PROGRAMMA ESAMI DI IDONEITA’
STORIA
INDICE
Biennio:
la preistoria
il neolitico
la mesopotamia
gli egizi
la polis
Sparta
le guerre Persiane
Pericle
Alessandro Magno
le origini di Roma
la repubblica
Le guerre Puniche
i flavi
3° e 4° ANNO
Papato ed imperi
le monarchie nazionali
crisi economica e demografica
formazione dello stato moderno
riforma e controriforma
l'assolutismo francese
il 1848
la Rivoluzione Francese
il feudalesimo
la restaurazione: Il Congresso di Vienna
la rivoluzione industriale
il socialismo
La rivoluzione Americana
il secolo dei lumi
il liberalismo di fine 800
La preistoria
La preistoria è convenzionalmente indicata come il periodo della storia
umana che precede l'invenzione della scrittura.
Con la comparsa di testimonianze scritte infatti gli storici hanno a
disposizione per la loro ricostruzione degli eventi una più vasta e chiara
documentazione che giustifica questa periodizzazione convenzionale.
La lunghissima fase della storia dell'uomo antecedente all'invenzione
della scrittura a rigor di termini dovrebbe iniziare 200 mila anni fa
quando nella regione dell'attuale Sudafrica appare un tipo umano detto
Homo sapiens sapiens che dal punto di vista morfologico risulta in tutto
identico all'uomo attuale.
Tuttavia circa 2 milioni di anni fa, un tipo di ominide vivente nella
regione intorno al Lago Vittoria (nel luogo dove attualmente confinano
l'Uganda, il Kenia e la Tanzania) ha utilizzato per la prima volta degli
utensili dando inizio alla storia della tecnica. Per estensione, si può
ipotizzare una contemporanea origine del pensiero, che darà a sua volta
inizio alla religione, all'arte, alla filosofia ed alla scienza pura.
L'invenzione del primo strumento di lavoro potrebbe giustificare
l'estensione della preistoria a circa 2 milioni di anni fa, con il primo
utensile, anche se i gruppi di ominidi che utilizzarono utensili non erano
fisicamente simili agli umani attuali (Homo sapiens sapiens).
La preistoria viene convenzionalmente suddivisa in tre periodi:
paleolitico (ossia pietra vecchia), mesolitico (pietra di mezzo) e neolitico
(pietra nuova), per quanto sarebbe più corretto parlare di fasi in quanto i
periodi preistorici sono caratterizzati da differente durata temporale e
termine nelle diverse regioni geografiche.
Presso le società preistoriche la memoria dei fatti accaduti, i miti e le
conoscenze tecniche erano tramandati oralmente di generazione in
generazione; tale patrimonio di sapere scompare il più delle volte con
l'estinzione del gruppo. L'archeologia costituisce pertanto l'unico mezzo
per ricostruire gli eventi preistorici, attraverso l'esame delle testimonianze
materiali lasciate dai popoli: abitazioni, utensili, rifiuti, modificazioni del
contesto ambientale, monumenti e opere d'arte.
Accanto all'analisi dei reperti portati alla luce dagli scavi archeologici, lo
studio della preistoria si avvale degli apporti di altre discipline – quali la
geologia, la paleontologia, l'antropologia fisica – al fine di ricostruire il
contesto ambientale in cui si trovarono a vivere aggregati umani
preistorici, e quindi di conoscere il loro modo di interagire con esso,
sfruttando le risorse offerte. Grande importanza assumono inoltre le
dinamiche di sviluppo delle civiltà, nel campo delle conquiste materiali e
dei mutamenti culturali, e gli spostamenti geografici dei popoli. Occorre
tuttavia specificare che il concetto di preistoria ha un significato non
necessariamente cronologico, in quanto esistono ancora oggi, in alcune
aree del nostro pianeta, gruppi umani che non conoscono alcuna forma di
scrittura.
Il processo di astrazione, che nella nostra specie si era avviato con il
primo strumento di lavoro e che non si era fermato ma era proseguito con
la costruzione di strumenti che permettevano di realizzare a loro volta
altri strumenti, ebbe ricadute non solo sulla vita concreta ma anche sullo
sviluppo degli organi di fonazione, del linguaggio, della comunicazione e
inultimaanalisidelpensiero.
All'inizio della protostoria, con lo sviluppo di società complesse tra l'età
neolitica e l'età dei metalli, viene favorita la nascita della scrittura, come
mezzo per registrare e trasmettere informazioni, e il processo di
astrazione raggiunge un nuovo traguardo, anche se questo stadio
dell'evoluzione umana presenta una casistica molto complessa (sono
esistite civiltà che pur giungendo all'organizzazione sociale dello stato
non sviluppano, almeno per quanto ne sappiamo, la scrittura). Le prime
forme di registrazione scritte compaiono, quasi contemporaneamente, in
varie parti del mondo: in Mesopotamia (Sumeri), valle del Nilo (Antico
Egitto), Cina circa 5000 anni fa. Per convenzione si usa utilizzare la
datazione dei primi reperti ritrovati di documenti scritti come spartiacque
tra l'epoca preistorica della specie umana e una nuova era che
convenzionalmente viene designata con il termine più appropriato di
storia.
Se convenzionalmente con l'invenzione della scrittura si suole far
concludere il racconto delle vicende umane della preistoria, di fatto la
fase successiva di queste vicende detta propriamente Storia si fa iniziare
con l'esposizione del fenomeno delle prime tre grandi civiltà mondiali,
dette "civiltà idrauliche", in quanto sorte intorno a dei grandi fiumi e
anche perché impegnate in opere di ingegneria idraulica per sfruttare le
acque dei fiumi che hanno fatto la loro prosperità, ai fini di un incremento
ancora maggiore della nuova economia agricola. Queste sono la civiltà
dell'antico Egitto sorta sulle rive del fiume Nilo, quella Mesopotamica tra
i fiumi Tigri e Eufrate e infine sul fiume Indo la civiltà della valle
dell'Indo. Ma questa nuova fase del passato dell'umanità, benché
anch'esso ormai lontano nei millenni, non è più preistoria.
Vi è anche da valutare l'ipotesi che la datazione dell'inizio della storia non
sia generalizzabile a tutta l'umanità, ma sia diversa, a seconda della
località, in funzione dello sviluppo umano ivi avvenuto.
Il neolitico
Il neolitico è un periodo della preistoria, l'ultimo dei tre che costituiscono
l'età della pietra.
Etimologicamente il termine "neolitico" deriva dalle due parole greche
νέος neos, "nuovo" e λίθος lithos, "pietra": fu infatti contraddistinto da
notevoli innovazioni nella litotecnica, tra le quali la principale è
rappresentata dall'uso della levigatura. Altre innovazioni furono
l'introduzione dell'uso della ceramica, dell'agricoltura e dell'allevamento.
La diffusione in Europa della cultura neolitica che si era sviluppata nel
Vicino Oriente, e in particolare il passaggio dall'economia di caccia e
raccolta alla pratica dell'agricoltura e dell'allevamento, sono avvenuti con
modalità e tempi tuttora discussi.
Vere Gordon Childe aveva ipotizzato già negli anni '20 che le comunità
autoctone di cacciatori e raccoglitori delle culture mesolitiche europee,
fossero state sostituite da comunità di agricoltori migrate più a nord dal
Vicino Oriente, con un processo durato per più generazioni. Una prima
corrente migratoria avrebbe seguito la via continentale lungo la penisola
balcanica e il corso del Danubio, mentre un'altra, leggermente più tarda,
si sarebbe diffusa attraverso la navigazione marittima lungo le coste del
mar Mediterraneo da est ad ovest.
L'affermazione delle tecniche di coltivazione e allevamento procedette
per via continentale anzitutto lungo direttrici che attraversavano terreni
particolarmente favorevoli, come quelli formatisi per deposito di polveri
portate dal vento (loess) nell'Europa centrale. Seguì il corso di grandi vie
fluviali, come il Danubio, ed ebbe successo nelle ampie vallate dei
Balcani e della Grecia orientale, con inverni freddi e piovosi e con lunghe
estati, ambiente ideale per la pastorizia e la transumanza; penetrò invece
con difficoltà nelle fredde foreste del Nord Europa e nelle regioni poste ai
bordi della catena alpina.
A partire dagli anni '70 e '80, Albert Ammerman e Luigi Cavalli-Sforza
sulla base dei loro studi di genetica, hanno ipotizzato una massiccia
migrazione di agricoltori, spinti dalla crescita demografica e dalla ricerca
di nuove terre coltivabili, che avrebbe respinto e cancellato le precedenti
comunità locali di cacciatori e raccoglitori mesolitiche.
Colin Renfrew, sulla base dei suoi studi archeologici e linguistici ha
ipotizzato inoltre che la diffusione della cultura neolitica in Europa sia
avvenuta parallelamente a quella dell'indoeuropeo, differenziatosi
nell'Anatolia neolitica del VII millennio a.C., in opposizione alla teoria di
Maria Gimbutas di una più tarda indoeuropeizzazione nel corso del
calcolitico.
Un modello alternativo ipotizza invece una trasmissione delle nuove
conoscenze per diffusione culturale, in seguito allo spostamento di piccoli
gruppi, per la ricerca di materie prime o per i commerci, e che la cultura
neolitica sia stata gradualmente adottata dalle locali comunità mesolitiche
di cacciatori e raccoglitori, le quali utilizzavano già pratiche di
sfruttamento e selezione nel procacciamento del cibo e avevano
conosciuto forme precoci di insediamenti stabili.
Mesopotamia
con il termine Mesopotamia si intende una regione del Vicino Oriente,
parte della cosiddetta Mezzaluna Fertile. Il nome stesso (en mésos
potamós, o µέσος ποταµός in greco) la indica come "terra tra due fiumi":
il Tigri e l'Eufrate.
La Mesopotamia fu conquistata prima dai Sumeri, poi dai Babilonesi e
infine dal popolo degli Assiri. Con il termine Mesopotamia i greci
intendevano la zona settentrionale che si estende tra il Tigri e l'Eufrate.
Con il tempo l'uso di questa definizione divenne di più ampio respiro,
fino
a
comprendere
anche
le
zone limitrofe.
Oggi possiamo
impropriamente definirne i confini indicandoli con la catena dei monti
Zagros ad est, quella del Tauro a nord, steppe e deserti ad ovest e sudovest e, infine, il golfo Arabo-Persico a sud (la zona paludosa dello Shatt
al-'Arab). La regione era considerata uno dei corni della mezzaluna fertile
e vi si trovavano, allo stato selvatico, quelli che sarebbero diventati gli
alimenti base della dieta dell'uomo nell'antichità: cereali, leguminose,
ovini e bovidi.
Foreste di tipo mediterraneo sulle montagne a nord ospitavano una flora
di querce, pini, cedri e ginepri ed una fauna di animali selvatici quali
leopardi, leoni e cervi che ritroviamo anche nell'iconografia dell'arte
giunta fino a noi. Da questa catena montuosa, il Tauro, parte il percorso
dei due fiumi, dono per questa regione. Un dono che ha influito molto
sulla vita e mentalità dei popoli che l'abitavano, infatti, sorgendo in una
catena montuosa a clima mediterraneo, entrambi i fiumi erano soggetti ad
una portata variabile e ad improvvise e disastrose inondazioni, tanto che
nel corso dei millenni più volte hanno cambiato il corso del proprio letto.
Proseguendo verso sud, i due fiumi si gettavano nel golfo con estuari
separati ma, con il passare del tempo, costituirono la regione paludosa
dello Shatt el-Arab unendo il proprio percorso.
spesso il bacino mesopotamico viene raffrontato per similitudine con
quello del Nilo, entrambi hanno infatti favorito lo sviluppo delle civiltà
umane ma con sostanziali differenze. Il grande fiume africano, a causa
della sua nascita in zona monsonica, assicurava piene regolari e feconde
grazie al limo che depositava, mentre il Tigri e l'Eufrate, per la loro
imprevedibilità, furono un importante stimolo per la costruzione di opere
di irrigazione e di regolazione delle acque. Le differenze non si
mostravano solo nella gestione dell'ambiente ma anche sulla cultura dei
due popoli: tanto gli Egizi si sentivano sereni in un mondo immutabile
quanto i popoli della Mesopotamia svilupparono una cultura pessimista e
sempre in lotta con la natura ostile.
La
conoscenza
delle
grandi
culture
della
Mesopotamia
è,
sorprendentemente, una storia relativamente recente. All'inizio del XVIII
secolo, la traduzione della raccolta favolistica araba delle "Mille e una
notte" provocò un rinnovato interesse per questa terra, considerata
misteriosa ed ostile. Numerosi studiosi intrapresero viaggi dai quali
tornarono carichi di osservazioni e reperti archeologici relativi alle
antiche civiltà mesopotamiche. Come dopo la spedizione napoleonica in
Egitto, con la riscoperta della sua civiltà millenaria, molti studiosi si
avventurarono, all'inizio del XIX secolo, nella "terra dei due fiumi". Fu a
metà del secolo che iniziarono le prime vere e proprie rudimentali
esplorazioni di siti quali Ninive, Dur Sharrukin, Nimrud e Assur (da parte
di Paul Emile Botta e Austen Henry Layard) e, in seguito, Uruk e Ur.
Quando, nel 1855, un battello carico di reperti da Dur Sharrukin si
rovesciò causandone quasi l'intera perdita nel Tigri (si salvò solo un
decimo del materiale), le operazioni vennero sospese per un ventennio.
Fu in questo periodo che George Smith, nel 1872, decifrò la scrittura
cuneiforme di una tavoletta proveniente da Ninive riportante il racconto
di un mitico diluvio. Ciò produsse una nuova spinta nell'esplorazione,
questa volta più sistematica, e furono scavati nuovi siti, come Babilonia,
e ne furono ripresi altri, come Assur, per merito dell'archeologo tedesco
Robert Koldewey, anche se non sono da trascurare altri studiosi come
von Oppenheim, Thomas Edward Lawrence e Leonard Woolley. Da
allora fino ad oggi la volontà di riportare alla luce queste importanti
civiltà ha trovato ostacolo solamente nella seconda guerra mondiale e
nella prima e seconda guerra del golfo.
Gli egizi
Con Antico Egitto si intende la civiltà sviluppatasi in quella sottile
striscia di terra fertile che si distende lungo le rive del Nilo a partire dalle
sue cateratte al confine col Sudan fino allo sbocco nel Mediterraneo, e
riconosciuta come entità statale a partire dal 3300 a.C. fino al 31 a.C.,
quando ci fu la conquista romana.
Le tracce di insediamenti lungo il Nilo sono molto antiche e si calcola che
l'agricoltura (in particolare la coltivazione di grano e orzo) abbia fatto la
sua comparsa in quelle regioni intorno al 6000 a.C.[1] Proprio la presenza
del fiume, che rende possibile la vita in una regione peraltro desertica, è il
motore primo del precoce nascere della civiltà urbana e del suo persistere
quasi immutata, ai nostri occhi, per quasi tremila anni. Le acque del Nilo,
con le loro piene annuali, non portano solo fertilità ma anche distruzione
se non vengono costantemente controllate, imbrigliate, incanalate,
conservate per i periodi di siccità; ed è proprio da questo stato di cose che
nasce la necessità di uno stato organizzato, uno stato che garantisca la
manutenzione di quelle strutture da cui dipende la sopravvivenza di tutti.
La necessità di avere una struttura statale per la gestione delle opere
(dighe e canali) collegate con le acque del Nilo, ha portato alla
formazione di uno dei primi stati della storia, nel 3300 a.C. Infatti questa
esigenza fece sì che le tribù nilotiche impararono a vivere prima sotto
l'autorità di capi locali (fase della formazione dei distretti o nomos). I vari
nomos si scontrarono e si allearono tra loro, nell'arco di circa un
millennio, fino a formare due regni, l'Alto Egitto al sud (costituito dalla
parte meridionale della valle del Nilo) ed il Basso Egitto al nord
(costituito principalmente dal delta del fiume), che vennero unificati nel
3000 a.C. in un solo impero da Menes (da identificarsi probabilmente con
il sovrano egizio Narmer), re dell'Alto Egitto, che inaugurò le trenta
dinastie dell'antico Egitto. Tra i monumenti più famosi dell'Antico Egitto
vi sono sicuramente le piramidi, tombe di sovrani dalla III alla XII
dinastia.
Le piramidi più famose si trovano presso Giza, vicino alla città moderna
del Cairo. La loro imponenza testimonia la potenza dello stato e
l'importanza delle credenze religiose sull'oltretomba. La grande piramide,
la tomba del sovrano Khufu (conosciuto anche come Cheope), è l'unico
monumento sopravvissuto delle sette meraviglie del mondo antico.
L'antico Egitto raggiunse l'apice della sua potenza ed estensione
territoriale nel periodo chiamato Nuovo Regno (1567 a.C.-1085 a.C.),
quando i confini dell'impero andavano dalla Libia all'Etiopia al Medio
Oriente. L'antico Egitto conobbe anche momenti di debolezza e di
polverizzazione del potere come avvenne nei tre Periodi Intermedi, nel
secondo dei quali l'Egitto cadde sotto il controllo dei dominatori detti
Hyksos.
Con Periodo predinastico dell'Egitto si intende la fase precedente alla
formazione
dello
stato
unitario
egiziano.
La
fase
comincia
indefinitamente nella preistoria e arriva fino al 3100 a.C., il paese è
suddiviso nei due regni del Basso Egitto e Alto Egitto.
Le prime comunità agricole si stabiliscono presto nel Delta del Nilo e
nell'oasi del Fayyum, subendo nel Basso Egitto un'eccezionale sviluppo,
che porta, dalla metà del V millennio, alla nascita delle prime città.
Secondo alcuni studiosi, lo sviluppo delle attività legate all'agricoltura ha
permesso un'enorme crescita demografica; secondo altri, invece, è la
crescente
pressione
demografica
a
portare
ad
uno
sviluppo
dell'agricoltura. Aumenta anche la ricerca delle risorse minerarie del
Medio e dell'Alto Egitto, soprattutto oro, da parte di coloni che adorano
già Osiride e Horo, provocando al contempo un conflitto con le
popolazioni meridionali che adorano Seth.
Gli adoratori di Horo e quelli di Seth si scontrano dunque e sono i primi a
vincere. Si forma così un primo nucleo di regno, con capitale la città di
Ieraconpoli. L'Egitto è ora diviso in Alto e Basso Egitto, due regni distinti
e separati.
on Periodo Arcaico o Periodo Thinita (dal nome della città di Thinis
forse mutuato sul culto della dea Tanit, probabile città natale dei primi
sovrani, Narmer compreso, e capitale della prima nazione egizia unitaria,
per poco tempo prima del trasferimento a Menfi[2]) si intende l'arco di
tempo coperto dalle prime due dinastie egizie.
n dalle prime dinastie il re si afferma quale dio in terra, con la precisa
funzione di conservare maat "l'ordine", il sistema, anche cosmico, che da
lui dipende. Da qui deriva il regime faraonico, autocratico per diritto
divino, che accentra ogni funzione dello stato sul re e che, sia pure con
alternative e variazioni, si mantenne tale sino alla fine della civiltà
egiziana. L'affermazione del dogma faraonico ha la sua massima
espressione nell'Antico Regno e precisamente nella IV dinastia, quando
possiamo prendere a simbolo della straordinaria autorità regale e
dell'accentrato interesse sociale sul faraone in questo periodo le piramidi,
cioè i monumenti funerari dei faraoni di quella dinastia: Cheope, Khefren
e Micerino.
La polis
Le poleis erano piccole comunità autarchiche, rette da governi autonomi;
una sorta di piccoli stati indipendenti l'uno dall'altro. Il carattere
autonomo delle poleis deriverebbe dalla conformazione geografica del
territorio greco, che impediva facili scambi tra le varie realtà urbane
poiché prevalentemente montuoso. Spesso, le varie poleis erano in lotta
tra loro per l'egemonia del territorio greco; ne è un esempio la celebre
rivalità fra Sparta e Atene.
Apparsa intorno all'VIII secolo a.C., la polis fu il vero e proprio centro
politico, economico e militare del mondo greco. Ogni polis era
organizzata autonomamente, secondo le proprie leggi e le proprie
tradizioni. Vi furono esempi di poleis dal regime politico democratico,
come Atene, e oligarchico, come Sparta.
L'indipendenza e la mancata unità delle poleis furono le cause principali
della loro caduta. Il re macedone Filippo II e suo figlio Alessandro
Magno infatti sfruttarono a loro vantaggio le lotte interne fra le città stato
per dominarle e sottometterle. Anche in Italia meridionale, nella Magna
Grecia, le poleis caddero sotto il dominio di Roma tra il IV secolo a.C. e
il III secolo a.C. proprio per le lotte interne e la loro disunione.
Nel 900 a.C. in Grecia si conobbe un aumento dell'uso del ferro, che ne
conseguì un miglioramento della sua lavorazione e permise un aumento
demografico. Quindi i popoli non potevano più vivere in villaggi di
difficile accesso, sperduti e in mezzo alle montagne, ma dovevano
organizzarsi per difendersi dagli attacchi esterni e bisognava accumulare
provviste per le carestie, così avvenne un rifacimento della struttura
urbana.
La polis comprendeva sia il centro urbano, cinto da mura e costituito
dall'acropoli, dall'agorà (ἀγορὰ, "piazza") e dalle abitazioni, sia il
territorio circostante: la cosiddetta chora , dal greco "regione".
La parte bassa della città era chiamata asty ed era di norma la parte delle
abitazioni più povere, dove vivevano contadini ed artigiani che però a
volte diventavano così ricchi grazie al commercio intenso, e la zona così
vasta da essere più prestigiosa della parte alta (definita a volte anche solo
polis).
L'acropoli, la parte alta della città, era il fulcro della vita religiosa della
polis, mentre l'agorà (la piazza), situata solitamente più in basso e rivolta
verso l'esterno e i porti, era il cuore pulsante della città; il suo centro
politico, economico e sociale. Nell'agorà, infatti, vi erano edifici con
funzioni prettamente politiche (bouleuterion, ekklesiasterion, pritaneo,
ma anche strutture destinate allo svolgimento delle attività commerciali e
finanziarie (botteghe e cambiavalute), i tribunali, gli impianti ricreativi
(dromos, orchestra), e alcuni edifici religiosi con una forte valenza civica
(vedi gli heroon). La chora, la parte fuori dalle mura, era il luogo dove i
contadini coltivavano i campi e si dedicavano all'agricoltura. Anche se
era fuori dalle mura, la chora non era meno importante dell'acropoli:
infatti i greci avevano uno stretto rapporto con la terra e non svilivano in
nessun caso il lavoro dei contadini.
Le strade principali, che univano l'agorà, i santuari, le porte della città,
avevano un aspetto monumentale ed erano lastricate con grande cura. Per
il resto, la rete stradale era fatta di stradine piccole, che consentivano a
malapena il transito dei pedoni e degli animali da soma. Questo perché le
attività economiche (artigianato e commercio) e quelle residenziali erano
concentrate in aree specifiche. Questo assetto urbanistico riduceva il
traffico dei quartieri residenziali.
Oltre all'unità territoriale, però, le poleis erano caratterizzate da un'unità
sociale ed una strettamente politica: si trattava, infatti, di un gruppo di
cittadini che si dotava di leggi che si impegnava a rispettare. I cittadini,
dunque, non erano più sudditi come nelle società antecedenti, ma
esercitavano il proprio potere eleggendo i rappresentanti (magistrature)
ed intervenendo durante le assemblee.
Sparta
Sparta (in greco moderno Σπάρτη, Sparti; in dorico Σπάρτα, Spártā) o
più comunemente nel mondo antico, Lacedemone, è una città della
Grecia situata nel Peloponneso meridionale, sulla destra del fiume Eurota
tra i rilievi del Parnone a est e del Taigeto a ovest. Fra le protagoniste
della storia della Grecia antica, principale polis rivale di Atene, oggi è
una città di circa 18.000 abitanti, capoluogo del nomo della Laconia,
modesto centro industriale e commerciale.
Della città antica, che sorgeva nelle immediate vicinanze della Sparta
attuale, sono rimasti pochi reperti archeologici: i resti di un santuario
dedicato ad Artemide Orthia, risalente all'inizio del IX secolo,
dell'acropoli con il tempio ad Atena Chalkioikos e di un teatro di epoca
ellenistico-romana. L'espansione di Sparta in Laconia sarebbe iniziata
nell'VIII secolo, sotto la guida dei re Archelao e Carillo (ca 770-760)
annettendo il territorio lungo il corso settentrionale dell'Eurota e poi,
«durante il regno di Teleclo [ ... ] non molto prima della Guerra
messenica», [3] e cioè verso il 750, con la colonizzazione di Pharis e
Geronthrai e l'annessione di Amicle e dei suoi abitanti nella comunità
spartana [4] che consentì la rapida annessione di tutta la valle meridionale
dell'Eurota, avvenuta dopo il 740 al comando del re Alcamene, compresa
la città di Elo, i cui abitanti furono resi schiavi. Dal nome della città
avrebbe avuto origine, secondo la tradizione greca, il termine di Iloti. [5]
L'eventuale espansione di Sparta a oriente e sul mare avrebbe dovuto
scontrarsi con la potenza di Argo; fra la montagnosa Arcadia, a nord, e la
pianura della Messenia, ad occidente, gli Spartani scelsero quest'ultima,
«buona da lavorare e da piantare», come nota Tirteo. Prendendo a
pretesto l'assassinio di re Teleclo (740) attribuito ai Messeni, e assistita da
mercenari cretesi e corinzi - mentre la Messenia beneficiava del sostegno
delle tribù arcadiche, di Argo e di Sicione - Sparta iniziò una guerra
ventennale (la prima guerra messenica) che si concluse con la caduta
dell'ultimo bastione messenico del monte Itome intorno al 715 a.C.).
Alcuni aristocratici messeni fuggirono [6] in Arcadia [7] mentre la massa
della popolazione fu costretta a versare metà della sua produzione
agricola ai nuovi padroni. Tirteo, che è la nostra principale fonte
sull'argomento, scrive che: «Come asini sotto una pesante soma, erano
costretti a trasportare per i loro padroni la metà di tutte le messi che un
campo poteva produrre»[8] Non vi fu un'occupazione militare e una
cinquantina d'anni dopo i nuovi tributari insorsero, approfittando della
sconfitta subita da Sparta a Ilie nel 669 per mano di Argo, che aveva
compreso da tempo la pericolosità dell'espansionismo spartano. La
seconda guerra messenica durò una decina di anni e si concluse con
l'annessione di gran parte del territorio della Messenia e la riduzione dei
suoi abitanti alla condizione di Iloti; solo le città costiere mantennero una
relativa indipendenza prendendo lo statuto di città periecie.
La conquista della Messenia influenzò tutta la politica spartana. A
differenza delle altre città greche, che sopperivano alla mancanza di terre
colonizzando i territori d'oltremare, Sparta - a parte l'episodio della
colonizzazione di Taranto nel 708 - dedicò tutte le sue energie allo
sfruttamento della nuova ricchezza che l'aveva resa la città più potente del
Peloponneso.
Durante la seconda guerra messenica l'esercito spartano adottò una nuova
tecnica militare, nella quale raggiunse l'eccellenza, basata sull'impiego di
opliti schierati in formazione chiusa. Questa tattica, nella quale erano
essenziali il coordinamento e la disciplina e non le iniziative individuali,
influenzò profondamente la cultura spartana. L'ordinamento dello stato
spartano che conosciamo in epoca classica è in misura significativa il
risultato dell'organizzazione delle formazioni oplitiche.
Dopo la definitiva sottomissione della Messenia, i potenziali rivali ai
confini di Sparta erano l'Arcadia e Argo; alla metà del VI secolo a.C.
Sparta sconfisse la più importante delle città arcadiche, Tegea. Gli
Spartani non ridussero gli abitanti allo stato di iloti, ma preferirono
stringere alleanza con Tegea e altre città dell'Arcadia, impegnandole ad
"avere gli stessi amici e nemici dei Lacedemoni". Nasceva così il primo
embrione di quella che sarà la Lega Peloponnesiaca. La posizione di
Sparta nel Peloponneso si rafforzò ulteriormente dopo un'importante
vittoria su Argo ottenuta intorno al 546 a.C., che le consentì di
impadronirsi della regione nord-orientale della Cinuria e della fascia
costiera fino a Capo Malea.
A metà del VI secolo a.C. Sparta aveva raggiunto lo status di potenza
regionale, avviata verso l'egemonia del Peloponneso, e il tipico
ordinamento, che la rese famosa nel mondo greco e nel ricordo delle
epoche successive.
Guerre Persiane
Con il termine Guerre Persiane si definisce la sequenza di conflitti
combattuti tra le poleis greche e l'Impero Persiano, iniziati intorno al 500
a.C. e continuati a più riprese fino al 449 a.C.
Alla fine del VI secolo a.C., Dario I, "Gran Re" dei Persiani, regnava su
un impero immenso che si estendeva dall'India alle sponde orientali
dell'Europa (nello specifico le zone orientali della Tracia). Nel 546 a.C.
infatti, il suo predecessore, Ciro il Grande, fondatore dell'impero, aveva
sconfitto il re della Lidia, Creso, e i suoi territori, comprendenti le colonie
greche della Ionia, furono incorporate all'Impero Achemenide.
Le città stato ancora governate da sistemi tirannici condussero ognuna per
proprio conto l'annessione all'impero persiano, la sola Mileto riuscì a
imporre le proprie pretese. Questa situazione di frammentazione aveva
comportato la perdita definitiva da parte delle colonie di ogni
indipendenza (prima godevano comunque di ampie autonomie) e una
drastica riduzione della loro importanza commerciale, a causa del
controllo totale che i Persiani esercitavano sugli stretti di accesso al Mar
Nero.
Nel 492 a.C. Mardonio tentò l'impresa della conquista greca, dopo aver
eliminato tutti i tiranni nelle poleis asiatiche e soggiogato il regno di
Alessandro I di Macedonia, ma fallì a causa di una terribile tempesta
presso il monte Athos, nella penisola calcidica, che distrusse la flotta.
Nonostante l'insuccesso, nel 490 a.C. la spedizione fu ritentata sotto il
comando del generale Dati e di Artaferne. La flotta persiana passò per
Samo, espugnò Nasso, sottomise il resto delle isole Cicladi e proseguì
verso Eretria e la distrusse. Atene a quel punto si ritrovò da sola a
fronteggiare l'esercito persiano: l'unico aiuto che ricevette fu quello della
città beotica di Platea, che inviò un contingente di mille opliti. Grazie alle
capacità militari di Milziade riuscì a resistere alle truppe guidate da Dati e
i Persiani furono sconfitti nella Battaglia di Maratona e respinti sulle
navi. Secondo il mito l'esito positivo di questo scontro fu riportato
direttamente dal campo di battaglia ad Atene da Filippide: la sua impresa
che consisté nel ricoprire tale distanza correndo è ricordata ancor oggi
con, appunto, la gara atletica della maratona. A quel punto, il resto delle
truppe persiane capitanato da Artaferne e pronto per un attacco via mare,
pensò di sfruttare l'occasione: la flotta mosse verso Atene, doppiando
Capo Sunio, con la sicurezza di poter sbarcare incontrastata al Pireo e
trovare Atene indifesa, visto che tutto l'esercito si trovava a Maratona.
Milziade, però, intuito il piano nemico, ricondusse i suoi uomini a marce
forzate verso la costa occidentale, così che, quando i Persiani arrivarono
in vista del Pireo, trovarono l'esercito ateniese già schierato e
rinunciarono all'impresa, tornando in Persia.
La polis a quel punto decise di intraprendere, nel 489 a.C., una spedizione
per liberare le isole Cicladi dai Persiani, ma con esito negativo, poiché
l'isola di Paros, alleata dei Persiani,resistette. La sconfitta costò a
Milziade la carriera; fu anche accusato di complicità con il nemico e di
aspirare alla tirannide, e subito dopo morì.
Pericle
Nel conflitto instauratosi ad Atene tra il partito aristocratico-conservatore,
guidato da Cimone, fautore di una politica filo-spartana, e quello
democratico, capeggiato da Efialte, Pericle si schierò con quest'ultimo.
Quando nel 462 a.C. l'invio di truppe in soccorso degli spartani assediati
alla rocca di Itome si rivelò un disastro, Cimone fu esautorato ed Efialte e
Pericle ne approfittarono per esautorare l'areopago a favore della bulè e
della ecclesia.
Nel 461 a.C., in seguito dell'ostracismo di Cimone e della morte di
Efialte, Pericle divenne la figura principale della scena politica ateniese.
Pericle fece approvare una legge che istituì la mistoforia, cioè il
pagamento di un'indennità giornaliera a coloro che ricoprivano cariche
pubbliche. Tutti i cittadini dell'Attica ebbero la possibilità di presentarsi
candidati e di svolgere, una volta eletti, l'incarico loro affidato. Pericle
attuò una politica sociale che prevedeva l'istruzione degli orfani, il
pagamento di pensioni ai mutilati di guerra e agli invalidi, l'ingresso
gratuito a teatro per i poveri, una paga regolare ai soldati e marinai e una
razione di viveri. Tali modificazioni sono state ripetutamente dibattute e
contestate poiché, di fatto, la remunerazione trasformava i cittadini in
funzionari facendo perdere alla partecipazione il suo carattere di
privilegio personale; tuttavia tale opera giovò alla polis poiché, con i
soldi della Lega, Atene finanziava la sua amministrazione.
Nel 451 a.C. propose la legge per cui potevano diventare cittadini ateniesi
solamente coloro i quali avessero entrambi i genitori con la cittadinanza.
Molte furono le opere pubbliche che Pericle promosse grazie anche ai
tributi della lega delio-attica, come l'ingrandimento del Pireo, fortificando
la strada che lo collegava alla città, e l'abbellimento dell'Acropoli di
Atene con l'edificazione del Partenone, dei Propilei, dell'Eretteo e del
tempio di Atena Nike.
Alessandro Magno
Alessandro Magno (greco: Μέγας Ἀλέξανδρος, Mégas Aléxandros),
ufficialmente Alessandro III (greco: Ἀλέξανδρος Γ' ὁ
Μακεδών,
Aléxandros trίtos ho Makedόn; Pella, 6 ecatombeone 356 a.C. –
Babilonia, 30 targelione 323 a.C.) è stato un condottiero antico
macedone, re di Macedonia a partire dal 336 a.C. È considerato uno dei
più celebri conquistatori e strateghi della storia.
È conosciuto anche come Alessandro il Grande, Alessandro il
Conquistatore o Alessandro il Macedone. Il termine "magno" deriva dal
latino magnus che significa per l'appunto "grande", che in greco antico è
"mégas".
In soli dodici anni il celeberrimo condottiero conquistò l'Impero Persiano,
l'Egitto ed altri territori, spingendosi fino agli attuali Pakistan,
Afghanistan e India settentrionale.
Le sue vittorie sul campo di battaglia, accompagnate da una diffusione
universale della cultura greca e dalla sua integrazione con elementi
culturali dei popoli conquistati, diedero l'avvio al periodo ellenistico della
storia greca.
Il suo straordinario successo, già durante la sua vita ma ancor più dopo la
sua morte, ispirò una tradizione letteraria in cui egli appare come un eroe
mitologico, assimilato ad Achille, da cui vantava una discendenza.
Morì a Babilonia il 30 del mese di daisios (targelione) del 323 a.C., forse
avvelenato, oppure per una recidiva della malaria che aveva contratto in
precedenza.
Dopo la morte, il suo impero fu suddiviso tra i generali che lo avevano
accompagnato nella sua spedizione e si costituirono i regni ellenistici, tra
cui quello tolemaico in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e
quello dei Seleucidi in Siria, Asia Minore, e negli altri territori orientali.
La vita e la figura di Alessandro Magno hanno presto assunto colorazioni
mitiche. Le storie a lui riferite si ritrovano non solo nelle letterature
occidentali: nella Bibbia (Primo libro dei Maccabei), ad esempio, si fa
esplicito riferimento ad Alessandro, mentre nel Corano il misterioso Dhu
al-Qarnayn (il Bicorne o letteralmente "Quello dalle due corna") viene
per lo più identificato con lui.
Alessandro era figlio del re Filippo II di Macedonia e della moglie,
Olimpiade, principessa di origine epirota; dal ramo paterno vantava una
discendenza da Eracle, mentre dalla parte materna egli annoverava tra i
suoi antenati l'eroe omerico Achille.
Secondo la leggenda, in parte da lui stesso alimentata dopo essere salito
al trono, e riferita da Plutarco, il suo vero padre sarebbe stato lo stesso dio
Zeus.
All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia che l'Epiro erano
ritenuti stati semibarbari, alla periferia settentrionale del mondo greco.
Filippo volle dare al figlio un'educazione greca (precisamente atticaateniese) e, dopo Leonida e Lisimaco di Acarnania, scelse come suo
maestro nel 343 a.C. il filosofo greco Aristotele, che lo educò,
insegnandogli la scienza e l'arte, gli preparò appositamente un'edizione
annotata dell'Iliade e gli restò legato, come amico e confidente, per tutta
la vita.
Si narra che il giovane Alessandro, all'età di dodici o tredici anni,
manifestasse la propria straordinaria natura riuscendo a domare da solo il
cavallo Bucefalo, regalatogli dal padre Filippo II di Macedonia: avendo
infatti notato che il cavallo era spaventato dalla propria ombra, lo mise
col muso rivolto verso il sole prima di montargli in groppa.
L'unicità del personaggio si riscontra persino in una sua singolare
caratteristica fisica: aveva, infatti, un occhio di colore azzurro e l'altro
nero.
Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione del padre contro
Bisanzio gli fu affidata la reggenza in Macedonia. L'anno successivo (339
a.C.) Filippo ebbe una seconda moglie, Euridice (nipote del suo generale
Attalo), ma Olimpiade restò con il titolo di regina.
Nel 338 a.C. Alessandro guidò la cavalleria macedone nella battaglia di
Cheronea.
Nel 336 a.C. Filippo venne assassinato da un ufficiale della sua guardia di
nome Pausania, durante le nozze della figlia Cleopatra con il re
Alessandro I d'Epiro; Pausania venne immediatamente ucciso dalle
guardie macedoni dopo l'assassinio del sovrano. Seguendo il racconto
tradizionale di Plutarco, sembrerebbe che della congiura fossero a
conoscenza, se non direttamente coinvolti, sia Olimpiade che Alessandro,
venuto in contrasto con il padre a causa del suo divorzio dalla madre; è
inoltre possibile che l'assassinio sia stato istigato dal re di Persia Dario
III, appena salito sul trono.
Secondo Aristotele, Pausania, amante di Filippo, avrebbe ucciso il re
macedone perché oltraggiato dai seguaci di Attalo, zio della nuova
moglie Euridice. Il fatto che esistessero complici, in attesa di Pausania in
fuga, depone tuttavia a favore dell'esistenza di un complotto organizzato e
non semplicemente di un episodio legato a faccende private (teoria
ancora da valutare). Dopo la morte di Filippo, Alessandro, all'età di 20
anni, fu acclamato re dall'esercito ed immediatamente si occupò di
consolidare il suo potere, facendo sopprimere i possibili rivali al trono.
Perirono Aminta, figlio di Perdicca III di cui Filippo era stato tutore,
diversi fratellastri di Alessandro ed Euridice, la giovane moglie di
Filippo, il cui zio Attalo fu raggiunto da un sicario in Asia Minore.
Consolidato il suo potere in Macedonia, egli cominciò ad espandere la
propria autorità nei Balcani cominciando dai Greci. Arrivato a Larissa,
egli ribadì ai Tessali le proprie buone intenzioni nei loro confronti
offrendosi come protettore nei confronti dei Persiani. Ad un'assemblea
della Lega Tessalica, Alessandro fu eletto capo, gli venne affidata
l'amministrazione delle entrate e gli fu promesso l'appoggio nella Lega
Ellenica. Successivamente gli stati greci nella Lega di Corinto, eccetto
Sparta, proclamarono Alessandro comandante delle loro forze contro la
Persia.
Appoggiato da tutti i Greci, Alessandro avviò la campagna dei Balcani
contro i Triballi e gli Illiri ed avanzando nella Tracia sterminò quasi
completamente tutti i suoi nemici. Egli trascorse quasi 4 mesi nei Balcani
orientali prima di puntare a ovest ed entrare nel territorio degli agriani.
Clito, figlio di Bardilo II, che regnava in quello che è l'odierno Kosovo
sui Dardani e Glaucia, re dei Taulanti (presso Tirana), erano in rivolta.
Saputo ciò Alessandro raccolse tutti i suoi uomini: circa 25000 fanti e
5000 cavalieri. La battaglia cruciale si combatté a Pelio, occupata da
Clito e fu vinta grazie ad una mossa geniale di Alessandro nel "Passo del
lupo". In Grecia, tuttavia, si sparse la voce che Alessandro fosse rimasto
ucciso in battaglia, e questa notizia provocò una nuova ribellione delle
province greche , alimentata dai Persiani. Con una marcia rapidissima di
più di 200 km, Alessandro raggiunse Tebe, la circondò e la rase al suolo,
risparmiando solamente i templi e la casa del poeta Pindaro, ottenendo la
sottomissione completa delle altre città, eccetto Sparta. Nel 324 a.C. il re
con l'esercito riunito fece ritorno a Susa. Qui scoprì la cattiva
amministrazione dei molti satrapi da lui un tempo "graziati" e
comandanti. Il re procedette energicamente contro i colpevoli e sostituì
molti satrapi locali con governatori macedoni.
Per perseguire l'unione tra Greci e Persiani spinse ottanta alti ufficiali
macedoni alle nozze con nobili persiane e altri diecimila veterani si
sposarono con donne della regione. Egli stesso impalmò Statira, figlia di
Dario, mentre un'altra figlia del gran re persiano, Dripeti, andava in sposa
al suo amico Efestione.
Passò per la prima volta in rassegna il nuovo corpo militare di 30.000
giovani persiani, accuratamente scelti ed addestrati a formare una falange
macedone. Diecimila veterani furono congedati e rimandati in Macedonia
con Cratero, destinato a sostituire Antipatro che era venuto in contrasto
con la madre di Alessandro, Olimpiade. Questi doveva ora recarsi in Asia
con nuove reclute.
Durante l'inverno la corte si ritirò ad Ecbàtana secondo il costume della
corte persiana e qui morì Efestione, per il quale Alessandro soffrì
terribilmente. Rase al suolo un villaggio vicino passando alla spada tutti i
suoi abitanti come "sacrificio nei suoi confronti" e rimase a lutto per sei
mesi; inoltre progettò un grandioso monumento funerario mai finito.
Nella primavera del 323 a.C. Alessandro condusse una spedizione contro
il popolo montanaro dei Cossei ed inviò una spedizione per esplorare le
coste del Mar Caspio.
Una misteriosa malattia lo colse durante i preparativi per avviare l'
occupazione dell' Arabia e la costruzione di una flotta con cui intendeva
attaccare i domini cartaginesi, portandolo alla morte il 10 giugno del 323
a.C., al tramonto. Così morì Alessandro, a quasi trentatré anni, nel
tredicesimo anno del suo regno. Nel testamento commissionava la
costruzione di templi magnificenti in diverse città, la costruzione di un
mausoleo intitolato a Filippo che avrebbe dovuto rivaleggiare con le
piramidi in imponenza, la prosecuzione dell'unione fra persiani e greci, la
conquista dei territori cartaginesi (Libia, Nord'Africa, Sicilia e Spagna),
l'espansione verso occidente e la costruzione di una lunga strada in Africa
che passasse lungo tutto la costa; ma i suoi successori ignorarono molto
del testamento ritenendolo eccessivamente megalomane ed infattibile.
Sulle cause della sua morte sono state proposte varie teorie, che
includono l'avvelenamento da parte dei figli di Antipatro o da parte della
moglie Rossane, o più probabilmente una ricaduta della malaria che
aveva contratto nel 336 a.C.
Ebbe due figli: Eracle di Macedonia, nato nel 327 a.C. da Barsine, figlia
del satrapo Artabazus di Frigia, e Alessandro IV di Macedonia, figlio
della moglie Rossane, nato nel 323 a.C. Gli storici successivi gli
attribuirono anche numerosi amanti, tra i quali l'amico Efestione e
Bagoas.
Le origini di roma
La data della fondazione di Roma è stata fissata al 21 aprile dell'anno
753 a.C. (Natale di Roma) dallo storico latino Varrone, sulla base dei
calcoli effettuati dall'astrologo Lucio Taruzio.
I Romani avevano elaborato un complesso racconto mitologico sulle
origini della città e dello stato, che ci è giunto attraverso le opere storiche
di Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco e quelle poetiche di
Virgilio e Ovidio, quasi tutti appartenenti all'età augustea. In quest'epoca
le leggende riprese da testi più antichi vengono rimaneggiate e fuse in un
racconto unitario, nel quale il passato mitico viene interpretato in
funzione delle vicende del presente.
I moderni studi storici e archeologici, che si basano sia su queste ed altre
fonti scritte, sia sugli oggetti e i resti di costruzioni rinvenuti in vari
momenti negli scavi, tentano di ricostruire la realtà storica che sta dietro
al racconto mitico, nel quale man mano si sono andati riconoscendo
alcuni elementi di verità.
Nell'Iliade, Enea durante il duello con Achille viene salvato dal dio
Poseidone, che ne profetizza il futuro regale. Questo vaticinio e il fatto
che non ne sia narrata la morte nelle vicende della caduta della città di
Troia, permise la creazione delle leggende sulla sorte successiva dell'eroe.
Nell'Iliou persis di Arctino di Mileto, della metà dell'VIII secolo a.C., si
racconta la sua partenza verso il monte Ida, mentre nell'Inno omerico ad
Afrodite, della fine del VII secolo a.C., Enea viene visto regnare sulla
nuova Troia ricostruita, al posto della stirpe di Priamo. Anche la città di
Ainea nella penisola calcidica si riteneva fondata da Enea e una moneta
cittadina della fine del VI secolo a.C. rappresenta la fuga dell'eroe da
Troia. Con Stesicoro, nel VI secolo a.C., viene introdotto il viaggio di
Enea verso l'Occidente. Il testo letterario non ci è giunto, ma ne rimane
testimonianza nelle raffigurazioni con "didascalie" della Tabula Iliaca
(rilievo proveniente da Boville nei Musei Capitolini di Roma, databile al
I secolo d.C.).
Nel V secolo a.C. i Greci crearono quindi probabilmente la leggenda
della fondazione di Roma da parte di Enea: Dionigi di Alicarnasso ci
riporta il racconto di Ellanico di Lesbo e di Damaste di Sigeo che
avevano preso a modello le altre fondazioni di città greche attribuite agli
eroi omerici. Viene anche inventata un'eroina troiana che avrebbe dato il
suo nome alla nuova città ("Rome").
La presenza di raffigurazioni del mito di Enea su oggetti rinvenuti in
centri etruschi tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. ha fatto
ipotizzare in alternativa che il mito si sia sviluppato in quest'epoca in
Etruria.
La relazione di Enea con Lavinia viene introdotta, alla fine del IV secolo
a.C., da Timeo di Tauromenio, che, come testimoniato nuovamente da
Dionigi di Alicarnasso, racconta di avervi visto con i suoi occhi i Penati
troiani. Il legame con Lavinio è testimoniato anche dal poeta Licofrone.
Si tratta forse di un mito di fondazione di origine latina o romana,
attestato anche archeologicamente: un tumulo funerario, databile in
origine al VII secolo a.C., mostra un adeguamento a funzioni di culto
proprio alla fine del IV secolo a.C. e corrisponde ad una descrizione di
Dionigi di Alicarnasso del cenotafio dell'eroe, costruito nel luogo in cui
era scomparso (rapito in cielo) nel corso di una battaglia.
Nel VI-V secolo a.C. lo storico siceliota Alcimo da Messina descrive per
primo il mito della fondazione della città, con la lupa che salva ed alleva i
due gemelli discendenti di Enea.
Tra il IV e il III secolo a.C. infatti, dopo una lunga elaborazione di
molteplici materiali tradizionali, tra cui ebbe forse particolare peso quello
di origine gentilizia (le "storie di famiglia" del patriziato), viene a
delinearsi il racconto della fondazione della città da parte di Romolo e
Remo. Questa"gestazione"della leggenda e la selezione dei materiali della
tradizione, fino a quel momento probabilmente trasmessi essenzialmente
per via orale, dipende fortemente dal contesto contemporaneo: Roma
deve poter essere accolta nel mondo culturale greco, minimizzando
invece l'apporto etrusco. La storia arcaica di Roma, a partire dalla sua
fondazione viene quindi riferita da Fabio Pittore (che scrive in greco) e
sarà ripetuta nelle Origines di Catone, negli scritti di Calpurnio Pisone e
negli Annales di Ennio.
Ad Eratostene di Cirene si deve l'invenzione della dinastia regale di Alba
Longa, a coprire lo scarto cronologico tra la data della caduta di Troia,
agli inizi del XII secolo a.C., e la tradizionale data di fondazione della
città, alla metà dell'VIII secolo a.C. Secondo Ennio, Romolo e Remo
sono invece figli della figlia di Enea, di nome Ilia. Saranno infine Catone
il Censore, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Appiano e Cassio Dione a
narrare la leggenda così come è conosciuta dell'Eneide di Virgilio. Questi
aggiunge tuttavia alle peregrinazioni dell'eroe la sosta presso la regina
Didone, che rappresenta la spiegazione mitica dell'ostilità tra Roma e
Cartagine.
La repubblica.
La Repubblica romana (Res publica Populi Romani) fu il sistema di
governo della città di Roma nel periodo compreso tra il 509 a.C. ed il 27
a.C., quando l'urbe era amministrata da una repubblica oligarchica.
Nacque a seguito di contrasti interni che portarono alla fine della
dominazione etrusca sulla città, ed al parallelo decadere delle istituzioni
monarchiche. La sua fine viene invece convenzionalmente fatta
coincidere, circa mezzo millennio dopo, con la fine di un lungo periodo
(circa un secolo) di guerre civili che segnò de facto (benché formalmente
non avvenne una riforma istituzionale) la fine della forma di governo
repubblicana a favore di quella del Principato.
La Repubblica rappresenta una fase lunga, complessa e decisiva della
storia romana: costituì un periodo di enormi trasformazioni per Roma,
che da piccola città stato quale era alla fine del VI secolo a.C. divenne,
alla vigilia della fondazione dell'Impero, la capitale di un vasto e
complesso Stato, formato da una miriade di popoli e civiltà differenti,
avviato a segnare in modo decisivo la storia dell'Occidente e del
Mediterraneo.
In questo periodo si inquadrano la maggior parte delle grandi conquiste
romane nel Mediterraneo ed in Europa, soprattutto tra il III ed il II secolo
a.C.; il I secolo a.C. è invece, come detto, devastato dai conflitti intestini
catalizzati dai mutamenti sociali, ma è anche il secolo di maggiore
fioritura letteraria e culturale, frutto dell'incontro con la cultura ellenistica
e riferimento "classico" per i secoli successivi.
poteri che erano riservati al re (comando dell'esercito, potere giudiziario e
massima autorità religiosa) furono assegnati a due consoli e, per quanto
riguarda l'ambito religioso, al pontifex maximus. Con la progressiva
crescita di complessità dello Stato romano si rese necessaria l'istituzione
di altre cariche (edili, censori, questori, tribuni della plebe) che andarono
a costituire le magistrature.
Per ognuna di queste cariche venivano osservati tre principi: l'annualità,
ovvero l'osservanza di un mandato di un anno (faceva eccezione la carica
di censore, che poteva durare fino a 18 mesi), la collegialità, ovvero
l'assegnazione dello stesso incarico ad almeno due uomini alla volta,
ognuno dei quali esercitava un potere di mutuo veto sulle azioni dell'altro,
e la gratuità. Ad esempio, se l'esercito romano scendeva in campo sotto il
comando dei due consoli, questi alternavano i giorni di comando. Mentre
i consoli erano sempre due, gran parte degli altri incarichi erano retti da
più di due uomini - nella tarda Repubblica c'erano 8 pretori all'anno e 20
questori.
Tra i magistrati una importante distinzione era quella tra magistrati dotati
di imperium (cum imperio; ne facevano parte solo consoli, pretori e
dittatori) e quelli che ne erano sprovvisti (sine imperio, tutti gli altri); ai
primi erano affiancate delle speciali guardie, i littori. Nel tempo, per
amministrare i nuovi territori di conquista senza dover moltiplicare il
numero dei magistrati in carica, fu istituita la figura del promagistrato
(proconsole, propretore), dotato della stessa autorità del magistrato di
riferimento ma formalmente non tale.
Il secondo pilastro della repubblica romana erano le assemblee popolari,
che avevano diverse funzioni, tra cui quella di eleggere i magistrati e di
votare le leggi. La loro composizione sociale differiva da assemblea ad
assemblea; tra queste l'organo più importante erano comunque i comizi
centuriati, in cui il peso nelle votazioni era proporzionale al censo,
secondo un meccanismo (quello della divisione delle fasce censitarie in
centurie) che rendeva preponderante il peso delle famiglie patrizie.
Ciononostante il peso della plebe veniva comunque ad essere accentuato
rispetto al periodo monarchico, in cui esisteva un solo organo
assembleale (i comizi curiati) costituito da soli patrizi. L'accesso della
plebe all'esercito sancito dalla riforma centuriata, varata all'inizio del
periodo repubblicano, spinse il ceto popolare a pretendere maggiori
riconoscimenti, che nell'arco di due secoli (vedi più avanti) vide tra l'altro
la costituzione della magistratura di tribuno della plebe, eletto dal
concilio della plebe.
Il terzo fondamento politico della repubblica era il Senato, già presente
nell'età della monarchia.
Costituito da 300 membri, capi delle famiglie patrizie (Patres) ed ex
consoli (Consulares), aveva la funzione di fornire pareri e indicazioni ai
magistrati, indicazioni che poi divennero de facto vincolanti. Approvava
inoltre le decisioni prese dalle assemblee popolari.
Esisteva poi la carica di dittatore, che costituiva un'eccezione all'annualità
e alla collegialità. In periodi di emergenza (sempre militari) un singolo
dittatore veniva eletto con un mandato di 6 mesi in cui aveva da solo la
guida dello Stato. Eleggeva un suo collaboratore (che comunque gli
rimaneva subordinato) detto maestro della cavalleria. Caduto in disuso
dopo il periodo delle grandi conquiste, il ricorso a questo incarico tornerà
ad essere praticato nella fase della crisi della repubblica.
Le Guerre puniche
Le Guerre puniche furono una serie di tre guerre combattute fra Roma e
Cartagine tra il III e II secolo a.C., che si risolsero con la totale
supremazia di Roma sul Mar Mediterraneo; supremazia diretta nella parte
occidentale e controllo per mezzo di regni a sovranità limitata nell'Egeo e
nel Mar Nero. Sono conosciute come puniche in quanto i romani
chiamavano punici i cartaginesi. A sua volta il termine punico è una
corruzione di fenicio, come Cartagine è una corruzione del fenicio Karth
Hadash (città nuova).
Le due città, quasi "coetanee" (814 a.C. Cartagine), (753 a.C. Roma), per
lunghi secoli tennero un atteggiamento di reciproco rispetto anche se dai
trattati stipulati nel corso del tempo, traspare una certa tendenza probabilmente motivata - di Cartagine a sentirsi "superiore". Polibio ci
informa di quattro trattati fra Roma e Cartagine: 509 a.C., 348 a.C., 306
a.C., 279 a.C. L'ultimo è addirittura un'alleanza (anche se non stretta) in
funzione anti Pirro, re dell'Epiro, che imperversava prima nel sud Italia
chiamato da Taranto contro i romani e poi in Sicilia chiamato da Siracusa
contro i cartaginesi.
Proprio la sconfitta di Pirro a Maleventum sancì il definitivo ingresso di
Roma - che arrivò così a controllare saldamente tutta l'Italia peninsulare nel novero delle grandi potenze del Mediterraneo.
Proprio la precedente sconfitta di Pirro in Sicilia per opera dei cartaginesi
segnò la divisione dell'isola in due settori: a ovest i punici, a est Siracusa.
Quest'ultima città, per poter estendere il suo potere dovette rivolgersi
contro i Mamertini di Messina che inviarono ambasciatori per chiedere
aiuto a entrambe le città. Un'antica comunità di intenti, basata sulla
simmetria degli interessi (terrestri per Roma, navali per Cartagine) cessò
all'improvviso. Per 110 anni la guerra imperversò, gradualmente
estendendosi a tutto il Mediterraneo. Fino alla totale distruzione di uno
dei contendenti: Cartagine.
La Prima guerra punica (264 a.C. - 241 a.C.) fu principalmente una
guerra navale. Le richieste di soccorso dei Mamertini contro Siracusa
raggiunsero Roma e Cartagine. Roma, impegnata nella pacificazione del
territorio sannita e nell'inizio di espansione nella Pianura Padana era
riluttante a impegnarsi in Sicilia, Cartagine inviò subito una squadra
navale. La conquista di Messina gettava segnali favorevoli nella secolare
lotta con Siracusa; Cartagine poneva finalmente piede anche nel settore
orientale dell'isola. Probabilmente vedere Cartagine a poche miglia dalle
coste del Bruttium appena conquistato dovette creare qualche
apprensione nel Senato romano che acconsentì a inviare soccorsi a
Messina.
Questo andava contro il trattato del 279 a.C. che vietava gli interventi di
Roma in Sicilia. Cartagine dichiarò guerra. Visto il pericolo, si alleò con
la sua nemica storica, Siracusa, contro Roma ed i Mamertini.
La maggior parte della Prima guerra punica, comprese le battaglie più
decisive, fu combattuta in mare, uno spazio ben noto alle flotte
cartaginesi. Però entrambi i contendenti dovettero investire pesantemente
nell'allestimento delle flotte e questo diede fondo alle finanze pubbliche
sia
di
Roma
che
di
Cartagine.
All'inizio della guerra Roma non aveva nessuna esperienza di guerra
navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma
non esisteva una Marina. La prima grande flotta fu costruita dopo la
battaglia di Agrigentum del 261 a.C. Ma Roma mancava della tecnologia
navale e quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e
quinquiremi (navi che avevano ordini di due o tre remi e ciascun remo era
manovrato da più rematori) cartaginesi catturate. Per compensare la
mancanza di esperienza in battaglie con le navi, Roma equipaggiò le sue
con uno speciale congegno d'abbordaggio: il corvo che agganciava la
nave nemica e permetteva alla fanteria, trasportata, di combattere come
sapeva fare. In almeno due occasioni 255 a.C. e 253 a.C. intere flotte
furono distrutte dal maltempo. Il peso dei corvi sulle prode delle navi fu il
maggior responsabile dei disastri.
Tre battaglie terrestri di larga scala furono combattute durante questa
guerra. Nel 262 a.C. Roma assediò Agrigento in un'operazione che
coinvolse entrambi gli eserciti consolari (quattro legioni). Giunsero
rinforzi cartaginesi guidati da Annone. Dopo alcune schermaglie si venne
a una vera battaglia che fu vinta dai romani. Agrigento cadde.
La seconda operazione terrestre fu quella di Marco Attilio Regolo,
quando, fra il 256 a.C. e il 255 a.C. Roma portò la guerra in Africa.
Cartagine venne sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo da una grande
flotta romana appositamente approntata e le legioni di Attilio Regolo
sbarcarono in Africa. All'inizio Regolo vinse la battaglia di Adys.
Cartagine chiese la pace. I negoziati fallirono e Cartagine, assunto il
mercenario spartano Santippo, riuscì a fermare l'avanzate romana nella
battaglia
di
Tunisi.
La guerra fu decisa nella battaglia navale delle Egadi (10 marzo 241 a.C.)
vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo,
nel fazzoletto di mare che bagnava la roccaforte cartaginese Lilibeo.
Buona parte del relitto di una nave affondata in questa guerra, sono
conservati nel Museo Archeologico "Baglio Anselmi" di Marsala.
La Seconda guerra punica (219 a.C. - 202 a.C.) consistette
essenzialmente in una serie di battaglie terrestri. Spiccano le figure di
Annibale e Publio Cornelio Scipione detto successivamente per le vittorie
avute in Africa "l'Africano". Il casus belli scelto da Annibale fu la
sfortunata Sagunto. Alleata di Roma ma posta a sud dell'Ebro, cioè entro i
"confini" punici, la città fu assalita, assediata e distrutta (La città di
Sagunto aveva chiesto l'intervento di Roma ma il Senato era diviso
sull'intervento tanto che è rimasta celebre la frase "Mentre a Roma
discutono Sagunto cade"). Roma chiese a Cartagine di sconfessare
Annibale. Cartagine rifiutò e accettò la dichiarazione di guerra. Annibale
partì dalla Spagna con un esercito di circa 50.000 uomini, 6.000 cavalieri
e
37
elefanti.
Attraversate le Alpi, presumibilmente al passo del Moncenisio o del
Monginevro, Annibale giunse nella Pianura padana con più o meno metà
delle forze. Nell'ottica di portare dalla sua parte le tribù galliche in lotta
con Roma, combatté e sconfisse i Taurini, avversari degli Insubri che gli
si allearono assieme ai Boi. Con magistrale uso della cavalleria sconfisse
le forze romane in due importanti battaglie sul Ticino e sulla Trebbia.
L'anno successivo attraversò l'Appennino e batté seccamente le legioni di
Roma nella battaglia del Lago Trasimeno. Sapendo di non poter assediare
Roma prima di aver raccolto attorno a sé le popolazioni dell'Italia centrale
e meridionale si diresse verso la Puglia dove, a Canne, inferse una
tremenda sconfitta all'esercito romano. Ancora una volta non osò
attaccare Roma che già si aspettava l'assedio e si limitò a operare nelle
regioni
del
sud
Italia.
Roma, lentamente si riprese e adottando nuovamente la tattica del
dittatore Quinto Fabio Massimo, che poi prenderà il soprannome di
"cunctator" (temporeggiatore) per anni e con alterne fortune, combatté il
generale cartaginese restringendo sempre di più il territorio della sua
azione riconquistando man mano le città che Annibale conquistava, non
appena le condizioni militari o sociali lo consentivano. Così Capua,
Taranto, per citare le più importanti, passarono di mano da Roma ad
Annibale e di nuovo a Roma.
Nel frattempo Roma portava la guerra in Spagna, prima con i fratelli
Publio (padre dell'Africano) e Gneo Cornelio Scipione, e poi dopo la loro
morte con Publio Scipione (futuro Africano) che attaccarono Asdrubale e
Magone (fratelli di Annibale). La Spagna fu conquistata e Asdrubale
venne in Italia cercando di portare rinforzi al fratello. Al fiume Metauro
fu sconfitto e ucciso. Magone provò a muovere le tribù galliche della
Pianura Padana ma fu sconfitto e ferito. Richiamato in patria, morì per le
feritedurantelatraversata.
In maniera non determinante fu coinvolto anche il re Filippo V di
Macedonia che si alleò con Annibale e provò a combattere i romani i
quali si stavano espandendo nell'Illiria e quindi si avvicinavano ai suoi
territori. Roma mosse la sua diplomazia e le sue legioni riuscendo a
fermare i Macedoni senza grandi sforzi e aiutata dal re di Pergamo.
Altre figure importanti della seconda guerra punica sono i re numidi
Massinissa e Siface. Massinissa entrò in guerra come alleato di Annibale
e la terminò come alleato di Scipione. Specularmente, Siface era alleato
di Roma e finì la guerra come alleato di Cartagine.
Senza rifornimenti e rinforzi da Cartagine e senza riuscire a far sollevare
le popolazioni del centro Italia contro Roma, Annibale si ritrovò
praticamente assediato sui monti della Calabria dove, in seguito, gli
giunse l'ordine di Cartagine di tornare in Africa per portare aiuto contro
Publio Cornelio Scipione (Africano). Contrastando il volere del Senato,
guidato da Quinto Fabio Massimo che riteneva prioritario estromettere
Annibale dalla Penisola, Scipione, in qualità di proconsole della Sicilia e
aiutato dalle città italiche, partì per l'Africa attaccando direttamente
Cartagine. La città punica si vide costretta a richiamare Annibale che
rientrò in patria dopo 34 anni di assenza. Nel 202 a.C. a Zama, Scipione
volse contro Annibale la sua stessa strategia e lo sconfisse, determinando
la fine della Seconda guerra punica.
Non appena si seppe che i romani erano partiti con un esercito di 80.000
uomini e 4.000 cavalieri Cartagine capitolò, inviando 300 ostaggi scelti
fra gli adolescenti della nobiltà punica. L'esercito romano sbarcò vicino a
Utica, che si arrese.
I consoli ricevettero gli ambasciatori di Cartagine che dovettero accettare
le condizioni poste: Cartagine consegnò armature, catapulte e altro
materiale bellico. Resi inermi i cartaginesi, Censorino disse che la città
doveva essere distrutta e ricostruita 15 km all'interno. Il popolo
cartaginese si ribellò; furono uccisi tutti gli italici presenti in città, furono
liberati gli schiavi per avere aiuto nella difesa, furono richiamati
Asdrubale e altri esuli, fu chiesta una moratoria di 30 giorni per inviare
una delegazione a Roma. In questi 30 giorni, si ebbe una frenetica corsa
al riarmo. I cartaginesi riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500
lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne
offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi. Quando i romani
arrivarono alle mura di Cartagine trovarono un intero popolo stretto a
difesa della sua città. Fu posto l'assedio.
Cartagine era estremamente ben difesa. La sosta aveva dato ad
Asdrubale, posto a capo dell'esercito, la possibilità di raccogliere circa
50.000 uomini ben armati e l'assedio si protrasse. Nel 148 a.C. i nuovi
consoli furono inviati in Africa ma si rivelarono ancora più incapaci dei
predecessori. Gli insuccessi romani resero audaci i cartaginesi, Asdrubale
prese il potere con un colpo di stato e ordinò di esporre sulle mura i
prigionieri orrendamente mutilati. I romani, inaspriti, non avrebbero
concesso mercé.
Nel 147 a.C. Publio Cornelio Scipione Emiliano venne nominato console,
avendo come collega Caio Livio Druso. Asdrubale che difendeva il porto
con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a
Birsa.Scipione bloccò il porto da cui arrivavano i rifornimenti per gli
assediati. Questi scavarono un tunnel-canale e riuscirono a costruire
cinquanta navi ma Scipione distrusse la flotta e il tunnel-canale fu chiuso.
Nel frattempo Nefari fu attaccata da truppe romane e cadde; questo portò
la resa delle altre città. I romani si poterono concentrare su Cartagine.
L'agonia della città si protrasse per tutto l'inverno senza viveri e attaccata
da una pestilenza. Scipione non forzò l'attacco che venne lanciato solo nel
146a.C. I sopravissuti per quindici giorni impegnarono i romani in una
disperata battaglia per le strade della città. Ma l'esito era scontato. Gli
ultimi soldati si rinchiusero nel tempio di Eshmun altri otto giorni.
Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. Cartagine fu
rasa al suolo, bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto. Venne sparso
del sale a dimostrare che quel luogo era maledetto[e quindi inabitabile ed
incoltivabile. La terza guerra punica era terminata.
I Flavi
Vespasiano
Vespasiano era stato un Generale Romano di notevole successo ed aveva
amministrato molte parti esterne dell'Impero. Sua grande azione fu la
repressione della rivolta in Giudea. veva sostenuto la candidatura
imperiale di Galba; tuttavia alla sua morte, Vespasiano divenne il
maggior aspirante al trono. Dopo il suicidio di Otone, Vespasiano riuscì a
dirottare la fornitura invernale del grano per Roma, mettendosi in ottima
posizione per sconfiggere l'ultimo rivale, Vitellio. Il 20 dicembre 69,
alcuni sostenitori di Vespasiano occuparono Roma. Vitellio fu ucciso
dalle sue truppe, ed il giorno successivo il Senato confermò Imperatore
Vespasiano.
Vespasiano fu praticamente un autocrate, ed ebbe molto meno appoggio
dal Senato dei suoi predecessori Giulio-Claudii. Questo è esemplificato
dal fatto che lui stesso riferisce la sua salita al potere il 1º luglio quando
fu proclamato Imperatore dalle truppe, invece del 21 dicembre quando fu
confermato dal Senato. Egli volle, negli anni successivi, espellere i
Senatori a lui contrari.
Vespasiano riuscì a liberare Roma dai problemi finanziari creati dagli
eccessi di Nerone e dalle guerre civili. Aumentando le tasse in modo
drammatico (talvolta più che raddoppiate), egli riuscì a raggiungere una
eccedenza di bilancio ed a realizzare progetti di lavori pubblici. Egli fu il
primo committente del Colosseo e costruì un Foro il cui centro era il
Tempio della Pace.
Vespasiano fu inoltre effettivamente imperatore delle province. I suoi
Generale soffocarono ribellioni in Siria e Germania. Infatti in Germania
riuscì ad allargare le frontiere dell'Impero, e gran parte della Bretagna fu
portata sotto il dominio di Roma. Inoltre estese la cittadinanza romana
agli abitanti della Spagna.
Un altro esempio delle sue tendenze monarchiche fu la sua insistenza che
gli succedessero i figli Tito e Domiziano; il potere imperiale non era visto
allora come ereditario. Tito, che aveva avuto qualche successo militare
all'inizio del regno di Vespasiano, fu visto come il supposto erede al
trono; Domiziano era visto come meno disciplinato e responsabile. Tito
affiancò il padre nei compiti di censore e console e lo aiutò nel
riorganizzare i ruoli del Senato. Il 23 giugno 79, alla morte di
Vespasiano, Tito fu immediatamente confermato imperatore.
Tito
Il breve regno di Tito durato circa due anni fu segnato da numerosi
disastri: nel 79 l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano, e
nell'80 un incendio distrusse gran parte di Roma. Nello stesso anno poi si
diffuse una pestilenza. La sua generosità nella ricostruzione dopo le
tragedie, lo rese molto popolare. Tuttavia il Colosseo fu completato solo
durante il regno di Domiziano. Tito fu molto fiero dei suoi progressi nella
costruzione del grande anfiteatro cominciato dal padre.
Egli tenne la cerimonia inaugurale nell'edificio non ancora terminato
durante gli anni ottanta, con un grandioso spettacolo in cui si esibirono
cento gladiatori e che durò cento giorni. Tito morì nell'81 a 41 anni e ci
furono voci che fosse stato assassinato dal fratello Domiziano impaziente
di succedergli.
Domiziano
Fu con Domiziano che i rapporti già tesi tra la dinastia flavia ed il senato
si andarono sempre più logorando. Le cause di questo difficile sodalizio
furono dapprima la divinizzazione del culto personale dell'imperatore
secondo modalità tipicamente ellenistiche ed in seguito il divorzio dalla
moglie Domizia, di estrazione senatoria. Anche sul fronte esterno le cose
non andavano meglio; nonostante i successi della guerra britannica, finita
nell'84, e la vittoria sui Catti, la Guerra Dacica (85-89) finì col pagamento
dell'alleanza con Decebalo. Nell'89 Domiziano dovette reprimere la
ribellione di Antonino Saturnino a Magonza. La parte finale del suo
regno fu macchiata dalla condanna dei filosofi e, nel 95, dalla
persecuzione contro i Cristiani. L'anno seguente Domiziano morì, vittima
di una congiura.
3° E 4° ANNO
IL POTERE TEMPORALE DELLO STATO DELLA CHIESA
NELL'ALTO MEDIOEVO
C'è una differenza sostanziale tra il sacro romano impero di Carlo
Magno e quello di Ottone I. Il primo partiva da una posizione di
debolezza: per legittimarsi aveva dovuto cedere ai compromessi con la
chiesa romana e coi vari feudatari francesi; il secondo invece pretende
d'imporsi con la forza, facendo nascere il cesaropapismo.
L'impero di Carlo Magno era così debole, nonostante le conquiste
coloniali nell'Europa centro-orientale e la facile vittoria contro i
Longobardi, che già alla morte del suo fondatore si sfasciò in maniera
irreversibile, e solo con Ugo Capeto (987) si riformò una sovranità
regale per un regno da cui, pur restando per otto secoli in mano alla
dinastia capetingia, rimase sostanzialmente indipendente la feudalità
nazionale, frammentata in una cinquantina di domini molto potenti. Il
feudalesimo creato da Carlo Magno, che altro non era se non un
applicazione del principio romano del do ut des, senza alcun particolare
ideale da realizzare, s'era trasformato, subito dopo la morte di Carlo
Magno, da obbedienza formale, da parte dei vassalli, al loro imperatore,
appoggiato dal papa, in una sostanziale disobbedienza civile e politica.
Spieghiamo meglio le caratteristiche dell'impero carolingio. Esso s'era
imposto sostanzialmente sulla base dell'illegalità, in quanto esisteva già a
Bisanzio un "sacro romano impero", sin dai tempi di Teodosio. Il
pretesto per eleggere Carlo Magno sovrano di pari titolo fu per la chiesa
non solo quello di cacciare dall'Italia i longobardi ariani o comunque
avversi alla curia romana, ma anche quello di impedire che i territori
conquistati dai longobardi tornassero ai bizantini: in particolare la chiesa,
che si trasformò in Stato proprio grazie alla sconfitta dei longobardi,
voleva assolutamente impadronirsi dell'esarcato e del ducato romano,
ch'erano in mano bizantina prima ancora dell'invasione longobarda.
La chiesa cattolica, utilizzando il falso della Donazione di Costantino
(che verrà creduta vera per sette secoli), concedeva abusivamente ai
franchi il titolo di imperatore e si incorporava, altrettanto abusivamente,
di territori che non le appartenevano e che le permetteranno di
trasformarsi in un'entità politico-ecclesiastica, totalmente avversa a una
unificazione della penisola che non avvenisse sotto la propria egemonia.
I bizantini dovettero accontentarsi della sola l'Italia meridionale, esclusi i
pochi territori rimasti ai longobardi (ducato di Benevento e qualcosa in
Puglia), e neppure per molto tempo, poiché, a causa delle continue
intromissioni della curia pontificia, dovettero presto affrontare,
uscendone nettamente sconfitti, dapprima le invasioni arabe in Sicilia, in
seguito quelle normanne in tutto il Mezzogiorno.
In politica estera l'impero carolingio organizzò numerose guerre di
conquista contro gli arabi di Spagna, gli àvari, i longobardi, le
popolazioni slave e soprattutto quelle sassoni, quest'ultime convertite a
forza al cattolicesimo latino. Concluse le 53 spedizioni militari, l'impero
carolingio aveva praticamente raddoppiato i propri confini. Per la prima
volta coi Franchi, i barbari, cattolicizzati e romanizzati, si erano mossi
militarmente da ovest verso est, rappresentando così il nuovo volto
dell'Europa occidentale: bellicoso, intollerante, colonialista... Solo nei
confronti degli arabi di Spagna essi non riusciranno a conseguire
significativi successi. Questo perché, sottovalutando la loro forza, si era
pensato di poterli facilmente sconfiggere limitandosi a valicare i Pirenei:
invece proprio questa difesa naturale permise agli arabi di restare in
Spagna sino alla fine del 1400.
Che l'impero carolingio fosse una realtà del tutto fittizia, basato
unicamente sull'uso militare della forza, è dimostrato anche dal fatto che
subito dopo la morte di Carlo Magno, esso si frantumò in tre aree ben
distinte, che a loro volta costituiranno l'embrione delle prime nazioni
europee: Francia, Germania e Italia. Dei tre il regno che, a causa delle
resistenze del papato, dei bizantini, degli arabi e degli ultimi longobardi
rimasti, riuscì a realizzare l'unificazione nazionale per ultimo fu quello
italico: un regno talmente effimero che già nel 961 era scomparso,
inghiottito dai nuovi imperatori sassoni (gli Ottoni).
L'uso militare della forza si rifletteva, sul piano sociale, dalla pratica del
vassallaggio. Il rapporto di dipendenza personale da parte di un suddito
nei confronti del proprio diretto superiore, fu usato da Carlo Magno per
costituire la propria entità statale. Il suddito doveva giurare fedeltà al
superiore, che, in cambio, gli concedeva una proprietà (feudo).
Ovviamente il superiore si serviva di tale rapporto soprattutto nei
momenti in cui occorreva usare la forza militare (p.es. per convertire i
non cristiani) o semplicemente poliziesca (p.es. per reprimere il
dissenso). Era quindi un rapporto basato sul reciproco interesse: politico,
per il superiore, economico, per il suddito.
Lo Stato non era basato su un'idea in cui il sovrano e il suddito si
riconoscevano: la cultura, beninteso, c'era ed era quella del cattolicesimo
latino, ma questa restava in subordine rispetto alle caratteristiche del
patto di vassallaggio. Ciò che più importava non era l'ideale di
cristianità, ma la subordinazione gerarchica, in virtù della quale il
sovrano poteva esercitare un potere assoluto.
Tale meccanismo, di derivazione culturale papista, cominciò a incepparsi
nel momento stesso in cui il suddito, una volta ottenuto il beneficio
economico, pretendeva anche un certo riconoscimento politico da parte
del sovrano: il vassallo voleva contrattare alla pari col proprio sovrano, e
quando questi opponeva resistenza, ecco che nasceva, come reazione
automatica,
la
cosiddetta
"anarchia
feudale".
Nel
feudalesimo
dell'Europa occidentale non sembra esserci un ideale condiviso, ma
soltanto un interesse da far valere: un rapporto politico basato sulla forza
veniva distrutto dalla forza di chi aveva dovuto subire le condizioni del
proprio superiore.
Il Capitolare di Quierzy (877), in tal senso, costituisce un vero
spartiacque tra una dittatura sub condicione e una vera e propria anarchia
politica, in cui il perimetro del territorio locale, avuto prima in usufrutto,
poi rivendicato come proprietà privata, diventava il luogo ove esercitare
un dominio assoluto, dispotico, da parte del signorotto che aveva
prestato giuramento di fedeltà al suo sovrano. I vari feudatari si
trasformarono in piccoli imperatori nei loro possedimenti, continuamente
in lite tra loro per questioni di confine. Ci vorrà molto tempo prima che
la Francia si costituisca come nazione vera e propria, cioè ci vorrà
Giovanna d'Arco e la guerra contro gli inglesi.
L'impero carolingio ebbe termine nell'887, con la deposizione di Carlo il
Grosso, avvenuta dopo 73 anni dalla morte di Carlo Magno (814). Il
Capitolare di Quierzy fu l'ultimo tentativo disperato di tenere unito un
impero i cui protagonisti volevano invece spezzarlo il più presto
possibile.
La Francia, tuttavia, seppur formalmente, vide riconosciuta una corona
regale. L'Italia invece, oppressa dalla presenza della chiesa romana, non
riuscì a riconoscere un re neppure formalmente e venne abbastanza
presto incorporata nella sovranità imperiale germanica. Ottone I unificò
la corona d'Italia e di Germania senza ancora avere il titolo imperiale
(951). Egli era re di Germania dal 936, ma doveva combattere l'anarchia
feudale con non meno vigore del suo collega francese.
Il sovrano italiano (della parte settentrionale della penisola) non era
riuscito assolutamente a porre un argine all'anarchia feudale. Ottone
invece per riuscirvi escogitò una trovata geniale: nominare dei propri
vescovi di fiducia, aventi tutte le cariche politiche dei feudatari laici, ma
caratterizzati da una diversità fondamentale: l'obbligo del celibato, che la
chiesa romana voleva imporre a tutto il clero senza però riuscirvi. In tal
modo i beni del vescovo-conte, ottenuti in usufrutto, non potevano essere
lasciati in eredità e, alla sua morte, tornavano al sovrano, che così vedeva
accrescere i propri domini.
Poiché Ottone I si sentiva il vero erede di Carlo Magno, si fece
incoronare imperatore da papa Giovanni XII nel 962, dando così inizio al
sacro impero romano-germanico, che durerà sino al 1806, allorché
Napoleone gli metterà una pietra sopra.
La cosa più curiosa di questa incoronazione è che il papa vi acconsentì
nonostante che Ottone avesse imposto una condizione molto umiliante
per l'autonomia della chiesa, e cioè il fatto che l'elezione del pontefice,
d'ora in poi, sarebbe dovuta dipendere dal consenso dello stesso
imperatore (privilegium Othonis). Per quale ragione la chiesa
istituzionale si risolse in un primo momento a sottostare a un diktat così
restrittivo, quando poi, di lì a poco, avrebbe scatenato una durissima lotta
per le investiture ecclesiastiche contro i sovrani germanici?
I motivi forse possono essere due: da un lato essa aveva ricevuto
assicurazione che il nuovo sovrano avrebbe espulso definitivamente
dall'Italia meridionale i bizantini (cosa che i Franchi non erano riusciti a
fare), consegnando questi territori allo Stato della chiesa; dall'altro si può
pensare che all'interno della cristianità occidentale la corruzione, favorita
peraltro dagli stessi vertici ecclesiastici, abituati da tempo a ragionare in
termini di puro potere, era già così forte o così vasta che il papato
temeva che anche all'interno dello Stato della chiesa si potesse formare
una sorta di anarchia feudale in grado di minare il principio di autorità
ecclesiastica.
Insomma il consenso all'incoronazione fu il frutto di un compromesso
dovuto a un momento di debolezza della chiesa romana, che aveva
pertanto bisogno di un "braccio secolare" con cui reprimere il dissenso.
Forse essa aveva sottovalutato il fatto che in questa nuova intesa politica
chi andava ad acquisire maggiori poteri era soltanto il sovrano tedesco.
Tuttavia l'autoriforma in senso dittatoriale della chiesa romana non si
fece attendere e, col Dictatus papae (1075) di Gregorio VII si pongono
le basi del futuro Stato teocratico, che non avrebbe certo potuto accettare
alcun rapporto di sudditanza nei confronti dell'imperatore tedesco, e che
infatti impose il principio, col Concordato di Worms (1122), secondo cui
i pontefici, nei regni d'Italia e di Borgogna, potevano intervenire in
prima persona in tutti i casi di elezioni contrastate.
Da notare che in questa riforma Gregorio VII pose tre principi
fondamentali che resteranno in vigore per sempre:
il papa deve essere eletto dai cardinali, cioè non dall'imperatore né dai
vescovi (molti dei quali erano stati nominati dallo stesso imperatore): il
collegio cardinalizio era in sostanza un consesso di pochi supervescovi
fidatissimi, in cui il papa, che li nominava di persona, poteva riporre
ogni fiducia;
tutto il clero doveva essere eletto dall'alto clero, senza consensu
ecclesiae da parte del laicato;
tutto il clero doveva restare celibe, sicché alla morte di ogni prelato, dal
più piccolo prete di campagna al più alto porporato, i beni tornavano
sempre alle casse dello Stato della chiesa.
Era una dichiarazione di guerra non solo all'imperatore, ma anche ai
bizantini, che avevano regole diversissime, e persino alla stessa
cristianità latina, cui veniva chiesto di uniformarsi passivamente a una
sorta di autoritario fondamentalismo politico-religioso. Il fatto che la
chiesa ambisse decisamente ad acquisire il massimo potere politico ora
veniva pienamente legittimato in sede giuridica, come giustificazione
canonica di una prassi di antica data.
CHIESA E IMPERO NEL BASSO MEDIOEVO
FEDERICO BARBAROSSA
Dopo il concordato di Worms (1122), l'impero e il papato attraversarono
un periodo di crisi che favorì l'ulteriore sviluppo delle forze locali
(aristocratiche e borghesi): la corona del regno di Germania, e perciò
anche le annesse corone del regno d'Italia e dell'impero, erano disputate
tra guelfi e ghibellini (che in origine non esprimevano due partiti
ideologicamente diversi ma soltanto due casate aristocratiche: di Baviera
i primi, di Svevia i secondi, che dal 1125 al 1152 lottarono in Germania
per la successione alla casa di Franconia).
Il papato era stato messo in crisi dal movimento comunale, estesosi,
grazie all'operato di Arnaldo da Brescia, anche a Roma.
Il confronto tra guelfi e ghibellini si concluse proprio con l'elezione di
Federico I di Svevia, detto Barbarossa (1152-90), che per parte di madre
era guelfo.
Riordinato il mondo tedesco, Federico poté riprendere la politica sacroromano-imperiale da sempre perseguita dai re di Germania. Tuttavia, a
differenza dei predecessori sassoni, che avevano dovuto combattere
soprattutto con la chiesa romana, egli trovò una ferma opposizione anche
da parte dei Comuni del nord Italia, decisi a difendere le autonomie da
tempo conquistate e quindi disposti ad accettare ampie intese col papato
in funzione anti-imperiale.
Il programma di restaurazione dell'impero cristiano-universale risultava
anacronistico anche rispetto agli sviluppi in corso in Francia e in
Inghilterra, orientate secondo una prospettiva monarchico-nazionale,
dove la gestione del potere politico da parte della nobiltà e quella
dell'economia
da
parte
della
borghesia
trovavano
favorevoli
convergenze.
Federico I scese in Italia perché chiamato dai Comuni limitrofi a Milano
(Como e Lodi), fagocitati da quest'ultima, che si espandeva sempre più;
chiamato dal marchese di Monferrato, contro i Comuni di Asti e Chieri;
e chiamato dal papa Adriano IV per eliminare la scomoda figura di
Arnaldo da Brescia che a Roma, fin dal 1143, aveva creato una
repubblica comunale. A Roma Federico fece giustiziare Arnaldo, ma i
tumulti scoppiati subito dopo lo costrinsero a tornare in Germania.
Durante la prima discesa (1154-55) aveva distrutto Asti, Chieri e
Tortona.
Prima della seconda discesa (1158-62) Milano aveva distrutto Lodi e
ricostruito Tortona, e il papato, intenzionato a considerare l'impero come
un proprio "feudo ecclesiastico", aveva stretto una forte alleanza coi
Normanni contro Federico. Quest'ultimo, per tutta risposta, costrinse
Milano, dopo un lungo assedio, a giurargli fedeltà e volle imporre a tutti
i Comuni di accettare propri rappresentanti per la gestione dei diritti
imperiali.
La rivolta dei Comuni fu generale: Federico distrusse Milano e Crema e,
proprio nel momento in cui sembrava aver la meglio, il successore di
papa Adriano IV, Alessandro III (1159-81) gli lanciò la scomunica in
quanto la sua elezione non era stata approvata dallo stesso Federico, che
gli aveva contrapposto un antipapa. Papato e Comuni lo costrinsero a
ritornare in Germania.
Anche con la terza discesa (1163-64), dopo aver nuovamente distrutto
Tortona, fu costretto a tornare in Germania per le resistenze comunali.
In occasione della quarta discesa (1166-68) si formarono due leghe
comunali, quella Veronese e quella Lombarda, intenzionate a contrastare
duramente gli imperiali, i quali infatti, si limitarono a dirigersi verso
Roma, per insediarvi il loro antipapa, ma una terribile pestilenza
scoppiata nelle file dell'esercito, li costrinse a tornare in Germania.
Nel corso della quinta discesa (1174-77) Federico subì una pesantissima
sconfitta militare a Legnano da parte delle Leghe, al punto che fu
costretto a riconoscere tutti i diritti comunali (pace di Costanza). Era
stata la vittoria di un esercito di mercanti, artigiani, operai e contadini
contro un esercito feudale di cavalieri professionisti dell'arte militare.
La sesta e ultima discesa (1185-86) fu del tutto pacifica, in quanto
unicamente motivata dalla decisione, invano ostacolata dal papato, di
unire in matrimonio il proprio figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla,
erede del regno normanno di Napoli e Sicilia.
Federico sperava di conquistare l'Italia con una politica matrimoniale,
invece morirà annegato in un fiume della Cilicia (odierna Turchia),
mentre partecipava alla terza crociata.
Va detto che mentre a Bisanzio e a Mosca l'idea cristiano-imperiale poté
durare molti secoli perché sempre sostenuta, salvo singole eccezioni,
dalla chiesa istituzionale, in occidente essa durò pochissimo proprio
perché il papato si poneva in netto antagonismo rispetto all'imperatore,
avendo ambizioni di egemonia politica. Furono proprio queste
ambizioni, inevitabilmente destinate a corrompere gli ideali cristiani
originari, che avevano indirettamente portato alla nascita della borghesia,
culturalmente e moralmente indifferente alla religione. La corruzione
dell'alto clero era stata colta dai mercanti e dagli artigiani come pretesto
per cercare di far passare uno stile di vita che di cristiano aveva solo le
apparenze.
Era dunque letteralmente impossibile per uno sovrano come Federico
affermare l'idea medievale cristiano-imperiale contro la volontà di chiesa
e borghesia, che in quel frangente si trovarono persino alleate. L'unica
cosa intelligente ch'egli riuscì a fare fu quella di realizzare una politica
matrimoniale coi Normanni per impedire alla chiesa di annettersi l'intero
Mezzogiorno.
FEDERICO II DI SVEVIA
I) La minore età di Federico II, figlio di Enrico VI e Costanza
d'Altavilla, nonché la crisi dell'impero dopo la sconfitta nella battaglia di
Legnano contro i Comuni del nord-Italia, crearono le condizioni
favorevoli al tentativo del papato di sostituirsi all'impero nell'esercizio
della sovranità politica universale.
II) Il nuovo papa, Innocenzo III (1198-1216) si propose di rilanciare il
programma teocratico di Gregorio VII, per il quale il potere politico dei
sovrani cattolici proveniva da Dio attraverso la Chiesa: cioè nessun
potere laico era legittimo senza il previo riconoscimento da parte della
Chiesa. Di qui la teoria, elaborata da Innocenzo III, della Luna-Impero
che riceve la sua luce dal Sole-Chiesa.
III) Il papa cominciò ad applicare questa teoria nella città di Roma, dove
l'autorità
politica
era
costituita
dal
prefetto,
rappresentante
dell'imperatore, e dal Senato, organo di governo del Comune. Il prefetto
gli prestò giuramento, mentre il Comune accettò una costituzione che
dava al papa il potere di nominare il senatore al quale era affidato il
governo della città. Poi proseguì l'azione in quei territori dove più forte
era l'influenza della Chiesa: Umbria, Marche e Romagna (che più tardi
formeranno lo Stato della Chiesa). Aiutò i Comuni di queste regioni a
liberarsi dalla tutela imperiale e li indusse a porsi sotto la sua protezione.
Fece inoltre riconoscere a Costanza d'Altavilla, vedova di Enrico VI, la
signoria feudale della Chiesa sul regno normanno e, alla morte di lei
(1198), assunse la reggenza per conto del piccolo Federico, col proposito
di dividere il regno di Sicilia dalla Germania.
IV) Sicilia, Aragona, Portogallo, Inghilterra, Francia, Svezia, Danimarca,
Polonia, il regno di Gerusalemme e l'impero latino di Costantinopoli
riconobbero la sovranità del papa, il quale, in cambio, appoggiò i
movimenti espansionistici del mondo cristiano: a nord-est, dove i
monaci-cavalieri dell'ordine Teutonico e di Portaspada procedettero con
estrema violenza alla cristianizzazione dei Paesi Baltici, con l'aiuto delle
città commerciali della Lega Anseatica (1202-1204) nel Mare del Nord
(Amburgo, Danzica, Lubecca, Stettino, Brema ecc.); nel Mezzogiorno
francese, dove scatenò la crociata contro gli Albigesi, ottenendo il feudo
di Avignone; a oriente, dove bandì la 4a, 5a e 6a crociata contro i Turchi
in Palestina; a occidente, dove bandì una crociata contro i Musulmani di
Spagna, che si concluse a favore dei cristiani. Contro le eresie ricorse
non
solo
allo
strumento
della
crociata,
ma
anche
a
quelli
dell'Inquisizione e degli Ordini mendicanti (soprattutto Francescani e
Domenicani: quest'ultimi, a partire dal 1233, dirigeranno il Tribunale
dell'Inquisizione).
V) Innocenzo III riuscì anche a coalizzare le forze di Federico II di
Svevia e di Filippo II Augusto, re di Francia, sia contro il re inglese
Giovanni Senza Terra, che aveva rifiutato di riconoscere come primate
della Chiesa inglese un cardinale nominato dal papa, reagendo alla
scomunica, che quest'ultimo gli aveva lanciato, con la confisca di tutti i
beni della Chiesa inglese; che contro le rivendicazioni alla corona
imperiale di Ottone IV di Brunswick (Germania), che, pur essendo del
partito guelfo, non piaceva a Innocenzo III, avendo cercato di
conquistare l'Italia meridionale. La vittoria della coalizione filo-papale
rafforzò per un breve periodo di tempo l'idea della teocrazia, ma in
seguito si rivelò alquanto effimera: sia perchè la Francia iniziava ad
affermare le proprie tendenze espansionistiche ed assolutistiche anche ai
danni del papato; sia perchè Federico II era quanto mai interessato alla
costituzione di una monarchia siculo-italiana (spostando nell'isola il
centro dell'Impero), pur avendo egli promesso al papa che, appena
divenuto imperatore, avrebbe rinunciato alla corona siciliana; sia perchè
infine Giovanni Senza Terra, per non perdere la propria corona, dopo la
sconfitta militare, sarà costretto, a causa di una rivolta delle forze feudali
e urbane unite, a concedere la Magna Charta Libertatum, la quale pone le
premesse per la formazione dello Stato moderno, indipendente dalla
Chiesa.
VI) Magna Charta Libertatum (1215)
- Essa per la prima volta sancisce, sul piano della legittimità, che: 1) i
rapporti tra il re e la nobiltà sono regolati non più da atti di forza o dalla
consuetudine feudale, ma da un patto bilaterale, giurato e sottoscritto,
che impegna a precisi obblighi i contraenti; 2) il patto è ritenuto unica
fonte legittima cui fare riferimento in caso di rivendicazioni avanzate da
una parte o dall'altra, e in casi di contestazione per eventuale abuso di
diritti. Alla concessione della Magna Charta seguirà col tempo
l'istituzione del Parlamento, organo di controllo dei poteri statali e di
tutela delle libertà sancite dallo statuto.
- Sul piano del merito essa prevede: 1) il re s'impegnava a non
intromettersi nella elezione delle cariche religiose e a non impadronirsi
dei beni ecclesiastici; 2) egli prometteva di non pretendere dai suoi
vassalli (baroni, grande borghesia e alto clero) tributi straordinari senza
il loro esplicito consenso; 3) garantiva che i membri di questi ceti sociali
non potevano essere arrestati, dichiarati fuorilegge e sottoposti a confisca
dei beni senza il giudizio di tribunali composti da uomini di grado e
posizione uguali; 4) si permetteva ai mercanti stranieri la libera
circolazione in Inghilterra; 5) si stabiliva l'unità di pesi e misure per tutta
la nazione.
- Nonostante che questo patto non concedesse alcun diritto alle classi
sociali marginali, il re, sostenuto dal papa, si rifiutò di riconoscerlo, per
cui esso, in un primo momento, non venne applicato alla lettera. In
questo senso, forse ad esso fu data un'importanza più grande di quella
che effettivamente ebbe, per quanto esso costituì un punto di riferimento
cui sempre ci si richiamerà ogniqualvolta si tratterà di risolvere delle
controversie tra monarchia e aristocrazia.
VII) Federico II (1220-1250). Intanto Federico II, uscito di minorità,
cercò di unire al suo trono siciliano quello tedesco, e vi riuscirà dopo
otto anni di dura lotta contro i guelfi di Ottone IV. Resosi tuttavia conto
che il Meridione italiano rischiava di finire sotto l'egemonia del papato,
decise di riorganizzare il regno di Sicilia, trasferendo qui il centro di
tutte le sue iniziative politico-culturali ed economico-amministrative. I
problemi maggiori che doveva affrontare erano l'anarchia feudale e il
controllo di tutto il commercio insulare da parte delle repubbliche
marinare centro-settentrionali.
VIII) La morte di Innocenzo III lo aveva liberato dai due impegni assunti
in precedenza con la Chiesa: promuovere una crociata in Oriente e
rinunciare alla corona siciliana dopo aver ottenuto quella tedesca. Uno
dei successori di Innocenzo III, Gregorio IX, gli lanciò la scomunica per
indurlo a fare la crociata e ad allontanarsi dal Meridione. Federico
accettò, ma, invece di ricorrere alle armi, preferì venire a patti col
sultano d'Egitto. Il papa non solo rifiutò l'accordo, confermando la
scomunica, ma bandì anche contro di lui, durante la sua assenza, una
crociata nel Meridione. Federico dovette ritornare subito in Italia e
combattere contro l'esercito pontificio. La scomunica venne revocata
dietro la promessa ch'egli avrebbe rispettato i privilegi della Chiesa nel
regno di Sicilia -cosa che poi non fece.
IX) In Sicilia Federico creò una monarchia feudale in cui l'equilibrio tra
il re e i baroni e tutta l'amministrazione furono assicurati da un forte
apparato burocratico alle dirette dipendenze della corona. In tal modo
venivano ridotti al minimo molti privilegi politico-amministrativi della
nobiltà e del clero (sostituì ad es. i tribunali ecclesiastici con i propri nel
giudizio degli eretici). I funzionari, nominati dal sovrano (come le
maggiori autorità cittadine: podestà, consoli...), non erano tedeschi ma
della stessa Italia meridionale, istruiti presso un centro studi universitario
che lo stesso sovrano fece aprire a Napoli.
- Sul piano economico:
1) confiscò i fondi di cui poteva contestare i titoli di legittimità (così poté
assicurarsi
un
demanio
consistente);
2) impose un dazio fisso su tutti i beni esportati e importati;
3) creò alcuni monopoli statali commerciali (seta, canapa, ferro, sale).
- Le forti entrate finanziarie gli permisero di realizzare un esercito
mercenario regolare (composto anche da saraceni) alle sue dirette
dipendenze, grazie al quale poteva fare a meno del contributo dei
feudatari, anche se continuava a servirsi degli eserciti tedeschi.
- Sul piano culturale sviluppò la fusione della tradizione bizantina, araba
e normanna. La cultura era aristocratica e imitava i modelli provenzali
francesi. Espressione più significativa: La scuola siciliana (primo
esempio di volgare scritto).
- Tutta l'opera politico-economico-amministrativa venne da lui codificata
nelle Costituzioni di Melfi (1231), che per certi aspetti anticiperanno di
molti secoli l'organizzazione degli Stati moderni, poiché esse miravano a
trasformare lo Stato feudale in una ordinata monarchia assoluta, con la
sudditanza di tutti i ceti a un unico potere centrale.
X) Quando cercò di far valere questi principi anche nel resto della
penisola, lo scontro con i Comuni più forti e indipendenti fu inevitabile.
Federico infatti voleva limitare sia il potere feudale che quello cittadino.
Senonché i Comuni si riuniranno in una nuova Lega Lombarda e, pur
risentendo fortemente di lotte intestine tra guelfi e ghibellini, pur
uscendo in un primo momento sconfitti militarmente dallo scontro con le
forze imperiali, alla fine riusciranno a trionfare, grazie anche all'aiuto del
papato, che lanciò una nuova scomunica contro di lui, determinando la
rivolta sia dei grandi feudatari tedeschi, sia dei sudditi siciliani e
meridionali, esasperati dal fiscalismo e dai vari monopoli statali. Dopo la
sua morte, i possedimenti della sua dinastia vennero spartiti tra i principi
tedeschi, e la Germania resterà sino all'unificazione nazionale divisa in
principati territoriali.
- Con la sua morte finisce per sempre l'idea di poter realizzare un Sacro
Romano Impero, cioè una teocrazia universale guidata dall'Imperatore.
Gli Stati centralizzati, nazionali, da un lato, e lo sviluppo urbano e
mercantile, dall'altro -entrambi gelosi della loro indipendenza- erano
diventati irreversibili.
LA FINE DELL'UNIVERSALISMO PAPALE
I) L'ultimo grande papa (dopo Gregorio VII e Innocenzo III, avversari,
rispettivamente, degli imperatori Enrico IV e Federico II) che proseguì il
programma teocratico secondo cui al pontefice spettava la supremazia su
ogni autorità politica del mondo cristiano, fu Bonifacio VIII (12351303). Questo programma, sino a Bonifacio VIII, non aveva incontrato
ostacoli molto grandi per una ragione molto semplice: i Comuni e i
feudatari avevano sempre cercato di approfittare della controversia tra
papato e impero per indebolire soprattutto quest'ultimo, sicuramente più
forte della chiesa sul piano militare.
II) Tuttavia, nella misura in cui l'Impero era costretto a cedere ampi
poteri sia ai Comuni che ai feudatari (per non parlare delle emergenti
monarchie nazionali), anche il potere universale della chiesa si trovava
compromesso, indebolito: essa infatti non tarderà ad accorgersi di non
avere la forza sufficiente per opporsi a chi aveva saputo ridimensionare
le pretese dell'Impero. In particolare, la funzione politica universale della
chiesa si poneva in netto contrasto con gli orientamenti delle monarchie
nazionali. Di tutte le nazioni, quella che alla fine del '200 sembrava
potersi meglio imporre contro il programma teocratico era la Francia.
Soprattutto con Filippo IV il Bello (1268-1314) il centro del potere
politico-istituzionale era passato nelle mani del re e del suo apparato
burocratico, contro le resistenze autonomistiche del mondo feudale.
III) All'origine del conflitto vi fu la richiesta di contributi finanziari da
parte di Filippo IV, impegnato in una guerra contro l'Inghilterra. Il re
volle imporre le tasse anche al clero francese, senza chiedere
l'autorizzazione del papa. Bonifacio VIII rispose minacciando la
scomunica, ma la rottura venne scongiurata grazie a un compromesso (il
re, con una serie di provvedimenti, aveva ostacolato il normale flusso di
denaro dalla Francia a Roma). Il compromesso però durò poco. Nel 1300
infatti Bonifacio VIII istituì un vescovado in Francia senza chiedere
l'autorizzazione del re. Filippo IV fa arrestare il vescovo sotto l'accusa di
lesa maestà. Il papa convoca un concilio a Roma per giudicare la
condotta del re ed emana la bolla Unam Sanctam. Il re risponde
proibendo ai vescovi francesi di uscire dal regno. Poi convoca per la
prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia) per istruire un
regolare processo contro il papa, accusato di simonia, eresia ed
assassinio del papa Celestino V. Il papa allora prepara una bolla di
scomunica contro Filippo IV e di interdetto contro la Francia. Ma ormai
è troppo tardi. Il re aveva deciso di far catturare il papa trasferendolo di
forza in Francia. Gli abitanti di Anagni si oppongono efficacemente ai
francesi, ma il papa, rientrato a Roma, muore pochi mesi dopo. Il suo
successore, Clemente V, decide di trasferire la sede pontificia ad
Avignone nel 1305. Il papato, per quanto al proprio interno riuscisse a
confermare il principio della propria superiorità su tutti gli ordinamenti
ecclesiastici, si doveva sottomettere alla politica francese (i papi
avignonesi furono tutti francesi di nascita).
IV) La dottrina politico-giuridica di quel tempo era arrivata alla
convinzione che il potere politico doveva essere indipendente da quello
religioso, in quanto proveniente direttamente da Dio e non dal papa (vedi
ad es. Dante), e non solo doveva esserlo il potere politico dell'imperatore
ma anche quello dei singoli re nazionali, che nei loro regni cominciavano
a considerarsi degli "imperatori" (sviluppo del principio della "sovranità
nazionale"). Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis, arriverà
addirittura a dire che imperatori e re derivano la loro autorità dal popolo,
che anche la chiesa si fonda sulla sovranità popolare e che il papa è
subordinato all'imperatore.
V) Il grande scisma d'Occidente (1378-1417). Durante la cattività
avignonese, i papi faranno di tutto per ridurre in soggezione i signori
ribelli dello Stato pontificio. Solo nel 1377 il papato riuscirà a riportare
la sede a Roma, ma appena questo avvenne scoppiò il grande scisma
d'Occidente. Il pretesto che fece scoppiare lo scisma fu l'elezione del
nuovo pontefice Urbano VI, cui si oppose il Collegio dei Cardinali, in
maggioranza francesi, i quali dichiararono d'essere stati costretti a
votarlo sotto la minaccia violenta del popolo, che reclamava un papa
romano o almeno italiano. E così, tutti i cardinali ribelli elessero un
antipapa, Clemente VII, che si insediò ad Avignone, dopo aver cercato
inutilmente di sbarazzarsi di Urbano VI. La cristianità fu così divisa, con
grande scandalo e confusione, in due partiti. La crisi, questa volta, era
interna alla stessa istituzione ecclesiastica.
VI) Per far cessare lo scandalo, molti cardinali delle due sedi si riunirono
nel Concilio di Pisa (1409), ove decisero di deporre i due papi e di
eleggerne un terzo, Alessandro V, con sede a Bologna. Ma gli altri due
papi non vollero riconoscere come legittimo il concilio, il quale, secondo
i canoni, doveva essere convocato dal papa e da lui presieduto.
VII) Lo scisma poté essere risolto solo col successivo Concilio di
Costanza (1414-18), che, convocato dall'imperatore Sigismondo con
l'approvazione dei tre papi, decise: 1) di deporre i tre papi, eleggendone
un terzo: Martino V; 2) di trasformarsi in un istituto permanente, ovvero
in un organo costituente della chiesa (in grado di convocare altri concili),
al fine di dare alla chiesa un ordinamento parlamentare, nel quale il
potere monarchico del papa fosse subordinato a quella del concilio
(Martino V tuttavia seguirà una politica ostile, anche se cauta, al
movimento conciliare); 3) il concilio condannò le dottrine di Wycliff e
mandò Huss al rogo, giudicati eretici (anticiparono le idee di Lutero).
VIII) Il piccolo scisma d'Occidente (1439-49). La lotta tra le tesi papiste
e quelle conciliariste determinò un altro scisma all'interno della chiesa.
Eugenio IV, infatti, successore di Martino V, dopo aver convocato un
concilio a Ferrara e poi a Firenze per discutere con la chiesa greca la
riunificazione delle due confessioni (cattolica e ortodossa), chiese che
quello ecumenico di Basilea (già convocato da Martino V per discutere il
problema dell'autorità del papa) fosse sciolto (a Basilea infatti si stavano
affermando le tesi conciliariste). I prelati di Basilea opposero un netto
rifiuto, deposero Eugenio IV ed elessero papa Amedeo VIII duca di
Savoia col nome di Felice V. Questa volta però ebbe la meglio il papa di
Roma, poiché da un lato poté far valere a suo prestigio il ritorno della
chiesa greca alla disciplina di Roma (i bizantini speravano nell'aiuto dei
latini contro i turchi), dall'altro riuscì ad ottenere l'appoggio
dell'imperatore germanico Federico III d'Asburgo, che chiuse d'autorità il
concilio di Basilea. Il papato poté così ripristinare il suo primato sul
concilio. Fallì invece la riunificazione con l'ortodossia, poiché la
sconfessarono immediatamente le popolazioni e il clero orientali.
In sintesi. Il Trecento segna la crisi della teocrazia pontificia, in quanto
senza l'appoggio specifico dell'impero, il destino della chiesa romana,
come potenza europea, pare segnato. La chiesa preferì appoggiarsi ai
Comuni e ai grandi feudatari esterni al proprio Stato per combattere gli
imperatori tedeschi che volevano esercitare la loro egemonia politica
anche in Italia. Una chiesa con pretese "politiche" si opponeva a un
impero legittimato politicamente, ancorché nato in opposizione
illegittima a un altro impero già da tempo espressione della volontà
"cristiana" di costruire un ecumene alternativo a quello pagano del
mondo greco-romano: quello bizantino. Lo scontro tra chiesa romana e
impero germanico fu talmente forte che alla fine entrambi dovettero
rinunciare alle loro pretese politiche universalistiche, a vantaggio di una
nuova classe emergente, sostenitrice delle monarchie nazionali: la
borghesia.
La chiesa romana aveva talmente abituato l'Europa occidentale a
confrontarsi con una confessione fortemente politicizzata, che anche
quando i sovrani universali e nazionali cercavano di opporsi a questa
pretesa, finivano sempre col praticare il cesaropapismo. Sia gli
imperatori tedeschi che i sovrani francesi hanno spesso cercato o di
servirsi di un proprio clero episcopale o addirittura di far eleggere al
soglio pontificio i propri candidati. Finché la chiesa romana ha preteso
un ruolo teocratico, i sovrani han cercato di praticare la subordinazione
netta della gerarchia ai loro interessi di potere.
Il Medioevo euroccidentale è finito nel modo peggiore possibile, cioè
con la distruzione di entrambe le fondamentali istituzioni: chiesa
(romana) e impero (germanico). La borghesia ha preferito appoggiare
quei sovrani che potevano garantirle un ruolo sociale significativo, al
riparo da anacronistiche rivendicazioni da parte di chiesa, impero,
feudalità. Nata in seno alla chiesa romana, la borghesia, appena ha
potuto, l'ha tradita.
Sarebbe un errore sostenere che la più grande nemica dei feudatari sia
stata la borghesia; semmai dovremmo dire che la borghesia seppe
cavalcare l'ondata ribellistica del mondo contadino, dando al proprio
potere economico un risvolto decisamente politico.
I contadini, infatti, finché la borghesia restava economicamente debole,
potevano continuare a sopportare le angherie dei nobili, ma una
borghesia forte induce inevitabilmente i nobili a scaricare sui loro servi
della gleba il peso delle nuove contraddizioni. Un feudatario che, al
cospetto della nuova concorrenza borghese, del nuovo stile di vita
commerciale, non vuole perdere il potere acquisito, deve per forza rifarsi
sui contadini, vessandoli con nuovi contratti e nuove tasse.
E' stata in fondo la borghesia che, indirettamente, ha portato i contadini
alla protesta. Ed è sempre stata la borghesia a raccogliere i frutti politici
più maturi di questa protesta. Senza i contadini in rivolta non si
sarebbero formate le monarchie e le unificazioni nazionali, gli Stati
costituzionali, monarchici o repubblicani, le rivoluzioni borghesi e
protestanti.
A quel tempo l'anomalia, in Europa occidentale, era costituita dalla forte
presenza delle Signorie italiane, che non riuscivano a coalizzarsi tra loro
per por fine allo Stato della chiesa. Anzi, furono proprio le Signorie a
fagocitare le autonomie comunali, facendo in modo che i Comuni
maggiori si annettessero quelli minori e si trasformassero in
un'istituzione oligarchica. Dai molti Comuni si passò a poche grandi
Signorie, in lotta tra loro: Firenze contro Pisa, Milano contro Verona,
Venezia contro Genova ecc., senza che nessuna riuscisse definitivamente
a imporsi sulle altre, e senza che a tutte venisse in mente l'idea di
federarsi per realizzare l'unità nazionale.
Non si seppe neppure approfittare della evidente debolezza del papato
durante la cattività avignonese (1305-77) e lo scisma d'occidente (13781417), probabilmente perché si avvertiva la presenza francese nel
Mezzogiorno come un ostacolo troppo grande da superare. Infatti, anche
se i sovrani francesi volevano un papato completamente sottomesso al
loro controllo, non avrebbero mai accettato la fine dello Stato della
chiesa, proprio per non rischiare di avere ai loro confini una nazione
unita.
Non dimentichiamo che sino al 1871 i francesi, pur essendo anticlericali
in casa propria (ugonotti, chiesa gallicana, deismo illuministico,
rivoluzione francese, impero napoleonico), hanno sempre cercato di
ostacolare, anche militarmente, la fine dello Stato della chiesa, persino
quando una decisione contraria avrebbe loro permesso di trovare negli
italiani un potente alleato contro la Spagna controriformistica o contro
l'impero asburgico. Sino alle campagne napoleoniche l'Italia è sempre
stata considerata dai francesi un territorio da conquistare. Esiste una
precisa linea di continuità che va da Carlo Magno a Napoleone, passando
attraverso i Normanni e gli Angioini.
D'altra parte le Signorie italiane non potevano avvalersi delle forze rurali
in funzione anti-ecclesiastica, sia perché la borghesia non aveva mai
difeso i movimenti pauperistici ereticali, sia perché i Comuni si erano
costituiti per far emergere sempre più la classe mercantile e artigianale,
certamente non quella contadina, che anzi, dal sorgere dei Comuni vide
progressivamente peggiorare la propria situazione all'interno dei feudi
rurali. In Germania, invece, quando si trattò di fare la riforma
protestante, contadini e borghesi si trovarono alleati.
LE MONARCHIE
Durante tutto il 1200 il declino dell'Impero e del papato (che aspiravano
all'egemonia
universale)
si
era
manifestato
parallelamente
al
rafforzamento delle monarchie accentrate e assolutistiche in Francia,
Inghilterra e Spagna, mentre la situazione politica in Italia, Germania,
Europa settentrionale e orientale, continuava a presentare i caratteri di
una marcata frammentazione del potere. Nel XIV sec. si rafforzò la
Confederazione elvetica, affermandosi come potenza militare di tutto
rispetto.
Il consolidarsi delle grandi monarchie si manifestò attraverso il
ridimensionamento del potere della grande nobiltà, l'ascesa di nuovi ceti
(borghesia e piccola nobiltà), l'ampliamento della base territoriale della
corona,
la
centralizzazione
amministrativa,
il
potenziamento
dell'organizzazione fiscale, la formazione di eserciti permanenti (non
mercenari né dipendenti dalle disponibilità dei feudatari) e l'aumento
delle spese militari dovuto all'impiego massiccio dell'artiglieria, la
formazione infine di una lingua nazionale. Le monarchie ottennero il
controllo esclusivo del diritto di battere moneta, poterono riscuotere
imposte indirette (dazi doganali, tasse sui prodotti di prima necessità),
introdussero anche forme d'imposizione diretta (pratica sconosciuta nel
Medioevo. Si ricordi che secondo la tradizione medievale il re poteva
trarre i propri mezzi finanziari solo dalle terre di sua diretta proprietà).
FRANCIA. Dopo la deposizione di Carlo il Grosso (887) e la fine della
dinastia carolingia, i maggiori signori feudali elessero re di Francia Ugo
Capeto (987), il quale iniziò la nuova dinastia dei Capetingi. Ma con la
fine della dinastia carolingia si fa iniziare il processo europeo di
formazione dei regni nazionali, in quanto i feudatari francesi e tedeschi
che deposero Carlo il Grosso, stabilirono che ogni regione avrebbe
dovuto provvedere a sé con governanti propri. L'ideale del Sacro romano
impero si spostò dalla Francia alla Germania, coinvolgendo in parte
anche l'Italia.
1. La Francia si costituì in grande monarchia nazionale in seguito alla
guerra dei Cento anni (1337-1453), con cui scacciò gli inglesi dal
suo territorio. I re inglesi, in virtù di una politica matrimoniale,
possedevano vasti territori nella Francia occidentale. La guerra
scoppiò appunto perché il re inglese Edoardo III rivendicava una
successione al trono francese, in seguito all'estinzione del ramo
diretto della dinastia dei Capetingi (Edoardo era nipote dell'ultimo
re capetingio). La guerra sarà vinta dalla monarchia francese, ma
solo dopo che questa riuscì a convincere il partito borgognone di
Carlo il Temerario (che mirava a costituire uno Stato indipendente
nella Francia nord-orientale) a rompere l'alleanza con gli inglesi.
Eroina nazionale fu Giovanna d'Arco.
2. Dopo la sottomissione alla monarchia dei territori del sud, del
ducato di Borgogna e della Bretagna, la Francia aspira a dominare
l'intera Europa. Di qui la lotta contro gli Asburgo spagnoli
(imparentati con quelli austriaci), l'alleanza coi turchi e il tentativo
di consolidare la frantumazione politica della Germania.
3. Carlo VII, per abbattere il potere della nobiltà (Carlo il Temerario
era il più potente feudatario di Francia), aveva ripreso l'alleanza
col Terzo Stato (borghesia), e rafforzato l'esercito e la burocrazia.
La monarchia francese era in grado di riscuotere una serie di
imposte senza l'autorizzazione degli Stati Generali, disponeva di
funzionari statali addetti alle amministrazioni finanziarie e
giudiziarie, poteva imporre una coerenza più stretta fra politica
ecclesiastica e interessi francesi, aveva costituito l'esercito più
numeroso d'Europa. Con Carlo VIII scese in Italia nel 1494 e
cercò di contenere la potenza asburgica (pace di Cateau-Cambresis
nel 1559, con cui la Francia, pur uscendo sostanzialmente
sconfitta, ottenne che l'impero di Carlo V fosse diviso tra il figlio
Filippo II e il fratello Ferdinando).
4. Dopo la Riforma protestante, il 20% dei francesi divenne
calvinista (specie nel Sud rurale). Dal 1562 al 1592 il Paese
conobbe otto guerre di religione. Il momento più tragico fu la
strage di migliaia di ugonotti (calvinisti) a Parigi nel 1572. Dopo
questa strage cominciò a farsi strada l'idea che alla base della
legittimità del potere regio doveva esserci non solo il diritto divino
ma anche il consenso popolare, per cui non si escludeva il
regicidio. Tuttavia, Enrico IV di Borbone garantì agli ugonotti
coll'Editto di Nantes (1598) la libertà di culto, la possibilità di
svolgere funzioni pubbliche, ecc.
INGHILTERRA. La storia dell'Inghilterra si può dividere in 3 periodi: 1)
normanno (1066-1135), iniziato con Guglielmo il Conquistatore; 2)
Plantageneti (1154-1399), che combatterono contro la nobiltà feudale,
ma senza successo. Anzi, con la Magna Charta Libertatum (1215), la
nobiltà riesce ad ottenere il regime monarchico costituzionale e con le
Provvisioni di Oxford (1258) ottiene il Parlamento, che si divide in
Camera Alta (LORD = nobili e alto clero) e Camera Bassa (COMUNI =
borghesia e piccola nobiltà); 3) Lancaster (1399-1461), che cercarono di
trasformare l'Inghilterra da Stato agricolo a Stato commercialeindustriale, ma la nobiltà vi si oppose con successo.
1. L'Inghilterra si costituì in grande monarchia nazionale dopo la
guerra delle Due Rose (BIANCA = YORK e ROSSA =
LANCASTER) che rifletteva la lotta tra Corona e Parlamento
(1455-85). La guerra fu causata da contese dinastiche, ma la
motivazione economica principale dipese dalla rivalità tra
borghesia (che appoggiava la Corona) e la nobiltà (che, rovinata
dalla guerra dei Cento Anni, cercava di ottenere dalla monarchia
privilegi maggiori. Il Parlamento serviva appunto alla nobiltà per
controllare il re, il quale, per questa ragione, cercava di convocarlo
il meno possibile).
2. La guerra si concluse con la vittoria dei Lancaster, che posero sul
trono Enrico VII (1485-1509), fondatore della dinastia dei
TUDOR. L'anno dopo, in segno di pacificazione, Enrico VII sposò
Elisabetta, della casata di York. Il re tolse al Parlamento molte
funzioni, confiscò alla grande nobiltà molte proprietà (vendendole
alla
piccola
e
media
borghesia),
fece
alcune
riforme
amministrative appoggiandosi alla piccola nobiltà. L'Inghilterra
cominciò a diventare una nazione commerciale e industriale.
3. Con Enrico VIII (1509-1547) la corona inglese si allontana dalla
chiesa di Roma e istituisce una chiesa di stato (anglicana) con a
capo lo stesso re (senza toccare i dogmi cattolici). Buona parte dei
redditi degli ecclesiastici passò alla corona con la riscossione delle
decime e la secolarizzazione dei latifondi. L'Inghilterra, soprattutto
con Elisabetta I (1558-1603), cercherà di essere molto accorta in
materia di politica religiosa, al fine di evitare inutili guerre
intestine: da un lato appoggerà apertamente i protestanti, dall'altro
eviterà di perseguitare i cattolici.
4. L'Inghilterra inizia per prima lo sviluppo capitalistico industriale
sulla base dell'unificazione nazionale. La conseguenza principale
di questo fu la guerra contro Spagna e Olanda per avere il
controllo delle rotte commerciali verso i paesi meno sviluppati e
per il dominio dei mari.
SPAGNA E PORTOGALLO. La storia della Spagna si può dividere in
due periodi: 1) dominazione araba (711-1212), che dopo il 1212 riuscì a
conservare solo il regno di Granata: il resto venne riconquistato dai
cristiani di Spagna; 2) dominazione cristiana (1212-1494), in cui la
Spagna presenta 4 regni: Navarra, Portogallo, Castiglia e Aragona.
1. Dei 4 regni, il Portogallo sarà impegnato in imprese marinare
sull'Atlantico: il suo obiettivo era quello di raggiungere le Indie
navigando lungo le coste africane; la Castiglia-Navarra rimasero
aristocratico-militari, soggette all'anarchia nobiliare; l'Aragona
diventerà più borghese, interessata al Mediterraneo (voleva
togliere a Genova e Venezia il monopolio del commercio con
l'oriente). La monarchia aragonese infatti s'impadronì della Sicilia
(inizi '300, dopo 20 anni di guerra contro gli angioini francesi:
guerra del Vespro), Sardegna (metà '300) e regno di Napoli (metà
'400), ma trascurò la politica interna, per cui, a unificazione
avvenuta, l'egemonia passerà alla Castiglia.
2. L'evento decisivo per la formazione della monarchia nazionale
spagnola fu il matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di
Castiglia (1469). Questa monarchia riuscì a reprimere l'anarchia
feudale, ottenere l'appoggio della borghesia, evitando di convocare
le Cortes (Stati Generali, dove la nobiltà poteva esercitare ampi
poteri), riconquistare nel 1492 l'ultimo territorio rimasto in mano
araba (regno di Granata). Si avvalse anche dello strumento
dell'Inquisizione (1478) per punire il nemico della fede cristiana e
il ribelle politico. Tuttavia le persecuzioni contro gli arabi (ottimi
agricoltori) e gli ebrei (attivi commercianti) finì per danneggiare
l'economia spagnola. Spagna e Portogallo aprirono la strada alle
conquiste coloniali oltreoceano.
3. Nel XVI sec. la Spagna ha enormi possedimenti coloniali; in
Europa, sotto gli Asburgo, ha i Paesi Bassi e l'Italia meridionale.
Verso la metà del XVI sec. le province settentrionali dei Paesi
Bassi insorgono e formano uno Stato autonomo: l'Olanda.
LA CRISI DEMOGRAFICA ED ECONOMICA IN EUROPA
La popolazione era cresciuta ed agli inizi del 600 si contavano 100
milioni di persone.Ma all'aumento della popolazione non ne seguì uno di
produzione agricola e si ebbero così nuove ondate di pestilenze e di
carestie,causate anche dalle guerre che straziavano i raccolti e da delle
annate umide.Il conseguente calo della produzione agricola e della
richiesta di merce provocò un ribasso dei prezzi.I traffici ed i commerci si
indebolirono e chi aveva soldi non li investiva ma comprava terreni e li
affittava.Questa rifeudalizzazione fu forte in Spagna e nell'Italia del
sud,dove
la
gente
più
contadini,trasformatisi
che
per
investire
necessità
sfruttava
in
al
massimo
briganti.Furono
i
abolite
l'importazioni dall'estero;si instauro così un movimento protezionistico.In
tutta
Europa
ci
furono
reazioni
diverse;
OLANDA
e
INGHILTERRA:solo queste 2 potenze si salvarono dal buio periodo di
crisi.Gli olandesi avevano ormai raggiunto l'indipendenza e la
popolazione era cresciuta molto.Approfittando della crisi che colpiva le
altre forze europee penetrarono nel Mediterraneo al posto dei
Veneziani,nelle
indie
portoghesi,arricchendosi
e
in
a
America
prendendo
dismisura.Inoltre
la
il
posto
classe
dei
sociale
predominante fu quella borghese e non quella della vecchia nobiltà che
sarà poi una delle rovine spagnole.L'Inghilterra ottenne lo stesso un
rapido sviluppo tanto da diventare la prima potenza mondiale,con colonie
sparse tra le indie e l'America.Ma lo straordinario sviluppo dell'economia
è dovuto anche ad un rinnovamento dell'agricoltura.Si passo da un
sistema
feudale
ad
uno
capitalistico,con
l'affermazione
della
privatizzazione del terreno e facendole lavorare da salariati anziché
affittarle.Salirono dunque due nuove classi sociali;la piccola nobiltà e la
borghesia proprietaria di terrenia,a scapito del latifondista e del
contadino.Queste nuove classi furono così importanti tanto da essere
determinanti quando fu giustiziato il re Carlo Stuart durante la
rivoluzione politica inglese.Si andava così verso un regime costituzionale
scandito da 3 fondamenti,l'habeas corpus act,Bill of rights e l'abolizione
della censura. FRANCIA Esattamente l'opposto dell'Inghilterra,la Francia
assume un regime assolutistico imposto da Luigi XIII e dal figlio Luigi
XIV.Il primo ministro Richelieu aveva condotto una politica tendente
all'assolutismo monarchico(riscossione diretta delle tasse) e poi con la
salita al trono di Luigi XIV nel 1661 il sovrano assunse tutti i poteri,con
l'unificazione delle norme e l'annullamneto di privilegi.la corte divenne il
centro nevralgico della nuova politica.Comunque la Francia riuscì ad
annettere al suo regno anche l'Alsazia,il Lussemburgo e alcune città
fiamminghe di dominazione spagnola grazie alla pace di westfalia nel
1648 anche se poi alla fine del secolo questa potenza freno un po' le sue
mire espansionistiche.
LA FORMAZIONE DELLO STATO MODERNO
C’è stato un momento, nella storia contemporanea più recente, che ha
visto politologi, sociologi, economisti e storici discutere intorno
all’ipotesi di superamento dello stato, quasi che la fine dell’esperienza
storica degli stati nati sull’onda della rivoluzione d’ottobre del 1917 in
Russia, gli stati del socialismo reale, fosse il segnale che anche nel resto
del mondo l’esperienza plurisecolare dello stato moderno e dello stato
contemporaneo potesse volgere al termine. La tesi di coloro che
parlavano dell’abolizione-riduzione dello stato, sosteneva che lo stato
poteva ridurre la propria presenza ad una sfera molto ristretta di attività,
lasciando per il resto alle leggi del mercato di una economica sempre più
segnata dalla internazionalizzazione-globalizzazione di soddisfare i
bisogni dei singoli e delle collettività. A queste tesi si rispondeva con
l’osservazione che il mercato presupponeva comunque un’autorità che
facesse osservare le leggi (anche quelle del mercato) e che l’osservazione
storica faceva concludere che il mercato, lasciato libero di agire, avrebbe
prodotto sui tempi medio-lunghi l’accentuazione delle differenze
economiche e sociali e quindi tensioni che sarebbero sfociate in rivolte e
conflitti che avrebbero richiesto l’intervento di un’autorità dotata del
potere di sedare i disordini e forse anche di prevenirli. Il mercato non era
capace di risolvere tutti i problemi per i quali, nelle società
contemporanee, era chiamato ad operare lo stato.
Coloro che ribadivano la funzione insostituibile dello stato erano
concordi sulla necessità che anche gli stati dei paesi industrializzati
dell’Occidente ripensassero le proprie funzioni e si riorganizzassero in
modo da far rientrare nei loro compiti solo quello che la collettività non
era capace di produrre autonomamente, in maniera da ridurre i costi dello
stato e i pericoli per la democrazia e per la libertà di uno stato troppo
presente ed invasivo.
La discussione non è certo chiusa: intanto però intorno alla questione
teorica della "quantità" di stato necessaria per la società contemporanea,
della sua tipologia, dei suoi fondamenti si continua a discutere, anche
sotto la spinta dell’apparente fallimento del modello di stato del
socialismo reale che per ottant’anni - oltre che una ben precisa esperienza
di vita per centinaia di milioni di persone- era stata una palestra di
esercitazioni teoriche e di riflessioni per gli studiosi.
E’ anche all’interno di queste nuove considerazioni sulla necessità dello
stato per la società contemporanea e ancora sull’onda di quelle
trasformazioni di carattere strutturale che stanno riguardando lo stato
italiano, con la dismissione da parte di quest’ultimo di imprese e di interi
settori nei quali la sua presenza era stata forte e in alcuni casi dominante,
che si colloca la nostra riflessione sulla nascita e sull’evoluzione dello
stato in quel periodo della storia che va dalla metà del XV secolo alla fine
del XVIII e che noi identifichiamo come "stato moderno".
Seguiremo dapprima alcune riflessioni teoriche sulla definizione di stato
per poi scendere a considerare i risultati di alcune ricerche
sull’evoluzione dello stato moderno. L’ultima parte è una raccolta di
documenti d’epoca che pongono alcune questioni, nella fase dell’avvio e
del consolidamento dello stato moderno.
2. Definizione di "stato"
Per stato si intende una forma di organizzazione del potere
all’interno della quale ad una sola autorità viene riconosciuto il potere,
appunto all’autorità dello stato. Questa condizione di monopolio si
esprime attraverso il diritto (cioè un complesso di norme generali ed
impersonali) e attraverso l’amministrazione, esercitata mediante un
apparato burocratico, cioè di uffici.
Gli elementi che caratterizzano lo stato sono quindi il potere, gli
appartenenti allo stato, il territorio. Questi tre elementi si sono venuti
diversamente rapportando nel corso del tempo e hanno dato luogo allo
stato moderno che si può dire compiuto tra XVII e XVIII secolo; lo stato
moderno è stato superato dallo stato contemporaneo con la dislocazione
del potere da re al popolo; l’ultima trasformazione è sotto i nostri occhi e
si caratterizza per il problema della reale dislocazione del potere che non
è più nel popolo se non per funzioni e aspetti limitati.
"Se il termine Stato tarda ad affermarsi, il concetto che lo
sostanzia è chiaramente delineato, alla fine del Cinquecento, da J. Bodin
nei Six livres de la République (1576): col termine sovranità egli vuole
indicare il potere di comando in ultima istanza in una "repubblica" e,
conseguentemente, differenziare la società politica dalle altre associazioni
umane, nelle quali non c’è un tale potere supremo, esclusivo e non
derivato. Il termine "sovrano" non è nuovo, perché nel Medioevo
contrassegnava il potere del re ("Le rois est souverains par dessus tous"),
ma anche qualsiasi posizione di preminenza nel sistema gerarchico della
società feudale, per cui anche i baroni erano sovrani nelle loro baronie.
Ma ora la sovranità spetta a una sola istanza (il re o, caso assai più raro,
un’assemblea); si spezza quindi quella serie infinita di mediazioni, in cui
si articolava nel Medioevo il potere per lasciare uno spazio vuoto fra il
‘sovrano’, che poi è quasi sempre il re, che aspira al monopolio del
potere, e un individuo sempre più solo e disarmato, ridotto alla mera sfera
privata" (Stato, di Nicola Matteucci, in Enciclopedia del Novecento, vol.
VII, Roma, 1984, p. 94).
L’esercizio della sovranità, che ha sempre trovato il suo limite nel
diritto naturale e nelle leggi fondamentali, mano a mano che lo stato è
cresciuto, ha trovato ulteriori freni nella stessa rete degli consigli e degli
uffici oltre che nelle persistenti ed autonome aree di potere gestite da
soggetti diversi dal sovrano o dal popolo.
Quando il diritto naturale è stato posto a fondamento del diritto
positivo, quel limite si è trasferito nel diritto positivo. I grandi processi di
codificazione che hanno riguardato prima il diritto privato e poi il diritto
pubblico sono venuti a costituire i nuovi argini che condizionano ed
indirizzano la sovranità fino ad arrivare, sul finire del Settecento, alle
carte costituzionali (prima quella americana e poi quella francese).
La costituzione rappresenta la garanzia dei sudditi, almeno a
livello dei diritti civili e politici, contro l’arbitrio di colui che esercita la
sovranità. La sovranità vincolata dalla costituzione produce uno stato in
funzione del cittadino: è così giunto a termine il processo di sviluppo
dello stato moderno e si entra nello stato contemporaneo, nello stato dei
diritti garantiti dalle carte fondamentali, dello stato della divisione dei
poteri per assicurare a ciascuno di poter esercitare quanto di sua
competenza senza l’interferenza degli altri poteri ma sotto il controllo
degli altri poteri.
L'avvento delle carte costituzionali, di questo nuovo patto che si è venuto
a stabilire tra le classi dirigenti e il sovrano, coincide con la piena
spersonalizzazione dello stato e con l'avvento dello stato impersonale,
come si esprime J. Shennan in un recente saggio.
3. L’attenzione allo "stato moderno"
La scelta di concentrare l’attenzione sullo stato moderno dipende
dalla considerazione che l’osservazione e la riflessione su quanto si è
venuto realizzando nei secoli che vanno dal XV al XVIII sembra essere
più rilevante anche in relazione a quanto sta accadendo nelle diverse parti
del mondo oggi. I differenti percorsi dello stato contemporaneo non
sembrano trovare spiegazioni valide nelle esperienze che si sono
realizzate negli ultimi due secoli. Anche le grandi opere di sintesi sulle
vicende politiche della nostra epoca hanno finito per sentire l’esigenza di
esaminare e, in molti casi, di riesaminare il passato per poter cogliere
aspetti che la storiografia dell’epoca e l’indisponibilità delle fonti aveva
trascurato o frainteso.
E’ questo il percorso di Barrington Moore J. che parte dallo studio
della rivoluzione socialista per tornare alle origini dei grandi sistemi
politici mondiali (Barrington Moore, 1971); e lo stesso itinerario segue
Immanuel Wallerstein che parte dalla mondializzazione dell’economia e
della politica per trovare nella storia moderna l’avvio di quei processi che
portano alla concentrazione del potere nelle mani delle potenze mondiali
(Wallerstein, 1982).
Un processo di rilettura dei meccanismi della formazione dello
stato moderno è quello esposto dal volume curato da Charles Tilly (Tilly,
1984): ha riguardato una fase storica nella quale la supremazia e la forma
definitiva dello stato non erano ancora definitivamente affermate ed ha
approfondito aspetti nei quali risaltava più la difficoltà dello stato ad
imporsi che l’accettazione dello stato da parte delle popolazioni "l’analisi
dell’organizzazione di forze armate, controllo sulle risorse alimentari, e
formazione del personale tecnico e amministrativo implica l’indagine su
attività che comportavano sacrifici e costi da parte della popolazione, e
che quindi non erano generalmente ben viste dalle masse. Eppure furono
tutte essenziali nella creazione di stati forti: per questo sono in grado di
raccontarci qualcosa di importante sulle caratteristiche di forza o di
debolezza, centralizzazione o decentramento, stabilità o instabilità, degli
stati nel loro costituirsi. Naturalmente, anche altri settori d’attività
avrebbero potuto rientrare nel nostro elenco: il controllo della produzione
manifatturiera, il rafforzamento della moralità pubblica, la propaganda, la
colonizzazione e l’imperialismo, e così via...Man mano che il nostro
lavoro procedeva, l’omissione fondamentale che il gruppo ebbe a
rimproverarsi fu quella relativa al sistema giudiziario: infatti i tribunali, i
giudici e i procedimenti giudiziari precedono la formazione degli stati
nazionali appaiono sotto tanti imprevedibili aspetti, sovente oscuri e
dissimulati, tanto che è facile trascurare la grande importanza che ebbero
certi tipi di corti di giustizia nella edificazione quotidiana degli stati
occidentali".
Risalta con evidenza, nella ricerca curata dal Tilly,
quelle che erano le caratteristiche comuni dell’Europa alla vigilia della
formazione dello stato moderno. La prima era data dalla grande
omogeneità culturale che poteva trovare rivali solo in quella della Cina e
che aveva le sue lontane origini nell’Impero romano: essa si manteneva
viva grazie all’unica Chiesa, ai sempre più fitti rapporti commerciali, al
movimento delle persone, al fitto intreccio dei legami dinastici. La
seconda era la prevalenza contadina della gran parte della popolazione
con il complemento di un ceto parassita costituito dall’aristocrazia
terriera. La terza era l’emergere degli stati dall’ambito di una struttura
politica estesa, decentrata e frammentata all’interno della quale vi erano
diverse categorie che opponevano resistenza. E’ all’interno di queste
caratteristiche che si collocano gli approfondimenti delle diverse sezioni
del volume che rappresentano lo studio più moderno e complesso
sull’emergere e sull’affermarsi dello stato moderno. S. E. Finer ha
toccato la relazione fra sviluppo dello stato moderno e politica militare:
egli ha mostrato come ogni importante innovazione organizzativa o
tattica riguardante l’esercito abbia spinto i sovrani che volevano utilizzare
l’esercito per perseguire i loro disegni ad aumentare il prelievo fiscale per
ottenere le risorse necessarie. Quelli che riuscirono in questo disegno
ottennero un maggior controllo del territorio e il riconoscimento di tale
autorità da parte degli altri stati. G. Ardant riprende Finer quando
sottolinea il peso dell’organizzazione degli eserciti e della conduzione
delle guerre per l’aumento del peso fiscale ma indaga anche i conflitti che
si scatenarono tra sovrani e popolazioni quando in primi tentarono di
perfezionare la macchina della riscossione delle tasse e afferma che la
spinta più forte per l’espansione e l’organizzazione della burocrazia fu
dovuta alla necessità di ampliare il sistema fiscale. Lo stesso Tilly si è
occupato dell’approvigionamento alimentare e dell’ordine pubblico: "La
storia dell’intervento dello stato nella distribuzione alimentare illustra la
tenacia con cui larghi settori della popolazione europea opposero
resistenza (coscientemente o meno) agli sforzi di mercanti e funzionari
tesi a spingerli, adattarli, costringerli in un universo di comunicazioni
centralizzate, di mercati estesi e ramificati, e di ampie misure di
controllo". Il contributo di W. Fischer e P. Lundgreen riguarda il
reclutamento e la gestione del personale tecnico ed amministrativo che
provenne, inizialmente, per gran parte dal mondo ecclesiastico perché era
quello che assicurava il più alto livello di fedeltà al sovrano.
Gradatamente gli ecclesiastici furono sostituiti da laici ma il problema del
rapporto tra fedeltà ed efficienza rimase presente e fu risolto solo dalla
forte alleanza della corte con un ceto e assicurato dalla formazione
specialistica dei futuri burocrati. Lo studio di S. Rokkan sulle differenze
nella formazione degli stati in Europa segnala quello che è stato il
retroterra comune che fu presente nel sorgere degli stati nazionali in
Europa: l’influenza residua dell’impero romano, la presenza della Chiesa,
il precedente dei regni germanici autonomi, le relazioni tra le città
continentali, lo sviluppo della struttura feudale, le letterature volgari. Su
questo retroterra si collocarono le differenziazioni ma esse non
impedirono che il modello di stato europeo fosse percepito all’esterno
come un modello omogeneo. Un altro saggio di Tilly chiude il volume. Il
suo tema sono le teorie della trasformazione politica (le teorie dello
sviluppo politico, le teorie funzionaliste, le teorie storiche) in funzione
dell’interpretazione del fenomeno europeo e la conclusione è che si debba
cercare una nuova teoria perché nessuna di quelle attuali sembra
soddisfare l’esigenza di cogliere il proprio dello sviluppo statuale in
Europa.
Nel volume che H. Shennan ha dedicato alle origini dello stato
moderno in Europa (Shennan, 1991) e del quale si presenta un’ampia
sintesi dei primi capitoli, il percorso inizia agli albori del quindicesimo
secolo in Europa quando l'autorità personale del principe sta diventando
la fonte principale del potere politico e si conclude nei primi decenni del
diciottesimo secolo quando il potere del principe non si può più
distinguere dal suo regno mentre si consolida il concetto di stato
impersonale. L'esame riguarda Russia, Francia, Spagna, Danimarca,
Svezia, Inghilterra, Italia e Province Unite. L'attenzione a questi problemi
è stata lasciata sinora ai teorici della politica. L'intervento dello storico
invece è necessario, dice Shennan, in quanto è l'esame della pratica
politica che consente di cogliere alcune caratteristiche della formazione
dello stato moderno così come l'evoluzione delle idee attraverso un
approccio a due livelli. Di seguito una schematizzazione del contenuto
dei capitoli I, II e III.
I. L'ascesa del principe
Un riflesso della rinascita del potere dei principi anche alla corte del
granduchi di Moscovia: Ivan III il Grande sposa Sofia Paleologo, nipote
dell'ultimo imperatore d'Oriente. Tentò di far rivivere la Grecia in Russia.
I ricevimenti agli ambasciatori veneziani e del Sacro Romano Impero: il
resoconto del Contarini del 1476; Basilio II e l’ambasciatore del Sacro
romano impero nel 1526; Ivan il Terribile (1547-1584) e il resoconto del
Chancellor
La maestosità della corte di Borgogna.
Quando all'immagine cavalleresca si aggiunge quella del raffinato
conoscitore delle lettere, nasce una nuova generazione di principi:
Francesco I, Enrico VIII, i principi italiani
La vita delle corti: Heidelberg e la corte dei principi del Palatinato; la
corte di Polonia; l'Ungheria di Mattia Corvino.
In tutta Europa il principe andò acquistando una posizione predominante
anche se non è chiaro come sia riuscito a sostenere questa parte che in
parte discende dalla interpretazione della missione divina del suo ufficio.
Il re di Francia si sentiva obbligato a governare secondo i comandamenti
di Dio, a esercitare un'autorità che fosse emanazione dell'autorità divina,
a rappresentare il Signore sul suolo francese.
A Mosca si difendeva l'idea che, dopo il fallimento di Roma e di
Costantinopoli il compito di preservare la fede spettasse a Mosca e in
particolare al Granduca.
Le giustificazioni religiose delle guerre: il caso della Riconquista in
Spagna.
Il ruolo del principe si giustificava anche con la tradizione di autorità che
egli continuava ad esercitare e a rispettare: i casi di Carlo V e Filippo II.
La legittimazione del potere del principe attraverso le sue capacità di
condottiero e di combattente.
La preoccupazione di legittimare il proprio dominio o di cancellare dalla
memoria episodi foschi del passato.
II. I limiti e le implicazioni dell’autorità del principe
Quale il ruolo svolto dai principi all’interno dei loro stati? E quale il loro
concetto di stato?
I diversi concetti di stato in Machiavelli avevano questo in comune:
l’esistenza del principe era il presupposto fondamentale dell’esistenza
dello stato.
Lo stato era la proprietà del principe che questi ereditava come il figlio di
un proprietario terriero ereditava i territori paterni, ma la sua autorità era
basata sul potere di agire non solo sul possesso diretto che anzi spesso era
molto limitato
Le valutazioni del Contarini, del Budé, di Carlo V, di Giacomo I,
dell’elettore Federico Guglielmo I di Brandeburgo
E la preoccupazione del principe era conservare il potere e farsi garante
della rete dei diritti e dei privilegi di cui godevano i sudditi. Si sottolinea
l’aspetto passivo della funzione del principe rispetto alle leggi.
Altri elementi della sua funzione giurisdizionale:
- il principe doveva agire solo dietro consiglio dei saggi;
- il principe elargiva onori e benefici ai sudditi che ne erano degni: era
giusto;
- il principe governava illuminato dalla ragione; una ragione che andava
sposata con l’esperienza e con lo studio degli esempi che la storia ci
tramandava dal passato e infine con l’aiuto di Dio
In questa concezione si fece sempre più chiara l’idea che la giustizia e la
saggezza erano virtù in relazione al momento che le richiedeva. Quindi il
principe doveva essere soprattutto saggio, doveva saper scegliere la
soluzione migliore che il momento richiedeva: gli scritti di Scipione di
Castro.
Machiavelli: gli uomini devono considerare la qualità dei tempi e
procedere secondo quelli.
Il ruolo del popolo fu essenzialmente passivo.
Il principe e la fiscalità.
Il principe garante delle libertà per i sudditi
La forza e l’astuzia nella politica del principe
Il nuovo ruolo della diplomazia.
Lo strumento della guerra.
I consigli di Carlo V sull’uso della guerra
La funzione della forza fondamento dello stato
L’uso della religione
La distinzione tra moralità pubblica e moralità privata
III. La realtà del potere
L’autorità del re aveva bisogno di adattarsi continuamente alle nuove
situazioni: questo è il tema del capitolo.
Le trasformazioni politiche negli stati europei non furono né uniformi né
simultanee. Gli stati governati da lungo tempo da un potere legittimo
furono meno vulnerabili. Il caso di Francesco I.
Francesco I da una parte salvaguarda le tradizioni giuridiche delle diverse
località del regno, per altro verso istituisce sette nuovi parlaments
provinciali per esercitare la giustizia reale in accordo con le tradizioni
locali.
La giustizia reale comincia ad esautorare la giustizia signorile sia quella
ecclesiastica tra la metà del 400 e la metà del 500’. E l’aumentato potere
nel campo giudiziario portò i sovrani a prendere decisioni anche in quello
politico. La disputa sulle libertà gallicane seguita alla pubblicazione della
Prammatica sanzione di Bourges del 1438.
La Prammatica sanzione riguardava l’assegnazione dei benefici
ecclesiastici e la riscossione delle tasse dal clero francese da parte del
papa. Il parlamento di Parigi la ratifica nel 1439. Luigi XI nel 1461
l’abroga per rafforzare il suo controllo sulla chiesa e nel 1472 sottoscrive
un concordato con il papa con il quale si impegna ad abbandonarla del
tutto. Dopo la sua morte la politica francese oscilla. Nel 1516 nuovo
concordato e nuova revoca della Prammatica sanzione.
Il Parlamento di Parigi si oppose alla revoca e continuò a giudicare sulla
base dei capitoli della Prammatica sanzione.
L’approvazione della Prammatica sanzione era avvenuto con la dovuta
solennità. La revoca fu una decisione personale di Luigi XI che mirava ad
assicurarsi il favore del papa. Francesco I tentò di ottenere la fiducia del
Parlamento facendo approvare il suo Concordato e poi scegliendo la
strada della intimidazione e della sostituzione dei magistrati recalcitranti.
Era fondamentale ottenere l’appoggio del papa per realizzare le sue mire
sul napoletano.
La giustizia “politica” del re era dettata dalla ragion di stato, non dal
rispetto delle tradizioni e delle procedure.
E si venne pure modificando il rapporto del re con i suoi sudditi in
relazione al grande aiuto che il re aveva dovuto chiedere ai suoi sudditi
(guerra dei cento anni) aiuto che poi era stato chiesto anche al clero
imponendogli sussidi straordinari destinati a diventare sempre più
ordinari.
L’esigenza di difendere il paese impose nuovi sacrifici finanziari e finì
perciò il ruolo neutrale e passivo del re.
I rischi derivanti dall’estensione dell’autorità del re: essere schiacciati dal
potere sovrano nonostante le difese del parlamento.
La situazione in Spagna. Le ordinanze reali di Castiglia del 1484 e il
rispetto della legge naturale e divina oltre che dei diritti consolidati dei
sudditi. Le guerre e il vantaggio per il sovrano sia che si volgessero
contro gli infedeli sia che fossero contro il saraceno francese. La
crescente autorevolezza dei sovrani e la loro fame di risorse finanziarie e
di soldati consentì ai re cattolici e ai loro successori di aumentare la loro
autorità.
In Spagna i re si annettono le ricchezze degli ordini religioso
cavallereschi
di
Santiago,
Calatrava
e
Alcantara
aumentando
considerevolmente le loro disponibilità finanziarie.
Controllano l’indipendenza delle
città attraverso la nomina dei
corregidores; le cortes sono costrette ad accettare la conversione di
contributi straordinari in contributi ordinari. Regolano la vita dell’enorme
impero con la creazione di consigli di governo per la Castiglia,
l’Aragona, le Indie, l’Italia, il Portogallo, le Fiandre. La crescita numerica
e di potere della burocrazia. La creazione di un archivio a Simancas per
raccogliere la montagna di carte prodotte.
L’apparato burocratico così esteso non fu parimenti importante per lo
sviluppo dell’idea di stato moderno. Il caso della Russia dove non c’era
burocrazia e egualmente l’ide adi stato impersonale continuava a
marciare.
Sia in Francia che in Spagna gli antichi diritti continuarono ad essere
difesi con grande vigore per tutto il XVI secolo.
In Russia i tentativi del granduca di Moscovia di estendere i suoi domini
ebbero successo a danno dei grossi proprietari terrieri: i terreni espropriati
furono riassegnati per in servigi resi alla corona e servirono per costruire
una nuova nobiltà, i pomeschiki, al servizio dello zar. La concezione
patrimoniale dello stato a Mosca legata anche alla necessità di avere un
esercito sempre pronto contro i nemici. La necessità delle campagne
militari e l’esigenza di non spopolare le campagne oltre a quella di far
funzionare un sistema fiscale sempre più pesante produsse l’assenso del
monarca nel confronto del sistema della servitù della gleba. I sudditi
avevano come compito primario quello di servire. Le funzioni pubbliche
e quelle private dello zar si erano venute unificando; l’assenza di una
legge positiva (la legge era la volontà dello zar) affidava alla pietas del
sovrano la garanzia della corretta giustizia. Da questa identificazione
scaturì una organizzazione politica completamente soggetta agli interessi
del sovrano.
Nella seconda metà del cinquecento si radicò nella società russa la
convinzione che la fonte dell’assoluta dipendenza dei sudditi stava nelle
esigenze dello stato, uno stato impersonale anche se totalmente soggetto
alla persona dello zar.
Una situazione analoga nello stato branderburghese-prussiano. Federico
Guglielmo fece leva sulla paura di una aggressione esterna. Il ritardo
nella formazione dello stato. La concezione di Federico II della
dipendenza del re e dei sudditi dallo stato impersonale.
L’Inghilterra in una situazione mediana tra quelle precedenti. I Tudor
agirono all’interno delle compatibilità della legge comune. La macchina
statale creata da T. Cromwell non stravolse però il ruolo centrale del
sovrano. L’evoluzione avvenne in relazione soprattutto alla rivoluzione
religiosa. Enrico VIII avvia così il dispotismo dello stato. La crescita
enorme del potere derivata dal controllo sulla chiesa d’Inghilterra e con
l’appoggio del parlamento che fu definitivo però solo molti anni più tardi.
Il re della dinastia Vasa in Svezia, Gustavo, depredò le proprietà della
chiesa con l’assenso dei corpi politici e si sostituì al suo vertice sia
nell’ordine
religioso
che
in
quello
civile.
Lo
sviluppo
dell’amministrazione dello stato oltre quella privata del sovrano. Gustavo
Adolfo, all’inizio del Seicento, stabilì definitivamente l’apparato
amministrativo. La creazione di una forza militare permanente. Il servizio
statale dell’aristocrazia nell’esercito o nell’amministrazione in cambio del
riconoscimento della sua propriet.
In Danimarca notevoli le influenze della riforma religiosa. Cristiano III e
il creatore del nuovo stato. Nelle sue mani si concentra dopo il 1536 il
potere civile e quello ecclesiastico. Le sostanze però furono utilizzate per
la costruzione di scuole e per sostenere la cultura, per sostenere gli
ospedali. E questo radicò il potere dello stato.
In Moscovia non vi fu riforma religiosa. Ma l’ideale teocratico che aveva
informato la sua politica servì allo zar per sostituirsi nel ruolo di garante
al patriarca una volta che il patriarcato fu soppresso nel 1721 e sostituito
dal Sacro Sinodo con Pietro il Grande. Avendo distrutto le antiche
fondamento dello stato, Pietro il Grande ne definì le nuove basi: così si
giunse all’idea di uno stato impersonale e onnipotente.
Riforma e controriforma
i maggiori storiografi cattolici e protestanti tendono oggi a sostenere la
coesistenza di due aspetti distinti e paralleli nella realtà del cattolicesimo
cinquecentesco, la «Riforma cattolica» e la «Controriforma». Il primo di
questi,
alla
fine
dell'Ottocento,
fu
proprio
un
protestante,
il
Maurenbrecher Dopo di lui, Von Pastor, Joseph Lortz, Lucien Febvre,
Delio Cantimori, Iserloh, Giacomo Martina (vedi la sua bibliografia),
Giuseppe Alberigo, Mario Bendiscioli (In La riforma cattolica, Roma
1962), Pier Giorgio Camaiani, Jean Delumeau, Paolo Prodi ed altri.
Fu soprattutto lo storico tedesco Hubert Jedin, nell'opera Riforma
cattolica o Controriforma? (ed. it. 1957), a identificare e definire i due
movimenti come distinti nella storia della Chiesa cattolica.
• Riforma cattolica. Tutti questi studiosi affermano l'esistenza di un
movimento di riforma interno alla Chiesa cattolica che è
indipendente dalla riforma luterana. Ossia, dicono, vi sono
elementi per affermare che la Chiesa cattolica era sulla strada della
riforma interna anche senza la «spinta» di Lutero. Questi
movimenti di riforma nascono generalmente dal «basso». Ne sono
un esempio, la nascita di nuovi ordini religiosi, che tuttavia non
precedono
l'avvento
del luteranesimo.
Chiaramente,
questi
movimenti di riforma non toccano il vertice della Chiesa , se non in
un secondo tempo.(papa, curia romana e cardinali).
• Controriforma. Vi è poi un movimento di riforma che trova la sua
origine in opposizione ad essa: il tentativo di riformarsi per
bloccare, se non ostacolare, la riforma luterana. Questo movimento
di riforma, chiamato appunto «Controriforma», che trova nel
Concilio di Trento il suo atto fondamentale, nasce dall'«alto», dalla
gerarchia cattolica. La controriforma indicherebbe quel processo di
'ri-cattolicizzazione' dei territori caduti in mano al protestantesimo.
Per questo furono spese le energie delle famiglie religiose di più
recente fondazione (le nuove Congregazioni di Chierici regolari
come i Gesuiti, i Teatini, i Somaschi e i Barnabiti, ma anche i rami
riformati di Ordini più antichi, come quello dei Cappuccini),
caratterizzate da dinamismo e da un diretto intervento nella società
contemporanea, oltre che da un intenso impegno nell'opera di
evangelizzazione.
Questa distinzione, propria di un certo ramo della storiografia, quello che
vede nella reazione cattolica alla Riforma più gli aspetti positivi che
quelli negativi, sconfina spesso in un certo gusto per un revisionismo
acritico. Non bisogna tuttavia dimenticare la sostanziale persistenza di un
filone storiografico che si oppone a questa linea interpretativa. Tra gli
studiosi che hanno proposto opinioni contrastanti, si può menzionare
Giovanni Miccoli, che a tale problema si dedica nel paragrafo conclusivo
del suo celebre saggio La storia religiosa (in Storia d’Italia, II/1, Dalla
caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 429-1079,
alle pp. 975-1079), dedicato a "Crisi e restaurazione cattolica nel
Cinquecento".
L’ASSOLUTISMO FRANCESE
Dal punto di vista politico il XVII secolo fu caratterizzata da un forte
concentramento del potere nelle mani del sovrano. Questo fenomeno
viene definito dagli storici dell'assolutismo regio. L'estensione dei poteri
della monarchia una complessa organizzazione di collaboratori e
amministratori, scelti fra quanti, anche se non erano nobili, avevano
precise competenze giuridiche e finanziarie. Tuttavia all'inizio del
Seicento c'erano molti ostacoli da superare.
Prendiamo il caso della Francia. Poichè essa si era formata lentamente nei
secoli attraverso annessioni, conquiste e successioni ereditarie, molte
delle regioni, che si erano aggiunte più tardi alla parte originaria del
regno, mantenevano ancora al principio del '600 proprie leggi e proprie
consuetudini giudiziarie e fiscali.
Anche la situazione militare sfuggiva per molti aspetti al controllo del
sovrano: parecchi nobili continuavano ad avere proprie fortezze e propri
soldati. Infine le cariche pubbliche non solo erano vendute dallo Stato,
ma chi le acquistava aveva il diritto di farsi pagare dai sudditi le sue
prestazioni e di lasciare il proprio incarico in eredità ai figli.
Fu appunto contro questi ostacoli all'assolutismo regio che la monarchia
francese concentrò i suoi sforzi nel corso del XVII secolo. In tale opera si
distinsero in particolare il cardinale di Richelieu, primo ministro ai tempi
di Luigi XIII, e il sovrano Luigi XIV.
Nel 1610, un cattolico fanatico assassinò Enrico IV, forse per punire colui
che aveva concesso la libertà di culto agli ugonotti. Poichè l'erede al
trono Luigi XIII aveva solo nove anni, seguì un nuovo periodo di
debolezza della monarchia, durante il quale tornarono a scoppiare gravi
disordini. Il rafforzamento dell'autorità
regia riprese solo nel 1620,
quando Luigi XIII, raggiunta la magiore età , assunse direttamente il
potere, e soprattutto nel 1624, quando divenne suo primo ministro il
cardinale di Richielieu. Nel 1643 morì Luigi XIII. Ancora una volta si
ritrovò con un re bambino, Luigi XIV, e quindi con un potere monarchico
molto debole. Pertanto, nonostante il tentativo del nuovo primo ministro,
il cardinale Mazarino, di proseguire la politica accentatrice di Richelieu.
Nel 1661, alla morte di Mazzarino, Luigi XIV assunse direttamente nelle
proprie mani il potere, senza nominare più alcun primo ministro, anche se
naturalmente si servì di collaboratori.
Come appare con molta evidenzia nelle sue memorie, egli sostenne infatti
una concezione dell'assolutismo che sottolineava fortemente il ruolo e
l'autorità
diretta del sovrano. Nelle memorie compare anche un'altra
caratteristica dell'assolutismo che in particolare proprio allora si andava
affermando con forza: i re sono voluti da Dio e perciò comandano per
diritto divino.
Per attuare la sua politica assolutistica, Luigi XIV agì in diversi settori: a)
tentò di realizzare quell'unificazione amministrativa, giudiziaria e fiscale;
b) revocò, ossia ritirò, l'Editto di Nantes (1685) al fine di dare uniformità
religiosa alla Francia; c) sempre in campo religioso, Luigi XIV appoggiò
le tendenze della Chiesa francese all'autonpmia del Papato, prendendosi
così, ad esempio, il diritto di nominare i vescovi; e) cercò di controllare la
cultura, sia con la repressione (la sorveglianza e la censura della stampa)
sia con l'organizzazioni di attività che esaltassero la grandezza della
monarchia. Il risultato maggiore fu la costruzione della magnifica reggia
di Versailles, nei dintorni di Parigi, dove Luigi XIV, ormai definito il Re
Sole per lo splendore di cui si circondava, dal 1682 radunò la sua corte e
tutti i maggiori nobili della Francia.
In tal modo il sovrano riuscì a tenere gli aristocratici sotto controllo e a
sorvegliarli, e soprattutto li allontanò dalle loro terre, dove godevano
ancora di potere e prestigio.
IL 1848 IN EUROPA E IN ITALIA
Il 1848 fu l’anno delle rivoluzioni in gran parte d’Europa. La
contemporaneità dei moti li fece apparire già allora come movimenti
diversi di un unico grande processo rivoluzionario. In realtà le rivoluzioni
ebbero svolgimenti ed obbiettivi diversi, ma alla loro origine ci fu una
comune aspirazione al cambiamento.
In Francia vi era un forte scontento. Luigi Filippo d’Orleans aveva
favorito l’ascesa della borghesia ed era stato sostenuto soprattutto dal suo
nucleo dirigente, composto da banchieri ed industriali. Erano invece
all’apparizione
i
movimenti
democratico
e
repubblicano,
che
interpretarono le ispirazioni del popolo e della piccola e media borghesia.
Esisteva anche un’opposizione di destra, formata dai legittimisti (che si
richiamavano ai Borbone, considerati i legittimi sovrani di Francia) e i
Bonapartisti, guidati da Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone. Il 22
Febbraio 1848 a Parigi scoppiò l’insurrezione che diede vita al
movimento rivoluzionario europeo. Si combatté per le strade fino al 24
Febbraio quando Luigi Filippo fu costretto ad abdicare. Subito dopo fu
proclamata la II Repubblica e si formò un governo provvisorio: furono
varati numerosi provvedimenti di carattere democratico, tra cui
l’adozione della pena di morte per i reati politici, l’eliminazione dei titoli
nobiliari, la riduzione a 10 ore della giornata lavorativa. Nel Dicembre
1848 si tennero le elezioni: divenne presidente il candidato Bonapartista
Luigi Napoleone che sembrava offrire garanzie di libertà (aveva
partecipato ai moti in Romagna nel 1831), ma che nel Dicembre 1851, un
colpo di stato sciolse il parlamento e riuscì a legittimare la propria
politica con due plebisciti: il secondo, nel 1852, diede a lui il titolo di
Imperatore che egli assunse con il nome di Napoleone III.
Dopo Parigi fu la volta di Vienna il 27 Febbraio , appena si diffuse la
notizia di ciò che era avvenuto nella capitale francese, iniziarono le
agitazioni. Il 13 Marzo una imponente manifestazione studentesca
coinvolse l’intera popolazione, Metterich fu costretto a lasciare il
governo. Il 2 Dicembre l’Imperatore Ferdinando I abdicò in favore del
nipote Francesco Giuseppe (che regnò dal 1848 al 1916). La notizia
dell’allontanamento di Metterich raggiunse Milano, dove da tempo
covava l’insofferenza antiaustriaca. La città insorse e dopo 5 giorni di
combattimenti per le strade (18/22 Marzo) le truppe austriache dovettero
abbandonare Milano; fu costituito un governo provvisorio formato da
moderati, anche se a condurre la lotta erano stati soprattutto artigiani,
operai e piccola borghesia sotto la direzione del democratico Carlo
Cattaneo.
Il 17 Marzo era insorta anche Venezia dove fu ripristinata la Repubblica
sotto la direzione dei democratici Nicolò Tommaseo e Daniele Manin.
Governi provvisori liberali si erano costituiti anche nei ducati di Modena
e Parma.
Incalzati da ogni parte, gli austriaci ripiegarono nel quadrilatero di
fortezze costituito da Peschiera, Verona, Mantova e Legnano, dove il
maresciallo Radetzky attendeva rinforzi da Vienna per scatenare la
controffensiva.
Il governo provvisorio milanese si rivolse allora a Carlo Alberto perché
assumesse la direzione di quella che si incominciava a chiamare “guerra
di indipendenza”. Il 23 Marzo Carlo Alberto apre le ostilità contro
l’Austria che avrebbero dovuto coinvolgere tutti gli altri stati Italiani,
compreso quello Pontificio, ma l’apporto di toscani, romani e napoletani
si ridusse a ben poca cosa.
Il 29 Aprile Pio IX dichiarava che Roma doveva mantenersi estranea al
conflitto, seguita in questo dai sovrani di Toscana e del napoletano.
Nonostante questo, Carlo Alberto ottenne alcuni successi militari, ma in
seguito (25 Luglio) fu irrimediabilmente sconfitto a Custoza e costretto a
firmare un armistizio.
La direzione della lotta per l’indipendenza passò allora in mano ai
democratici; nel 1849 vi furono iniziative tese a spodestare i sovrani dei
vari stati: a Firenze si formò un governo provvisorio diretto da un
Triumvirato mentre il granduca Leopoldo II prendeva la via dell’esilio; a
Roma le manifestazioni dei liberali costrinsero Pio IX a rifugiarsi nel
Regno delle due Sicilie: anche qui si costituì un Triumvirato di cui fece
parte anche Giuseppe Mazzini.
I moderali, preoccupati, riuscirono a convincere Carlo Alberto a
riprendere la lotta contro l’Austria, ma questi, sconfitto nuovamente, fu
costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II.
A Napoli Ferdinando II revocò la costituzione, in Toscana gli austriaci
riportarono sul trono Leopoldo II; contro la Repubblica Romana si
mobilitò Luigi Napoleone.
Giuseppe Garibaldi, venuto in Italia dall’America Latina in occasione dei
Moti, raccolse degli uomini per andare in aiuto di Venezia assediata dagli
austriaci, ma non riuscì a raggiungere la città che resistette finché
un’epidemia di colera e la fame la costrinsero alla resa (Agosto 1849).
Si chiudeva così un ciclo di lotte che aveva mobilitato grandi masse e
suscitato enormi speranze. Ancora una volta uscì vincitrice la borghesia
moderna che aveva ripiegato su posizioni di compromesso con le forze
conservatrici.
LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La Rivoluzione Francese è stata una successione di avvenimenti politici e
sociali che ebbero come conseguenze principali la caduta della
monarchia, il crollo dell'Ancien Régime e l'istituzione della Repubblica in
Francia. Le cause principali furono l'incapacità delle classi dominanti di
affrontare i problemi di stato, l'indecisione del Re, l'esagerata tassazione
della popolazione rurale, l'impoverimento del proletariato, il fermento
intellettuale dovuto all'Illuminismo e l'eco della guerra d'Indipendenza
Americana
Cause
Prima del 1789, la Francia era una monarchia assoluta legata alla
tradizione medioevale. Il Re, fiancheggiato dal clero e dalla ricca nobiltà,
deteneva i tre poteri. Lo stato era incapace di adeguarsi ai mutamenti in
atto e opprimeva le masse, ormai vessate da sgravi fiscali. L'invio di
truppe e rifornimenti per sostenere gli Americani in lotta contro gli
Inglesi aggravò la pesante situazione economica francese già in crisi
perché vincolata all'agricoltura. La tassazione nei confronti dei contadini
aveva raggiunto il limite di sopportazione, già minato dagli esosi oneri
signorili ricollegati ad un antico sistema feudale. Il peggioramento
inesorabile della condizione contadina fu anche dovuto alla crisi che
sconvolse la produzione cerealicola del 1787 a causa di disastri
meteorologici. I tenui tentativi del sovrano Luigi XVI di riformare il
sistema fiscale, altamente squilibrato, vennero contrastati dal clero e dai
nobili in quanto avrebbero dovuto rinunciare a buona parte delle loro
ricchezze e dei loro privilegi. Le proposte del ministro delle finanze
Necker puntavano infatti a limitare la classe dirigente e ciò gli costò la
carica. Egli aveva tentato di attuare un prelievo fiscale più equo
coinvolgendo le classi ricche e una riduzione degli sprechi attraverso tagli
delle spese. Inoltre, le idee illuministiche si erano ormai diffuse in tutta
Europa proponendo un atteggiamento fortemente antitradizionalista,
nutrito dalla convinzione che il passato, in particolare il Medioevo,
coincidesse con l'età dell'ingiustizia, del sopruso, della superstizione e
dell'ignoranza. Opponendosi a sistemi antiquati che limitassero la libertà
del singolo individuo in funzione di un ideale cosmopolita. Se dal punto
di vista sociale, la Francia era in una profonda crisi, anche il sistema
politico non respirava aria salutare. Non solo i contadini, ma anche la
media borghesia aveva degli obiettivi ben definiti ed uno di questi era
l'entrata nelle
decisioni politiche. Obiettivi che portarono alla
convocazione degli Stati Generali, sintomo di un esteso scontro che
durerà per 10 anni.
Come già detto, l'inasprimento delle relazioni tra "rivoluzionari" ed
"oppositori" provoca reazioni violente, e un chiaro esempio lo troviamo
con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789. La formazione di un
governo tradizionalista da parte del sovrano e la concentrazione di truppe
attorno a Parigi, scatenò la reazione della borghesia che formò una
milizia armata. Quasi spontaneamente si generò una rivolta che Luigi
XVI sottovalutò senza prendere misure di contenimento.
Obiettivi
La rivoluzione francese è stata guidata dalla media borghesia che sfruttò
la forza delle masse contadine, prive di grandi obiettivi rivoluzionari, per
raggiungere i propri scopi. Il principale obiettivo della borghesia era
l'ammodernamento
attraverso
il passaggio
dalla
monarchia
alla
repubblica. Un passaggio verso uno stato formato da classi determinate in
base al patrimonio e non in base alla nascita. Cioè uno stato fondato sulla
mobilità e capace di evolvere, non fossilizzato su un'immobilità
medioevale. Tali idee sono riassumibili in una finalità: la libertà. Fin
dall'Assemblea Nazionale, poi costituente con l'aggiunta di membri
aristocratici, venne stilata la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino" che fissò gli ideali rivoluzionari nel motto: "Libertè, Egalitè,
Fraternitè". Questo implicò un passaggio verso i principi democratici di
sovranità popolare e suddivisione dei poteri poi diventati effettivi nella
Costituzione del 1791. Per raggiungere ciò, l'Assemblea abolì il regime
feudale eliminando le corvèes e le decime, in un processo atto a colpire
l'aristocrazia ed il clero.
Gli "assegnati" sono stati una soluzione al problema economico perché,
oltre a limitare direttamente la ricchezza della Chiesa, hanno portato altro
denaro nelle bisognose casse dello stato. Perciò, come scopo troviamo
una lotta, spinta anche da uno spirito illuminista basato sulla razionalità,
contro lo strapotere della Chiesa francese. E infatti la costituzione civile
del clero del 1790 riformava l'organizzazione ecclesiastica sul modello di
quella amministrativa. In più, sempre per migliorare le condizioni
economiche, venne deliberata l'abolizione delle barriere doganali interne;
la giustizia fu organizzata in modo più uniforme e ordinato. Un fine
conseguente alla rivoluzione fu la guerra contro l'Austria voluta dai
giacobini. Con tale scontro armato, essi sperarono di compattare le
diverse fratture interne verso un unico avversario e quindi sistemare i
contrasti nascenti. La genesi di una monarchia costituzionale sembrò
porre termine alla rivoluzione, ma non fu così perché sia il sovrano
insoddisfatto dei poteri limitati, sia i radicali giacobini desiderosi di
partecipare attivamente alla politica minarono la precaria stabilità
ottenuta dalla borghesia. Inoltre è chiara la decisione, degli anni seguenti,
di cancellare tutto ciò che fosse legato al potere monarchico e di iniziare
un processo di "scristianizzazione"; ne sono un esempio l'uccisione di
Luigi XVI in pubblica piazza e la creazione di un nuovo calendario
Opposizioni
Le forze di opposizione, in Francia, sono rappresentate dal monarca,
dall'aristocrazia, dalla Chiesa, da contadini insoddisfatti e da monarchici.
Fin dalla convocazione degli stati generali, sia il Sovrano che i suoi diretti
sostenitori, continuarono a limitare le nascenti necessità del Terzo Stato
non permettendogli di guadagnare potere. L'insoddisfazione di Luigi XVI
per aver perso il potere assoluto lo portò ad atti controrivoluzionari
nonostante fosse stata stabilita una monarchia costituzionale. Infatti,
possedendo ancora il diritto di veto sulle decisioni dell'Assemblea
Nazionale costituente, impedì tangibilmente i progressi borghesi. Il fine
primario del Re era quindi la ricostituzione di una monarchia assoluta,
anche con l'aiuto degli altri stati europei. Si ricordi che tali stati non
legittimarono i nuovi governi rivoluzionari. Al fianco di Luigi XVI
troviamo un gruppo di aristocratici fuggiti dalla Francia che cercarono di
convincere le monarchie europee a dichiarare guerra alla madre patria.
Per quanto riguarda la Chiesa, sempre si è opposta veementemente ai
mutamenti improvvisi, violenti e pericolosi per difendere la propria
egemonia. Dalla costituzione civile del clero, molti membri si rifiutarono
di prestare giuramento alle istituzioni francesi e per questo vennero
definiti "refrattari". Tutti i procedimenti dell'Assemblea verso la Chiesa,
tuttavia, portarono più danni che miglioramenti. La somma di questa
spinta controrivoluzionaria al mancato soddisfacimento dei bisogni della
maggior parte dei contadini che non vedevano migliorare la propria
condizione economica, anzi peggiorata dall'istituzione di una leva
obbligatoria, portò gli stessi ad agire contro la rivoluzione.
Cambiamenti Effettivi
Il risultato immediato della rivoluzione fu l'abolizione della monarchia
assoluta e dei privilegi feudali: la servitù, i tributi e le decime furono
soppressi; i grandi possedimenti vennero frazionati e si introdusse un
principio equo di tassazione. Con la redistribuzione delle ricchezze e dei
terreni, la Francia divenne il paese europeo con il maggior numero di
piccoli proprietari terrieri indipendenti. Tuttavia, la conclusione degli
eventi fu un colpo di stato (18 brumaio 1799) ideato da Napoleone.
Quindi, se l'obiettivo principale è stato l'abbattimento della monarchia per
instaurare una repubblica, esso non può definirsi pienamente raggiunto
perché, nonostante i travagli rivoluzionari, la Francia diventò nel 1804 un
Impero con a capo Napoleone Bonaparte. Molti sono stati i cambiamenti
ma, oggettivamente, la rivoluzione si è conclusa bruscamente con un
ritorno al punto di partenza. Accadrà lo stesso in Russia un secolo dopo.
Invece a livello sociale ed economico, furono aboliti l'incarceramento per
debiti e il diritto di primogenitura nell'eredità terriera. Napoleone portò a
compimento alcune riforme avviate durante la rivoluzione:
istituì la Banca di Francia, che era banca nazionale semi-indipendente e
agente governativo in materia di valuta, prestiti e depositi pubblici;
instaurò l'attuale sistema scolastico, centralizzato e laico; riorganizzò
l'università e fondò l'Institut de France; stabilì l'assegnazione delle
cattedre in base a esami aperti a tutti, senza distinzioni di nascita o
reddito. Rifiutando la teoria della divisione dei poteri, e non riuscendo a
dare nessuna autorità alle Costituzioni che furono promulgate, la
rivoluzione francese si condannò ad una lunga navigazione senza riuscire
a scorgere qualche approdo sicuro. Il terrore risulta allora come la
conseguenza di un potere che in nome di obbiettivi elevati non riconosce
limite legittimo al proprio operato. Perché si possano giustificare atti di
grande violenza sono necessarie condizioni gravissime. Torniamo allora
al paradosso che da buoni propositi si possa giungere ad azioni delittuose.
IL FEUDALESIMO
Il feudalesimo è una forma di governo medievale, per la quale il re o
l'imperatore o un grande proprietario terriero, organizzava il lavoro dei
suoi sudditi attraverso una gerarchia di persone che venivano compensate
non mediante denaro ma mediante la concessione di terre.
La società feudale si divideva in tre classi: il re, i feudatari e i servi della
gleba.
I feudatari erano proprietari della terra ed esercitavano il comando sia
politico,
sia
militare
sostituendosi
alle
funzioni
dello
stato.
Suddividevano la terra tra i contadini, i quali disponevano di tutti i mezzi
per lavorarla. Amministravano la giustizia per tutti gli abitanti del villaggi
ed obbligavano il villaggio a servirsi dei loro mulini, forni, taverne...
vietando qualunque forma di concorrenza. Imponevano tasse sull'attività
di scambio, pedaggi sulle strade e ponti ed esigevano prestazioni di
lavoro e imposte ordinarie e straordinarie. In queste condizioni il
ricambio sociale, l'ascesa di gruppi sociali e di individui era difficile e
lenta.
Il feudalesimo, nella sua struttura economica essenziale, non può dirsi un
fenomeno nuovo, ma la sua originalità sta nel carattere politico che esso
assunse nei tempi posteriori a Carlo Magno. Per comprendere l’ordine del
feudalesimo è necessario tenere presenti tre istituzioni romanogermaniche sviluppatesi nel tardo impero e durante la formazione dei
regno romano-barbarici. Tali istituzioni sono il beneficio, il vassallaggio,
l’immunità.
Su queste tre istituzioni si fonda giuridicamente il feudalesimo.
Occorre ricordare che nell’alto medioevo l’unica vera ricchezza è la terra
e che il bottino maggiore quando si fa una conquista è costituito dai
terreni più fertili. Questi spettano di diritto al re, il quale ne distribuisce
una parte consistente tra i guerrieri che lo hanno aiutato militando a
proprie spese e senza ricevere uno stipendio. Questa donazione personale,
vitalizia e inalienabile era il beneficio. In altre parole la terra non
diveniva proprietà (allodio) del beneficiario, ma rimaneva di diritto la re;
il beneficiario conservava l’usufrutto a vita.
In corrispondenza al beneficio ricevuto il beneficiario diveniva vassallo
del re, gli giurava fedeltà, (omaggio) e si dichiarava suo uomo, suo fedele
e lo riconosceva come signore.
L’obbligo maggiore del vassallo nei confronti del signore era il servizio
militare, prestato gratuitamente, poi venivano i tributi in natura o in
denaro, , l’ospitalità al signore e alla sua corte in caso di passaggio, la
divisione delle prede in guerra ecc. Il beneficio, congiunto al
vassallaggio, si definisce Feudo, il beneficiario si definisce feudatario, la
cerimonia di assegnazione del feudo è l’investitura.
Il feudo, quale risultato dell'unione del beneficio al vassallaggio, non
rappresenta in fondo che il godimento di una terra in corrispondenza di
un servizio da prestarsi dal vassallo al suo signore: é dunque un fatto
economico-sociale. A dargli invece un carattere politico contribuiscono le
immunità, cioé le frequenti esenzioni dalla giurisdizione del sovrano.
S'incomincia a concedere che il beneficio, il quale era vitalizio e
personale, divenga perpetuo e trasmissibile agli eredi; così fa Carlo il
Calvo nell'877 col celebre Capitolare di Kiersy per i feudi maggiori; così
farà Corrado II il Salico per i feudi minori (1037). In tal modo
s'indebolisce il vincolo che lega in perpetuo il beneficio al re, e si toglie
al sovrano la possibilità di eleggere ogni volta il nuovo beneficiato: alla
nomina regia è sostituito il diritto ereditario. Poi ecco nuove immunità :
esenzione dal tributo, diritto di battere moneta, esonero in molti casi dal
servizio militare, concessione di imporre tasse entro il feudo,
trasferimento al vassallo della podestà giudiziaria: in una parola, il
beneficiato o feudatario diviene, se non di diritto, almeno di fatto, un
sovrano, perché assume a poco a poco tutte quelle prerogative, che noi
siamo soliti vedere nello Stato. In tal modo il feudo perde il carattere
primitivo di beneficio, e si trasforma in una signoria politica. Unico
avanzo dell'antica sudditanza al re é il vincolo di vassallaggio, che, in
teoria almeno, rimane immutato.
Essendo il rapporto feudale di natura contrattuale, qualunque azione
contraria ai suoi termini poteva provocarne la rottura. Nel caso che un
vassallo non avesse prestato i servizi dovuti, il signore poteva denunciarlo
davanti alla corte di tutti i suoi vassalli e, se questa lo avesse riconosciuto
colpevole, privarlo del feudo. D’altra parte, se invece fosse stato il
vassallo a considerare inadempiente il signore, poteva sfidarlo
formalmente rompendo il giuramento di fedeltà, rinnegandone l’autorità e
dichiarando l’intenzione di conservare il feudo come suo proprio, oppure
di offrirlo a un altro signore, che avrebbe potuto accettare i suoi servizi di
vassallaggio.
A partire dal XIII secolo, soprattutto in Francia, molti feudatari minori
riuscirono a trasformare gli obblighi di vassallaggio in rendite perpetue
versate al sovrano, che preferiva assoldare con esse truppe mercenarie
professionali piuttosto che affidarsi alle arretrate e disordinate truppe
feudali, mentre dal canto loro i vassalli potevano in questo modo
guadagnare autonomia e dedicarsi completamente alla prosperità del
feudo.
Durante il XIII secolo il feudalesimo raggiunse l’apice del suo sviluppo,
ma ne iniziò allora anche il lungo declino. Il subinfeudamento arrivò a tal
punto che i signori faticavano a ottenere i servizi loro dovuti.
Determinante fu l’espansione economica e l’accresciuta circolazione del
denaro. I vassalli preferivano pagare i loro signori in moneta piuttosto che
servirli militarmente, e i signori stessi tendevano a preferire il denaro con
cui poter assoldare truppe di soldati di professione, di solito più allenate e
disciplinate dei vassalli. Le vicende militari della guerra dei Cent’anni
resero evidente che l’evoluzione delle tattiche di fanteria e l’introduzione
di nuove armi come l’arco e la picca rendevano meno efficace la
cavalleria pesante medievale formata dai feudatari.
I nuovi guerrieri professionisti presero a combattere in compagnie i cui
capi, spesso provenienti dalla feudalità minore, prestavano giuramenti di
omaggio e fedeltà a un principe. Sottoponendosi a contratti limitati nel
tempo, costoro davano vita a una sorta di “feudalesimo spurio”, che
preannunciava quella prestazione militare mercenaria che avrebbe avuto
come protagonisti i condottieri delle compagnie di ventura dell’età
rinascimentale. Alcuni di questi, a loro volta, conquistarono con le armi
città e territori di cui si fecero legittimare il possesso mediante
un’apposita investitura da parte di un sovrano e quindi conferendo
benefici a propri sudditi, dando vita in tal modo a una sorta di nuovo
feudalesimo.
STORIA: IL CONGRESSO DI VIENNA
1 Introduzione
ll Congresso di Vienna si tenne nella capitale austriaca tra l’ottobre 1814 e il giugno
1815 allo scopo di ripristinare l’assetto territoriale degli stati europei e restaurare la
legittimità dei sovrani al termine delle guerre napoleoniche.
2 I protagonisti
Vi parteciparono rappresentanti di tutti gli stati europei, con l’eccezione dell’impero
ottomano. Tra i sovrani ebbe un ruolo preminente lo zar Alessandro I, che si fece
promotore di cause impopolari come l’istituzione di una Polonia autonoma e
l’unificazione degli stati tedeschi. Tra i diplomatici spiccò la personalità del principe
Klemens von Metternich, ministro plenipotenziario asburgico e presidente del
congresso.
Le quattro potenze principali (Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria) stabilirono di
comune accordo che Spagna, Francia e le piccole potenze sconfitte fossero escluse
dal partecipare alle decisioni più importanti; tuttavia, grazie all’abilità del suo
rappresentante Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, la restaurata monarchia
francese di Luigi XVIII venne riammessa a prender parte alle trattative. La Gran
Bretagna era rappresentata dal ministro degli Esteri Robert Stewart Castlereagh e dal
generale Arthur Wellesley, duca di Wellington, mentre il delegato prussiano era il
principe Karl August von Hardenberg.
3 Le decisioni principali
Per assicurare la pace in Europa, il congresso di Vienna pose le basi per uno stabile
equilibrio tra gli stati, arginando, e poi mantenendo sotto controllo, la potenza
francese. I confini della Francia tornarono a essere quelli del 1792 (ma con la
cessione alla Gran Bretagna di Tobago, Santa Lucia e dell’Ile-de-France, comprese le
dipendenze nell’oceano Indiano, e alla Spagna della parte orientale di Santo
Domingo), mentre tutti gli stati confinanti furono rafforzati e dotati di contingenti
militari stabili, forniti dalle maggiori potenze vincitrici.Le antiche Province Unite
olandesi si fusero con i Paesi Bassi austriaci, formando un nuovo regno unito dei
Paesi Bassi sotto la dinastia degli Orange-Nassau; la Prussia mantenne la Posnania e
ottenne la Pomerania svedese, la Sassonia settentrionale e gran parte delle province
della Renania e della Vestfalia; l’Hannover acquisì nuovi territori e divenne regno
autonomo; il Regno di Sardegna, tornato ai Savoia, riottenne Nizza e la Savoia e
inglobò l’ex Repubblica di Genova. L’impero asburgico compensò la perdita dei
Paesi Bassi con l’acquisizione della Repubblica di Venezia (e i suoi possedimenti
sull’Adriatico), che insieme alla Lombardia andò a formare il Regno LombardoVeneto, posto sotto il governo di un viceré austriaco.
Lo zar riuscì ad avere il pieno controllo del restaurato regno di Polonia, per
controbilanciare l’espansione russa verso ovest, mentre il regno di Svezia (allora
sotto Carlo XIV) venne rafforzato con il possesso della Norvegia. Venne costituita
una Confederazione germanica formata da 37 principati e quattro libere città, che
comprendeva parte della Prussia e dell’impero asburgico, alla cui corona fu affidata
la presidenza dell’organo centrale della Confederazione, la Dieta di Francoforte. I
cantoni svizzeri si riunirono in una confederazione, alla quale vennero garantite
indipendenza e neutralità.
In Italia, oltre al Lombardo-Veneto, l’Austria ottenne anche il controllo indiretto del
Ducato di Parma assegnato a Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone; del
Granducato di Toscana di Ferdinando III di Lorena, fratello dell’imperatore; e del
Ducato di Modena e Reggio, posto sotto Francesco IV di Asburgo-Este. Il Regno di
Napoli tornò a Ferdinando IV di Borbone e nel 1817, con l’acquisizione della Sicilia,
andò a formare il Regno delle Due Sicilie; lo Stato Pontificio fu restituito a papa Pio
VII.
La Gran Bretagna ottenne territori strategici dal punto di vista commerciale e per il
controllo delle rotte marittime: l’isola di Helgoland, Malta, le isole Ionie, Maurizio,
Ceylon (attuale Sri Lanka) e il capo di Buona Speranza. Nell’ambito del congresso di
Vienna furono prese anche importanti decisioni riguardo l’abolizione della tratta
degli schiavi e la tutela della libertà di navigazione sui fiumi che attraversavano più
stati o costituivano il confine tra uno stato e l’altro.
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Introduzione
Rivoluzione industriale: Espressione che designa il passaggio, avvenuto
nella gran parte dei paesi occidentali a partire dalla seconda metà del
XVIII secolo, da un'economia tradizionale basata principalmente
sull'agricoltura a un'economia incentrata sulla produzione automatizzata
di beni all'interno di fabbriche di grandi dimensioni.
Nascita dell'industria moderna
La rivoluzione industriale iniziò in Gran Bretagna alla fine del XVIII
secolo e modificò profondamente l'economia e la società inglesi. I
cambiamenti più immediati furono quelli riguardanti la natura della
produzione (che cosa, come e dove si produce). Le quantità e le varietà
dei beni prodotti aumentarono considerevolmente grazie alle innovazioni
tecniche, alla creazione di macchinari (costruiti in acciaio e mossi
dall'energia prodotta dalla macchina a vapore) sempre più sofisticati e
veloci e all'applicazione di nuovi criteri di produzione. L'efficienza delle
industrie crebbe anche grazie alla concentrazione degli impianti nelle
principali città, in regioni minerarie, presso importanti scali ferroviari e
navali. In questo modo la rivoluzione industriale innescò un ampio
processo di urbanizzazione, che vide un continuo e massiccio
trasferimento di forza lavoro dalle aree rurali ai centri urbani e industriali.
I cambiamenti più importanti avvennero all'interno dell'organizzazione
del lavoro. Le piccole imprese si espansero e acquisirono nuove
caratteristiche. La produzione si svolgeva all'interno delle fabbriche
anziché presso il domicilio dei lavoratori o nei borghi rurali, come
avveniva un tempo. Mentre il lavoro diventava sempre più meccanizzato
e specializzato, la possibilità di creare imprese, a causa degli altissimi
costi degli impianti, passò nelle mani di chi aveva ampie disponibilità di
capitale. Tra capitale e lavoro si produsse una separazione netta e videro
la luce due nuove figure economiche e sociali: l'operaio, che partecipava
all'attività industriale vendendo la sua forza lavoro; il capitalista,
proprietario dei mezzi di produzione.
Dall'ultimo quarto del XVIII secolo a tutto il XIX Londra fu al centro di
una complessa rete commerciale mondiale. L'esportazione fornì un
fondamentale sbocco ai prodotti dell'industria tessile e di altre industrie,
reso necessario dalla rapida espansione della produzione indotta
dall'introduzione delle nuove tecniche. A partire dal 1780 le esportazioni
inglesi verso altri paesi crebbero di anno in anno, rendendo possibile
l'acquisto di materie prime a buon mercato per alimentare l'industria (vedi
Imperi coloniali).
Il decollo industriale
Ciò che l'economista W.W. Rostow chiamò il 'decollo industriale' si
diffuse velocemente in tutta l'Europa e nel mondo. Influenzato come
abbiamo visto da una serie di fattori tecnologici (ma anche politici e
sociali, dai traffici coloniali, dall'aumento della popolazione, dalla
mentalità imprenditoriale), l'inizio del processo di industrializzazione si
compì tra il 1780 e il 1820 in Gran Bretagna, tra il 1830 e il 1870 in
Francia, tra il 1850 e il 1880 in Germania e negli Stati Uniti, verso la fine
del secolo in Svezia e in Giappone, nella prima metà del Novecento in
Russia e in Canada, dopo il 1950 in molti paesi latinoamericani e asiatici.
Agli inizi l'industria britannica non ebbe concorrenti. Quando gli altri
paesi avviarono il processo di industrializzazione dovettero confrontarsi
con il vantaggio della Gran Bretagna, ma poterono anche mettere a frutto
la
sua
esperienza.
L'intervento
dello
stato
per
promuovere
l'industrializzazione fu praticamente nullo nel caso britannico, ma fu
invece considerevole in Germania, Russia, Giappone e in quasi tutti gli
altri paesi industrializzatisi nel XX secolo.
In Italia il processo di industrializzazione fu molto più lento (e soprattutto
molto differenziato tra Nord e Sud della penisola) per diversi motivi: il
tardo conseguimento dell'unità nazionale, la mancanza di materie prime e
di un mercato coloniale, la carenza di manodopera dovuta all'emigrazione
di milioni di persone verso le Americhe e i paesi del Nord Europa. Il vero
sviluppo industriale italiano, ancora limitatamente a poche aree del Nord
del paese, si ebbe solo all'indomani della seconda guerra mondiale.
La rivoluzione industriale cambiò nell'arco di pochi decenni il volto del
pianeta. Non solo essa influì su tutti gli altri settori economici, ma
determinò profondi cambiamenti politici, sociali, culturali, ecologici. Lo
sviluppo dell'industrializzazione fu alla base della nascita e della
propagazione di nuove ideologie politiche e di un nuovo modo di
concepire la presenza e l'attività dell'uomo sul pianeta. La riflessione su
quello che è stato anche definito uno dei maggiori fenomeni di
'discontinuità' nella storia è destinata a durare, come sono destinati a
durare l'importanza e il peso dell'industria nella storia dell'uomo.
IL SOCIALISMO
l socialismo è un ampio complesso di ideologie e orientamenti politici
che comprendono al suo interno i movimenti e le dottrine che tendono ad
una trasformazione della società capace di realizzare l'uguaglianza di tutti
i cittadini sul piano economico e sociale, oltre che giuridico.
Originariamente tutte le dottrine e movimenti di matrice socialista
miravano a realizzare detti obiettivi attraverso il superamento delle classi
sociali e la soppressione, totale o parziale, della proprietà privata dei
mezzi di produzione e di scambio; con la rivoluzione bolscevica (1917) e
la costituzione della Terza internazionale (1919) l'ala rivoluzionaria del
socialismo si distaccò organizzandosi nei partiti comunisti, mentre i
partiti socialisti, ormai orientati in senso riformista ed inseriti nei sistemi
democratico - borghesi dei diversi paesi, per lo più presero gradualmente
le distanze dal marxismo e recuperarono le istanze liberali dell'utopismo
socialista pre-marxista.
il socialismo è una corrente di pensiero legata ai movimenti politici che a
partire dal XIX secolo lottarono per modificare la vita sociale ed
economica delle classi meno abbienti ed in particolare del proletariato.
Il movimento operaio da cui scaturì il socialismo pose per la prima volta
il problema della giustizia sociale e dell'uguaglianza economica al centro
dell'agenda politica. Trasformò radicalmente le forme della politica
organizzandosi in partiti di massa e cercando di coordinare la propria
attività politica a livello internazionale.
Il socialismo si oppone inizialmente al liberalismo classico, che postula il
liberismo in economia, chiedendo invece la nazionalizzazione o la
socializzazione di tutte o parte delle attività economiche e dei mezzi di
produzione. Contesta l'idea delle neutralità delle istituzioni statali rispetto
alla lotta di classe e si batte per un mutamento del ruolo dello Stato o,
addirittura,
nella
versione
avanzata
da
Karl
Marx
e
ripresa
dall'anarchismo, per la sua eliminazione.
Sul piano internazionale il movimento socialista nasce come un
movimento pacifista e favorevole all'autodeterminazione dei popoli,
contrapponendosi al nazionalismo e all'imperialismo. Nella prassi tuttavia
molti partiti socialisti o correnti di essi finiscono per abbandonare il
pacifismo e l'internazionalismo, appoggiando le imprese belliche dei loro
paesi con motivazioni patriottiche. Questo voltafaccia provoca in molti
paesi polemiche e scissioni.
Partiti e movimenti estremamente diversi fra loro si sono definiti
socialisti: molti di essi sopravvivono ancora oggi e formano una delle più
importanti correnti politiche in Europa, nonché la principale componente
della sinistra europea. Il movimento socialista conosce numerosissime
scissioni, accuse reciproche di aver tradito gli ideali originari, etc. etc. La
scissione più importante è probabilmente quella verificatasi all'indomani
della Rivoluzione d'Ottobre, che vede una larga fetta della sinistra dei
partiti socialisti staccarsi e scegliere la denominazione comunista, già
utilizzata in passato da alcuni teorici socialisti come Karl Marx.
Il sistema filosofico di Marx fonda le sue basi su un assunto di partenza:
non è la coscienza degli uomini a determinare la loro condizione sociale,
ma è la loro condizione sociale a determinarne la coscienza; ovvero, la
condizione sociale influisce in modo determinante sul tipo di giudizi che
si formano nella mente, lo stesso contenuto della mente, le idee, i
desideri, le aspettative, sono condizionate in modo preminente
dall'ambiente sociale in cui l'uomo si trova a vivere.
Secondo Marx, la soluzione al capitalismo, la nuova tappa dello sviluppo
storico promossa dalle classi subordinate, è il comunismo. Esso si
configura come estremità opposta al sistema di produzione capitalista:
nella società comunista non esisteranno più classi e lotta di classe, non
esisterà più separazione tra oggetto prodotto e produttore, i mezzi di
produzione saranno di proprietà comune.
Da questo ne deriva che anche la sovrastruttura ideologica della società,
da sempre espressione del sistema economico guidato dalle classi
dominanti, verrà definitivamente smantellata, per cui non saranno più
necessari ne lo Stato ne la religione, ne qualsiasi altra espressione del
dominio di una classe sull'altra. "Il comunismo è cioè la sintesi suprema
in cui viene rimossa ogni contraddizione sociale e, insieme, è la
liberazione concreta dell'individuo umano."
Il comunismo, per Marx, è una legge necessaria, una tappa obbligata
dello sviluppo storico che non trae origine da ideali astratti presenti
arbitrariamente nella coscienza degli uomini, ma trae la sua legge
dall'evidenza stessa dei dati pratico empirici dell'economia. Secondo
Marx il comunismo è quindi la naturale e necessaria soluzione del
capitalismo in un nuovo e definitivo sistema socio-economico finalmente
egualitario, dopo secoli di lotte e disuguaglianze.
LA RIVOLUZIONE AMERICANA
La pace di Parigi del 1763 mise fine alla GUERRA dei 7 ANNI ed anche
al conflitto che opponeva Francesi ed Inglesi in America. Di
conseguenza, le colonie americane furono assoggettate ad una
legislazione mercantilistica che, pur limitandone lo sviluppo economico a
favore dell'Inghilterra, le lasciava praticamente indenni dal fiscalismo
inglese e largamente libere di dedicarsi al contrabbando.
Tuttavia, a partire dal 1764, il controllo inglese sul contrabbando divenne
sempre più attento e nel 1766 entrò in vigore una legge che imponeva il
pagamento di un bollo sugli atti pubblici ed i giornali. Il primo tentativo
di tassare gli americani provocò immediate proteste. I coloni, che non
avevano diritto di voto per il Parlamento di Londra, contestarono il diritto
del governo di tassarli in base al principio no taxation without
representation (=niente tasse senza rappresentanti in Parlamento).
La tensione tra le colonie americane e il governo inglese (che il nuovo re
Giorgio III aveva affidato ai Tories) divenne particolarmente acuta nel
1773 quando la COMPAGNIA ORIENTALE delle INDIE venne
autorizzata dal Parlamento Inglese a vendere direttamente il suo tè alle
colonie americane. Fino a quel momento i mercanti americani avevano
preferito procurarsi il tè di contrabbando dagli olandesi, ma, con l'entrata
in scena del prodotto della Compagnia, i prezzi sarebbero diventati così
bassi da rendere inutile il contrabbando stesso.
Questa situazione era una dimostrazione schiacciante che il Parlamento di
Londra era completamente asservito agli interessi della COMPAGNIA
ORIENTALE delle INDIE.
Nel dicembre 1773, mentre tutto il Paese era già in agitazione, un gruppo
di bostoniani rovesciò in mare il carico di tè che si trovava a bordo delle
navi della Compagnia. Subito il governo inglese intervenne con una serie
di provvedimenti repressivi contro la colonia del Massachusetts. Un
congresso di delegati delle colonie si riunì così a Filadelphia e invitò gli
americani a un boicottaggio totale delle merci di provenienza inglese,
mentre contemporaneamente si invitava re Giorgio III a contrastare con la
propria autorità la tirannide del Parlamento.
Di fronte ai massicci invii di truppe dall'Inghilterra, un secondo
congresso, tenutosi a Filadelphia nel maggio 1775, decise di procedere
alla costituzione di un esercito di liberazione agli ordini di George
Washington, già ufficiale nella precedente guerra contro i Francesi e che
godeva di un indubbio prestigio personale anche al di fuori della sua
Virginia. L'anno successivo, il 4 luglio 1776, il Congresso di Filadelphia
approvò una Dichiarazione d'Indipendenza cui aveva dato un contributo
essenziale il proprietario terriero virginiano Thomas Jefferson, la cui
cultura politica era imbevuta delle idee di Montesquieu e di Rousseau.
La guerra d'indipendenza durò fino al 1783. Dal 1778 le colonie poterono
godere
del
decisivo
appoggio
militare
francese,
negoziato
dall'ambasciatore a Parigi Benjamin Franklin. Al congresso di pace
tenuto a Versailles, presso Parigi, nel settembre 1783, le colonie furono
riconosciute dall'Inghilterra come Stati Uniti d'America, mentre la
Francia ebbe una rivincita se non territoriale almeno di prestigio.
Mentre la guerra era ancora in corso, il Congresso di Filadelphia aveva
proposto, sin dal novembre 1777, all'approvazione dei singoli Stati un
progetto di costituzione; solo nel marzo 1781 questi articoli di
confederazione ebbero l'assenso delle assemblee di tutti e tredici gli Stati.
Questa prima Costituzione americana sanciva la priorità degli Stati sulla
confederazione: essi erano nati e si erano dati una costituzione prima o
almeno indipendentemente dalla dichiarazione del 4 luglio 1776 e perciò
non intendevano rinunciare alla loro piena sovranità. I poteri affidati
all'organo confederale, il Congresso, risultarono perciò piuttosto deboli.
Il timore di una disgregazione della confederazione indusse a convocare
nel 1787 un nuovo congresso costituente a Filadelphia. Il nuovo testo
accrebbe i poteri dello Stato federale sui singoli Stati e creò la figura di
un presidente elettivo. Le elezioni ebbero luogo il 4 febbraio 1789 e
George Washington risultò il primo presidente degli Stati Uniti.
IL SECOLO DEI LUMI
L'Illuminismo fu un movimento culturale e filosofico nato in Inghilterra
intorno alla metà del XVII secolo ed espresso principalmente da John
Locke, poi sviluppatosi in Francia e diffusosi in Europa dall'inizio del
XVIII secolo fino alla Rivoluzione francese.
Il Secolo dei Lumi
Nel periodo conosciuto come il Secolo dei Lumi (XVIII secolo), l'Europa
fu testimone di notevoli cambiamenti socio-culturali caratterizzati, fra
l'altro, da un esame critico della religione e delle strutture del potere
dispotico. Le dottrine religiose istituzionalizzate vennero contrastate con
l'esaltazione di quei valori da esse non riconosciuti; il laicismo, con i suoi
principi razionalistici, libertari e gnoseologici, concorse a determinare
quell'ottica illuministica che tende alla progressiva emancipazione
dell'uomo dalle tenebre ideologiche in cui sarebbe stato costretto dai
dogmi della fede, dal dispotismo e dai criteri assiologici di classe. I
principi assolutistici, in maniera perfettamente analoga, iniziarono
finalmente ad essere messi in discussione.
Le idee prevalenti dell'illuminismo sono perciò: la libertà e l'uguaglianza
sociale, i diritti umani, la laicità dello Stato, la scienza e il pensiero
razionale. In seguito Liberté, Égalité, Fraternité, comunque traslati in un
diverso contesto, diventarono uno dei motti rivoluzionari del 1789.
Non
bisogna
per
questo
pensare
che
l'illuminismo
fosse
fondamentalmente anti-monarchico o anti-religioso (basti pensare a
Voltaire), anzi esso attinse molto sia dal mondo aristocratico che da
quello cattolico. Molti nobili furono degli intellettuali illuministi, e preti
missionari in paesi ancor più dispotici della Francia portano nei loro
resoconti opinioni critiche che concorsero ad alimentare le idee
illuministe. Ad esempio, i resoconti dei viaggi dei preti cattolici in Cina
servirono come modello per un secolarizzato despota illuminato.
Solo Voltaire e Rousseau vengono assunti come modelli di pensiero dai
rivoluzionari moderati, e la Guerra di indipendenza americana, in quanto
anti-inglese, era già un mito sotto l'Ancièn Régime, ben prima degli
eventi rivoluzionari francesi. Gli illuministi guardano semmai alla
Rivoluzione industriale e al liberalismo inglese come esiti di un nuovo
modello di società, presenti anche nella stesura della Costituzione degli
Stati Uniti e di quelle che seguirono negli stati europei da parte delle
monarchie illuminate.
L'Illuminismo fu anche segnato dal sorgere del capitalismo e dall'ampia
circolazione di materiale stampato. L'Encyclopédie francese, in questo
senso, fu la più importante sintesi del pensiero illuminista, la quale
riassumeva al suo interno tutto il sapere del tempo, combinando articoli
più marcatamente filosofici, con altri dedicati alle scienze, alle arti e alla
tecnica che proprio allora cominciava ad assumere un suo proprio
sviluppo.
Il concetto di un singolo movimento di dimensioni europee può indurre in
confusione, essendo in realtà un riflesso del reale predominio culturale
del pensiero francese, all'interno del movimento illuminista. È tuttavia
possibile analizzare diversi movimenti nazionali.
Il termine "illuminismo" era usato dagli scrittori del tempo, convinti di
provenire da un'epoca di oscurità e ignoranza e di dirigersi verso una
nuova età, segnata dall’emancipazione dell'uomo e dai progressi della
scienza sotto la guida dei "lumi" della ragione. L'illuminismo ebbe come
principali centri di diffusione l'Inghilterra e la Francia.
L’Inghilterra era stato il Paese dove meglio si era affermato l’empirismo,
un orientamento di pensiero filosofico che riconduceva la conoscenza
all'esperienza dei sensi, negando l'esistenza di idee innate o di un pensiero
a priori ("ciò che viene prima" ossia una conoscenza che si acquisisce
prescindendo dall'esperienza, cioè mediante il solo ragionamento
deduttivo).
Tratti comuni alle dottrine empiriste sono l'attenzione per i dati empirici
come si presentano nella percezione, l’uso del metodo induttivo rispetto a
quello deduttivo, la riduzione dei concetti universali a semplici nomi o
rappresentazioni mentali, l'anti-metafisica, lo sperimentalismo. Dalla
"filosofia sperimentale" dello scienziato inglese Newton gli illuministi
assunsero una concezione del pensiero scientifico secondo la quale la
ragione umana, attenendosi all'esame dei fenomeni, formula i princìpi e
procede deduttivamente fino a pervenire a un quadro unitario del mondo
fisico.
L'illuminismo ebbe per precursori anche pensatori razionalisti come il
francese Cartesio, del quale i filosofi del XVIII secolo rifiutavano la
pretesa di una conoscenza deduttiva derivante da idee innate e da princìpi
noti a priori, ma facevano propria l'esigenza di "chiarezza e distinzione"
delle idee, rifiutando il tradizionale principio d'autorità.
Molti illuministi, rifiutando la metafisica, cercarono la conferma di una
visione naturalistica e laica (ma non necessariamente atea: piuttosto
diffuso fu invece il deismo, ovvero una credenza religiosa completamente
razionalizzata, caratterizzata dalla credenza nell'Essere Supremo,
chiamato
anche
Grande
Architetto
dell'Universo)
della
realtà,
propugnarono la tolleranza e polemizzarono contro le superstizioni e i
pregiudizi. Sulla base di questi presupposti, non pochi autori e
intellettuali teorizzarono un anticlericalismo e un attacco alla Chiesa,
soprattutto quella cattolica, che, in non pochi casi, come ad es. con
Voltaire, assunse contenuti e toni molto efficaci e potenti, in particolare
per la polemica contro il dogmatismo e il fanatismo, proprio di tutte le
religioni positive. Nell'illuminismo si incontrarono aspetti eterogenei,
della filosofia e della cultura moderne, dalla rivoluzione scientifica
avviata da Copernico e Galilei alle ripercussioni culturali indotte dalle
esplorazioni geografiche, dal razionalismo di Descartes all'empirismo di
Locke.
L'illuminismo fu portavoce del moderno spirito scientifico, che rifiutando
la
concezione
medioevale
della
realtà
rivendicò
la
fiducia
nell'osservazione diretta dei fenomeni e nell'uso autonomo della ragione.
La fede nella ragione, coniugandosi con il modello sperimentale della
scienza newtoniana, sembrava rendere possibile la scoperta non solo delle
leggi del mondo naturale, ma anche di quelle dello sviluppo sociale. Si
pensò allora che, usando saggiamente la ragione, sarebbe stato possibile
un progresso indefinito della conoscenza, della tecnica e della morale:
questo importante concetto verrà successivamente ripreso e rafforzato
dalle dottrine positiviste.
La scienza si diffuse soprattutto nel campo dell'astronomia e della fisica,
ma anche in quello della nascente biologia, degli studi sulle piante, sulla
formazione dei ghiacci ed altro. La cultura che nel '600 si era manifestata
con l'arte barocca, si esprimeva ora in un movimento, l'Illuminismo, così
chiamato per la sua fede nei lumi della ragione umana, che potevano
"sconfiggere" le tenebre dell'ignoranza ritenute tipiche del Medioevo.
Diffusione dell'Illuminismo
L’illuminismo si diffuse rapidamente in Europa e nelle colonie
nordamericane, ma la Francia enumerò molti spiriti eminenti. Il giurista e
filosofo della politica Charles de Montesquieu, uno dei primi esponenti
del movimento, esordì pubblicando scritti satirici contro le istituzioni
Lettere Persiane (1721), seguiti anni dopo da uno studio sulle istituzioni
politiche, Lo spirito delle leggi (1748), il suo più importante scritto.
A Parigi Denis Diderot, autore di numerosi trattati filosofici, incominciò
la
pubblicazione
dell'Encyclopédie
nel 1750,
avvalendosi della
collaborazione del matematico D'Alembert. L'Encyclopédie dava dignità
alle arti e tecniche viste in passato come discipline inferiori a letteratura,
arte, scienze, teologia e filosofia. Tale opera fu, non solo un compendio
di conoscenze, ma anche un mezzo di diffusione dell’illuminismo e di
critica degli oppositori. Il più rappresentativo tra gli scrittori illuministi
francesi fu Voltaire, che iniziò la sua carriera come drammaturgo e poeta
e fu autore di pamphlets (opuscoli satirici e polemici), saggi, satire e
racconti brevi nei quali divulgò la scienza e la filosofia della sua epoca. Il
filosofo intrattenne inoltre una voluminosa corrispondenza con scrittori e
sovrani europei. Gli scritti di Jean-Jacques Rousseau, come Il contratto
sociale (1762), l'Emilio (1762) e le Confessioni (1782), esercitarono una
profonda influenza sulle teorie politiche e pedagogiche del secolo
seguente e diedero impulso al romanticismo ottocentesco.
L'illuminismo fu anche un movimento profondamente cosmopolita:
pensatori di nazionalità diverse si sentirono accomunati da una profonda
unità d’intenti, mantenendo stretti contatti epistolari fra loro. Furono
illuministi Pietro Verri e Cesare Beccaria in Italia, Benjamin Franklin e
Thomas Jefferson nelle colonie americane. Durante la prima metà del
XVIII secolo, molti tra i principali esponenti dell'illuminismo furono
perseguitati per i loro scritti o furono messi a tacere dalla censura
governativa e dagli attacchi della Chiesa, ma negli ultimi decenni del
secolo, il movimento si affermò in Europa ed ispirò la rivoluzione
americana. Il successo delle nuove idee, sorretto dalla pubblicazione di
riviste e libri e da nuovi esperimenti scientifici inaugurò una moda diffusa
persino tra i nobili e il clero. Alcuni sovrani europei adottarono le idee e
il linguaggio dell'illuminismo. Voltaire e altri illuministi, attratti dal
concetto di filosofo-re che illumina il popolo dall'alto, guardarono con
favore alla politica dei cosiddetti despoti illuminati, come Federico II di
Prussia, Caterina II di Russia e Giuseppe II d'Austria.
La Rivoluzione francese, espressione dell'ala più rivoluzionaria
dell'Illuminismo radicale, pose fine alla diffusione pacifica, ma talvolta
anche solo elitaria, dell’illuminismo e, per i suoi episodi più sanguinosi,
gettò discredito sull'illuminismo. Molti filosofi illuministi presero le
distanze dagli eccessi rivoluzionari di Robespierre. La polemica
romantica, agli inizi del XIX secolo, avversò la sottovalutazione delle
tradizioni e della storia, la propensione per l'ateismo, l'indiscriminata
esaltazione della razionalità. L’illuminismo si diffuse fra ampi strati della
popolazione preparando l’avvento dell’età contemporanea. Iniziò inoltre
a dare l'idea di cosmopolitismo allargando il pensiero a tutti i popoli e
contribuì a tutte le moderne forme di razionalismo.
IL LIBERALISMO DEI PRIMI 800’
La dottrina liberale naque dalla rielaborazione romantica di idee
manifestate durante la rivoluzione francese e l’avvio della ripresa fu dato
da
oppositori del
regime
napoleonico; successivamente
apporti
fondamentali vennero da altre fonti non riguardanti esclusivamente il
campo della teoria politica.
Il liberalismo moderato, tipico dell’alta borghesia, rifiutava l’esperienza
della rivoluzione perché sfociata nel terrore e nel dispotismo; inoltre
rifiutava l’idea di sovranità popolare perché il compito, secondo i liberali,
spettava all’assemblea parlamentare eletta dal voto dei proprietari, gli
unici che potevano partecipare alla vita sociale perché i nullatenenti non
avevano interesse e capacità per poterlo fare.
La concezione liberale accoglieva nel senso più restrittivo i principi di
eguaglianza nel senso che i cittadini erano si uguali di fronte alla legge,
ma una legge fatta da un ristretto numero di borghesi e nobili.
Esponente di questa corrente fu Benjamin Constant.
Contro la condanna in blocco della rivoluzione, la cultura liberale
ripropose i valori dell’89 considerandoli come espressione delle esigenze
di libertà individuale separandoli dagli altri aspetti del periodo
rivoluzionario.
Per quanto riguarda la parte economica della dottrina abbiamo Adam
Smith con la sua ottimistica visione della libertà di iniziativa privata:
quell’ottimismo sopravvisse alle smentite dei fatti anche perché in quel
periodo le possibilità di superare il vecchio mondo economico, arretrato,
erano legate al capitalismo.
Molti altri poi, analizzando il capitalismo, scoprirono limiti e
contraddizioni che fecero introdurre elementi di pessimismo come
Malthus che pensava invece che per evitare che la miseria e la fame
causassero la morte della popolazione eccedente ci dovesse essere una
volontaria rinuncia al matrimonio e alla procreazione delle genti povere
con l’abolizione delle leggi a favore di questi ultimi e dell’assistenza
pubblica per sollecitarli nella rinuncia.
Il più grande economista inglese, David Ricardo, scrisse nei Principi
dell’economia politica e dell’imposta che c’era una tendenza alla
diminuzione del profitto del capitale e una tendenza del salario a
mantenersi appena sufficiente per assicurare la vita dell’operaio.
Riconosce che l’impiego di macchine sul lavoro provocherà una caduta
della domanda di manodopera e l’inevitabilità della disoccupazione
tecnologica: tutto ciò dunque porterà ad un arresto dello sviluppo
economico che potrebbe essere rallentato con il sacrificio degli interessi
dei proprietari terrieri.
Questa dottrina (liberale) si diffuse in Francia e in Inghilterra
principalmente e poi anche in Germania dove però il senso della storia
mirava a collegare la cultura tedesca all’opera di restaurazione
assolutistica contrastando l’influenza liberale.
L’unico gruppo che si sottrasse all’influenza del romanticismo
conservatore fu quello degli idealisti, le cui posizioni furono diverse da
quelle del liberalismo classico.
La concezione dialettica, alla base del pensiero di Georg Wilhelm
Friedrich Hegel, considera la storia come un continuo superamento di
contraddizioni e quindi come un movimento progressivo ma a differenza
dei liberali, che pensano che la realtà sia l’individuo, per Hegel è soltanto
nello stato che si realizzano la ragione e la moralità.
Lo sforzo individuale è solo un processo che appaga perché si
contribuisce all’appagamento dei bisogni di tutti.
Anche nella cultura italiana la ripresa liberale trovò un terreno fertile
soprattutto nei gruppi di intellettuali romantici che si raccolsero attorno
alla rivista milanese Il Conciliatore.
Lo svizzero Sismondi però era critico per quanto riguarda la concezione
economica liberale: lui individuò il fenomeno delle crisi economiche
cicliche derivanti dallo squilibrio tra incremento della produzione e
capacità di assorbimento del mercato.
Dall’analisi di questo problema connesso al capitalismo industriale trasse
la convinzione dell’inevitabile aggravamento della lotta di classe, non
riuscendo però ad indicare una soluzione che non ricalcasse le vecchie
forme di controllo economico.
Il nuovo liberalismo aveva un’impronta fortemente moderata ma ciò non
fu sufficiente a renderlo accetto ai sovrani che cercavano motivi di
condanna nelle opere degli intellettuali: in Inghilterra con i Six Acts nel
1819 si cercò di ridurre al silenzio l’opposizione con la censura della
stampa, il divieto delle riunioni e l’adozione di particolari misure fiscali
per impedire la pubblicazione di opuscoli.
Nella reazione che imperversò dopo il 1815 i liberali furono quindi
accumunati alle correnti di pensiero radicali anche se i radicali, a
differenza dei liberali moderati, assimilavano dal romanticismo l’idea e il
sentimento di nazionalismo, più che l’saltazione dell’individuo ma a
differenza dei nazionalisti essi li collegavano strettamente al principio
della sovranità popolare.
Il tema dell’eguaglianza acquistava un risalto analogo a quello della
libertà nella concezione radicale: infatti la libertà individuale non può
esistere senza una base egualitaria e lo stato non è veramente
rappresentativo se non è espressione della nazione, del popolo.
Al radicalismo aderivano i gruppi di borghesia e quegli intellettuali che
ritenevano impossibile la riforma dello stato senza l’appoggio popolare:
per questo liberali e radicali non poterono formare alleanze durature ed
infatti il contrasto si aggravò fra il 1830 e il 1848: Alexis de Tocqueville
fece fare un passo avanti alla controversia indicando i pericoli della
democrazia nella sua caratteristica di “regime di massa” e nella sua
tendenza al livellamento del valore della personalità anche se non
escludeva una graduale e cauta evoluzione del liberalismo in senso
democratico.
In realtà la trasformazione democratica delle istituzioni e della società
non avvenne né per spontanea ecoluzione né per le iniziative e le lotte dei
movimenti radicali.
Le indicazioni dottrinarie di liberali illuminati come l’inglese John Stuart
Mill, uno dei più aperti sostenitori della democrazia, non ebbero
svolgimento pratico e anche i tentativi dei movimenti radicali si
conclusero generalmente in modo fallimentare: la realizzazione della
democrazia fu piuttosto il risultato dell’organizzazione e dello sviluppo
del movimento operaio.
La formazione di una coscienza di classe da parte del proletariato fu
agevolata dalle condizioni stesse del lavoro di fabbrica e della natura
della produzione industriale che non isolava i produttori l’uno dall’altro
ma li inseriva in un organismo sociale ed in una attività collettiva: da
queste condizioni infatti nacque spontaneamente la solidarietà tra gli
operai.
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