16 marzo 2011 65° della Casa della Cultura Un’inchiesta tra intellettuali milanesi e italiani sulla crisi del rapporto tra cultura e politica LE RISPOSTE DI SILVIA VEGETTI FINZI Risposte alle tre domande 1. In questi ultimi due decenni formazioni e movimenti populisti hanno occupato la scena pubblica italiana e vi hanno impresso il loro segno. Berlusconismo e Lega hanno scandito l’agenda della vita politica, esercitando di fatto anche un’egemonia culturale che traspare dal linguaggio e dalle pratiche prevalenti nella vita pubblica. La sinistra italiana ha evidenziato serie difficoltà, politiche e culturali, nel proporre e nel difendere un suo punto di vista. Da dove ha tratto origine questo profondo, radicale rimescolamento del clima politico e culturale? E per quale motivo le linee di resistenza hanno rivelato tale fragilità? Tenterò di rispondere partendo dalla mia partecipazione al Movimento delle donne iniziata nel 1980 quando, alle lotte per l’emancipazione, finalizzate a realizzare l’eguaglianza tra i sessi, si stava sostituendo un percorso di liberazione, inteso come un modo nuovo di guardare il mondo e le relazioni tra donne a partire da sé, dai propri bisogni, dai propri desideri. Il Movimento era nato a metà degli anni ‘70 come pratica di autocoscienza esercitata in piccoli gruppi. Le partecipanti, donne colte ed emancipate, intendevano liberarsi dai condizionamenti storici e costruire, nel confronto reciproco, una soggettività femminile non più dipendente dallo sguardo maschile. La modalità di rapportarsi tra loro, fatta di appartenenza, confidenza, testimonianza diretta, impegno e responsabilità personale, ha caratterizzato poi tutto il Movimento e ne costituisce ancora oggi la cifra identitaria. Penso che in questo senso il Femminismo sia stato un antidoto nei confronti delle derive del qualunquismo e del populismo, che infatti nasce e cresce contemporaneamente al tramonto del Movimento. Centrali, in quegli anni, la figura di Lea Melandri, autrice di un saggio fondativo quale L’infamia originaria e Carla Lonzi che, con Sputiamo su Hegel, apre un produttivo confronto con la filosofia. L’eredità dell’autocoscienza la troviamo oggi conservata e riproposta, seppur con mutate modalità, dalla Libreria delle donne, rappresentata da Luisa Muraro e Lia Cigarini. La Libreria, che ha sempre difeso la sua autonomia ed è molto critica nei confronti della politica e della cultura maschili, non accetta facilmente confronti e collaborazioni con istituzioni compromesse con il tradizionale rapporto tra i sessi. Vi sono e vi sono state a Milano molte altre istituzioni di impronta femminile e femminista. Mi limito qui a menzionare la storica Unione Femminile Nazionale che, fondata nel 1899 , in una prospettiva socialista di sostegno e promozione delle donne, ha poi svolto una incisiva azione antifascista e partigiana. Sede della “Università delle donne” , promuove incontri culturali ad alto livello e bandisce borse di studio e premi per le più giovani studiose. Rilevante il contributo fornito , nel 2007 alla Commissione “Donne e salute” istituita dall’allora ministro della Sanità Livia Turco. Negli anni ’80-90, nonostante un certo separatismo, esisteva un confronto, seppure non sistematico, tra Movimento e istituzioni della sinistra, anche grazie alla mediazione di Rossana Rossanda, sempre vicina alla Casa della Cultura. Ma quella prospettiva non ha mai trovato una chiara definizione e una concreta realizzazione. La possiamo riconoscere nell’attenzione che l’Udi, il settimanale Noi donne, il Manifesto e altri dedicano all’elaborazione del pensiero femminista, mentre l’organo ufficiale del Pci , L’Unità, mantiene, soprattutto a Milano, un atteggiamento di cauto disinteresse. Da parte sua il Movimento può far conto su una vasta pubblicazione di libri (in primo luogo quelli di Libreria delle donne, editi dalla Tartaruga), di opuscoli, documenti e riviste quali Sottosopra, Reti, Via Dogana, Leggendaria, tra le ultime Lapis. Dalla fine degli anni ’80, i mutamenti sopravvenuti nella politica, nella cultura e nella economia provocano un progressivo sfaldamento delle associazioni femministe che perdono, senza destare troppe proteste, le sedi pubbliche, i finanziamenti, le adesioni. Ad alcune sembra che l’essenziale sia stato conquistato (“Il patriarcato è finito!”) ad altre che ben pochi obiettivi siano stati raggiunti. Il divario che separa le madri dalle figlie rivela che il passaggio del testimone non è avvenuto , che il Femminismo di prima generazione sta tramontando senza eredi. Questo non significa che tutto sia rimasto come prima. In termini di soggettività, libertà, autodeterminazioni, costumi e stili di vita i cambiamenti sono profondi e irreversibili. Basta pensare alla conquista di fondamentali diritti civili quali il divorzio, l’aborto, il nuovo Diritto di famiglia. Per quanto riguarda i diritti delle donne nell’ ambito della sessualità e della maternità, la Clinica Mangiagalli diviene un luogo di critica, confronto e scontro tra donne e istituzioni che porterà a nuove forme di contrattazione e alla realizzazione di un fondamentale presidio, il “Centro contro la violenza sessuale”, che trova nella ginecologa Alessandra Kustermann la figura più significativa. Inoltre molto è stato trasmesso alle nostre figlie indirettamente, attraverso un modo di essere, di pensare, di agire che ha diffuso una naturale propensione all’autonomia di giudizio, all’indipendenza, all’affermazione di sé. Attitudini che diverranno ben presto “di nicchia” quando la “Milano da bere” muta radicalmente il modello di società, e quindi di donna. All’intellettuale che guadagna poco, ha consumi moderati, un avvenire sicuro e molto tempo per sé (ad es. professoressa di scuola media), subentra il modello di una donna in carriera, per i denigratori “ in corriera”, disposta a sacrificare la propria autonomia di tempo e di pensiero per raggiungere il successo, il lusso, gli elevati standard proposti dalla società dei consumi. Si chiude la “stanza tutta per sé” e si aprono gli open space aziendali. Le gonnellone, gli zoccoli, gli accessori etnici, vengono rapidamente sostituiti dal tailleur gessato, i tacchi a spillo, la valigetta ventiquattrore. I girotondi col prezzemolo nei capelli (ne ricordo uno vivacissimo, sul sagrato del Duomo affollato di ragazze) sono finiti, non solo perché l’obiettivo è stato raggiunto (con la vittoria del referendum per la conferma della Legge sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1978) ma anche perché la prima generazione di femministe sta invecchiando e comincia ad avvertire una certa stanchezza. Quegli “ottomarzo” festeggiati per le strade del centro, insieme alle donne recentemente immigrate, restano un ricordo. Esaurita la spinta all’integrazione, che contraddistingue la prima generazione, i rapporti tra extracomunitarie e autoctone diventeranno molto più complessi e mediati. Si veda, in proposito, “Donne per un mondo nuovo. Associazione crinali”. Le femministe più generose hanno pagato con la solitudine la determinazione di cambiare i rapporti uomo-donna, di coniugare uguaglianza e differenza, e ora le figlie guardano con sospetto alla loro sofferenza, constatando che, visti i risultati ottenuti, forse non ne valeva la pena. Nel frattempo le nate intorno tra gli anni ’60-’70 si impegnano per veder riconosciuta, professionalmente, la preparazione perseguita con determinazione e premiata dal successo scolastico. Per altre, meno avvantaggiate, subentra la difficoltà di trovare il posto di lavoro e di mantenerlo. Ma la spinta iniziale a raggiungere posizioni direttive è destinata ben presto ad arrestarsi nei livelli intermedi, quelli riservati alle donne, considerato il prevedibile assenteismo per maternità. Per sottrarsi all’impatto con il “soffitto di cristallo”, le attuali quarantenni non sono però tornate a casa, come è accaduto negli Stati Uniti. Hanno cercato piuttosto di evitare il “complesso di Cenerentola” perseguendo un difficile equilibrio tra famiglia, lavoro, partner, bambini, trasporti, scuola e tempo libero dei figli. Sono le cosiddette “mamme acrobate”. Per sé non hanno né tempo né fiato. La politica è l’ultimo dei loro interessi: in genere non partecipano alla vita pubblica e sono scarsamente informate sugli avvenimenti nazionali e internazionali. La loro attenzione verte sulla famiglia e sui servizi : la scuola, la sanità, l’inquinamento, i trasporti, il traffico. Il sentimento sociale dominante è la paura: dell’extracomunitario, del pazzo, del diverso, dell’estraneo, del contagio. Uno stato d’animo che la Lega riesce efficacemente a intercettare e governare. Nonostante il binomio casa-lavoro assorba tutte, o quasi, le loro disponibilità, le donne milanesi conservano il desiderio, coltivato tra compagne di scuola e di università, di intrattenere relazioni amichevoli, di confidarsi, di confrontarsi. Poiché la grande città rende difficile incontrarsi di persona, sempre più mamme si ritrovano quotidianamente in Internet dove formano “gruppi di parola” , in base agli interessi prevalenti in una determinata fase della vita (innamoramento, fecondità, gravidanza , parto, allevamento dei figli, rapporti di coppia, nonni, separazione…). Alla invisibile comunicazione tra le donne, fa riscontro l’ostentata esibizione delle donne nei mass media, che impongono una immagine femminile erotica, seducente, spregiudicata, ammiccante, “disponibile”. Una figura dapprima gioiosa, come nei siparietti di Drive-in, poi sempre più esasperata , pornografica, degradata (si veda la denuncia del video, girato da Lorella Zanardo: www.ilcorpodelledonne.net). Ne esita una spaccatura tra chi si ritrae dal mondo rappresentato dalla televisione e dai rotocalchi, un mondo che sente estraneo alla propria identità, e chi invece lo sogna e, se possibile, lo frequenta per conquistare quei valori di visibilità, ricchezza e successo che, nell’epoca della “crisi del lavoro” , sembrano gli unici meritevoli di essere perseguiti. Mentre, le dive della pubblicità, sempre giovani, belle, ricche e desiderate, spacciano felicità di pronto consumo, le altre, quelle che vanno sempre di corsa, difficilmente divengono modelli di riferimento per le loro figlie. Tanto che le attuali liceali, rifiutando sia le proposte mediatiche più corrive, sia gli esempi forniti dalle madri e dalle insegnanti, stanno cercando di delineare, nel gruppo delle coetanee, identità femminili autonome, originali, alternative. 2. Cultura e politica: una relazione oggi lacerata. Per quanto sta avvenendo nel sistema politico (populismi, crisi dei partiti, personalizzazione della politica) ma anche per i processi culturali in corso (mediatizzazione, spettacolarizzazione, ecc). E’ possibile oggi ripensare e ricostruire una relazione fra elaborazione culturale e teorica e vita politica? Come, dove e attraverso quali strumenti? Nelle nuove aggregazioni telematiche (“mamme in rete” , “non solo mamme”, “smamma” ecc. ) da tempo intravedo, nonostante l’emergere di connotazioni emotive ed egocentriche, un tentativo di uscire dall’assillo del presente, dal ricatto delle necessità, dalla solitudine dell’io e del mio. Quando “il proprio” diventa l’unica dimensione e si rischia di soffocare, la Rete offre altri spazi di rappresentazione, altre possibilità di relazione. Non è casuale che l’appello, che il 13 febbraio ha portato un milione di donne a scendere in piazza, sia stato diramato via e-mail. La protesta delle “sciarpe bianche” ha ricevuto l’adesione e la partecipazione di centomila persone. Tra le donne sono intervenute personalità dello spettacolo, giornalisti, docenti universitarie, scrittrici, artiste, politiche e amministratrici, eppure il Movimento non ha volto. In piena cultura della visibilità, sembrano contare più le parole che le facce, le scritte sugli striscioni rispetto alle figure che, salite sul palco, hanno preso la parola. Come far buon uso di questo potenziale, al tempo stesso soggettivo e impersonale? Innanzitutto dovremmo analizzarlo: conoscerne la composizione, i desideri, gli umori. Non è necessario rispondere subito, con gesti politici, a domande che non sono ancora politiche e che temono di essere strumentalizzate. Mi sembra invece prioritario costruire una mediazione culturale capace di ridare senso e significato alle parole, avvelenate dalla spregiudicata baldoria berlusconiana. E’ giunto il momento di autorizzarci a pensare con spirito critico, di riprendere, senza paura di sembrare “moralisti”, il discorso sui valori, gli ideali, la verità, i principi, l’estetica, il buon gusto, l’etica delle relazioni. Ora sappiamo a chi rivolgerci. La capacità di “tessitura delle donne, la loro indomita volontà di dire, che sembrava ormai una ricchezza sprecata, è stata messa a disposizione di uno sguardo più ampio, di una rinnovato desiderio di confronto e di scontro, anche se sappiamo soprattutto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Ma vi è, in questa negazione, una implicita affermazione. Così come la deriva populista si è avvalsa dell’assenza delle donne, il suo vischioso procedere può essere contrastato dal ritorno delle donne nella polis, una presenza in se stessa antagonista e alternativa. Per ora si tratta di un movimento pre-politico che contiene però potenzialità politiche, anche se non necessariamente partitiche. Non credo che un’aggregazione spontanea sia, come tale, istituzionalizzabile. I movimenti così come repentinamente sorgono, altrettanto inaspettatamente tramontano. Ma le loro radici continuano a sopravvivere e a procedere in modo rizomatico. Se li consideriamo l’humus della politica, cercheremo di preservarne la vitalità. Non si tratta di governarli, sarebbe come mettere l’acqua in gabbia, ma di sostenerli fornendo loro sedi, supporti organizzativi , spazio nei mass-media, autonome possibilità di elaborazione, ascolto e memoria. 3. Il tessuto tradizionale di mediazione tra cultura e politica (quotidiani, riviste, case editrici, centri di ricerca, ecc.) si è trasformato profondamente. Sono declinate le strutture legate direttamente ai partiti cui sono subentrate nuove realtà come le Fondazioni vicine a singole personalità politiche. La Casa della Cultura ha scelto in questi anni di andare controcorrente: restare un centro aperto a tutte le anime della sinistra e alimentare una riflessione sul medio e lungo periodo. Il tutto in evidente continuità con la propria storia. Siamo riusciti a rendere efficace questo percorso? Si può continuare su questa strada? Urgono correzioni? Nuove idee? Nuovi progetti? Proprio perché la Casa della Cultura non rappresenta più, come all’origine, una emanazione politica storicamente determinata, una struttura fortemente connotata ideologicamente, costituisce a mio avviso, un luogo idoneo ad accogliere il nuovo Movimento delle donne, e degli uomini che vi aderiscono. La città la considera uno spazio di cultura democratica, aperto a una pluralità di soggetti, di tempi, di esperienze e riflessioni. Negli ultimi anni hanno varcato la “porticina rossa” e affrontato l’ardua scala, oltre a politici e intellettuali, uomini e donne, vecchi e giovani, professori e studenti, abitanti del centro e della periferia, autoctoni e immigrati. Non conosco un altro centro culturale che, pur conservando la sua identità, abbia mostrato altrettanta ospitalità. E’ da questo sotterraneo, ove si sono sedimentati sessantacinque anni di cultura mai subalterna al potere, che potranno emergere parole nuove, non logorate dalla falsità, dalla malafede, dalla miseria morale di questi anni. Tutti insieme, contro e oltre il nemico comune, sarà possibile mostrare che “un mondo migliore è giusto, che un mondo migliore è possibile”. Se gli slogan servono ad aggregare non bastano però a governare. Per dare espressione pubblica ed efficacia alla forza delle donne, sempre a rischio di dispersione, è necessario trasformare le recriminazioni in domande, specificare gli obiettivi, stabilire delle priorità. Nel far ciò i pericoli della retorica, della sostituzione e della strumentalizzazione saranno sempre presenti. Uno dei temi che possano sottrarsi a questi sospetti mi sembra quello del lavoro femminile in quanto: concreto, acuto, trasversale rispetto alle generazioni, ai livelli di cultura e di carriera, alle necessità e alle aspirazioni. L’importante sarebbe ascoltare le giovani e apprendere da loro un lessico che rinnovi la retorica, spesso datata, delle istituzioni. Nella tarda modernità il termine “lavoro” non riveste lo stesso significato di prima. Il modo di intenderlo è incomparabile con quello precedente. Molte volte quelle che noi consideriamo conquiste, vengono ritenuti vincoli dalle più giovani. Accade che il posto fisso, quello che dura tutta la vita, sia considerato una condanna più che un diritto. Confuse sui loro stessi desideri, esprimono la necessità di luoghi ove incontrarsi, dar senso alle parole e confrontarsi per uscire dall’isolamento, per elaborare strategie, per progettare e sperare insieme. In generale, poiché la riforma del lavoro sarà ai primi posti nell’agenda di qualsiasi governo, delineare scenari che tengano conto della specificità della vita femminile, del doppio carico di lavoro domestico ed extradomestico, della necessità di disporre di più tempo per sé, per i rapporti di coppia, per crescere ed educare i figli, mi sembra quanto mai opportuno. In proposito sono in corso, in Olanda e in Germania, esperienze di grande interesse in quanto sostengono che, per certi versi, è possibile uscire dalla logica del capitalismo, da una organizzazione del tempo finalizzata al profitto immediato, per adottare un’ottica più vasta, a lunga scadenza, attenta alla varietà e complessità delle esperienze e alla successione delle fasi del ciclo della vita. Il vantaggio di ripensare il lavoro in tutte le sue implicazioni può essere calcolato su una scala più articolata rispetto al bilancio aziendale, al confronto imprenditore – lavoratore. Se consideriamo che il modo di produrre e guadagnare incide sulla vita di tutti, in ogni momento, si amplia l’ambito dei soggetti implicati nella contrattazione. Quei modelli mostrano che il costo del lavoro non è una invariante in quanto sono sempre possibili compensazioni. Ad esempio, la riduzione del tempo di lavoro comporta meno spese sociali, meno trasporti e malattie da logoramento e può essere sostenuta, come in Olanda, da una apposita riduzione delle tasse. Una ulteriore conseguenza della ridefinizione degli orari di lavoro può comportare più occupazione, secondo il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”. Le comparazioni internazionali ci dicono che nei paesi dove è più alta l’occupazione femminile nascono più bambini, una constatazione che deve però tener conto del welfare complessivo. La tenuta della famiglia, il benessere dei bambini e degli anziani, le prestazioni di cura, la qualità della vita sono molto più importanti di quanto l’economia tradizionale ritenga . Il fatto che alla presidenza della Confindustria e della CGIL vi siano ora due donne, Emma Marcegaglia e Susanna Camusso, potrebbe essere un segnale positivo per una riforma del lavoro al femminile. Ma poiché i diritti non sono mai regalati: la parola alle donne. Silvia Vegetti Finzi