), secondo cui i pontefici, nei regni d'Italia e di Borgogna, potevano intervenire in prima persona in tutti i casi di elezioni contrastate. Da notare che in questa riforma Gregorio VII pose tre principi fondamentali che resteranno in vigore per sempre: il papa deve essere eletto dai cardinali, cioè non dall'imperatore né dai vescovi (molti dei quali erano stati nominati dallo stesso imperatore): il collegio cardinalizio era in sostanza un consesso di pochi supervescovi fidatissimi, in cui il papa, che li nominava di persona, poteva riporre ogni fiducia; tutto il clero doveva essere eletto dall'alto clero, senza consensu ecclesiae da parte del laicato; tutto il clero doveva restare celibe, sicché alla morte di ogni prelato, dal più piccolo prete di campagna al più alto porporato, i beni tornavano sempre alle casse dello Stato della chiesa. Era una dichiarazione di guerra non solo all'imperatore, ma anche ai bizantini, che avevano regole diversissime, e persino alla stessa cristianità latina, cui veniva chiesto di uniformarsi passivamente a una sorta di autoritario fondamentalismo politico-religioso. Il fatto che la chiesa ambisse decisamente ad acquisire il massimo potere politico ora veniva pienamente legittimato in sede giuridica, come giustificazione canonica di una prassi di antica data. CHIESA E IMPERO NEL BASSO MEDIOEVO FEDERICO BARBAROSSA Dopo il concordato di Worms (1122), l'impero e il papato attraversarono un periodo di crisi che favorì l'ulteriore sviluppo delle forze locali (aristocratiche e borghesi): la corona del regno di Germania, e perciò anche le annesse corone del regno d'Italia e dell'impero, erano disputate tra guelfi e ghibellini (che in origine non esprimevano due partiti ideologicamente diversi ma soltanto due casate aristocratiche: di Baviera i primi, di Svevia i secondi, che dal 1125 al 1152 lottarono in Germania per la successione alla casa di Franconia). Il papato era stato messo in crisi dal movimento comunale, estesosi, grazie all'operato di Arnaldo da Brescia, anche a Roma. Il confronto tra guelfi e ghibellini si concluse proprio con l'elezione di Federico I di Svevia, detto Barbarossa (1152-90), che per parte di madre era guelfo. Riordinato il mondo tedesco, Federico poté riprendere la politica sacroromano-imperiale da sempre perseguita dai re di Germania. Tuttavia, a differenza dei predecessori sassoni, che avevano dovuto combattere soprattutto con la chiesa romana, egli trovò una ferma opposizione anche da parte dei Comuni del nord Italia, decisi a difendere le autonomie da tempo conquistate e quindi disposti ad accettare ampie intese col papato in funzione anti-imperiale. Il programma di restaurazione dell'impero cristiano-universale risultava anacronistico anche rispetto agli sviluppi in corso in Francia e in Inghilterra, orientate secondo una prospettiva monarchico-nazionale, dove la gestione del potere politico da parte della nobiltà e quella dell'economia da parte della borghesia trovavano favorevoli convergenze. Federico I scese in Italia perché chiamato dai Comuni limitrofi a Milano (Como e Lodi), fagocitati da quest'ultima, che si espandeva sempre più; chiamato dal marchese di Monferrato, contro i Comuni di Asti e Chieri; e chiamato dal papa Adriano IV per eliminare la scomoda figura di Arnaldo da Brescia che a Roma, fin dal 1143, aveva creato una repubblica comunale. A Roma Federico fece giustiziare Arnaldo, ma i tumulti scoppiati subito dopo lo costrinsero a tornare in Germania. Durante la prima discesa (1154-55) aveva distrutto Asti, Chieri e Tortona. Prima della seconda discesa (1158-62) Milano aveva distrutto Lodi e ricostruito Tortona, e il papato, intenzionato a considerare l'impero come un proprio "feudo ecclesiastico", aveva stretto una forte alleanza coi Normanni contro Federico. Quest'ultimo, per tutta risposta, costrinse Milano, dopo un lungo assedio, a giurargli fedeltà e volle imporre a tutti i Comuni di accettare propri rappresentanti per la gestione dei diritti imperiali. La rivolta dei Comuni fu generale: Federico distrusse Milano e Crema e, proprio nel momento in cui sembrava aver la meglio, il successore di papa Adriano IV, Alessandro III (1159-81) gli lanciò la scomunica in quanto la sua elezione non era stata approvata dallo stesso Federico, che gli aveva contrapposto un antipapa. Papato e Comuni lo costrinsero a ritornare in Germania. Anche con la terza discesa (1163-64), dopo aver nuovamente distrutto Tortona, fu costretto a tornare in Germania per le resistenze comunali. In occasione della quarta discesa (1166-68) si formarono due leghe comunali, quella Veronese e quella Lombarda, intenzionate a contrastare duramente gli imperiali, i quali infatti, si limitarono a dirigersi verso Roma, per insediarvi il loro antipapa, ma una terribile pestilenza scoppiata nelle file dell'esercito, li costrinse a tornare in Germania. Nel corso della quinta discesa (1174-77) Federico subì una pesantissima sconfitta militare a Legnano da parte delle Leghe, al punto che fu costretto a riconoscere tutti i diritti comunali (pace di Costanza). Era stata la vittoria di un esercito di mercanti, artigiani, operai e contadini contro un esercito feudale di cavalieri professionisti dell'arte militare. La sesta e ultima discesa (1185-86) fu del tutto pacifica, in quanto unicamente motivata dalla decisione, invano ostacolata dal papato, di unire in matrimonio il proprio figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, erede del regno normanno di Napoli e Sicilia. Federico sperava di conquistare l'Italia con una politica matrimoniale, invece morirà annegato in un fiume della Cilicia (odierna Turchia), mentre partecipava alla terza crociata. Va detto che mentre a Bisanzio e a Mosca l'idea cristiano-imperiale poté durare molti secoli perché sempre sostenuta, salvo singole eccezioni, dalla chiesa istituzionale, in occidente essa durò pochissimo proprio perché il papato si poneva in netto antagonismo rispetto all'imperatore, avendo ambizioni di egemonia politica. Furono proprio queste ambizioni, inevitabilmente destinate a corrompere gli ideali cristiani originari, che avevano indirettamente portato alla nascita della borghesia, culturalmente e moralmente indifferente alla religione. La corruzione dell'alto clero era stata colta dai mercanti e dagli artigiani come pretesto per cercare di far passare uno stile di vita che di cristiano aveva solo le apparenze. Era dunque letteralmente impossibile per uno sovrano come Federico affermare l'idea medievale cristiano-imperiale contro la volontà di chiesa e borghesia, che in quel frangente si trovarono persino alleate. L'unica cosa intelligente ch'egli riuscì a fare fu quella di realizzare una politica matrimoniale coi Normanni per impedire alla chiesa di annettersi l'intero Mezzogiorno. FEDERICO II DI SVEVIA I) La minore età di Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza d'Altavilla, nonché la crisi dell'impero dopo la sconfitta nella battaglia di Legnano contro i Comuni del nord-Italia, crearono le condizioni favorevoli al tentativo del papato di sostituirsi all'impero nell'esercizio della sovranità politica universale. II) Il nuovo papa, Innocenzo III (1198-1216) si propose di rilanciare il programma teocratico di Gregorio VII, per il quale il potere politico dei sovrani cattolici proveniva da Dio attraverso la Chiesa: cioè nessun potere laico era legittimo senza il previo riconoscimento da parte della Chiesa. Di qui la teoria, elaborata da Innocenzo III, della Luna-Impero che riceve la sua luce dal Sole-Chiesa. III) Il papa cominciò ad applicare questa teoria nella città di Roma, dove l'autorità politica era costituita dal prefetto, rappresentante dell'imperatore, e dal Senato, organo di governo del Comune. Il prefetto gli prestò giuramento, mentre il Comune accettò una costituzione che dava al papa il potere di nominare il senatore al quale era affidato il governo della città. Poi proseguì l'azione in quei territori dove più forte era l'influenza della Chiesa: Umbria, Marche e Romagna (che più tardi formeranno lo Stato della Chiesa). Aiutò i Comuni di queste regioni a liberarsi dalla tutela imperiale e li indusse a porsi sotto la sua protezione. Fece inoltre riconoscere a Costanza d'Altavilla, vedova di Enrico VI, la signoria feudale della Chiesa sul regno normanno e, alla morte di lei (1198), assunse la reggenza per conto del piccolo Federico, col proposito di dividere il regno di Sicilia dalla Germania. IV) Sicilia, Aragona, Portogallo, Inghilterra, Francia, Svezia, Danimarca, Polonia, il regno di Gerusalemme e l'impero latino di Costantinopoli riconobbero la sovranità del papa, il quale, in cambio, appoggiò i movimenti espansionistici del mondo cristiano: a nord-est, dove i monaci-cavalieri dell'ordine Teutonico e di Portaspada procedettero con estrema violenza alla cristianizzazione dei Paesi Baltici, con l'aiuto delle città commerciali della Lega Anseatica (1202-1204) nel Mare del Nord (Amburgo, Danzica, Lubecca, Stettino, Brema ecc.); nel Mezzogiorno francese, dove scatenò la crociata contro gli Albigesi, ottenendo il feudo di Avignone; a oriente, dove bandì la 4a, 5a e 6a crociata contro i Turchi in Palestina; a occidente, dove bandì una crociata contro i Musulmani di Spagna, che si concluse a favore dei cristiani. Contro le eresie ricorse non solo allo strumento della crociata, ma anche a quelli dell'Inquisizione e degli Ordini mendicanti (soprattutto Francescani e Domenicani: quest'ultimi, a partire dal 1233, dirigeranno il Tribunale dell'Inquisizione). V) Innocenzo III riuscì anche a coalizzare le forze di Federico II di Svevia e di Filippo II Augusto, re di Francia, sia contro il re inglese Giovanni Senza Terra, che aveva rifiutato di riconoscere come primate della Chiesa inglese un cardinale nominato dal papa, reagendo alla scomunica, che quest'ultimo gli aveva lanciato, con la confisca di tutti i beni della Chiesa inglese; che contro le rivendicazioni alla corona imperiale di Ottone IV di Brunswick (Germania), che, pur essendo del partito guelfo, non piaceva a Innocenzo III, avendo cercato di conquistare l'Italia meridionale. La vittoria della coalizione filo-papale rafforzò per un breve periodo di tempo l'idea della teocrazia, ma in seguito si rivelò alquanto effimera: sia perchè la Francia iniziava ad affermare le proprie tendenze espansionistiche ed assolutistiche anche ai danni del papato; sia perchè Federico II era quanto mai interessato alla costituzione di una monarchia siculo-italiana (spostando nell'isola il centro dell'Impero), pur avendo egli promesso al papa che, appena divenuto imperatore, avrebbe rinunciato alla corona siciliana; sia perchè infine Giovanni Senza Terra, per non perdere la propria corona, dopo la sconfitta militare, sarà costretto, a causa di una rivolta delle forze feudali e urbane unite, a concedere la Magna Charta Libertatum, la quale pone le premesse per la formazione dello Stato moderno, indipendente dalla Chiesa. VI) Magna Charta Libertatum (1215) - Essa per la prima volta sancisce, sul piano della legittimità, che: 1) i rapporti tra il re e la nobiltà sono regolati non più da atti di forza o dalla consuetudine feudale, ma da un patto bilaterale, giurato e sottoscritto, che impegna a precisi obblighi i contraenti; 2) il patto è ritenuto unica fonte legittima cui fare riferimento in caso di rivendicazioni avanzate da una parte o dall'altra, e in casi di contestazione per eventuale abuso di diritti. Alla concessione della Magna Charta seguirà col tempo l'istituzione del Parlamento, organo di controllo dei poteri statali e di tutela delle libertà sancite dallo statuto. - Sul piano del merito essa prevede: 1) il re s'impegnava a non intromettersi nella elezione delle cariche religiose e a non impadronirsi dei beni ecclesiastici; 2) egli prometteva di non pretendere dai suoi vassalli (baroni, grande borghesia e alto clero) tributi straordinari senza il loro esplicito consenso; 3) garantiva che i membri di questi ceti sociali non potevano essere arrestati, dichiarati fuorilegge e sottoposti a confisca dei beni senza il giudizio di tribunali composti da uomini di grado e posizione uguali; 4) si permetteva ai mercanti stranieri la libera circolazione in Inghilterra; 5) si stabiliva l'unità di pesi e misure per tutta la nazione. - Nonostante che questo patto non concedesse alcun diritto alle classi sociali marginali, il re, sostenuto dal papa, si rifiutò di riconoscerlo, per cui esso, in un primo momento, non venne applicato alla lettera. In questo senso, forse ad esso fu data un'importanza più grande di quella che effettivamente ebbe, per quanto esso costituì un punto di riferimento cui sempre ci si richiamerà ogniqualvolta si tratterà di risolvere delle controversie tra monarchia e aristocrazia. VII) Federico II (1220-1250). Intanto Federico II, uscito di minorità, cercò di unire al suo trono siciliano quello tedesco, e vi riuscirà dopo otto anni di dura lotta contro i guelfi di Ottone IV. Resosi tuttavia conto che il Meridione italiano rischiava di finire sotto l'egemonia del papato, decise di riorganizzare il regno di Sicilia, trasferendo qui il centro di tutte le sue iniziative politico-culturali ed economico-amministrative. I problemi maggiori che doveva affrontare erano l'anarchia feudale e il controllo di tutto il commercio insulare da parte delle repubbliche marinare centro-settentrionali. VIII) La morte di Innocenzo III lo aveva liberato dai due impegni assunti in precedenza con la Chiesa: promuovere una crociata in Oriente e rinunciare alla corona siciliana dopo aver ottenuto quella tedesca. Uno dei successori di Innocenzo III, Gregorio IX, gli lanciò la scomunica per indurlo a fare la crociata e ad allontanarsi dal Meridione. Federico accettò, ma, invece di ricorrere alle armi, preferì venire a patti col sultano d'Egitto. Il papa non solo rifiutò l'accordo, confermando la scomunica, ma bandì anche contro di lui, durante la sua assenza, una crociata nel Meridione. Federico dovette ritornare subito in Italia e combattere contro l'esercito pontificio. La scomunica venne revocata dietro la promessa ch'egli avrebbe rispettato i privilegi della Chiesa nel regno di Sicilia -cosa che poi non fece. IX) In Sicilia Federico creò una monarchia feudale in cui l'equilibrio tra il re e i baroni e tutta l'amministrazione furono assicurati da un forte apparato burocratico alle dirette dipendenze della corona. In tal modo venivano ridotti al minimo molti privilegi politico-amministrativi della nobiltà e del clero (sostituì ad es. i tribunali ecclesiastici con i propri nel giudizio degli eretici). I funzionari, nominati dal sovrano (come le maggiori autorità cittadine: podestà, consoli...), non erano tedeschi ma della stessa Italia meridionale, istruiti presso un centro studi universitario che lo stesso sovrano fece aprire a Napoli. - Sul piano economico: 1) confiscò i fondi di cui poteva contestare i titoli di legittimità (così poté assicurarsi un demanio consistente); 2) impose un dazio fisso su tutti i beni esportati e importati; 3) creò alcuni monopoli statali commerciali (seta, canapa, ferro, sale). - Le forti entrate finanziarie gli permisero di realizzare un esercito mercenario regolare (composto anche da saraceni) alle sue dirette dipendenze, grazie al quale poteva fare a meno del contributo dei feudatari, anche se continuava a servirsi degli eserciti tedeschi. - Sul piano culturale sviluppò la fusione della tradizione bizantina, araba e normanna. La cultura era aristocratica e imitava i modelli provenzali francesi. Espressione più significativa: La scuola siciliana (primo esempio di volgare scritto). - Tutta l'opera politico-economico-amministrativa venne da lui codificata nelle Costituzioni di Melfi (1231), che per certi aspetti anticiperanno di molti secoli l'organizzazione degli Stati moderni, poiché esse miravano a trasformare lo Stato feudale in una ordinata monarchia assoluta, con la sudditanza di tutti i ceti a un unico potere centrale. X) Quando cercò di far valere questi principi anche nel resto della penisola, lo scontro con i Comuni più forti e indipendenti fu inevitabile. Federico infatti voleva limitare sia il potere feudale che quello cittadino. Senonché i Comuni si riuniranno in una nuova Lega Lombarda e, pur risentendo fortemente di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, pur uscendo in un primo momento sconfitti militarmente dallo scontro con le forze imperiali, alla fine riusciranno a trionfare, grazie anche all'aiuto del papato, che lanciò una nuova scomunica contro di lui, determinando la rivolta sia dei grandi feudatari tedeschi, sia dei sudditi siciliani e meridionali, esasperati dal fiscalismo e dai vari monopoli statali. Dopo la sua morte, i possedimenti della sua dinastia vennero spartiti tra i principi tedeschi, e la Germania resterà sino all'unificazione nazionale divisa in principati territoriali. - Con la sua morte finisce per sempre l'idea di poter realizzare un Sacro Romano Impero, cioè una teocrazia universale guidata dall'Imperatore. Gli Stati centralizzati, nazionali, da un lato, e lo sviluppo urbano e mercantile, dall'altro -entrambi gelosi della loro indipendenza- erano diventati irreversibili. LA FINE DELL'UNIVERSALISMO PAPALE I) L'ultimo grande papa (dopo Gregorio VII e Innocenzo III, avversari, rispettivamente, degli imperatori Enrico IV e Federico II) che proseguì il programma teocratico secondo cui al pontefice spettava la supremazia su ogni autorità politica del mondo cristiano, fu Bonifacio VIII (12351303). Questo programma, sino a Bonifacio VIII, non aveva incontrato ostacoli molto grandi per una ragione molto semplice: i Comuni e i feudatari avevano sempre cercato di approfittare della controversia tra papato e impero per indebolire soprattutto quest'ultimo, sicuramente più forte della chiesa sul piano militare. II) Tuttavia, nella misura in cui l'Impero era costretto a cedere ampi poteri sia ai Comuni che ai feudatari (per non parlare delle emergenti monarchie nazionali), anche il potere universale della chiesa si trovava compromesso, indebolito: essa infatti non tarderà ad accorgersi di non avere la forza sufficiente per opporsi a chi aveva saputo ridimensionare le pretese dell'Impero. In particolare, la funzione politica universale della chiesa si poneva in netto contrasto con gli orientamenti delle monarchie nazionali. Di tutte le nazioni, quella che alla fine del '200 sembrava potersi meglio imporre contro il programma teocratico era la Francia. Soprattutto con Filippo IV il Bello (1268-1314) il centro del potere politico-istituzionale era passato nelle mani del re e del suo apparato burocratico, contro le resistenze autonomistiche del mondo feudale. III) All'origine del conflitto vi fu la richiesta di contributi finanziari da parte di Filippo IV, impegnato in una guerra contro l'Inghilterra. Il re volle imporre le tasse anche al clero francese, senza chiedere l'autorizzazione del papa. Bonifacio VIII rispose minacciando la scomunica, ma la rottura venne scongiurata grazie a un compromesso (il re, con una serie di provvedimenti, aveva ostacolato il normale flusso di denaro dalla Francia a Roma). Il compromesso però durò poco. Nel 1300 infatti Bonifacio VIII istituì un vescovado in Francia senza chiedere l'autorizzazione del re. Filippo IV fa arrestare il vescovo sotto l'accusa di lesa maestà. Il papa convoca un concilio a Roma per giudicare la condotta del re ed emana la bolla Unam Sanctam. Il re risponde proibendo ai vescovi francesi di uscire dal regno. Poi convoca per la prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia) per istruire un regolare processo contro il papa, accusato di simonia, eresia ed assassinio del papa Celestino V. Il papa allora prepara una bolla di scomunica contro Filippo IV e di interdetto contro la Francia. Ma ormai è troppo tardi. Il re aveva deciso di far catturare il papa trasferendolo di forza in Francia. Gli abitanti di Anagni si oppongono efficacemente ai francesi, ma il papa, rientrato a Roma, muore pochi mesi dopo. Il suo successore, Clemente V, decide di trasferire la sede pontificia ad Avignone nel 1305. Il papato, per quanto al proprio interno riuscisse a confermare il principio della propria superiorità su tutti gli ordinamenti ecclesiastici, si doveva sottomettere alla politica francese (i papi avignonesi furono tutti francesi di nascita). IV) La dottrina politico-giuridica di quel tempo era arrivata alla convinzione che il potere politico doveva essere indipendente da quello religioso, in quanto proveniente direttamente da Dio e non dal papa (vedi ad es. Dante), e non solo doveva esserlo il potere politico dell'imperatore ma anche quello dei singoli re nazionali, che nei loro regni cominciavano a considerarsi degli "imperatori" (sviluppo del principio della "sovranità nazionale"). Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis, arriverà addirittura a dire che imperatori e re derivano la loro autorità dal popolo, che anche la chiesa si fonda sulla sovranità popolare e che il papa è subordinato all'imperatore. V) Il grande scisma d'Occidente (1378-1417). Durante la cattività avignonese, i papi faranno di tutto per ridurre in soggezione i signori ribelli dello Stato pontificio. Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma d'Occidente. Il pretesto che fece scoppiare lo scisma fu l'elezione del nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in maggioranza francesi, i quali dichiararono d'essere stati costretti a votarlo sotto la minaccia violenta del popolo, che reclamava un papa romano o almeno italiano. E così, tutti i cardinali ribelli elessero un antipapa, Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato inutilmente di sbarazzarsi di Urbano VI. La cristianità fu così divisa, con grande scandalo e confusione, in due partiti. La crisi, questa volta, era interna alla stessa istituzione ecclesiastica. VI) Per far cessare lo scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna. Ma gli altri due papi non vollero riconoscere come legittimo il concilio, il quale, secondo i canoni, doveva essere convocato dal papa e da lui presieduto. VII) Lo scisma poté essere risolto solo col successivo Concilio di Costanza (1414-18), che, convocato dall'imperatore Sigismondo con l'approvazione dei tre papi, decise: 1) di deporre i tre papi, eleggendone un terzo: Martino V; 2) di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero in un organo costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili), al fine di dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il potere monarchico del papa fosse subordinato a quella del concilio (Martino V tuttavia seguirà una politica ostile, anche se cauta, al movimento conciliare); 3) il concilio condannò le dottrine di Wycliff e mandò Huss al rogo, giudicati eretici (anticiparono le idee di Lutero). VIII) Il piccolo scisma d'Occidente (1439-49). La lotta tra le tesi papiste e quelle conciliariste determinò un altro scisma all'interno della chiesa. Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il problema dell'autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano affermando le tesi conciliariste). I prelati di Basilea opposero un netto rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di Savoia col nome di Felice V. Questa volta però ebbe la meglio il papa di Roma, poiché da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della chiesa greca alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell'aiuto dei latini contro i turchi), dall'altro riuscì ad ottenere l'appoggio dell'imperatore germanico Federico III d'Asburgo, che chiuse d'autorità il concilio di Basilea. Il papato poté così ripristinare il suo primato sul concilio. Fallì invece la riunificazione con l'ortodossia, poiché la sconfessarono immediatamente le popolazioni e il clero orientali. In sintesi. Il Trecento segna la crisi della teocrazia pontificia, in quanto senza l'appoggio specifico dell'impero, il destino della chiesa romana, come potenza europea, pare segnato. La chiesa preferì appoggiarsi ai Comuni e ai grandi feudatari esterni al proprio Stato per combattere gli imperatori tedeschi che volevano esercitare la loro egemonia politica anche in Italia. Una chiesa con pretese "politiche" si opponeva a un impero legittimato politicamente, ancorché nato in opposizione illegittima a un altro impero già da tempo espressione della volontà "cristiana" di costruire un ecumene alternativo a quello pagano del mondo greco-romano: quello bizantino. Lo scontro tra chiesa romana e impero germanico fu talmente forte che alla fine entrambi dovettero rinunciare alle loro pretese politiche universalistiche, a vantaggio di una nuova classe emergente, sostenitrice delle monarchie nazionali: la borghesia. La chiesa romana aveva talmente abituato l'Europa occidentale a confrontarsi con una confessione fortemente politicizzata, che anche quando i sovrani universali e nazionali cercavano di opporsi a questa pretesa, finivano sempre col praticare il cesaropapismo. Sia gli imperatori tedeschi che i sovrani francesi hanno spesso cercato o di servirsi di un proprio clero episcopale o addirittura di far eleggere al soglio pontificio i propri candidati. Finché la chiesa romana ha preteso un ruolo teocratico, i sovrani han cercato di praticare la subordinazione netta della gerarchia ai loro interessi di potere. Il Medioevo euroccidentale è finito nel modo peggiore possibile, cioè con la distruzione di entrambe le fondamentali istituzioni: chiesa (romana) e impero (germanico). La borghesia ha preferito appoggiare quei sovrani che potevano garantirle un ruolo sociale significativo, al riparo da anacronistiche rivendicazioni da parte di chiesa, impero, feudalità. Nata in seno alla chiesa romana, la borghesia, appena ha potuto, l'ha tradita. Sarebbe un errore sostenere che la più grande nemica dei feudatari sia stata la borghesia; semmai dovremmo dire che la borghesia seppe cavalcare l'ondata ribellistica del mondo contadino, dando al proprio potere economico un risvolto decisamente politico. I contadini, infatti, finché la borghesia restava economicamente debole, potevano continuare a sopportare le angherie dei nobili, ma una borghesia forte induce inevitabilmente i nobili a scaricare sui loro servi della gleba il peso delle nuove contraddizioni. Un feudatario che, al cospetto della nuova concorrenza borghese, del nuovo stile di vita commerciale, non vuole perdere il potere acquisito, deve per forza rifarsi sui contadini, vessandoli con nuovi contratti e nuove tasse. E' stata in fondo la borghesia che, indirettamente, ha portato i contadini alla protesta. Ed è sempre stata la borghesia a raccogliere i frutti politici più maturi di questa protesta. Senza i contadini in rivolta non si sarebbero formate le monarchie e le unificazioni nazionali, gli Stati costituzionali, monarchici o repubblicani, le rivoluzioni borghesi e protestanti. A quel tempo l'anomalia, in Europa occidentale, era costituita dalla forte presenza delle Signorie italiane, che non riuscivano a coalizzarsi tra loro per por fine allo Stato della chiesa. Anzi, furono proprio le Signorie a fagocitare le autonomie comunali, facendo in modo che i Comuni maggiori si annettessero quelli minori e si trasformassero in un'istituzione oligarchica. Dai molti Comuni si passò a poche grandi Signorie, in lotta tra loro: Firenze contro Pisa, Milano contro Verona, Venezia contro Genova ecc., senza che nessuna riuscisse definitivamente a imporsi sulle altre, e senza che a tutte venisse in mente l'idea di federarsi per realizzare l'unità nazionale. Non si seppe neppure approfittare della evidente debolezza del papato durante la cattività avignonese (1305-77) e lo scisma d'occidente (13781417), probabilmente perché si avvertiva la presenza francese nel Mezzogiorno come un ostacolo troppo grande da superare. Infatti, anche se i sovrani francesi volevano un papato completamente sottomesso al loro controllo, non avrebbero mai accettato la fine dello Stato della chiesa, proprio per non rischiare di avere ai loro confini una nazione unita. Non dimentichiamo che sino al 1871 i francesi, pur essendo anticlericali in casa propria (ugonotti, chiesa gallicana, deismo illuministico, rivoluzione francese, impero napoleonico), hanno sempre cercato di ostacolare, anche militarmente, la fine dello Stato della chiesa, persino quando una decisione contraria avrebbe loro permesso di trovare negli italiani un potente alleato contro la Spagna controriformistica o contro l'impero asburgico. Sino alle campagne napoleoniche l'Italia è sempre stata considerata dai francesi un territorio da conquistare. Esiste una precisa linea di continuità che va da Carlo Magno a Napoleone, passando attraverso i Normanni e gli Angioini. D'altra parte le Signorie italiane non potevano avvalersi delle forze rurali in funzione anti-ecclesiastica, sia perché la borghesia non aveva mai difeso i movimenti pauperistici ereticali, sia perché i Comuni si erano costituiti per far emergere sempre più la classe mercantile e artigianale, certamente non quella contadina, che anzi, dal sorgere dei Comuni vide progressivamente peggiorare la propria situazione all'interno dei feudi rurali. In Germania, invece, quando si trattò di fare la riforma protestante, contadini e borghesi si trovarono alleati. LE MONARCHIE Durante tutto il 1200 il declino dell'Impero e del papato (che aspiravano all'egemonia universale) si era manifestato parallelamente al rafforzamento delle monarchie accentrate e assolutistiche in Francia, Inghilterra e Spagna, mentre la situazione politica in Italia, Germania, Europa settentrionale e orientale, continuava a presentare i caratteri di una marcata frammentazione del potere. Nel XIV sec. si rafforzò la Confederazione elvetica, affermandosi come potenza militare di tutto rispetto. Il consolidarsi delle grandi monarchie si manifestò attraverso il ridimensionamento del potere della grande nobiltà, l'ascesa di nuovi ceti (borghesia e piccola nobiltà), l'ampliamento della base territoriale della corona, la centralizzazione amministrativa, il potenziamento dell'organizzazione fiscale, la formazione di eserciti permanenti (non mercenari né dipendenti dalle disponibilità dei feudatari) e l'aumento delle spese militari dovuto all'impiego massiccio dell'artiglieria, la formazione infine di una lingua nazionale. Le monarchie ottennero il controllo esclusivo del diritto di battere moneta, poterono riscuotere imposte indirette (dazi doganali, tasse sui prodotti di prima necessità), introdussero anche forme d'imposizione diretta (pratica sconosciuta nel Medioevo. Si ricordi che secondo la tradizione medievale il re poteva trarre i propri mezzi finanziari solo dalle terre di sua diretta proprietà). FRANCIA. Dopo la deposizione di Carlo il Grosso (887) e la fine della dinastia carolingia, i maggiori signori feudali elessero re di Francia Ugo Capeto (987), il quale iniziò la nuova dinastia dei Capetingi. Ma con la fine della dinastia carolingia si fa iniziare il processo europeo di formazione dei regni nazionali, in quanto i feudatari francesi e tedeschi che deposero Carlo il Grosso, stabilirono che ogni regione avrebbe dovuto provvedere a sé con governanti propri. L'ideale del Sacro romano impero si spostò dalla Francia alla Germania, coinvolgendo in parte anche l'Italia. 1. La Francia si costituì in grande monarchia nazionale in seguito alla guerra dei Cento anni (1337-1453), con cui scacciò gli inglesi dal suo territorio. I re inglesi, in virtù di una politica matrimoniale, possedevano vasti territori nella Francia occidentale. La guerra scoppiò appunto perché il re inglese Edoardo III rivendicava una successione al trono francese, in seguito all'estinzione del ramo diretto della dinastia dei Capetingi (Edoardo era nipote dell'ultimo re capetingio). La guerra sarà vinta dalla monarchia francese, ma solo dopo che questa riuscì a convincere il partito borgognone di Carlo il Temerario (che mirava a costituire uno Stato indipendente nella Francia nord-orientale) a rompere l'alleanza con gli inglesi. Eroina nazionale fu Giovanna d'Arco. 2. Dopo la sottomissione alla monarchia dei territori del sud, del ducato di Borgogna e della Bretagna, la Francia aspira a dominare l'intera Europa. Di qui la lotta contro gli Asburgo spagnoli (imparentati con quelli austriaci), l'alleanza coi turchi e il tentativo di consolidare la frantumazione politica della Germania. 3. Carlo VII, per abbattere il potere della nobiltà (Carlo il Temerario era il più potente feudatario di Francia), aveva ripreso l'alleanza col Terzo Stato (borghesia), e rafforzato l'esercito e la burocrazia. La monarchia francese era in grado di riscuotere una serie di imposte senza l'autorizzazione degli Stati Generali, disponeva di funzionari statali addetti alle amministrazioni finanziarie e giudiziarie, poteva imporre una coerenza più stretta fra politica ecclesiastica e interessi francesi, aveva costituito l'esercito più numeroso d'Europa. Con Carlo VIII scese in Italia nel 1494 e cercò di contenere la potenza asburgica (pace di Cateau-Cambresis nel 1559, con cui la Francia, pur uscendo sostanzialmente sconfitta, ottenne che l'impero di Carlo V fosse diviso tra il figlio Filippo II e il fratello Ferdinando). 4. Dopo la Riforma protestante, il 20% dei francesi divenne calvinista (specie nel Sud rurale). Dal 1562 al 1592 il Paese conobbe otto guerre di religione. Il momento più tragico fu la strage di migliaia di ugonotti (calvinisti) a Parigi nel 1572. Dopo questa strage cominciò a farsi strada l'idea che alla base della legittimità del potere regio doveva esserci non solo il diritto divino ma anche il consenso popolare, per cui non si escludeva il regicidio. Tuttavia, Enrico IV di Borbone garantì agli ugonotti coll'Editto di Nantes (1598) la libertà di culto, la possibilità di svolgere funzioni pubbliche, ecc. INGHILTERRA. La storia dell'Inghilterra si può dividere in 3 periodi: 1) normanno (1066-1135), iniziato con Guglielmo il Conquistatore; 2) Plantageneti (1154-1399), che combatterono contro la nobiltà feudale, ma senza successo. Anzi, con la Magna Charta Libertatum (1215), la nobiltà riesce ad ottenere il regime monarchico costituzionale e con le Provvisioni di Oxford (1258) ottiene il Parlamento, che si divide in Camera Alta (LORD = nobili e alto clero) e Camera Bassa (COMUNI = borghesia e piccola nobiltà); 3) Lancaster (1399-1461), che cercarono di trasformare l'Inghilterra da Stato agricolo a Stato commercialeindustriale, ma la nobiltà vi si oppose con successo. 1. L'Inghilterra si costituì in grande monarchia nazionale dopo la guerra delle Due Rose (BIANCA = YORK e ROSSA = LANCASTER) che rifletteva la lotta tra Corona e Parlamento (1455-85). La guerra fu causata da contese dinastiche, ma la motivazione economica principale dipese dalla rivalità tra borghesia (che appoggiava la Corona) e la nobiltà (che, rovinata dalla guerra dei Cento Anni, cercava di ottenere dalla monarchia privilegi maggiori. Il Parlamento serviva appunto alla nobiltà per controllare il re, il quale, per questa ragione, cercava di convocarlo il meno possibile). 2. La guerra si concluse con la vittoria dei Lancaster, che posero sul trono Enrico VII (1485-1509), fondatore della dinastia dei TUDOR. L'anno dopo, in segno di pacificazione, Enrico VII sposò Elisabetta, della casata di York. Il re tolse al Parlamento molte funzioni, confiscò alla grande nobiltà molte proprietà (vendendole alla piccola e media borghesia), fece alcune riforme amministrative appoggiandosi alla piccola nobiltà. L'Inghilterra cominciò a diventare una nazione commerciale e industriale. 3. Con Enrico VIII (1509-1547) la corona inglese si allontana dalla chiesa di Roma e istituisce una chiesa di stato (anglicana) con a capo lo stesso re (senza toccare i dogmi cattolici). Buona parte dei redditi degli ecclesiastici passò alla corona con la riscossione delle decime e la secolarizzazione dei latifondi. L'Inghilterra, soprattutto con Elisabetta I (1558-1603), cercherà di essere molto accorta in materia di politica religiosa, al fine di evitare inutili guerre intestine: da un lato appoggerà apertamente i protestanti, dall'altro eviterà di perseguitare i cattolici. 4. L'Inghilterra inizia per prima lo sviluppo capitalistico industriale sulla base dell'unificazione nazionale. La conseguenza principale di questo fu la guerra contro Spagna e Olanda per avere il controllo delle rotte commerciali verso i paesi meno sviluppati e per il dominio dei mari. SPAGNA E PORTOGALLO. La storia della Spagna si può dividere in due periodi: 1) dominazione araba (711-1212), che dopo il 1212 riuscì a conservare solo il regno di Granata: il resto venne riconquistato dai cristiani di Spagna; 2) dominazione cristiana (1212-1494), in cui la Spagna presenta 4 regni: Navarra, Portogallo, Castiglia e Aragona. 1. Dei 4 regni, il Portogallo sarà impegnato in imprese marinare sull'Atlantico: il suo obiettivo era quello di raggiungere le Indie navigando lungo le coste africane; la Castiglia-Navarra rimasero aristocratico-militari, soggette all'anarchia nobiliare; l'Aragona diventerà più borghese, interessata al Mediterraneo (voleva togliere a Genova e Venezia il monopolio del commercio con l'oriente). La monarchia aragonese infatti s'impadronì della Sicilia (inizi '300, dopo 20 anni di guerra contro gli angioini francesi: guerra del Vespro), Sardegna (metà '300) e regno di Napoli (metà '400), ma trascurò la politica interna, per cui, a unificazione avvenuta, l'egemonia passerà alla Castiglia. 2. L'evento decisivo per la formazione della monarchia nazionale spagnola fu il matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia (1469). Questa monarchia riuscì a reprimere l'anarchia feudale, ottenere l'appoggio della borghesia, evitando di convocare le Cortes (Stati Generali, dove la nobiltà poteva esercitare ampi poteri), riconquistare nel 1492 l'ultimo territorio rimasto in mano araba (regno di Granata). Si avvalse anche dello strumento dell'Inquisizione (1478) per punire il nemico della fede cristiana e il ribelle politico. Tuttavia le persecuzioni contro gli arabi (ottimi agricoltori) e gli ebrei (attivi commercianti) finì per danneggiare l'economia spagnola. Spagna e Portogallo aprirono la strada alle conquiste coloniali oltreoceano. 3. Nel XVI sec. la Spagna ha enormi possedimenti coloniali; in Europa, sotto gli Asburgo, ha i Paesi Bassi e l'Italia meridionale. Verso la metà del XVI sec. le province settentrionali dei Paesi Bassi insorgono e formano uno Stato autonomo: l'Olanda. LA CRISI DEMOGRAFICA ED ECONOMICA IN EUROPA La popolazione era cresciuta ed agli inizi del 600 si contavano 100 milioni di persone.Ma all'aumento della popolazione non ne seguì uno di produzione agricola e si ebbero così nuove ondate di pestilenze e di carestie,causate anche dalle guerre che straziavano i raccolti e da delle annate umide.Il conseguente calo della produzione agricola e della richiesta di merce provocò un ribasso dei prezzi.I traffici ed i commerci si indebolirono e chi aveva soldi non li investiva ma comprava terreni e li affittava.Questa rifeudalizzazione fu forte in Spagna e nell'Italia del sud,dove la gente più contadini,trasformatisi che per investire necessità sfruttava in al massimo briganti.Furono i abolite l'importazioni dall'estero;si instauro così un movimento protezionistico.In tutta Europa ci furono reazioni diverse; OLANDA e INGHILTERRA:solo queste 2 potenze si salvarono dal buio periodo di crisi.Gli olandesi avevano ormai raggiunto l'indipendenza e la popolazione era cresciuta molto.Approfittando della crisi che colpiva le altre forze europee penetrarono nel Mediterraneo al posto dei Veneziani,nelle indie portoghesi,arricchendosi e in a America prendendo dismisura.Inoltre la il posto classe dei sociale predominante fu quella borghese e non quella della vecchia nobiltà che sarà poi una delle rovine spagnole.L'Inghilterra ottenne lo stesso un rapido sviluppo tanto da diventare la prima potenza mondiale,con colonie sparse tra le indie e l'America.Ma lo straordinario sviluppo dell'economia è dovuto anche ad un rinnovamento dell'agricoltura.Si passo da un sistema feudale ad uno capitalistico,con l'affermazione della privatizzazione del terreno e facendole lavorare da salariati anziché affittarle.Salirono dunque due nuove classi sociali;la piccola nobiltà e la borghesia proprietaria di terrenia,a scapito del latifondista e del contadino.Queste nuove classi furono così importanti tanto da essere determinanti quando fu giustiziato il re Carlo Stuart durante la rivoluzione politica inglese.Si andava così verso un regime costituzionale scandito da 3 fondamenti,l'habeas corpus act,Bill of rights e l'abolizione della censura. FRANCIA Esattamente l'opposto dell'Inghilterra,la Francia assume un regime assolutistico imposto da Luigi XIII e dal figlio Luigi XIV.Il primo ministro Richelieu aveva condotto una politica tendente all'assolutismo monarchico(riscossione diretta delle tasse) e poi con la salita al trono di Luigi XIV nel 1661 il sovrano assunse tutti i poteri,con l'unificazione delle norme e l'annullamneto di privilegi.la corte divenne il centro nevralgico della nuova politica.Comunque la Francia riuscì ad annettere al suo regno anche l'Alsazia,il Lussemburgo e alcune città fiamminghe di dominazione spagnola grazie alla pace di westfalia nel 1648 anche se poi alla fine del secolo questa potenza freno un po' le sue mire espansionistiche. LA FORMAZIONE DELLO STATO MODERNO C’è stato un momento, nella storia contemporanea più recente, che ha visto politologi, sociologi, economisti e storici discutere intorno all’ipotesi di superamento dello stato, quasi che la fine dell’esperienza storica degli stati nati sull’onda della rivoluzione d’ottobre del 1917 in Russia, gli stati del socialismo reale, fosse il segnale che anche nel resto del mondo l’esperienza plurisecolare dello stato moderno e dello stato contemporaneo potesse volgere al termine. La tesi di coloro che parlavano dell’abolizione-riduzione dello stato, sosteneva che lo stato poteva ridurre la propria presenza ad una sfera molto ristretta di attività, lasciando per il resto alle leggi del mercato di una economica sempre più segnata dalla internazionalizzazione-globalizzazione di soddisfare i bisogni dei singoli e delle collettività. A queste tesi si rispondeva con l’osservazione che il mercato presupponeva comunque un’autorità che facesse osservare le leggi (anche quelle del mercato) e che l’osservazione storica faceva concludere che il mercato, lasciato libero di agire, avrebbe prodotto sui tempi medio-lunghi l’accentuazione delle differenze economiche e sociali e quindi tensioni che sarebbero sfociate in rivolte e conflitti che avrebbero richiesto l’intervento di un’autorità dotata del potere di sedare i disordini e forse anche di prevenirli. Il mercato non era capace di risolvere tutti i problemi per i quali, nelle società contemporanee, era chiamato ad operare lo stato. Coloro che ribadivano la funzione insostituibile dello stato erano concordi sulla necessità che anche gli stati dei paesi industrializzati dell’Occidente ripensassero le proprie funzioni e si riorganizzassero in modo da far rientrare nei loro compiti solo quello che la collettività non era capace di produrre autonomamente, in maniera da ridurre i costi dello stato e i pericoli per la democrazia e per la libertà di uno stato troppo presente ed invasivo. La discussione non è certo chiusa: intanto però intorno alla questione teorica della "quantità" di stato necessaria per la società contemporanea, della sua tipologia, dei suoi fondamenti si continua a discutere, anche sotto la spinta dell’apparente fallimento del modello di stato del socialismo reale che per ottant’anni - oltre che una ben precisa esperienza di vita per centinaia di milioni di persone- era stata una palestra di esercitazioni teoriche e di riflessioni per gli studiosi. E’ anche all’interno di queste nuove considerazioni sulla necessità dello stato per la società contemporanea e ancora sull’onda di quelle trasformazioni di carattere strutturale che stanno riguardando lo stato italiano, con la dismissione da parte di quest’ultimo di imprese e di interi settori nei quali la sua presenza era stata forte e in alcuni casi dominante, che si colloca la nostra riflessione sulla nascita e sull’evoluzione dello stato in quel periodo della storia che va dalla metà del XV secolo alla fine del XVIII e che noi identifichiamo come "stato moderno". Seguiremo dapprima alcune riflessioni teoriche sulla definizione di stato per poi scendere a considerare i risultati di alcune ricerche sull’evoluzione dello stato moderno. L’ultima parte è una raccolta di documenti d’epoca che pongono alcune questioni, nella fase dell’avvio e del consolidamento dello stato moderno. 2. Definizione di "stato" Per stato si intende una forma di organizzazione del potere all’interno della quale ad una sola autorità viene riconosciuto il potere, appunto all’autorità dello stato. Questa condizione di monopolio si esprime attraverso il diritto (cioè un complesso di norme generali ed impersonali) e attraverso l’amministrazione, esercitata mediante un apparato burocratico, cioè di uffici. Gli elementi che caratterizzano lo stato sono quindi il potere, gli appartenenti allo stato, il territorio. Questi tre elementi si sono venuti diversamente rapportando nel corso del tempo e hanno dato luogo allo stato moderno che si può dire compiuto tra XVII e XVIII secolo; lo stato moderno è stato superato dallo stato contemporaneo con la dislocazione del potere da re al popolo; l’ultima trasformazione è sotto i nostri occhi e si caratterizza per il problema della reale dislocazione del potere che non è più nel popolo se non per funzioni e aspetti limitati. "Se il termine Stato tarda ad affermarsi, il concetto che lo sostanzia è chiaramente delineato, alla fine del Cinquecento, da J. Bodin nei Six livres de la République (1576): col termine sovranità egli vuole indicare il potere di comando in ultima istanza in una "repubblica" e, conseguentemente, differenziare la società politica dalle altre associazioni umane, nelle quali non c’è un tale potere supremo, esclusivo e non derivato. Il termine "sovrano" non è nuovo, perché nel Medioevo contrassegnava il potere del re ("Le rois est souverains par dessus tous"), ma anche qualsiasi posizione di preminenza nel sistema gerarchico della società feudale, per cui anche i baroni erano sovrani nelle loro baronie. Ma ora la sovranità spetta a una sola istanza (il re o, caso assai più raro, un’assemblea); si spezza quindi quella serie infinita di mediazioni, in cui si articolava nel Medioevo il potere per lasciare uno spazio vuoto fra il ‘sovrano’, che poi è quasi sempre il re, che aspira al monopolio del potere, e un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto alla mera sfera privata" (Stato, di Nicola Matteucci, in Enciclopedia del Novecento, vol. VII, Roma, 1984, p. 94). L’esercizio della sovranità, che ha sempre trovato il suo limite nel diritto naturale e nelle leggi fondamentali, mano a mano che lo stato è cresciuto, ha trovato ulteriori freni nella stessa rete degli consigli e degli uffici oltre che nelle persistenti ed autonome aree di potere gestite da soggetti diversi dal sovrano o dal popolo. Quando il diritto naturale è stato posto a fondamento del diritto positivo, quel limite si è trasferito nel diritto positivo. I grandi processi di codificazione che hanno riguardato prima il diritto privato e poi il diritto pubblico sono venuti a costituire i nuovi argini che condizionano ed indirizzano la sovranità fino ad arrivare, sul finire del Settecento, alle carte costituzionali (prima quella americana e poi quella francese). La costituzione rappresenta la garanzia dei sudditi, almeno a livello dei diritti civili e politici, contro l’arbitrio di colui che esercita la sovranità. La sovranità vincolata dalla costituzione produce uno stato in funzione del cittadino: è così giunto a termine il processo di sviluppo dello stato moderno e si entra nello stato contemporaneo, nello stato dei diritti garantiti dalle carte fondamentali, dello stato della divisione dei poteri per assicurare a ciascuno di poter esercitare quanto di sua competenza senza l’interferenza degli altri poteri ma sotto il controllo degli altri poteri. L'avvento delle carte costituzionali, di questo nuovo patto che si è venuto a stabilire tra le classi dirigenti e il sovrano, coincide con la piena spersonalizzazione dello stato e con l'avvento dello stato impersonale, come si esprime J. Shennan in un recente saggio. 3. L’attenzione allo "stato moderno" La scelta di concentrare l’attenzione sullo stato moderno dipende dalla considerazione che l’osservazione e la riflessione su quanto si è venuto realizzando nei secoli che vanno dal XV al XVIII sembra essere più rilevante anche in relazione a quanto sta accadendo nelle diverse parti del mondo oggi. I differenti percorsi dello stato contemporaneo non sembrano trovare spiegazioni valide nelle esperienze che si sono realizzate negli ultimi due secoli. Anche le grandi opere di sintesi sulle vicende politiche della nostra epoca hanno finito per sentire l’esigenza di esaminare e, in molti casi, di riesaminare il passato per poter cogliere aspetti che la storiografia dell’epoca e l’indisponibilità delle fonti aveva trascurato o frainteso. E’ questo il percorso di Barrington Moore J. che parte dallo studio della rivoluzione socialista per tornare alle origini dei grandi sistemi politici mondiali (Barrington Moore, 1971); e lo stesso itinerario segue Immanuel Wallerstein che parte dalla mondializzazione dell’economia e della politica per trovare nella storia moderna l’avvio di quei processi che portano alla concentrazione del potere nelle mani delle potenze mondiali (Wallerstein, 1982). Un processo di rilettura dei meccanismi della formazione dello stato moderno è quello esposto dal volume curato da Charles Tilly (Tilly, 1984): ha riguardato una fase storica nella quale la supremazia e la forma definitiva dello stato non erano ancora definitivamente affermate ed ha approfondito aspetti nei quali risaltava più la difficoltà dello stato ad imporsi che l’accettazione dello stato da parte delle popolazioni "l’analisi dell’organizzazione di forze armate, controllo sulle risorse alimentari, e formazione del personale tecnico e amministrativo implica l’indagine su attività che comportavano sacrifici e costi da parte della popolazione, e che quindi non erano generalmente ben viste dalle masse. Eppure furono tutte essenziali nella creazione di stati forti: per questo sono in grado di raccontarci qualcosa di importante sulle caratteristiche di forza o di debolezza, centralizzazione o decentramento, stabilità o instabilità, degli stati nel loro costituirsi. Naturalmente, anche altri settori d’attività avrebbero potuto rientrare nel nostro elenco: il controllo della produzione manifatturiera, il rafforzamento della moralità pubblica, la propaganda, la colonizzazione e l’imperialismo, e così via...Man mano che il nostro lavoro procedeva, l’omissione fondamentale che il gruppo ebbe a rimproverarsi fu quella relativa al sistema giudiziario: infatti i tribunali, i giudici e i procedimenti giudiziari precedono la formazione degli stati nazionali appaiono sotto tanti imprevedibili aspetti, sovente oscuri e dissimulati, tanto che è facile trascurare la grande importanza che ebbero certi tipi di corti di giustizia nella edificazione quotidiana degli stati occidentali". Risalta con evidenza, nella ricerca curata dal Tilly, quelle che erano le caratteristiche comuni dell’Europa alla vigilia della formazione dello stato moderno. La prima era data dalla grande omogeneità culturale che poteva trovare rivali solo in quella della Cina e che aveva le sue lontane origini nell’Impero romano: essa si manteneva viva grazie all’unica Chiesa, ai sempre più fitti rapporti commerciali, al movimento delle persone, al fitto intreccio dei legami dinastici. La seconda era la prevalenza contadina della gran parte della popolazione con il complemento di un ceto parassita costituito dall’aristocrazia terriera. La terza era l’emergere degli stati dall’ambito di una struttura politica estesa, decentrata e frammentata all’interno della quale vi erano diverse categorie che opponevano resistenza. E’ all’interno di queste caratteristiche che si collocano gli approfondimenti delle diverse sezioni del volume che rappresentano lo studio più moderno e complesso sull’emergere e sull’affermarsi dello stato moderno. S. E. Finer ha toccato la relazione fra sviluppo dello stato moderno e politica militare: egli ha mostrato come ogni importante innovazione organizzativa o tattica riguardante l’esercito abbia spinto i sovrani che volevano utilizzare l’esercito per perseguire i loro disegni ad aumentare il prelievo fiscale per ottenere le risorse necessarie. Quelli che riuscirono in questo disegno ottennero un maggior controllo del territorio e il riconoscimento di tale autorità da parte degli altri stati. G. Ardant riprende Finer quando sottolinea il peso dell’organizzazione degli eserciti e della conduzione delle guerre per l’aumento del peso fiscale ma indaga anche i conflitti che si scatenarono tra sovrani e popolazioni quando in primi tentarono di perfezionare la macchina della riscossione delle tasse e afferma che la spinta più forte per l’espansione e l’organizzazione della burocrazia fu dovuta alla necessità di ampliare il sistema fiscale. Lo stesso Tilly si è occupato dell’approvigionamento alimentare e dell’ordine pubblico: "La storia dell’intervento dello stato nella distribuzione alimentare illustra la tenacia con cui larghi settori della popolazione europea opposero resistenza (coscientemente o meno) agli sforzi di mercanti e funzionari tesi a spingerli, adattarli, costringerli in un universo di comunicazioni centralizzate, di mercati estesi e ramificati, e di ampie misure di controllo". Il contributo di W. Fischer e P. Lundgreen riguarda il reclutamento e la gestione del personale tecnico ed amministrativo che provenne, inizialmente, per gran parte dal mondo ecclesiastico perché era quello che assicurava il più alto livello di fedeltà al sovrano. Gradatamente gli ecclesiastici furono sostituiti da laici ma il problema del rapporto tra fedeltà ed efficienza rimase presente e fu risolto solo dalla forte alleanza della corte con un ceto e assicurato dalla formazione specialistica dei futuri burocrati. Lo studio di S. Rokkan sulle differenze nella formazione degli stati in Europa segnala quello che è stato il retroterra comune che fu presente nel sorgere degli stati nazionali in Europa: l’influenza residua dell’impero romano, la presenza della Chiesa, il precedente dei regni germanici autonomi, le relazioni tra le città continentali, lo sviluppo della struttura feudale, le letterature volgari. Su questo retroterra si collocarono le differenziazioni ma esse non impedirono che il modello di stato europeo fosse percepito all’esterno come un modello omogeneo. Un altro saggio di Tilly chiude il volume. Il suo tema sono le teorie della trasformazione politica (le teorie dello sviluppo politico, le teorie funzionaliste, le teorie storiche) in funzione dell’interpretazione del fenomeno europeo e la conclusione è che si debba cercare una nuova teoria perché nessuna di quelle attuali sembra soddisfare l’esigenza di cogliere il proprio dello sviluppo statuale in Europa. Nel volume che H. Shennan ha dedicato alle origini dello stato moderno in Europa (Shennan, 1991) e del quale si presenta un’ampia sintesi dei primi capitoli, il percorso inizia agli albori del quindicesimo secolo in Europa quando l'autorità personale del principe sta diventando la fonte principale del potere politico e si conclude nei primi decenni del diciottesimo secolo quando il potere del principe non si può più distinguere dal suo regno mentre si consolida il concetto di stato impersonale. L'esame riguarda Russia, Francia, Spagna, Danimarca, Svezia, Inghilterra, Italia e Province Unite. L'attenzione a questi problemi è stata lasciata sinora ai teorici della politica. L'intervento dello storico invece è necessario, dice Shennan, in quanto è l'esame della pratica politica che consente di cogliere alcune caratteristiche della formazione dello stato moderno così come l'evoluzione delle idee attraverso un approccio a due livelli. Di seguito una schematizzazione del contenuto dei capitoli I, II e III. I. L'ascesa del principe Un riflesso della rinascita del potere dei principi anche alla corte del granduchi di Moscovia: Ivan III il Grande sposa Sofia Paleologo, nipote dell'ultimo imperatore d'Oriente. Tentò di far rivivere la Grecia in Russia. I ricevimenti agli ambasciatori veneziani e del Sacro Romano Impero: il resoconto del Contarini del 1476; Basilio II e l’ambasciatore del Sacro romano impero nel 1526; Ivan il Terribile (1547-1584) e il resoconto del Chancellor La maestosità della corte di Borgogna. Quando all'immagine cavalleresca si aggiunge quella del raffinato conoscitore delle lettere, nasce una nuova generazione di principi: Francesco I, Enrico VIII, i principi italiani La vita delle corti: Heidelberg e la corte dei principi del Palatinato; la corte di Polonia; l'Ungheria di Mattia Corvino. In tutta Europa il principe andò acquistando una posizione predominante anche se non è chiaro come sia riuscito a sostenere questa parte che in parte discende dalla interpretazione della missione divina del suo ufficio. Il re di Francia si sentiva obbligato a governare secondo i comandamenti di Dio, a esercitare un'autorità che fosse emanazione dell'autorità divina, a rappresentare il Signore sul suolo francese. A Mosca si difendeva l'idea che, dopo il fallimento di Roma e di Costantinopoli il compito di preservare la fede spettasse a Mosca e in particolare al Granduca. Le giustificazioni religiose delle guerre: il caso della Riconquista in Spagna. Il ruolo del principe si giustificava anche con la tradizione di autorità che egli continuava ad esercitare e a rispettare: i casi di Carlo V e Filippo II. La legittimazione del potere del principe attraverso le sue capacità di condottiero e di combattente. La preoccupazione di legittimare il proprio dominio o di cancellare dalla memoria episodi foschi del passato. II. I limiti e le implicazioni dell’autorità del principe Quale il ruolo svolto dai principi all’interno dei loro stati? E quale il loro concetto di stato? I diversi concetti di stato in Machiavelli avevano questo in comune: l’esistenza del principe era il presupposto fondamentale dell’esistenza dello stato. Lo stato era la proprietà del principe che questi ereditava come il figlio di un proprietario terriero ereditava i territori paterni, ma la sua autorità era basata sul potere di agire non solo sul possesso diretto che anzi spesso era molto limitato Le valutazioni del Contarini, del Budé, di Carlo V, di Giacomo I, dell’elettore Federico Guglielmo I di Brandeburgo E la preoccupazione del principe era conservare il potere e farsi garante della rete dei diritti e dei privilegi di cui godevano i sudditi. Si sottolinea l’aspetto passivo della funzione del principe rispetto alle leggi. Altri elementi della sua funzione giurisdizionale: - il principe doveva agire solo dietro consiglio dei saggi; - il principe elargiva onori e benefici ai sudditi che ne erano degni: era giusto; - il principe governava illuminato dalla ragione; una ragione che andava sposata con l’esperienza e con lo studio degli esempi che la storia ci tramandava dal passato e infine con l’aiuto di Dio In questa concezione si fece sempre più chiara l’idea che la giustizia e la saggezza erano virtù in relazione al momento che le richiedeva. Quindi il principe doveva essere soprattutto saggio, doveva saper scegliere la soluzione migliore che il momento richiedeva: gli scritti di Scipione di Castro. Machiavelli: gli uomini devono considerare la qualità dei tempi e procedere secondo quelli. Il ruolo del popolo fu essenzialmente passivo. Il principe e la fiscalità. Il principe garante delle libertà per i sudditi La forza e l’astuzia nella politica del principe Il nuovo ruolo della diplomazia. Lo strumento della guerra. I consigli di Carlo V sull’uso della guerra La funzione della forza fondamento dello stato L’uso della religione La distinzione tra moralità pubblica e moralità privata III. La realtà del potere L’autorità del re aveva bisogno di adattarsi continuamente alle nuove situazioni: questo è il tema del capitolo. Le trasformazioni politiche negli stati europei non furono né uniformi né simultanee. Gli stati governati da lungo tempo da un potere legittimo furono meno vulnerabili. Il caso di Francesco I. Francesco I da una parte salvaguarda le tradizioni giuridiche delle diverse località del regno, per altro verso istituisce sette nuovi parlaments provinciali per esercitare la giustizia reale in accordo con le tradizioni locali. La giustizia reale comincia ad esautorare la giustizia signorile sia quella ecclesiastica tra la metà del 400 e la metà del 500’. E l’aumentato potere nel campo giudiziario portò i sovrani a prendere decisioni anche in quello politico. La disputa sulle libertà gallicane seguita alla pubblicazione della Prammatica sanzione di Bourges del 1438. La Prammatica sanzione riguardava l’assegnazione dei benefici ecclesiastici e la riscossione delle tasse dal clero francese da parte del papa. Il parlamento di Parigi la ratifica nel 1439. Luigi XI nel 1461 l’abroga per rafforzare il suo controllo sulla chiesa e nel 1472 sottoscrive un concordato con il papa con il quale si impegna ad abbandonarla del tutto. Dopo la sua morte la politica francese oscilla. Nel 1516 nuovo concordato e nuova revoca della Prammatica sanzione. Il Parlamento di Parigi si oppose alla revoca e continuò a giudicare sulla base dei capitoli della Prammatica sanzione. L’approvazione della Prammatica sanzione era avvenuto con la dovuta solennità. La revoca fu una decisione personale di Luigi XI che mirava ad assicurarsi il favore del papa. Francesco I tentò di ottenere la fiducia del Parlamento facendo approvare il suo Concordato e poi scegliendo la strada della intimidazione e della sostituzione dei magistrati recalcitranti. Era fondamentale ottenere l’appoggio del papa per realizzare le sue mire sul napoletano. La giustizia “politica” del re era dettata dalla ragion di stato, non dal rispetto delle tradizioni e delle procedure. E si venne pure modificando il rapporto del re con i suoi sudditi in relazione al grande aiuto che il re aveva dovuto chiedere ai suoi sudditi (guerra dei cento anni) aiuto che poi era stato chiesto anche al clero imponendogli sussidi straordinari destinati a diventare sempre più ordinari. L’esigenza di difendere il paese impose nuovi sacrifici finanziari e finì perciò il ruolo neutrale e passivo del re. I rischi derivanti dall’estensione dell’autorità del re: essere schiacciati dal potere sovrano nonostante le difese del parlamento. La situazione in Spagna. Le ordinanze reali di Castiglia del 1484 e il rispetto della legge naturale e divina oltre che dei diritti consolidati dei sudditi. Le guerre e il vantaggio per il sovrano sia che si volgessero contro gli infedeli sia che fossero contro il saraceno francese. La crescente autorevolezza dei sovrani e la loro fame di risorse finanziarie e di soldati consentì ai re cattolici e ai loro successori di aumentare la loro autorità. In Spagna i re si annettono le ricchezze degli ordini religioso cavallereschi di Santiago, Calatrava e Alcantara aumentando considerevolmente le loro disponibilità finanziarie. Controllano l’indipendenza delle città attraverso la nomina dei corregidores; le cortes sono costrette ad accettare la conversione di contributi straordinari in contributi ordinari. Regolano la vita dell’enorme impero con la creazione di consigli di governo per la Castiglia, l’Aragona, le Indie, l’Italia, il Portogallo, le Fiandre. La crescita numerica e di potere della burocrazia. La creazione di un archivio a Simancas per raccogliere la montagna di carte prodotte. L’apparato burocratico così esteso non fu parimenti importante per lo sviluppo dell’idea di stato moderno. Il caso della Russia dove non c’era burocrazia e egualmente l’ide adi stato impersonale continuava a marciare. Sia in Francia che in Spagna gli antichi diritti continuarono ad essere difesi con grande vigore per tutto il XVI secolo. In Russia i tentativi del granduca di Moscovia di estendere i suoi domini ebbero successo a danno dei grossi proprietari terrieri: i terreni espropriati furono riassegnati per in servigi resi alla corona e servirono per costruire una nuova nobiltà, i pomeschiki, al servizio dello zar. La concezione patrimoniale dello stato a Mosca legata anche alla necessità di avere un esercito sempre pronto contro i nemici. La necessità delle campagne militari e l’esigenza di non spopolare le campagne oltre a quella di far funzionare un sistema fiscale sempre più pesante produsse l’assenso del monarca nel confronto del sistema della servitù della gleba. I sudditi avevano come compito primario quello di servire. Le funzioni pubbliche e quelle private dello zar si erano venute unificando; l’assenza di una legge positiva (la legge era la volontà dello zar) affidava alla pietas del sovrano la garanzia della corretta giustizia. Da questa identificazione scaturì una organizzazione politica completamente soggetta agli interessi del sovrano. Nella seconda metà del cinquecento si radicò nella società russa la convinzione che la fonte dell’assoluta dipendenza dei sudditi stava nelle esigenze dello stato, uno stato impersonale anche se totalmente soggetto alla persona dello zar. Una situazione analoga nello stato branderburghese-prussiano. Federico Guglielmo fece leva sulla paura di una aggressione esterna. Il ritardo nella formazione dello stato. La concezione di Federico II della dipendenza del re e dei sudditi dallo stato impersonale. L’Inghilterra in una situazione mediana tra quelle precedenti. I Tudor agirono all’interno delle compatibilità della legge comune. La macchina statale creata da T. Cromwell non stravolse però il ruolo centrale del sovrano. L’evoluzione avvenne in relazione soprattutto alla rivoluzione religiosa. Enrico VIII avvia così il dispotismo dello stato. La crescita enorme del potere derivata dal controllo sulla chiesa d’Inghilterra e con l’appoggio del parlamento che fu definitivo però solo molti anni più tardi. Il re della dinastia Vasa in Svezia, Gustavo, depredò le proprietà della chiesa con l’assenso dei corpi politici e si sostituì al suo vertice sia nell’ordine religioso che in quello civile. Lo sviluppo dell’amministrazione dello stato oltre quella privata del sovrano. Gustavo Adolfo, all’inizio del Seicento, stabilì definitivamente l’apparato amministrativo. La creazione di una forza militare permanente. Il servizio statale dell’aristocrazia nell’esercito o nell’amministrazione in cambio del riconoscimento della sua propriet. In Danimarca notevoli le influenze della riforma religiosa. Cristiano III e il creatore del nuovo stato. Nelle sue mani si concentra dopo il 1536 il potere civile e quello ecclesiastico. Le sostanze però furono utilizzate per la costruzione di scuole e per sostenere la cultura, per sostenere gli ospedali. E questo radicò il potere dello stato. In Moscovia non vi fu riforma religiosa. Ma l’ideale teocratico che aveva informato la sua politica servì allo zar per sostituirsi nel ruolo di garante al patriarca una volta che il patriarcato fu soppresso nel 1721 e sostituito dal Sacro Sinodo con Pietro il Grande. Avendo distrutto le antiche fondamento dello stato, Pietro il Grande ne definì le nuove basi: così si giunse all’idea di uno stato impersonale e onnipotente. Riforma e controriforma i maggiori storiografi cattolici e protestanti tendono oggi a sostenere la coesistenza di due aspetti distinti e paralleli nella realtà del cattolicesimo cinquecentesco, la «Riforma cattolica» e la «Controriforma». Il primo di questi, alla fine dell'Ottocento, fu proprio un protestante, il Maurenbrecher Dopo di lui, Von Pastor, Joseph Lortz, Lucien Febvre, Delio Cantimori, Iserloh, Giacomo Martina (vedi la sua bibliografia), Giuseppe Alberigo, Mario Bendiscioli (In La riforma cattolica, Roma 1962), Pier Giorgio Camaiani, Jean Delumeau, Paolo Prodi ed altri. Fu soprattutto lo storico tedesco Hubert Jedin, nell'opera Riforma cattolica o Controriforma? (ed. it. 1957), a identificare e definire i due movimenti come distinti nella storia della Chiesa cattolica. • Riforma cattolica. Tutti questi studiosi affermano l'esistenza di un movimento di riforma interno alla Chiesa cattolica che è indipendente dalla riforma luterana. Ossia, dicono, vi sono elementi per affermare che la Chiesa cattolica era sulla strada della riforma interna anche senza la «spinta» di Lutero. Questi movimenti di riforma nascono generalmente dal «basso». Ne sono un esempio, la nascita di nuovi ordini religiosi, che tuttavia non precedono l'avvento del luteranesimo. Chiaramente, questi movimenti di riforma non toccano il vertice della Chiesa , se non in un secondo tempo.(papa, curia romana e cardinali). • Controriforma. Vi è poi un movimento di riforma che trova la sua origine in opposizione ad essa: il tentativo di riformarsi per bloccare, se non ostacolare, la riforma luterana. Questo movimento di riforma, chiamato appunto «Controriforma», che trova nel Concilio di Trento il suo atto fondamentale, nasce dall'«alto», dalla gerarchia cattolica. La controriforma indicherebbe quel processo di 'ri-cattolicizzazione' dei territori caduti in mano al protestantesimo. Per questo furono spese le energie delle famiglie religiose di più recente fondazione (le nuove Congregazioni di Chierici regolari come i Gesuiti, i Teatini, i Somaschi e i Barnabiti, ma anche i rami riformati di Ordini più antichi, come quello dei Cappuccini), caratterizzate da dinamismo e da un diretto intervento nella società contemporanea, oltre che da un intenso impegno nell'opera di evangelizzazione. Questa distinzione, propria di un certo ramo della storiografia, quello che vede nella reazione cattolica alla Riforma più gli aspetti positivi che quelli negativi, sconfina spesso in un certo gusto per un revisionismo acritico. Non bisogna tuttavia dimenticare la sostanziale persistenza di un filone storiografico che si oppone a questa linea interpretativa. Tra gli studiosi che hanno proposto opinioni contrastanti, si può menzionare Giovanni Miccoli, che a tale problema si dedica nel paragrafo conclusivo del suo celebre saggio La storia religiosa (in Storia d’Italia, II/1, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 429-1079, alle pp. 975-1079), dedicato a "Crisi e restaurazione cattolica nel Cinquecento". L’ASSOLUTISMO FRANCESE Dal punto di vista politico il XVII secolo fu caratterizzata da un forte concentramento del potere nelle mani del sovrano. Questo fenomeno viene definito dagli storici dell'assolutismo regio. L'estensione dei poteri della monarchia una complessa organizzazione di collaboratori e amministratori, scelti fra quanti, anche se non erano nobili, avevano precise competenze giuridiche e finanziarie. Tuttavia all'inizio del Seicento c'erano molti ostacoli da superare. Prendiamo il caso della Francia. Poichè essa si era formata lentamente nei secoli attraverso annessioni, conquiste e successioni ereditarie, molte delle regioni, che si erano aggiunte più tardi alla parte originaria del regno, mantenevano ancora al principio del '600 proprie leggi e proprie consuetudini giudiziarie e fiscali. Anche la situazione militare sfuggiva per molti aspetti al controllo del sovrano: parecchi nobili continuavano ad avere proprie fortezze e propri soldati. Infine le cariche pubbliche non solo erano vendute dallo Stato, ma chi le acquistava aveva il diritto di farsi pagare dai sudditi le sue prestazioni e di lasciare il proprio incarico in eredità ai figli. Fu appunto contro questi ostacoli all'assolutismo regio che la monarchia francese concentrò i suoi sforzi nel corso del XVII secolo. In tale opera si distinsero in particolare il cardinale di Richelieu, primo ministro ai tempi di Luigi XIII, e il sovrano Luigi XIV. Nel 1610, un cattolico fanatico assassinò Enrico IV, forse per punire colui che aveva concesso la libertà di culto agli ugonotti. Poichè l'erede al trono Luigi XIII aveva solo nove anni, seguì un nuovo periodo di debolezza della monarchia, durante il quale tornarono a scoppiare gravi disordini. Il rafforzamento dell'autorità regia riprese solo nel 1620, quando Luigi XIII, raggiunta la magiore età , assunse direttamente il potere, e soprattutto nel 1624, quando divenne suo primo ministro il cardinale di Richielieu. Nel 1643 morì Luigi XIII. Ancora una volta si ritrovò con un re bambino, Luigi XIV, e quindi con un potere monarchico molto debole. Pertanto, nonostante il tentativo del nuovo primo ministro, il cardinale Mazarino, di proseguire la politica accentatrice di Richelieu. Nel 1661, alla morte di Mazzarino, Luigi XIV assunse direttamente nelle proprie mani il potere, senza nominare più alcun primo ministro, anche se naturalmente si servì di collaboratori. Come appare con molta evidenzia nelle sue memorie, egli sostenne infatti una concezione dell'assolutismo che sottolineava fortemente il ruolo e l'autorità diretta del sovrano. Nelle memorie compare anche un'altra caratteristica dell'assolutismo che in particolare proprio allora si andava affermando con forza: i re sono voluti da Dio e perciò comandano per diritto divino. Per attuare la sua politica assolutistica, Luigi XIV agì in diversi settori: a) tentò di realizzare quell'unificazione amministrativa, giudiziaria e fiscale; b) revocò, ossia ritirò, l'Editto di Nantes (1685) al fine di dare uniformità religiosa alla Francia; c) sempre in campo religioso, Luigi XIV appoggiò le tendenze della Chiesa francese all'autonpmia del Papato, prendendosi così, ad esempio, il diritto di nominare i vescovi; e) cercò di controllare la cultura, sia con la repressione (la sorveglianza e la censura della stampa) sia con l'organizzazioni di attività che esaltassero la grandezza della monarchia. Il risultato maggiore fu la costruzione della magnifica reggia di Versailles, nei dintorni di Parigi, dove Luigi XIV, ormai definito il Re Sole per lo splendore di cui si circondava, dal 1682 radunò la sua corte e tutti i maggiori nobili della Francia. In tal modo il sovrano riuscì a tenere gli aristocratici sotto controllo e a sorvegliarli, e soprattutto li allontanò dalle loro terre, dove godevano ancora di potere e prestigio. IL 1848 IN EUROPA E IN ITALIA Il 1848 fu l’anno delle rivoluzioni in gran parte d’Europa. La contemporaneità dei moti li fece apparire già allora come movimenti diversi di un unico grande processo rivoluzionario. In realtà le rivoluzioni ebbero svolgimenti ed obbiettivi diversi, ma alla loro origine ci fu una comune aspirazione al cambiamento. In Francia vi era un forte scontento. Luigi Filippo d’Orleans aveva favorito l’ascesa della borghesia ed era stato sostenuto soprattutto dal suo nucleo dirigente, composto da banchieri ed industriali. Erano invece all’apparizione i movimenti democratico e repubblicano, che interpretarono le ispirazioni del popolo e della piccola e media borghesia. Esisteva anche un’opposizione di destra, formata dai legittimisti (che si richiamavano ai Borbone, considerati i legittimi sovrani di Francia) e i Bonapartisti, guidati da Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone. Il 22 Febbraio 1848 a Parigi scoppiò l’insurrezione che diede vita al movimento rivoluzionario europeo. Si combatté per le strade fino al 24 Febbraio quando Luigi Filippo fu costretto ad abdicare. Subito dopo fu proclamata la II Repubblica e si formò un governo provvisorio: furono varati numerosi provvedimenti di carattere democratico, tra cui l’adozione della pena di morte per i reati politici, l’eliminazione dei titoli nobiliari, la riduzione a 10 ore della giornata lavorativa. Nel Dicembre 1848 si tennero le elezioni: divenne presidente il candidato Bonapartista Luigi Napoleone che sembrava offrire garanzie di libertà (aveva partecipato ai moti in Romagna nel 1831), ma che nel Dicembre 1851, un colpo di stato sciolse il parlamento e riuscì a legittimare la propria politica con due plebisciti: il secondo, nel 1852, diede a lui il titolo di Imperatore che egli assunse con il nome di Napoleone III. Dopo Parigi fu la volta di Vienna il 27 Febbraio , appena si diffuse la notizia di ciò che era avvenuto nella capitale francese, iniziarono le agitazioni. Il 13 Marzo una imponente manifestazione studentesca coinvolse l’intera popolazione, Metterich fu costretto a lasciare il governo. Il 2 Dicembre l’Imperatore Ferdinando I abdicò in favore del nipote Francesco Giuseppe (che regnò dal 1848 al 1916). La notizia dell’allontanamento di Metterich raggiunse Milano, dove da tempo covava l’insofferenza antiaustriaca. La città insorse e dopo 5 giorni di combattimenti per le strade (18/22 Marzo) le truppe austriache dovettero abbandonare Milano; fu costituito un governo provvisorio formato da moderati, anche se a condurre la lotta erano stati soprattutto artigiani, operai e piccola borghesia sotto la direzione del democratico Carlo Cattaneo. Il 17 Marzo era insorta anche Venezia dove fu ripristinata la Repubblica sotto la direzione dei democratici Nicolò Tommaseo e Daniele Manin. Governi provvisori liberali si erano costituiti anche nei ducati di Modena e Parma. Incalzati da ogni parte, gli austriaci ripiegarono nel quadrilatero di fortezze costituito da Peschiera, Verona, Mantova e Legnano, dove il maresciallo Radetzky attendeva rinforzi da Vienna per scatenare la controffensiva. Il governo provvisorio milanese si rivolse allora a Carlo Alberto perché assumesse la direzione di quella che si incominciava a chiamare “guerra di indipendenza”. Il 23 Marzo Carlo Alberto apre le ostilità contro l’Austria che avrebbero dovuto coinvolgere tutti gli altri stati Italiani, compreso quello Pontificio, ma l’apporto di toscani, romani e napoletani si ridusse a ben poca cosa. Il 29 Aprile Pio IX dichiarava che Roma doveva mantenersi estranea al conflitto, seguita in questo dai sovrani di Toscana e del napoletano. Nonostante questo, Carlo Alberto ottenne alcuni successi militari, ma in seguito (25 Luglio) fu irrimediabilmente sconfitto a Custoza e costretto a firmare un armistizio. La direzione della lotta per l’indipendenza passò allora in mano ai democratici; nel 1849 vi furono iniziative tese a spodestare i sovrani dei vari stati: a Firenze si formò un governo provvisorio diretto da un Triumvirato mentre il granduca Leopoldo II prendeva la via dell’esilio; a Roma le manifestazioni dei liberali costrinsero Pio IX a rifugiarsi nel Regno delle due Sicilie: anche qui si costituì un Triumvirato di cui fece parte anche Giuseppe Mazzini. I moderali, preoccupati, riuscirono a convincere Carlo Alberto a riprendere la lotta contro l’Austria, ma questi, sconfitto nuovamente, fu costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II. A Napoli Ferdinando II revocò la costituzione, in Toscana gli austriaci riportarono sul trono Leopoldo II; contro la Repubblica Romana si mobilitò Luigi Napoleone. Giuseppe Garibaldi, venuto in Italia dall’America Latina in occasione dei Moti, raccolse degli uomini per andare in aiuto di Venezia assediata dagli austriaci, ma non riuscì a raggiungere la città che resistette finché un’epidemia di colera e la fame la costrinsero alla resa (Agosto 1849). Si chiudeva così un ciclo di lotte che aveva mobilitato grandi masse e suscitato enormi speranze. Ancora una volta uscì vincitrice la borghesia moderna che aveva ripiegato su posizioni di compromesso con le forze conservatrici. LA RIVOLUZIONE FRANCESE La Rivoluzione Francese è stata una successione di avvenimenti politici e sociali che ebbero come conseguenze principali la caduta della monarchia, il crollo dell'Ancien Régime e l'istituzione della Repubblica in Francia. Le cause principali furono l'incapacità delle classi dominanti di affrontare i problemi di stato, l'indecisione del Re, l'esagerata tassazione della popolazione rurale, l'impoverimento del proletariato, il fermento intellettuale dovuto all'Illuminismo e l'eco della guerra d'Indipendenza Americana Cause Prima del 1789, la Francia era una monarchia assoluta legata alla tradizione medioevale. Il Re, fiancheggiato dal clero e dalla ricca nobiltà, deteneva i tre poteri. Lo stato era incapace di adeguarsi ai mutamenti in atto e opprimeva le masse, ormai vessate da sgravi fiscali. L'invio di truppe e rifornimenti per sostenere gli Americani in lotta contro gli Inglesi aggravò la pesante situazione economica francese già in crisi perché vincolata all'agricoltura. La tassazione nei confronti dei contadini aveva raggiunto il limite di sopportazione, già minato dagli esosi oneri signorili ricollegati ad un antico sistema feudale. Il peggioramento inesorabile della condizione contadina fu anche dovuto alla crisi che sconvolse la produzione cerealicola del 1787 a causa di disastri meteorologici. I tenui tentativi del sovrano Luigi XVI di riformare il sistema fiscale, altamente squilibrato, vennero contrastati dal clero e dai nobili in quanto avrebbero dovuto rinunciare a buona parte delle loro ricchezze e dei loro privilegi. Le proposte del ministro delle finanze Necker puntavano infatti a limitare la classe dirigente e ciò gli costò la carica. Egli aveva tentato di attuare un prelievo fiscale più equo coinvolgendo le classi ricche e una riduzione degli sprechi attraverso tagli delle spese. Inoltre, le idee illuministiche si erano ormai diffuse in tutta Europa proponendo un atteggiamento fortemente antitradizionalista, nutrito dalla convinzione che il passato, in particolare il Medioevo, coincidesse con l'età dell'ingiustizia, del sopruso, della superstizione e dell'ignoranza. Opponendosi a sistemi antiquati che limitassero la libertà del singolo individuo in funzione di un ideale cosmopolita. Se dal punto di vista sociale, la Francia era in una profonda crisi, anche il sistema politico non respirava aria salutare. Non solo i contadini, ma anche la media borghesia aveva degli obiettivi ben definiti ed uno di questi era l'entrata nelle decisioni politiche. Obiettivi che portarono alla convocazione degli Stati Generali, sintomo di un esteso scontro che durerà per 10 anni. Come già detto, l'inasprimento delle relazioni tra "rivoluzionari" ed "oppositori" provoca reazioni violente, e un chiaro esempio lo troviamo con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789. La formazione di un governo tradizionalista da parte del sovrano e la concentrazione di truppe attorno a Parigi, scatenò la reazione della borghesia che formò una milizia armata. Quasi spontaneamente si generò una rivolta che Luigi XVI sottovalutò senza prendere misure di contenimento. Obiettivi La rivoluzione francese è stata guidata dalla media borghesia che sfruttò la forza delle masse contadine, prive di grandi obiettivi rivoluzionari, per raggiungere i propri scopi. Il principale obiettivo della borghesia era l'ammodernamento attraverso il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Un passaggio verso uno stato formato da classi determinate in base al patrimonio e non in base alla nascita. Cioè uno stato fondato sulla mobilità e capace di evolvere, non fossilizzato su un'immobilità medioevale. Tali idee sono riassumibili in una finalità: la libertà. Fin dall'Assemblea Nazionale, poi costituente con l'aggiunta di membri aristocratici, venne stilata la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" che fissò gli ideali rivoluzionari nel motto: "Libertè, Egalitè, Fraternitè". Questo implicò un passaggio verso i principi democratici di sovranità popolare e suddivisione dei poteri poi diventati effettivi nella Costituzione del 1791. Per raggiungere ciò, l'Assemblea abolì il regime feudale eliminando le corvèes e le decime, in un processo atto a colpire l'aristocrazia ed il clero. Gli "assegnati" sono stati una soluzione al problema economico perché, oltre a limitare direttamente la ricchezza della Chiesa, hanno portato altro denaro nelle bisognose casse dello stato. Perciò, come scopo troviamo una lotta, spinta anche da uno spirito illuminista basato sulla razionalità, contro lo strapotere della Chiesa francese. E infatti la costituzione civile del clero del 1790 riformava l'organizzazione ecclesiastica sul modello di quella amministrativa. In più, sempre per migliorare le condizioni economiche, venne deliberata l'abolizione delle barriere doganali interne; la giustizia fu organizzata in modo più uniforme e ordinato. Un fine conseguente alla rivoluzione fu la guerra contro l'Austria voluta dai giacobini. Con tale scontro armato, essi sperarono di compattare le diverse fratture interne verso un unico avversario e quindi sistemare i contrasti nascenti. La genesi di una monarchia costituzionale sembrò porre termine alla rivoluzione, ma non fu così perché sia il sovrano insoddisfatto dei poteri limitati, sia i radicali giacobini desiderosi di partecipare attivamente alla politica minarono la precaria stabilità ottenuta dalla borghesia. Inoltre è chiara la decisione, degli anni seguenti, di cancellare tutto ciò che fosse legato al potere monarchico e di iniziare un processo di "scristianizzazione"; ne sono un esempio l'uccisione di Luigi XVI in pubblica piazza e la creazione di un nuovo calendario Opposizioni Le forze di opposizione, in Francia, sono rappresentate dal monarca, dall'aristocrazia, dalla Chiesa, da contadini insoddisfatti e da monarchici. Fin dalla convocazione degli stati generali, sia il Sovrano che i suoi diretti sostenitori, continuarono a limitare le nascenti necessità del Terzo Stato non permettendogli di guadagnare potere. L'insoddisfazione di Luigi XVI per aver perso il potere assoluto lo portò ad atti controrivoluzionari nonostante fosse stata stabilita una monarchia costituzionale. Infatti, possedendo ancora il diritto di veto sulle decisioni dell'Assemblea Nazionale costituente, impedì tangibilmente i progressi borghesi. Il fine primario del Re era quindi la ricostituzione di una monarchia assoluta, anche con l'aiuto degli altri stati europei. Si ricordi che tali stati non legittimarono i nuovi governi rivoluzionari. Al fianco di Luigi XVI troviamo un gruppo di aristocratici fuggiti dalla Francia che cercarono di convincere le monarchie europee a dichiarare guerra alla madre patria. Per quanto riguarda la Chiesa, sempre si è opposta veementemente ai mutamenti improvvisi, violenti e pericolosi per difendere la propria egemonia. Dalla costituzione civile del clero, molti membri si rifiutarono di prestare giuramento alle istituzioni francesi e per questo vennero definiti "refrattari". Tutti i procedimenti dell'Assemblea verso la Chiesa, tuttavia, portarono più danni che miglioramenti. La somma di questa spinta controrivoluzionaria al mancato soddisfacimento dei bisogni della maggior parte dei contadini che non vedevano migliorare la propria condizione economica, anzi peggiorata dall'istituzione di una leva obbligatoria, portò gli stessi ad agire contro la rivoluzione. Cambiamenti Effettivi Il risultato immediato della rivoluzione fu l'abolizione della monarchia assoluta e dei privilegi feudali: la servitù, i tributi e le decime furono soppressi; i grandi possedimenti vennero frazionati e si introdusse un principio equo di tassazione. Con la redistribuzione delle ricchezze e dei terreni, la Francia divenne il paese europeo con il maggior numero di piccoli proprietari terrieri indipendenti. Tuttavia, la conclusione degli eventi fu un colpo di stato (18 brumaio 1799) ideato da Napoleone. Quindi, se l'obiettivo principale è stato l'abbattimento della monarchia per instaurare una repubblica, esso non può definirsi pienamente raggiunto perché, nonostante i travagli rivoluzionari, la Francia diventò nel 1804 un Impero con a capo Napoleone Bonaparte. Molti sono stati i cambiamenti ma, oggettivamente, la rivoluzione si è conclusa bruscamente con un ritorno al punto di partenza. Accadrà lo stesso in Russia un secolo dopo. Invece a livello sociale ed economico, furono aboliti l'incarceramento per debiti e il diritto di primogenitura nell'eredità terriera. Napoleone portò a compimento alcune riforme avviate durante la rivoluzione: istituì la Banca di Francia, che era banca nazionale semi-indipendente e agente governativo in materia di valuta, prestiti e depositi pubblici; instaurò l'attuale sistema scolastico, centralizzato e laico; riorganizzò l'università e fondò l'Institut de France; stabilì l'assegnazione delle cattedre in base a esami aperti a tutti, senza distinzioni di nascita o reddito. Rifiutando la teoria della divisione dei poteri, e non riuscendo a dare nessuna autorità alle Costituzioni che furono promulgate, la rivoluzione francese si condannò ad una lunga navigazione senza riuscire a scorgere qualche approdo sicuro. Il terrore risulta allora come la conseguenza di un potere che in nome di obbiettivi elevati non riconosce limite legittimo al proprio operato. Perché si possano giustificare atti di grande violenza sono necessarie condizioni gravissime. Torniamo allora al paradosso che da buoni propositi si possa giungere ad azioni delittuose. IL FEUDALESIMO Il feudalesimo è una forma di governo medievale, per la quale il re o l'imperatore o un grande proprietario terriero, organizzava il lavoro dei suoi sudditi attraverso una gerarchia di persone che venivano compensate non mediante denaro ma mediante la concessione di terre. La società feudale si divideva in tre classi: il re, i feudatari e i servi della gleba. I feudatari erano proprietari della terra ed esercitavano il comando sia politico, sia militare sostituendosi alle funzioni dello stato. Suddividevano la terra tra i contadini, i quali disponevano di tutti i mezzi per lavorarla. Amministravano la giustizia per tutti gli abitanti del villaggi ed obbligavano il villaggio a servirsi dei loro mulini, forni, taverne... vietando qualunque forma di concorrenza. Imponevano tasse sull'attività di scambio, pedaggi sulle strade e ponti ed esigevano prestazioni di lavoro e imposte ordinarie e straordinarie. In queste condizioni il ricambio sociale, l'ascesa di gruppi sociali e di individui era difficile e lenta. Il feudalesimo, nella sua struttura economica essenziale, non può dirsi un fenomeno nuovo, ma la sua originalità sta nel carattere politico che esso assunse nei tempi posteriori a Carlo Magno. Per comprendere l’ordine del feudalesimo è necessario tenere presenti tre istituzioni romanogermaniche sviluppatesi nel tardo impero e durante la formazione dei regno romano-barbarici. Tali istituzioni sono il beneficio, il vassallaggio, l’immunità. Su queste tre istituzioni si fonda giuridicamente il feudalesimo. Occorre ricordare che nell’alto medioevo l’unica vera ricchezza è la terra e che il bottino maggiore quando si fa una conquista è costituito dai terreni più fertili. Questi spettano di diritto al re, il quale ne distribuisce una parte consistente tra i guerrieri che lo hanno aiutato militando a proprie spese e senza ricevere uno stipendio. Questa donazione personale, vitalizia e inalienabile era il beneficio. In altre parole la terra non diveniva proprietà (allodio) del beneficiario, ma rimaneva di diritto la re; il beneficiario conservava l’usufrutto a vita. In corrispondenza al beneficio ricevuto il beneficiario diveniva vassallo del re, gli giurava fedeltà, (omaggio) e si dichiarava suo uomo, suo fedele e lo riconosceva come signore. L’obbligo maggiore del vassallo nei confronti del signore era il servizio militare, prestato gratuitamente, poi venivano i tributi in natura o in denaro, , l’ospitalità al signore e alla sua corte in caso di passaggio, la divisione delle prede in guerra ecc. Il beneficio, congiunto al vassallaggio, si definisce Feudo, il beneficiario si definisce feudatario, la cerimonia di assegnazione del feudo è l’investitura. Il feudo, quale risultato dell'unione del beneficio al vassallaggio, non rappresenta in fondo che il godimento di una terra in corrispondenza di un servizio da prestarsi dal vassallo al suo signore: é dunque un fatto economico-sociale. A dargli invece un carattere politico contribuiscono le immunità, cioé le frequenti esenzioni dalla giurisdizione del sovrano. S'incomincia a concedere che il beneficio, il quale era vitalizio e personale, divenga perpetuo e trasmissibile agli eredi; così fa Carlo il Calvo nell'877 col celebre Capitolare di Kiersy per i feudi maggiori; così farà Corrado II il Salico per i feudi minori (1037). In tal modo s'indebolisce il vincolo che lega in perpetuo il beneficio al re, e si toglie al sovrano la possibilità di eleggere ogni volta il nuovo beneficiato: alla nomina regia è sostituito il diritto ereditario. Poi ecco nuove immunità : esenzione dal tributo, diritto di battere moneta, esonero in molti casi dal servizio militare, concessione di imporre tasse entro il feudo, trasferimento al vassallo della podestà giudiziaria: in una parola, il beneficiato o feudatario diviene, se non di diritto, almeno di fatto, un sovrano, perché assume a poco a poco tutte quelle prerogative, che noi siamo soliti vedere nello Stato. In tal modo il feudo perde il carattere primitivo di beneficio, e si trasforma in una signoria politica. Unico avanzo dell'antica sudditanza al re é il vincolo di vassallaggio, che, in teoria almeno, rimane immutato. Essendo il rapporto feudale di natura contrattuale, qualunque azione contraria ai suoi termini poteva provocarne la rottura. Nel caso che un vassallo non avesse prestato i servizi dovuti, il signore poteva denunciarlo davanti alla corte di tutti i suoi vassalli e, se questa lo avesse riconosciuto colpevole, privarlo del feudo. D’altra parte, se invece fosse stato il vassallo a considerare inadempiente il signore, poteva sfidarlo formalmente rompendo il giuramento di fedeltà, rinnegandone l’autorità e dichiarando l’intenzione di conservare il feudo come suo proprio, oppure di offrirlo a un altro signore, che avrebbe potuto accettare i suoi servizi di vassallaggio. A partire dal XIII secolo, soprattutto in Francia, molti feudatari minori riuscirono a trasformare gli obblighi di vassallaggio in rendite perpetue versate al sovrano, che preferiva assoldare con esse truppe mercenarie professionali piuttosto che affidarsi alle arretrate e disordinate truppe feudali, mentre dal canto loro i vassalli potevano in questo modo guadagnare autonomia e dedicarsi completamente alla prosperità del feudo. Durante il XIII secolo il feudalesimo raggiunse l’apice del suo sviluppo, ma ne iniziò allora anche il lungo declino. Il subinfeudamento arrivò a tal punto che i signori faticavano a ottenere i servizi loro dovuti. Determinante fu l’espansione economica e l’accresciuta circolazione del denaro. I vassalli preferivano pagare i loro signori in moneta piuttosto che servirli militarmente, e i signori stessi tendevano a preferire il denaro con cui poter assoldare truppe di soldati di professione, di solito più allenate e disciplinate dei vassalli. Le vicende militari della guerra dei Cent’anni resero evidente che l’evoluzione delle tattiche di fanteria e l’introduzione di nuove armi come l’arco e la picca rendevano meno efficace la cavalleria pesante medievale formata dai feudatari. I nuovi guerrieri professionisti presero a combattere in compagnie i cui capi, spesso provenienti dalla feudalità minore, prestavano giuramenti di omaggio e fedeltà a un principe. Sottoponendosi a contratti limitati nel tempo, costoro davano vita a una sorta di “feudalesimo spurio”, che preannunciava quella prestazione militare mercenaria che avrebbe avuto come protagonisti i condottieri delle compagnie di ventura dell’età rinascimentale. Alcuni di questi, a loro volta, conquistarono con le armi città e territori di cui si fecero legittimare il possesso mediante un’apposita investitura da parte di un sovrano e quindi conferendo benefici a propri sudditi, dando vita in tal modo a una sorta di nuovo feudalesimo. STORIA: IL CONGRESSO DI VIENNA 1 Introduzione ll Congresso di Vienna si tenne nella capitale austriaca tra l’ottobre 1814 e il giugno 1815 allo scopo di ripristinare l’assetto territoriale degli stati europei e restaurare la legittimità dei sovrani al termine delle guerre napoleoniche. 2 I protagonisti Vi parteciparono rappresentanti di tutti gli stati europei, con l’eccezione dell’impero ottomano. Tra i sovrani ebbe un ruolo preminente lo zar Alessandro I, che si fece promotore di cause impopolari come l’istituzione di una Polonia autonoma e l’unificazione degli stati tedeschi. Tra i diplomatici spiccò la personalità del principe Klemens von Metternich, ministro plenipotenziario asburgico e presidente del congresso. Le quattro potenze principali (Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria) stabilirono di comune accordo che Spagna, Francia e le piccole potenze sconfitte fossero escluse dal partecipare alle decisioni più importanti; tuttavia, grazie all’abilità del suo rappresentante Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, la restaurata monarchia francese di Luigi XVIII venne riammessa a prender parte alle trattative. La Gran Bretagna era rappresentata dal ministro degli Esteri Robert Stewart Castlereagh e dal generale Arthur Wellesley, duca di Wellington, mentre il delegato prussiano era il principe Karl August von Hardenberg. 3 Le decisioni principali Per assicurare la pace in Europa, il congresso di Vienna pose le basi per uno stabile equilibrio tra gli stati, arginando, e poi mantenendo sotto controllo, la potenza francese. I confini della Francia tornarono a essere quelli del 1792 (ma con la cessione alla Gran Bretagna di Tobago, Santa Lucia e dell’Ile-de-France, comprese le dipendenze nell’oceano Indiano, e alla Spagna della parte orientale di Santo Domingo), mentre tutti gli stati confinanti furono rafforzati e dotati di contingenti militari stabili, forniti dalle maggiori potenze vincitrici.Le antiche Province Unite olandesi si fusero con i Paesi Bassi austriaci, formando un nuovo regno unito dei Paesi Bassi sotto la dinastia degli Orange-Nassau; la Prussia mantenne la Posnania e ottenne la Pomerania svedese, la Sassonia settentrionale e gran parte delle province della Renania e della Vestfalia; l’Hannover acquisì nuovi territori e divenne regno autonomo; il Regno di Sardegna, tornato ai Savoia, riottenne Nizza e la Savoia e inglobò l’ex Repubblica di Genova. L’impero asburgico compensò la perdita dei Paesi Bassi con l’acquisizione della Repubblica di Venezia (e i suoi possedimenti sull’Adriatico), che insieme alla Lombardia andò a formare il Regno LombardoVeneto, posto sotto il governo di un viceré austriaco. Lo zar riuscì ad avere il pieno controllo del restaurato regno di Polonia, per controbilanciare l’espansione russa verso ovest, mentre il regno di Svezia (allora sotto Carlo XIV) venne rafforzato con il possesso della Norvegia. Venne costituita una Confederazione germanica formata da 37 principati e quattro libere città, che comprendeva parte della Prussia e dell’impero asburgico, alla cui corona fu affidata la presidenza dell’organo centrale della Confederazione, la Dieta di Francoforte. I cantoni svizzeri si riunirono in una confederazione, alla quale vennero garantite indipendenza e neutralità. In Italia, oltre al Lombardo-Veneto, l’Austria ottenne anche il controllo indiretto del Ducato di Parma assegnato a Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone; del Granducato di Toscana di Ferdinando III di Lorena, fratello dell’imperatore; e del Ducato di Modena e Reggio, posto sotto Francesco IV di Asburgo-Este. Il Regno di Napoli tornò a Ferdinando IV di Borbone e nel 1817, con l’acquisizione della Sicilia, andò a formare il Regno delle Due Sicilie; lo Stato Pontificio fu restituito a papa Pio VII. La Gran Bretagna ottenne territori strategici dal punto di vista commerciale e per il controllo delle rotte marittime: l’isola di Helgoland, Malta, le isole Ionie, Maurizio, Ceylon (attuale Sri Lanka) e il capo di Buona Speranza. Nell’ambito del congresso di Vienna furono prese anche importanti decisioni riguardo l’abolizione della tratta degli schiavi e la tutela della libertà di navigazione sui fiumi che attraversavano più stati o costituivano il confine tra uno stato e l’altro. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Introduzione Rivoluzione industriale: Espressione che designa il passaggio, avvenuto nella gran parte dei paesi occidentali a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, da un'economia tradizionale basata principalmente sull'agricoltura a un'economia incentrata sulla produzione automatizzata di beni all'interno di fabbriche di grandi dimensioni. Nascita dell'industria moderna La rivoluzione industriale iniziò in Gran Bretagna alla fine del XVIII secolo e modificò profondamente l'economia e la società inglesi. I cambiamenti più immediati furono quelli riguardanti la natura della produzione (che cosa, come e dove si produce). Le quantità e le varietà dei beni prodotti aumentarono considerevolmente grazie alle innovazioni tecniche, alla creazione di macchinari (costruiti in acciaio e mossi dall'energia prodotta dalla macchina a vapore) sempre più sofisticati e veloci e all'applicazione di nuovi criteri di produzione. L'efficienza delle industrie crebbe anche grazie alla concentrazione degli impianti nelle principali città, in regioni minerarie, presso importanti scali ferroviari e navali. In questo modo la rivoluzione industriale innescò un ampio processo di urbanizzazione, che vide un continuo e massiccio trasferimento di forza lavoro dalle aree rurali ai centri urbani e industriali. I cambiamenti più importanti avvennero all'interno dell'organizzazione del lavoro. Le piccole imprese si espansero e acquisirono nuove caratteristiche. La produzione si svolgeva all'interno delle fabbriche anziché presso il domicilio dei lavoratori o nei borghi rurali, come avveniva un tempo. Mentre il lavoro diventava sempre più meccanizzato e specializzato, la possibilità di creare imprese, a causa degli altissimi costi degli impianti, passò nelle mani di chi aveva ampie disponibilità di capitale. Tra capitale e lavoro si produsse una separazione netta e videro la luce due nuove figure economiche e sociali: l'operaio, che partecipava all'attività industriale vendendo la sua forza lavoro; il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione. Dall'ultimo quarto del XVIII secolo a tutto il XIX Londra fu al centro di una complessa rete commerciale mondiale. L'esportazione fornì un fondamentale sbocco ai prodotti dell'industria tessile e di altre industrie, reso necessario dalla rapida espansione della produzione indotta dall'introduzione delle nuove tecniche. A partire dal 1780 le esportazioni inglesi verso altri paesi crebbero di anno in anno, rendendo possibile l'acquisto di materie prime a buon mercato per alimentare l'industria (vedi Imperi coloniali). Il decollo industriale Ciò che l'economista W.W. Rostow chiamò il 'decollo industriale' si diffuse velocemente in tutta l'Europa e nel mondo. Influenzato come abbiamo visto da una serie di fattori tecnologici (ma anche politici e sociali, dai traffici coloniali, dall'aumento della popolazione, dalla mentalità imprenditoriale), l'inizio del processo di industrializzazione si compì tra il 1780 e il 1820 in Gran Bretagna, tra il 1830 e il 1870 in Francia, tra il 1850 e il 1880 in Germania e negli Stati Uniti, verso la fine del secolo in Svezia e in Giappone, nella prima metà del Novecento in Russia e in Canada, dopo il 1950 in molti paesi latinoamericani e asiatici. Agli inizi l'industria britannica non ebbe concorrenti. Quando gli altri paesi avviarono il processo di industrializzazione dovettero confrontarsi con il vantaggio della Gran Bretagna, ma poterono anche mettere a frutto la sua esperienza. L'intervento dello stato per promuovere l'industrializzazione fu praticamente nullo nel caso britannico, ma fu invece considerevole in Germania, Russia, Giappone e in quasi tutti gli altri paesi industrializzatisi nel XX secolo. In Italia il processo di industrializzazione fu molto più lento (e soprattutto molto differenziato tra Nord e Sud della penisola) per diversi motivi: il tardo conseguimento dell'unità nazionale, la mancanza di materie prime e di un mercato coloniale, la carenza di manodopera dovuta all'emigrazione di milioni di persone verso le Americhe e i paesi del Nord Europa. Il vero sviluppo industriale italiano, ancora limitatamente a poche aree del Nord del paese, si ebbe solo all'indomani della seconda guerra mondiale. La rivoluzione industriale cambiò nell'arco di pochi decenni il volto del pianeta. Non solo essa influì su tutti gli altri settori economici, ma determinò profondi cambiamenti politici, sociali, culturali, ecologici. Lo sviluppo dell'industrializzazione fu alla base della nascita e della propagazione di nuove ideologie politiche e di un nuovo modo di concepire la presenza e l'attività dell'uomo sul pianeta. La riflessione su quello che è stato anche definito uno dei maggiori fenomeni di 'discontinuità' nella storia è destinata a durare, come sono destinati a durare l'importanza e il peso dell'industria nella storia dell'uomo. IL SOCIALISMO l socialismo è un ampio complesso di ideologie e orientamenti politici che comprendono al suo interno i movimenti e le dottrine che tendono ad una trasformazione della società capace di realizzare l'uguaglianza di tutti i cittadini sul piano economico e sociale, oltre che giuridico. Originariamente tutte le dottrine e movimenti di matrice socialista miravano a realizzare detti obiettivi attraverso il superamento delle classi sociali e la soppressione, totale o parziale, della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio; con la rivoluzione bolscevica (1917) e la costituzione della Terza internazionale (1919) l'ala rivoluzionaria del socialismo si distaccò organizzandosi nei partiti comunisti, mentre i partiti socialisti, ormai orientati in senso riformista ed inseriti nei sistemi democratico - borghesi dei diversi paesi, per lo più presero gradualmente le distanze dal marxismo e recuperarono le istanze liberali dell'utopismo socialista pre-marxista. il socialismo è una corrente di pensiero legata ai movimenti politici che a partire dal XIX secolo lottarono per modificare la vita sociale ed economica delle classi meno abbienti ed in particolare del proletariato. Il movimento operaio da cui scaturì il socialismo pose per la prima volta il problema della giustizia sociale e dell'uguaglianza economica al centro dell'agenda politica. Trasformò radicalmente le forme della politica organizzandosi in partiti di massa e cercando di coordinare la propria attività politica a livello internazionale. Il socialismo si oppone inizialmente al liberalismo classico, che postula il liberismo in economia, chiedendo invece la nazionalizzazione o la socializzazione di tutte o parte delle attività economiche e dei mezzi di produzione. Contesta l'idea delle neutralità delle istituzioni statali rispetto alla lotta di classe e si batte per un mutamento del ruolo dello Stato o, addirittura, nella versione avanzata da Karl Marx e ripresa dall'anarchismo, per la sua eliminazione. Sul piano internazionale il movimento socialista nasce come un movimento pacifista e favorevole all'autodeterminazione dei popoli, contrapponendosi al nazionalismo e all'imperialismo. Nella prassi tuttavia molti partiti socialisti o correnti di essi finiscono per abbandonare il pacifismo e l'internazionalismo, appoggiando le imprese belliche dei loro paesi con motivazioni patriottiche. Questo voltafaccia provoca in molti paesi polemiche e scissioni. Partiti e movimenti estremamente diversi fra loro si sono definiti socialisti: molti di essi sopravvivono ancora oggi e formano una delle più importanti correnti politiche in Europa, nonché la principale componente della sinistra europea. Il movimento socialista conosce numerosissime scissioni, accuse reciproche di aver tradito gli ideali originari, etc. etc. La scissione più importante è probabilmente quella verificatasi all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre, che vede una larga fetta della sinistra dei partiti socialisti staccarsi e scegliere la denominazione comunista, già utilizzata in passato da alcuni teorici socialisti come Karl Marx. Il sistema filosofico di Marx fonda le sue basi su un assunto di partenza: non è la coscienza degli uomini a determinare la loro condizione sociale, ma è la loro condizione sociale a determinarne la coscienza; ovvero, la condizione sociale influisce in modo determinante sul tipo di giudizi che si formano nella mente, lo stesso contenuto della mente, le idee, i desideri, le aspettative, sono condizionate in modo preminente dall'ambiente sociale in cui l'uomo si trova a vivere. Secondo Marx, la soluzione al capitalismo, la nuova tappa dello sviluppo storico promossa dalle classi subordinate, è il comunismo. Esso si configura come estremità opposta al sistema di produzione capitalista: nella società comunista non esisteranno più classi e lotta di classe, non esisterà più separazione tra oggetto prodotto e produttore, i mezzi di produzione saranno di proprietà comune. Da questo ne deriva che anche la sovrastruttura ideologica della società, da sempre espressione del sistema economico guidato dalle classi dominanti, verrà definitivamente smantellata, per cui non saranno più necessari ne lo Stato ne la religione, ne qualsiasi altra espressione del dominio di una classe sull'altra. "Il comunismo è cioè la sintesi suprema in cui viene rimossa ogni contraddizione sociale e, insieme, è la liberazione concreta dell'individuo umano." Il comunismo, per Marx, è una legge necessaria, una tappa obbligata dello sviluppo storico che non trae origine da ideali astratti presenti arbitrariamente nella coscienza degli uomini, ma trae la sua legge dall'evidenza stessa dei dati pratico empirici dell'economia. Secondo Marx il comunismo è quindi la naturale e necessaria soluzione del capitalismo in un nuovo e definitivo sistema socio-economico finalmente egualitario, dopo secoli di lotte e disuguaglianze. LA RIVOLUZIONE AMERICANA La pace di Parigi del 1763 mise fine alla GUERRA dei 7 ANNI ed anche al conflitto che opponeva Francesi ed Inglesi in America. Di conseguenza, le colonie americane furono assoggettate ad una legislazione mercantilistica che, pur limitandone lo sviluppo economico a favore dell'Inghilterra, le lasciava praticamente indenni dal fiscalismo inglese e largamente libere di dedicarsi al contrabbando. Tuttavia, a partire dal 1764, il controllo inglese sul contrabbando divenne sempre più attento e nel 1766 entrò in vigore una legge che imponeva il pagamento di un bollo sugli atti pubblici ed i giornali. Il primo tentativo di tassare gli americani provocò immediate proteste. I coloni, che non avevano diritto di voto per il Parlamento di Londra, contestarono il diritto del governo di tassarli in base al principio no taxation without representation (=niente tasse senza rappresentanti in Parlamento). La tensione tra le colonie americane e il governo inglese (che il nuovo re Giorgio III aveva affidato ai Tories) divenne particolarmente acuta nel 1773 quando la COMPAGNIA ORIENTALE delle INDIE venne autorizzata dal Parlamento Inglese a vendere direttamente il suo tè alle colonie americane. Fino a quel momento i mercanti americani avevano preferito procurarsi il tè di contrabbando dagli olandesi, ma, con l'entrata in scena del prodotto della Compagnia, i prezzi sarebbero diventati così bassi da rendere inutile il contrabbando stesso. Questa situazione era una dimostrazione schiacciante che il Parlamento di Londra era completamente asservito agli interessi della COMPAGNIA ORIENTALE delle INDIE. Nel dicembre 1773, mentre tutto il Paese era già in agitazione, un gruppo di bostoniani rovesciò in mare il carico di tè che si trovava a bordo delle navi della Compagnia. Subito il governo inglese intervenne con una serie di provvedimenti repressivi contro la colonia del Massachusetts. Un congresso di delegati delle colonie si riunì così a Filadelphia e invitò gli americani a un boicottaggio totale delle merci di provenienza inglese, mentre contemporaneamente si invitava re Giorgio III a contrastare con la propria autorità la tirannide del Parlamento. Di fronte ai massicci invii di truppe dall'Inghilterra, un secondo congresso, tenutosi a Filadelphia nel maggio 1775, decise di procedere alla costituzione di un esercito di liberazione agli ordini di George Washington, già ufficiale nella precedente guerra contro i Francesi e che godeva di un indubbio prestigio personale anche al di fuori della sua Virginia. L'anno successivo, il 4 luglio 1776, il Congresso di Filadelphia approvò una Dichiarazione d'Indipendenza cui aveva dato un contributo essenziale il proprietario terriero virginiano Thomas Jefferson, la cui cultura politica era imbevuta delle idee di Montesquieu e di Rousseau. La guerra d'indipendenza durò fino al 1783. Dal 1778 le colonie poterono godere del decisivo appoggio militare francese, negoziato dall'ambasciatore a Parigi Benjamin Franklin. Al congresso di pace tenuto a Versailles, presso Parigi, nel settembre 1783, le colonie furono riconosciute dall'Inghilterra come Stati Uniti d'America, mentre la Francia ebbe una rivincita se non territoriale almeno di prestigio. Mentre la guerra era ancora in corso, il Congresso di Filadelphia aveva proposto, sin dal novembre 1777, all'approvazione dei singoli Stati un progetto di costituzione; solo nel marzo 1781 questi articoli di confederazione ebbero l'assenso delle assemblee di tutti e tredici gli Stati. Questa prima Costituzione americana sanciva la priorità degli Stati sulla confederazione: essi erano nati e si erano dati una costituzione prima o almeno indipendentemente dalla dichiarazione del 4 luglio 1776 e perciò non intendevano rinunciare alla loro piena sovranità. I poteri affidati all'organo confederale, il Congresso, risultarono perciò piuttosto deboli. Il timore di una disgregazione della confederazione indusse a convocare nel 1787 un nuovo congresso costituente a Filadelphia. Il nuovo testo accrebbe i poteri dello Stato federale sui singoli Stati e creò la figura di un presidente elettivo. Le elezioni ebbero luogo il 4 febbraio 1789 e George Washington risultò il primo presidente degli Stati Uniti. IL SECOLO DEI LUMI L'Illuminismo fu un movimento culturale e filosofico nato in Inghilterra intorno alla metà del XVII secolo ed espresso principalmente da John Locke, poi sviluppatosi in Francia e diffusosi in Europa dall'inizio del XVIII secolo fino alla Rivoluzione francese. Il Secolo dei Lumi Nel periodo conosciuto come il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), l'Europa fu testimone di notevoli cambiamenti socio-culturali caratterizzati, fra l'altro, da un esame critico della religione e delle strutture del potere dispotico. Le dottrine religiose istituzionalizzate vennero contrastate con l'esaltazione di quei valori da esse non riconosciuti; il laicismo, con i suoi principi razionalistici, libertari e gnoseologici, concorse a determinare quell'ottica illuministica che tende alla progressiva emancipazione dell'uomo dalle tenebre ideologiche in cui sarebbe stato costretto dai dogmi della fede, dal dispotismo e dai criteri assiologici di classe. I principi assolutistici, in maniera perfettamente analoga, iniziarono finalmente ad essere messi in discussione. Le idee prevalenti dell'illuminismo sono perciò: la libertà e l'uguaglianza sociale, i diritti umani, la laicità dello Stato, la scienza e il pensiero razionale. In seguito Liberté, Égalité, Fraternité, comunque traslati in un diverso contesto, diventarono uno dei motti rivoluzionari del 1789. Non bisogna per questo pensare che l'illuminismo fosse fondamentalmente anti-monarchico o anti-religioso (basti pensare a Voltaire), anzi esso attinse molto sia dal mondo aristocratico che da quello cattolico. Molti nobili furono degli intellettuali illuministi, e preti missionari in paesi ancor più dispotici della Francia portano nei loro resoconti opinioni critiche che concorsero ad alimentare le idee illuministe. Ad esempio, i resoconti dei viaggi dei preti cattolici in Cina servirono come modello per un secolarizzato despota illuminato. Solo Voltaire e Rousseau vengono assunti come modelli di pensiero dai rivoluzionari moderati, e la Guerra di indipendenza americana, in quanto anti-inglese, era già un mito sotto l'Ancièn Régime, ben prima degli eventi rivoluzionari francesi. Gli illuministi guardano semmai alla Rivoluzione industriale e al liberalismo inglese come esiti di un nuovo modello di società, presenti anche nella stesura della Costituzione degli Stati Uniti e di quelle che seguirono negli stati europei da parte delle monarchie illuminate. L'Illuminismo fu anche segnato dal sorgere del capitalismo e dall'ampia circolazione di materiale stampato. L'Encyclopédie francese, in questo senso, fu la più importante sintesi del pensiero illuminista, la quale riassumeva al suo interno tutto il sapere del tempo, combinando articoli più marcatamente filosofici, con altri dedicati alle scienze, alle arti e alla tecnica che proprio allora cominciava ad assumere un suo proprio sviluppo. Il concetto di un singolo movimento di dimensioni europee può indurre in confusione, essendo in realtà un riflesso del reale predominio culturale del pensiero francese, all'interno del movimento illuminista. È tuttavia possibile analizzare diversi movimenti nazionali. Il termine "illuminismo" era usato dagli scrittori del tempo, convinti di provenire da un'epoca di oscurità e ignoranza e di dirigersi verso una nuova età, segnata dall’emancipazione dell'uomo e dai progressi della scienza sotto la guida dei "lumi" della ragione. L'illuminismo ebbe come principali centri di diffusione l'Inghilterra e la Francia. L’Inghilterra era stato il Paese dove meglio si era affermato l’empirismo, un orientamento di pensiero filosofico che riconduceva la conoscenza all'esperienza dei sensi, negando l'esistenza di idee innate o di un pensiero a priori ("ciò che viene prima" ossia una conoscenza che si acquisisce prescindendo dall'esperienza, cioè mediante il solo ragionamento deduttivo). Tratti comuni alle dottrine empiriste sono l'attenzione per i dati empirici come si presentano nella percezione, l’uso del metodo induttivo rispetto a quello deduttivo, la riduzione dei concetti universali a semplici nomi o rappresentazioni mentali, l'anti-metafisica, lo sperimentalismo. Dalla "filosofia sperimentale" dello scienziato inglese Newton gli illuministi assunsero una concezione del pensiero scientifico secondo la quale la ragione umana, attenendosi all'esame dei fenomeni, formula i princìpi e procede deduttivamente fino a pervenire a un quadro unitario del mondo fisico. L'illuminismo ebbe per precursori anche pensatori razionalisti come il francese Cartesio, del quale i filosofi del XVIII secolo rifiutavano la pretesa di una conoscenza deduttiva derivante da idee innate e da princìpi noti a priori, ma facevano propria l'esigenza di "chiarezza e distinzione" delle idee, rifiutando il tradizionale principio d'autorità. Molti illuministi, rifiutando la metafisica, cercarono la conferma di una visione naturalistica e laica (ma non necessariamente atea: piuttosto diffuso fu invece il deismo, ovvero una credenza religiosa completamente razionalizzata, caratterizzata dalla credenza nell'Essere Supremo, chiamato anche Grande Architetto dell'Universo) della realtà, propugnarono la tolleranza e polemizzarono contro le superstizioni e i pregiudizi. Sulla base di questi presupposti, non pochi autori e intellettuali teorizzarono un anticlericalismo e un attacco alla Chiesa, soprattutto quella cattolica, che, in non pochi casi, come ad es. con Voltaire, assunse contenuti e toni molto efficaci e potenti, in particolare per la polemica contro il dogmatismo e il fanatismo, proprio di tutte le religioni positive. Nell'illuminismo si incontrarono aspetti eterogenei, della filosofia e della cultura moderne, dalla rivoluzione scientifica avviata da Copernico e Galilei alle ripercussioni culturali indotte dalle esplorazioni geografiche, dal razionalismo di Descartes all'empirismo di Locke. L'illuminismo fu portavoce del moderno spirito scientifico, che rifiutando la concezione medioevale della realtà rivendicò la fiducia nell'osservazione diretta dei fenomeni e nell'uso autonomo della ragione. La fede nella ragione, coniugandosi con il modello sperimentale della scienza newtoniana, sembrava rendere possibile la scoperta non solo delle leggi del mondo naturale, ma anche di quelle dello sviluppo sociale. Si pensò allora che, usando saggiamente la ragione, sarebbe stato possibile un progresso indefinito della conoscenza, della tecnica e della morale: questo importante concetto verrà successivamente ripreso e rafforzato dalle dottrine positiviste. La scienza si diffuse soprattutto nel campo dell'astronomia e della fisica, ma anche in quello della nascente biologia, degli studi sulle piante, sulla formazione dei ghiacci ed altro. La cultura che nel '600 si era manifestata con l'arte barocca, si esprimeva ora in un movimento, l'Illuminismo, così chiamato per la sua fede nei lumi della ragione umana, che potevano "sconfiggere" le tenebre dell'ignoranza ritenute tipiche del Medioevo. Diffusione dell'Illuminismo L’illuminismo si diffuse rapidamente in Europa e nelle colonie nordamericane, ma la Francia enumerò molti spiriti eminenti. Il giurista e filosofo della politica Charles de Montesquieu, uno dei primi esponenti del movimento, esordì pubblicando scritti satirici contro le istituzioni Lettere Persiane (1721), seguiti anni dopo da uno studio sulle istituzioni politiche, Lo spirito delle leggi (1748), il suo più importante scritto. A Parigi Denis Diderot, autore di numerosi trattati filosofici, incominciò la pubblicazione dell'Encyclopédie nel 1750, avvalendosi della collaborazione del matematico D'Alembert. L'Encyclopédie dava dignità alle arti e tecniche viste in passato come discipline inferiori a letteratura, arte, scienze, teologia e filosofia. Tale opera fu, non solo un compendio di conoscenze, ma anche un mezzo di diffusione dell’illuminismo e di critica degli oppositori. Il più rappresentativo tra gli scrittori illuministi francesi fu Voltaire, che iniziò la sua carriera come drammaturgo e poeta e fu autore di pamphlets (opuscoli satirici e polemici), saggi, satire e racconti brevi nei quali divulgò la scienza e la filosofia della sua epoca. Il filosofo intrattenne inoltre una voluminosa corrispondenza con scrittori e sovrani europei. Gli scritti di Jean-Jacques Rousseau, come Il contratto sociale (1762), l'Emilio (1762) e le Confessioni (1782), esercitarono una profonda influenza sulle teorie politiche e pedagogiche del secolo seguente e diedero impulso al romanticismo ottocentesco. L'illuminismo fu anche un movimento profondamente cosmopolita: pensatori di nazionalità diverse si sentirono accomunati da una profonda unità d’intenti, mantenendo stretti contatti epistolari fra loro. Furono illuministi Pietro Verri e Cesare Beccaria in Italia, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson nelle colonie americane. Durante la prima metà del XVIII secolo, molti tra i principali esponenti dell'illuminismo furono perseguitati per i loro scritti o furono messi a tacere dalla censura governativa e dagli attacchi della Chiesa, ma negli ultimi decenni del secolo, il movimento si affermò in Europa ed ispirò la rivoluzione americana. Il successo delle nuove idee, sorretto dalla pubblicazione di riviste e libri e da nuovi esperimenti scientifici inaugurò una moda diffusa persino tra i nobili e il clero. Alcuni sovrani europei adottarono le idee e il linguaggio dell'illuminismo. Voltaire e altri illuministi, attratti dal concetto di filosofo-re che illumina il popolo dall'alto, guardarono con favore alla politica dei cosiddetti despoti illuminati, come Federico II di Prussia, Caterina II di Russia e Giuseppe II d'Austria. La Rivoluzione francese, espressione dell'ala più rivoluzionaria dell'Illuminismo radicale, pose fine alla diffusione pacifica, ma talvolta anche solo elitaria, dell’illuminismo e, per i suoi episodi più sanguinosi, gettò discredito sull'illuminismo. Molti filosofi illuministi presero le distanze dagli eccessi rivoluzionari di Robespierre. La polemica romantica, agli inizi del XIX secolo, avversò la sottovalutazione delle tradizioni e della storia, la propensione per l'ateismo, l'indiscriminata esaltazione della razionalità. L’illuminismo si diffuse fra ampi strati della popolazione preparando l’avvento dell’età contemporanea. Iniziò inoltre a dare l'idea di cosmopolitismo allargando il pensiero a tutti i popoli e contribuì a tutte le moderne forme di razionalismo. IL LIBERALISMO DEI PRIMI 800’ La dottrina liberale naque dalla rielaborazione romantica di idee manifestate durante la rivoluzione francese e l’avvio della ripresa fu dato da oppositori del regime napoleonico; successivamente apporti fondamentali vennero da altre fonti non riguardanti esclusivamente il campo della teoria politica. Il liberalismo moderato, tipico dell’alta borghesia, rifiutava l’esperienza della rivoluzione perché sfociata nel terrore e nel dispotismo; inoltre rifiutava l’idea di sovranità popolare perché il compito, secondo i liberali, spettava all’assemblea parlamentare eletta dal voto dei proprietari, gli unici che potevano partecipare alla vita sociale perché i nullatenenti non avevano interesse e capacità per poterlo fare. La concezione liberale accoglieva nel senso più restrittivo i principi di eguaglianza nel senso che i cittadini erano si uguali di fronte alla legge, ma una legge fatta da un ristretto numero di borghesi e nobili. Esponente di questa corrente fu Benjamin Constant. Contro la condanna in blocco della rivoluzione, la cultura liberale ripropose i valori dell’89 considerandoli come espressione delle esigenze di libertà individuale separandoli dagli altri aspetti del periodo rivoluzionario. Per quanto riguarda la parte economica della dottrina abbiamo Adam Smith con la sua ottimistica visione della libertà di iniziativa privata: quell’ottimismo sopravvisse alle smentite dei fatti anche perché in quel periodo le possibilità di superare il vecchio mondo economico, arretrato, erano legate al capitalismo. Molti altri poi, analizzando il capitalismo, scoprirono limiti e contraddizioni che fecero introdurre elementi di pessimismo come Malthus che pensava invece che per evitare che la miseria e la fame causassero la morte della popolazione eccedente ci dovesse essere una volontaria rinuncia al matrimonio e alla procreazione delle genti povere con l’abolizione delle leggi a favore di questi ultimi e dell’assistenza pubblica per sollecitarli nella rinuncia. Il più grande economista inglese, David Ricardo, scrisse nei Principi dell’economia politica e dell’imposta che c’era una tendenza alla diminuzione del profitto del capitale e una tendenza del salario a mantenersi appena sufficiente per assicurare la vita dell’operaio. Riconosce che l’impiego di macchine sul lavoro provocherà una caduta della domanda di manodopera e l’inevitabilità della disoccupazione tecnologica: tutto ciò dunque porterà ad un arresto dello sviluppo economico che potrebbe essere rallentato con il sacrificio degli interessi dei proprietari terrieri. Questa dottrina (liberale) si diffuse in Francia e in Inghilterra principalmente e poi anche in Germania dove però il senso della storia mirava a collegare la cultura tedesca all’opera di restaurazione assolutistica contrastando l’influenza liberale. L’unico gruppo che si sottrasse all’influenza del romanticismo conservatore fu quello degli idealisti, le cui posizioni furono diverse da quelle del liberalismo classico. La concezione dialettica, alla base del pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, considera la storia come un continuo superamento di contraddizioni e quindi come un movimento progressivo ma a differenza dei liberali, che pensano che la realtà sia l’individuo, per Hegel è soltanto nello stato che si realizzano la ragione e la moralità. Lo sforzo individuale è solo un processo che appaga perché si contribuisce all’appagamento dei bisogni di tutti. Anche nella cultura italiana la ripresa liberale trovò un terreno fertile soprattutto nei gruppi di intellettuali romantici che si raccolsero attorno alla rivista milanese Il Conciliatore. Lo svizzero Sismondi però era critico per quanto riguarda la concezione economica liberale: lui individuò il fenomeno delle crisi economiche cicliche derivanti dallo squilibrio tra incremento della produzione e capacità di assorbimento del mercato. Dall’analisi di questo problema connesso al capitalismo industriale trasse la convinzione dell’inevitabile aggravamento della lotta di classe, non riuscendo però ad indicare una soluzione che non ricalcasse le vecchie forme di controllo economico. Il nuovo liberalismo aveva un’impronta fortemente moderata ma ciò non fu sufficiente a renderlo accetto ai sovrani che cercavano motivi di condanna nelle opere degli intellettuali: in Inghilterra con i Six Acts nel 1819 si cercò di ridurre al silenzio l’opposizione con la censura della stampa, il divieto delle riunioni e l’adozione di particolari misure fiscali per impedire la pubblicazione di opuscoli. Nella reazione che imperversò dopo il 1815 i liberali furono quindi accumunati alle correnti di pensiero radicali anche se i radicali, a differenza dei liberali moderati, assimilavano dal romanticismo l’idea e il sentimento di nazionalismo, più che l’saltazione dell’individuo ma a differenza dei nazionalisti essi li collegavano strettamente al principio della sovranità popolare. Il tema dell’eguaglianza acquistava un risalto analogo a quello della libertà nella concezione radicale: infatti la libertà individuale non può esistere senza una base egualitaria e lo stato non è veramente rappresentativo se non è espressione della nazione, del popolo. Al radicalismo aderivano i gruppi di borghesia e quegli intellettuali che ritenevano impossibile la riforma dello stato senza l’appoggio popolare: per questo liberali e radicali non poterono formare alleanze durature ed infatti il contrasto si aggravò fra il 1830 e il 1848: Alexis de Tocqueville fece fare un passo avanti alla controversia indicando i pericoli della democrazia nella sua caratteristica di “regime di massa” e nella sua tendenza al livellamento del valore della personalità anche se non escludeva una graduale e cauta evoluzione del liberalismo in senso democratico. In realtà la trasformazione democratica delle istituzioni e della società non avvenne né per spontanea ecoluzione né per le iniziative e le lotte dei movimenti radicali. Le indicazioni dottrinarie di liberali illuminati come l’inglese John Stuart Mill, uno dei più aperti sostenitori della democrazia, non ebbero svolgimento pratico e anche i tentativi dei movimenti radicali si conclusero generalmente in modo fallimentare: la realizzazione della democrazia fu piuttosto il risultato dell’organizzazione e dello sviluppo del movimento operaio. La formazione di una coscienza di classe da parte del proletariato fu agevolata dalle condizioni stesse del lavoro di fabbrica e della natura della produzione industriale che non isolava i produttori l’uno dall’altro ma li inseriva in un organismo sociale ed in una attività collettiva: da queste condizioni infatti nacque spontaneamente la solidarietà tra gli operai.