1 VENTENNALE DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA Quando nel febbraio del 1917, il prof. Giuseppe Cultrera, direttore del Museo Nazionale Tarquiniese, insieme ad un ristretto gruppo di cittadini, tra i quali l’avv. Latino Latini, fondò la “Società Tarquiniense d’Arte e Storia”, certamente non pensava che la vita di questo sodalizio sarebbe stata così duratura (anche se agitata) e la sua azione così meritoria nei confronti della sua città. Era un momento un po' critico, l’Italia era in guerra, ed alcuni obiettarono sull’opportunità di fondare una associazione culturale in quei frangenti, ma il prof. Cultrera, nella “famosa” adunanza nella Sala Gialla del Comune (11 febbraio 1917), mise a tacere tutti dicendo: <<Se a qualcuno sarà sembrato poco opportuno il momento scelto, il Comitato provvisorio non è stato di questo avviso. Non ci è infatti niente di opportuno in tutto ciò che si fa per mantenere nei limiti del possibile regolare il ritmo della vita civile della Nazione anche in tempo di guerra. Certo, oggi come oggi, a nessuno verrebbe in testa di promuovere opere che richiedessero delle forti spese. Ma non è male che sin da ora si cominci a ventilare delle idee che a poco a poco si andranno selezionando e maturando, perché siano pronte ad essere tradotte in atto al momento opportuno. D’altra parte non si deve perdere di vista che ai sodalizi del genere di quello che ora sta per essere fondato, spetta sempre di svolgere una duplice azione: una positiva intesa a suscitare idee e iniziative, e un’altra che si suole dire negativa quando tende ad impedire l’esecuzione di cattivi progetti, ma che nel campo attuale è meglio chiamare correttiva, in quanto intesa a fornire opportuni suggerimenti perché in determinate opere o allo stato di progetto o in via di esecuzione, si tenga conto di circostanze che possono essere per avventura sfuggite ai primi ideatori. E per lo svolgimento di questa seconda specie di azione, le occasioni potrebbero presentarsi anche durante la guerra>>. Il nome dato all’associazione, prima della fondazione ufficiale, fu quello di “Amici dei Monumenti” e già in esso c’era l’indicazione di quello che ne sarebbe stato il programma. E’ stata la prima iniziativa di questo genere nel nostro centro? No, se vogliamo però trovarle un’antenata, occorre risalire nel tempo, al 1874 quando nella nostra città agiva una 1 2 “Associazione Archeologica Cornetana”, che, come lascia ben capire il nome stesso, avrà rivolto la sua attenzione particolarmente al patrimonio artistico del periodo etrusco. All’atto pratico, come avrebbe espletato la sua attività la neonata Società Tarquniense d’Arte e Storia? In vari modi: <<1) compiendo opera di vigorosa propaganda acciocché nell’animo dei privati cittadini che siano proprietari di cose aventi importanza artistica o storica, e in ispecie di stabili a carattere monumentale, sempre più si infonda la persuasione che il religioso rispetto per tutte le reliquie che fanno testimonianza di un glorioso passato e della nobiltà della stirpe, è un altissimo dovere di civismo, il cui adempimento torna ad onore e lustro dei proprietari medesimi oltre che dell’intera cittadinanza e della Patria; 2) promuovendo di concerto con le competenti autorità governative e comunali, lavori di consolidamento e di restauro di monumenti antichi o di liberazione degli stessi da superfetazioni moderne che li deturpano. 3) propugnando una accurata manutenzione delle vie e delle piazze cittadine, specialmente nelle zone di pretto carattere monumentale, per modo che tutte le adiacenze degli edifici meritevoli di essere tenuti in evidenza, presentino un aspetto il più possibile decoroso; 4) invigilando a che la futura attività edilizia della Città, tanto in eventuali rimaneggiamenti interni, come negli ampliamenti alla periferia, si svolga il più che è possibile in armonia con le belle caratteristiche della tradizionale architettura locale; 5) cooperando a facilitare l’opera della competente autorità governativa, qualora questa venga nella determinazione di prendere o di sollecitare provvedimenti intesi a meglio assicurare la conservazione delle tombe etrusche e a sistemare in modo razionale le vie di accesso; 6) incoraggiando ogni iniziativa che miri a maggiormente richiamare l’attenzione degli studiosi e dei viaggiatori sui monumenti e sulle raccolte archeologiche e artistiche della Città e a promuovervi un sempre maggior concorso di visitatori”. Sin dall’inizio molto fu l’interesse che suscitò sia tra i cittadini che tra gli Enti privati e pubblici, e la sua azione non tardò a farsi sentire. Una delle prime iniziative fu quella relativa al restauro dell’interno di San Pancrazio, monumento che ha visto più volte, nel corso dei 74 anni di vita della Società, la STAS impegnata a recuperarne la primitiva bellezza architettonica, sino ad arrivare alla situazione odierna che lo vede ospitare il più importante e suggestivo Auditorium della città (speriamo che presto possa essere riaperto e possa quindi riprendere la sua funzione 2 3 di centro culturale cittadino). Poi fu compilato l’elenco degli edifici monumentali della città, si iniziò una cooperazione con la Direzione del Museo per la raccolta nel Museo stesso degli antichi stemmi gentilizi, allora esistenti in Corneto, si curò il restauro del Portico di Fontana Nuova, venne proposta la riapertura al pubblico del piazzale contiguo alla Chiesa di Santa Maria in Castello ecc. ecc. In occasione delle manifestazioni per il centenario dantesco (verbale 8 settembre 1921), fu dato un contributo di 500 lire. Benché il suo inizio sia stato così promettente, nel corso degli anni ci saranno delle crisi; ci saranno dei periodi in cui sembrerà cessare ogni attività ma, come l’Araba fenice, riuscirà sempre a risorgere dalle sue ceneri più ricca che mai di entusiasmo e di idee per proteggere e promuovere iniziative a favore del patrimonio artistico e culturale di Tarquinia. La prima crisi è del 1923. Nel 1930 il prof. Cultrera tentò di far riprendere le attività al sodalizio ma inutilmente. Era quindi conclusa la sua vita? No. Nell’aprile del 1935, nella “Sala degli Eroi” del Palazzo Municipale, la Società viene rifondata, mantenendo sempre le stesse finalità. Tra i suoi animatori, oltre all’avv. Latini, il marchese G.B. Sacchetti, il prof. Romanelli. Intorno ad essa rinasce interesse e curiosità. Questa testimonianza indiretta ci fa capire come fosse importante fanne parte. Nel verbale del 9 maggio 1935, si legge quanto segue:.... “Per quanto riguarda le categorie dei soci, il consigliere Latini ha presentato la proposta di qualche operaio che, trovandosi nella quasi impossibilità di sborsare le quote, ha offerto una giornata di lavoro a pagamento delle dodici rate annuali (si doveva pagare la somma di 12 lire annuali, in dodici rate da 1 lira l’una)”. Nel 1935 fu vicina al prof. Romanelli (nuovo direttore del Museo), per promuovere gli scavi della “Civita”. Saranno scavi importanti, infatti, oltre a tratti delle mura della città etrusca e al basamento di un grande tempio, saranno ritrovati anche i “Cavalli Alati” di terracotta, diventati poi, dopo un accurato restauro, il simbolo di Tarquinia. Con grande emozione il prof. Romanelli comunicò ai consiglieri della STAS quanto si andava trovando nella campagna di scavo, (verbale del 10 dicembre 1935). 3 4 Nel 1952 si ha, forse, il momento più critico per la società che dal 1940/41 di fatto non esiste più: il trapasso del materiale amministrativo e del fondo cassa alla Pro Tarquinia <<la più diretta erede per le finalità che si propone>>. Da questa brutta situazione si risollevò solo nel 1971, quando alcuni vecchi soci ridettero nuovamente vita all’associazione. Tra questi oltre a Rolando Brunori e mons. Luigi Di Lazzari, anche il cardinale Sergio Guerri che ne diventerà e resterà Presidente fino al 1990. Da quell’anno l’attività della S.T.A.S. è andata sempre crescendo. Il 3 agosto 1973, con decreto del Presidente della Repubblica n.21493 viene riconosciuta come “Ente Morale”, riconoscimento che la pone in una particolare posizione tra le Associazioni di Storia Patria dell’Alto Lazio; fa parte poi del <<Comitato per le Attività Archeologiche nella Tuscia>> ed è iscritta tra le Società culturali e di Storia Patria riconosciute dal Ministero dei Beni Culturali. Proprio in questo ultimo anno è stata anche inserita nell’elenco delle Associazioni Culturali più meritorie della Regione Lazio. Si può dire che in ogni angolo di Tarquinia si nota l’azione di questo sodalizio il quale tiene sempre presenti gli scopi statutari: proteggere i monumenti e promuovere idee ed iniziative per il mantenimento del patrimonio artistico e culturale e la conoscenza della storia cittadina. Tra le sue opere più importanti si possono ricordare: il restauro del complesso architettonico in cui ha la sua sede, che comprende antiche costruzioni medievali e una parte del Palazzo dei Priori, il restauro del già citato San Pancrazio con la valorizzazione dell’Auditorium, quello della Chiesa di Santa Maria di Castello (uno dei monumenti più insigni di Tarquinia che, grazie alla STAS, ha ritrovato la dignità che le era propria in origine), quello di Porta Nuova, opera del 1580 e delle aree annesse, quello della “Torre di “Dante” e dell’antica Porta Maddalena, e quello di alcuni quadri nella Chiesa di S. Maria di Valverde (i “Misteri del Rosario”) e dell’Addolorata, nonché il ritrovamento e relativo restauro delle Statue del Presepio Settecentesco del Suffragio ecc. ecc. La S.T.A.S. però ha dato il suo contributo anche nel campo editoriale, infatti, continuando la raccolta <<Fonti di Storia Cornetana>> iniziata dal prof. Francesco Guerri con il suo <<Registrum Cleri Cornetani>> e con gli <<Statuti degli Ortolani>>, ha stampato <<Corneto com’era>> di M. Corteselli e A. Pardi, <<Le Croniche di Corneto>> di Mutio Polidori (da un manoscritto del XVII sec.), gli <<Statuti della Città di Corneto del 1545>>, ed ogni anno presenta il <<Bollettino>>, diventato un punto di riferimento per approfondire e conoscere avvenimenti e personaggi inerenti alla storia antica, medievale e moderna di Tarquinia. 4 5 E’ anche grazie alla sua azione se negli ultimi anni è rinato l’amore per il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. Presente e vigile è stata anche nel sorvegliare i restauri in corso nella nostra città, ed è intervenuta con decisione se non rispondenti al rispetto dell’antico (vedi restauro del Prospetto principale del Palazzo Comunale). Estremamente importante la sua opera di recupero e conservazione di alcuni archivi, quali quello Falzacappa, quello Bruschi-Falgari e quello Quaglia che, altrimenti, sarebbero andati perduti. Molti sono gli studiosi che vengono a consultare queste antiche carte che, unitamente a quelle dell’Archivio Storico Comunale, sono preziose testimonianze di avvenimenti e personaggi del passato oltre che della società dei secoli che ci hanno preceduto. Il 1991, che ha visto per iniziativa della STAS, nel mese di ottobre le Celebrazioni in onore di Giovanni Battista Marzi, si è concluso con la solenne celebrazione religiosa, celebrata dal Vescovo, mons. Girolamo Grillo, per festeggiare la conclusione della prima parte dei restauri dei mosaici cosmateschi di Santa Maria in Castello, restauro che ha dato la possibilità di riportare in piena luce i magnifici colori che gli antichi maestri marmorari romani avevano profuso per evidenziare gli eleganti motivi geometrici del pavimento musivo. E’ stato ripulito anche l’altare ed il fonte battesimale ad immersione. In questa sua ultima fatica la S.T.A.S. è stata affiancata dal locale Lions Club, dall’Associazione Pro Tarquinia, dal Centro Studi Cardarelliano e da benemeriti cittadini. Di questo restauro, come del Convegno su Marzi, si parla diffusamente in altra parte del Bollettino. Qui ci limiteremo a dire che vedere rifiorire quest’opera d’arte è per tutti i soci della Stas motivo di orgoglio e sprone per cercare di fare sempre meglio e sempre di più per questa Chiesa che da sola già nobiliterebbe artisticamente Tarquinia. Ancora sono molti i lavori che devono essere affrontati con spese niente affatto indifferenti, ma la Società confida che altri enti e associazioni tarquiniesi, che hanno a cuore i monumenti del passato di cui la nostra città è ricca, le staranno vicino per aiutarla a raggiungere questo suo intento. E’ di questi giorni poi la notizia che il Comune ha affidato alla STAS il restauro della Fontana di Piazza e questo è quanto farà la Società nel prossimo futuro. In questo ultimissimo periodo poi, nel suo interno, ad opera di soci desiderosi di fare qualcosa in prima persona, con il proprio contributo manuale, è nato il Gruppo Operativo, il quale sta portando a termine la ripulitura dell’andito d’armi della Torre di Dante, durante i weekend. 5 6 La presenza della Società nella vita cittadina è quindi sempre molto attiva ed indirizzata ad incentivare anche iniziative di altri enti e gruppi culturali. E’ sempre coerente perciò nel suo modo di agire a quelle che sono le finalità che nel lontano 1917 il prof. Cultrera presentava nella “Sala gialla” del Palazzo Municipale ad un ristretto numero di ascoltatori. Sono stati anni molto densi di attività questi venti anni che sono intercorsi dalla sua rifondazione e ritengo che l’auspicio migliore che si possa farle, sia quello di trovare sempre tra i suoi soci, persone pronte ad impegnarsi per proseguire nella strada tracciata da coloro che hanno fatto di lei un sodalizio così importante per la cultura cittadina. Lilia Grazia Tiberi ENEA SILVIO PICCOLOMINI E UN MONUMENTO DEL QUATTROCENTO 6 7 CORNETANO L’Estate di Emilio Greco si protende dal margine della strada. Da alcuni mesi richiama lo sguardo dei passanti: del cittadino forse non ancora del tutto abituato all’incombere delle sue forme e, più ancora, del turista che segua i contorni del Palazzo Vitelleschi. Certamente contende al pozzo del Palazzo del Magistrato la centralità materialmente occupata da oltre mezzo secolo all’interno della risega che separa la mole quattrocentesca dagli edifici allineati lungo il Corso Vittorio Emanuele. E la difficoltà a ricomporre unitariamente quello spazio, che provoca un allontanamento, quasi una ulteriore rimozione del monumento antico, è avvertita ancora più profondamente da chi si sia avvicinato ed abbia letto, nel riquadro più interno della vera ottagonale, il monito solenne: OPUS IN PERPETUAM MEMORIAM. I nomi dei magistrati e le figure dei quattro protettori di Corneto hanno perduto quasi per intero la nettezza originaria e la lunga esposizione alle intemperie, forse accentuatasi dopo la rimozione dal piccolo cortile del Palazzo Comunale, ha esalto la scabrosità del nenfro, la sua naturale opacità che si oppone ai morbidi chiaroscuri dell’opera moderna. Ma ancora ben si stagliano, allineati sui bracci della croce sovrastata dal triregno e dalle chiavi di Pietro, le cinque lune crescenti dei Piccolomini così come, a sinistra dell’iscrizione, nitidamente si allargano sui bracci di un’altra croce latina i rami del corniolo e, nel riquadro rivolto verso la strada, i due torelli dei Vitelleschi continuano ad affrontarsi fieramente sotto i sei gigli fiorentini. Questi tre stemmi, che richiamano rapporti e presenze tanto lontane nella storia della nostra città, la perentorietà della iscrizione, che data l’opera al 10 agosto 1459, mi hanno spinto a tentare il recupero della perpetua memoria per cui venne posto l’austero monumento 1) . Il 21 gennaio di quell’anno, prima ancora che il sole si levasse, aveva attraversato le Terme di Diocleziano ed era sceso fino alla porta del Popolo e a ponte Milvio. Lo 1) La proposta di restaurare e collocare il pozzo “al di sopra di un gradino di travertino, entro una breve area sistemata a giardino poco a destra di chi guardi il prospetto monumentale del palazzo Vitelleschi”, avanzata dal Soprintendente S. Aurigemma, venne accolta dal Podestà di Tarquinia nell’ottobre del 1940. Nell’Archivio Storico Comunale si conservano due lettere dell’Aurigemma che ci informano dettagliatamente della vicenda. Nell’anno seguente, l’Aurigemma ha anche dedicato al monumento un articolo pubblicato dal Giornale d’Italia del 27 maggio, poi ampliato e replicato in “Le Arti” V, 1943, fasc. VI, pp. 250-255, che sottolinea l’originalità del puteale e ne fornisce una completa descrizione. Ecco il testo dell’epigrafe: OPUS IN PERPETUAM MEMORIAM TEMPORE MAGNIFICORUM DOMINORUM MARCI OCTAVIANI DE VITELLENSIBUS CONFALONIERII PETRI BARTHOLOMAEI VIVIANI JOHANNIS CONSULUM FRANCISCI NICOLAI (Anno) MCCCCLIX (die) X AUGUSTI. L’ultimo nome si riferisce evidentemente al detentore della terza magistratura in ordine di importanza di elezione popolare, quella del Capitano di Cinquecento. 7 8 accompagnavano i cardinali, i personaggi più in vista della città e gran parte della plebe romana, mentre iniziava il viaggio che doveva portarlo a Mantova. Con la bolla Vocavit nos Pius del 13 ottobre 1458, all’indomani della elezione al pontificato, Enea Silvio Piccolomini chiamava a raccolta i principi cristiani nella città di Virgilio per contrastare l’espansionismo turco che aveva occupato Costantinopoli cinque anni prima ed era penetrato nei Balcani 2) . Suggestioni letterarie e progetti politici tornavano a mescolarsi nella mente di Pio II. Facevano parte del suo seguito cardinali di gran nome come Guglielmo d’Estouteville, Alano di Coetivy, Filippo Calandrini, Pietro Balbo, Prospero Colonna e Rodrigo Borgia. Dopo una prima sosta a Campagnano, feudo degli Orsini, il corteo papale si diresse verso i territori invasi alcuni mesi prima dal condottiero Jacopo Piccinino. Toccò Nepi e Civitacastellana, passò il Tevere su un ponte di legno fatto costruire nei pressi di Magliano. “Dovunque passava, le popolazioni riempivano le strade e salutavano il pontefice; i sacerdoti con le sacre immagini pregavano perché il viaggio fosse felice; i bambini e le vergini con le tempie incoronate d’alloro e con in mano i ramoscelli d’ulivo auguravano vita e fortuna al grande presule. Chi riusciva a toccare i lembi della veste si riteneva beato. Piene dovunque le strade di popolazione e cosparse d’erba verdeggiante, le piazze dei centri minori e delle città addobbate con stoffe preziose, le case private e le chiese del gran Dio ornate splendidamente” 3) . A Narni l’entusiasmo della folla giunse a mettere a repentaglio la vita stessa del pontefice per il riproporsi dell’usanza italiana di lasciare al popolo il cavallo e il baldacchino dei personaggi illustri 4) . Il breve inviato ai Cornetani in data 25 Gennaio 1459 potrebbe suggerirci che tra coloro che difesero la persona del pontefice in quella pericolosa circostanza ci fosse il miles 2) L’organizzazione della “santa crociata” contro gli infedeli è uno dei leit motiv del pontificato di Pio II. Tra le numerosissime testimonianze letterarie segnalo la famosa Epistula in Maumethem perfidum Turchorum regem e il capitolo dei Commentariirelativo alla scoperta ed alla utilizzazione dell’allume in territorio cornetano. Ma voglio soprattutto ricordare che la vita di quest’uomo tanto spregiudicato e privo di illusioni si concluse ad Ancona mentre, ormai vecchio e malato, era in procinto di imbarcarsi alla guida della crociata. 3) Quacumque iter fecit populi, obviam effusi, Pontificem salutare; sacerdotes sacra ferentes felicem viam eunti precari; pueri innuptaeque puellae, redimiti tempora lauro et olivarum ramos manu gestantes, vitam et felicitatem magno praesuli optare. Qui fimbrias vestimentorum contingere possent beatos sese arbitrari. Plena ubique populi itinera et strata virentibus herbis, oppidorum et urbium plateae pretiosioribus opertae pannis, domus civium templaque magni Dei praecipius ornata modis. E. S. PICCOLOMINI PAPA PIO II, I Commentarii, a cura di L. Totaro, II, Milano, 1984, pp. 288 e 290. 4) L’imperatore Federico III fu vittima di una analoga manifestazione di pericoloso entusiasmo popolare a Viterbo, nel corso del viaggio alla volta di Roma organizzato dal Piccolomini, allora vescovo di Siena ma ancora segretario imperiale, nel 1452, per la celebrazione del matrimonio con Eleonora di Portogallo e per l’incoronazione da parte di Niccolò V (cfr. F. GREGOROVIUS, Storia della città di Roma nel Medioevo, III, n.e. Torino 1973, p. 1891 e C. PINZI, Storia della città di Viterbo lungo il Medioevo, III, Viterbo, 1913, pp. 83-86). 8 9 Biagio Vittori. Certamente la lettura del documento conservato nell’Archivio Storico di Tarquinia istituisce una relazione fondamentale con il nostro monumento: <<Ai diletti figli salute ed Apostolica benedizione. Poiché stimiamo ed amiamo paternamente il diletto figlio Biagio Vittori cavaliere di Narni per l’affetto straordinario che ha verso di noi facciamo appello alla vostra fedeltà affinché vogliate avere maggiori riguardi per il diletto figlio Bartolomeo, attualmente vostro podestà e parente del detto Biagio, in tutte le cose che concernono la sua carica e il suo interesse, concedendo a voi e a ciascuno di voi di arringare e fare proposte nel vostro Consiglio a favore dello stesso Bartolomeo come affermate che altre volte era consuetudine fare, non opponendosi bolle, brevi ed altri indulti e statuti. Ciò per la considerazione del suddetto Biagio, ci sarà gradito>> 5) . La singularis affectio del cavaliere di Narni aveva dunque indotto Enea Silvio Piccolomini ad abbandonare la dimensione ecumenica del suo viaggio ed a calarsi per un momento in una modesta questione di amministrazione municipale per rimuovere il suo precedente divieto di offrire qualsiasi dono al podestà, compreso quello tradizionale dello stendardo con le insegne del comune. La motivazione del divieto contenuto nella bolla del 17 ottobre 1458 è di carattere finanziario: si vogliono ridurre al massimo le spese amministrative. Ma nel contempo si interrompe una usanza antica, collegata alla storia della indipendenza comunale e quindi profondamente sentita dai magistrati e dai consiglieri, prima ancora che dal podestà destinatario del dono 6) . E’ certamente per questo motivo che la concessione di Pio II viene accolta con tanta soddisfazione da essere celebrata con la posa IN PERPETUAM MEMORIAM del puteale in nenfro che ornava la cisterna del Palazzo Comunale. Noi non sappiamo se a sostenere la causa del miles narniensis sia intervenuto il vescovo di Corneto Bartolomeo Vitelleschi allora, e già dal 1455, titolare della Legazione 5) Dilectis filiis salutem et apostolicam benedictionem. Quia diligimus et paterna caritate complectimur dilectum filium Blasium Victorij militem Narniensem propter suam erga nos singularem affectionem idcirco hortamur devotiones vestras ut dilectum filium Bartholomeum presentem potestatem vestrum qui de parentela dicti Blasj existit velitis in omnibus honorem et commodum suum concernentibus propitius commendatum suscipere. Concedentes vobis et unicuique vestrum ut pro ipso Bartholomeo in consilio vestro liceat aringare et proponere sicut alias asseritis fieri consuevisse bullis brevibus et alijs quibuscumque indultis et statutis ceterisque contrarijs non obstantibus quibuscumque. Quod intuitu prefati Blasij nobis gratum erit. Datum Interamnis Sub anulo piscatoris MCCCCLIX die XXV Ianuarii Pontificatus nostri Anno Primo. In Arch. Stor. Com. Tarquinia, <<Fondo pergamenaceo>>, 4, 106. Ringrazio Piera Ceccarini per la consueta cortesia con la quale mi ha agevolato nella consultazione dei documenti. Ringrazio altresì G. Seghenzi, autore delle fotografie pubblicate a corredo dell’articolo. 6) Ceterun ut commoda nostre rei publice quoad honeste possumus modis omnibus procuremus vobis sub Centum similum florenorum pena quam vos si contra feceritis incurrere volumus eo ipso et quam per thesaurarum nostrim in Provincia Patrimonii pro tempore deputatum exigi volumus illico et cum effectu districtius inhiventes ne cui Potestati eiusdem Civitatis Vexillum sive Stendardum cum insignis dicte Civitatis ut moris est aut alias dare vel donare quomodo libet presumatis. In Arch. Stor. Com. Tarquinia, <<Fondo Pergamenaceo>>, 4.103. 9 10 dell’Umbria. Possiamo soltanto immaginare che egli si sia fatto incontro dalla sua sede di Foligno all’amico pontefice il quale peraltro con queste parole celebra, poco più avanti nel racconto dei suo Commentarii, la riconquista di Foligno ad opera di Giovanni Vitelleschi nel 1439: <<Questa città, durante il pontificato di Eugenio IV, tornò alla chiesa di Roma dalle mani dei tiranni. Dicono che il tirannello della città chiese un giorno a un sant’uomo dotato di spirito profetico se mai la sua discendenza sarebbe stata privata del potere assoluto e quello rispose che ciò sarebbe accaduto quando i tori sarebbero volati intorno alle mura della città. Sembrandogli ciò impossibile, il tiranno si convinse che il potere sulla città sarebbe stato esercitato in eterno da lui e dai suoi discendenti. Ma mentre i suoi nepoti erano al governo, il patriarca alessandrino Giovanni Vitelleschi, partito con il suo esercito contro quella città, avendo cominciato ad attaccare, spiegati i vessilli, su cui c’è l’insegna di una coppia di tori che in qualche modo sembravano volare poiché il vento gonfiava e agitava i vessilli, infuse un gran terrore nei cittadini. Tutti gli ottimati conoscevano infatti il vaticinio. Dopo non molti giorni la città si arrese ed è rimasta obbediente ai pontefici romani fino a oggi. I tiranni sono stati dispersi>> 7) . Il ricordo di quella coppia di tori che sembravano volare si sarà forse offerto alla mente di Enea Silvio Piccolomini nel momento in cui gli si chiedeva di rimuovere il divieto di donare lo stendardo cornetano al podestà Bartolomeo Vittori ed avrà facilmente avuto la meglio sulle modeste preoccupazioni finanziarie. Ma anche nella nostra mente, per un’altra via, può insinuarsi la suggestione di quel ricordo, se riusciamo a distinguere in uno dei riquadri del pozzo del Magistrato i contorni di un cavaliere che solleva e lascia sventolare lo stendardo con l’insegna del corniolo: è l’immagine di S. Secondiano, il martire cristiano di Centumcellae divenuto principale protettore di Corneto agli albori dell’età medievale, di cui proprio nei giorni immediatamente precedenti quel 10 agosto veniva celebrata solennemente la festa 8) . E’ 7) Haec civitas, Eugenio quarto sedente, ex manibus tyrannorum ad Romanam Ecclesiam rediit. Ferunt eius urbis regulum sanctum quendam virum propheticum habentem spiritum olim consuluisse, an regno sua posteritas aliquando privanda esset; illumque rwspondisse privandam, cum boves circus moenia civitatis evolarent. Quod cum impossibile videretur, aeternum sibi posterisque imperium urbis tyrannus persuasit. Verum nepotibus regnum tenentibus, Iohannes Vitellensis, Alexandrinus patriarcha, eo cum copiis profectus, cum obsidere urbem coepisset, explicatis vexillis, in quis insigne fuit par bovum qui, flante vento et agitante vexilla, volare quodammodo videbantur, magnum civitati terrorem incussit. Erat enim cunctis optimatibus notum vaticinium. Nec multis post diebus civitas dedita est, quae usque in hanc diem Romanis pontificibus paret. Tyranni dissipati sunt. PICCOLOMINI, Commentarii cit., II, p. 298. 8) Oltre alla figura dominante di Secondiano, i santi patroni sono il comes Teofanio, anch’esso legato alla storia della distrutta Centumcellae, Pantaleimone (comunemente noto come S. Pantaleo) e Lituardo. Sotto il profilo della iconografia, può essere interessante un raffronto con la pala marmorea che contornava l’immagine miracolosa della Madonna di Valverde. Se, come propone S. Aurigemma, si accettasse l’identificazione con S. Margherita della figura 10 11 la sua figura, agghindata da magistrato, che materialmente rappresenta la concessione di Pio II e ne proclama la perpetua memoria. Quando, alla vigilia della seconda guerra mondiale, si decise di rimuovere il pozzo dalla sua sede originaria, nella nuova collocazione si mise in particolare rilievo lo stemma dei Vitelleschi, scolpito nel riquadro opposto a quello della iscrizione e affiancato dalle due coppie dei santi protettori. C’era forse l’intenzione di offrire una più austera replica della vera marmorea che campeggia nel cortile del Palazzo Vitelleschi, distante soltanto pochi metri 9) . Il riferimento a Marco Ottaviano Vitelleschi, allora gonfaloniere comunale, non sembra certo sufficiente a giustificare una sottolineatura così solenne. Molto di più conta il richiamo ad una famiglia che aveva già esercitato (e proprio in quegli anni recuperava pienamente) un ruolo predominante nella storia di Corneto. Ma è soprattutto la figura di Bartolomeo Vitelleschi che ci viene incontro, se è vero che nessuno che conosca la storia del profondo legame di amicizia che unì questo personaggio ad Enea Silvio Piccolomini può tentare con qualche successo di sottrarsi alle suggestioni provocate dalla unicità dell’accostamento materiale delle insegne 10) . La più antica testimonianza di un rapporto diretto tra Bartolomeo ed Enea Silvio è costituita dalla annotazione che leggiamo negli Atti del Concilio di Basilea sotto la data di sabato 23 settembre 1442. Nella congregazione di quel giorno incorporatus fuit medio juramento reverendus pater dominus episcopus Cornetanus ed alla cerimonia che suggella l’ingresso di Bartolomeo Vitelleschi nel concilio, su cui da tre anni si era abbattuta la scomunica di Eugenio IV, è presente Enea de Senis, che già dal 1436 aveva ricoperto, in rapida successione, gli incarichi di abbreviatore apostolico, autore delle lettere e degli opuscoli sinodali, membro autorevole della cancelleria dell’antipapa Felice V, ed era stato più volte impiegato in importanti legazioni ufficiali 11) . In particolare, la partecipazione alla recante la palma del martirio, si istituirebbe un ulteriore collegamento con il vescovo Bartolomeo Vitelleschi che proprio in quegli anni riprendeva l’edificazione della Cattedrale dedicata alla martire di Antiochia. Sulla particolare testimonianza storica offerta dalle traslazioni delle reliquie dei martiri di Centocelle, rinvio alla mia relazione La rappresentazione di Centumcellae nel racconto delle Passioni, in “Atti del Convegno Dal Porto di Traiano alla Città di Gregorio Magno”, Civitavecchia, 1991, pp. 43-67. 9) Un più interessante confronto può essere istituito con il coevo pozzo di S. Marco (1453) anch’esso in nenfro ed a pianta ottagona, da molti anni ormai collocato nei pressi della chiesa di S. Francesco. Le due vere sono della stessa altezza (circa un metro) ma quella in origine collocata nel convento degli Agostiniani è chiusa, nella parte superiore, da un elegante margine marmoreo ed è di diametro molto maggiore. 10) Le due insegne dovevano ben più solennemente appaiarsi nella chiesa cattedrale consacrata il 3 luglio 1463 ed andata distrutta in seguito all’incendio del 1642. 11) Concilium Basiliense, VII, Die Protokolle des Concils 1440-1443, a cura di H. Herre, Basel, 1910, pp. 427-428. 11 12 Commissione dei Dodici aveva consentito al Piccolomini di valutare titoli e poteri di Bartolomeo Vitelleschi prima di accettarne la richiesta di ammissione al Concilio. L’itinerario che lo aveva condotto a Basilea e che stava per aprirgli le porte della cancelleria imperiale (di cui lo stesso Piccolomini si propone scintillante cronista nella parte iniziale dei Commentarii) aveva già conosciuto momenti drammatici e vicende avventurose nel corso delle quali si sarà certamente offerta ai nostri personaggi qualche occasione di incontro. Fin dal autunno 1434, quando Eugenio IV si rifugiò a Firenze, Bartolomeo Vitelleschi soggiornò più volte in quella città al seguito del patriarca Giovanni 12) . Si può ipotizzare, senza risalire agli anni degli studi senesi e fiorentini, che i due si siano frequentati nella primavera del 1435, in occasione della permanenza a Firenze di Enea Silvio, allora segretario del vescovo di Novara Bartolomeo Visconti. Il Piccolomini, come è noto, rimase coinvolto in un tentativo di rapimento di Eugenio IV e poté salvarsi soltanto grazie alla ospitalità del cardinale Albergati. A proposito di questo drammatico frangente, è certamente necessario ricordare, anche per gli sviluppi successivi della nostra storia, la lunghissima e devota permanenza al servizio dell’Albergati di Tommaso Parentucelli, il futuro Niccolò V, iniziata dopo un giovanile incarico di precettore in casa di Rinaldo degli Albizi, grande amico di Giovanni Vitelleschi 13) . Ben diverse ci appaiono le esperienze compiute da Bartolomeo. L’attribuzione del feudo della Tolfa Nuova (1435), l’amministrazione della Chiesa cornetana (1437), la nomina a vescovo della nuova diocesi di Corneto e Montefiascone (1438), la reggenza del Patrimonio di S. Pietro (1439) sono le tappe di un cursus honorum costruito dalla potente protezione dello zio pià che dalla affermazione di personali virtù. Nella ricostruzione del drammatico momento che seguì alla cattura e all’uccisione di Giovanni Vitelleschi nella primavera del 1440 merita una particolare considerazione l’annotazione che leggiamo del racconto di un autorevole testimone. Per lo passato dissi la morte del cardinale di Fiorenza, e come lui rimase un nepote, che aveva già fatto fare vescovo di Montefiascone e Corneto. Questo vescovo, sentito ch’era preso il zio, fuggì a Siena con molti denari del detto cardinale con certi suoi seguaci. Onde il papa mandò più volte a dire a’ Senesi che li mandassero detto vescovo e seguaci, overo li denari che avevano. Ma li Senesi non ne volsero far niente, anzi dicevano essere liberi, e non aver a far niente con persona. Per il che il papa li fe’ fare una correria in Valdorcia, e raccolse 12) Proprio a Firenze Bartolomeo è sorpreso dalla notizia dell’arresto dello zio (cfr. N. DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, in Cronache e Statuti della città di Viterbo, a cura di I. Ciampi, Firenze, 1872, p. 173.) 13) E’ forse questo il primo collegamento con il pontefice che consentì ai Vitelleschi di recuperare il loro primato nella città di Corneto. 12 13 gran quantità di bestiame e prigioni nell’entrata d’agosto. Onde per questo li Senesi disposero stare alle difese, e fero celare detto vescovo, dando nome ch’era fuggito 14) . Il cronista viterbese Niccolò della Tuccia sottolinea dunque la generosa (e pericolosa) ospitalità che per un tempo forse non molto breve i Senesi concessero allo smarrito vescovo cornetano e viene voglia di chiedersi per quale motivo, al di là della tradizionale e sempre rinnovata contrapposizione a Firenze, dopo aver inviato ambasciatori presso Eugenio IV per chiedere la liberazione del cardinale Vitelleschi, si siano tanto impegnati nella difesa di Bartolomeo. Le numerose lettere inviate da Basilea alla città e a diversi privati cittadini di Siena da parte di Enea Silvio Piccolomini, nel periodo in cui egli portava dalla cancelleria dell’antipapa Felice V l’attacco più violento contro Eugenio IV, non avranno sollecitato quel comportamento? Inoltre la correria in Valdorcia, se fu qualcosa di più che una generica pressione esercitata sulla repubblica senese, ci fa ricordare un passo della famosa descrizione del monastero del Monte Oliveto contenuto nel libro decimo dei Commentarii: <<C’è un alto colle che guarda verso occidente, tutto tufo e creta, lungo circa uno stadio e largo molto meno. Se vuoi saperne la forma, è simile a una foglia di castagno. Da ogni parte le rupi scendono a precipizio in profondissimi burroni che suscistano orrore in chi guarda. Dove il colle si collega con le terre circostanti è stata alzata una torre di mattoni su una altura modesta che impedisce l’accesso a chi non sia amico, ed è stato scavato un fossato che fa precipitare le sue acque nei burroni che gli stanno di fianco. Il fossato è collegato con un ponte, tolto il quale non rimane alcun accesso al convento>> 15) . Si tratta, forse, di una suggestione letteraria. Eppure, se dovessimo tentare di individuare il luogo dove i Senesi fero celare detto vescovo nessuno farebbe meglio al caso nostro. E non soltanto per la vicinanza della Val d’Orcia e per le naturali garanzie di difesa efficacemente sottolineate dalla descrizione di Pio II. Molto più eloquente è per noi il legame spirituale che si stabilì tra Bartolomeo Vitelleschi e gli Olivetani, ricordati con le commosse parole della riconoscenza nel Testamento del 1463 16) . 14) DELLA TUCCIA, Cronaca, cit., p. 180. Collis sublimis est ad Occidentem respiciens, thofo cretaque compactus, stadio circiter longus, latitudine multo minor. Si formam quaeris, castaneae folium imitatur. Unique rupes in baratra pergunt profundissima, in quae horror sit aspiscere. Qua iungitur reliquae terrae collis, dorso modico turris erecta est lateritia quae omnem prohibet accessum non amicum et fossa deducta quae in utrunque baratrum emittit aquas. Ea ponte coniungitur; quo sublato, nulli patet ad coenobium aditus. PICCOLOMINI, Commentarii cit., X, pp. 1944 e 1946. Da questo luogo, situato tra Asciano e Buonconvento, dove nel 1313 si ritirarono Giovanni Tolomei, Ambrogio Piccolomini e Patrizio Patrizi, ebbe origine l’ordine degli Olivetani. 16) G. INSOLERA, I riti della morte nel Testamento di Bartolomeo Vitelleschi, in “Bollettino dell’anno 1984” della Società Tarquiniense di Arte e Storia, pp. 23-35, al quale faccio riferimento anche per quanto riguarda l’ultima evoluzione dei rapporti tra Bartolomeo ed Enea Silvio. 15) 13 14 Da Siena, probabilmente lungo lo stesso itinerario percorso da Enea Silvio otto anni prima, Bartolomeo raggiunse Basilea dopo aver toccato Genova e Milano ed aver valicato le Alpi attraverso il S. Gottardo. Gli Atti del Concilio di Basilea ci consentono un piccolo passo indietro nella nostra ricostruzione, facendoci risalire fino alla data del 4 luglio 1442, sotto la quale annotano l’incarico attribuito a Niccolò Amici di ricevere, a nome del Concilio, il giuramento di Bartolomeo Vitelleschi allora ambasciatore in Inghilterra. In questo incarico, che lo poneva ancora sulle orme dell’amico, Bartolomeo venne sostituito dall’episcopus Vicensis, probabilmente perché chiamato a rappresentare il concilio alla dieta di Francoforte nella legazione cui partecipò anche il Piccolomini 17) . Successivamente la medesima fonte ci attesta l’inserimento del vescovo cornetano nella deputazione pro reformatorio e la partecipazione a quattro congregazioni generali nei mesi di novembre e dicembre, oltre alla già ricordata legazione presso l’imperatore Federico III. Tre lettere, inviate al Piccolomini tra la fine del 1443 e l’inizio del 1444, oltre a fornirci ulteriori e significativi elementi di conoscenza sugli anni dell’esilio, ci fanno entrare in un rapporto diretto con il personaggio, che si rivolge all’amico e presenta la propria condizione al di fuori di qualsiasi velleità o mistificazione letteraria. La prima lettera, del dicembre 1443, si apre con gli squillanti ringraziamenti per l’inserimento tra i consiglieri dell’imperatore. Anche il padre Jacopo ha esercitato le sue pressioni sulla corte, ma certamente più potenti saranno state le raccomandazioni di Enea, poeta laureautus dal luglio del ‘42 e da oltre un anno autorevole membro della cancelleria imperiale 18) . Ci troviamo di fronte a un documento di grande solidarietà umana. Enea, il più fortunato, maschera generosamente l’aiuto prestato a Bartolomeo il quale, dal canto suo, promette di corrispondere alle esortazioni dell’amico e di essere, nel Concilio, un osservatore fedele agli interessi di Federico III. 17) Post quamquidem conclusionem dominus Arelatensis recepit iuramentum a domino Nicolao Amici ambassiatore. Cui domino Nicolao sacra congregacio commisit ut juramentum nomine concilii reciperet a domino episcopo Cornetano ambassiatore in Britanniam. E’ il 4 luglio 1442. Niccolò Amici è presentato dagli Atti come ambassiator universitatis Parisiensis. L’8 luglio il vescovo di Vich sostituisce nell’incarico di ambasciatore Bartolomeo Vitelleschi in procinto di partire per Francoforte (cfr. Concilium cit., p. 472 e p.477). Quanto ai rapporti tra Pio II e l’Inghilterra, mi riferisco naturalmente ai capitoli 5 e 6 del primo libro dei Commentarii che contengono la narrazione della missione 18) Jacopo Vitelleschi ci è noto anche quale teste agli atti di donazione di Rainuccio Farnese al fratello Giovanni e, in successione immediata, di questi alla Comunità di Corneto del palazzo con quattro apothece, sito in contrada S. Bartolomeo, perché se ne curi la demolizione e si provveda alla costruzione della resecata (cfr. La “Margarita Cornetana”, Regesto dei Documenti, a cura di P. Supino, Roma, 1969, pp. 396 e 397). 14 15 Colpisce, in particolare, una frase nella quale certamente riaffiora il ricordo bruciante della fuga e della perdita della diocesi cornetana (<<mi rallegro di queste cose come se avessi recuperato il mio episcopato>>). All’inizio della seconda lettera del febbraio 1444, cogliamo il ricordo della legazione a Francoforte, alla quale i due amici parteciparono insieme nell’estate del ‘42, e della richiesta avanzata allora direttamente da Bartolomeo di essere assunto ad consiliaratum Cesaris. Allora, di nuovo, intervenne la separazione ed Enea Piccolomini, con il conseguimento della corona di poeta caldeggiato dal vescovo di Chiemsee Silvestro Pflieger, iniziò la carriera presso la cancelleria imperiale. In perfetta consonanza con le parole dello stesso Piccolomini, la lettera segnala un importante progresso con il conseguimento della promozione a primo segretario imperiale 19) . Ma nella lettera troviamo altre interessanti coincidenze con il racconto dei Commentarii. Nel lamentare che la comunicazione ufficiale della nomina non gli sia ancora pervenuta, Bartolomeo avanza il sospetto che ciò sia da addebitarsi ad un Wilhelmus de Constantia che sembra essere il medesimo Wilhelmus, spregiatore degli italiani ed alto funzionario della cancelleria imperiale, che ostacolò in ogni modo Enea nella fase iniziale della sua carriera. Prima di professarsi observantissimus et predicator indefessus del nome dell’imperatore, Bartolomeo fornisce informazioni sui preparativi di guerra di Firenze e Venezia, sulle missioni diplomatiche di Alfonso d’Aragona e di Francesco Sforza, che mirava alla nomina di vicario del concilio ed insidiava il possesso delle Marche ad Eugenio IV, da poco rientrato a Roma. Il vescovo cornetano dimostra insomma di voler rispettare gli impegni conseguenti alla nomina non ancora notificata ed informa scrupolosamente su questioni militari e diplomatiche relative allo scontro decisivo allora in atto in Italia. Affari di stato e preoccupazioni personali si susseguono così in questa lettera che si chiude con l’omaggio al grande protettore di Enea Silvio presso l’imperatore, l’episcopus Chiemensis conosciuto da Bartolomeo alla dieta di Francoforte. La terza lettera, ancora del febbraio ‘44, a differenza delle precedenti, non è spedita dalla residenza di Losanna. Bartolomeo è stato costretto ad accettare la lontana diocesi delle Cevenne e vi si è recato in una prima e faticosa visita pastorale. Da lì scrive ad Enea per lamentare la propria miseria e chiedere con forza ulteriori interventi a proprio favore. 19) (Aenas) apud Caesarem indiescrescens, ad res magnas et arduas vocatus, in Consilium secretius tandem receptus est. Commentarii, cit., I, p. 52. 15 16 E’ l’insistenza, quasi la sfrontatezza delle richieste, giustificate dalla affermazione finale (<<tu sei un secondo me stesso nella cura dei miei affari>>), a denunciare un legame di amicizia straordinariamente saldo e confidente. Ma ecco il testo e la traduzione delle tre lettere 20) . Bartholomeus ep. Corn. Enee Silvio laureato poeta salutem dicit plurimam Suscepi hesterno die gratissimas litteras tuas, mi clarissime, quibus non modo gratulor ego, sed omnis mea domus quam vehementius gaudet, cum in primis sospitatem tuam, que nobis omnibus extar auro pretiosior, et demum nostri te memorem intelligamus. nec tu plurimorum mores servas, qui tanto ad rem afficiuntur, quanto illam aspiciunt dataque absentia ad amicitiam se prebent immemores. sed quidem ab horum opinione devias, qui, etsi me presens colueris, absens et me meosque omnes diligis magis et amorem in me ostentas tuum. et si hec scripserim non aberro. scribis enim, me ad hosce dies a cesare inter alteros ejus consiliaros ascriptum esse, quod ad grandem cepi animi voluptatem et gratitudinem parem. et tu id existimor vales, si ad gratiam cesserint cum nec ignores, quanto id studio Francofordie flagitarim quod autem in presentiarum, me inscio, me non sperante me denique ad eam rem tunc non habente animum, id ipsum factum extiterit, magnifico et chooperatorum probo et laudo amicitiam, quique fuerint. nuntias dominum Jacobum, patrem meum, ad ream rem dedisse opus nec a te quidquam scribis, ut qui erga te non habeam gratias pro munere tanto. facis, rem intelligo et scio, non te 16 17 mutum aut elinguem obvenisse facto nec rei obfuisse in quoquam. sed quocumque res cesserint, nuntiant tibi rem adeo gratam habeo gratias et ingentes et eas pares facies meis verbis domino Jacobo, quem huiusce rei ducem fuisse denuntias. congratulor equidem ea re, ac si episcopatum meum nactus essem. ideo ut scribis itidem facias, ad me consiliaratus litteras quam citius mittas et ego ad rem cesaris, ut me hortaris, vigil ero semper et intentior, tuque ad eum cesarem me commissum facias. rursus te oro et obsecro, si amas me, et quam crebrius ad me scribas et hanc nostrorum corporum absentiam crebro vincamus sermone et absentie huius pondus litterarum nostrarum vicissitudine et beneficio leniamus. quod equidem servabo tibi, si modo scribendi facultas assit, supplicantiam pro genito domini Jacobi. nondum expeditam reppereram Lausanne, quod non sine mollitione et machina factum fore arbitratus sum. sed celeri remedio usus fui, ut ex litteris meis ad dominum Jacobum coniectaberis. vale decus amicitia et me, quemad modum, semper facis, ama. ex Lausanne, idibus decembris. Il vescovo di Corneto Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio poeta laureato. Ho ricevuto ieri la tua graditissima lettera, mio illustre amico, per la quale non solo io mi congratulo,ma tutti i miei familiari sono oltre modo felici nell’apprendere anzitutto della tua salute, che è per noi più preziosa dell’oro, e poi che ti ricordi di noi. Non ti comporti come la maggior parte delle persone, che si prendono cura della cosa soltanto quanto ce l’hanno davanti agli occhi e, dopo che è intervenuto la lontananza, non si ricordano più dell’amicizia. E certamente sei lontano dall’opinione di costoro tu che, avendo curato di me quando eri presente, ora che sei lontano hai riguardi ancora maggiori per me e per tutti i miei manifesti pienamente il tuo amore verso di me. E non sbaglio a scrivere queste cose. Scrivi infatti che io in questi giorni sono stato ascritto dall’imperatore tra i suoi consiglieri, cosa che ho appreso con grande piacere e con pari gratitudine. Anche tu puoi renderti conto di quanto la cosa mi sia gradita, giacché sai bene con quanta 20) Le tre lettere sono state pubblicate da R. WOLKAN, Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, in Fonres 17 18 insistenza ne abbia fatto richiesta a Francoforte. E ora che, senza che io lo sapessi, senza che lo sperassi, senza che più ci pensassi, proprio questa cosa si è realizzata, io esalto, plaudo e lodo l’amicizia di quanti mi hanno aiutato, chiunque sia stato. Mi informi che il signor Jacopo, mio padre, si è molto impegnato in questa impresa e di te non dici niente, perché non debba esserti riconoscente per un servigio tanto grande. Ammetti, comprendo perfettamente la cosa, che non sei rimasto muto e senza lingua di fronte all’iniziativa e che hai dato il tuo nullaosta. Ma, comunque siano andate le cose, a te che annunci un esito tanto gradito porgo i miei vivi ringraziamenti e ti prego di farne altrettanti a nome mio al signor Jacopo, che tu presenti come il condottiero dell’impresa. Di ciò io mi compiaccio come se avessi ottenuto il mio episcopato e dunque fa come scrivi, inviami al più presto la notifica della nomina ed io, come mi esorti, vigilerò sempre e con grande cura sugli interessi dell’imperatore, mentre tu comunicherai all’imperatore la mia più completa disponibilità. Di nuovo ti prego e ti scongiuro di scrivermi più spesso che puoi per vincere questa lontananza dei nostri corpi con una continua comunicazione e per lenire con lo scambio delle nostre lettere e con la benevolenza il peso della lontananza. Io ti conserverò, se ci sarà la possibilità di scriverti, la supplica per il figlio del signor Jacopo. L’ho trovata, non ancora spedita, a Losanna e ho pensato che la cosa si sarebbe realizzata non senza qualche espediente, ma ho trovato un rapido rimedio, come potrai congetturare dalla lettera al signor Jacopo. Ti saluto carissimo amico e ti prego di riservarmi, come sempre, il tuo affetto. Da Losanna, 13 dicembre. B. ep. C. sal. pl. d. E.s., regio protonotario. Jocundissimis litterulis tuis, vir clarissime, quibus generosi militis Jacobi ac tua opera me assumptum esse ad consiliataroum cesaris nuntiabas ab duobus mensibus responderam per alias meas litteras, quas si habueris letor. cognosces enim quantam ex eo mihi jocunditatem attuleris, vibebis et gratias, quas huiusce rei vobis cooperatoribus offerebam ob hoc insigne munus, quod nosti quanto ego cum studio flagitarim, dum una essemus in Germania apud regem; posthac nullis alteris tuis litteris quicquam de te concepi nisi, quemadmodum enuntiat Peregallus noster, te valere et apud cesarem in dies te pluris existimari et ad utramque cancellariam in pronotonotarium jussu regio absumptumesse, quo gratulor cupioque, ut in dies feliciores successus de te sentiam, unde ne hoc meum desiderium frustra sit stude. precor semper, ut cesaris rebus intentus sis ac illis continuo Rerum Austriacarum, Vienna, 1909, pp. 247-248, 292-293, 296-297. 18 19 morem geras. quod si effeceriss, crede mihi, melius secundaberis et eos omnes, quos tibi amicos habes, letos ac perjocundos efficies. Verum, ut ad eam remregrediar, vereor, me litteras super consiliariatu, quas ex litteris domini Jacobi ad me. nuperrime intelligo fuisse traditas domino Wilhelmo de Constantia, ut illas aut ad me mitteret aut daret, ob ipsius amiserim fortasse portatoris infidiam, cum nusquam eas ad me miserit quod et, me magis excruciat, nec mittet ex causis, quas tu tecum ipse conjectaberis. nam ipse est apud Constantiensem episcopum et nos abnegavit. intellegis jam quod in ea re actum sit ut, nisi tu iterum juveris, privabor munere hoc ingenti, quare velim sicque oro te, ut eam litteram una cum domino Jacobo, cui scribo, renovari facias, quod facile impetrabis, et eam domum ad me mittas, securiori modo ad manus Onnisboni. quod si efficies, mihi in ea re quam maxime complacebis nec usquam hoc in gens obsequium obliterabunt tempora nec etates. nulla ex regionibus Italie altera nova apud nos sunt, que ad te scribam, nisi Venetos et Florentiam parare maritimas et terrestres copias quam ingentes. rursus apus pontificem nostrum maximum due pratice sunt serenissimi scilicet regis Aragonum, pro quo ad mensem hic fuit reverendissimus dominus Vicensis ac comitis Francisci, a quo missus est dominus Thomas Reatinus, quem noscis et eum vidisti apud cesarem, quos tractatus et practicas pontifex noster ex animo et corde complecitur et ex utravis harum, quam bene sperem et quem ad modum res ipsa succedet, ex post intelliges. rei domini Jacobi non secus quam mee intentus fui, ut ei scribo ubere, a quo scire valebis omnia aspiciesque ex bullis desuper confectis. scito tamen Peregallum nostrum pro minuta et grossa prime littere dedisse pecunias. sepius ac sepius me commendatum facias cesaris et iteratas gratias pro consiliariatu sue majestati reddas meo nomine, cui era observantissimus et gloriosissimi nominis sui predicator indefessus. itidem et facias apud reverendissimum patrem dominum meum Chiemensem. et tu vale ac amorem nostrum et amicitiam observa cordi crebioribusque tuis litteris cum contingentiis patrie ac regionis illius. vale iterum. ex Laus. Il vescovo di Corneo Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio, primo segretario imperiale. Avevo risposto da due mesi con una mia lettera, illustrissimo amico, alla tua breve lettera quanto mai gradita con la quale annunciavi che io ero stato assunto tra i consiglieri dell’imperatore grazie all’opera tua e del nobile cavaliere Iacopo e, se l’hai ricevuta, me ne rallegro. Saprai infatti che grande gioia con questo mi hai dato e vedrai i ringraziamenti che porgevo a voi che avevate cooperato alla cosa per la prestigiosa carica, dal momento che tu sai con quanta insistenza io la richiedessi mentre ci trovavamo insieme in Germania 19 20 presso il re. Ma poi non ho più saputo nulla di te da altre due lettere se non, come mi fa sapere il nostro Peregallo, che tu stai bene, che godi di sempre maggiore stima presso l’imperatore e sei stato assunto per ordine del re al primo segretariato di entrambe le cancellerie; di questa cosa io mi congratulo e desidero ascoltare di te sempre maggiori successi e tu impegnati affinché non sia vano questo mio desiderio. Prego sempre che tu ti applichi con impegno e dedizione assoluta all’amministrazione imperiale. Se farai cio, credimi, asseconderai meglio anche tutti noi che ti siamo amici e ci farai veramente felici. Ma, per tornare a quella cosa, temo di aver perso la notifica della carica di consigliere imperiale, che dalla lettera del signor Iacopo so che fu quanto prima trasmessa al signor Guglielmo di Costanza affinché me la facesse pervenire, forse per la slealtà di chi me la doveva consegnare, poiché non me l’ha inviata affatto e, cosa che mi tormenta di più, non me la invierà per i motivi che tu potrai comprendere da solo. Infatti egli si trova presso il vescovo di Costanza e ci si è negato. Ora puoi capire che cosa sia accaduto e se non mi aiuterai di nuovo sarò privato di questa ingente ricompensa. Perciò vorrei, e te ne prego, che tu facessi scrivere di nuovo quella lettera insieme con il signor Iacopo, a cui anche mi rivolgo, cosa che tu facilmente otterrai, e che me la inviassi a casa in un modo più sicuro per mano di Onnisbono. Se farai ciò mi farai un grandissimo piacere e né i tempi né le età faranno dimenticare questo grande servigio. Dalle regioni d’Italia non c’è nessun’altra nuova che possa scriverti se non che Venezia e Firenze preparino forze marittime e terrestri imponenti. Di nuovo presso il nostro pontefice massimo ci sono due pratiche e cioè del serenissimo re d’Aragona, per il quale in questo mese è stato qui il reverendissimo monsignor Vich, e del conte Francesco, rappresentato dal signor Tommaso di Rieti, che tu conosci e hai visto presso l’imperatore. Il nostro pontefice tiene molto a cuore queste trattative e pratiche e in seguito capirai quanto io speri bene di entrambe e come avranno naturalmente un esito positivo. Ho avuto cura della situazione del signor Iacopo non diveramente che della mia, come gli scrivo diffusamente, e da lui potrai sapere ogni cosa e potrai controllare dai sigilli apposti. Sappi tuttavia che il nostro Peregallo ha pagato per la minuta e la stesura definitiva della prima lettera. Raccomandami sempre di più all’imperatore e ringrazia reiteramente a nome mio per la nomina a consigliere sua maestà cui sarò obbedientissimo oltre che indefesso predicatore del suo gloriosissimo nome. Lo stesso ti chiedo di fare presso il reverendissimo padre monsignor di Chiemsee. E tu sta bene e osserva il nostro amore e la nostra amicizia con il cuore e con più frequenti lettere che mi diano notizie della patria e di quella regione. Di nuovo ti saluto. Da Losanna, febbraio 1444. 20 21 B. e C. S. pl. d. E. S., poetae clarissimo et amico praestanti. Dulce mihi admodum et suave est, vir clarissime, quod valeas, dummodo recte valeas, quando te apud tuum cesarem honore primum et commodis non carere existimem sed apud eum in dies te ob ingentes virtutes tuas et doctrinam magni pendi sciam et intelligam. Scripsissem ad te crebrius, nisi provolutus visitatione episcopatus Gebennensis, quam ob gravem meam penuriam ut viverem absumpsi invitus. cum enim ut solent visitatores ipso in esercitio per eam diocesim cucurrerim hinc inde distolus, non potui nec crebrius nec prius scribere ad te. scias itaque me valere cum omni famiglia quamquam misere suscepissseque litteras consiliariatus regii, ad quas tu tantopere laborasti, mihi quidem caras et gratas et inter res alteras cariores. et ea propter cesari tuo primum, qui tanta in me humanitate usus est, tibique ac domino Jacobo, qui et initium et incepte rei finem prebuistis, ago gratias indefessas, non recusans, si modo mossim, vestris honori, et commodo praebere vires. restat aliud, ut communi rei nostre tractande nunc, admotis calcaribus, totis viribus te exhibeas in medium, pro veritate neminem extimescens. potes enim nunc, quo gratulor te, rei nostre apprime favere, et vales apud cesarem et omnes suos. idcirco tamquam fortis athleta ac certator in medium occurras et ut res successerint, me avises et si, ut gliscimus, successerit apud regem et suos, rem meam, que tua est, singulari affectu suscipies, ut sic videam, te me alterum esse in re mea, quemadmodum et in tuis agerem indefessus. vale et me ama, ut ceperas, licet absentem et insudes gratificari tuo humanissimo Cesari. ex Gebennis.. Il vescovo di Corneto Bartolomeo saluta affettuosamente Enea Silvio, poeta chiarissimo e amico insigne. E’ per me un grandissimo piacere, illustre amico, sapere che stai bene, purché veramente tu stia bene, dal momento che ritengo che presso il tuo imperatore tu goda anzitutto di ogni onorevole considerazione ma anche perché io so e comprendo che tu sei stimato sempre di più presso di lui per le tue grandi virtù e per la tua dottrina. Ti avrei scritto più spesso se non fossi stato distolto dalla visita alla diocesi delle Cevenne, che sono stato costretto ad accettare per la mia grande indigenza. Avendo infatti corso per il territorio della diocesi, come sono soliti i visitatori nell’esercizio della loro funzione, sbattuto di qua e di là, non ho potuto scriverti né più spesso né prima. Sappi dunque che io con tutti i miei familiari sto bene in salute, anche se in miseria, ed ho ricevuto la lettera della nomina a consigliere dell’imperatore, per la quale ti sei tanto dato da fare, certamente a me cara e gradita e più cara delle altre cose. Per questo non mi stanco di rendere grazie 21 22 anzitutto al tuo imperatore, che mi ha dimostrato tanta generosità, poi a te e al signor Iacopo che avete dato inizio e compimento alla cosa, non recusando, se solo io lo possa, di offrire le mie forze per il vostro onore e il vostro vantaggio. Ora non rimane, per trattare la nostra comune situazione, che tu entri in campo a spron battuto con tutte le forze, non temendo nessuno a vantaggio della verità. Puoi infatti ora, e di ciò ti ringrazio, favorire potentemente i nostri interessi giacché hai voce in capitolo presso l’imperatore e tutta la corte. Per questo, come un forte atleta e un combattente, corri in campo e avvisami di come vanno le cose e se, come desideriamo ardentemente, avranno successo presso l’imperatore e la corte, sorreggerai con straordinario affetto la nostra situazione così che io veda che nel trattare di essa tu sia un altro me stesso, come da parte mia instancabilmente mi comporterei nei tuoi confronti. Sta bene e amami, come il tuo solito, anche da lontano e impegnati a compiacere il tuo generosissimo imperatore. Dalle Cevenne, febbraio 1444. Bartolomeo Vitelleschi attendeva dunque con impazienza che il suo nuovo protettore scendesse in campo, ne seguiva con affetto - ma anche con un compiacimento interessato - i crescenti successi, fino alla clamorosa missione a Roma, presso Eugenio IV, dell’aprile 1445, proprio a dieci anni di distanza dall’ <<incidente>> fiorentino. E’ ben nota l’accusa di incoerenza, se non di carrierismo, che è stata lanciata contro il Piccolomini, passato nell’arco di sei anni dalla celebrazione dell’antipapa, di cui era segretario, alla ritrattazione e all’obbedienza. Nei due anni che separano l’incoronazione di Felice V dall’ingresso nella cancelleria imperiale, Enea Silvio si rese conto che i conciliaristi non avevano nessuna seria prospettiva e maturò una graduale revisione delle sue posizioni. Più corretto sarebbe dunque parlare di realismo e sottolineare la straordinaria abilità diplomatica del segretario di Federico III. Allora ebbe inizio la stagione della pacificazione e si posero le premesse per lo storico concordato di Vienna del 1448 che assicurò al papa la vittoria sul movimento conciliare ed avviò la definitiva trasformazione del Patrimonio di S. Pietro in Stato della Chiesa. Mi sembra particolarmente significativo che nel racconto di quella missione il Piccolomini abbia voluto evidenziare il riavvicinamento a Tommaso Parentucelli, il cui pontificato stava per aprirsi all’insegna della conciliazione e del temporalismo. Ricordo come al tornar indietro feci la via di Gienevera che ci era il vescovo di Corneto mio parente et padrone, che stava con papa Felice duca di Savoia fatto antipapa. Havea sette cardinali, et in quel tempo fece cardinale il prefato vescovo Vitellesco, ciovè 22 23 messer Bartolomeo: quale poi venne a Roma, morto papa Eugenio, alla creatione di papa Nicola V, et fece unione fra papa Felice et papa Nicola V, dove io fui presente et negoziatore di questa buon’opera, et la Santità di papa Nicola ne promise confirmare il cappello e di novo leggitimamente criar cardinale il prefato messer Bartolomeo vescovo Vitellesco, et da poi mancò et non lo fece 21) . Il viterbese Pier Gian Paolo Sacchi, segretario di Giovanni Vitelleschi e, dopo la liberazione da Castel S. Angelo, compagno di esilio di Bartolomeo, con queste parole ci apre uno scenario nel quale nuovamente personaggi e avvenimenti della Grande Storia si mescolano con le vicende della comunità cornetana. Alla morte di Eugenio IV, i diciotto cardinali presenti a Roma si erano radunati a conclave nel chiostro di Santa Maria sopra Minerva, la chiesa dove vituperoso fo de notte portato in iuppetto scalzo e senza brache e dove ancora era sepolto il cadavere di Giovanni Vitelleschi. Enea Piccolomini era presente come oratore dell’imperatore e da quel momento affiancò Niccolò V nella attuazione di un progetto di riconciliazione generale. Se dobbiamo credere al ricordo del Sacchi, Bartolomeo Vitelleschi, ancora una volta sulle orme di Enea, svolse un ruolo di rilievo nello scioglimento patteggiato del consiglio di Basilea, certamente non fu soltanto una pedina nelle mani dell’amico, grande artefice degli accordi di Vienna. Si trovò un compromesso per ogni situazione e per ogni caso personale: l’antipapa Felice V depose la tiara e si vide in cambio riconosciuta la dignità cardinalizia con il titolo di S. Sabina; lo stesso eroe della resistenza ad oltranza a Roma, il D’Aleman, morì vescovo di Arles; i Colonna, gli antichi nemici dell’autorità di Eugenio IV, ebbero il permesso di ricostruire Palestrina, che Giovanni Vitelleschi aveva raso al suolo nel ‘37; perfino Lorenzo Valla, l’inflessibile accusatore del potere temporale dei preti, fu richiamato a Roma. In questo contesto, per tornare ai nostri personaggi, decolla la carriera ecclesiastica di Enea Piccolomini e, nell’ambito della nostra storia cittadina, ma non senza qualche interessante proiezione all’esterno, matura la più completa riabilitazione di Bartolomeo Vitelleschi: dopo l’obbedienza del ‘47, egli ottiene il recupero della diocesi cornetana nel ‘49, la restituzione del feudo della Tolfa Nuova nel ‘54, il governo della Legazione umbra nel ‘55, in una progressione che sarebbe stata drammaticamente interrotta soltanto dalla sconfitta di Nidastore del ‘61. Tutto sembra svolgersi nell’ambito di un richiamo alla grande figura del Patriarca Alessandrino ancora assolutamente incombente: il recupero della doppia carica religiosa e 21) DELLA TUCCIA, Cronaca cit., p. 206. 23 24 politica, il ritorno di un Vitelleschi sui territori che appartennero a Corrado Trinci, la funzione di comandante militare per tanti anni esercitata dallo zio con straordinari successi. Ma proviamo a raccogliere le ultime testimonianze che ci provengono dal pozzo del Palazzo del Magistrato. La collocazione dello stemma cardinalizio dei Vitelleschi per onorare l’oscuro gonfaloniere Marco Ottaviano potrebbe essere avvertita come una patetica ostentazione d’orgoglio familiare a distanza di quasi venti anni dalla morte del patriarca e quando non era stata ancora mantenuta la promessa fatta a Bartolomeo nel ‘47, se non ci soccorresse Muzio Polidori. Alla pagina 65 delle sue Croniche leggiamo infatti questo breve profilo di Sante e Alessandro Vitelleschi. Fratelli dell’antedetto Vescovo Bartholomeo, ambi Cavalieri et Conti Palatini, creati da Federico Terzo Imperatore, conforme dai Privilegi si potrà vedere. Anzi, da detto Imperatore, non solo ottennero esser creati Cavalieri et Conti Palatini, ma anco ottennero la confirmatione della propria insegna con l’aggiunta delli sei gigli d’oro nel modo che cominciò usare il Cardinal Vitelleschi, con l’autorità di detto Imperatore 22) . Fu dunque per una concessione dell’imperatore Federico III che la famiglia Vitelleschi tornava a fregiarsi dell’insegna di Giovanni, adorna dei sei gigli e del cappello cardinalizio che ricordavano la più alta carica guadagnata dal patriarca al servizio di Eugenio IV. Ho pensato che quanto già riferito sui rapporti diretti che Bartolomeo e Jacopo Vitelleschi ebbero con l’imperatore nel periodo dell’esilio fosse di per sufficiente a giustificare la concessione. Nondimeno mi ha incuriosito la nota apposta a piè di pagina dalla curatrice della edizione delle Croniche che segnala l’esistenza, nel manoscritto conservato dalla Società Tarquiniense di Arte e Storia, di due privilegi imperiali sotto la data 22 marzo 1452. Il cattivo stato di conservazione del primo documento, che con ogni probabilità non ne ha consentito la pubblicazione, non impedisce di cogliere per intero il potente richiamo alla figura di Giovanni Vitelleschi. Dopo una precisa descrizione della partitura dello scudo, dei gigli e delle figure dei due vituli che si fronteggiano con le corna erette e con una zampa anteriore alzata come a mostrare l’imminenza dell’assalto, riusciamo infatti a leggere le parole: <<e di quest’Arme gli Antenati e i progenitori del defunto Reverendissimo Padre signor Giovanni dei 22) Croniche di Corneto, a cura di A.R. Moschetti, Tarquinia, 1977. 24 25 Vitelleschi e di Corneto, Cardinale Fiorentino, senza tuttavia i gigli, sempre dall’antichità usavano. Ed anche lo stesso Cardinale Fiorentino, nel corso della sua vita terrena, ne fece uso dopo aver aggiunto nella parte superiore i Gigli ad uso dell’Arme>> 23) . Voglio sottolineare l’inadeguatezza della traduzione dell’inciso che richiama la figura del Patriarca (dum adhuc ageret in humanis). Ma soprattutto non voglio neppure tentare di nascondere la grande emozione con la quale, in fondo al privilegio, immediatamente prima della sottoscrizione dell’imperatore Federico, ho letto l’annotazione Enea referente. Non più il brillante segretario Enea de Senis del ‘42 ma il dominus Eneas episcopus Senensis aveva dunque istruito la pratica per la concessione imperiale. Dopo il conseguimento di quell’episcopato, Enea Piccolomini aveva infatti conservato la qualifica di protonotarius imperiale ed era stato il grande regista del matrimonio con Eleonora di Portogallo e della incoronazione romana di Federico III immediatamente successiva (19 marzo 1452) 24) . Non si era dunque interrotto - non si sarebbe mai interrotto fino alla morte - quel rapporto amicale di cui abbiamo percorso l’itinerario fin dalle sue lontane origini. Esso diede anzi in quei giorni un altro potente segno della sua vitalità: il breve di Niccolò V che concedeva al vescovo Bartolomeo di trasferire in Corneto il cadavere del suo zio Cardinale e di sepelirlo nella Cattedrale, nella Cappella maggiore da esso fabbricata 25) . Almeno due considerazioni mi spingono infatti a ritenere che l’Enea Piccolomini del privilegio si fosse adoperato anche per ottenere la traslazione della salma di Giovanni Vitelleschi. La prima deriva dalla valutazione del privilegio imperiale come atto di riabilitazione politica e morale della figura del patriarca, preliminare alla stessa concessione elargita a Sante ed Alessandro: corre una linea diretta tra gli interventi dei rappresentanti dei due poteri universali in favore dei Vitelleschi in quella primavera del ‘52 e nessuno più 23) Quibus Armis Antecessores et progenitores quondam Rmi Patris Dni Ioannis de Vitelleschis et de Corneto, Cardinalis Florentini absque tame Lilijs, semper antiquitus utebantur. Ipse etiam Cardinalis Florentinus, dum adhuc ageret in humanis, est usus, per ipsum additis supra Lilijs ad usum Armorum. Ringrazio M. Lidia Perotti per le preziose indicazioni che anche in occasione di questa ricerca ha voluto fornirmi. 24) In fondo alla pagina 126 del manoscritto, dopo il locus sigilli imperialis, si legge: De Nto Dni Imperatoris D. Enea Epo Benev. (?) referente. Non credo che possa sussistere qualche dubbio sulla individuazione di Enea Piccolomini nel notarius imperiale di nome Enea, provvisto di titolo episcopale, anche perché il vescovo di Benevento in carica nel 1452 era il famigerato Jacopo della Ratta, deposto per indegnità proprio da Pio II nel 1462. Né, in luogo di Benev., potrebbe leggersi Bonon,perché il vescovo di Bologna allora in carica era Filippo Calandrini, fratello naturale di Niccolò V: non rimane pertanto che pensare ad un errore di trascrizione del Polidori, che scrive Benev. o Bonon. in luogo di Senense. 25) POLIDORI, Croniche cit., p. 246. 25 26 efficamente del Piccolomini, in procinto di essere elevato, quasi contemporaneamente, al rango di principe della Chiesa e principe dell’impero, avrebbe potuto farsene promotore. La seconda considerazione può essere introdotta dal brano dei Commentarii riportato all’inizio, in cui si celebra in termini di completa esaltazione la riconquista di Foligno alla Chiesa. In quel passo, così come nei numerosi accenni che si trovano sparsi negli altri libri dell’opera del pontefice, la figura di Giovanni Vitelleschi viene costantemente tenuta al riparo dalle roventi accuse che le rivolgevano intellettuali del calibro di Lorenzo Valla 26) . Tutto ciò potrebbe certamente spiegarsi come una conseguenza dell’antico vincolo di amicizia. Ma sarebbe una spiegazione ancora riduttiva, certamente poco rispettosa della profondità e consequenzialità della elaborazione ideologica che Enea Piccolomini aveva prodotto fin dagli anni della adesione alle tesi conciliariste. Ed è proprio su questo terreno che recentemente Paolo Prodi ha riscattato la figura di Enea Piccolomini dalle ingenerose semplificazioni del passato, facendo emergere le linee di una coerenza di fondo nella giustificazione della sovranità temporale e dell’intervento diretto dei chierici nel governo 27) . A Lorenzo Valla, che dall’interno dell’opuscolo sulla Donatio Constantini lanciava la tremenda invettica contro Giovanni Vitelleschi (<<E non dico quanto crudele, quanto prepotente, quanto barbara sia di frequente la dominazione dei preti. Che se prima si poteva ignorare, ultimamente è stata rivelata da quel mostruoso portento che è stato il cardinale patriarca Giovanni Vitelleschi, che affaticò nella strage dei cristiani la spada con cui Pietro tagliò l’orecchio a Malco e di cui egli stesso morì>>), poteva pertanto rispondere con questi argomenti: <<che se la maggior parte della città sottomesse ai sacerdoti sembrano in qualche modo ridotte allo sterminio, come non poche ne vedemmo nel patrimonio della Chiesa, ciò accadde o perché i sudditi furono poco fedeli, abbandonandosi a rivolte e sedizioni, o perché i Sommi Pontefici, abusando del potere, trasformarono in tirannide il potere regio>>. Risulta evidente l’assoluta contrapposizione dei due passi e le parole di Enea Piccolomini introducono naturalmente il documento più solenne della riabilitazione di Giovanni Vitelleschi, l’epitaffio apposto in posteritatem dal vescovo Bartolomeo: QUANDO EGO PRO PATRIA MAIESTATE REPRESSI PONTIFICIS FURIAS BELLORUM HOSTESQUE SUBIEGI 26) Come ulteriore, seimbolica prova della riconciliazione perseguita da Niccolò V voglio ricordare che, accanto a Sante e Alessandro, proprio sul ponte di Castel S. Angelo dove era stato drammaticamente catturato ventidue anni prima Giovanni Vitelleschi, venne armato cavaliere imperiale anche il grande umanista e accusatore del Cardinale Fiorentino. 26 27 ECCLESIAE NOSTRIS QUAE FLORUIT AUCTA SUB ARMIS RESTITUI RES EFFLUXAS URBESQUE DECUSQUE INVIDIT SORS ATRA MIHI MAGIS EMULA VIRTUS IMMERITAM STATUENS NON AEQUO MUNERE MORTEM 28) I sei esametri che compongono il solenne discorso del defunto appaiono strutturati intorno ad un implacabile rapporto di causalità denunciata dall’apertura Quando ego. I versi 1-4 scandiscono i trionfanti passaggi della restitutio del potere temporale della Chiesa, esaltano l’opera del pacificatore e dell’avversario implacabile di ogni anarchia baronale, mentre il distico finale, dopo aver introdotto il topos della Fortuna, fa emergere la figura del rivale e lancia il grido di protesta contro la morte ingiustamente e indegnamente subita. Non è questo il luogo per affrontare l’impegnativa analisi stilistica dell’epitaffio. Qui devo limitarmi a segnalare che la figura di Giovanni Vitelleschi corrisponde del tutto a quella che ritroviamo, direttamente o indirettamente, nell’opera di Enea Piccolomini, nella quale pretendono un particolare richiamo il carme Ad Fridericum III Caesarem e l’Epitaphium Martini Pape V (il Piccolomini fu anche un geniale autore di epitaffi!), per la presenza del medesimo motivo dell’eroe che si oppone alla rovina della Chiesa, sgombra il campo dagli usurpatori e impone una pace sicura. Tanto basta per convincermi a concludere che nell’epitaffio cornetano, se non proprio la mano del futuro pontefice, possiamo certamente cogliere quella comune concezione della storia e della vocazione temporale della Chiesa da cui direttamente discende la riabilitazione di Giovanni Vitelleschi. I due monumenti, che nel corso di quegli anni centrali del quindicesimo secolo l’uno dal Palazzo del Magistrato, l’altro dalla Chiesa Cattedrale tornata saldamente nelle mani di Bartolomeo Vitelleschi - ambivano a trasmettere la perpetua memoria di episodi e personaggi per noi tanto lontani, possono dunque apparirci naturalmente collegati nel nome di Enea Silvio Piccolomini. E non senza una qualche commozione riusciamo a leggere nel nostro Archivio Storico il breve con cui Pio II ordinava ai Cornetani di macinare gratuitamente e ridurre a biscotto il grano offerto per la guerra imminente, pro munitione classis in Turcos armandae et sustentatione eorum qui pro fide pugnabunt 29) . 27) Il sovrano pontefice, Bologna, 1982, pp. 13-40, dove si leggono anche i passi che produco in traduzione nel testo. Poiché io per la Patria e la maestà del Pontefice respinsi le furie della guerra e i nemici schiacciai/della Chiesa che più grande fiorì sotto le nostre armi/ricomposi lo stato smembrato e le città e l’onore/ n’ebbe invidia la nera sorte e ancor più il rivale valoroso/stabilendo per me con ingiusto compenso una morte senza colpa. 29) “Fondo pergamenaceo”, 4.130. 28) 27 28 Porta la data dell’11 giugno 1464 e precede soltanto di sei giorni la partenza per Ancona. In quella città egli avrebbe atteso invano di farsi, per la prima volta, seguace di Bartolomeo, pellegrino ai Luoghi Santi nell’estate del ‘63. Il quindici di agosto la morte lo sorprese nell’atteggiamento del soldato di Cristo. Giovanni Insolera A PROPOSITO DI UNA CONSERVA D’ACQUA DISEGNATA DA SANGALLO IL GIOVANE (*) In questa sede sarà preso in esame un disegno autografo dell’architetto Antonio il Giovane da Sangallo (Firenze 1484-Roma 1546), conservato nell’Archivio degli Uffizi di Firenze 1) , e considerato per la prima volta nel Catalogo a stampa dei disegni di architettura raccolti nella stessa Galleria 2) . Il foglio è stato in seguito ripreso da M. Pallottino nella sua monografia su Tarquinia etrusca 3) e, di recente, esaminato più dettagliatamente da O. (*) Nel presente lavoro abbiamo esaminato in modo preliminare il disegno cinquecentesco di Sangallo il Giovane e considerato alcune fonti ad esso collegabili, in modo da offrire un primo inquadramento generale sulle problematiche che ne scaturiscono. Ringrazio il Prof. G. Miarelli Mariani per la gentile disponibilità sempre dimostrata e per aver fornito alcuni dati utili ai fini della ricerca; particolare interesse nei confronti di questo studio e delle problematiche annesse è stato sin dall’inizio manifestato da Bruno Blasi, cui va la mia stima. Preziose considerazioni sono state espresse da Fabio Barilari in merito alle caratteristiche architettoniche della pianta del Sangallo. Ringrazio inoltre per la collaborazione Marzia Maglio. 1) Nella raccolta degli Uffizi si conserva una cospicua serie di disegni di Sangallo il Giovane, che documenta gran parte della sua attività professionale. 2) Ministero della Pubblica Istruzione, Indici e Cataloghi III, (Nerino Ferri), Disegni di Architettura esistenti nella R. Galleria degli Uffizi in Firenze, Roma 1885, p. 216. 3) M. Pallottino, Tarquinia, Monumenti Antichi dei Lincei XXXVI, 1937, col. 92, fig.13. 28 29 Vasori, nell’ambito di una ricerca inerente ad alcuni disegni di antichità etrusche custoditi agli Uffizi 4) . L’attenzione rivolta allo schizzo cinquecentesco da parte di G. Miarelli Mariani, ha contribuito a far sì che alcuni studiosi che operano nel territorio a cui il documento si riferisce 5) , si interessassero al disegno, in modo seppur non approfondito, comunque tale da impostare una <<questione>> ancora densa di interrogativi; la presente ricerca rappresenta un primo sommario tentativo di riordino delle varie testimonianze concernenti il documento, almeno di quelle che sono oggi a nostra conoscenza. Il disegno del Sangallo, già ad una prima osservazione, può considerarsi distinto in due parti: a sinistra, è rappresentata la pianta schematica di una conserva d’acqua situata, a detta dello scritto posto subito al disopra di essa (<<Conserva daqua, Tarquinia>>), nell’area ivi denominata <<Tarquinia>>, oggi comunemente identificata con la località <<La Civita>>, sede dell’antica città etrusca e romana 6) ; a destra, invece, è presente una topografia approssimativamente delineata, tramite un’unica linea continua, che costituisce a tutt’oggi l’immagine più antica dell’area urbana della vecchia Tarquinia. Dal Catalogo manoscritto dell’Archivio degli Uffizi, il disegno in oggetto (n.1222A) è descritto come <<schizzo topografico della Città e Castello di Tarquinia, con indicazioni, e pianta rettangolare con portico della conserva d’acqua in Tarquinia>> e le sue dimensioni sono definite in mm. 151x211 7) . La scelta di riprodurre una struttura del genere (di età classica o medioevale) rientra nel quadro delle attività svolte dal Sangallo, soprattutto nella prima fase della sua opera di architetto. I primi decenni del XVI secolo, che coincidono con un periodo di frequente presenza nel viterbese 8) , vedono infatti l’artista fiorentino dedicarsi con particolare interesse allo studio degli antichi monumenti, come d’altronde era d’uso tra gli architetti del Rinascimento, eseguito attraverso un rilievo di grande obiettività e chiarezza. 4) O. Vasori, <<Disegni di antichità etrusche agli Uffizi>>, Studi Etruschi XLIII, 1979, p. 139 sgg., fig.7; IDEM, <<I monumenti antichi in Italia nei disegni degli Uffizi>>, XENIA, Quaderni, n. 1, 1981, pp. 143-144. 5) In particolare: AA.VV., <<Una monumentale conserva d’acqua presso la Civita>>, Quaderno del IX settore G.A.R. Tarquinia, 1974, pp.6-7; B. Blasi, <<Il Castello di Corneto e il suo monumento maggiore>>, Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia, 8, 1979, p. 14, tav. II. 6) L’area ha sempre mantenuto in passato il nome di Tarquinia (Tarquinio, la Tarquinia, tenuta Tarquinia, etc.); nel medioevo il toponimo fu conservato dalla parrocchia di S. Maria in Tarquinio (vd. con bibliografia: Pallottino, op.cit., alla nota 3, col. 19). 7) Disegno a penna su carta bianca (dal Catalogo manoscritto). Un contributo utile alla datazione del disegno potrebbe essere il ricorso all’analisi della filigrana cartacea, seppur non sempre attendibile: su un analogo problema di cronologia v. G. Miarelli Mariani, <<Le mura di Tarquinia in un’inedita planimetria cinquecentesca>>; Bollettino della Soc. Tarqu. Arte e St., 17, 1988, pp. 119-126). 8) Numerosi sono gli interventi dell’architetto, più o meno impegnativi, documentati nella Tuscia (Cellere, Capodimonte, Montefiascone, Caprarola, Castro, Civitavecchia, Nepi, etc.), riferiti a vari periodi della sua attività. 29 30 La pianta della conserva disegnata dal Sangallo presenta una forma rettangolare, internamente suddivisa in venti ambienti uguali di forma quadrata (campate) separati da 12 grandi pilastri a sezione cruciforme. Le dimensioni della struttura sono indicate da un appunto situato nella parte interna dell’angolo superiore sinistro, da cui si apprende la misura del lato di ogni ambiente (<<palmi 16>>) e la dimensione dei pilastri (palmi <<4>>, indicazione subito a destra della precedente), valida sia per quelli centrali che per quelli addossati al muro perimetrale: è certo che le misure indicate nel disegno siano riferite al palmo romano, che equivale a 22,34 cm. In seguito a semplici calcoli, è quindi possibile risalire alle probabili dimensioni della conserva, che risultano piuttosto notevoli: il lato maggiore esterno si aggirerebbe, secondo il disegno, intorno ai 108 palmi (circa 24,12 m.), mentre quello minore intorno agli 88 palmi (circa 19,65 m.). Le misure più sicure sono quelle interne, sebbene da considerarsi con cautela, sia per le approssimazioni di calcolo e sia per le incertezze legate al problema della ricostruzione della struttura: le singole campate quadrate misurano 16 palmi di lato (3,57 x3,57m.), mentre i pilastri che suddividono tali campate misurano, come già noto, 4 palmi di lato (0,89 m.). Il lato maggiore interno risulta così lungo 100 palmi (22,34 m., in quanto va dimezzata la dimensione del pilastro addossato all’angolo), il lato minore, invece, 80 palmi (17,87 m.). Dall’osservazione degli elementi strutturali raffigurati nella pianta si possono esprimere alcune considerazioni utili per la formulazione delle ipotesi inerenti alla ricostruzione architettonica dell’opera, la cui effettiva realizzazione sembra confermata da fonti letterarie del secolo scorso, che più avanti andremo ad esaminare. Un primo aspetto che possiamo rilevare riguarda l’ampiezza delle strutture portanti, che appaiono nel disegno piuttosto massicce, il che può trovare una duplice giustificazione: da una parte, infatti, i muri perimetrali dovevano probabilmente sostenere le forti spinte orizzontali provocate dal peso del volume dell’acqua contenuto, e dall’altra, ipotesi forse avvalorata dalla presenza di una serie di contrafforti tendenti ad irrobustire la struttura, dovevano contenere la spinta delle eventuali volte degli ambienti perimetrali interni. Altro elemento interessante è rappresentato dalla grossa sezione cruciforme dei pilastri interni, che può sembrare eccessiva (circa 1/4 della luce libera della volta) visto che i pilastri avrebbero dovuto sostenere esclusivamente i carichi della copertura (serie di volta a crociera?): questo può far presumere la presenza di un prolungamento superiore della costruzione, il cui ulteriore peso avrebbe giustificato il sovradimensionamento della 30 31 struttura portante ( a un secondo piano della cisterna fanno accenno infatti alcune fonti a nostra disposizione). I segni ad arco presenti su tutto il muro perimetrale interno, potrebbero lasciar pensare in un primo momento al tipo di copertura adottata; in realtà, la presenza di quei dentelli sul secondo arco in basso a destra e il tratto più marcato (a volte il segno è ripassato) con cui gli archi sono disegnati, rispetto alle linee continue su cui sono <<impostati>>, sono due elementi che fanno pensare che l’autore volesse invece evitare che quei tratti fossero scambiati per una pura proiezione a terra delle volte, ed evidenziare invece il loro essere elementi architettonico-strutturali della pianta. D’altra parte questa configurazione architettonica interna potrebbe trovare ragion d’essere nelle esigenze statiche cui è soggetto il fabbricato: muri così arcuati tra i pilastri, infatti, avrebbero potuto lavorare come volte a botte che, soggette ad un determinato carico, vanno a ripartire questo sui due muri portanti su cui sono impostate. Nel caso specifico, questa particolare conformazione delle pareti faceva, quindi, confluire il peso dell’acqua in modo più specifico sui pilastri interni, esternamente rinforzati dai contrafforti. Per quanto riguarda la copertura interna, si possono ipotizzare diverse soluzioni ma, tra le più probabili, per la presenza dei pilastri che distinguono l’ambiente in campate, troviamo i due tipi di volta, a crociera e a vela. I contrafforti esterni, allineati nel disegno ai pilastri interni in modo regolare su tutti e quattro i prospetti, e il rilievo netto del profilo perimetrale esterno, fanno supporre che al momento della realizzazione del disegno da parte del Sangallo, la conserva fosse visibile almeno parzialmente dall’esterno o comunque, si trovasse in posizione tale da consentire una sommaria ricostruzione generale della pianta. Inoltre, l’avere l’artista così dettagliatamente raffigurato il vano interno della conserva, è elemento certo per affermare che esso fosse raggiungibile, come è d’altronde attestato fino al secolo scorso 9) . Nella parte destra del foglio, è invece riportata una planimetria, in evidente relazione con la conserva già descritta, che sembra assumere valore esplicativo ai fini della localizzazione del monumento a fianco riprodotto. Lo schizzo topografico traccia il perimetro naturale del pianoro della Civita, come chiarito dal termine <<Rip>> (ovvero <<ripa>> calcarea), situato lungo la linea di 9) E’ presumibile che l’ingresso all’ambiente interno fosse posto in alto, onde evitare che sulle pareti si determinassero dei punti deboli, in una struttura come quella in oggetto, costantemente sottoposta ad un carico notevole per il peso dell’acqua; inoltre, un ingresso laterale avrebbe forse fatto sorgere problemi di tenuta stagna. 31 32 delimitazione del rilievo. L’area così delineata, che equivale in superficie a circa 150 ettari, viene a comprendere gli attuali Piani di Civita e della Regina in basso nel disegno, l’altura isolata della Castellina in alto (qui denominata <<Castello di Tarquino>>) e il Poggio di Cretoncini a sinistra. Sotto la topografia della Civita è una scrittura dello stesso disegnatore, relativa al posizionamento geografico del luogo sopra rappresentato 10) : <<La città di Tarquinia si è presso a Corneto uno miglio et mezzo et apresso alla Marta fiume miglio e mezzo, diverso Roma centunmiglio, in su uno monte che ha le ripe più che 3/4 et uno castello in su uno monticiello spicato dalla città quale è contrarixonte. Si chiama el castello di Tarquinio e la città la civita>>. Sulla stessa planimetria sono riportate alcune precisazioni topografiche come <<La città>>, che indica l’area perimetrata coincidente con la Tarquinia etrusca, o il <<Castello di Tarquino>>, riferito all’altura isolata oggi comunemente denominata <<la Castellina>>, sede nel medioevo di un fortilizio appartenuto alla famiglia Vaccari e distrutto dai cornetani nel 1307. Ma l’indicazione più evidente, alla quale lo stesso schizzo topografico sembra quasi finalizzato, compare subito al disotto del <<Castello di Tarquino>>: il disegnatore, infatti, mediante una forte marcatura, risalta il collegamento esistente tra una propaggine dell’area della <<città>> (Pian della Regina) e l’antistante poggio, situato a sinistra nella topografia (Poggio di Cretoncini). Se confrontiamo il disegno con una moderna carta topografica che raffigura la stessa zona della Civita, notiamo che questo punto è ancora oggi facilmente individuabile: il Sangallo, infatti, segnala con chiarezza il passaggio presente lungo la sella che divide le due parti - il Pian della Regina e il Poggio Cretoncini - che risulta sul disegno stesso essere raggiunto da una strada, il cui andamento è rappresentato sull’altura di sinistra. Vicino alla marcatura in questione compaiono due appunti ad essa relativi: il primo, costituito dal solo termine <<muro>>, è posto subito al di sotto del punto indicato, mentre il secondo - più articolato - si trova a sinistra dello stesso, sopra l’area di Cretoncini. Quest’ultima nota fa luce sulle ragioni per le quali il disegnatore evidenzia quel luogo: <<In questo monte (ossia la Civita) si passava per uno muro con uno ponte>>, il che testimonia la presenza di un’opera artificiale particolarmente degna di considerazione. 10) Ringrazio la sig.ra Lidia Perotti per le trascrizioni delle note presenti sul disegno. 32 33 Il Sangallo sembra riferirsi ad una costruzione sopraelevata necessaria al raggiungimento della città antica, da parte di coloro che, provenendo da nord, percorrevano la strada che dalla valle del fiume Marta risaliva i versanti fino alla Civita 11) . Attualmente questo percorso è in parte ricalcato da una carrareccia, riassestata ad opera del locale Consorzio di Bonifica e denominata <<strada di Poggio Gallinaro>>, utilizzata dagli agricoltori per raggiungere le varie quote di terreno situate nei suoi pressi; lo stesso tratto di strada permette di arrivare alla Civita, malgrado il più delle volte si preferisca per comodità percorrere la parte opposta della stessa carrareccia che si congiunge alla moderna Aurelia-bis, e che consente l’accesso alla stessa zona da est. Sopralluoghi condotti dallo scrivente nel punto indicato nel disegno, hanno verificato la presenza di una possente opera di collegamento tra le due alture, che attraversa in modo ortogonale la stretta sella che le divide. Nella visione attuale, la struttura antica si presenta come un viadotto sul quale corre la <<strada di Poggio Gallinaro>>, e che consente alla stessa di proseguire senza risentire del forte dislivello presente in quel punto, determinato dall’andamento della sella. L’opera risulta in buona parte coperta da depositi recenti di terreno, accumulatisi soprattutto ai lati presumibilmente durante i lavori agricoli praticati nei campi circostanti e in seguito alla ristrutturazione della strada consorziale; solo lungo il lato settentrionale del viadotto è possibile vedere, fra la fitta vegetazione di tipo arbustivo, alcuni tratti sconnessi di una lunga muratura assai imponente, il cui andamento corre parallelamente alla strada. Il muro in questione nei tratti ove è possibile osservarlo, è realizzato in opera quadrata, con blocchi regolari di calcare di forma parallelepipeda disposti per tela e per taglio, in uno schema piuttosto regolare. Il lato meridionale del viadotto, e quindi il muro che correva lungo questa parte, risulta invece, in parte forse distrutto, e comunque sepolto da un potente accumulo di terreno disposto a scarpata. Nel suo insieme, la struttura assume le forme di una antica costruzione viaria, forse di epoca etrusca 12) , costruita a sostegno di un importante percorso che, partendo dal settore settentrionale della città, dove in passato fu individuato un accesso 13) , proprio nelle 11) Ancora oggi sono visibili, in particolare presso il Casale detto <<della Civita>>, alcuni tratti di questo antico percorso. 12) Sulla base dell’opera muraria, spesso identica ad alcuni tratti delle mura urbane etrusche. Il Canina considerava l’opera di epoca imperiale, in quanto asservente le terme dette <<Tulliane>>. 13) P. Romanelli, <<Tarquinia - Scavi e ricerche nell’area della città>>; Notizie degli Scavi 1948, in particolare pp. 198199. 33 34 immediate vicinanze del viadotto, si allontanava dalla città dirigendosi verso nord, oltrepassando la valle del fiume Marta. Interessante presenza, ai lati della costruzione viaria, quella di alcuni bottini ancora colmi d’acqua, sicuramente di epoca antica. La notevole quantità di acqua testimoniata in questo luogo anche dagli affioramenti diretti sul terreno, è tale da far pensare all’esistenza di un’importante sorgente: non è escluso che proprio in questo punto abbia avuto origine l’acquedotto che dal medioevo, probabilmente fino al secolo scorso, trasportava le acque dalla zona della Castellina a Corneto, attraverso una condotta in parte sotterranea ed in parte costruita 14) . Il viadotto antico era già noto almeno dal secolo scorso: l’architetto A. Canina, infatti, nell’ambito di uno studio generale sulla topografia dei principali centri etruschi, realizzò una mappa della Tarquinia etrusca 15) dove vennero riportate le principali testimonianze archeologiche fino allora conosciute, che lo stesso autore ebbe modo in parte di visitare. Sulla carta egli rappresentò la nota carrareccia e riportò in coincidenza della sella, nello stesso punto ove si è individuata la costruzione, in corrispondenza del lato meridionale del passaggio attualmente interrato, la dicitura di <<via sostrutta>>, mentre, sul lato opposto - quello settentrionale - riportò in senso perpendicolare alla strada la scritta <<arco>>. Se la prima definizione conferma la presenza di una costruzione diretta a facilitare il transito, la seconda aggiunge un ulteriore elemento alle caratteristiche architettoniche della struttura. Nel capitolo esplicativo relativo alla detta tavola, inerente alla città antica di Tarquinia, lo stesso autore scrive 16) : <<Tale arco (quello indicato sulla mappa) vedesi praticato lungo un muro di sostruzione, fatto evidentemente per sostenere una via che metteva nella parte orientale della città dai colli che esitono verso il lato settentrionale e che ora sono denominati di S. Spirito. Ed anche sembra che la medesima opera servisse nello stesso tempo a sostenere la condottura delle acque necessarie all’uso della città antica, le quali solo si trovano avere le sorgenti verso la medesima parte settentrionale, come lo dichiara l’uso che tuttora ne viene fatto per la città di Corneto con il mezzo di un lungo acquedotto che ha principio dallo stesso luogo>>. 14) Un’ipotesi affascinante relativa ad un acquedotto sotterraneo che trasportava le acque da Poggio della Sorgente al centro dell’attuale Tarquinia, è stata recentemente formulata in un lavoro realizzato da alunni ed insegnanti della Scuola Media Statale <<E. Sacconi>> di Tarquinia: M. Gori (a cura), L’acquedotto antico, verifica di un’ipotesi, Tarquinia 1991. 15) A. Canina, L’antica Rtruria marittima, Roma 1849, tavole del vol. II. 16) A. Canina, op.cit., alla nota 15, vol. II, pp. 35-36. 34 35 Questo passo rappresenta una ulteriore prova a favore delle precedenti considerazioni: se da una parte, infatti, esso conferma l’ipotesi della presenza, in questo settore settentrionale della Civita, di abbondanti sorgenti d’acqua, tali - secondo l’autore da poter costituire una delle principali fonti di approvvigionamento per la città etrusca e la medioevale Corneto, dall’altra si può ritenere plausibile la tesi del Canina circa la possibilità che la sostruzione viaria potesse servire anche da sostegno per una condotta d’acqua. L’interpretazione del Canina e il modo in cui è riportata l’indicazione dell’arco fanno presumere che quest’ultimo si trovasse alla base della sostruzione, con l’ipotetico compito di svolgere funzione fognaria (convogliare a sè le acque di scarico provenienti dalla soprastante strada) o, diversamente, con finalità di accesso alla condotta cui sottintende il testo ottocentesco, forse posta all’interno della struttura. D’altronde, quando lo stesso Sangallo nella nota presente sul disegno definisce <<ponte>> la sostruzione viaria, è probabile voglia in realtà riferirsi con questo termine al nostro arco, nel caso in cui quest’ultimo raggiungesse un’ampiezza maggiore di quella precedentemente immaginata e superasse la parte più bassa della sella in modo da dare alla struttura la parvenza di un vero e proprio ponte. Più recentemente P. Romanelli, nell’ambito di una serie di ricerche archeologiche mirate all’identificazione di alcuni capisaldi topografici della città etrusca, ritornò sulla sostruzione. Nella relazione sui principali risultati ottenuti durante questa indagine, l’autore scrive 17) : <<... quivi correva una strada, che teneva più o meno il percorso di una carrareccia moderna: se ne riconoscono ben chiari i muri di sostegno da una parte e dall’altra per una lunghezza di circa m.70, costruiti in conci quadrangolari di media dimensione messi parte di testa parte di fianco a filari abbastanza regolari, ma con faccia non lisciata. Il Canina, (...), precisa di aver visto qui, in uno di questi muri che egli pensa potessero sostenere forse, oltre alla via, anche un acquedotto, un arco, di cui dà anche il disegno 18) : esso deve essere oggi interrato, né, per lo stato del terreno e per altre considerazioni, ho creduto opportuno rintracciarlo. (...) La larghezza della strada, misurata fra l’esterno dei muri di sponda, è di m. 9 circa>>. Sembra chiaro come, ancora alla metà del nostro secolo, i due muri di sostegno della strada fossero visibili - ricordo che attualmente è possibile osservare solo alcuni tratti di 17) P. Romanelli, op.cit., alla nota 13, p. 198. In realtà il disegno dell’arco pubblicato dal Canina, si riferisce ad una struttura situata nei pressi dell’Ara della Regina e ancora oggi visibile: A. Canina, tav. del vol. II. 18) 35 36 quello settentrionale -, mentre l’arco visto dal Canina risultava già completamente coperto dal terreno. Tornando al disegno del Sangallo si osserva che in nessuna nota presente sulla planimetria della Civita si trovano espliciti riferimenti sull’esatta ubicazione della conserva; è invece postulabile che le informazioni relative alla posizione geografica della <<città di Tarquinia>> e la sua raffigurazione grafica, oltre ad un accenno sul tracciato necessario - almeno all’epoca del disegno - al suo raggiungimento, siano da considerarsi come generali indicazioni topografiche che l’artista fornisce sull’area nell’ambito della quale è probabilmente ubicata tale testimonianza. Questa constatazione solleva spontaneamente un problema legato all’effettiva localizzazione all’interno della Civita della conserva ritratta dal Sangallo. Per fare più luce sulla questione, conviene tornare al Canina che, procedendo nella descrizione della presenze archeologiche relative all’area della Tarquinia etrusca, offre una testimonianza di indubbio significato ai fini della nostra ricerca 19) . <<.... nella parte interna della città, oltre alle fabbriche delle terme denominate Tulliane..., negli scavi impresi a fare nell’anno 1829, si rinvenne pure una grande conserva di acque a due piani sostenuti da pilastri>>. La notizia del ritrovamento archeologico ottocentesco trova un immediato collegamento con la pianta di conserva del Sangallo, in particolare nel chiaro riferimento del Canina alla dimensione della costruzione rinvenuta e alla presenza dei pilastri: questi ultimi, d’altronde, già nel suesposto esame architettonico relativo al disegno, avevano dato adito di pensare alla presenza di un proseguimento in elevato della struttura (il secondo piano del Canina?) in virtù del loro accentuato spessore. Il fatto che la scoperta della conserva d’acqua si dati intorno all’anno 1829, può trovare conferma negli scavi non regolari che furono intrapresi sulla Civita tra il 1829 e il 1831 da parte di due privati, il Manzi ed il Fossati, volti all’identificazione di alcuni edifici dell’antica città. Le ricerche, le cui relazioni sono state rese note dagli stessi autori sul Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica, si concentrarono sul solo Pian della Regina, dove più risultavano evidenti gli affioramenti di strutture antiche: in dettaglio, si riportarono alla luce un grande edificio termale (le cosiddette <<Terme Tulliane>>, i cui resti attualmente interrati sono situati subito a sud del Casale detto <<degli Scavi>>, e parte del podio del tempio detto <<Ara della Regina>>. 19) A. Canina, op. cit. alla nota 15, vol. II, p. 36. 36 37 Nella relazione edita nel 1831 relativa a queste ricerche, vi è un breve ma significativo riferimento ad una conserva d’acqua 20) , la stessa ricordata dal Canina: <<Sull’alto della collina (rispetto all’Ara della Regina) ov’è la città a ponente v’è bene il tufo, ma i sepolcri non pare: scoprimmo ancora una conserva d’acqua a due piani; il sottoposto è conservatissimo e porta piè diritti (pilastri) assai spessi>>. Le evidenti analogie fra la pianta della conserva del Sangallo e quelle descritte nei due passi ottocenteschi, sebbene sia ancora assente un elemento probatorio, possibile a questo punto soltanto attraverso un’osservazione di verifica diretta del monumento, ci consentono di ritenere le diverse documentazioni relative alla stessa testimonianza. Dalle indicazioni che emergono dalla lettura delle due fonti letterarie, comunque non sufficienti, sembrerebbe che i resti della conserva vadano ricercati in particolar modo, lungo l’area sommitale del Pian della Regina - nella cui prossimità furono intraprese le ricerche del Manzi e del Fossati - cioè nel settore più elevato della Civita e quindi particolarmente idoneo all’ubicazione di un grande deposito d’acqua, come quello da noi esaminato. Sopralluoghi preliminari condotti nella zona suddetta non sono ancora valsi all’identificazione della struttura; è probabile che l’accesso alla conserva sia attualmente interrato, vista la celerità con cui agiscono sul terreno alcuni elementi o fenomeni naturali (erosioni o accumuli praticati dai mezzi agricoli o dagli agenti atmosferici), il che renderebbe piuttosto difficile la localizzazione del monumento. In questo caso, ai fini dell’identificazione, sarebbe opportuno un intervento programmatico sul terreno mediante una serie di saggi archeologici, magari sulla base di particolari informazioni fornite da strumentazioni tecniche già sperimentate in materia, come ad esempio le prospezioni magnetiche, capaci di individuare eventuali <<vuoti>> presenti nel sottosuolo. L’analisi del disegno di Sangallo il Giovane pone una serie di interrogativi, viste le riconosciute capacità dell’artista nel riprodurre fedelmente e con scrupolosità le antiche testimonianze architettoniche: in primo luogo è infatti da rilevare ocme sia quantomeno anomalo che un così attento artista, dopo essersi attardato sulla raffigurazione grafica della conserva, non riporti sulla topografia a lato l’esatta ubicazione del monumento, all’interno dell’area della città di Tarquinia, centrando invece l’attenzione sull’itinerario utile a raggiungere la zona. La mancanza di un preciso riferimento sulla planimetria potrebbe anche giustificarsi considerando la possibilità che il Sangallo avesse ripreso la 20) Fossati-Manzi, Bull. Inst. 1831, p. 5. 37 38 testimonianza da un precedente disegno, come era d’uso in quel tempo, e quindi si trovasse nella impossibilità di localizzare ulteriormente la conserva. Anche il fatto che il Sangallo possa non aver visitato direttamente la conserva non toglie valore al suo documento, e comunque non inficia l’attendibilità della pianta da lui disegnata, in virtù della possibilità di accesso al monumento, ancora in buono stato di conservazione agli inizi del cinquecento; inoltre, dalla lettura dei passi ottocenteschi citati, fra cui in particolare quello del Manzi e del Fossati, è presumibile che, almeno fino ai primi decenni del XIX secolo, la struttura si fosse in gran parte conservata (ricordiamo il piano inferiore <<conservatissimo>> secondo il Manzi) almeno in maniera sufficiente da poter essere identificata e visitata dalla superficie. Attualmente non sono percepibili sul terreno tracce significative, tali da poter indurre a pensare all’esistenza di una costruzione del genere. Le varie attività agricole svolte in questa zona hanno in parte modificato, nello spazio di alcuni decenni, il profilo originale del piano: resta certo che, probabilmente a differenza del secolo scorso, quasi nessuna testimonianza archeologica significativa è possibile osservare in superficie, al di fuori delle costruzioni liberate dal terreno in seguito a specifici interventi di scavo. Fra le poche testimonianze oggi rilevabili sulla parte alta del piano della Regina, meriterrebero forse maggiore attenzione i resti, ancora non chiaramente indagati, di una costruzione situata subito a nord dell’Ara della Regina, nel punto più alto della zona, di cui sono ancora visibili strutture in elevato (due tratti di parete in opera cementizia prive di cortina esterna). Della costruzione non conosciamo ancora l’esatta funzionalità: nella parte interna della struttura si apre un incavo che scende oltre l’attuale piano di campagna, la cui larghezza iniziale è all’incirca coincidente con il perimetro esterno delle murature conservate e la cui profondità non è possibile valutare con precisione, a causa della presenza al suo interno di un consistente accumulo che lo ricolma, costituito in gran parte da blocchi antichi 21) . Una ricerca più approfondita di questa testimonianza archeologica consentirebbe di definire la tipologia della costruzione e le sue effettive funzionalità 22) . *** 21) Tali blocchi, riferibili a strutture antiche, sono probabilmente affiorati in passato sulla superficie del terreno durante le arature, e successivamente accumulati dagli agricoltori per liberare i campi. 22) La possibilità che si celi, al disotto degli attuali resti murari, un prolungamento della struttura (un piano sotterraneo?) può giustificare un intervento mirato all’indagine della parte interrata, magari con un primo asporto dell’accumulo presente nell’incavo interno alla struttura. 38 39 Sebbene non siano stati ancora rintracciati con precisione i resti della conserva raffigurata da Sangallo il Giovane, della quale grazie al suo disegno conosciamo la planimetria, al documento considerato in questa sede va comunque attribuita una certa importanza di ordine storico; esso rientra infatti in quella serie di riproduzioni grafiche, realizzate da molti artisti del passato, di opere e monumenti antichi, che assumono particolare valore al momento della <<perdita>> più o meno definitiva delle stesse testimonianze raffigurate. E’ comunque indubbio che planimetria di questa conserva, o qualche suo elemento peculiare, avesse suscitato in un artista come il Sangallo curiosità o interesse, tanto da indurlo ad eseguire un <<appunto>>, magari durante un soggiorno dell’architetto a Corneto. Tuttavia, le notizie forniteci dal Sangallo sono insufficienti ai fini della esatta localizzazione della conserva e devono essere necessariamente integrate con le fonti più recenti, come le già menzionate del Manzi-Fossati e del Canina, nelle quali è chiaro come ancora nel secolo scorso fosse possibile rintracciare la conserva; allo stato attuale, invece, non è possibile riconoscere alcuna traccia significativa della struttura, il che fa pensare che qualche circostanza contingente possa essere intervenuta a provocare forse una precoce scomparsa delle evidenze superficiali residue della costruzione. Durante questo breve percorso, si è cercato di sottolineare tutti quegli elementi finora a nostra disposizione, che possano costituire il primo approccio per una ricerca sistematica finalizzata all’individuazione della conserva, il cui effettivo ritrovamento è da ritenersi strettamente legato all’intervento archeologico: la questione resta ancora insoluta e, per chi scrive, costituisce sicuramente elemento di particolare interesse, oltre che a forte incentivo per una più prossima soluzione. Alessandro Mandolesi IL SANTUARIO DELL’<<ARA DELLA REGINA>> 39 40 1.Topografia e prime evidenze archeologiche Il santuario è situato sul margine sud della zona centrale della città antica e domina sia la vallata sotto il fosso di San Savino sia il colle occupato dalla Tarquinia etrusca e romana. Il tempio venne scavato da Pietro Romanelli nel 1938 e nel 1946 e pubblicato parzialmente nel 1948; altri scavi furono condotti dal Torelli nel 1969 lungo il lato nord del tempio. L’edificio era sorto nel IV secolo a.C. in sostituzione di un tempio arcaico del quale sono presenti delle tracce evidenti. Infatti, nell’angolo sud-est del basamento, c’è una struttura rettangolare orientata quasi perfettamente secondo i punti cardinali e inserita nell’avancorpo della scalea. Questa struttura è un parallelepipedo di tufo chiaro lungo m. 7,45, largo m.3,95 sporgente dal basamento, ed è preceduta da una platea (5,60x4,70) con fori per l’inserimento di una transenna lignea o metallica. Anche le terracotte architettoniche di prima fase, raccolte in superficie, sono un valido inizio della preesistenza del culto che, nella metà del IV secolo a.C. assume forma monumentale. 2. Struttura del santuario Il terreno, prima della costruzione dell’alto basamento, seguiva l’orientamento generale del rilievo, con una pendenza di circa 6-8 metri in direzione nord-sud, cioè dall’angolo nord-est del tempio all’estremità sud-ovest del basamento. La grande pendenza del suolo originario ha costretto i costruttori del IV secolo a realizzare una imponente costruzione, larga 34 metri e lunga 77 m. contenuta da muri in blocchi di macco posti in prevalenza di testa. Il pavimento del tempio, scoperto solo in un breve tratto presso la fontana di Cossuzio, era costituito da lastre di macco con una crepidine di blocchi squadrati e aveva una lunghezza di 4,5 m. circa. Il tempio era rivolto ad est-sud est (108 gradi); il basamento era accessibile da est tramite due o tre scalee larghe 15 metri, fra avancorpi muniti di sagome e rivestiti di nenfro. Aveva un primo ripiano profondo m. 16,50 sul quale dava l’altare e da questo, per mezzo di due scalinate laterali e un piano centrale inclinato, si arrivava al secondo ed ultimo ripiano dove si trovava lo stilobate del tempio che sorgeva su un proprio podio di 100x176 piedi, foderato da un paramento di nenfro. 40 41 3. La leggenda della nascita di Tagete La maggior larghezza del basamento rispetto al tempio sembra motivata dalla volontà di inglobare due strutture preesistenti, allineate fra loro e quasi perfettamente orientate, in cui si riconosce l’epicentro religioso del santuario arcaico. Il nucleo maggiore è stato identificato con l’altare sopra citato; in quello minore, secondo un’ipotesi moderna, si è voluto riconoscere il luogo mitico della nascita di Tagete, rivelatore della aruspicina. La leggenda narrava come, tra la città sul colle e la riva del mare, mentre Tarconte (il mitico fondatore di Tarquinia) arava, dal solco fresco fosse balzata fuori la strana figura di un giovinetto con i capelli canuti. Tagete, giovane e vecchio insieme, era considerato simbolo dell’eterna gioventù della terra e della matura saggezza della divinità. Egli avrebbe dettato a Tarconte le regole della Disciplina religiosa. Un reperto che testimonia quanto profondamente fosse radicato tra gli Etruschi il ricordo di quel mitico evento, è uno specchio di bronzo trovato presso Tuscania. Il disegno che vi è inciso rappresenta un giovinetto interno all’esame del fegato di una pecora sacrificata, che tiene nella mano sinistra. Il suo abbigliamento lo rivela aruspice; sopra una veste a maniche corte, egli ne porta un’altra a pieghe, lunga sino alle ginocchia. Sul capo porta il tipico copricapo sacerdotale etrusco, un cono a punta. Accanto a lui c’è un vecchio con la barba e indossa lo stesso abbigliamento sacerdotale. Sul bordo dello specchio si trovano delle iscrizioni incise; sopra il giovane aruspice c’è scritto Pavia Tarchies, formula onomastica che si riferisce a Tagete; il personaggio alla sua destra è detto Tarchunus, Tarconte dunque. La scena e il testo dello specchio bronzeo di Tuscania (opera datata al III secolo a.C.) rivela la stretta connessione di Tarconte, il leggendario fondatore di Tarquinia, con il mitico fanciullo. 4. Ricostruzione del tempio Il tempio, secondo la ricostruzione del Romanelli, aveva una pianta ad alae con un pronao colonnato. I muri di sostegno delle alae hanno uno spessore di 1,60 metri; le mura della cella, invece, misurano 1,40 m. Sul fondo si aprono tre stanzette; la stanzetta centrale aveva la larghezza della cella, mentre quelle laterali erano lunghe come le alae; queste tre stanzette vanno identificate con le favisse del tempio (ricostruzioni ipotetiche). Le dimensioni del tempio si possono così riassumere: lunghezza m. 39,95 - larghezza m. 25,35; alae larghe 4,90 m.; anticamere lunghe m. 6,55 - larghe 9,55 m.; favisse et adyton profondi 5,30 m. 41 42 Ad epoca imprecisabile appartengono le due stanzette sul lato nord, costruite con materiale di reimpiego, poggianti al basamento e alla sostruzione, comunicanti fra loro e accessibili tramite una doppia scaletta, dove furono rinvenuti i frammenti degli <<Elogia degli Spurinna>>: Un’altra aggiunta è quella della fontana di M. Cossuzio, quattorviro, tarquiniese, probabilmente della prima età augustea. Alle spalle delle due stanzette sopra nominate, si trova una struttura in laterizio intonacata di cocciopesto; tale struttura, datata al I secolo d.C., era la <<fodera>> del basamento costruita per evitare che l’acqua stagnasse. L’ultima vicenda architettonica dell’edificio si ha nel V-IV secolo d.C. quando fu trasformato in chiesa. 5. La decorazione architettonica fittile Il grande edificio dell’ <<Ara della Regina>> fu fornito di un frontone aperto di tipo tradizionale, nella metà del IV secolo a.C., che venne decorato con un complesso di terrecotte architettoniche; le terrecotte che erano applicate alle testate dei travi principali del tetto (columen e mutili) erano plasmate a mano; gli altri elementi minori erano ottenuti a stampo. Della decorazione frontale restano solamente due lastre frammentarie ad alto rilievo: al mutulo destro era forse applicata la figura femminile, di cui resta soltanto parte della veste dipinta, che viene datata alla seconda metà del IV secolo a.C. Viene ritenuta rivestimento da columen o destinata a coprire la testata del mutulo di sinistra, la famosissima coppia dei cavalli alati datata anch’essa alla metà del IV secolo a.C. Interessante è notare che la lastra dei cavalli dà con un taglio obliquo del margine superiore la pendenza del tetto (22 gradi e 30 primi). Delle terrecotte architettoniche ottenute a stampo, attribuibili alla decorazione originale del tempio in base all’analisi dei caratteri stilistici e tecnici, nessun esemplare è giunto a noi integro o ricostruibile tranne la tegola di gronda. Della decorazione del tetto sono stati individuati tutti gli elementi come la sima frontonale con sovrastante cornice traforata. La sima frontonale (cm. 50x18) presenta un motivo a rilievo con fiori di loto e palmette che è molto comune; lo ritroviamo infatti anche a Civita Castellana (tempio dei Sassi Caduti) a Bolsena, a Cosa (tempio di Giove) e a Talamone. La cornice traforata (cm. 49x29,7) presenta una decorazione a rilievo, anch’essa molto comune, con nastro a serpentina sormontato da palmette. Delle lastre di rivestimento quella con palmette oblique contrapposte a spirali doppie era destinata agli spioventi frontonali; la decorazione è realizzata nei due sensi ed 42 43 esiste un frammento dell’esemplare terminale del colmo destro tagliato per adattarlo alla pendenza del tetto. Abbiamo altri tipi di lastre di rivestimento: quelle decorate a rilievo con palmette, spirali e loti, motivo questo molto diffuso che troviamo in quasi tutti i templi (fase di IV-III secolo). La lastra con kyma lesbico a decorazione a X con fiori a calice e rosette la ritroviamo molto simile a Volterra e a Orvieto (Belvedere). Tra le antefisse a noi note ci sono quelle a testa di menade e di sileno che, molto probabilmente, risalgono alla metà del IV secolo a.C. caratterizzate da un nimbo, di cui rimangono solo delle tracce, decorato con viticci, fiori e boccioli e anche dalla stessa altezza di 25-26 cm. Forse un po' più recente (fine IV sec. a.C.) è l’antefissa a testa di menade con nimbo coronato da palmette, fiori e calici alternati. Oltre alle caratteristiche antefisse a testa di sileno e di menade sono state trovate anche delle antefisse a testa maschile con berretto frigio che, dall’esame stilistico, possono essere datata alla metà del IV sec. a.C. (come il gruppo precedente). Risalgono alla fase di IV-III secolo le antefisse a figura intera quella disposta orizzontalmente rappresenta una figura femminile alata sorgente da volute (cm. 37x45); l’altra è sempre raffigurante una figura femminile alata che però è posta in modo verticale e regge tra le mani un vasetto (53x31). 6. Influssi stilistici delle terrecotte architettoniche I coroplasti si ispirarono, per quanto riguarda le terrecotte a stampo, al programma decorativo creato alla fine del V secolo-inizi III sec. per il tempio di Belvedere a Orvieto con l’aggiunta di elementi comuni in altre località come la sima frontonale e la cornice traforata. Analogamente al complesso frontonale di Belvedere anche negli altorilievi di Tarquinia c’è un forte interesse per il linguaggio figurativo e decorativo di età classica ma con modi più evoluti. I caratteri stilistici della figura femminile con lunga veste fiorita, e della coppia dei cavalli alati riportano al clima artistico dell’Atene post-fidiaca, che si riflette nella ceramografia attica alla fine del V sec. a.C. e che è ripreso in ambiente magno-greco e italico nella prima metà del IV secolo a.C. 7. Parallelismo con gli altri templi e ultime conclusioni La fase delle terrecotte architettoniche che possiamo studiare in modo più completo è quella risalente alla metà del IV sec. La decorazione di queste terrecotte, come abbiamo 43 44 visto, è abbastanza comune e ricorre in molti altri santuari, quali il tempio di Talamonaccio, il tempio di Juppiter a Cosa (Ansedonia), il tempio di Belvedere a Orvieto e, limitatamente ad alcuni elementi, il tempio dello Scasato a Falerii. Interessante sarà quindi confrontare le dimensioni degli edifici aventi in comune le stesse terrecotte per delineare il rapporto tra le proporzioni della pianta e della trabeazione. Il tempio dell’ <<Ara della Regina>>, messo a confronto con i dati vitruviani riguardo al rapporto tra lunghezza e larghezza (6:5), risulta più allungato, specialmente per quel che riguarda il podio. Le dimensioni del tempio sono monumentali: largo 34 m. lungo 77 m. con un imponente terrapieno è il più grande tempio fra quelli dotati delle stesse lastre di rivestimento, delle stesse sime, etc. Le lastre di rivestimento, sia quelle con palmette a spirali, sia quelle a decorazione a X, appaiono quindi, rispetto alla monumentalità del tempio, piuttosto esigue; infatti l’altezza media ricostruibile non supera i 60 centimetri. Queste misure sono le medesime che ricorrono in edifici più piccoli come il tempio di Belvedere, quello di Giove o, ancora, il tempio dello Scasato. Riportando alcuni dati, per esempio, il tempio di Belvedere è lungo 21,9 m. e largo 16,90 (esatta metà dell’Ara della Regina); i materiali architettonici, pertinenti alla fase più antica della decorazione del tempio, risalgono agli inizi del V sec. a.C. Di questa fase ci sono giunte lastre di rivestimento che ritroviamo anche, come già accennato, a Tarquinia. Il santuario dello Scasato di Civita Castellana, il più recente dei grandi templi di questa fase conosciuti, è un altro esempio da paragonare al tempio di Tarquinia. Largo 17 m. esibiva un sistema decorativo molto simile per le dimensioni a quello dell’Ara della Regina. Il tempio di Talamone, eretto nella metà del IV sec. a.C., aveva delle dimensioni molto più modeste rispetto al tempio tarquiniese anche se sono accomunati da una decorazione architettonica molto simile. Il tempio di Giove a Cosa, specialmente nella sua seconda fase, ha moltissimi elementi in comune con l’Ara della Regina come l’architrave rivestita da lastre con decorazione a X e la sima frontonale sormontata dalla cornice traforata. Ma anche le dimensioni del tempio di Giove sono minori rispetto a quelle di Tarquinia. Da queste osservazioni possiamo concludere che il tetto dell’Ara della Regina risultava non molto appesantito dalla decorazione architettonica rispetto agli altri templi che, pur avendo la stessa decorazione e quindi più o meno lo stesso peso, erano di dimensioni notevolmente minori. Il tempio tarquiniese era rettangolare oblungo simile a 44 45 quello greco e alla monumentalità della pianta e degli alzati non corrispondeva un’adeguata trabeazione. Massi Elena Bibliografia A. Andren, Origine e formazione dell’architettura templare etrusco-italica, in Rend. Pont. Acc. XXXII, Stoccolma 1959-1960. P. Bergellini, Belvedere, Firenze 1962. M. Bonghi Jovino, Gli Etruschi di Tarquinia, Modena 1986. G. Colonna, Santuari d’Etruria, Roma 1985. A.M. Comella, Deposito votivo presso l’Ara della Regina, Roma 1982. M. Cristofani, L’arte degli Etruschi, produzione e consumo, Torino 1978. W. Keller, La civiltà etrusca, Zurigo 1977. M. Pallottino, Tarquinia, Roma 1948. M. Pallottino, Etruscologia, Milano 1985. P. Romanelli, Tarquinia, in Notizie e scavi, Roma 1948. M. Torelli, Etruria, Roma-Bari 1980. ACCADDE A CORNETO NEL 1848: TANTO RUMORE PER UNA CAMBIALE Io credo che una delle azioni più importanti, che svolge il Bollettino della Stas, sia quella di far conoscere o di spingere a conoscere meglio alcuni episodi che riguardano la vita della nostra città. E’ stato infatti leggendo un breve articolo di Cesare De Cesaris, pubblicato sul Bollettino del 1977 e riguardante un fatto avvenuto a Corneto nel 1848, che è nata in me la curiosità di conoscere qualcosa di più sull’argomento. Per questo motivo ho ricercato documenti e qualsiasi altra cosa che avesse potuto farmelo approfondire e comprendere meglio. Dato che coinvolto in questa vicenda era lo stesso Gonfaloniere della città, Domenico Boccanera, era più che logico che le mie ricerche si indirizzassero verso l’Archivio Storico Comunale. Qui, la mia curiosità è stata accontentata. Ora, unendo alla documentazione presente nell’Archivio della Stas, quella rintracciata nell’Archivio Storico Comunale, la visione di quello che accadde a Corneto in quel fatidico 30 giugno 1848 e nei 45 46 mesi successivi mi risulta più chiara. Eccomi dunque ad esporre quello che ho potuto appurare e ricostruire. Cosa importante è conoscere bene il personaggio di cui si parlerà, in quanto sarà proprio per proteggere la sua persona da un arresto non giustificato che scoppierà una sommossa che avrà ripercussioni sull’intera cittadinanza. Domenico Boccanera, nato nel 1810, apparteneva ad una famiglia che era giunta a Corneto (almeno da quanto ci dice il manoscritto di P. Falzacappa dedicato alle famiglie illustri della città, presente nell’Archivio della Stas), nel 1743 proveniente con molta probabilità dall’Umbria, forse dalla città di Orvieto. Il padre di Domenico, Benedetto, aveva scelto come moglie una nobile signorina orvietana e così farà anche il figlio il cui matrimonio è ricordato nella <<Cronaca Cornetana>> (un altro manoscritto del citato Pietro Falzacappa): << - 25 novembre 1832 - Matrimonio di Domenico Boccanera: il giovane Domenico figlio di Benedetto Boccanera si è maritato con Marianna Menicucci di Orvieto. Questa signorina nobile di nascita e con discreta dote dovrà molto fatigare per rendersi eguale alla sua suocera egualmente orvietana. Essa è piuttosto bella, e da questo matrimonio ci auguriamo una buona e bella razza di figli>>. Precisa come annotazione vero? Comunque <<una buona e bella razza di figli>> si può dire che sia nata da questi due sposi: infatti ebbero sette figli, quattro maschi e tre femmine. Ora che si era sposato, Domenico desiderava che la nobiltà della sua famiglia venisse riconosciuta ufficialmente, con l’iscrizione nell’albo dei Patrizi della città. Era una cosa molto importante questa perché, come si legge nel Procaccia (giornale dell’Archivio Storico, n.12) <<anticamente il Consiglio della città di Corneto era composto di soli Patrizi. Quando si estingueva qualche famiglia o restava per qualche altra causa vacante un posto nel Consiglio, si proponevano dei cittadini, e il Consiglio, a voti segreti, osservando che i candidati fossero muniti di condotta morale e politica irreprensibile, che avessero casa conveniente del proprio in questa città, oltre una possidenza che permettesse loro di vivere more nobilium, che non avessero mai esercitato, né esercitassero arti o mestieri non confacenti allo stato nobile, sceglieva i più meritevoli e gli eletti, entrando a far parte del Consiglio medesimo venivano nel contempo ascritti nel libro aureo del Patriziato con l’onere di far solennizzare a spese proprie, nel primo anno della loro ammissione, la festa del Glorioso Martire Sant’Agapito e di fare un donativo a vantaggio pubblico. I Signori congregati, a termini delle prescrizioni del Motu Propriodella Chiara Memoria di Leone XII del 27 dicembre 1827, dopo aver esaminato tutti i requisiti del Signor Boccanera, lo hanno dichiarato, ad unanimità di suffragi, meritevole di essere 46 47 ascritto all’albo dei Patrizi Cornetani, ferme restando le ingiunzioni di fare a proprie spese la Festa di sant’Agapito ed un donativo. Il verbale del Consiglio, dopo il visto del Delegato Apostolico, verrà inviato a Sua Beatitudine Gregorio XVI per l’approvazione finale>>. Così Domenico Boccanera entra ufficialmente tra i Patrizi Cornetani, diventa nobile cornetano. Sembra che per lui tutto proceda nel migliore dei modi. Per avere un quadro più completo della situazione è bene tener presente che il 7 agosto 1828 si è celebrato il matrimonio di una sorella di Domenico, Maria, con Agostino Mastelloni. Pietro Falzacappa, attento osservatore di quanto accade a Corneto a questo proposito annota: <<Doppo molto tempo di amore frenetico si è celebrato il matrimonio fra Agostino di Candido Mastelloni e Maria del fu Benedetto Boccanera. Se questi sposi avessero pensato alle conseguenze del matrimonio forse oggi non lo avrebbero contratto>>. Candido Mastelloni ha altri figli oltre ad Agostino, fra i quali Luigi che poi tanta parte avrà nella nostra storia. La famiglia Mastelloni non si trova molto bene finanziariamente tanto che la notizia della morte di Candido il 10 maggio 1830, viene commentata dal solito cronista così. <<Doppo una lunga e penosa malattia passò al numero dei più Candido del fu Agostino Mastelloni e fu sepolto in San Marco...... Fu uomo che sempre sdegnò l’imbarazzarsi con cose pubbliche, ma di scarsi talenti. Per questa ragione e per la sua poca economia, aveva ereditato un pingue patrimonio, nella breve vita di circa 66 anni, lascia la sua famiglia con più abbondanza di debiti che di crediti>>. Passano gli anni, l’unione di Domenico e Marianna viene allietata dalla nascita dei primi figli: Maria Felicita (1833), Teresa (che muore ad appena un anno di vita nel 1836), Benedetto (1836), Francesco Maria (1839), Giacomo Maria (1841) e Luigi Maria (1845). La vita della famiglia va avanti serenamente. Il capofamiglia, possidente, ogni tanto deve ricorrere a qualche cambiale, che puntualmente onora. E’ stimato e benvoluto dai suoi concittadini tanto che nel 1848 lo troviamo Gonfaloniere, ossia capo dell’amministrazione comunale. Sembra che nulla in questo periodo debba turbare il normale svolgimento della vita di Corneto, malgrado la tensione politica stia crescendo un po' dappertutto in Italia. Nel 1846 è stato eletto al soglio pontificio il cardinale Mastai Ferretti, Pio IX, che con i suoi primi atti aveva acceso le aspettative di tutti coloro che speravano in cambiamenti radicali ed in una apertura ad un modo di vivere più libero e più rispettoso dei diritti dei cittadini: amnistia, riforme, libertà di stampa e di riunione, parole di pace e di progresso..... Ma le cose si erano improvvisamente aggravate quando nel 1848, mentre 47 48 Carlo Alberto stava portando avanti la I Guerra di Indipendenza, il pontefice, dopo aver permesso che il generale Durando guidasse i volontari romani ad unirsi all’esercito piemontese, aveva pronunciato la famosa “allocuzione del 29 aprile” con la quale dichiarava apertamente che non poteva assolutamente dichiarare guerra all’Austria: <<... ciò si dilunga del tutto dai nostri consigli, poiché Noi, sebbene indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è autore di pace ed amatore di carità, e secondo l’ufficio del supremo nostro apostolato, proseguiamo ed abbracciamo tutte le genti, popoli e nazioni con pari studio di paterno amore>>. Se queste parole andavano bene per i reazionari non andavano altrettanto bene per “i rivoluzionari” che videro in esse la prova del “tradimento” del papa. Per cercare di calmare l’indignazione popolare, Pio IX aveva nominato allora Ministro dell’Interno il conte Terenzio Mamiani, quello stesso Mamiani che nel 1831 era stato esiliato dallo Stato Pontificio per aver preso parte ai moti di Bologna. Il conte Mamiani, però, resterà al potere per pochi mesi, e saranno proprio quei mesi in cui avviene il fatto che indigna la popolazione cornetana. Cosa accadde dunque? Come si è già accennato, nel 1848, alla carica di Gonfaloniere era stato eletto Domenico Boccanera, che succedeva così al conte Lorenzo Soderini. Domenico Boccanera in virtù della sua carica non avrebbe dovuto temere nessuna mancanza di rispetto in quanto godeva di particolari garanzie a difesa dalla sua persona. Comunque dovrebbe aver avuto sentore di qualcosa che si stava tramando contro di lui perché nell’Archivio Storico Comunale è conservata una lettera indirizzata appunto dal Boccanera al Conte Terenzio Mamiani, Ministro dell’Interno in data 30 giugno 1848, in cui dice che già due volte, il 16 e il 23 giugno aveva indirizzato “due rispettosissime... onde arrestare il corso alle inique trame di Luigi Mastelloni... per garantirmi da un affronto che comunque si sarebbe tentato e per non rendermi responsabile di una sollevazione popolare”. Cosa era successo dunque?, perché Luigi Mastelloni avrebbe dovuto ordire qualcosa contro il Gonfaloniere? Questo Mastelloni certamente non era un tipo molto raccomandabile, da come lo descrive Pietro Falzacappa: <<....cognito all’intera provincia per le sue dissolutezze, modi disonestissimi nel sedurre, sorprendere e poscia sposare una dotta signorina della nostra città, ed appartenente alle prime famiglie del Patrimonio * , falsario di cambiali e pagherò all’ordine>>. Luigi Mastelloni dunque era riuscito a mettere le mani su delle cambiali che il Boccanera aveva già pagato ma che, ingenuamente, non aveva ritirato, si era però fatto * Il Mastelloni, con il Di Nicola, e altri amici per riuscire a far uscire dal Monastero <<l’onesta fanciulla>> si era travestito da Notaro, e Cancelliere Vicarile, e con un finto mandato aveva sorpreso la <<troppo credula Badessa>>. Così aveva rapito <<dal Sagro Asilo l’inesperta donzella>>. 48 49 fare una dichiarazione dal suo ex-creditore in cui quest’ultimo affermava “Che a tutto il presente giorno non ha alcuna cambiale firmata dal sig. Domenico Boccanera né in portafoglio da girarsi, né fuori già messa in giro, per cui ne faccio fede da servire nel modo più valido”. Il Mastelloni per portare avanti questo suo intrigo si era servito dell’aiuto di uomini della sua risma. Seguitiamo a leggere il manoscritto del Falzacappa: Il meschino spinto da pressanti bisogni, perseguitato da mandati spediti e prossimo ad essere ricercato, profugo, ramingo, vilipeso, .... si collegò in perfido conciliabolo con un tal Devenux di nazione francese, fallito, disperato, ed oggi, per vivere, fra i volontari romani con un pasto al giorno, e pagnottone... ed il troppo noto Tuccimei>>. Dunque ritorniamo a quanto il diretto interessato, Domenico Boccanera scrive in merito all’accaduto al Ministro Mamiani. <<... questa mattina circa le dieci antimeridiane un tal Cursore Sales, con tre carabinieri venuti appositamente da Civitavecchia mi hanno sulla pubblica piazza, in prossimità della Residenza Municipale, intimato l’arresto mettendomi anche le mani in dosso per tradurmi a forza nelle pubbliche carceri. In un baleno è accorso il popolo di ogni classe in numero inestimabile il quale si è maggiormente inasprito nel conoscere che si voleva arrestare il proprio Rappresentante senza il debito permesso di cotesto ministero. La docilità di esso però alla mia voce ha fatto sì che non è trasceso ad alcun atto di violenza, avendo dato luogo ai carabinieri di ritirarsi e al Cursore di fuggire: peraltro il fermento è grandissimo e qualunque altro tentativo sarebbe pericoloso. Con apposita spedizione rendo inteso il delegato dell’accaduto, querelandomi altrimenti contro il Cursore e contro i carabinieri che senza le debite licenze hanno tentato una tale violenza”. Boccanera non si spiega come ciò sia stato possibile dopo che tanto il Mamiani che il Ministro di Grazia e Giustizia, De Rossi e gli altri componenti il ministero, hanno accolto il suo <<formale ricorso>> facendogli capire che la sua persona non sarebbe stata molestata * . “Se pertanto i cursori - seguita nella sua lettera Boccanera - e la forza pubblica si permettono simili arbitri susciteranno dei sconcerti tali e tali disordini da mettere in tumulto la città e perturbare quell’ordine che segnatamente in questi tempi è tanto necessario. Mi permetta poi V. Ecc.nza che io le dica francamente che se la legge non pone una remora a tali arbitri e a quelli dei tribunali eccezionali, se non chiama questi responsabili * Occorreva il permesso di una <<superiore autorità... per li antichi privilegi accordati dalla S.C. del Buongoverno alle magistrature e che mai sono state revocate ma anzi confermati nelli Motu propri di Pio VII del 1816 e Leone XII nel 1827, e neppure contraddetti nelle leggi del 5 luglio 1831 sull’organizzazione dei Comuni. (P. Falzacappa op.cit.). 49 50 dei danni e pregiudizi che ne derivano dalle loro sentenze, come appunto è nel caso mio ** ; se il Governo... non estirpa prima otto o dieci ladri interni in questa Provincia fra i quali diversi della nostra città, ed in capo Luigi Mastelloni, le sostanze e la vita dei cittadini saran sempre compromessi per i fatti di questi iniqui a cui i tribunali tengono mano negli assassini domestici che essi commettono a man salva e impunemente sotto l’Egida delle ingiuste sentenze dei tribunali... il poderoso braccio del Governo ci assista e garantisca soprattutto i rappresentanti del popolo che sopportando il peso di una carica del tutto onerosa e responsabile non siano poi costretti a subire anche nella propria residenza atti di violenza e di ingiustizia... Né si creda da V. Ecc.nza forza di un animo commosso l’espressione che i birbi trovano appoggio negli stessi esecutori della giustizia mentre cosa di fatto è che l’indegno Luigi Mastelloni ha fuori circa dieci mandati personali e non si trova chi li eseguisca là dove ad istanza del medesimo si trovano e forza e cursori che eseguiscono tali atti contro un gonfaloniere che ha mezzi e fondi per soddisfare al preteso debito... Ripeto ancora una volta che si permetta pure una esecuzione sopra i miei beni di qualunque specie meno alla mobilia di casa, che sarebbe un eguale sfregio, ma si emani un ordine che mi garantisca degli affronti, senza il quale io sarò sempre esposto e la popolazione sempre compromessa”. Non si può dire che quel 30 Giugno il Gonfaloniere si sia risparmiato nello scrivere, infatti ha inviato una lettera anche al Delegato Apostolico e al Ministro di Grazia e Giustizia, avv. Pasquale De Rossi. In tutte è espresso il suo sdegno e il pensiero che la popolazione non possa più sopportare senza reagire un altro oltraggio simile. Ecco quanto scrive al delegato Diocesano: <<Eccellenza Rev.ma in questo momento, che sono le dieci avanti mezzogiorno, il Cursore Sales con tre carabinieri venuti da Civitavecchia hanno tentato il mio arresto sulla pubblica piazza, presso la residenza Comunale, senza alcuna facoltà in rapporto alla mia rappresentanza, se non che come si asserisce colla sola verbale intesa di Vostra Eccellenza Rev.ma. Questo fatto ha sollevato in un momento il popolo in modo tale che se non fosse stato docile alla voce di quel capo contro cui voleva esercitarsi un atto di violenza, la cosa non sarebbe terminata bene... il popolo è corso a liberare il suo rappresentante dalla tentata infamia in quanto che conosce la vera frode usata contro lui dal perfido Luigi Mastelloni.... ma si pensa che tenendo una tale via le sue trame non perverranno all’intento prima che il Tribunale della Rota non abbia revocata l’ingiusta sentenza del Tribunale Commerciale di Roma e quindi l’esecuzione personale ** Il Mastelloni era riuscito ad avere una sentenza del Tribunale di Commercio di Roma in cui si intimava al Boccanera di pagare la cambiale di 1040 scudi (che già aveva pagata), pena l’arresto. Contro questa sentenza Boccanera aveva ricorso presso il Tribunale della Rota affinché venisse annullata. 50 51 perché da me si paghino i mille scudi che ingoiati in un baleno nello sterminato pozzo delle sue trufferie non sarebbero da me più affatto recuperabili. Questi fatti sono noti all’augusto Pio IX che si degnò rimettere un mio ricorso al Ministro di Grazia e Giustizia, noti all’intero Consiglio dei Ministri, notissimi al Ministro dell’Interno, il quale riconoscendo l’aperto furto che mi si vuole fare, si è degnato di farmi assicurare che io nella mia Residenza, non avrei ricevuto alcun affronto... Io non posso persuadermi che sia per opera di V. Ecc.naza, come si asserisce e se ciò fosse io non dovrei che dolermene altamente.... ripeto di non crederlo e ne sono in modo tale persuaso che ricorro a Lei... perché mi si renda la dovuta soddisfazione e giustizia...>>“ Ed il responsabile della Delegazione Apostolica di Civitavecchia risponde nello stesso giorno: “Ill.mo Signore, il rapporto che V.S. Ill.ma mi ha fatto trovare per spedizione intorno al tentato di lei arresto mi ha recato la più grande meraviglia. Ho chiamato subito il Comandante dei Carabinieri a darmi subito esatto conto dell’operato dei suoi dipendenti ed inspecie di essermi attribuita a mia insaputa una esecuzione che io avrei... evitata se si fosse portato a mia conoscenza il fatto che si meditava>>. Poi prosegue specificando che il Cursore Sales dovrà difendersi sia per la tentata <<esecuzione personale>>, sia <<per aver ardito di spacciare il mio nome>> e che scriverà subito al Ministro dell’Interno sul <<dispiacente avvenimento per le ulteriori provvidenze>>. Come si vede fin dall’inizio si sente che l’episodio difficilmente non avrà conseguenze spiacevoli. A dare man forte al Cursore Sales e alla <<forza carabiniera>> però erano intervenuti anche alcuni cornetani che prontamente erano stati riconosciuti e che secondo tutti meritavano una punizione. Alcuni di essi facevano parte della Guardia Civica di Corneto, per questo motivo in data 1 luglio 1848, 64 cittadini, componenti della stessa, inviano al Capitano Comandante, una precisa richiesta: <<L’infame attentato commesso nella persona onorevolissima del Gonfaloniere di questa città in cui ebbero parte alcuni che disgraziatamente trovansi iscritti nei ruoli della Guardia Cittadina, irritò per modo gli animi tutti della popolazione che fu generale il grido, venissero tosto espulsi dal rispettabile Corpo Vincenzo Di Nicola, Luigi Simbeni (?), Gio. Batt.a Valletti e tutti coloro a carico dei quali si avessero prove di avere in qualche maniera cospirato a portare a fine l’inaudito sopraccennato disegno. Trovato giusto dai Civici sottoscritti l’assennato desiderio del Popolo e bramosi oltremodo che sia purgato il prelodato Corpo di Guardia Cittadina da tutti quei che lo disonorano con azioni vituperevoli, si rivolgono a V.S. Ill.ma perché voglia adoperarsi onde siano cancellati dai ruoli gli individui qui sopra elencati. Firmato: Crispino Mariani - tenente, Egidio Ruspoli - tenente, Giuseppe Maneschi 51 52 sottotenente, Giuseppe Panzani sottotenente, Evangelista Pasquini sottotenente, Andrea Mercati sergente, N. Maneschi sergente maggiore, Giuseppe Compagnucci sergente, N. Maneschi sergente maggiore, Giuseppe Compagnucci sergente, Luigi Maneschi caporale, Francesco Mastini sergente maggiore, Lorenzo Benedetti caporale, Alessandro Calvigioni caporale, Pietro Bruschi caporale, Eugenio Lucidi, Mario Calvigioni, Giuseppe Mattioli, Antonio Scappini, Giuseppe Marzi, Tommaso Simoncelli, Francesco Dasti, Nicola Soderini, Pietro Marzoli, Benedetto Caltraj sergente foriere, F. Falzacappa, F. Grispini, Mattia Sacchi, Luigi...., Giuseppe Querciola, Lorenzo Ferri, Lorenzo Crispini caporale, Domenico Avvolta, Alfonso Grispini,... Falzacappa, Lorenzo Mencarelli sergente, Giuseppe Pandicico, Salvatore Govi, Bernardino Milizia, Milizia A., Vincenzo Ajelli, Pietro Prosperi, Gio. De Angeli, Sebastiano Fiorani (?), Vincenzo Viti, Sinibaldo Loreti, Nicola Fidenza, Mario Massi, Vincenzo Toti, Francesco Campesi, Lorenzo Pigolotti, Giovanni Verzini, Milizia Giuseppe, Giuseppe Celli caporale, Giovanni Celli civico, Rinaldo Pivitelli, Tripoli (?) Vincenzo, Gonfaloni Luigi, Mariano Gelli, Francesco Benigni (?), Costantino Pampersi, Forcella Giuseppe, Giacchetti Antonio, Romualdo Maneschi>>. I capitani della seconda Compagnia della Guardia Civica Pontificia di Corneto, Antonio... e Luigi Benedetti, ricevuta questa richiesta la inviano, il 3 luglio, al Governatore Antonio Adriani, Presidente del consiglio di divisione, pregandolo di convocare il più presto possibile il Consiglio di Divisione per decidere in merito. A questo riguardo ho trovato solo la difesa presentata da Gio. Battista Valletti al Consiglio di Revisione della Guardia Civica. Una difesa portata avanti con abilità, di cui però, almeno per il momento, non se ne conosce l’esito. Vale la pena leggerla: <<Ill.mi Signori Gio. Battista Valletti, che contro l’infame attentato commesso nella degna persona del Gonfaloniere prese parte energica ed attiva insieme agli altri militi della Guardia Cittadina per difendere la primaria rappresentanza e sostenere il comune decoro, ebbe poi l’alto dispiacere di sentirsi appellare traditore dagli stessi suoi compagni e venne tradotto come complice nel profosso del Quartiere Civico. Causa di tutto ciò fu il rinvenimento del Cursore Sales nascosto nella bottega della famiglia del Valletti, quasi egli stesso ve lo avesse condotto ed occultato. L’esponente non si querela del trattamento usatogli dai suoi commilitoni, dappoiché egli stesso avrebbe operato altrettanto contro chiunque fosse stato imputato di una complicità in azioni così vituperevoli; l’oggetto unico di questa sua rappresentanza è quello di chiarire la propria innocenza, onde non si mandi ad effetto la minacciata espulsione, e non si copra d’infamia un individuo senza cognizione di causa. L’esponente non entra a discutere se i suoi di casa sapessero o no che il Sales erasi presso loro rifugiato, né a far distinzione fra il prestamano ad un assassinio e dar ricetto a 52 53 chi fugge per salvarsi la vita. Egli prega soltanto a riflettere che in atto dell’avvenimento trovavasi fuori di casa, che seguì i suoi compagni per tutte le vie e per ogni dove s’indicasse la fuga del Sales, che sulle voci che il medesimo si fosse nascosto nella indicata bottega, condusse subito i suoi compagni a perquisirla, che egli stesso salito in casa, guardò nelle più recondite parti, che persistendo la voce, insisté per più volte che si tornasse ad altra perquisizione, e che finalmente egli non fu mai in casa fino all’arresto del Sales, meno il momento che vi entrò con altri a perquisirla. Aggiunge in ultimo non esser vero altrimenti che il ragazzo che svelò allo stesso esponente ed al sig. Mattia Sacchi dove era nascosto il Cursore, dicesse al Valletti - Voi lo sapete -, ma bensì in senso dubitativo - E che voi non lo sapete? - Meravigliato a par di esso ch’Egli fosse in luogo di sua pertinenza senza sua saputa. Dopo tuttociò, a cui si potrebbe aggiungere altre molte giustificazioni, che si lasciano per brevità, spera il Valletti che l’Ecc.mo Consiglio di Revisione sarà per riconoscere al di lui innocenza, e per non permettere la dimandata espulsione dal Corpo Civico>>: Una difesa intelligente, che cerca di capovolgere tutti i capi d’accusa. Ci sarà riuscita? Intanto però anche la Congregazione Consigliare di Corneto non sta con le mani in mano. Il 7 luglio si svolge una riunione i cui <<inviti d’ordine per urgenza>> sono stati <<trasmessi nella mattinata di questo giorno>>. Vi partecipano anche Antonio Adriani, governatore, Domenico Boccanera, gonfaloniere, Giuseppe Falzacappa, anziano, Vincenzo Maneschi, anziano, il canonico Angelo Marzi deputato ecclesiastico, il preposto don Michele Bruschi, Francesco Bruschi, il conte Casimiro Falzacappa, il conte Lorenzo Soderini, Benedetto Mariani, Eugenio Lucidi, Francesco Angelo Marzoli, Giuseppe Ponzani, Federico Petrighi, Giuseppe Latini. In questa occasione Domenico Boccanera ancora una volta ripete come sia potuto accadere che il Mastelloni potesse giungere a tanto contro la sua persona con il beneplacito della legge: <<... vi è noto il dispiacevole avvenimento del 30 giugno, note del pari non saranno a voi tutti le circostanze che lo precedettero, e le pratiche da me usate per prevenirlo, gioverò che io prima vi spiegni che il Tribunale di Commercio della Dominante, dopo aver conosciuto fino all’evidenza che per fatto del famigerato Luigi Mastelloni andava su me a commettersi una truffa di mille e 40 scudi, rilasciò tuttavia a mio carico il mandato reale e personale... A porre in salvo però il mio interesse e la mia convenienza, dopo aver fatto i necessari passi al Trono Sovrano e al Ministro di Grazia e Giustizia, reclamai fin dal 16 del predetto giugno al Ministero dell’Interno, indicando il favore dei privilegi tuttora in osservanza a beneficio della Magistratura, perché non si permettesse il mio arresto personale. Non essendosi peraltro 53 54 quel Ministero degnato di onorarmi di alcuna risposta... tornai sotto il 23 del mese stesso a scrivere al Ministero dell’Interno * , osservando che, quantunque io non dubitassi dei miei privilegi, pur se il Ministro con una speciale disposizione non poteva o non credeva rendermi giustizia e farmi scudo con il suo potere contrro gli attentati degli empi, io avrei dimesso spontaneamente la mia qualifica per mettere in sicuro la mia persona; per non arrossire di una rappresentanza conferita dal Sovrano e resa il dilegio dei birbanti, per non farmi truffare la indicata somma, e per non rendermi infine responsabile dell’operato della Popolazione che non avrebbe veduto con indifferenza commettere una violenza qualunque contro il primario suo rappresentante... Il Ministero... per vie trasversali mi fece intendere che io non sarei mai stato in Corneto arrestato e che egli curava non solo la mia persona ma pur’anche il mio interesse. Dopo di ciò pareva impossibile che dovesse succedere l’avvenimento del 30 giugno. Ma la massiccia parte della popolazione ne fu spettatrice, e vide con i suoi propri occhi se un malfattore, un reo di stato, uno dei più barbari omicida venisse mai arrestato con più eclatanza, con maggiore pubblicità. Io non posso risovvenimmi senza la commozione più viva, la parte che ebbe l’intera città senza distinzione di sesso e di ceto in quel momento per liberarmi dalle mani di quei manigoldi, che senza le debite facoltà eseguivano una violenza tenendo mano a miei assassini... Per tornare però al principio del mio proposito, io debbo dirvi con sommo dolore che sono nella ferma deliberazione di emettere la mia rinuncia alla qualifica onorevole di che mi trovo insignito.... se si volesse osservare la legge e le disposizioni contenute nell’ultima circolare del Ministero approvata da ambo i consigli legislativi, gli autori, gli esecutori, e i complici del tentato arbitrario arresto avendo agito senza le debite facoltà dovevano essere immediatamente destituiti dai loro posti... Io non avrei voluto incomodarvi o Signori, né tediarvi con questo ragionamento, ma il mio core sentiva una ripugnanza troppo grande nell’emettere una rinuncia all’insaputa di voi che di tanta benevolenza mi onoraste, che di tanti lumi mi forniste nei pochi mesi della mia Amministrazione, di voi che io stimo ed amo sopra ogni credere...>>. Si sente in queste parole del Boccanera la delusione, la rabbia, la tristezza per quanto gli sta accadendo. Queste dimissioni sono veramente dolorose per lui che sente di non aver fatto nulla di male. Il Consiglio però non vuole tali dimissioni e questo è chiaramente espresso nel verbale della riunione, inviato alla Delegazione Apostolica di Civitavecchia, nel quale si precisa che: <<Tutti i sig.ri coadunati hanno unanimamente pregato il sig. Gonfaloniere a * Il Boccanera non sembra tener conto dei gravi contrasti sorti tra il Papa e Mamiani, contrasti che erano sfociati il 22 54 55 non emettere la sua rinuncia e portato sentimento che invece si spedisca una deputazione a Roma, perché presso il Ministero dell’Interno, presso quello di Grazia e Giustizia, presso quello di Polizia, presso i Consigli e al Trono Sovrano se occorre, esponga con gli antecedenti il fatto che ebbe luogo il 30 giugno, sostenga le ragioni della Città e Popolo e difenda la persona e la convenienza del lodato sig. Gonfaloniere, e implori una disposizione e delle misure energiche dal Governo per estirpare e punire gli autori di tali attentati che con le sostanze pongono a pericolo la vita e la libertà dei buoni. La deputazione è stata di viva voce acclamata nelle persone del sig. Conte Pietro Falzacappa e sig. Lorenzo Benedetti, e siccome il sig. Falzacappa non si trova presente all’adunanza è stato pregato il sig. Francesco Bruschi Falgari ad interporsi presso il medesimo per l’accettazione>>. Ecco, a questo punto si può ben capire per quale motivo Pietro Falzacappa abbia lasciato vari scritti in proposito (lo esigeva il compito che gli era stato affidato). E’ del 10 luglio lo scritto inviato al Ministro Galletti in cui viene puntualizzata <<... la pacifica e subordinata tranquillità che caratterizza gli abitanti>> della città di Corneto, <<intenti sempre alle occupazioni agrarie che formano l’unica risorsa del loro territorio>> e come <<... il comandante la tenenza di Civitavecchia mandò il suo maresciallo e due altri carabinieri nascostamente in Corneto che, sortiti all’improvviso tentarono l’arreso del Gonfaloniere... esponendo la forza pubblica a quelle conseguenze che potevano venire da un tumulto popolare se non fosse stato calmato da quel sig. Governatore che ordinò prudentemente alla forza carabiniera di desistere e di ritirarsi senza che possa lamentarsi di aver ricevuto il più piccolo oltraggio personale e se non fosse stato l’intervento della truppa civica che protesse i tre carabinieri e che con la sua influenza poté calmare l’effervescenza popolare>>. Tra le carte di Falzacappa si ritrovarono pure le copie delle memorie inviate al Mamiani (11 luglio) e al Ministro di Grazia e Giustizia, De Rossi (12 luglio) e una <<Risposta al Sig. Cristoforo Tuccimei sulla pretesa ribellione di Corneto lì 30 giugno 1848>>. E sì perchè nel mese di luglio a Roma (ma poi anche nella Provincie) era apparso un foglio stampato in cui era possibile leggere un Rapporto inviato alla Camera dei Deputati di Roma <<Sopra una ribellione di alquanta Civica e Popolo procurata in Corneto Delegazione di Civitavecchia a pregiudizio dell’interesse privato e della legge>>. Certamente chi doveva farsi un’idea di quanto era accaduto quel fatidico 30 giugno nella nostra città, leggendo solo quello che era scritto su quel rapporto avrebbe potuto veramente credere che ci fosse stata una vera e propria ribellione pericolosa per i tempi. giugno nelle dimissioni del Mamiani e di tutti gli altri ministri, che resteranno però in carica fino al 6 agosto. 55 56 Decisamente le cose venivano presentate in un modo molto diverso da quanto letto fino adesso. Esistendo presso l’Archivio della Stas una copia di questo manifesto, se ne possono rilevare direttamente i punti più esasperati: <<Il Cursore Carlo Sales di Civitavecchia accompagnato dalla Forza Carabiniera e testimoni della stessa città si recò in Corneto nel giorno 30 giugno p.p. per ivi procedere alla esecuzione reale e personale di due mandati, che per la somma di scudi 1040, oltre le spese, questo Eccellentissimo Tribunale di Commercio ha rilasciato contro Domenico Boccanera, Gonfaloniere in Corneto. All’intimo ricevuto o del pagamento o dell’arresto, procurò il debitore di schermirsi con addurre una strana ridicolissima pretesa d’immunità di persona, in opposizione ad ogni buon principio di libertà e di eguaglianza... A questo fatto trovavasi presente il solo Benedetto Mariani uomo che per provincia può dirsi ben ricco. Costui senza veste alcuna, a meno di quella della prepotenza e di una sfrontata fellonia, principiò ad ingiuriare nei modi più turpi Carabinieri e Cursore, ingiungendo loro o di rilasciare in libertà l’arrestato o diversamente avrebbe chiamato a sollevazione il Popolo per trucidarli. E così fu, ché gridando ed urlando alla sollevazione, fece adunare e Popolo e Civica; e questa, che stava nel vicino Quartiere, a suono di tamburo, imbrandite le armi, che non alla protezione dei delitti, ma a santi fini le furono consegnate, esimette dal potere del Cursore e carabinieri l’arrestato: sottrasse e rapì dalle mani del primo anche i mandati del Tribunale, e così astretto lo stesso Cursore ad una indispensabile fuga per salvarsi la vita, fu dopo poco arrestato, come precedentemente lo era stato uno dei testimonj gravemente ferito nella testa. Nel frattempo sopraggiunse il Governatore Locale sig. Antonio Adriani, ed è veramente inverecondo che costui piuttostoché porsi in mezzo per dissipare o raddolcire il tumulto, s’interessò nel fatto per maggiormente accenderlo, onde le ordinanze del Tribunale nel Sovrano Nome emanate piuttostoché rispettate venissero calpestate ed abiette. Con parole minacciose ad alta voce dirette imprudentemente nel bollor del tumulto ai Carabinieri. Esso animò ed incoraggiò quella gente baldanzosa a vieppiù infellonire, e così li Carabinieri stessi dovettero ritirarsi per non essere massacrati, ciocché il Mariani con premeditato consiglio aveva virilmente procurato... Né qui cessarono le scorrerie... un tal Vincenzo De Nicola, che niuna parte aveva nella esecuzione, fu aggredito da alcuni graduati Civici, i quali con una quantità di gente procuratasi nel disordine lo ricercavano da per tutto per trucidarlo; al qual fine furono anche prese le porte della Città, onde non potesse scampare dalla loro vendetta. Ma vano riuscito essendo ogni tentativo contro colui, che per esser Padre di numerosa famiglia dovette prudentemente ritirarsi emigrando dalla patria esule e ramingo, fu da quelli insorgenti malmenato e preso in ostaggio il di lui figlio di anni 17, recando così desolazione e scompiglio alla isolata madre e fratelli. E’ però un nulla il fin qui detto in paragone del 56 57 resto. Ammaestrati forseo coloro dagli ultimi recenti fatti di Napoli, sull’esempio dei Lazzaroni al saccheggio, invasero (ciocché davvero è orrendo) le case di ben onesti e tranquilli Cittadini non solo, ma pure le Chiese di Monache con la più nera esecrabile impudenza a mano armata... Dal rapporto dei Carabinieri sembra non esser dubbio che il Ministero stesso ha già ben fondati punti di appoggio per poter senza ulteriori indagini procedere speditamente e con tutta energia contro Benedetto Mariani, di cui maggiormente perché ricco deve assicurarsi come autore originario della sommossa, e perciò reo responsabile di tutte le conseguenze di Essa... Giova pertanto di stare in osservanza delle mosse Politico-Ministeriali, anche rispetto a quella parte di Civica insorta e alla illegalità dei seguiti arresti, nei quali si sappia che tuttora in segreta si ritiene strettamente il Cursore,.... Si spera poi che il Ministero non indugerà più oltre a prendere attivissimi temperamenti sia rapporto alle garanzie necessarie per la restituzione in patria dell’esule De Nicola, che ha diritto ad essere protetto dalla legge.... sia in rapporto ad una più energica e spedita misura dovuta sacrosantemente per la esecuzione dei mandati contro il Boccanera, e per l’integrità dei diritti del creditore, che non devono restare menomamente pregiudicati dalla criminosa violenza degl’insorgenti...>>. Sono accuse molto forti che mirano a mettere in cattiva luce non solo il Gonfaloniere, ma anche il Governatore, la Guardia Civica, Benedetto Mariani e la stessa Popolazione. Si rischia di far apparire la città di Corneto come una città ribelle all’autorità costituita, cosa molto pericolosa in quel periodo di confusione politica. Quando Pietro Falzacappa ha in mano questo scritto sente che è suo dovere <<contare l’accaduto, acciò in ogni epoca si conosca la verità nel vero suo nudo, affinché in ogni tempo resti e sia palese l’innocenza del Governatore, del Mariani, del Boccanera, dell’intero popolo cornetano e sua Civica tutti dipinti con neri colori ed epiteti ingiuriosi dal Cristofero Tuccimei>>. Ecco quindi la sua <<Risposta>> a questo foglio, nella quale ribatte punto per punto gli argomenti addotti contro i suoi concittadini. Comincia con il dire che <<tale scritto avea per oggetto mascherare, o stravisare un fatto accaduto in Corneto..., fatto che caratterizza la buona indole di quei cittadini a fronte di eccitamenti e provocazioni; fatto che seguì le vie del retto e del giusto, malgrado le esserzioni del leguleio sotto; fatto che pone nel suo vero aspetto la mansuetudine e la docilità di quella truppa Civica, e Popolazione, che ne dica in merito il sedicente interessato Cristoforo Tuccimei. Egli si studia in sul principio di quel libello esporre il successo senza indicarne i motivi che dettero luogo alla mossa; quindi o anteponendo o prosponendo a suo capriccio le cose accadute accusa il più vigile, ma insieme prudente Magistrato sig. Governatore Adriani, 57 58 incolpa di un moto naturale e provocato l’onesto cittadino sig. Benedetto Mariani, accusa un forte possidente quale sig. Boccanera quasi non potesse pagare la meschina somma di scudi 1040. Non ci vuole che un inverecondo Tuccimei cognito a tutta Roma non secondo davvero fra i mozzorecchi della Capitale, Tuccimei ben differente dai suoi illibati fratelli, a quali fa onta e vergogna, dispiacere e rancore>>. Passa quindi a delineare la figura di Luigi Mastelloni nel modo che già abbiamo visto e a precisare come sia stato tessuto l’inganno contro il Boccanera; <<... Si legò, dissi, il Mastelloni col francese ed il troppo noto Tuccimei, e questi producendo una delle cambiali, che aveva in buona fede sino da cinque anni indietro sottoscritto il Boccanera... e facendo di suo carattere una minutissima, impercettibile girata a favore del disperato Devenux sulla citata cambiale già pagata dall’accettante Boccanera, e giratario Graziosi, nel momento che spiravano i cinque anni si presenta con Notari e Testimoni per esigere scudi 1040, prima cambiale, in casa dell’onesto negoziante Caparozzi, agente del Boccanera.... Il Tribunale... sebbene persuaso della falsità dell’inchiesta, sebbene gustasse la testimonianza di calligrafi, che deponevano sulla recente girata.... sentenziò mandato reale e personale contro il Boccanera. Il preteso debitore si negò al pagamento nella certezza, che agitata la causa in Rota, e vinta... pagando era sicuro di non poter riscuotere, perché anche cercando il Mastelloni, come altre volte era successo, poco avrebbe influito sulla sua inonesta e cognitissima condotta, sopra l’uomo demoralizzato. Fu allora che il Mastelloni con il nome di Devenux, di nascosto si portò in Viterbo, ove per l’annuale fiera si conduceva il Boccanera, coll’oggetto di carcerarlo, ma il delicato Curiale Viterbese cui era appoggiata l’impresa e che conosceva quanto pesava il Mastelloni ed il Boccanera ne avvertì un onesto galantuomo acciò ne facesse inteso il Boccanera, che si voleva ad ogni costo sagrificare, o per meglio spogliare. In effetti l’avvertito Boccanera partì nella notte e deluse le spie (era nascosto in Viterbo il Mastelloni ed il De Nicola spiava ogni andamento del Boccanera), i Carabinieri, il preteso creditore... Il famelico Mastelloni, il quale altro non mirava che all’incasso di 1040 scudi, lungi dal fare esecuzione sui tanti beni stabili, sopra un ricco magazzino di grano, su tanto bestiame di cui è possessore il Boccanera, tentò la sorpresa, volle colmare la tazza dell’iniquità, commise l’attentato di cui sono a narrare la dolorosa istoria. Il giorno 30 giugno 1848 nascondendo Carabinieri forestieri e Cursore non cittadino, a pochi passi dal Quartiere Civico, sulla pubblica piazza sorprese il Boccanera, e tentò carcerarlo, mettendogli le mani addosso, minacciandolo di legarlo a fronte che Egli dicesse sono il Gonfaloniere, cui i satelliti del Mastelloni rispondevano (cosa falsissima) avere il permesso dal Delegato. Benedetto Mariani uomo ricco, onesto, tranquillo, ma insieme sensibile alle ingiurie dell’amico col quale parlava, colla sua naturale voce maschia e sonora, gridava: 58 59 pago io sul momento, faccio sicurtà, che bricconata è questa di legare il primo Magistrato, Civica accorrete a liberare il nostro Gonfaloniere. I tranquilli cittadini, la truppa Civica corse in folla a circuire il Cursore inonesto, li Carabinieri forestieri... sopraggiunse il Governatore, che ad evitare scandali di sommo rilievò intimò al Cursore, ai Carabinieri di desistere e liberare il già circondato Gonfaloniere e procurò quindi che i nominati Carabinieri fossero accompagnati dal sig. Eugenio Lucidi fuori la Città, né altro di rilevante o tristo accadesse. La popolazione allora furiosa si dette alla ricerca delle spie, dei testimoni, del Cursore. Ma questi sollecito evadendo dalla folla si nascose in Casa Valletti. Nella ricerca per tutta la città si trovò un solo testimonio, che volendo far forza e fuggire fu alquanto malmenato, ma non ferito, non contuso, non battuto, perché difeso da vari onesti cittadini e Civici e solo accompagnato fino al Quartiere con urti, fischi, contumelie. Qui ricevette tutti i soccorsi, che sa donare una popolazione indignata sì, ma onesta; furibonda contro il Cursore sì, ma ragionevole nel distinguere il testimonio dall’esecutore. E guai davvero se in quel momento di effervescenza si fosse trovato il Sales Corsore: ben difficile momento di effervescenza si fosse trovato il Sales Corsore: ben difficile sarebbe stato rispondere della sua vita, tanto era l’esaltamento dell’intera Popolazione. Lo sdegno allora si rivoltò a perseguitare il manutengolo, la spia, il complice di tanti e tanti delitti del Mastelloni; Vincenzo Di Nicola, riguardato da più anni dai più indifferenti per uomo cattivo, in odio alla popolazione intera. Egli però prevenne le indagini, si nascose in casa di un suo amico (che amici!!!) del consigliere del Mastelloni sig. Giovanni Bruschi e nella carrozza dello stesso Bruschi nella notte fuggì e raggiunse il collegato alle sue iniquità, Luigi Mastelloni. Ambedue si ripararono in Roma. Mentre in gran parte si era calmato tanto subuglio il Valletti nella di cui casa si era rifugiato e nascosto il Cursore, ne fece palese l’asilo, ma fu allora che alquanto sopita l’effervescenza popolare, da vari Civici preso in mezzo, il poco ravveduto Cursore si consegnò più per sua grazia che per altro nelle pubbliche carceri, accompagnato solo da una moltitudine con urli, fischi, schiamazzi, ove dimorò per otto giorni sino a tantoché fu tranquillamente scortato dalla pubblica forza in Civitavecchia. Non si fece perquisizione ulteriore in alcuni domicili, non s’insultò il figlio ben grande del De Nicola, come falsamente asserisce lo scritto contrario, ma quel figlio, che vedea nel pubblico, scappò, accompagnato da un onesto cittadino, e solo fu riportato a casa con preghiera che non sortisse, e così non compromettesse una tranquilla ma indignata popolazione. Falso che si tentassero visite domiciliari, falso che si eccitasse al tumulto, al saccheggio la troppo morigerata popolazione, falso che i monasteri fossero aggrediti o semplicemente avvicinati, minacciati come si asserisce nella contraria legenda dal più che cognito Tuccimei. 59 60 Sono queste favole della sua malvagità.... Che sia irregolare e troppo precipitosa, per non dire ingiusta la sentenza del Tribunale di Commercio lo prova la sospensione di ogni atto pronunciato dalla S. Rota con sentenza del 24 giugno 1848 coram Quaglia ed accordante al Boccanera di far deposito di scudi 1040 dietro idonea sicurtà, lo prova il richiamare a sè tutti gli atti per farne disposizione e giudizio sul merito nel futuro dicembre o gennaio; lo prova il solo riflesso di non esigere una cambiale nel luogo corso di anni cinque (caso del tutto nuovo): al che il diligente Boccanera subito si è prestato per stare in ogni evento dalla parte della ragione ed a tramite del giusto. Che i Gonfalonieri godino di questa personale esenzione basta leggere i privilegi notati dal Devecchis fino dal 1724, privilegi che mai sono stati revocati... Vituperio, infamia a chi ha meditato, in oltraggio della gratitudine, amicizia, compassione quest’atto illegale, inverecondo da fare epoca nei fasi di Corneto>>. Ed i fatti, come si può notare, questo <<atto inverecondo>> è rimasto nella storia minore del tempo. Comunque mentre a Corneto si vivevano questi giorni così agitati anche nello Stato della Chiesa la vita non si presentava affatto tranquilla. I contrasti tra il Mamiani e Pio IX erano diventati sempre più aspri, secondo i fautori del papa perché il Ministro <<s’accostava più ai demagoghi che al pontefice, il quale, secondo il Mamiani, doveva astenersi affatto dagli affari temporali perr attendere unicamente a pregare, a benedire e a perdonare>>. Quindi la situazione giunge ad un punto tale che, il 6 agosto Pio IX, dopo aver accettato le riconfermate dimissioni del Mamiani, nomima Ministro dell’Interno il Conte Edoardo Fabbri, un liberale assai moderato. Il 6 agosto però è anche la data in cui una lettera inviata dal Delegato Apostolico al Gonfaloniere getta quest’ultimo in una grave agitazione. Infatti il Delegato scriveva: <<Ill.mo Signore, ritorna costà quel Vincenzo De Nicola implicato nel noto malaugurato avvenimento di costà. Egli confida di trovarvi la personale sicurezza, né io potrei aspettarmi il contrario dal buon senso di codesta popolazione; ma siccome il Ministro di Polizia mi fa speciali premure per vegliare su lui, io non saprei a chi meglio che a V.S. Ill.ma raccomandarlo, perché colla sua influenza possa all’occasione distogliere chiunque da inopportuni progetti. Ne scrivo in proposito anche al sig. Governatore e gl’ingiungo di affidarlo ancora all’onore della Guardia Civica perché rimuova il caso di qualunque possibile reazione...>> In sostanza quindi si chiedeva al Boccanera di essere oltremodo generoso, facendolo addirittura <<difensore>> di uno dei suoi persecutori. Non sembra però dalla risposta del Gonfaloniere, scritta il 7 agosto, che sia proprio questo il suo stato d’animo. <<Eccellenza 60 61 Reverendissima, resto inteso dal ritorno di Vincenzo Di Nicola. Il timore di quest’uomo dovrebbe essere posto in quella pessima coscienza che l’indusse a fuggirre senza minacce senza offese: comunque sia però io non potrei menomamente occuparmi di lui, perché dai miei stessi buoni uffici si troverebbe argomento in sinistro anche per una occhiata non confacente a suoi desideri. Inoltre l’E.V.R. ben vede quale influenza potrebbero avere le parole di un Gonfaloniere che dal Ministro di Polizia non fu onorato di quella tutela che non si nega a un Vincenzo Di Nicola!! Ormai non è più del mio decoro il rimanere anche per poco in una carica di tante umiliazioni: la mia causa mi chiama a momenti a Roma; in questa occasione umilierò ai piedi del Pontefice la mia rinuncia, esporrò nel vero aspetto i fatti che le hanno imposte per ottenere da lui quella giustizia che tuttora non si rende a una città e ad un popolo altamente offesi nella persona del loro primario rappresentante...>> Per tutta risposta dal Segretario Generale della Delegazione Apostolica di Civitavecchia giunge qualche giorno dopo al Gonfaloniere questa comunicazione del Delegato: <<Per ordine del Superiore Governo i sigri Raffaele Archiluzzi processante, e Raffaele Aviani attuario si recano costà all’oggetto di compiere la procedura loro commessa per li noti avvenimenti nell’accusa del Cursore Sales. Ne prevengo la S.V. Ill.ma perché a termini delle vigenti disposizioni siano i sigg. Archiluzzi ed Aviani forniti di conveniente alloggio a spese del Comune per tutto il tempo che si tratterranno in codesta città all’effetto indicato>>. Questo ci fa capire che le indagini proseguivano per appurare quanto realmente era successo. Intanto però chi aveva pagato per primo tra coloro che erano intervenuti a difesa del <<primario rappresentante>> era stato il Governatore Antonio Adriani che era stato sospeso dal suo incarico. Le cose poi sembrano non mettersi molto bene per i <<compromessi>>. Per questo motivo il 10 agosto viene dato un delicato compito al conte Francesco Soderini, agli avvocati Giuseppe De Sanctis e Federico Galeotti, e al canonico D. Domenico Sensi. Ecco come viene comunicato l’incarico al conte Soderini da Domenico Boccanera: <<Non ostante che l’avvenimento del 30 giugno passato sia stato riconosciuto a carico dei Carabinieri e Cursore come attentato illegale e punibile, non ostante che dal Ministero dell’Interno si promettesse al sig. Pietro Falzacappa e Lorenzo Benedetti, deputati di questo Municipio, che la città di Corneto avrebbe ottenuto la debita soddisfazione per tanta ingiuria commessa contro la persona del suo primo rappresentante, i fatti dimostrano che la responsabilità va tutta a riversarsi sopra onesti e pacifici cittadini che seppero in mezzo al tumulto salvare la vita agli Esecutori dell’iniquo attentato e mantenere mirabilmente nel popolo l’ordine e la moderazione. Difatti l’incarto processuale prosegue contro tutte le regole in Civitavecchia, là si chiamano tutte le persone 61 62 di cattiva fama interessate o attinenti cogli autori dell’attentato e si procede ad atti punitivi senza prima sentirne la difesa contro il sig. Governatore che già si trova chiamato in quella città, sospeso nelle funzioni del proprio ufficio. Queste misure indispongono sempre più una popolazione comunque d’indole tranquilla... il Municipio in questo giorno stabiliva che una nuova deputazione di persone probe e colte si rechi ai piedi del Pontefice, ed esposte le ragioni che militano in favore della stessa città, implori ed ottenga da lui quella giustizia che con tanta ingiuria fin qui nelle vie ordinarie le si nega. L’unanime voto per una così importante missione è caduto sulla persona degnissima di Vostra Ecc.nza insieme a quella del Rev.mo sig. canonico D. Domenico Sensi e sig.ri avvocati De Sanctis e Federico Galeotti...>> Da questo momento accanto alle vicende del Boccanera ecco che si inseriscono quelle riguardanrti la sorte del Governatore Antonio Adriani che certamente non deve trovarsi molto bene oltre che moralmente anche economicamente, almeno da quanto scrive da Roma al Gonfaloniere in data 7 ottobre 1848. <<Per mezzo di cotesto sig. Pasquale Tripolo (?) ho saputo che la S.V. Ill.ma con intelligenza della intera Magistratura ha fatto trarre a mio pro un ordine di scudi venti. Io ritengo ciò come oggetto di somma sua generosità non che della sullodata Magistratura, e rendo tanto a Lei che alla medesima Magistratura azioni di viva grazia. Come saprà si vuole che la nota pendenza sia decisa dal tribunale di Civitavecchia. Ciò sarebbe poco male se avvenisse sollecitamente ma sembra voglia protrarsi a lungo. Perciò la prego di interessarsi presso il sig. Presidente affinché la disbrighi, non potendo io medesimo in questa critica situazione...>> Ancora il 9 ottobre torna a ripetere come sia importante che la causa si discuta al più presto e come sia grato <<per la nobile e generosa oblazione fattemi in soccorso dei presenti miei penosi bisogni...>>. Le risposte del Boccanera sono sempre improntate a sentimenti di stima e di rispetto per l’Adriani e c’è sempre espressa l’assicurazione che tutti faranno il possibile per farlo riabilitare. Una cura particolare è anche messa nel rassicurare il padre dell’Adriani che nulla, in quello che ha fatto il figlio, è da ritenersi disdicevole o poco onorevole. Intanto, a Roma, va avanti la causa di Domenico Boccanera, sono giorni di grande perché, anche se tutto lascia prevedere che finalmente sarà fatta giustizia, il dubbio permane fino alla fine. Finalmente nel mese di novembre si giunge ad un verdetto definitivo a favore del Gonfaloniere. Tutti tirano un sospiro di sollievo e addirittura viene fatta in onore di quest’ultimo una pubblica festa con luminarie, banda ed altro. Boccanera fa appena in tempo a vedere conclusa la sua causa che a Roma accade un atto ben più grave di quello al quale era stato sottoposto lui: viene ucciso infatti il 15 novembre il Ministro Pellegrino Rossi che aveva sostituito nel mese di settembre il conte Fabbri. 62 63 L’uccisione di Rossi aveva determinato una paralisi nell’attività governativa e i ministri avevano presentato le loro dimissioni al Papa. Certamente in quei frangenti non si pensava alle cause pendenti, ma a salvare la propria vita dalle dimostrazioni violente scoppiate nella città dove a detta di alcuni <<tripudiava l’anarchia>>. Il 24 novembre poi il Pontefice, fuggito da Roma vestito da semplice prete, si era rifugiato a Gaeta. Una volta tanto in questa ingarbugliata vicenda cornetana, il Boccanera aveva avuto la fortuna dalla sua parte. L’Adriani invece per essere inserito nel suo posto dovrà aspettare ancora un anno, infatti la sua riabilitazione avverrà nel novembre del 1849. Dopo cinque mesi quindi si chiude questa parentesi burrascosa per la maggior parte degli interessati. Corneto tira un sospiro di sollievo ma sarà qualcosa di molto breve perché negli ultimi mesi del 1848 e nel 1849 la sua vita sarà nuovamente sconvolta questa volta da vicende politiche. Ma questa è un’altra storia. Lilia Grazia Tiberi Fonti Stas -Archivio Falzacappa - 1848 Carte concernenti la pretesa Rivoluzione di Corneto Stas -Archivio Falzacappa - P. Falzacappa: “Cronica Cornetana” Archivio Storico Comunale - Titolo XIV, fac. 10, anno 1848 Archivio Storico Comunale - Titolo IX, fac. 2, anno 1848 Archivio Storico Comunale - Titolo IX, fac. 2, anno 1849 Carlo Castiglioni - Storia dei Papi - U.T.E.T. David Silvagni - La corte Pontificia e la società romana ed. Biblioteca di Storia Patria Franco Migliori - Roma nel 1848-49 - Le fonti della Storia ed. La Nuova Italia 63 64 S. FRANCESCO DI TARQUINIA NEL SECOLO XVII Sarebbe interessante potere sviluppare tutto il materiale di archivio da me rinvenuto su S. Francesco di Tarquinia e riguardante i secoli passati. Mi limiterò per ora a presentare quello del secolo XVII, perché quasi sconosciuto e di un certo valore per la chiesa, il nuovo caratteristico campanile e le relazioni religiose e sociali dei frati del convento. Per questo mi soffermerò solo su alcuni punti principali: la chiesa, il campanile, il convento, i frati, i predicatori dell’avvento e della quaresima. Il convento di S. Francesco in questo periodo è ancora al centro della politica cittadina, perché come nei secoli immediatamente precedenti vi si conservava il bussolo per eleggervi i pubblici amministratori della città. Questo avveniva, con un rituale ormai stereotipato, ogni due mesi per il gonfaloniere, il console ed il capitano. Essi si recavano nella chiesa di S. Francesco, ascoltavano la messa e subito dopo il baiulo prendeva la tipica cassetta e la portava nella sala dei rettori dove venivano estratti gli ufficiali ricordati. Nel 64 65 consiglio di S. Lucia (il 13 dicembre) venivano scelti tutti i consiglieri. Finita la cerimonia, il P. guardiano di S. Francesco riprendeva in consegna la cassetta 1) . La chiesa di S. Francesco La monumentale chiesa di S. Francesco all’inizio di questo secolo si presenta quasi intatta nel suo stile romanico-gotico del 1300. Essa ha tre navate con volte a crociera poggianti su pilastri solidi ed eleganti in macco, la tipica pietra locale. Le navate terminano con absidi proporzionate. Le attraversa un transetto slanciato che forma con esse la croce latina. Le sue nervature sorreggono il tetto visibile, diviso da travi in legno. Sulla navata destra si approfondiscono cinque cappelle con relativi altari. In quella sinistra invece ci sono alcuni altari poggiati alla parete. Per un motivo che si potrebbe dire occasionale, l’abside centrale veniva spogliata dell’antico altare e la sua bifora, che la univa al coro retrostante, veniva chiusa. Infatti il 23/3/1587 moriva a Corneto nel palazzo Vitelleschi il cardinale di Rambouillet Carlo d’Angennes (1530-1587) vescovo di Le Mans e governatore locale. Sorgeva il problema della sua sepoltura nella cattedrale S. Margherita o a S. Marco degli Agostiniani, perché egli aveva disposto nel suo testamento di volere essere sepolto nella chiesa più vicina. La questione non era oziosa, perché vi era in gioco un vistoso legato di mille scudi. In attesa di una decisione definitiva, egli fu sepolto nella chiesa di S. Francesco. Sisto V col motu proprio <<Romanus Pontifex>> del 18/1/1859 disponeva che il corpo del cardinale dovesse restare sepolto in S. Francesco ed il legato fosse diviso equamente tra la cattedrale ed il convento con l’obbligo di celebrare annualmente ciascuno un funerale solenne 2) . I nipoti del cardinale Cristoforo di Rantigni ed il protonotario apostolico Claudio Lupi ereditarono 80.000 scudi d’oro e promisero di fargli costruire un monumento e di rimettere in ordine la cappella con la spesa di 1.000 scudi. Essi ottennero il permesso per demolire l’antico altare il 25/3/1591, ma non si decidevano mai a realizzare l’opera su disegno dell’architetto Ottavio Mascarini. Questo causava malcontento tra i religiosi che vedevano la manomissione della chiesa e se ne lamentavano presso le autorità civili che intervennero presso gli eredi con i loro agenti, senza concludere nulla fino al 2 dicembre 1597 3) . 1) Elezione degli ufficiali 20/3/1605, 20/3/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 59-59v, 125; Elezione degli ufficiali 20/9 e 19/12/1615 Reformationes 1612-1621 ff. 141 v, 150-150 v ASCT; Gli statuti della città di Corneto a cura di Massimo Ruspantini (Tarquinia 1982) 79-96. 2) Annales Minorum a cura di P. Stanislao Melchiorri da Cerreto 22 (Quaracchi 1934) 553-554. 3) Sono molte le lettere che riguardano l’argomento: A Caludio Lupi 2/10/1951, 5/1/1594, a Teofilo Scauri procuratore a Roma (senza data, ma non oltre il 9/3/1593), a Nicolò Benigni agente a Roma 5/1 e 10/2/1594, 3/3/1595 e 8/2/1596 65 66 L’abside rimane certamente in disordine fino al 25/10/1599, quando in pubblico consiglio Muzio Vipereschi propose che fosse restaurata. Probabilmente si deve a questa trasformazione della cappella principale l’intervento dello scalpellino Pietro Tortora o Tortola e i frati, per farsi approvare dal comune la spesa o il lavoro il 9/10/1600 e la consultazione dei periti del comune il muratore Alessandro Bartolani e lo scalpellino Filippo da Viterbo. Sulle loro stime molto differenti veniva richiesto un terzo stimatore. Credo che in questo periodo si debba inserire la richiesta di intervento urgante per il chiostro e la chiesa: <<Il convento di S. Francesco ha gran necessità di riattamento, e particolarmente il Claustro et la chiesa, quali senza dubbio veranno a terra si non li si porgerà l’opportuna provisione et agiuto>>. Il 21/7/1603 il consigliere Vincenzo Panzani propone ai Priori di <<fare vedere dalli periti la spesa che può andare ritrovare al convento et Chiesa loro, et visa che sara et messo in conto quello che si doveva espendere che li detti Revdi Padri potranno ottenere licentia dalli ss. Superiori>>. Anche il coro della chiesa mostra delle deficenze e ne parla in pubblico consiglio Marco Antonio Vitelleschi il 19/10/1603. Nel 1603 vi dovette essere un lavoro consistente nella sistemazione dell’enorme tetto della chiesa, se il cardinale Scipione Borghese il 28 giugno permise di spendere 295 scudi e 44 baiocchi e saldati l’8/5/1609: <<Al risarcimento di incontro scudi duecentonovantacinque e quaratantaquattro baiocchi per tanti spesi legnami, chiodi, Fatture di Legnami, fatture di muratori con distintamente si vede nel memoriale fattomi dalla Comunità sotto il di otto di maggio 1609 che fu saldato con muratori, e falegnami e con tutti>> 4) . Nel consiglio del 13/12/1625 vi è certamente un problema di interesse per il convento e la chiesa perché viene richiesta la consulenza di 4 uomini o questo si riferisce alla richiesta più chiara dell’anno successivo del P. guardiano Stefano da Sarzana per la pessima condizione del nuovo campanile e la mancanza di un pulpito nella chiesa, di particolare interesse per un predicatore come lui. Sia il 24/10/1627 che 12 e 26/3.1628 Registro lettere 1587-1596 ff. 129 v, 166v-167, 189, 189 v, 190, 192v-193, 195v v, 246, 276; Lettera a Nicolò Benigni agente a Roma 2/12/1597, Lettera a Giuseppe Valente agente a Roma 8/7/1602 Registro lettere 1596-1603 ff. 22 v, 162; Lettera al cardinale di S. Marcello (senza data, ma tra 6/7/1604) Registro lettere 1603-1613 f.29; Decreto per l’altare maggiore di S. Francesco 25/3/1591 Libri dei decreti 1560-1692 f. 77 ASCT; Epigrafe del monumento al cardinale di Rabouillet nella chiesa di S. Francesco. 4) Consiglio 25/10/1599 Reformationes 1599 ff.2-2 v; Consigli 23/7 e 9/10/1600, 21/7 e 19/10/1603 Reformationes 1600-1604 ff. 34v, 35v, 41v, 42v, 233,233v-234,241,241v; Consiglio 23/3/1608 Reformationes 1607-1910 ff.27v,28v; Lettera al cardinale Borghese 8/6/1608, Lettera a Domenico Chellio agente in Roma 8/6/1608 Registro lettere 16031613 ff. 1254; Speculi 1608-1610 f. 55 ASCT. 66 67 venngono spesi 10 scudi per il riordinamento della chiesa. Così succede il 27/7/1629 5) . Questo credo che rientrasse nella manutenzione ordinaria. Ma in condizioni straordinarie dovevano mutare. Come avvenne il 26/10/1636 quando una tromba d’aria aveva recato gravi danni nella città e particolarmente in S. Francesco che è ubicato nel punto più alto di essa. Ne parlò in pubblico consiglio Antimo Cesarei 6) . Pur con tutti questi interventi qualche cosa non funzionò, perché nella seconda metà del 1600 la chiesa deperì così tanto che crollarono due colonne della navata centrale per lo stillicidio della pioggia. Esse portarono con sé una buona parte delle antiche crociere della navata centrale e di quella di destra. Questo è ancora visibile perché i pilastri ricostruiti mostrano un materiale di recupero molto diverso dagli altri antichi, che furono ricoperti di malta rendendoli pesanti e barocchi. Le volte invece furono ricostruite a vela, senza la chiave di volta e senza nervature. Chi ebbe sentore che qualche cosa di grosso si stava maturando nella chiesa di S. Francesco fu il P. Giacomo da Pisticci che vi era stato come frate semplice nel 1652, come vicario nel 1653, come guardiano mel 1666-1667, nel 1674 e 1678. Forse proprio questa frequenza gli permise di osservare le cose con più acume, anche se egli non riuscì a prevenire tutti i guai futuri della chiesa. Egli morì in Aracoeli il 21/7/1682. Sull’argomento il suo pensiero è molto chiaro e lo espose al consiglio comunale nel 1674 così: <<Fra Giacomo da Pisticci dell’Ordine dei Minori Osservanti et al presente guardiano del convento S. Francesco di questa città di Corneto e PP.FF. devotissimo oratore delle SS. Loro illustrissime l’espongo la ruina che minacciano li sei colonne in detta chiesa, che cascando (quod absit) o resterebbe non si farsi mai, o vero apporterebbe grandissima spesa, che per rimediare al presente sarà facile, et havendo conosciuto l’animi delle SS. Loro Illme, e la devozione verso detto convento similmente scoprino le forze deboli non sendo oggi questa città in quel posto e comodità di prima e per facilitare detta impresa et animare le loro devotioni e sovvenirli li fanno intendere, che in Roma si trovano scudi 400 di quattro luoghi di monti estratti da sedici anni o diciotto incirca, et anco scudi 10 da rivestirsi, li supplicano ne vogliano parlare in consiglio, et havere il loro consenso acciò si possa mandare a Roma in S. Congregazione affinché si degni fare la gratia d’applicarsi a detta fabbrica>>. Infatti nel 1674 il problema fu portato in consiglio comunale, come si può rilevare: <<Sopra il memoriale de Padri Minori Osservanti è mio parere che per remediare alla ruina, che minaccia quella chiesa, per remediare alla ruina che sovrasta che gli si dia 5) Consigli 13/12/1625 e 12 e 26/3/1628, 27/7/1629 Reformationes 1623-1630 ff. 106 v, 107 v, 128, 174, 175, 211-212; Memoriale dei frati di S. Francesco 16/4/1626 Registro lettere 1618-1620 f.118; Speculi 1625-1629 ff. 62 v, 82 ASCT. 6) Consiglio 26/10/1636 Reformationes 1631-1637 ff. 249v, 251-251v. 67 68 ogni assistenza e consenso necessario per esigere gli scudi 400 di quattro luoghi de monti estratti et applicarvi li scudi 50 che stanno infruttuosi e che si convertino però nell’uso della riattazione e del riparare della chiesa et a questo effetto il signor Capitano Vittorio Benenghi e il signor Giovanni Casimiro (?) Scacchia habbiano facoltà di assistere a tutti quegli atti che saranno necessari in nome del pubblico per detta esigenza et (costruzione?) e che realmente siano li denari convertiti nell’uso destinato e si cautelino>>. Vi si nota una completa disposizione alla collaborazione tra i frati ed il comune per gli impegni fondamentali. Ciò non di meno nel 1691 caddero due pilastri della chiesa con grave danno della medesima 7) . In forma velata ne parla il predicatore P. Leopoldo da Mondanio nella sua richiesta di predicazione della quaresima del 1694. Egli è uno dei testimoni del fatto, come si esprime: <<et conforme ha procurato servire (lui stesso) mentre è stato qua Predicatore annuale, benché non habbia potuto effettuare per la disgratia occursa della sua chiesa>>. Più chiaramente ne parlò il consigliere comunale D. Agapito Bruschi il 13/12/1750: <<Sopra la domanda fatta dalli Padri Minori Osservanti per una Congrua Elemosina per risarcire li tetti della Chiesa, ed in specie per riparare lo scolo del tetto maggiore della navata di mezzo, nel quale contempla di farci una soda restaurazione, mentre io ben mi ricordo che fin dell’anno 1691 e ne portò grave danno detta Chiesa, che caddero due colonne per lo stillicidio dell’acqua di detta navata>> 8) . Certamente tra il 1691 e 1750 la chiesa completò la sua barocchizzazione. Nelle cappelle invece questo lavoro era avvenuto già prima. Basta osservare quella Falzacappa, ereditata da Domenica Cardini nata nel 1635 da Arcangelo Cardini e Chiara Parma e sposa di Francesco Falzacappa. La cappella trasformata in barocco da Arcangelo Cardini (+1642) di cui porta lo stemma, conserva ancora l’arco acuto originale e la sovrapposizione dell’arco a tutto sesto con gli stucchi stile rococò. Nelle altre invece si notano soltanto alcuni resti degli archi acuti. L’organo 7) Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 f.42 AVT; Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte sparse secolo XVII a. 1653; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per la chiesa pericolante e consiglio comunale del 1674 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1674 ff. 152, 407; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per l’uliveto vicino alla chiesa della Trinità e per la precedenza nella processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 397,398 v; Lettera al Provinciale (23/8/1674?) Registro lettere 1622-1677 (fascicolo allegato); Lettera del P. Vincenzo da Bassiano 28/4/1683, consiglio 26/5/1683 reformationes 1680-1689 ff. 185,189, 192; Lettera ai conservatori 22/5/1683 Carte sparse secolo XVIIa. 1683 ASCT; Questione con i Serviti 16/11/1666-29/1/1667 ASFT. 8) Lettera del P. Giovanni Francesco da Caprarole dicembre 1778 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 396,399; Lettera del P. Leopoldo da Mondanio Reformationes 1696-1701 ff. 10, 17; Consiglio 13/12/1750 Reformationes 1745-1755 ff. 135, 136v ASCT. 68 69 Nella parte terminale del transetto, sulla sinistra, vi era un antico organo a canne a cui si accedeva dal vecchio campanile. Esso aveva un palco per il suonatore ed i cantori. Fu tolto nei restauri del 1956 ed al suo posto si notano dei residui di antiche pitture. Nei secoli passati esso dette qualche preoccupazione per i restauri e per l’organista che doveva essere pagato. Già nel secolo precedente era stato posto il problema di pagare il frate organista. Si pose il problema nel consiglio del 3/9/1599 alla presenza del gonfaloniere Rigoglio, del capitano Rebechini e del console Tiberio Rossi, ma non riuscendo a concludere, fu rimandato ad altro consiglio per chiedere il permesso alla Congregazione del Buon Governo. Il testo di difficile lettura, lacunoso e quasi incomprensibile anche dopo il restauro, fa capire che il problema c’era. Facilmente giunsero a qualche conclusione perché il 25/7/1600 furono pagati 12 scudi all’organista di S. Francesco Paolo Parmigiano. Forse i frati desideravano un organista stabile, perciò si rivolsero al comune per ottenere 30 scudi assegnati dalla Congregazione del Buon Governo, cioè da Roma, il 2/9/1602. Il 5/6/1604 il cardinale di S. Marcello e vescovo di Corneto e Montefiascone Paolo Emilio Zacchia (1601-1605) dette il suo consenso 9) . Nel 1605 Marzia Gubernali nel suo testamento, rogato dal notaio capitolino Ottaviani, lasciava un legato perché fossero pagati 36 scudi all’organista di S. Francesco, purché suonasse l’organo. Allora il comune decise di devolvere 36 scudi all’organista della cattedrale S. Margherita che doveva essere un conventuale o agostiniano. L’unico organista conosciuto è il conventuale P. Ludovico da Bagnoregio 10) . Per S. Francesco provvedevano gli eredi della signora Gubernali cioè i fratelli Callimaci che in un primo tempo dovettero essere puntuali a pagare ogni novembre, successivamente invece qualche volta si fecero desiderare. I Padri guardiani di S. Francesco lo ricordavano loro ed essi rispondevano ai vari problemi da Roma. Conosciamo così che i beni della Gubernali venivano affittati dai fratelli Callimaci ed altre persone e dal ricavato veniva pagato l’organista. Il 22/6/1652 l’affittuario era Pasquale Benedetti, il guardiano di S. Francesco P. Vincenzo da Napoli ed il debitore era Paolo Callimaci. 9) Consiglio 9/3/1599 Reformationes 1599 ff. 33,34; Speculi 1600-1601 f. 10 ASCT; Lettera del guardiano di S. Francesco e risposta della congregazione del buon governo 5/6/1604 ASFT. Interessante è la ricerca e studio di Pietro Falzacappa sulla donaazione fatta da Marzia Gubernali per l’organo di francesco nel 1605, ma è incompleta ed errata perché i suoi eredi fecero amministrare i beni ereditati a questo scopo e la quota affidata dal comune all’organista fu trasferita all’organista agostiniano o conventuale di S. Margherita. Pietro Falzacappa, Memorie di Corneto, S. Francesco convento dei Minori Osservanti fasc.lO AF Ff. 13 presso STAS. 10) Consiglio 15/1/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 115-115v; Organista agostiniano o conventuale per la cattedrale S. Margherita 8/5/1613 Reformationes 1612-1621 f.55; Consiglio 27/7/1629 Reformationes 1623-130 ff.221-222 ASCT; Pietro Falzacappa, Memorie di Corneto, S. Francesco, Memorie di Corneto, S. Francesco convento dei Minori Osservanti fasc.lO AF F13 presso STAS. 69 70 Lo stesso Paolo il 20/5/1654 indicava al P. guardiano l’affittuario Domenico di Martino Pizzicarolo ed 25/8/1655 Paolo faceva sapere al P. guardiano Giovanni Andrea da Roma che nei due anni precedenti li aveva un certo Flaminio ed il debitore non era stato più soddisfatto perché il guardiano precedente non lo aveva richiesto. Il 12/1/1658 l’affittuario era Cesare Benedetti che aveva versato 90 scudi a Consalvo Consalvi. Il 4/2/1660 Giovanni Francesco Gallimaci faceva sapere al P. guardiano di S. Francesco di essere disposto ad accettare la proposta di Francesco Falgari, procuratore o sindaco apostolico dei frati, di arrivare a 700 scudi da impiegare in beni immobili come <<la grande casa>> (non sappiamo quale) ed applicare il fruttato di 20 scudi per l’organista. Vi si nota una riduzione della quota dovuta forse alla svalutazione che doveva incidere anche allora. Forse per questo motivo i Frati nel 1726 erano disposti a rinunziare ai legati onerosi, compreso questo, passandoli al comune attraverso i monti di pietà. Essi desideravano però che fossero salvaguardate alcune loro necessità: 40 scudi per il vestito, 25 scudi per il medico della loro infermeria di Viterbo, e 15 scudi per l’olio delle lampade. Benedetto XIII col motu proprio del 4/6/1727 <<Cum sicut accepimus>> riordinò tali legati. In S. Francesco dovettero esserci molti organisti nominati dai Frati, altrimenti non ricevevano la quota. Ci restano tuttavia sconosciuti. Gli unici ricordati sono Paolo Parmigiano e P. Antonio da Roma ivi presente nel 1698 e morto a Viterbo il 30/10/1720 11) . Il campanile e le campane L’antica torre campanaria della chiesa di S. Francesco ricordata dal motu proprio di Pio V <<Cum Camera Apostolica>> del 21/2/1752 sembrerebbe ubicata tra la chiesa e la costruzione dei magazzini dell’annona, cioè nella rampata di scale che ora dall’inizio del convento salgano al piano superiore. Forse essa era un tipico campanile a vela come era in uso presso gli antichi conventi francescani. Dopo questa data i Frati dovettero provvedersi di una nuova torre campanaria ubicabile vicino alla cappella del SS. Crocifisso, secondo P. Romanelli. Questo corrisponde al vero perché vi è una stanza con ingresso dalla rampa di scale che dalla chiesa salgono al convento. Essa ora è buia e nella volta si notano tre buchi paralleli che certamente indicano i fori dove passavano le corde delle campane. Fino a quando vi era l’organo antico vi si accedeva alla cantoria. Nel piano superiore è restata una finestrella rettangolare verso il chiostro che a prima vista sembrerebbe inutile, invece serve 11) Lettere al P. guardiano di S. Francesco (alcune sono anonime altre con nome) 22/6/1652, 20/51654, 25/8/1655, 12/1/1658, 4/2/1660, Lettera del P. guardiano al comune (senza data, ma è del 1726), Motu proprio di Benedetto XIII “Cum sicut accepimus” 14/6/1727 (copia) ASFT; Famiglie 1683-1733 f. 253 v APA. 70 71 a dare luce alla soffitta della chiesa sopra la cappella del Crocifisso. Osservando bene l’interno ci si accorge che qui era la parte superiore del campanile della fine 1500 inizi 1600. Vi manca solo la parete sopra la cappella del Crocifisso. Doveva essere una torre campanaria ordinaria, cioè senza troppe pretese, e diciamo rimediata. Questo credo dovette essere il motivo della sua fatiscenza e del doverla sostituire presto col nuovo grandioso campanile in stile composito del 1612. I problemi sorsero proprio all’inizio del secolo perché era necessario fare trapanare una campana il 23/7/1600 ed accomodare o dare una sistemazione alle altre, il 19/2/1606, infatti si dice: <<Li Magnifici Priori insieme al signor Commissario li doi Advocati, et doi sindici vadino al monistero, et vedino et faccino vedere il bisogno che hann dette campane et la spesa che si può andare da doi periti, et conosciuto necessario, che s’accordino, che la Comunità debba fare tutta la spesa conveniente con licenza però della sacra Congregazione de bono regimine>>. Essi fecero esaminare il problema e ne dedussero che occorrevano <<scudi 105 cioè 70 per li multalizi et 35 per li cippi delle campane, et altro legname>>, come scrissero il 21/11/1606 al cardinale Scipione Borghese (1576-1633). Si trattò quindi di un tetto in pieno disordine. Era guardiano del convento P. Dionisio da Roma che era molto stimato dalla gente del luogo, tanto che gli amministratori il 28/4/1607 inviarono una lettera al ministro provinciale P. Bernardino da Modena (1605-1608) dicendo: <<Il P. fra Dionisio in doi anni et ha governato questo nostro monastero di S. Francesco, diportato tanto bene et ha dato tanta sodisfatione al publico, et stimato si nella vita assimplare et buoni costumi suoi, et tutta la famiglia ornata, come anco il culto divino con dire officiarie la chiesa provista di confessori et accrescendo devotione, che ci siamo mossi con la gratia di tutto ciò fosse fide et testimonianza a V.P.R. per mezzo di che si bene conosciamo che egli non havere punto bisogno di havere raccomandationi non di meno per non mancare al debito nostro raccomando così le sue buone qualità, et obligo che habbiamo alli molti meriti di detto Padre lo raccomandamo rettamente alla P.V.R. facendola sicura d’ogni fattore si degna farle sarà collocato in persona grata e miserevole>>. Un discorso così positivo su questo Padre guardiano è molto bello. Basterebbe confrontarlo con quello salace sul P. Leonardo da Roma qualche tempo dopo. Non sappiamo se il P. Provinciale lo abbia riconfermato guardiano del convento S. Francesco in questo periodo intenso per il rinnovo edilizio del convento, la chiesa ed il campanile. Egli morì in Roma nel convento di Aracoeli l’8/9/1608 e poco prima era morto 71 72 a Viterbo il vicario del convento di S. Francesco di Corneto P. Raffaele da Roma (+11/8/1608) 12) . Nel 1610 era guardiano P. Girolamo da Corneto. Fu un periodo di attività febbrile per la richiesta dei dovuti permessi per la ricostruzione del nuovo campanile. Il 5/3/1610 infatti fu presentata al consiglio comunale la richiesta che fu discussa ed approvata con 29 voti favorevoli e due contrari. L’argomento era interessante e chi lo espose mise in luce i punti principali dicendo: <<Sopra il memoriale presentato per parte delli Padri di S. Francesco per la fabrica del lor campanile esser parere che vedendosi li detti padri per beneficio di detta chiesa hanno fatta vera preparazione di maceria per la fabrica di detto campanile, per adesso con beneplacido però della sacra congregazione se gli dia in elemosina fino cento scudi sumministrandoli dalla Comunità di mano in mano diveranno fabricando>>. Idee simili sono espresse anche in una lettera forse del 1611 per ottenere un ulteriore finanziamento dell’opera. Certo qualche cosa cominciò a muoversi perché il cardinale Borghese il 3/7/1610 predispose 50 scudi <<per riattare il campanile>> ed il vescovo della città Laudivio Zacchia (1605-1637) il 17/10/1610 concesse che fossero pagati 50 scudi <<per rifare il Campanile di detta chiesa>>. I lavori dovettero proseguire nel 1611 e 1612 come è possibile intuire da altri interventi. Così il 20/11/1611 fu concesso ai segatori Arduino e compagni di tagliare due querce nella bandita S. Pantaneo per due <<travi per attaccare le campane>>. Il 31/12/1611 il capitano Sisto Vipereschi ed il console Dionisio Gronchi concessero una verga di ferro di 51 libbre e mezzo per fare la chiave del campanile. Questo era segno che il lavoro era a buon punto. Il 1/4/1612 Antonio di Domenico preparò 4 travi dalla Selva di Ancarano. Tutto questo era segno che i lavori proseguivano ed il comune concorreva alla costruzione 13) . La struttura architettonica del campanile in stile composito doveva essere terminata nel 1612, come è intuibile dalla data posta nello stemma francescano sistemato nella colonna settentrionale della torre campanaria. Vi dovrebbe essere anche il nome del P. Provinciale Bernardo scritto sul fregio del tiburio, ma oggi non è pio osservabile, perché ci è stata tolta la ringhiera e perché forse non vi è stato mai, poiché i probabili Padri 12) Motu proprio di Pio V <<Cum Camera Apostolica>> 21/2/1572 ASFT; Consigli 23/7 e 9/10/1600, 21/7 e 19/10/1603 Reformationes 1600-1604 ff. 34v, 35 v, 41 v, 42v, 233, 233v-234, 241,241v: Consigli 19/2 e 6/8/1606, Reformationes 1604-1607 ff. 117v, 118v-119, 143 v, 144-144v; Lettera al cardinale Borghese 22/11/1606, Lettera al P. Provinciale 28/4/1607 Registro lettere 1603-1613 f. 93v, 106 ASCT; Necrologio di Orte ASBO. 13) Consigli 5/3, 1/4, e 3/6/1610 Reformationes 1607-1610 ff. 164, 164v, 165, 177, 177v, 138, 138 v; Speculi 16081609-1610 f.175v; Speculi 1601-1630 ff. 125,126v, 129 ASCT. 72 73 Provinciali potevano essere o P. Salvatore da Roma (1611-1612) o P. Antonio da Caprarola (1612-1615) 14) . Il lavoro tuttavia non doveva essere ancora completo, perché vi dovevano mancare i piani divisori. Per questo fu concesso ai frati di ricavare 150 tavole e 21 morali per il campanile dalla tenuta della Roccaccia il 28/12/1614. Questo materiale non dovette essere di prima qualità o stagionato se il 28/4/1626 il P. guardiano Stefano da Sarzana si lamentava che le campane erano in continuo pericolo di cadere ed il sagrestano poteva precipitare dal campanile. Finalmente nel 1641 dovettero essere costruite le volte dei vari piani. Un ulteriore intervento vi dovette essere nel 1645 perché nel consiglio del 16/7/1645 si dice esplicitamente: <<si conceda per elemosina scudi dieci in riguardo delle spese che hanno fatto detti Padri nel far porre le Campane nel lor Campanile questa prossima passata quadragesima>>. Nel vecchio campanile le campane dovevano essere tre ed in cattive condizioni, come si è detto. Esse dovettero certamente essere poste in quello nuovo, ma non dovevano più corrispondere alla mole del campanile. Sorse quindi il problema di fonderne una nuova più grossa. A questo ci pensò il P. Marcello da Corneto già pratico di questi problemi perché aveva fatto fondere una campana nel convento di Velletri. Nel 1629 ordinò la nuova campana grande alla ditta di Norcia di Simone e Prospero De Prosperis che la fusero in quell’anno. Il comune cominciò a pagare ratealmente la campana, ma quando nel 1631 fu portata dal mare in convento, P. Marcello era già morto il 13/12/1630. E’ l’unica campana antica rimasta nell’attuale campanile. Infatti la campana media fusa nel 1615, fu rifusa nel 1921 dal P. Tommaso Palliccia di Cori, e così anche l’altra quasi della stessa grandezza sul lato opposto che dovrebbe essere l’antica campana detta <<La Palestrina>> portata dal cardinale Giovanni Vitelleschi, dopo la distruzione della cittadina, rifusa dai piemontesi Giovanni Andrea Berardi e dal figlio Giacomo Antonio su commissione del guardiano P. Alessio da Roma e pagata dal sindaco apostolico Gioacchino Falgari il 14/3/1797 15) . 14) Pietro Falzacappa nelle <<Disertazioni dedicate a S. Agapito>> f. 249 nota (a) dice: <<Questo magnifico campanile dell’altezza di palmi 272 fu fabbricato nell’anno 1612 in cui era Provinciale un certo P. Bernardo come a caratteri, e Numeri Romani se ne ha la memoria nello stesso campanile sotto lo stemma dell’ordine Francescano situato nell’ultimo Fenestrone a Tramontana, e nel Fregio del Tamburo a detto vento, alla spesa del quale colle dovute licenze concorse ancora la ridetta comunità di Corneto per la somma di scudi 100= consiglio delli 11 marzo 1610 nel libro dei consigli di detto anno>>: Nel campanile vi era una ringhiera di ferro. AF Fb 12 presso STAS. 15) Speculi 1601-1630 f.136; Consiglio 31/7/1617 Reformationes 1612-1621 f.245; Consiglio 13/12/1625 Reformationes 1623-1630 ff. 106 v, 107 v, 128; Memoriale per li Frati di S. Francesco 16/4/1626, Lettera ai Priori nell’offitio presente (senza data, ma dello stesso periodo della precedente) Registro delle lettere 1618-1620 ff. 118,118- 73 74 Quella piccola invece fu fatta fondere dal P. Stefano Padovani nel 1926 per il centenario della morte di S. Francesco. Reliquie e feste dei santi In un clima religioso come quello del 1600, la venerazione delle reliquie aveva un grande valore, tanto da cercarle affannosamente nelle catacombe. Corneto, che aveva dei santi ivi venerati da molto tempo, non sfuggì a tale fenomeno. Quando fu necessario demolire l’antico altare maggiore le reliquie furono murate in sagrestia per non farsele portare via. Poi fu fatto costruire un deposito sull’altare nuovo e deposte in 5 cassettine vi vennero traslate in forma solenne con una processione nella festa di S. Agapito protettore della città il 18 agosto 1602 o 1603 16) . Il cardinale Francesco Barberini (1597-1679) ottenne dai Cornetani l’11/3/1633 alcune reliquie tra cui alcune della chiesa di S. Francesco: <<In S. Francesco uno stinco e due pezzi piccolo di S. Abbondio Martire che ne restava grandissima parte nel solito buco delle sacre reliquie nella solita cassetta nella chiesa di S. Francesco. Due ossa grandette e due pezzi piccoli del corpo di S. Condiano (Gordiano) Martire restante in buonissima parte nel solito luogo come sopra. Un pezzo di stinco con due altri pezzetti del corpo di S. Agapito Martire restando la maggior parte nel solito luogo come sopra>>. Da Palestrina ogni tanto si riprendevano qualche reliquia del loro protettore S. Agapito, come era avvenuto già nel 1588 17) . Una reliquia del braccio di S. Agapito che era conservata nella chiesa di S. Pancrazio e fu portata nella cattedrale per conservarla meglio. Alla vigilia della festa cioè il 17 agosto veniva riportata in S. Pancrazio e da lì partiva una processione col capitolo della cattedrale, gli Agostiniani, i Serviti, i Conventuali e la magistratura e si fermava nella chiesa di S. Croce dell’ospedale dei Fate Bene Fratelli. Da S. Francesco ne partiva un’altra con la testa di S. Agapito portata da un frate, seguita dagli altri confratelli e dall’Arte dei calzolai e si riuniva alla precedente. La festa si faceva con numerose messe in S. Pancrazio e S. Francesco. 118v, ASCT; Contratto per la fusione della campana <<La Palestrina>> 15/12/1696, Dichiarazione del peso della campana 14/3/1697, Dichiarazione del pagamento della campana 14/3/1697 ASFT. 16) Memorie ecclesiastiche appartenenti alla storia, ed al culto di Sant’Agapito Prenestino fasc. 5 AF Fb 12 presso STAS; Consiglio 14/4/1602 Reformationes 1600-1604 ff. 163-164; Lettera all’agente Giuseppe Valente a Roma 8/7/1602 Registro lettere 1596-1602 f. 162 ASCT. 17) Brevi di Sisto V <<Cum nos certis>> 7/7/1588 e <<Cum nuper mandavimus>> 18/7/1588 Annales Minorum 22 (Quaracchi 1934) 532, 533; Nota delle reliquie donate al card. Francesco Barberini 11/3/1633 Carte sparse secolo XVII a. 1633 ASCT. 74 75 Questo modo singolare di devozione e partecipazione alla festa, portò i frati a fare qualche debituccio come è ricordato il 29/11/1612 al cardinale Scipione Borghese. Si trattava di 5 scudi spesi in agosto. Un altro P. Guardiano invece richiedeva un contributo per fornire la chiesa di drappi per ricoprire le colonne senza ricorrere ad altri (la lettera è senza data). P. Giacomo da Pisticci il 25/3/1678 ricorreva al comune per le spese sostenute di 10 scudi per il ricorso riguardo alla precedenza dell’Arte dei calzolai nella processione 18) . In tanta emulazione non mancarono quindi motivi di attrito ed incomprensioni, dovute alla sovrabbondanza di clero. Intanto la Congregazione dei Riti il 18/9/1666 concedeva di poter celebrare a Corneto la messa solenne e l’ufficio di S. Agapito come a Palestrina 19) . Nel 1680 il P. guardiano di S. Francesco Giacomo da Monte Castello o forse più giustamente da Montecastrillo voleva fare inserire una cornice nell’altare maggiore ed incaricò il falegname mastro Giacomo Brunai, ma aperta una piccola fessura sulla destra di esso o come si diceva allora alla parte dell’epistola, ne uscì un odore particolare: <<si sentiva una soavità grande - testimoniò il P. Guardiano - quale per molti giorni prima fu sentita da tutti li Padri del convento>>. Il P. Ludovico da Orvieto vicario del convento ampliò l’apertura con un palo, entrò dentro l’altare e vide che vi erano delle cassettine di marmo ed apertane una, si accorse che dentro vi era un’altra di ferro che fece vedere al P. guardiano. Il P. Ludovico fece la sua deposizione il 3 agosto e non il 3 luglio. Egli confermava al vicario generale della diocesi Carlo Scacchia il racconto del P. guardiano aggiungendo qualche particolare interessante: <<e viddi alcune casette di marmo, delle quali ne aprii una, cioè levai il coperchio che stava sopra detta cassetta, e viddi che dentro la medema cassa vi era una cassetta più piccola di ferro, e riferitolo a detto P. guardiano, volendola vedere, gliela mostrai, e così veduta mi ordinò subito che io la riponessi nella medesima cassa dove stava, conforme feci con ogni puntualità; nella qual cassa di marmo viddi e sentii che vi erano ceneri, e qualche frammento ancora d’osso, come pure riferiti a detto guardiano, e fu giudicato allora che fossero Corpi di Santi: onde da comune parere fu de fatto rimurata la detta apertura per ogni buon fine, acciò si pigliassero quelle provisioni espedienti, che si ricercano in queste materie>>. Successivamente alla presenza dei testi Alberto Falgari e Bonaventura Cesarei furono prese le cassette, trasportate in sagrestia 18) Muzio Polidori, Croniche di Corneto a cura di Anna Rita Moschetti (Tarquinia 1977) 112; Lettera al cardinale Borghese 29/11/1612 Registro lettere 1612-1616 ff. 6v, 7, Lettera di P. Giacomo da Pisticci alla precedenza nella processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff.394, 397, 398 v, ASCT; Lettera del guardiano di S. Francesco per la festa di S. Agapito (senza data) in Memorie ecclesiastiche appartenenti alla memoria, ed al culto di S. Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso STAS. 19) Rescritto della Congregazione dei Riti 18/9/1666 (copia) ASFT. 75 76 perché fosse riparato l’altare. Esse furono chiuse a chiave in una stanzetta finché non furono rimesse nell’altare alla presenza del P. guardiano e del sindaco apostolico Francesco Falgari. Stilò la relazione il notaio cornetano Egidio Querciola 20) . La festa di S. Agapito fu tenuta in rilievo fino al secolo scorso. Ora non vi è più nessuna manifestazione esterna. Una delle feste ancora in vigore è quella di S. Antonio di Padova. Finché nella cittadina vi erano stati gli Osservanti o i Conventuali in S. Francesco essa dovette essere ricordata solo quì. Quando invece si stabilirono in S. Maria in Castello anche i Conventuali, cominciarono a ricordare la festa di S. Antonio. Naturalmente iniziarono le discussioni tra le due comunità francescane e quello che si doveva risolvere pacificamente divenne motivo di contesa. Essi ricorsero alla Congregazione dei Riti che dispose di celebrare la festa alternativamente con la partecipazione delle due comunità. Questo durò finché i Conventuali restarono nella città con la soppressione napoleonica. Invece riguardo alle reliquie conservate in S. Francesco il 20/7/1655 i frati richiesero al comune che fosse data loro una chiave e le altre due fossero date al comune o al cancelliere Mattia Martellacci. Questo fu approvato in consiglio comunale con 17 voti favorevoli e 6 contrari. In realtà la famiglia Martellacci mantenne quelle affidategli anche nel secolo seguente. Le reliquie venivano esposte il lunedì di Pasqua, mentre si celebrava una congregazione generale delle confraternite del Gonfalone e della Santissima Trinità a cui partecipava fino al 1700 il consiglio comunale <<l’Eccelso Senato>> inviato dai Padri del convento 21) . Il convento Chi osserva il convento oggi resta colpito dal chiostro grandioso e dal convento esteso con un piano terra ed un primo piano. Esso in origine doveva essere molto modesto e concentrato nella parte absidale dell’antica chiesa della Trinità. Di esso si conserva ancora il portichetto duecentesco addossato alla chiesa e quel tratto che unisce alla palazzina di Giulio II. Ivi dovettero risiedere i frati per gran parte del 1200 ed i guardiani 20) Atto di rinvenimento di alcune reliquie in S. Francesco del notaio Egidio Querciola 3/7/1680 (meglio agosto) in Memorie ecclesiastiche che appartenenti alla memoria, ed al culto di S. Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso STAS; Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese, e dei conventi dei Frati Minori della Provincia Romana (Roma 1764) 136-137. 21) Consiglio 20/7/1655 Reformationes 1657-1666f. 116 ASCT; Diario Cornetano 1778-Feste religiose e profane - Parte Prima AF Fa 16 presso STAS. 76 77 erano detti della Trinità. Verso la fine del 1200 ed inizi del 1300 quando fu innalzata la grandiosa chiesa di S. Francesco vi fu certamente unita la sagrestia ed il piano immediatamente superiore. Contemporaneamente si sviluppò l’ala frontale ad ovest, comprendente l’antico refettorio ed il piano superiore che fu donato come granaio dell’annona nel 1572. Vi era qualche casupola di mezzo, tra la chiesa della Trinità ed il corpo attuale dell’edificio. Il prefetto dell’annona Ludovico Torres vi fece costruire una scalinata il 25/2/1572 per farvi salire gli asini carichi di frumento e fu tolta dal prefetto Mons. Nicola Del Giudice perché portava umidità alla chiesa e non vi si potevano celebrare messe sul lato per <<l’indecenza per il rumore delle bestie e Uomini>> e nel 1712 ne fece costruire un’altra distanziata dalla chiesa. Di ambedue le scalinate oggi restano solo le iscrizioni 22) . Tra il magazzino dell’annona ed il lato opposto del fabbricato fino al 1937-1938 vi era solo la chiesa della Trinità e l’antico portico del chiostro del 1200. Il primo piano vi fu aggiunto dal guardiano P. Angelico Scipioni. L’antico convento aveva ospitato S. Bernardino da Siena e apparteneva alcune volte agli Osservanti oltre ai Conventuali. Nel 1563 vi dovettero essere dei notevoli lavori di ampliamento del convento perché il Provinciale Stefano Sommariva da Molina (+11/10/1579) scrisse una lettera da Velletri per alcune misure dei muratori sostenute dai PP. Cristoforo e Giacomo. La lettera molto lacunosa non chiarisce molto. Forse in questo periodo era stato costruito il nuovo refettorio ed il piano superiore. Questo può essere tanto più vero in quanto nel 1581 il convento fu scelto come sede del capitolo provinciale alla presenza del P. Generale Francesco Gonzaga e vi fu eletto provinciale il P. Sante da Orte (1581-1584). Ciò non sarebbe stato possibile, se il convento non fosse stato riordinato e capiente. Altri lavori grandiosi non compaiono nel 1600. Il chiostro quindi è certamente della fine del 1500. Tanto più è vero che il 15/1/1538 vi era una sola cisterna per la raccolta di acque piovane, mentre il 13/12/1631 ve ne erano due ed ambedue avevano caratteristiche cinquecentesche nei plutei di peperino con stemma del comune. La più grande di esse ancora esiste ed è vicina al porticato più antico, quindi si può presumere che essa sia la prima. L’altra invece era più vicina alla chiesa attuale e scomparve nel 1931 23) . 22) Memorie istoriche della città di Corneto estratte dal codice manoscritto Vallesiano esistente nell’archivio di Campidoglio ff. 290-291 AF Ff4 presso STAS. 23) Bullarium Franciscanum nova series IV-2 a cura di P. Cesare Cenci, n. 2255, p.810; Lettera del P. Stefano Molina marzo 1563 ASFT; Consiglio 15/1/1538 Reformationes 1537-1538 ff. 199, 200,201; Consiglio 13/12/1631 Reformationes 1631-1637 ff. 39v, 41v ASCT; Sergio Mecocci Il B. Giovanni da Triora e Tarquinia Bollettino dell’anno 1988 STAS 153-155; Luigi Sergio Mecocci, Il B. Giovanni Lantrùa da Triora a Tarquinia (Corneto) 77 78 Il 17/3/1602 si trattò di restaurare un camino ed alcuni luoghi del convento. Nel 1604 era pericolante la prima volta del chiostro unita al magazzino dell’annona. Credo che sia quella che unisce il porticato duecentesco con tutto l’altro, perché è di struttura intermedia. penso che a questo lavoro si riferiscano gli eredi di Belardino (Bernardino) Coltrino quando richiedevano di essere risarciti giustamente del lavoro prestato dal padre. L’unico lavoro di un certo rilievo nel convento fu fatto dal P. guardiano e architetto Giorgio Marziale da Fermo nel 1651 quando fece costruire la volta al dormitorio del convento. Questo era segno che prima vi fosse solo il tetto ed il soffitto. Nel piano sopra il refettorio si nota ancora questa trasformazione perché il tetto è stato rialzato. Il chiostro era istoriato con scene della vita di S. Francesc, ma furono ricoperte con calce nel 1931. Quando la parete è umida vi si notano ancora le figure 24) . I frati Abbiamo avuto più volte occasione di ricordare qualche frate. Nel convento all’inizio del secolo vi doveva essere una comunità abbastanza completa, perché vi compaiono studenti e lettori cioè professori di teologia. Questo indicava che il convento era luogo di studio. Certo le notizie non sono complete, ma di fronte alla totale mancanza di notizie è già importante scoprirne qualcuno e nei momenti più fortunati intere comunità. Il 18/2/1600 vi morì il P. Ludovico da Orte. Nei momenti di bisogno il comune forniva i frati del necessario. Così l’11/3/1601 venivano offerti loro 40 scudi per il vino, ma questo avveniva già dal 1565. Il 3/12/1602 il P. guardiano ottiene 50 scudi in più, perché la comunità era grande e vi erano anche gli studenti. Nel 1604 il lettore di teologia di S. Francesco P. Giacomo da Palestrina partecipa alla predicazione in S. Martino, subendo prima gli esami relativi. Il 31/12/1608 uno degli studenti cantò la prima messa in S. Francesco e furono offerti in dono 1 scudo e cinquanta baiocchi. Per lo stesso motivo fu fatto altrettanto per P. Giovanni Francesco da Bergamo il 21/4/1609 e per P. Francesco da Roma il 23/2/1610. Questo era segno che gli studenti che finivano il corso teologico vi ricevevano l’ordinazione sacerdotale. Tra i padri guardiani di questo periodo vi sono il P. Dionisio da Roma 1605- Documenti inediti (1790-1798) in AFH 82 (1989) 406-424; Attilio De Fazi-Angelo Porchetti, S. Francesco in Corneto Bollettino dell’anno 1984 STAS 5-22. 24) Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana f.92 Ms88 APA; Lettere al comune per una volta pericolante nel chiostro (senza data, ma del 1602-1604) ASFT; Consigli 17/2/1602, 24/6/1604 Reformationes 16001604 ff. 158,159v, 292-292v; Consigli 12/12/1604 e 6/8/1606 Reformationes 1604-1607 ff. 30v, 31v-32,143 v-144,144 v ASCT; Memorie istoriche della città di Corneto estratte dal codice manoscritto Vallesiano....: <<Gode un bellissimo convento capace di molti religiosi con bellissimo claustro riquadrato tutto dipinto dalla pietà de’Cittadini>> f. 289 AF Ff4 presso STAS; Lettera dell’avvocato Latino Latini a P. Sebastiano Nanni 13/2/1931 ASFT. 78 79 1607, P. Girolamo Sacco da Corneto 3/6/1610, e P. Francesco da Velletri che pagò 5 scudi per un quadro di S. Carlo Borromeo al pittore viterbese Pirro Conti il 23/5/1613. Il 13/5/1618 vi moriva il chierico, cioè lo studente, Fra Giovanni da Caprarola. Segno questo che il convento era ancora luogo di studio 25) . Il 13/5/1623 vi fu eletto guardiano P. Bonaventura Vipereschi di origine tarquiniense, ma forse nato a Roma e per questo detto romano e teologio cioè professore di teologia oltre che definitore della Provincia Romana. Il suo successore o vicario nel 1625 fu il P. Angelo e dopo di lui venne il P. Stefano da Sarzana predicatore che si trovava nel convento del 1626. Il P. Tommaso da Roma nel 1629 portò in porto la transazione dei legati onerosi al comune ed il 13/12/1630 vi morì il P. Marcello da Corneto che riuscì a fare fondere la nuova campana grande. Nel 1631 era stato eletto guardiano P. Leonardo da Roma, ma fu energicamente ricusato dall’amministrazione di Corneto. Il 15/6/1631 vi morì P. Giacomo delle Fiandre l’11/12/1638 il P. guardiano Bonifacio da Paleroviso ed il 22/11/1640 P. Sante da Tolfa. Il 21/2/1664 era guardiano del convento P. Giovanni da Roma. Si doveva tenere il capitolo provinciale a Tivoli il 10/3/1646 ed egli fu inviato a pagare 15 scudi di contributo per il capitolo da tenersi dal commissario visitatore cioè dal visitatore generale P. Stefano da Roma. Nel 1648 era guardiano P.Giovanni Battista da Pistoia che si interessò di partecipare ad una predicazione ed alla questione dei Serviti che avevano costruito un oratorio troppo vicino a S. Francesco pur avendo la cura del santuario della Madonna di Valverde fuori le mura della città. Il P. Giorgio da Fermo vi era guardiano nel 1651 e si interessò di migliorare il convento dal punto di vista architettonico 26) . Per trovare una comunità completa bisogna risalire al 1652 con la visita pastorale del vescovo di Corneto e Montefiascone Gaspare Cecchinelli (1630-1666). Di essa vi facevano parte il guardiano P. Vincenzo da Napoli, il vicario P. Pietro Maria Charabelli da Roma, i Padri Domenico da Tivoli, Pacifico da S. Angelo, Giacomo da Pisticci che avrà più volte incidenza nella storia del convento, un Padre originario di Maiorca nelle Baleari, gli oblati Fra Gabriele da Valmontone, uno di Maiorca, e Fra Crisanto da Viterbo. Il P. Vincenzo da Napoli oltre che guardiano era predicatore, teologo e confessore. 25) Consiglio 3/12/1602 Reformationes 1600-1604 ff. 191, 192; Consiglio 31/7/1617 Reformationes 1612-1621 ff.245 v,246; Spesso si trovano sovvenzioni del comune per i singoli frati o comunità: Speculi 1601-1630 ff. 125,126c, 129, 136; Speculi 1607-1615 ff.9 v, 11,16,21, 97; Speculi 1608-1610 ff. 34, 43v, 44,55, 97, 106v, 197, 156, 165v, 166, 175v, ASCT; Saldo per il quadro di S. Carlo Borromeo 25/3/1613 ASFT; Necrologio di Orte ASBO. 26) Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana f. 82 Ms. 88 APA; Consiglio 27/8/1625 Reformationes 1623-1630 f.101; Speculi 1625-1629 f. 44, ASCT; per questo periodo: P.Luigi Sergio Mecocci, P. Bonaventura Vipereschi da Corneto + 3/2/1639 Bollettino dell’anno 1990 STAS 143-157. 79 80 Lo stesso vescovo compì altre due visite pastorali, cioè quelle del 1656 e del 1662. Intanto il P. Giacomo da Pisticci nel 1653 era diventato vicario del convento. Tra queste due visite vi è un totale mutamento di personale del convento di S. Francesco. Si ripropongono per poterlo osservare. Nel 1656 era guardiano P. Giovanni Andrea da Roma, vicario P. Dionisio di Corsica. Vi erano inoltre P. Basilio da Caprarola che vi morirà l’11/9/1657, P. Pietro Paolo Garfagnino, P. Giuseppe da Anagni, P. Giovanni Battista di Corsica, P. Bernardo da Bitonto, i fratelli laici Fra Pacifico da Lugnano, Fra Antonio da Osimo, Fra Pietro da Bassano. I confessori erano P. Giovanni Andrea da Roma, P. Dionisio di Corsica e P. Basilio da Caprarola. Nel 1662 il guardiano era P. Francesco Antonio da Tivoli. Gli altri erano P. Antonio Francesco da Firenze, P. Giuseppe da Cori che era cappellano della confraternita della Trinità, P. Francesco di Francia, P. Emanuele di Portogallo, i fratelli laici Fra Innocenzo da Farnese e Fra Giuseppe Antonio da Onano ed il terziario Marco da Toscanella (Tuscania). Erano comunità numerose con i fratelli in preparazione della vita religiosa come gli oblati e terziari, ma vi erano assenti i chierici o studenti. Il 4/1/1655 vi moriva P. Giorgio di Portogallo, mentre era guardiano P. Filippo da Roma che fu trasferito a Cori con lo stesso incarico e fu sostituito dal P. Giovanni Andrea da Roma 27) . Il 21/9/1660 vi morì il guardiano P. Francesco Felice da Roma ed il 1/12/1667 il chierico o studente Fra Giovanni da Roma. Questo indicava che il convento era di nuovo casa di studio. Nel 1670 era guardiano P. Giovanni Carlo da Roma. Nel 1671 il P. Michelangelo da Caprarola comparve davanti al vicario vescovile di Corneto per la questione dei Serviti. Egli era presidente del convento, cioè era stato eletto superiore fuori del capitolo provinciale. Il testo è quasi illegibile. Nel 1673 si presentò come predicatore P. Giovanni Carlo da Roma dichiarando di essere stato guardiano del convento, ma non precisando la data. Il P. Giacomo Pisticci che era stato guardiano nel 1666-1667 ed aveva ricorso per la sentenza favorevole ai Serviti, vi ritornò nel 1674 per il problema della stabilità della chiesa e nel 1678 per la causa della precedenza nella processione di S. Agapito e la richiesta in affitto di un oliveto vicino alla 27) Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 ff. 42, 46; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1656 ff.8,10; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1662 ff. 16,17 AVT; Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653, Lettera del P. Giovanni Andrea da Roma per la predicazione 17/7/1655 Carte sparse secolo XVII a. 1653, 1655; Consiglio 19/7/1655 Reformationes 1650-1656 ff. 102 v, 103 v ASCT. 80 81 chiesa della Trinità, dove si trova oggi il campetto sportivo del convento. L’1/9/1678 vi morì il P. Giuseppe da Giuliano 28) . P. Giovanni Francesco da Caprarola vi fu guardiano nel 1678 nel mese di dicembre e presentò la sua richiesta di predicazione dell’avvento 1679. Nel 1680 era guardiano del convento P. Giacomo da Montecastrilli e suo vicario era P. Ludovico da Orvieto, come abbiamo visto per la scoperta delle reliquie. Il 10/1/1683 era guardiano P. Francesco Antonio da Caprarola che chiese la predicazione dell’avvento, ma fu trasferito come guardiano al convento S. Martino di Veroli e da lì richiese la predicazione mettendo in mostra di avere salito molti pulpiti. Dopo di lui nello stesso 1683 fu eletto guardiano di Corneto P. Vittorio da Cori e con lui inizia una serie di frati continua e più specifica fino al 1733. Egli oltre a essere guardiano era anche confessore. Gli altri frati erano P. Angelo Antonio da Viterbo vicario e confessore, P. Giuseppe Maria da Roma, P. Giovanni Luca da Toscanella, P. Francesco da Corleto confessore, i fratelli laici Fra Antonio da Villafranca, Fra Innocenzo da Bergamo e fra Primo da Garessio che essendo cancellati tutti e tre erano certamente stati inviati altrove. Vi rimanevano invece Fra Modesto da Roma ed i terziari Domenico da Radicofani e Andrea da Sezze. Anche Angelo da Napoli vi era cancellato 29) . Nel 1684 il guardiano era P. Antonio da Lauro o, secondo manoscritti posteriori, da Cori che vi morì il 31/7/1684. Il vicario era P. Giovanni Battista da Caprarola che diverrà superiore alla morte del P. guardiano. Gli altri erano il P. Venanzio da Roma predicatore annuale e confessore che morì a Viterbo il 28/5/1684, P. Giuseppe Maria da Roma, e P. Francesco da Corleto presenti già nell’anno precedente, i fratelli Fra Alessandro da Rupilio ed il terziario Domenico da Radicofani. Per il 1685 il guardiano era P. Gregorio da Venezia. P. Giovanni Battista da Caprarola divenne di nuovo vicario. Gli altri erano P. Girolamo da Acquapendente che vi morirà il 20/2/1687 predicatore annuale, P. Giuseppe Maria e P. Andrea da Roma, i fratelli 28) Lettera del P. Giovanni Cristoforo da Roma per l’avvento 1670 e patente tra il 28 febbraio e 16/3/1670 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1668-1670 f.57; Lettera del P. Giovanni Carlo da Roma del 13/12/1673 per la quaresima 1675 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1672-1673 f.185; Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte sparse secolo XVIIa. 1653; Lettera del P. Giacomo da Pisticci sulle 6 colonne pericolanti della chiesa S. Francesco e consiglio comunale 1674 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1674 fff. 152, 164, 407; Lettera del P. Giacomo da Pisticci per un uliveto vicino la chiesa della Trinità e per la precedenza nella processione di S. Agapito 25/3/1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 394,397,398 ASCT; Visita pastorale di Mons. Gaspare Cecchinelli 1652 f. 42 AVT; Questione con i serviti di P. Giacomo da Pisticci 16/11/1666-29/1/1667, Questione con i Serviti di P. Michele Arcangelo da Caprarola 1671 (detto in documenti successivi Michelangelo) ASFT; Necrologio di Orte ASBO. 29) Lettera del P. Giovanni Francesco da Caprarola dicembre 1678 Instrumenta consilia, et iura diversa 1677-1678 ff.396,399 v; Consiglio 10/1/1683 Reformationes 1680-1689 f. 141 v ASCT; Memorie ecclesiastiche appartenenti alla memoria ed al culto di Sant’Agapito Prenestino fasc. 4 AF Fb 12 presso STAS; Famiglie 1683-1733 f. 20 Ms. 63 APA. 81 82 laici Fra Carlo da Bolsena, Fra Giovanni Bartolomeo da Caprarola ed il terziario Lorenzo da Sarzana. Nel 1686 era ancora guardiano P. Gregorio da Venezia che dovette affrontare anche lui la questione con i Serviti (24/7/1686). P. Girolamo da Acquapendente divenne vicario. P. Bernardino da Città di Castello era predicatore annuale. Vi erano inoltre P. Angelo Antonio da Viterbo, il fratello laico Fra Vincenzo da Tivoli ed i terziari Domenico da Bologna, Domenico da Radicofani e Domenico da Gallicano. Vi si nota una triade di postulanti con lo stesso nome. Nel 1687 il guardiano era P. Lorenzo da Roma, vicario P. Angelo Antonio da Viterbo. Vi erano i Padri Bernardino da Caprarola e Francesco da Corleto, i fratelli laici Fra Modesto e Fra Vitale da Roma, i terziari Domenico da Radicofani e Domenico da Bologna, e Francesco da Poggio Mirteto. Nel 1688 il guardiano era P. Giovanni Crisostomo da Varese che nel secolo seguente fu Provinciale. Con lui erano il concittadino P. Giovanni Pietro vicario, P. Benedetto da Caprarola, P. Francesco da Corleto ed il fratello laico Fra Vebano da Frascati. Era una delle più piccole comunità di questo periodo nel convento. Nel 1689 il P. Costantino da Roma era guardiano e confessore. L’ungherese P. Virginio era vicario. Vi erano il francese P. Bernardino, P. Giovanni da Rende, P. Pietro Nicola da Roma predicatore annuale, i fratelli laici Fra Antonio Maria da Milano, Fra Paolo da Marino, i terziari Domenico da Radicofani e Ludovico da Milano. Il 13/7/1689 vi moriva affogato nel Mignone Fra Vitale da Roma. Nel 1690 restava guardiano e predicatore P. Costantino da Roma ed il suo vicario era P. Francesco da Corleto che vi morì l’8/6/1690. Vi erano inoltre il P. Severino da Concorizio predicatore annuale, P. Ignazio da Siracusa, P. Bonaventura da Cilezia, i fratelli laici Fra Paolo da Tricarico, Fra Francesco Antonio da Borgo Sommo ed il solito terziario Domenico da Radicofani. Nel 1691 si ebbero due comunità diverse. La prima il 27/4/1691 col P. Costantino da Roma predicatore e guardiano, P. Anastasio da Bergamo predicatore e vicario, P. Giuseppe Maria da Napoli predicatore annuale, P. Nicola da Orbetello, P. Anselmo da Roma, P. Giovanni Maria da Napoli, il chierico studente Fra Pietro da Campagnano, i fratelli laici Fra Antonio da Celli, Fra Giacomo da Guastalla, Fra Pietro Angelo da Crema ed i terziari Domenico da Radicofani e Tommaso d’Acquaviva. Vi ricominciano ad essere gli studenti ed i frati sono molti. Nella seconda il 21/11/1691 vi erano destinati il P. Fulgenzio da Roma guardiano e predicatore generale, P. Anastasio da Bergamo predicatore e vicario, P. Giacomo Antonio 82 83 da Monte Silatrano, P. Antonio da Ferentino confessore, P. Francesco da Rotonda predicatore annuale, i fratelli laici Fra Bonaventura da Farnese, Fra Antonio di Sardegna ed i terziari Domenico da Radicofani e Stefano da Sanguineto. In poco tempo le mutazioni furono molte. Anche se il 1694 non è registrato, si sa che vi morì il 6/2/1694 il P. Luca Antonio da Roma. Si deve giungere al 1695 per avere un nuovo gruppo di frati. Il guardiano e predicatore era P. Giovanni Battista da Roma e con lui vi erano il vicario P. Giovanni Francesco da Roma confessore, P. Bernardo da Città di Castello, P. Francesco Maria da Vallico, i fratelli laici Fra Antonio da Morazzone e fra Bonaventura da Cassano ed il terziario Nicola da Rimini. Nel 1696 vi fu mandato come predicatore e guardiano e teologo P. Vincenzo da Roma che vi moriva il 28/7/1696. Gli dovette succedere come superiore P. Alessio da Roma che fece fondere la campana detta <<La Palestrina>> e la pagò 14/3/1697. Vi erano invece i lettori di teologia e confessori i Padri Angelo Antonio da Farnese e Michelangelo da Pitigliano. Il P. Pietro Maria da Bergamo era invece vicario, predicatore e moderatore del coro, cioè uno dei pochi musicisti dell’epoca ricordati. Vi erano anche i Padri Giovanni Francesco e Antonio da Vallico e Giuseppe da Roma che vi morì il 21/8/1696. Non si sa perché egli morì. Facilmente avvenne per malaria, allora frequente nella zona ed è singolare che fu qualche giorno prima del concittadino P. Vincenzo. Con loro vi erano il P. Albero da Cori, i chierici Fra Pietro da Limano, Fra Giovanni Ambrogio da Gattinara, Fra Pietro Maria da Valmadera, Fra Carlo Antonio da Massa, i fratelli laici Fra Pietro Antonio da Cicciana, Fra Angelo da Roma ed i terziari Nicola da Rimini e Domenico da Bologna. E’ una delle comunità più numerose tra quelle conosciute con professori di teologia e studenti, con l’imprevisto di ben due morti della stessa città. Nel 1697 vi ritorna come guardiano e predicatore P. Giovanni Battista da Roma. Il vicario è P. Luigi da Roma e vi è il P. Antonio da Penna. I lettori e confessori restano il P. Angelo Antonio da Farnese e P. Michelangelo da Pitigliano. Alcuni degli studenti di teologia sono già sacerdoti come i compaesani P. Giovanni Pietro, P. Antonio e P. Bartolomeo da Vallico ed i Padri Alberto da Cori e Francesco Maria da Casorate. Gli studenti chierici invece sono Fra Andrea da Sabaudia, Fra Giovanni Pietro da Limano che morirà in concetto di santità a S. Liberata il 7/1/1736, Fra Giovanni Antonio da Casamari, Fra Antonio da Bassano, vi sono pure i fratelli laici Fra Alessandro da Pontremoli e Michelangelo da Massa ed i terziari Nicola da Rimini e Romano da Ferrara. Gli studenti sono veramente molti in questo anno. 83 84 Nel 1698 diventa guardiano P. Teodoro da Roma che è contemporaneamente predicatore. Il P. Anastasio da Bergamo è vicario e confessore. Vi resta P. Antonio da Penna e vi si aggiungono P. Giulio Sormani o da Sormanno Lettore e predicatore annuale e P. Antonio da Roma organista che è l’unico frate ricordato con questo incarico. Vi restano come lettori di teologia e confessori P. Angelo Antonio da Farnese che morirà il 27/6/1699 in Aracoeli, P. Michelangelo da Pitigliano. Vi sono i sacerdoti studenti P. Giovanni Francesco, P. Antonio e P. Bartolomeo da Vallico, P. Francesco Maria da Casorate e P. Isidoro da Farnese, i chierici Fra Sebastiano (Pietro) da Vallico, Fra Francesco Nicola da Bolsena, Fra Bernardino da Roma, Fra Francesco da Morrone e Fra Cesare Vincenzo da Lucca I fratelli laici sono Fra Bartolomeo da Caprarola, Fra Giovanni e Arcangelo da Roma ed il terziario Martino di Sardegna. Nel 1699 il guardiano è ancora P. Teodoro da Roma che è anche predicatore P. Anastasio da Bergamo è vicario predicatore e confessore. I lettori di teologia sono tre perché al P. Michelangelo da Pitigliano si aggiungono il P. Antonio da Tivoli e P. Alessandro da Orte futuro custode della Provincia Romana. Vi sono P. Felice da Roma predicatore annuale e i Padri Giovanni Francesco da Vallico e Francesco Maria da Casorate che da studenti che erano l’anno precedente entrano invece nella comunità come giovani sacerdoti. Tra i sacerdoti studenti invece ci sono il P. Francesco Nicola da Bolsena, P. Giovanni Pietro da Pozzo, P. Nicola da Monte Aubiano e P. Paolo da Bassiano. I chierici sono invece Fra Sigismondo da Vico e Fra Bernardino da Roma. I fratelli laici sono Fra Arcangelo da Roma e Fra Antonio da Recineto ed il terziario Antonio da Tivoli 30) . Vi si notano in questo periodo delle comunità numerose che aumentano per gran parte del 1700 e cominceranno ad essere ridimensionate con le restrizioni delle corti borboniche, con la rivoluzione francese e con le soppressioni del secolo XIX. I predicatori Più volte si è avuta occasione di incontrare nel nostro studio il titolo di predicatore attribuito ai frati. Era una prerogativa che veniva rilasciata solo a chi subiva degli esami per questa attività, mostrando di avere le doti necessarie, ed ottenevano il titolo di predicatore annuale cioè per il solo anno o per il luogo dove risiedevano o di predicatore generale cioè non approvazione del P. Generale e per qualsiasi luogo sempre col permesso del Vescovo dove si svolgeva la predicazione. Nelle singole diocesi essi potevano essere sottomessi a nuovi esami come il 3/12/1603 nella curia vescovile di Corneto per il P. 30) Famiglie 1683-1733 ff. 37 v, 56,76,94,111 v, 128v, 147,166v, 185,198v-199,214,233v,253v,264 v Ms. 63 APA. 84 85 Marcellino da Siena per la predicazione dell’Avvento nella cattedrale e per P. Giacomo da Palestrina per quella in S. Martino. Essi furono approvati. Vi era una prassi standardizzata nella Corneto di allora, come viene notato nel <<Diario Cornetano 1778 - Feste Religiose e Profane - Parte Prima>>: <<Nel tempo quaresimale così come in quello dell’avvento predica ogni giorno nella chiesa cattedrale. L’elezzione (sic) del sagro Direttore per la quaresima appartiene al Ven. Capitolo, ed al Consiglio delli 13 di decembre cioè essendovi in Corneto quattro Conventi di Frati di questi Ordini differiti (sic), cioè Agostiniano, Servita, Minore Osservante, e Minore Conventuale, il conseglio suddetto conceda a questi la Predicazione secondo le loro Antichità in Corneto, toccando però il primo anno al sopraddetto Capitolo di eleggere con particolare congregazione, a spese però della Communità un predicatore a piacere essendo il più delle volte Prete. Il secondo anno degnando il Consiglio uno degli Agostiniani, il terzo uno dei Servi di Maria, il quarto uno dei Minori Osservanti ed il quinto anno dopo del quale ha nuovamente principio l’ordine sopraddetto uno dei Minori Conventuali e ad ogni uno degli Eletti ne Loro Respettivi Anni Congregasi ancora quello del Revmo Capitolo, viene pagata dalla Comunità sopraddetta la somma di scudi 40. Quanto poi al predicatore dell’Avvento, è in libertà del suddetto Conseglio esser questo a piacere, ma delle quattro Religioni, indicate, avvertendosi che tanto i Predicatori della Quaresima, che dell’Avvento non possano eleggersi per due anni avanti: ed ha il suddetto Predicatore dell’Avvento da questo Comune la Scarsa mercede di 12 scudi>> 31) . Vi era molto clero e per il turno della predicazione in genere venivano presentati tre candidati. Per essere considerati accettati dal consiglio comunale, dovevano ottenere i due terzi di voti bianchi su quelli neri ed era il predicatore chi ne otteneva di più. Era un pulpito ricercato dagli oratori che presentavano nelle loro richieste le loro referenze, i meriti acquisiti nella predicazione in altri pulpiti. Raramente venivano tenute in conto le domande dei predicatori annuali e si preferivano quelli più noti. Spesso erano accettati quelli raccomandati da persone influenti od amici conosciuti come erano il P. Bonaventura Vipereschi o il cardinale Francesco Barberini o il cardinale Giulio Rospigliosi. Tra gli oratori vi sono personalità che hanno ricoperto uffici importanti nella chiesa e nell’Ordine Francescano: il cardinale Lorenzo Cozza da S. Lorenzo, i provinciali P. Bernardino Turamini da Siena, P. Giovanni da Roma, P. Girolamo da Velletri, P. Onorato Finucci da Casabasciana, P. Antonio Soffianti da Caprarola, i guardiani del convento S. Francesco P. Girolamo Sacco da Corneto, P. Giovanni Battista da Pistoia, P. Giovanni Carlo da Roma, P. 85 86 Cristoforo da Roma, P. Giovanni Francesco e P. Francesco Antonio da Caprarola, P. Giovanni Andrea da Roma. Altri presentano le loro specializzazioni teologiche come i lettori o professori del convento di S. Francesco di Corneto, del Paradiso di Viterbo o di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina di Roma. I primi predicatori richiesti in questo secolo dai Padri Francescani del convento S. Francesco appaiono in forma anomima nel 1604 quando dal comune viene richiesto un predicatore dell’avvento al P. Guardiano, mentre per la quaresima viene desiderato il Conventuale P. Francesco da Castiglione. Chi in realtà concorse alla predicazione dell’Avvento fu proprio il P. Marcellino da Siena, già ricordato nell’esame che dovette sostenere nella curia vescovile col P. Giacomo da Palestrina. Nel 1609 il predicatore della quaresima era stato P. Celso da Firenze pagato 40 scudi il 19/4/1609. Il 3/6/1610 il P. guardiano di S. Francesco P. Girolamo Sacco da Corneto ottenne la completa approvazione per la predicazione dell’avvento perché conosciuto come <<padre sufficiente di dottrina di bontà et buono esempio>> e nel 1634 si rivolsero al cardinale Francesco Barberini per averlo come guardiano del luogo, morendo in Aracoeli il 7/1/1647. Questo era un segno di stima verso il proprio concittadino. Il 7/10/1618 si presentò come predicatore della quaresima P. Bernardino <<Belardino>> Turamini da Siena, futuro Provinciale della Provincia Romana ed ebbe 28 voti favorevoli e due contro. Il 27/8/1625 invece il P. Angelo guardiano o vicario di S. Francesco (non viene qualificato) presentò il predicatore Gian Francesco Menghizzi da Celleno che ottenne 20 voti favorevoli. Non viene precisato per quale predicazione era destinato, ma con probabilità per l’avvento. Nel 1620 era stato fatto un sollecito ai Padri Generali dei quattro Ordini esistenti nella città perché facessero provvederli di confessori e predicatori sufficienti per il servizio religioso ordinario. Altrettanto fecero verso il Papa 32) . L’avvento del 1626 lo predicò il guardiano di S. Francesco P. Stefano da Sarzana che fu pagato 12 scudi. Il 29/12/1629 la stessa somma fu pagata al P. Gerolamo da Velletri ed al suo socio. Questo indicava che chi veniva da fuori città portava con sè un altro frate che lo accompagnava. Il 3/2/1632 si presentò per l’avvento il P. Ferdinando che ottenne 13 voti favorevoli e 7 contrari cioè fu rifiutato. Il 19/10/1631 si era presentato il P. Giovanni 31) Iura ecclesiastica 1580-1584 f. 29 AVT; Diario cornetano 1678 - Feste religiose e profane - Parte prima AF Fa 16 presso STAS. 32) Consiglio 17/10/1604 Reformationes 1604-1607 ff.20,20 v-21; Speculi 1607-1615 f.16; Speculi 1608-1610 f. 97; Consiglio 3/6/1610 Reformationes 1607-1610 f.138 v, 139; Consiglio 7/10/1618 Reformationes 1612-1621 ff.272 v, 273 (minuta), 293 v, 294 v (bella copia); Consiglio 20/5/1625 Reformationes 1623-1630 f.101 ASCT (il presentatore del predicatore P. Angelo di S. Francesco non è indicato con nessuna carica). Lettera ai Padri Generali dei Serviti, degli Osservanti, dei Conventuali, degli Agostiniani 19/6/1620; Lettera al Papa (senza data, ma dello stesso periodo) Pietro Falzacappa Cronache di Corneto AF Ff12 presso STAS. 86 87 Francesco da Caprarola per l’avvento in concorrenza col cornetano P. Marco Antonio Cehtera Conventuale o Servita o Agostiniano che fu preferito con 18 voti a favore e due contrari. Per la quaresima del 1635 si presentò il P. Giovanni Antonio da Roma con la raccomandazione del P. Bonaventura Vipereschi che ebbe l’approvazione completa ed incoraggiato da questo allo stesso modo desiderava predicare anche l’avvento, ma già era stato affidato all’agostiniano di Corneto P. Stefano Raffi. Il 27/4/1636 il P. guardiano di S. Francesco presentò come predicatore dell’avvento il P. Giovanni Paolo Bonelli che piacque tanto da essere scelto per la quaresima 1640, ma egli morì l’8/7/1639 ed in suo ossequio la predicazione fu affidata al suo confratello P. Agostino Caravita il 7/8/1639 33) . Il 27/4/1642 furono presentate diverse richieste di predicazione tra Conventuali e Osservanti. Per la quaresima del 1645 il P. Atanasio da Roma si ritirava dall’impegno ed in sua vece veniva proposto il 27/4/1642 il guardiano di S. Francesco P. Girolamo da Roma che veniva accettato. A sostenere la candidatura del P. Gerolamo c’era la signora Lucidi Vipereschi che doveva avere influenza perché apparteneva ad una delle famiglie più in vista della città. Allo stesso P. Girolamo fu attribuito l’avvento del 1644. Il conventuale P. Giulio da Acquapendente otteneva di predicare la quaresima del 1646, ma si ritirava e fu eletto in sua vece il confratello P. Antonio da <<Horti>> (P. Antonio Castra da Orte), mentre per l’avvento fu scelto P. Clemente Francia dello stesso Ordine 34) . Il P. guardiano di S. Francesco Giovanni da Pistoia presentò la sua richiesta per predicare la quaresima del 1650 il 9/8/1648 ed ebbe 20 voti favorevoli e 3 contrari. Il 23/1/1653 egli era nel convento S. Giuseppe di Acquapendente ed il 16/10/1655 moriva presso S. Casciano come ex definitore. Nel 1649 il convento era stato designato come luogo del capitolo provinciale ed erano stati fatti i preparativi, ma il P. Benigno da Genova ex Generale e discreto perpetuo mandò tutto in fumo con la scusa che era troppo lontano da Roma ed egli era vecchio per andarci. Il 21/12/1653 fu discussa la richiesta di predicazione della quaresima del P. Antonio Soffianti da Caprarola <<lettore generale di sacra scrittura>> in Aracoeli che nel 1671 33) Speculi 1625-1629 ff. 44, 137v; Consigli 19/10/1631, 2/3/1632, 27/7 e 27/12/1636 Reformationes 1631-1637 ff.27,29v, 57,58,119v, 121,234,237-237v, 257,259; Consiglio 7/8/1639 Reformationes 1638-1644 ff. 39-40,40-40 v; Lettera a P. Giovanni Antonio da Roma 29/12/1633, Lettere a P. Bonaventura Vipereschi 2/5/1634 e 20/2/1635 Registro lettere 1631-1636 ff. 107-107v, 20-20v, 119v, 32 v, 158, 21 (vi è una doppia numerazione) ASCT. 34) Consigli 27/4/1642, 21/4 e 21/9/1644 Reformationes 1638-1644 ff. 98 v, 99,99 v, 101, 150, 151 v; Consiglio 22/10/1645 Reformationes 1645-1655 ff. 17-17 v ASCT. 87 88 divenne prima custode della Provincia e poi vicario provinciale. Eppure la sua richiesta ottenne 11 voti favorevoli e 7 contro 35) . Il P. Onorato Finucci da Casabasciana detto di Lucca, buon cronista della Provincia Romana il 19/7/1654 richiese la quaresima del 1655. Con lui concorreva il guardiano di S. Francesco P. Filippo da Roma. Essi furono votati il 29/7/1654. Il P. Onorato ottenne 14 voti a favore e 4 contro, mentre P. Filippo ne ottenne 12 a favore e 6 contro. Il P. Onorato era stato Provinciale della Provincia Romana ed era definitore generale, era quindi una persona di riguardo. P. Filippo il 19/6/1655 fu eletto guardiano di Cori e gli subentrò nell’ufficio il P. Giovanni Andrea da Roma a cui fu affidata la predica dell’avvento con 14 voti favorevoli e 5 contrari 36) . Il 17/6/1658 il P. Alessio da Roma lettore di teologia in Aracoeli chiese la predica della quaresima del 1660 e la ottenne con 18 voti a favore e 2 contro. Egli fu eletto Provinciale nel 1665 e morì in Aracoeli il 15/1/1666. P. Alberto Vannini da Roma il 15/1/1666. P. Alberto Vannini da Roma il 15/1/1664 richiedeva di predicare la quaresima del 1665, ma otteneva 10 voti favorevoli e 9 contro. Il 16/3/1664 ci riprovò con l’aiuto del cardinale Giulio Rospigliosi poi Clemente IX (1600-1669) e ne ottenne 15 in favore e 6 contro. Per il 1670 concorsero per la predicazione della quaresima P. Cristoforo da Roma lettore, predicatore e guardiano del convento S. Francesco ed il P. Giovanni Girolamo da Roma predicatore annuale nella chiesa S. Bartolomeo all’Isola di Roma per l’avvento. Le loro richieste furono votate ed il P. Cristoforo fu accettato tra il 27 febbraio 16 marzo 1670, mentre il P. Giovanni ottenne 12 voti a favore e 7 contro il 27/7/1670 ed il 12/10 ne ottenne 10 favorevoli e 9 contro cioè non fu accettato. Prima del 12/3/1673 presentarono le loro richieste per la quaresima 1675 il P.Giovanni Carlo da Roma <<che alcune volte predicò nella chiesa di S. Francesco quando fu guardiano di S. Francesco>< (non viene determinato il tempo) e P. Ginepro Damiano <<teologo, predicatore clarissimo>> cioè predicatore conosciuto in più luoghi 37) . 35) Consiglio 9/8/1648 Reformationes 1645-1655 ff.95 v, 97 v, Consigli 21/12/1653, 29/7/1654 Reformationes 16511656 ff.49 c, 52v, 72v; Lettera del P. Giovanni Battista da Pistoia (senza data, ma almeno del 9/8/1648), Lettera del P. Antonio Soffianti da Caprarola (senza data, ma certamente del 21/12/1653) Memorialia 1644-1659 45.768 Lettera del P. Giacomo da Pisticci 23/1/1653 Carte sparse secolo XVIa. (1648, 1653) 1653 ASCT; Onorato da Casabasciana, Memorie della Provincia Romana ff. 88-89, 127 Ms 88 APA. 36) Lettera del P. Onorato da Lucca 19/7/1654, Lettera del P. Giovanni Andrea da Roma 19/7/1655 Carte sparse secolo XVII a. 1654, 1655; Reformationes 1650-1656 FF. 70v, 102 v, 103 v ASCT. 37) Consigli 17/3/1658, 27/12/1659, 15/1 e 16/3/1664 Reformationes 1657-1665 ff. 23,24,44 v, 85, 85 v, 87, 89; Lettera del P. Alessio da Roma 17/3/1658 Carte sparse secolo XVII a. 1658; Lettera del P. Cristoforo da Roma 28/2, 16/3/1670; Lettera del P. Giovanni Girolamo da Roma e votazione 12/10/1670; Lettera del P. Giovanni Carlo da Roma e P. Ginepro Damiano Instrumenta, consilia, et iura diversa 1668-1670 ff. 57,70,80v, 87; Instrumenta, Consilia, et iura diversa 1672-1673 ff. 185, 186 ASCT. 88 89 Nel dicembre 1678 presentarono le loro richieste P. Cosma Bernasconi da Roma <<predicatore generale, lettore giubilato e custode della Provincia Romana>> per la quaresima 1679 e P. Giovanni Francesco da Caprarola <<predicatore, lettore, et al presente guardiano di S. Francesco di Corneto>> per l’avvento 1679. Essi con le caratteristiche presentate erano dei concorrenti insuperabili. Il P. Francesco Antonio da Caprarola <<guardiano di S. Francesco>> concorse il 10/1/1683 e fu votato col P. Enrico Rainieri il 10/1/1683, ma quest’ultimo ottenne più voti. Egli allora ripresentò la sua domanda come guardiano di Veroli, dove era stato trasferito, facendo notare la molteplicità di pulpiti da lui calcati. Guardiano di Corneto intanto era diventato P. Vittorio da Cori a cui indirizzò una lettera il P. Provinciale P. Vincenzo Marra da Bassiano detto Junior, minacciando che avrebbe ritirato i frati dal convento, se non fossero stati provvisti di vino, come era consuetudine dal 1565 38) . Per la predicazione della quaresima del 1685 si presentarono il custode della Provincia Romana P. Alessandro da Magliano <<lettore provinciale>> ed <<il lettore e predicatore>> P. Lorenzo Cozza da S. Lorenzo. Nella votazione per loro del 27/4/1684 il P. Alessandro ottenne 9 voti a favore e 9 contro, mentre P. Lorenzo ne ottenne 14 a favore e 4 contro attribuendosi la predicazione. Nella nota marginale di quest’ultimo è aggiunto con una certa soddisfazione: <<Ora cardinale Lorenzo Cozza agli 5 aprile 1729>>. Pur essendoci l’errore della data perché egli morì nel convento S. Bartolomeo all’Isola di Roma il 19/1/1729, vi si nota la stima per la sua personalità che la meritava certamente come uomo di cultura, scrittore, diplomatico ed uomo pratico, essendo stato Custode di Terra Santa, Provinciale della Provincia Romana, Generale dell’Ordine e Cardinale 39) . Il 14/12/1687 il P. Giovanni Nicola da Roma viene messo a votazione per l’avvento 1688 col P. Giovanni Meconi dei Serviti ed ottiene 15 voti a favore e 8 contro, mentre il P. Meconi ne ottiene 16 a favore e 7 contro, vincendo. Lo stesso P. Giovanni Nicola da Roma si ripresenta per l’avvento 1689 ed il 5/4/1688 viene approvato con 18 voti favorevoli ed uno contro. Nello stesso anno si presenta per la quaresima del 1690 il P. Cosma o Cosimo Bernasconi da Roma e gli viene 38) Lettera del P. Cosma da Roma, Lettere del P. Giovanni Francesco da Caprarola guardiano del convento dicembre 1678 Instrumenta, consilia, et iura diversa 1677-1678 ff. 395,396,399 v, 400 v; Lettera del P. Francesco Antonio da Caprarola guardiano di S. Francesco 10/1/1683, Lettera del P. Francesco Antonio da Caprarola guardiano di Veroli che ha predicato a <<Roma, Bologna, Ferrara, Venezia, Palermo, Napoli>>, Consigli 10/1/1683, e 16/5/1683 Lettera del P. Vincenzo da Bassiano 28/4/1683, Lettera del convento al consiglio (senza data, ma di questo periodo), Reformationes 1680-1689 ff. 141 v, 147, 162 v, 185, 189, 192, 192 v; Lettera del vescovo Romano di... ai Conservatori 22/5/1683 Carte sparse secolo XVII a. 1683; Famiglie 1683-1733 f. 20 Ms. 63 APA. 39) Consiglio 27/4/1684, Lettera del P. Alessandro da Magliano, Lettera del P. Lorenzo da S. Lorenzo Reformationes 1680-1689 ff. 289-189 v, 291,293, 296 v ASCT; Colombo Angeletti, Necrologio della provincia Romana dei SS. Apostoli Pietro e Paolo (Roma 1969) 66. 89 90 concessa <<per esperienze che si han della sua virtù e scienza mostrata per altra predicazione>>, ma egli deve poi rinunziarci il 18/9/1689 perché <<impossibilitato dal Commando rispettoso dei suoi superiori>>. Egli morì ad Orte il 20/4/1691. Furono allora presentati i Padri Fortunato da Roma <<predicatore clarissimo>> e teologo e P. Callisto da Siena. Nella votazione del 7/12/1689 il P. Fortunato ottenne 8 voti favorevoli e 13 contrari, mentre il P. Callisto ne ebbe 17 a favore e 4 contro. Questo indica che si guardava nella scelta alle qualità del predicatore anziché alle note presentate. Per la predicazione dell’avvento 1691 si presentarono il P. Severino da Milano ed il P. Anastasio Certi (o Cerli?) da Bergamo e P. Giovanni Pietro da Roma. Il primo fu approvato e gli fu mandata la patente l’8/1/1691 per avere ottenuto 19 voti favorevoli contro 5. Il P. Anastasio ottenne 17 voti a favore e 7 contro, e P. Pietro Giovanni ne aveva ottenuti 16 favorevoli ed 8 contrari. Il P. Giuseppe Maria Padovano da Napoli lettore, teologo e predicatore richiedeva la predicazione dell’avvento 1692 e quella del 1693. Per quest’ultima veniva votato e la otteneva con 16 voti a favore e 4 contro 40) . Per la quaresima del 1694 si presentava il P. Leopoldo da Mondanio oggi Mondonio che era stato predicatore annuale in S. Francesco durante la rovinosa caduta delle due colonne della chiesa nel 1691. Contemporaneamente ritornava a chiedere la quaresima del 1695 il P. Fortunato da Roma che l’ottenne con 23 voti a favore ed uno contro, mentre P. Leopoldo ottenne 8 voti a favore e 16 contro. Forse gli giocò un brutto scherzo il ricordo funesto della chiesa di S. Francesco. Nel 1698 furono numerosi i concorrenti Osservanti per le predicazioni. Il P. Marcellino da Roma si presentava per l’avvento 1698 e l’ottenne con un buon ascolto, tanto da essere proposto ed accettato per la predicazione e la quaresima del 1700 in concorrenza con i Padri Silvestro da Orvieto <<predicatore generale e lettore giubilare>> e Basilio da Caprarola <<predicatore clarissimo>>. Nella votazione del 14/12/1698 il P. Silvestro ottenne 13 voti favorevoli e 10 contrari, P. Basilio 10 favorevoli e 13 contrari, P. Marcellino invece 22 favorevoli e nessuno contro. Evidentemente uno dei votanti era uscito perché i voti erano 23 per tutti, come risulta dalla votazione degli altri due e del P. Pietro Paolo da Roma per l’avvento del 1699 come lettore di teologia di Viterbo che ottenne 21 voti favorevoli e 2 contro. Gli ultimi di questo periodo che si presentarono come predicatori furono i Padri Felice da Roma per l’avvento del 1700 e P. Giuseppe Maria da Torino lettore di teologia in 40) Consigli 14/12/1687, 5/4 e 13/11/1688 Reformationes 1685-1690 ff. 55,55 v, 59, 60, 76; Consiglio 7/12/1689 ff. 7, 16,24 v, 25 v; Reformationes 1689-1695 ff.128,148 v, 159, 161,166 v, 173,178 v ASCT. 90 91 S. Francesco. Il P. Felice ottenne 24 voti favorevoli e 5 contro e P. Giuseppe Maria ne ottenne 13 a favore e 10 contro 41) . Questa carrellata di predicatori ci dice che la presenza dei frati in S. Francesco era utile per far conoscere la cultura religiosa del tempo presso il popolo, poiché la predicazione era molto seguita. E’ vero che mi sono limitato ai soli Osservanti e con rari accenni agli altri, lasciando l’opportunità di farlo a chi desidera approfondire l’argomento. * ** L’interesse della presenza dei frati è dimostrata dalla ricerca che ne faceva la stessa amministrazione civile per gli impegni di assistenza religiosa verso la popolazione. I frati infatti avevano cura di aiutare i cittadini nelle confessioni, nella giusta recezione dell’eucaristia, nella preghiera corale, nel suono e canto religioso, nella preghiera comune. Essi non mancavano di soccorrere i più bisognosi con la loro carità, non ultima quella paziente della distribuzione dell’acqua delle cisterne durante l’estate per una popolazione assetata come quella di Corneto in questo periodo. Per questo essi erano molto apprezzati e ricercati, nonostante qualche immancabile controversia col clero locale per la festa di S. Agapito, con i Conventuali per quella di S. Antonio di Padova, con i Serviti per la costruzione prima di un oratorio troppo vicino al convento S. Francesco e poi di una chiesa vera e propria S. Maria Addolorata con relativo convento e l’abbandono del santuario di S. Maria di Valverde. I frati più volte si interessarono presso le autorità competenti della manutenzione della bella chiesa sia pure con trasformazioni barocche. Ne fecero presenti i problemi principali: riparazioni di tetti, imminenze di crolli come quello delle colonne centrali, costruzione del nuovo monumentale campanile. Le amministrazioni cittadine se ne presero cura nei loro limiti. Tutte queste cose unite alle nuove notizie su un personaggio o l’altro credo che siano degne di essere conosciute perché anche esse sono alla base della presenza attuale dei frati nella Tarquinia odierna. P. Luigi Sergio Mecocci FONDI ARCHIVISTICI AF presso STAS Archivio Falzacappa presso Società Tarquiniense Arte e Storia 41) Reformationes 1696-1701 ff,7,10,17, 17v, 88, 95v, 140, 153v, 230,233,234,237,240v, 241,283,294 v ASCT. 91 92 APA Archivio Provinciale Aracoeli ASBO Archivio S. Bernardino Orte ASCT Archivio Storico Comunale Tarquinia ASFT Archivio S. Francesco Tarquinia AVT Archivio Vescovile Tarquinia BIBLIOGRAFIA Corteselli Mario-Pardi Antonio, Corneto com’era (Tarquinia 1977). Corteselli Mario, Un santo venuto da lontano Bollettino dell’anno 1986 STAS 105114. De Fazi Attilio-Porchetti Angelo, S. Francesco in Corneto, Bollettino dell’anno 1984 STAS 5-22. Foschi Rossella, La chiesa di S. Maria Addolorata in Tarquinia, Bollettino dell’anno 1980 STAS 115-135. Gli Statuti della città di Corneto MDXLV a cura di Massimo Ruspantini (Tarquinia 1982) Mecocci P. Luigi Sergio, P. Bonaventura Vipereschi da Corneto +3/2/1639 Bollettino dell’anno 1990 STAS 143-157. Polidori Muzio, Croniche di Corneto a cura di Anna Rita Moschetti (Tarquinia 1977) Romanelli Emanuele, S. Francesco di Tarquinia (Roma 1967) Sensi Mario, S. Maria di Valverde a Corneto Bollettino dell’anno 1987 STAS 79-113. Tiziani Giannino, Famiglie e stemmi cornetani dalla schedatura di beni artistici di Tarquinia Bollettino dell’anno 1985 STAS 147-211. 92 93 RICERCHE ARCHEOLOGICHE ALL’EREMO DELLA SS. TRINITA’ DI ALLUMIERE Breve premessa L’Eremo della SS. Trinità di Allumiere, è uno dei più antichi monasteri della Provincia romana ed esiste, secondo alcuni storici del XIV secolo, fin dai tempi di Gregorio IV (827/844) (Enrico di Friemar; Giordano di Sassonia). Ma anche lapidi del XII sec., esistenti fino agli inizi del nostro secolo, sulla facciata dell’Eremo, e recenti ritrovamenti archeologici, danno concrete possibilità di conferma all’ipotesi della sua esistenza fin dai tempi di Agostino e del suo soggiorno in zona Centumcellae (387-388 d.C.). I ritrovamenti di reperti di epoca romana, colonne, capitelli e mattoni, alcuni dei quali con bollo di fabbrica dell’imperatore Traiano, fanno ritenere assai probabile che l’edificazione del Romitorio sia stata realizzata, utilizzando preesistenti strutture e materiali pertinenti, verosimilmente ad un piccolo tempio dedicato alle ninfe delle acque. Proprio in quest’area, infatti, si trova uno dei più consistenti bacini idrici, dai quali furono captate le sorgenti che dovevano rifornire di ottima acqua potabile il costruendo porto di Traiano a Centumcellae, agli inizi del II sec. d.C. Anche al fine di poter documentare la possibilità di un soggiorno di S. Agostino in questo Eremo, è stata intrapresa, in questi ultimi anni, una prima campagna archeologica da parte della Associazione Archeologica <<A. Klitsche de la Grange>> di Allumiere, in 93 94 stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. I risultati di questa prima campagna archeologica formano l’argomento della presente comunicazione. Relazione sulla prima campagna archeologica Facendo seguito alla iniziativa promossa nel 1975, durante la quale furono recuperati e posti nel civico museo un capitello corinzio e due antiche campane di bronzo, il quadro della SS. TRINITA’ ed altri oggetti sacri, l’Associazione Archeologica A. KLITSCHE DE LA GRANGE, ha intrapreso una serie di ulteriori lavori fin dal maggio del 1987, al fine di sensibilizzare la popolazione locale e gli enti pubblici alla salvaguardia e al recupero del più antico luogo di culto cristiano del comprensorio. Il sito si presentava interamente avvolto da rampicanti di vario genere e l’unico locale ancora con il tetto in discreto stato di conservazione era la CHIESA DELLA TRINITA’, la quale però, avendo il cancello senza chiusura, era utilizzata come ricovero di animali, con il pavimento interamente coperto di letame. La situazione si presentava quindi catastrofica. Tuttavia la consapevolezza dell’alto valore storico e spirituale del luogo noto alla tradizione popolare locale come soggiorno di S.AGOSTINO, ci fece superare quel senso di impotenza di fronte alla mole dei lavori da eseguire e dei fondi necessari per le urgenti riparazioni. Per prima cosa si iniziò la ripulitura dell’interno della Chiesa dal letame, poi si estirparono i rovi dall’accesso Romitorio liberando anche il chiostro; fu utilizzata una catena con lucchetto per serrare momentaneamente il cancello di ingresso ed evitare così il ripetersi dell’uso, molto deprecabile, di ricoverare gli animali nel sito. Ripulendo il pavimento e l’altare della Chiesa, che era stato divelto da ignoti nella speranza di trovarvi all’interno degli oggetti, abbiamo constatato che il detto altare inizialmente era più piccolo e che il monolite di copertura vi era stato adattato poiché era più grande dell’altare iniziale e troppo piccolo per il più recente altare ingrandito (forse si trattava di un recupero da qualche altra struttura nelle vicinanze). Tra un lato di altare e il muro di ampliamento vi era rimasto murato anche un ex voto di rame a forma di cuore e lettere PGR (per grazia ricevuta). Il 20 giugno 1987 fu organizzata in collaborazione col comune di Allumiere una Mostra sulla Chiesa della Trinità in occasione del XVI Centenario del Battesimo di S. Agostino. Contribuirono a questa iniziativa anche altre Associazioni ed Enti coinvolgendo più largamente possibile la popolazione nel progetto di ricostruzione e recupero. 94 95 La mostra rimase aperta al pubblico tutti i giorni fino al 20 luglio e per l’occasione venne anche realizzata una video-cassetta ed una pubblicazione-catalogo. A settembre dello stesso anno furono ripresi i lavori, con la partecipazione di numerosi soci e volontari sotto la direzione dello scrivente, dell’Ispettore di zona, Dr. Gianfranco GAZZETTI e l’assistenza del sig. FEDELI. Vennero dapprima operati degli interventi d’urgenza su alcune strutture pericolanti, quali il tetto dell’oratorio di S. Maria delle Grazie, (o di S. Agostino), che ormai crollato, non assolveva più al compito di copertura e protezione anche dell’abside della chiesa della Trinità sottostante. Quindi a spese dell’Associazione Archeologica <<A. KLITSCHE de la GRANGE>>si provvide immediatamente al rifacimento del tetto tamponando contemporaneamente alla meglio una copertura nell’atrio dello stesso oratorio in imminente pericolo di cedimento, che avrebbe causato una serie di crolli a catena delle strutture. I lavori furono effettuati dal 15.9.1988 al 24.9.1988, determinando per la prima volta, dopo decenni di abbandono spoliazioni e devastazioni, una inversione di tendenza, che alimentò e rafforzò la volontà di recupero insista in vasti strati della popolazione, la quale chiamata poco più tardi a dare il suo contributo rispose così generosamente alla richiesta ed alle iniziative avanzate da apposito Comitato pro-restauro costituito nel frattempo, che le somme raccolte permisero l’esecuzione di altre opere di salvaguardia. Contemporaneamente attente osservazioni ed analisi delle strutture murarie e delle sovrastrutture che con i secoli si erano innestate hanno permesso in molti casi una nuova lettura del divenire di questo antichissimo Romitorio. Così l’attuale campanile a vela in mattoni è un evidente struttura sovrapposta ad una parte dell’antico campanile a pianta quadrata in grossi conci di pietra locale scalpellinata e verosimilmente terminante in una guglia appuntita, come appare in una stampa del XVII secolo. I locali della sottostante sacrestia sono stati ugualmente ricavati in un secondo tempo (verosimilmente nel contempo della realizzazione del predetto Oratorio), utilizzando il vano del campanile e ampliandolo dal lato nord verso l’abside della Chiesa della Trinità ove è ben definita dai conci di tufo agli angoli. Da rilevare, inoltre, che l’angolo sud-est di questa Chiesa è stato unito all’angolo del campanile da una evidente muratura di collegamento. Allo stesso periodo dovrebbe risalire anche la realizzazione della scala di accesso al predetto Oratorio. 95 96 I gradini estremamente consunti dall’uso sono di nenfro, ma potrebbero trovarsi in giacitura secondaria in quanto non completano tutta la gradinata ed inoltre sono stati rilevati, sotto di essi, gradini di mattoni in taglio. Lo stesso ingresso dell’Oratorio ha subito nel tempo uno spostamento verso il centro della precedente posizione a destra, come è testimone lo stipite e parte dell’arco murati e reintonacati a seguito dello spostamento dell’ingresso. Risulta evidente che la prima posizione dell’ingresso sulla destra era dovuta al fatto che le campane nel vecchio campanile a pianta quadrata erano posizionate più all’interno rispetto al campanile a vela e quindi le funi per suonarle passavano più internamente occupando parte dell’atrio; di conseguenza il passaggio delle persone doveva spostarsi verso destra. Una botola ancora visibile sulla volta della sacrestia testimonia questo passaggio più interno delle funi. Il tipo di calce più utilizzato e la presenza di una croce templare incisa nell’intonaco relativo allo stipite in tufo del più antico ingresso dell’Oratorio, fanno supporre la sua realizzazione o almeno un suo rimaneggiamento, nel XIII-XIV secolo. Risalirebbero a questo periodo anche le due lapidi incise in caratteri gotici. Una, <<NE PROPERA SIVE VIATOR...>> viene ricordata da documenti del 1650 in poi ed era apposta sulla facciata esterna della Chiesa della S.S. Trinità. Dell’altra, <<VETUSTISSIMUM MONACHORUM...>> si conosce soltanto l’ultima ubicazione, ossia a destra dell’ingresso al sopracitato Oratorio di S. Maria delle Grazie. Infatti ancora oggi si può vedere incavata nel muro la nicchia per l’alloggiamento di tale lapide, che ha permesso di conoscerne le dimensioni: 62x31 cm. Questa giacitura è sicuramente secondaria in quanto poggiante parte sul vecchio stipite e parte sul muro accostatogli per lo spostamento dell’ingresso verso il centro, come abbiamo visto sopra. L’ubicazione originaria è invece ipotizzabile accanto all’ingresso dell’antico Romitorio, anche perché ad esso sulla lapide si fa espresso riferimento. Probabilmente questa lapide deve aver subito più di uno spostamento, se nel 1657 (LANDUCCI, 1657), poi nel 1667 (come riportato da CORTESELLI-PARDI, 1983, 146) risulta a destra dell’ingresso citato, mentre P. BONASOLI che scrive le memorie nel 1782, la descrive nel muro divisorio tra le due Chiese (della Trinità e del Soccorso). Comunque nel corso del XIX secolo, sia il FALZACAPPA (ms. F.F. 24) sia l’ANNOVAZZI (1853, 162) che il MIGNANTI la ubicano fuori del predetto Oratorio, dedicato a S. Maria delle Grazie (le due lapidi più non esistono; furono asportate da mons. 96 97 D’ARDIA CARACCIOLO ai primi del nostro secolo, forse destinate al museo di Civitavecchia (D. KLITSCHE ms.) che subì nel 1945 i bombardamenti alleati. Fortunatamente ci rimangono le copie disegnate lettera per lettera da Pietro FALZACAPPA nella I metà del secolo scorso. Un’altra lapide di contenuto e caratteri analoghi, proveniente dai ruderi di antiche strutture nell’area del Porto di Bertaldo, (oggi S. Agostino) ed anticamente chiamato Porto di Giano, fu ritrovata al tempo di Papa Clemente VIII (1583-1605) e trasportata nella chiesa di S. Marco in Corneto (LANDUCCI -1617). Anche di questa epigrafe ci rimane la copia trascritta da Pietro Falzacappa. Un’altra epigrafe proveniente dalla finestrella al lato della Chiesa della Madonna del Soccorso, con caratteri gotici, è invece conservata presso il locale museo civico. La Chiesa della Madonna del Soccorso, anche se presenta una tecnica costruttiva con impiego di conci di tufo nei punti d’angolo, simile a quella utilizzata per la Chiesa della Trinità, tuttavia la sua costruzione dovrebbe essere di molto posteriore. D’altronde l’utilizzazione di tufi agli spigoli appare anche in un evidente ampliamento verso sud-est del Romitorio. Il muro divisorio tra le due chiese presenta alla base un rinforzo <<a scarpa>>, tipico della parte esterna di edifici costruiti su terreni in pendio. Inoltre tra le due chiese si nota un dislivello di circa 50 centimetri, colmato da due gradini che salgono alla chiesa della Trinità attraverso una porticina, aperta per mettere in comunicazione le due chiese. Infine la costruzione di un unico tetto a due pendenze, mantenendo nella chiesa della Trinità la sua originaria capriata di legno, è una ulteriore dimostrazione della differenza cronologica tra le due costruzioni. Ciò permise di ricoprire nuovamente il tetto della Chiesa della Trinità come in origine, quando nel 1950 dovette crollare il tetto della attigua chiesa della Madonna del Soccorso. Nulla ci è finora pervenuto circa l’epoca di costruzione della chiesa dedicata alla Madonna del Soccorso. La sua prima menzione risalirebbe al 1667, nella relazione della visita pastorale del Vescovo di Corneto, PALUZZI, (così almeno ci viene detto da PARDI e CORTESELLI autori di <<CORNETO COM’ERA>> che riportano ampli brani di questa relazione, nei quali in verità non figura la Chiesa dedicata alla Madonna del Soccorso; ma potrebbe trattarsi di una lacuna). Anche un inventario del 1669 redatto dal notaio DE ROSSI in cui sono elencati i beni esistenti presso l’Eremo della Trinità, si riferirebbe a questa chiesa, ad un antico 97 98 quadro su tavola della Madonna del Soccorso e ad un breviario (MIGNANTI/MORRA 1936). Purtroppo anche questo secondo documento non si trova più nell’archivio storico di Tolfa. Il POLIDORI, che scrisse tra il 1673 e il 1683 e che come segretario del Cardinale PALUZZI-ALTIERI, forse l’accompagnò nella visita pastorale del 1667, tra l’altro riferendosi all’Eremo della Trinità, parla di Chiesa primaria e <<Chiesa Maggiore>>, sottintendendo un’altra chiesa accanto, appunto quella della Madonna del Soccorso. Comunque quest’ultima chiesa è esplicitamente citata nella descrizione della visita pastorale effettuata dal Vescovo di Sutri e Nepi nel 1707 e nelle memorie del Padre BONASOLI redatte nel 1782. Da una attenta osservazione di una pianta dipinta nel 1609 da Bernabeo LIGUSTRI, si desume che in quel periodo non era ancora stata costruita la seconda chiesa. Anche nella lettera del Vescovo Anania del 1660 non si fa cenno alla Chiesa del Soccorso. Pertanto è da ritenere la costruzione della chiesa del Soccorso in un periodo che va dal 1609 al 1667, al fiine di dirimere la controversia fra Sutri e Corneto. Non trattandosi di ampliamento della Chiesa della S.S. Trinità ma di una nuova Chiesa affiancata all’altra e posta in comunicazione, attraverso un’angusta porticina, il motivo della sua costruzione va ricercato nella lunga disputa tra le diocesi di Corneto e di Sutri circa la Giurisdizione sulla Chiesa ed Eremo della Trinità ed annessi privilegi, proprietà e diritti. La costruzione quindi di una seconda chiesa da attribuire ad una delle due diocesi avrebbe dovuto porre fine alla lunga disputa che però sembra si sia protratta per circa duecento anni, fino al 1845, o 1854 (CORTESELLI-PARDI, 147; MIGNANTI-MORRA). Dall’esame delle visite pastorali risulterebbe che l’ultima visita effettuata alla Chiesa ed Eremo della Trinità dal Vescovo di Corneto, PALUZZI fu quella del 1667, mentre in seguito vennero fatte dai vescovi di Sutri negli anni 1670,1672, 1695, 1697, 1701 e 1707 (CHIRICOZZI 1990, 340). C’è da supporre quindi che dal 1670 circa la Chiesa della Trinità con l’oratorio di S. Agostino e l’annesso Convento sia stato assegnato alla diocesi di Sutri, mentre la Chiesa della Madonna del Soccorso alla diocesi di Corneto. Sembra però che dal 1710 al 1845 le due diocesi continuassero a scambiarsi minacce di scomuniche e rivendicazioni della proprietà e delle visite pastorali. Nel 1794 vi furono posti due confessionali, riservati uno al vescovo di Corneto, l’altro a quello di Sutri (CORTESELLI PARDI, 147). 98 99 Soltanto nel 1850 con la costruzione della Diocesi di Civitavecchia che comprendeva anche i comuni di Tolfa ed Allumiere, la competenza passò alla nuova diocesi e nel 1854, con l’unione delle Diocesi di Civitavecchia e Corneto finirono definitivamente le secolari controversie. Ritrovamenti all’interno della Chiesa della Madonna del Soccorso Durante una ricognizione effettuata con alcuni Soci, nel 1984 lo scrivente ha recuperato, tra i calcinacci di crollo, parte di un mattone romano bipedale con il bollo <<PORTTRAI>>, che era stato riutilizzato nell’erezione dell’altare della Chiesa della Madonna del Soccorso. Recentemente durante i lavori di sgombero del materiale di crollo, che aveva raggiunto oltre un metro di altezza, sono stati recuperati altri frammenti di mattoni romani, sia vicino all’altare, sia nell’area d’ingresso della chiesa. Sono stati inoltre recuperati durante la ripulitura della Chiesa della Madonna del Soccorso i seguenti materiali: una lampada votiva di rame, frammenti di lastra di rame forata per uso di confessionale, un blocco di pietra con intacca laterale, una doppia carrucola e due ex-voto d’argento e di rame. Area Claustrale Da ulteriori osservazioni delle strutture murarie è emerso che nella parete sud della chiesa della S.S. Trinità, sono state aperte poi richiuse, due porticine che immettevano nel chiostro. Almeno una delle due porticine esisteva nel 1667, in quanto ne fa cenno la descrizione della visita pastorale. Il livello dei gradini, costruiti con mattoni rettangolari in taglio come il gradino dell’ingresso principale, è pertinente alla ultima e attuale pavimentazione della Chiesa. Lungo la parete esterna della chiesa, ove sono le due porticine, esiste un canale acciottolato per il deflusso delle acque piovane che vengono convogliate attraverso apposita canalizzazione al di fuori dell’area claustrale. Lo sgombero del materiale di crollo del chiostro, come degli altri ambienti, ha richiesto notevole impegno, per la necessità di selezionare i materiali al fine di una loro riutilizzazione e per meglio leggere le eventuali stratificazioni. Nell’area circoscritta dal chiostro è venuta alla luce una gradinata con ampi gradini formati da ciottoli e frammenti laterizi tenuti da pietre più grandi più o meno squadrate, 99 100 che immetteva nell’atrio del porticato a nove arcate antistante l’ingresso all’area conventuale. Detta gradinata, era formata da detriti e materiali di crollo con frammenti ceramici di epoca rinascimentale e post-rinascimentale. Nel lato sud a fianco della gradinata fino al muro d’angolo del chiostro, in un periodo posteriore al 1867, era stato costruito un acciottolato che ha praticamente sigillato il materiale sottostante di riempitura, alla cui base era stata ricavata una vasca, scavandola nel terreno vergine reno argilloso impermeabile. Saggio <<C>> allargato (*) Sotto questo acciottolato infatti a cm.10 è stata ritrovata una monetina del 1867 di Vittorio Emanuele II; in uno strato di qualche centimetro sotto, un’altra monetina del 1802 di PIO VII, confermava la disposizione cronologica degli strati, ribadita dalla presenza sul fondo, a contatto del terreno argilloso della vasca anzidetta, di ceramica rinascimentale. Saggio <<C2>> In uno strato nerastro a contatto del terreno vergine ritrovata una pipa nera con dentellature ed una monetina romana, molto corrosa, attribuibile al II secolo dopo Cristo. Dalla stessa area C e dalle vasche ad arco provengono altre monetine e frammenti ceramici post-rinascimentali. Anche l’acciottolato che costituisce la pavimentazione dell’atrio del chiostro e del primo ambiente interno (B) del convento è stato realizzato in epoca tarda, forse contemporaneo alla gradinata antistante. Saggio <<B>> Sotto l’acciottolato a cm. 15 circa sono stati infatti ritrovati frammenti ceramici riferibili al XVI-XVIII sec.; a 30 cm. sono stati notati segni di rimaneggiamenti forse di un più vecchio lastricato o di un vespaio. Settore <<G>> Al fine di accertare la presenza o meno nel chiostro di eventuali antiche strutture, è stata operata una trincea in senso sud-nord quasi a contatto del terreno vergine, sotto il piano biancastro renoso di calpestio, formato alla base dello scalino di pietra venuto alla 100 101 luce e pertinente alla suaccennata gradinata di accesso al convento, sono stati ritrovati frammenti ceramici del XVII-XVIII sec.; un frammento del XV-XVI sec. è emerso a contatto del vergine. Ciò potrebbe significare che in questo periodo si è provveduto probabilmente ad una ripulitura dell’area (forse con lo scopo di costruire una gradinata) fino al terreno vergine, sul quale si sarebbe depositata la ceramica contemporanea, poi coperta da questo strato renoso biancastro del XVI-XVIII sec. (ossia a 160 cm. quota rossa). * Continuando lo scavo della trincea <<G>> ci si è imbattuti a cm. 40 da terra e 160 cm. dalla quota rossa, in una struttura muraria con andamento trasversale, asimmetrico rispetto a tutte le emergenze murarie esistenti. Misura cm. 100 di larghezza e costituisce una canalizzazione in pietra legata con malta, scavata nella roccia friabile e con spondine interne in mattoni rettangolari in taglio intonacati; nel terreno di contatto della volta, esternamente, è stata ritrovata una monetina d’argento di INNOCENZO XI (1686). Questo ritrovamento ha naturalmente determinato un allargamento dell’area del saggio <<G>> predisponendo una quadrettatura di cm. 200 x200 e accompagnando la <<G>> con i numeri da 1 a 15 (vedi grafico ANGIONI). Seguendo la canalizzazione si è riscontrato che in corrispondenza del muro di chiusura dell’area claustrale, il condotto è stato troncato e deviato demolendo la parte sinistra onde permettere all’acqua di riversarsi in un passaggio a tal uopo ricavato nel detto muro con un arco di mattoni. Detto canale doveva esistere già prima delle sepolture A e B del saggio D/D1 in quanto lo strato sabbioso ritrovato a quota 280 in quel saggio è probabilmente il risultato dello scorrimento dell’acqua fuoriuscita dall’arco in mattoni e prima anche di ricavare l’area antistante tramite riempitura. E’ probabile che detto canale preesistesse anche alla Chiesa della SS. Trinità in quanto seguendo il suo andamento obliquo avrebbe dovuto attraversare le fondamenta dell’angolo sud. E’ proprio a seguito dell’erezione della Chiesa che forse si rese necessaria la deviazione del condotto, come abbiamo visto. (*) Per l’individuazione dei vari saggi e settori si fa riferimento al grafico ANGIONI che si riporta a pag... Per quota rossa si intende il livello convenzionalmente corrispondente al piano di calpestio acciottolato nell’atrio del Romitorio (settore B), che rappresenta appunto la quota 0. Per quota nera si intende invece un livello posto per motivi di praticità, cm. 35 più in alto della quota rossa. * 101 102 Lungo la base del condotto, a cm. 180 da quota rossa, ritrovati mattoni rossi rettangolari, posti in piano, quasi a contatto del vergine; a cm. 200 quota rossa un frammento ceramico graffito della II metà del XV secolo. Nel settore <<G8>> è venuta alla luce una sepoltura, orientata est-ovest. La fossa è in gran parte scavata nel terreno vergine e ricoperta dallo stesso terreno argillo-renoso senza humus (è probabile che sia stata scavata in una fase di artificioso livellamento del terreno vergine). L’inumato, lungo circa cm. 165, ha le braccia incrociate e presenta la parte anteriore del teschio frantumata e caduta al suo interno. Le estremità inferiori sono leggermente piegate con una lacuna nell’osso femorale sinistro, forse per la posa di un palo di legno, come si può vedere anche di altri vicini buchi. Nel settore <<G1>> a cm. 155 quota rossa ritrovato un frammento ceramico di tazza blu cobalto e lettera. Nel settore <<G2>>, in prossimità dell’arco in mattoni, a circa 250 cm. dalla quota nera, all’altezza dell’imposta d’arco ritrovato un frammento ceramico e ramina con motivi lanceolati e puntini (XIV secolo). Settore <<H>> Ripuliti dal materiale di crollo i gradini della scala e dell’atrio d’ingresso al convento e ritrovati: parti del <<TORO>> di colonna di marmo verosimilmente spaccato per utilizzarlo in pezzi nei muri, e numerosi frammenti di mattoni romani di cui uno con bollo <<PORTTRAI>>. E’ stato poi eseguito un saggio nel settore <<H>>, a lato della scala che porta all’oratorio delle Grazie, che risultava coperto da un tavolato spesso ma marcio, sovrapposto ad un acciottolato leggermente più basso dell’acciottolato anteriore (H1), posto sullo stesso livello di quello relativo all’atrio del chiostro. In uno strato che va da 40 a 100 cm. dall’acciottolato, che corrisponde all’incirca alla quota 0 rossa, ritrovati frammenti ceramici da cucina in biscotto e due grossi frammenti di tazze con motivi a <<grottesca>>, un frammento di boccale e alcune ossa di animali non combuste; a cm. 80-100, uno spesso strato carbonioso con ceramica da cucina, vetrini e carboni. Allungato il saggio <<H>> in <<HL>>, sotto l’acciottolato trovata una monetina di Pio VII (1800-1823), che può rappresentare un <<termine post quem>> relativo a quell’acciottolato; a cm. 100 uno strato renoso biancastro, a cm. 130 uno strato grigio compatto sul quale poggia il muro delle scale (da notare infatti che l’intonaco del 102 103 campanile in quella faccia, arriva all’incirca proprio a quell’altezza; tra le scale ed il muro di base all’arcate del chiostro c’è uno strato di riempimento rossastro, resosi necessario per il livellamento della trincea operata per posare il detto muro. Tra i due strati tra cm. 120 e 130 rinvenuti frammenti ceramici in ferraccia e blu cobalto (XV-XVI sec.); a cm. 160, accanto al muro del campanile, frammento ceramico rinascimentale (I e II metà del XVI sec.). Nel saggio H-H1 i reperti ritrovati sotto l’acciottolato coprono un periodo che va dagli inizi del XVI agli inizi del XIX sec., con un termine <<post quem>> per l’acciottolato di inizio XIX secolo. Nella ripulitura del settore <<H3>>, ritrovato a contatto dell’acciottolato, forse proveniente da crolli sovrastanti oppure da caduta di intonaci cui erano serviti da <<rincoccio>>, un frammento di tazza decorata a <<grottesca>> (XVII secolo), simili a quelli ritrovati nel saggio <<H>>, un elemento architettonico in nenfro con motivi scolpiti ad intreccio, un’ansa di boccale con tratteggio in manganese e ramina, un fondo tazza con motivo ad <<asterisco>> in manganese. Inoltre sono stati ritrovati colature e globi di fusione di rame ossidato in verde e frammenti ceramici tardi (XVII-XVIII) forse utilizzati come <<rincoccio>>. Con la ripulitura del settore <<H3>> si è messa in luce una porta di comunicazione, in seguito murata, ed una fontana a edicola con vasca di raccolta e cannello in pietra scanalato. Sopra il parapetto della vasca era stata murata una lastra di marmo bianco venato con solco per grappe di unione: evidente riutilizzo. Nel settore <<H4>> ritrovati, durante la ripulitura, oltre a numerose pianelle e coppi anche interi, pezzi di intonaco giallognolo con strisce orizzontali rosse, come ancora si vedono in alcuni ambienti soprastanti del Romitorio, segno che anche in quel settore del chiostro esistevano degli ambienti sovrastanti. Rilevante il ritrovamento, tra i crolli, di un lumino da tavola (tavolozza o leggio), in ferro ed un concio di tufo scalpellinato per imposta d’arco del chiostro. Al fine di verificare l’esistenza o meno di un condotto per il deflusso dell’acqua dalla fontanina ad arco, fino alle vasche arcuate sottostanti, è stato effettuato un saggio nel settore <<H4>> contraddistinto con <<HX>>. E’ stata scelta quest’area di <<H4>> anche perché in quel punto mancavano dei mattoni del pavimento; infatti a pochi centimetri dal piano di calpestio ritrovata una canaletta con muratura in pietrame ricoperta da uno strato di argilla, forse per evitare infiltrazioni di acqua. 103 104 A cm. 10 dal massetto di rena e calce per l’allettamento del pavimento in mattoni, sono stati rinvenuti 5 frammenti di ceramica invetriata pertinente ad una ciotola ed un frammento di forma chiusa in <<righettato ovale>> in blu cobalto (II metà XV, I metà XVI sec.). Stratigrafia ______________________ Centimetri “ 3 ______________________ mattoni rettangolari; 6 “ _____________________ 1 ______________________ massetto rena-calce; cenere e suolo bruciato; “ 10 - - - - - - - - - - - - - - - - - - - argilla o impasto argilloso renoso cotto rossastrro; “ 30 strato scuro di humus; _____________________ ///////////////////////////////////// terreno reno- ///////////////////////////////////// vergine bianco- ///////////////////////////////////// con striature argilloso grigio rossastre. Tra lo strato argilloso cotto e quello scuro humico ritrovati fram. ceram. II metà XV secolo. A 20/25 cm. dal pavimento sotto lo strato rosso cotto, sono stati ritrovati framm. ceram. con blu cobalto del XV sec. e ramina-manganese del XIV secolo. A 30/40 cm. con un’ansa larga in biscotto. Settore <<H5>> In questo settore è stata riportata alla luce l’angusta scala con volta a botte che immetteva in un pianerottolo, dal quale si sarebbe dovuto accedere, forse tramite gradini in legno, al porticato sottotetto, relativo agli ambienti conventuali del II piano. 104 105 I gradini della scala, sono risultati sconnessi, ed erano formati da mattoni in taglio; in qualche punto sostituiti da blocchi più o meno squadrati di pietra. Settore <<B>> (ripulitura) Ritrovati nella prima metà del settore <<B>>, dei frammenti ceramici relativi alla II metà del XV sec. Presentano della malta attaccata, segno del loro riutilizzo come rincocciatura di intonaco in una delle fasi di costruzione o ricostruzione del Romitorio, quella appunto documentata, dopo il 1462. Settore <<B1>> (ripulitura e saggio) Questo settore occupa la parte posteriore dell’ambiente <<B>>. A contatto dell’acciottolato ritrovate numerose medagliette ovali fuse in mistura di rame (bronzo) con doppio appiccagnolo, pertinenti ad una o più corone da rosario, che forse erano a corredo di una statua lignea raffigurante forse la Madonna dei Sette Dolori. Infatti su quasi tutte le medagliette è rappresentata al dritto appunto la Madonna dei Sette Dolori ed al rovescio 7 scene della vita di Gesù; inoltre poco distante a 20 cm. dall’acciottolato è venuto alla luce un bel diadema di vaghi di ferro e intarsi di rame con ancora incastonati 5 ovali di ametista dei 7 originari, a simboleggiare anche questo ornamento del capo i 7 Dolori. Un chiodino di rame ancora inserito nella parte terminale del diadema, ci ha convinti della sua appartenenza ad una statua lignea di Madonna. Ritrovati inoltre, sempre in questa piccola area, un crocefisso di metallo con i simboli della Passione di Cristo e una perlina celeste forata. Tra il materiale di crollo, ritrovato anche un cucchiaio, una colata circolare di piombo ed un calamaio di vetro, integro, con stampigliate le lettere AN. Al fine di accertare anche in questo settore la consistenza degli strati sottostanti l’acciottolato, è stato fatto un saggio esplorativo in <<B1>>, dove l’acciottolato sembrava sconnesso o avvallato; a circa cm. 60 dall’acciottolato ritrovato terreno vergine e argilloso di colore grigio; sopra di esso un vespaio di pietre arrossate da percolazione di acqua ferruginosa (che interessa anche tutta l’attigua area <<B2>>) coperto di uno strato di circa 5 cm. in media di massetto di malta rena-calce, su cui poggia l’acciottolato di calpestio. Il saggio <<B1>> non ha restituito reperti. Settore <<B2>> (ripulitura e saggio F) 105 106 Tra il materiale di crollo ritrovato un mattone romano triangolare con solcature. Il piano di calpestio di questo settore è composto da uno spesso massetto di impasto biancastro composto di rena e calce, situato sopra un vespaio poggiante sul terreno vergine. Un apposito saggio <<F>> è stato effettuato per accertare la consistenza di eventuali stratificazioni in questo settore considerato la parte più antica del complesso monastico della Trinità. Il saggio <<F>> non ha restituito reperti. Stratigrafia saggio <<F>> - - - - - - - -- - - - - - - - - centimetri 6/8 massetto di rena e calce biancastro; “ ---------------------------------5/10 vespaio di pietre; ---------------------------------/////////////////////////////////////// terreno argilloso ////////////////////////////////////// con presenza di ////////////////////////////////////// silicee. sterile vene (N.B.) Questo massetto gettato in unica soluzione ricopriva sul lato sud-est una canaletta per l’acqua (ferruginosa), costruita in mattoni rettangolari di buona cottura legati con malta. E’ stato inoltre accertato in questo settore <<B2>> che il muro di riempitura, forse a sostegno degli archi in peperino (la differenza tecnica costruttiva faceva ritenere quest’ultimi di più antica costruzione, forse alto medievale), risulta poggiante sul plancito o terreno vergine, al di sotto quindi del massetto bianco di calpestio che invece gli è sovrapposto. Ciò fa ritenere che detto massetto è posteriore sia alla esecuzione degli antichi archi in conci di peperino, sia al posteriore muro di riempitura o di sostegno di quegli archi. 106 107 Sepolture Durante l’esecuzione dei lavori ed in particolare nel seguire il tracciato di vecchi fognoli da riutilizzare, previa rimozione di terra e radici, per lo smaltimento delle acque piovane dell’area del chiostro, sono venute alla luce alcune sepolture cristiane a fossa, prive di suppellettili (da notare che tra il terreno superficiale sopra il fognolo <<S>> è stato ritrovato un fermaglio d’argento, forse pertinente ad una sepoltura sconvolta dai lavori di scavo per il fognolo). Di quella rinvenuta nel saggio <<G>> abbiamo già parlato, le altre sono state ritrovate nell’area antistante la Chiesa della Trinità. Saggio <<E>> Alcune sepolture, sconvolte <<ab antiquo>> dai lavori per la costruzione del fognolo di scolo <<S>>, erano poste per lungo tra le fondamenta della Chiesa ed il suddetto fognolo, ad una profondità di cm. 265 dalla quota nera e cm. 80 dalla quota del pavimento della Chiesa della Trinità; altri due teschi giacevano a quota 325 cm. ed erano reclinati di lato in senso contrapposto. Queste sepolture sono sicuramente posteriori alla costruzione dove sorge ora l’attuale Chiesa della Trinità, in quanto le ossa di una mano erano appoggiate alle fondamenta. C’è da rilevare che la Chiesa della Trinità è stata costruita previo livellamento di un terreno in pendio, quindi su di un pianoro artificiale e ciò spiega anche il fatto che le sue fondamenta risultano molto profonde, proprio per la necessità di poggiarle sul masso compatto del terreno vergine grigio-rossastro, ad una profondità di circa cm. 180 dall’attuale livello di pavimento della chiesa e cm. 365 dalla quota nera. Anche le mura attualmente interrate risultano intonacate fino a cm. 245 quota nera. Anche questo indizio avvalora l’ipotesi di un più antico livello di pavimentazione sottostante l’attuale e di conseguenza un più basso livello di calpestio esterno. Quindi la piazzetta antistante, costituente il Sagrato, è stata realizzata con terreno di risulta ed i fognoli hanno in parte sconvolto le preesistenti sepolture. Nel saggio <<E>>, tra gli 80/100 cm. dall’attuale livello di calpestio, sono stati ritrovati resti di inumati e due frammenti di ceramica riferibili al XIV secolo. Circa l’orientamento delle sepolture, non è stato rilevato alcun criterio uniforme; prevalgono tuttavia le giaciture sud nord. Saggio <<D-D1>> 107 108 Anche nel saggio D e D1, le due sepolture (A e B) venute alla luce giacevano in posizione contrapposta su differenti livelli, ma entrambe sottostanti al fognolo <<S1>>. La prima sepoltura (A), integra, in posizione supina e braccia incrociate sul petto, aveva le estremità inferiori inglobate in un muro di recinzione dell’area claustrale in pietra e malta bianca; costruito quindi in epoca posteriore alla sepoltura e forse coevo dei fognoli, nell’ambito di una generale ristrutturazione del complesso monastico e dell’area claustrale. Nella pittura su tela raffigurante le tenute della Camera Apostolica di Bernabeo LIGUSTRI del 1609, si vede chiaramente delineato l’Eremo della Trinità ed il tracciato del muro di recinzione di cui trattasi, sotto il quale giacevano le ossa delle estremità inferiori della sepoltura <<A>>. Il saggio <<D1>> è stato effettuato seguendo un criterio stratigrafico, rilevando i dati più significativi. Partendo da una quota <<O>> (nera) posta in quel punto a circa 150 cm. dall’attuale livello di calpestio, è stata delimitata un’area di cm. 200x150 e quindi sono stati operati dei tagli orizzontali successivi di circa 10 cm. ciascuno. -------------cm. 150 quota <<O>> (nera); livello di calpestio attuale; -------------------------cm. 180 staterello biancastro con calce; --------------------------- framm. cer. (ferraccia, manganese, ramina). cm. 213 corrispondente alla parte superiore esterna del fognolo <<S1>>, una monetina e framm. ceram. Fondo ciotola motivo a cuore verde ramina. Altro con tratteggi interni in manganese (XIV sec.), frammento forma chiusa con linee manganese e tracce ramina (XV) simile ad altro frammento ritrovato a quota 200. -------------------------da cm. 225 a 250 Ossa umane di sepolture più superficiali sconvolte dai lavori del fognolo o del muro recinzione. ---------------------------cm. 260 Scheletro integro di cristiano inumato con braccia incrociate sul petto. A contatto del teschio un framm. ceram. medievale. Accanto al bacino un framm. di boccale con ramina diluita, manganese e ferraccia, attribuibile al XIII/XV sec.; lunghezza della sepoltura circa 170 cm. --------------------------- 108 109 cm. 270/280 Dopo la rimozione della sepoltura, nello strato immediatamente sotto, framm. ceram. d’uso non invetriati e in biscotto grigio, altri invetriati, tra cui la parte carenata di una tazzina decorata con fasce ramina ed il fondo di boccale invetriato. Tra i frammenti non invetriati uno è di impasto nero ingubbiato di tipo protostorico. cm. 280/290 (cioè circa 20/30 cm. sotto lo scheletro) uno strato di circa 10 cm. di fine sabbia, verosimilmente ivi depositata da acque di scorrimento. Ciò fa supporre che in origine, comunque in un periodo anteriore alla realizzazione della spianata con terra di riporto per l’erezione della Chiesa, è corsa dell’acqua che trascinava con sè della sabbia fine che si depositava negli avvallamenti del terreno. Da rilevare che in concomitanza di questa sepoltura, nel muro di recinzione del chiostro c’è l’arco in mattoni, nel cui livello all’altezza dell’imposta d’arco, come abbiamo visto trattando del settore <<G>>, è stato ritrovato un framm. ceram. attribuibile al XIV secolo. Siccome in antico quell’arco doveva servire per permettere la fuoriuscita dell’acqua, anche piovana, dall’area del chiostro, è da ritenere che quello strato di sabbia fine di cui si tratta, sia dovuto appunto a questo scorrimento. - ---------------cm. 300 trovato terreno vergine grigiastro. Dalla stessa area del saggio <<D1>>, opportunamente allargata, proviene un’altra sepoltura (B) deposta in senso contrario all’altra, ossia con la testa a nord e piedi a sud. Giace in un livello superiore di cm. 15/20 rispetto alla sepoltura <<A>>, cioè a quota 245. Questa sepoltura, contrariamente a quella <<A>>, che è stata rimossa e trasportata al Palazzo Camerale per porla nel civico museo, dopo rilievi e foto, è stata ricoperta e lasciata in sito. Nella terra di copertura, a contatto con lo scheletro, ritrovato un framm. ceram. biscotto un bianco con ramina. Lo strato sottostante la sepoltura <<B>> è composto da terreno rossastro e grigio più compatto, entro il quale è stata scavata la fossa. A quota 295 di questo strato, trovati ancora framm. ceram. in biscotto ed un elemento di ferro. La sepoltura presentava il cranio fratturato nella parte del setto nasale, forse a causa della pressione del terreno sottoposto a continuo calpestio e le braccia incrociate; presentava un dente canino sovrapposto e ciò ha fatto supporre la sua identificazione con il leggendario <<CIGNALE MINATORE>>, eroe popolare dell’omonima rievocazione storica 109 110 romanzata della seconda metà del XV secolo di Antonietta KLITSCHE de la GRANGE, in cui si descrive la sepoltura appunto di <<CIGNALE>> e sua madre all’Eremo della Trinità. All’epoca in cui fu scritto questo romanzo storico (II metà del XIX sec.), poteva ancora esistere una biblioteca o archivio conventuale, tra i cui documenti o memorie tramandate potrebbe esservi stato anche quello relativo appunto alle sepolture sopradescritte. Una firma di Antonietta KLITSCHE de la GRANGE, ritrovata sopra la parete di un ambiente superiore del Romitorio e datata 1874 5 febbraio, testimonia la frequentazione del luogo da parte della scrittrice. Ennio Brunori Abbreviazioni bibliografiche Cat I= Catalogo Mostra Documentaria <<XVI Centenario del Battesimo di S. Agostino (387-1987)>>. La Chiesa della SS. Trinità nella tradizione eremitica agostiniana salvaguardia e recupero, a cura della Ass. Archeologica A. Klitsche de la Grange - Allumiere 1987. Cat. II= Catalogo II Mostra Documentaria <<Risorge l’Eremo della Trinità>>, a cura della Ass. Archeologica A. Klitsche de la Grange - Allumiere 1991. Graf. Ang.= Elaborato grafico a cura di Angioni Sandro Crusenio=N. Cruesen, Monasticon Autustinanium, Münich 1623. Giordano di Sassonia=Liber vitasfratrum Ediz. Arbesman 1943 (scritto circa il 1357) Enrico D. Friemar = Tractatus de origine et progressu ordinis fratrum eremitarum et de vero ac proprio titulo eiusdem. Ediz. Arbesman 1956 (scritto all’incirca il 1334). Landucci, 1657 = Ambrogio LANDUCCI, Sacra Leccetana Selva Roma 1657 110 111 Corteselli-Pardi 1983 = Mario Corteselli/Antonio Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983 Falzacappa= Pietro Falzacappa (1788-1875), Iscrizioni lapidarie di Corneto, Archivio Ms. F.F.24 - Archivio Soc. Tarquiniense d’Arte e Storia. Annovazzi 1853= Vincenzo ANNOVAZZI, Storia di Civitavecchia, Roma 1853. Mignanti, Mignanti/Morra 1936 = Filippo Maria MIGNANTI, Santuario della Regione di Tolfa-Memorie storiche a cura di Ottorino Morra, Roma 1936 D. Klitsche= Daniela KLITSCHE ANNESI, Pro-memoria, ms. senza data (19601970?) Polidori= Muzio Polidori, Croniche di Corneto, Tarquinia 1977 (trascrizione dal ms; 1673/1683) Bonasoli = Tommaso Bonasoli, Notizie della Religione Agostiniana e della Provincia Romana, ms. 1782 - Archivio Generale Agostiniano Chiricozzi 1990, Pacifico Chiricozzi. Le Chiese delle Diocesi di Sutri e Nepi nella Tuscia meridionale, Grotte di Castro 1990 Ant. Klitsche= Antonietta Klitsche de la Grange <<Cignale il minatore>> Ed. Paoline Vicenza 1965 (II ediz.) 111 112 RESTAURATI I MOSAICI COSMATESCHI NELLA BASILICA DI S. MARIA IN CASTELLO E’ nota a tutti, Soci e lettori del Bollettino, l’attenzione rivolta in questi ultimi anni dal nostro Sodalizio alla chiesa di Santa Maria in Castello, unanimemente dichiarata il maggior monumento del nostro Centro Storico e della città in generale. E come, per realizzare questo impegno, siano state spese, grazie anche e soprattutto alla Cassa di Risparmio di Civitavecchia, notevoli somme di denaro perché la basilica mariana riprendesse quel ruolo goduto in passato. La cerimonia pubblica, avvenuta due anni fa, con la presenza del cardinale Sergio Guerri, del Presidente della Cassa di Risparmio di Civitavecchia, dott. Vittorio Enrico Tito, e di molte altre autorità, compreso il popolo fedele, è valsa a tener desto l’interesse affinché di volta in volta si potesse dare all’occhio dei turisti, ma più a quello della nostra gente, la sensazione che il monumento da salvare e ripristinare non era altro che quello voluto dai nostri avi che impiegarono quasi cento anni di lavoro per innalzare ai fastigi della storia una fede e un amore che non hanno avuto l’eguale. Seguendo perciò questa doverosa attenzione, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia ha inteso voler dare inizio ai lavori di restauro del pavimento di mosaici cosmateschi, che rappresentano la parte più delicata e costosa di tutta l’opera di risanamento, effondendo quasi tutte le proprie risorse, con l’aiuto di altri Enti e privati della nostra città, fino a portare a termine un primo lotto: vale a dire l’altare basilicale, il presbiterio e il transetto che hanno visto brillare, grazie alla perizia della Ditta Medici Paolo & F. di Roma, lo splendore cromatico delle antiche pietre e delle antiche decorazioni. Ed è doveroso a questo punto dare atto alla generosità del Lions Club di Tarquinia, dell’Associazione Pro Tarquinia, del Centro Studi Cardarelliani, dei Soci signori Asquini Cambon Letizia, Pottino Guido, Savino Oberdan, Eusepi Bruno, Grispini Galatà Lidia e dell’Impresa edilizia di Luigi Lenzo. Non altri. Né è da tacere il fatto che il nostro Sodalizio ha sollecitato la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale a scandagliare il substrato del tempio alla ricerca di 112 113 testimonianze che accertassero la presenza di quello che veniva chiamato in epoca remota il Castel di Corneto, probabile insediamento etrusco. E così infatti è stato. Lo scavo stratigrafico in trincea, avvenuto da personale specializzato, ha dato il risultato previsto: sotto le basi della chiesa di S. Maria in Castello sono state rinvenute strutture risalenti ad epoca villanoviana. Non appena le condizioni stagionali lo permetteranno, lo scavo verrà ripreso in modo da chiarire la posizione e la funzione di questo castello, ignorato perfino dallo storico romano Tito Livio che ne ha nominati soltanto due a presidio e difesa dell’antica città di Tarquinia, la Civita appunto: precisamente i castelli di Cortuosa e Contenebra, volti uno a nord e l’altro a sud-est del territorio. Ma al di là di queste testimonianze storiche che avranno bisogno di tempo e di studio per acclarare tutto un passato ancora sepolto sotto i nostri piedi, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, avrebbe il desiderio di completare il restauro di tutto il pavimento cosmatesco della basilica: il che verrà a richiedere notevoli somme di denaro, se si considera che la parte restaurata, la quale rappresenta una parte di tutta l’opera, è venuta a costare oltre 56 milioni di lire. Se ci fosse sostegno da parte di tutti i cittadini e delle pubbliche Amministrazioni che governano il territorio, e principalmente degli Enti finanziari che amministrano tutta l’economia della nostra città e con notevoli profitti, si potrebbe nel breve giro di pochi anni, ancor prima del millennio che ci separa dalla posa della prima pietra, far sì che la basilica di S. Maria in Castello non solo potrebbe rappresentare un punto fisso nel prestigio turistico e artistico della nostra città, ma soprattutto un ritorno alla funzionalità di un edificio sacro che meriterebbe di essere officiato alla alla stregua di tutti i residui templi che sono sopravvissuti al tempo e alla distruzione. A conclusione di questa breve nota di cronaca perché resti documentata negli annali con esatta datazione, vorremmo far notare ai Soci e ai lettori che la ripulitura e il restauro dei resti dell’altare basilicale (demolito in buona parte dal vescovo di Corneto Cardinale Paluzzi Altieri per ornare la sua dimora romana) ha rimesso in piena luce un distico latino che corre su due lati delle architravi e che, a un’attenta lettura, rappresenta un modo di poetare in versi baciati, con qualche anticipazione su quel modo di poetare, tanto per citare un esempio, che ebbe in Jacopone da Todi uno dei maggiori esponenti. Basti pensare al suo <<Stabat Mater>>. Lo si pubblica in versi alternati perché ci si accorga di quanto detto. +VIRGINIS ARA PIE 113 114 SIC EST DECORATA MARIE QUE GENUIT CHISTUM TANTO SUB TEMPORE SCRIPTUM ANNO MILLENO CENTENO SEXTO ET AGENO OCTO SUPER RURSUS FUIT ET PRIOR OPTIMUS URSUS CUI CHRISTUS REGNUM CONCEDAT HABERE SUPERNUM. AMEN. Che tradotto in lingua corrente, vuol tramandare il nome del priore Orso che fece eseguire l’opera dell’altare basilicale da Guido e Giovanni, marmorari romani. Esso dice: <<Così è stato decorato l’altare della pietosa Vergine Maria che generò Cristo. Il distico venne scritto intorno all’anno 1168, quando fu di nuovo priore Orso, uomo egregio, a cui Cristo conceda un posto nel regno eterno. Così sia>>. Oltre a ciò, sono ritornate alla luce altri marmi con scritte latine, dato che tutto il materiale marmoreo venne sottratto ai cimiteri etruschi e romani, per essere riciclati e riutilizzati per le opere musive di tutta la nostra basilica che Vincenzo Cardarelli definì, in una sua accorata poesia, <<la gloriosa basilica/ruinata e superba>>. A noi cittadini dunque spetta di proteggere dalla rovina e dall’incuria questo sacro sito anche per ridargli quell’aspetto maestoso che ancora emana dall’alto sperone che lo sostiene. Bruno Blasi CHIESA DI SANTA MARIA IN CASTELLO IN TARQUINIA Analisi Storico-Critica. Anno 1983 La Chiesa di Santa Maria in Castello a Tarquinia, fu iniziata nel 1121 e ciò è provato dalla lapide esistente ancora nell’interno presso la porta maggiore, scritta in caratteri gotici che tradotta significa: <<Questa chiesa fu incominciata nell’anno millecentoventuno dell’era di Cristo, regnando Enrico, ed essendo Papa Calisto>>. Tuttavia è molto probabile che un’altra chiesa di S. Maria preesistette già nel luogo stesso, dove fu fondata 114 115 quella attuale, confermato ciò da un documento citato da numerosi studiosi come il Porter, il Pardi, il Dasti etc...., nel quale si sottopone alla giurisdizione del Vescovo di Toscanella <<la chiesa di S. Pietro posta sotto la ripa della chiesa di Santa Maria in Castello di Corgnito>>. Ed infatti sia la prima che la seconda Chiesa sorsero sopra un alto dirupo, che prospetta la valle del Fiume Marta ad ovest. Non ci è giunto il nome dell’architetto, ma sembra che il disegno dell’edificio, o almeno la direzione di esso, si debba attribuire ad un prete del luogo, di nome Giorgio, che insieme all’altro, prete Panvino, priore della nuova Chiesa, dopo Guido, ce ne tramandò la memoria scolpita in marmo in versi rimati leonini. Infatti la si può leggere sull’architrave del portale principale, che fu splendidamente ornato nel 1143 dai maestri marmorari romani dei Cosmati. Tradotti quei versi, dalla costruzione intralciata ed oscura, hanno in sostanza il seguente significato: <<Questo splendido ornato delle porte dell’almo tempio di Maria Vergine fu compiuto nel 1143 per cura di Panvino priore della Chiesa. Egli, caro a Dio per le sue buone azioni, e chiaro per rinomanza di una vita intemerata, curò che la Sua fabbrica si eseguisse a lode di Cristo, coadiuvato con fatti ed opere dal prete Giorgio, che non esitò a dare il concetto e il denaro. Si può notare però che le spese della nuova chiesa non furono soltanto sostenute dal prete Giorgio, che <<diede il concetto della fabbrica e la dote>>, ma che vennero in parte sostenute pubblicamente, e per contributo della cittadinanza stessa di Corneto. Una prova di ciò la si può leggere nel disco di mezzo, e nell’ultimo a sinistra dell’architrave, dove si trova la seguente iscrizione: <<Il Consolato di Corneto, ossia Andrea, Giovanni, e Pietro Ranieri, ordinò questo adornamento in oro>>. Questa iscrizione è anche un notevole documento storico dell’innovazione politica che dopo il 1000 si diedero i Comuni in Italia. Un’altra prova si ha in alcune delle 150 epigrafi esistenti nel pavimento a mosaico della chiesa. Da quelle piccole epigrafi risulta che furono contributori dell’opera i cornetani Massarius Donnaincasa, Meldina Angeli, Rainerius Alonis, Tacconus, et Trastollenza: altri nomi sono probabilmente andati dispersi. La nomenclatura e le forme delle lettere manifestano chiaramente che l’opera risale all’inizio del secolo XIII. Il contributo dei Cornetani è provato dalla epigrafe in versi leonini, sullo stipite del portale maggiore il cui significato è questo: <<O Vergine prega il tuo figliolo che protegga l’edificio, affinché questo popolo di Corneto felice ed a buon diritto sicuro compia lungamente il voto: e questo tempio, che esso con sincerità erige in tua lode, si conservi per lei puro da delitto>>: 115 116 Questa grandiosa chiesa è formata da un rettangolo lungo circa 45 metri, e largo circa 23 metri, (Dasti Luigi - vedi nota bibl.). Ha tre navate terminate da tre absidi con dieci archi per lato, e relativi piedritti con colonnine. Ad eccezione delle absidi coperte da semicupole, e lo spazio centrale delle navate, sormontata precedentemente da una cupola su pennacchi, (Artur Kingsley Porter, Lombard Architecture) ma ora ricoperta con tetto di legno, la chiesa è coperta con volte a costoloni innalzate su piani approssimativamente retti. Il sistema è alternato, così che due campate delle navate laterali corrispondono ad una singola campata della navata centrale. L’altare unico, isolato su quattro gradini, è coperto da un ciborio sorretto a sua volta da quattro colonne, ed un fonte battesimale composto da una vasca ottagonale cui fanno da ornamento marmi rari e svariatissimi. Lo stile delle cornici, delle decorazioni e delle lastre quadrate di alabastri senza fasce, né intarsi di tessellato, fa concludere che il battistero sia anteriore al secolo XI e provenga dalla primitiva chiesa che era sul luogo. Il pavimento a mosaico, che si conserva attualmente in circa metà dell’originario, secondo il parere del professor Carlo Boibo deve attribuirsi <<opera tessellata Cosmatesca, dalla famiglia dei Cosmati, architetti e marmorari mosaicisti romani del XII secolo, che la fecero fiorire, dopo averla portata ad un alto grado di perfezione, unendo all’opera tessellata in porfidi e serpentini le luci d’oro, e gli smalti>>. Vi fu anche una cupola ardita e bellissima nel centro della navata maggiore, ma purtroppo andò distrutta. Secondo Carlo Promis, è stata la prima cupola ad essere innalzata nell’Italia centrale. Era di forma leggermente ellittica nella parte inferiore, e traforata da sei archi, fra i quali sorgevano altrettanti piedritti per reggere una specie di tamburo di poca altezza. E’ esistita fino al 26 Maggio 1819, quando un violento terremoto ondulatorio distrusse in un momento l’opera durata per secoli. (Agincourt, Storia dell’Arte dimostrata con documenti. Ediz. di Prato del 1828. Memorie Falzacappa) Sono indicati in più luoghi gli artefici, che lavorarono in questa chiesa. <<Pietro figlio di Ranucio>> eseguì i lavori della facciata. Nel grande arco della cornice, che sormonta la porta, è incisa a semicerchio in due linee la seguente iscrizione ritrovata da Giovanni Battista De Rossi: <<Pietro figlio di Ranucio, marmorario non ignaro, fece queste mirabili opere>>. Nella finestra a doppio arco marmoreo retto da una colonnina nel mezzo, è scritto che il lavoro di opera tessellata cosmatesca di porfidi serpentini e giallo antico qui esistenti, fu fatto da <<Nicolao di Ranucio maestro romano>>. Il ciborio fu costruito nel 1168 dai maestri marmorari romani <<Giovanni e Guittone>> come può leggersi nel rovescio dell’epistilio. E su due lati di questo, l’epoca è determinata dall’altra iscrizione metrica che dice: <<L’altare della Vergine Maria, che generò Cristo, fu così decorato nell’anno 1168, 116 117 essendo nuovamente priore Orso, uomo egregio, cui Dio conceda godere il regno eterno, così sia>>: Le quattro colonne assai comuni e tozze, che reggono ora il ciborio, sono moderne; quelle che c’erano anticamente, molto più grandi e belle, perché di verde antico, furono tolte dalla chiesa nel 1672, dal Cardinale Paluzio Albertoni detto Altieri, vescovo di Corneto (De Novaes, Elementi di Storia dei Sommi Pontefici. Siena, 1803, tomo X) che non dubitando del consenso almeno tacito del Pontefice Clemente X Altieri, suo parente, fece trasportare le quattro colonne a Roma, e ne decorò il proprio palazzo (Valesio Cod. Capit. Memorie Falzacappa). Quaranta anni dopo la costruzione del ciborio fu fatto il pulpito, ossia l’ambone, che ha data certa e stabilisce con sicurezza l’artefice. <<Nel nome del Signore, così sia. L’anno 1208ind.XI, nel mese di agosto, in tempo del papa Innocenzo III, io Angelo priore di questa chiesa feci fare questo lavoro splendido di oro e marmo diversi per le mani del maestro Giovanni figlio di Guittone cittadino Romano>>. Vi sono poi all’interno altre interessanti iscrizioni oltre quelle già riportate. La prima è situata in fondo alla chiesa, a destra entrando, e da essa si rilevano dati certi della consacrazione avvenuta nel modo più solenne nell’anno 1207. La cerimonia fu eseguita da dieci Vescovi della Tuscia invitati per questo. L’insegna di memoria scritta sul marmo ha il seguente significato: <<In nome di Cristo, così sia. Nell’anno del Signore 1207. Ind. X. Ai tempi del Signore Innocenzo III papa il 20 di maggio questo tempio fu dedicato alla Beata Maria, nella cui dedicazione X Vescovi furono presenti personalmente, il Toscanese, l’Ameliese, il Bagnorese, il Castrense, il Soanense, l’Orvietano, l’Ortano, il Civitonico, il Nepesino, il Sutrino, due che non potevano venire, il Narnese ed il Grossetano mandarono l’assenso della venia per lettere>>. Nella parte esterna della porta maggiore, lungo lo stipite destro, esiste un’altra epigrafe pure in versi leonini, meritevole di attenzione, perché dà l’indizio e la prova che nella chiesa di Santa Maria di Castello furono portati, non si sa in quale epoca, i corpi di quattro martiri cristiani: <<Saturnino, Sisinnio, Timoteo, Sinforiano>>. L’epigrafe dice così: <<Non muoiono costoro, che patirono il nome di Cristo. Ecco che Saturnino, Sisinnio e Timoteo riposano qui tranquillamente con il diletto Sinforiano>>. In seguito la chiesa decadde dal suo originale splendore e fu abbandonata, non appena dopo il Medioevo si spense la egemonia principale. Infatti nel 1435 il Papa Eugenio IV toglie a Santa Maria di Castello la Collegiata, e la Chiesa comincia a decadere nel 1566; il Comune, vi chiama i padri carmelitani i quali, per dissensi sorti fra di loro, ben presto l’abbandonano. (Cronache ms. del Polidori Vol. I). Nel 1569 era già sconsacrata ed 117 118 abbandonata che il Vicario generale di quel tempo, visitandola, ordinò che si <<chiudessero le sue porte per onore del culto divino>>. (Relazione della Visita Vescovile del 1569 pag. 24 esistente nella cancelleria del Vescovato). Per ciò il Vescovo Bentivoglio nel 1583 procurò che il Comune cedesse la Chiesa ai padri Conventuali: ciò fu fatto nel 1585. (Epistolario dell’arch. Comunale, memorie Falzacappa). Nel giro di circa due secoli dopo i padri conventuali custodirono la Chiesa, ma la deturparono nella sua parte antica e monumentale con altari posticci nelle navate e nelle Absidi, con l’aprire e chiudere finestre e porte in perfetta disarmonia col primitivo genere di architettura. Dal 1809 fu nuovamente abbandonata per la soppressione dei Padri conventuali ordinata da Napoleone I. Il terremoto del 1819 ne fece cadere la cupola. Per molti anni lasciata aperta al pubblico con le macerie della cupola ammucchiate nel centro della navata maggiore, fu deturpata da ogni tipo di profanazione. Più tardi il Vescovo cardinale Velzi, grazie ai sussidi del Comune e dei privati, fece costruire un tetto nel punto dove esisteva già la cupola e, ripulita la chiesa dalle macerie, ne restaurò le porte per impedire almeno ulteriori degradazioni, poiché i marmi del mosaico venivano rubati sempre più. Quindi nel tempo dell’occupazione francese dal 1849 al 1869 la Chiesa, con il consenso dell’autorità ecclesiastica, venne ridotta a Caserma per i soldati francesi, che avevano il merito di difendere la Santa Sede.. Questi ultimi oltre ad avere adoperato le loro baionette per scavare e rompere i mosaici, staccarono dall’ambone una delle quattro colonnine marmoree e la gettarono sotto terra in un punto dove fu ritrovata per caso un anno dopo. Nel 1857, giunto a Corneto, il Papa Pio IX accolse benevolmente la proposta dei rappresentanti della città e decretò che la Chiesa fosse restaurata nella sua forma antica e annoverata tra i monumenti pubblici di antichità. In seguito a questo decreto furono eseguiti da quel periodo in poi lavori successivi di riparazione nell’ intento di rimettere la Chiesa nel suo stato originale ed in varie epoche fino al 1870 il Ministero del Commercio e lavori pubblici del governo del lavoro pontificio vi impiegò la somma complessiva di L. 10.937.137. Dopo l’unione d’Italia in un solo regno, il governo con disposizione del 10 Luglio 1875 riconobbe la Chiesa di Santa Maria di Castello come monumento pubblico nazionale e si dichiarò disposto ad assegnare i fondi occorrenti per il completamento del restauro e per 118 119 la sua conservazione. Nel 1878 fu compiuto il restauro ad opera del governo e del Municipio. Attualmente la chiesa è chiusa al culto; le chiavi sono tenute da un custode comunale che ha l’incarico di aprirla e farla vedere a chiunque desideri visitarla. (DASTI. Notizie storiche arch. di Tarquinia e Corneto - Roma 1878). Esaminando la pianta si può notare la quasi perfetta ortogonalità esistente tra fronte e fianchi, (dal rilievo da noi eseguito risulta che la collaterale destra rispetto al fronte principale è leggermente inclinata). Buono è l’allineamento dei muri di perimetro e la regolarità di successione dei contrafforti. Questa precisione nel tracciato non si riscontra per il piazzamento delle strutture interne; qui forse il costruttore (ma più probabilmente i costruttori) si trovò nella necessità di adottare gli elementi portanti a dimensioni obbligate di lunghezza e larghezza e pertanto i pilastri furono allungati od accorciati allo scopo di ottenere la serie: pilastro cruciforme - arco, pilastro con semicolonna - arco, pilastro cruciforme ecc. (Pardi - Nuovi rilievi della chiesa di Santa Maria di Castello in Tarquinia Riv. Palladio anno 1959) la più regolare possibile. Si può notare ancora l’imperfetto tracciamento dei piloni ad eccezione dei primi sette di sinistra e dei primi tre di destra a partire dalla facciata. Per ciò che riguarda l’alzato, anzi meglio la configurazione architettonica, l’interno dell’edificio dà al primo sguardo l’impressione di essere costituito da una unica navata coperta da volte a crociera. La visione delle collaterali è del tutto impedita dai grossi pilastri allineati su linee divergenti verso il centro; si ha così la sensazione che le ultime campate e l’abside siano più vicine al reale. La superficie semi cilindrica formata dalla successione delle coperture è conclusa dal catino absidale. Le piccole campate delle navate laterali sono tracciate su una serie di rombi. Secono il Porter che si occupò del monumento, la costruzione deve essere stata terminata sin dal 1150, mentre la consacrazione avvenne soltanto nel 1207. E’ certo che l’edificio, nei cinquantasette anni intercorrenti tra le due date, subì rimaneggiamenti in seguito al crollo di buona parte delle strutture, ad eccezione, forse, di due terzi della navata sinistra oltre alla parte centrale e sinistra della facciata e dei pilastri a pianta regolare. (Pardi - opera preced. cit.). Tali differenze, però, non possono invariabilmente essere ascritte a crolli seguiti da ricostruzione, bensì più convincentemente, al cambiamento di maestranze susseguitosi nello spazio di 86 anni, fra il 1121 ed il 1207. (Pardi - nota de la chiesa di S. Maria di Castello Bollet. STAS 1975). 119 120 Che il terreno sia stato interessato da continui fenomeni di cedimento verificatosi in corrispondenza della collaterale nord est è indicato dai filari di pietra che si inclinano verso terra se, guardando la facciata, si procede da sinistra verso destra. Altri indizi di avvenuti crolli seguiti da ricostruzione sono rappresentati dalla mancanza di omogeneità e di simultaneità costruttiva, tra le pareti della fronte corrispondenti alle navate centrali e sinistra e la parte sinistra e la parte destra che sembra aggiunta. E’ da notarsi inoltre la diversa posizione della finestra al di sopra dei due portali minori: quella di sinistra impostata più in basso dell’altra. (Pardi opera citat. Preced.). La facciata principale è divisa in tre parti da paraste; originariamente la parte centrale era più alta delle altre. Era senza dubbio intenzione dei costruttori finire tutti e tre gli intercolumni con una cornice orizzontale, ma quella dell’intercolumnio centrale non fu mai eseguita o fu distrutta. La cornice orizzontale doveva essere sormontata da un muro che seguiva l’inclinazione dei tetti, come si può vedere nel muro settentrionale della chiesa. Più tardi, senza dubbio durante il XVII secolo, fu aggiunto il campanile a vela, ad ovest e la parte sinistra di divisione della facciata divenne così più alta di quella centrale. Nello stesso periodo un inutile muro di mascheramento fu eretto sopra la parte destra della facciata. (A.K. Porter, Lombard Architecture New Haven Vol. II 1916). La chiesa secondo lo schema attuale, consiste in un organismo di architettura romanica lombarda offrente volte sostenute da costoloni ricadenti su pilastri cruciformi e polilobati. I primi esempi di consimili coperture si ritrovano nei seguenti organismi: a) - S. Pietro di Casalvolone (Novara), chiesa consacrata nel 1118 o 1119. b) - S. Giulio di Dulzago (Novara), consacrata fra il 1118 e il 1148. c) - Duomo di Novara consacrato nel 1182 e l’innalzamento delle volte di S. Ambrogio in Milano nel 1125. d) - Duomo di Novara consacrato nel 1182 e l’innalzamento delle volte di S. Ambrogio in Milano nel 1125. Sulla base di siffatta comparazione credo essere difficilmente sostenibile che, fin dal tracciamento dell’impianto, si sia inteso esemplare la Chiesa di Santa Maria di Castello secondo l’attuale composizione. Infatti a mio avviso è necessario lasciare un congruo lasso di tempo fra l’epoca di innalzamento delle coperture di prime grandi basiliche romanicolombarde e quelle delle volte di Tarquinia. (Pardi - vedi cit. prec.). Anche Richard Krautheimer ritiene che le volte della suddetta S. Maria siano posteriori almeno al 1143, anno in cui fu finito il portale principale e nel quale, conseguentemente, i lavori dovevano riguardare l’ulteriore innalzamento della facciata; ad 120 121 essa in permanente sono appoggiate le colonnine di sostegno delle volte e le volte stesse insieme ai relativi costoloni a sezione quadrata. In conclusione, sembra ragionevole distanziare le coperture di Tarquinia di una ventina di anni rispetto a quello di S. Ambrogio in Milano. La Chiesa di S. Maria però possiede anche volte sorrette da costoloni a sezione rotonda: siffatto tipo di costolone, compare in Italia verso il 1136-1132 alla chiesa Cistercense di S. Benedetto di Vallalta. Quelli di Tarquinia, secondo la Fraccaro ed il Porter, apparterrebbero ad una ricostruzione del 1190, dovuta alla necessità di procedere ad estese riparazioni dell’edificio. Si può osservare che in tutti i pilastri della Chiesa le colonnine diagonali sono state installate senza malta mediante il semplice intaglio delle murature: ciò è deducibile dall’ampia fessura tra le attuali colonnine e le facce dei pilastri cruciformi. Essi non hanno mai posseduto simili elementi costruttivi, cioè sono soltanto infate dentro gli angoli interni dei pilastri stessi. Sembra, pertanto, di dover dedurre che le colonnine in discussione vennero installate secondo quando si trattò di provvedere la Chiesa di volte a crociera costolonata che dal Krautheimer è stato indicato come rotante verso il 1143. Secondo questo ultimo, la Chiesa dal 1121 al 1143, sarebbe stata progettata per essere coperta da una grande volta a botte; dal 1173 al 1174, l’organismo fu trasformato in senso stilisticamente lombardo con le attuali volte a crociera costolonata; mentre per il Pardi, non si saprebbe dove individare la struttura resistente, atta ad assorbire la fortissima spinta esercitata sui muri laterali da una volta di questo tipo sulla navata centrale. Inoltre, osservando la posizione dei tetti sopra le navate laterali, si può notare che ciascuna falda taglia le finestre appartenenti ai muri della navata centrale nonché la parte inferiore del rosone. Poiché le suddette finestre sono assegnate dal Porter al XVII secolo, secondo Pardi sembra di poter assumere che l’attuale falda è posteriore all’epoca di costruzione delle finestre stesse; quindi, qualora si volesse riportare in piena luce rosone e finestre, la falda del tetto dovrebbe essere abbassata ad una pendenza massima del 14%. Il Porter pensa che le navate laterali dovessero essere in origine coperte quasi in piano: ma una pendenza tanto modesta non assicurerebbe il buon deflusso dell’acqua piovana. Tuttavia all’esterno, circa a metà altezza dei muri delimitanti la navata centrale, vi sono tracce di una serie di fori disposti fittamente su una linea orizzontale, praticati evidentemente non per sostenere una impalcatura - perché sarebbero più distanti e più grandi - bensì la piccola orditura di un tetto. Si potrebbe pertanto ritenere che i fori rappresentino il margine superiore dell’antico tetto che ricopriva le navate laterali: ma ricostruendo l’inclinazione partendo dalla linea di gronda che deve per forza costituire un punto fermo, essendo ornata di 121 122 cornice e di fregio ad arcatelle lombarde, otteniamo una pendenza di circa il 46%, dato dal tutto inaccettabile quale caratteristica di un tetto appartenente ad un edificio ubicato in una zona dal clima mite. Non resta quindi che ritenere che le tracce debbano essere riferite ad un terzo tetto, a suo tempo imposto al di sopra della piatta copertura delle navate laterali: provando a disegnare la falda con pendenza parallela alle attuali coperture, si ottiene una sezione offrente, al di sopra delle navate laterali, due ambienti di altezza interna minima pari a circa metri 1,70, altezza confacente alla agibilità degli stessi ambienti. Sembra abbastanza logico a questo punto che l’osservazione ricavata dalla lettura diretta del monumento configuri l’esistenza di due matronei o gallerie al di sopra delle navate laterali. (Pardi opera citat. prec.). A questa supposizione vi è arrivato anche l’Apollony che nel suo libro <<Architettura della Tuscia>> ne dà una possibile restituzione grafica. Ulteriori elementi possono essere chiamati in causa a favore di siffatta raffigurazione. Anzitutto, si può produrre la scaletta esistente nel muro, circa a metà della navata laterale destra tuttora adducente a livello delle coperture: essa per i paramenti murari si rileva essere coeva al monumento medievale e quindi è escluso che possa trattarsi di un inserimento posteriore. Inoltre, essendo stata ricavata nel muro su cui poggiano i pilastri, colonnine parietali e volte, deve essere stata costruita o prima insieme al muro stesso e non dopo l’innalzamento delle volte a crociera pertinenti alle navate laterali. In conclusione, secondo Pardi, la scaletta fu installata prima del 1143, prima ancora dell’innalzamento delle volte e, per tale ragion, essa non può essere stata costruita che per assolvere alla funzione di addurre i fedeli dalle navate al superiore matroneo. Tuttavia, la presenza di una sola scaletta induce a domandarsi come si potesse raggiungere la galleria di sinistra: ma esaminando all’esterno la zona absidale, si vede che la possibilità di un passaggio fra l’una e l’altra navata a livello di un probabile matroneo, non solo esiste, ma forse si è tentato anche di darle concreta realizzazione. Infatti la parete di testata della navata centrale è spostata, rispetto alle corrispondenti pareti di testata delle navate laterali di circa 60 cm. in avanti, cioè verso il fronte; inoltre dalle citate pareti concludenti la navata laterale, si elevano due muri, con pendenza obbliqua, i quali devono essere i resti della facciata absidale della chiesa. E’ da escludere, in ogni caso, che detti muri siano due contrafforti sia perché non sono collegabili, in quanto arretrati, alle pareti di perimetro della navata centrale sia perché sono anche staccati dalle pareti di perimetro 122 123 stesse, mediante un taglio regolare che sembra indicare la posizione di alcune finestre probabilmente disposte in serie. Da queste osservazioni ricaviamo le seguenti conclusioni: a)- i due muri a pendenza obbliqua non sono due contrafforti bensì i resti della facciata posteriore della chiesa. b) - I due muri stessi fissano le quote originarie delle falde di copertura. c) - I tali regolari che li staccano dalle pareti di navata centrale individuano le finestre illuminanti il percorso collegante la navata laterale sinistra a quella destra. d) - Il suddetto percorso doveva svolgersi nello stretto spazio pari a circa 60 cm., situato tra la faccia posteriore e la parete di testata delle navate centrali: il percorso in questione scavalcava il semicatino absidale attraverso due rampe, lievemente inclinate secondo l’estradosso del semicatino stesso. Ulteriori prove e deduzioni sono riscontrabili sui paramenti murari della navata centrale in cui si può cogliere circa a metà altezza della Chiesa, un lieve arretramento delle pareti. Tale arretramento nella metà superiore è visibilissimo in corrispondenza del terzo e del settimo pilastro di destra, nonché del quinto pilastro di sinistra, rispettivamente presso il primo filare di pietra corrente al di sopra della semicolonna appartenente al pilastro debole e presso il terzo filare di pietra, sempre sopra la semicolonna negli altri due casi. Ciò dimostra che la costruzione subì un arresto nel momento in cui giunse al livello sopra indicato. Siffatta sospensione dei lavori non può che essere connessa con un cambiamento di progetto che va relazionato al momento in cui ci orientò verso la trasformazione dell’organismo in senso romanico-lombardo, con l’innalzamento delle volte a crociera fornite di costoloni quadrati o rotondi. Secondo Peroni la volta a crociera abbisogna di una forma di piante piuttosto regolare; questa necessità si profila soprattutto nel tracciamento di volte a crociera dalle grandi dimensioni, onde permettere il regolare congiungimento in chiave dei costoloni diagonali tracciati a semicerchio: mentre nelle piccole volte il relazionamento degli elementi costruttivi è più arrangiabile. Diventa evidente, allora che, quando in Tarquinia vennero abbracciate le forme romanico-lombarde fu necessario correggere il difettoso allineamento dei pilastri della chiesa, al fine di rendere la pianta delle grandi campate di navata centrale la più vicina possibile al quadrato: ma siffatte correzioni costituiscono una ulteriore prova per asserire che la versione romanico-lombarda fu cominciata ad essere attuata soltanto quando era stata già innalzata la metà inferiore dell’ossatura del monumento. 123 124 Occorre, inoltre e finalmente, esaminare l’elemento architettonico che rappresenta il <<clou>> dei numerosi problemi presentati da S. Maria in Castello: la semicolonna apposta frontalmente al pilastro intermedio o debole. Il Krautheimer esclude che essa servisse a concorrere alla portata di una volta a sei costoloni, mentre non sembra convincere l’ipotesi del Porter che essa svolgesse funzioni di controspinta nei confronti delle volte insistenti sulle navate laterali. Tutto ciò premesso sembrerebbe di dover intanto osservare che, se nella prima fase di costruzione della chiesa si previde di realizzare un matroneo in corrispondenza delle navate laterali, sarebbe stato di conseguenza impossibile installare una volta a botte, munita di sottarchi al di sopra della navata centrale, dal momento che siffatta copertura avrebbe completamente otturato le aperture, verso la navata, del matroneo stesso. Il matroneo pertanto, e nel caso del tempio tarquiniese, è incompatibile con la volta a botte nonché con i sottarchi sostenenti la volta stessa: si conclude conseguentemente che, in presenza di due gallerie sulle navate laterali, le semicolonne dei pilastri intermedi o deboli non potevano assolvere che funzioni decorative. Si ritiene inoltre che le semicolonne di cui sopra siano frutto di un’addizione effettuata dopo il 1143, non solo perché esse recano uno sviluppato capitello di stile romanico-lombardo, ma anche perché le soluzioni architettoniche proposte dalla loro presenza sono troppo legate all’espressione offerta da più insigni monumenti milanesi e pavesi. A questo punto sulla base degli argomenti svolti si può fare una ricostruzione della possibile forma della Chiesa tra il 1121 e il 1143. Occorre, innanzitutto, espellere dalla fabbrica tutti gli elementi stilisticamente romanico-lombardi e invece aggiungere sulle navate laterali i due matronei: si ottiene una chiesa divisa alternatamente da pilastri forti e deboli, i primi a sezione cruciforme e sviluppati superiormente in archi attraversanti la navata maggiore e sostenenti il tetto, i secondi invece con sezione a T. In corrispondenza delle navate laterali figurerebbe un matroneo a solaio ligneo, sostenuto dalla fitta rete di archi traversali, insistenti sulle navate laterali medesime. Tra il 1143 ed il 1174 vennero aggiunte colonnine diagonali per ricevere la ricaduta dei costoloni delle volte a crociera nonché le volte a crociera stesse; ai pilastri deboli furono applicate le semicolonne, da sviluppare superiormente in arcate di inquadratura delle aperture del matroneo verso la navata centrale; intorno al 1190, si ricostruirono due volte crollate e si abolì contemporaneamente il matroneo sulle navate laterali probabilmente perché si reputò di robustire le pareti di perimetro attraverso il tamponamento con pietra da taglio delle aperture verso la navata centrale del citato matroneo. Inoltre si provvide a costruire 124 125 una serie di forti speroni esterni riconosciuti dal Porter come di aggiunta posteriore, speroni che in parte restano ed in parte lasciano visibilmente tracce della loro avvenuta instaurazione in corrispondenza delle pareti della navata centrale. Infine tra il 1190 e il 1207 fu innalzata la cupola poggiante coi pennacchi su quattro snelle colonnine apposte presso gli angoli interni dei pilastri nel momento in cui ci si orientò verso la costruzione della cupola suddetta. Quest’ultima, è composta da pennacchi sferoidici, da archi a sesto acuto e da quattro colonnine diagonali le quali hanno un diametro in cm. 26, a differenza delle altre il cui minomo diametro è di cm. 34; inoltre esse sono sormontate da capitelli di stile gotico e non romanico. Il De Angelis D’Ossat, nel suo articolo sulla <<Distrutta cupola>> ha stabilito che la calotta di Tarquinia appartiene alla stessa famiglia di quelle toscane, peraltro coeve, del Duomo e della Chiesa di S. Paolo a Ripa d’Arno in Pisa, nonché della Cattedrale di Siena; anzi egli restringe l’inserimento e addirittura, l’ideazione della calotta stessa tra il 1174 data di un trattato di alleanza tra Tarquinia e Pisa - ed il 1207, data della consacrazione della Chiesa. Deve essere conseguentemente escluso che la cupola sia stata progettata sin dall’inizio dei lavori: al contrario si deve ritenere che - prima del 1174 - al posto della cupola in questione dovesse essere eretta una volta a crociera provvista di costoloni, uguale in tutto alle altre insistenti sulle restanti quattro campate dell’edificio (Pardi - <<La Chiesa di Santa Maria di Castello>> bol. Stas 1975). Arch. Mario Augusta Bibliografia Apollonj-Ghetti Bruno M, Architettura della Tuscia Tip. Poliglotta, Roma 1960. Dasti L. Notizie Storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto. Tip. dell’Opinione, Roma 1878. G. De Angelis D’Ossat, La distrutta cupola di Castello, Palladio I-IV 1969. Pardi R. Nuovi rilievi della chiesa di Santa Maria in Castello in Tarquinia Riv. Palladio Anno 1959. Pardi R., La chiesa di Santa Maria in Castello, Bollet. Stas 1975. Porter A.K., Lombard Architecture, New Haven Yale univ. Press. vol. II 1916. Raspi Serra J. Tuscia Romana, Electa editrice Milano. 125 126 Seroux D’Agincourt G.B.L.G., Storia dell’arte architettura, ed. di Prato 1828. Introduzione al Convegno su Giovanni Battista Marzi Chi è GIOVANNI BATTISTA MARZI? Perché abbiamo voluto ricordarlo e riproporlo all’attenzione della gente con particolare riferimento a quelli che <<contano>>? Io credo che i tarquiniesi che sanno chi è, dove e quando è nato, cosa ha dato alla umanità, dove ha concluso la sua vita terrena, si possono contare sulle dita di una mano. Non tanti di più ne troveremmo tra gli italiani tutti. Anche e soprattutto perché i nostri dizionari, compresi quelli di maggior fama e prestigio, riportano dati inesatti. GIOVANNI BATTISTA MARZI non è nato a Roma nel 1860 ma è nato a CORNETO (oggi TARQUINIA) il 3 agosto 1857 ed è morto a Roma il 16 giugno 1928 e non nel 1927. La soddisfazione di poter contribuire a correggere il duplice errore unitamente alla conferma del riconoscimento di un primato che appartiene al nostro illustre concittadino è questo il motivo che più conta - sono alla base del Convegno che la SOCIETA’ TARQUINIENSE d’ARTE E STORIA, gelosa custode dei valori cittadini in qualsiasi campo espressi, ha voluto degnamente celebrare. Perché GIOVANNI BATTISTA MARZI è l’inventore, il creatore, del primo CENTRALINO TELEFONICO AUTOMATICO che sia stato conosciuto ed applicato nel mondo. Luogo della prima sperimentazione, gli Uffici della Biblioteca Vaticana. Una testimonianza più religiosa e più indiscutibile non si potrebbe trovare. S.S. LEONE XIII fu così il primo Pontefice che ne fece uso. Gli altri che si sono occupati con successo di questa materia, sono arrivati molto più tardi. Infatti, soltanto tre anni dopo (nel 1889) un americano, ALMON B. STROWGER di Kansas City, brevettò un apparecchio che somigliava a quello del MARZI ed ancora più tardi, nel 1892, si ebbe il pratico funzionamento della prima Centrale Automatica (Indiana - Stati Uniti). Come spesso accade nella vita degli uomini, non sempre chi ha seminato riesce a raccogliere il frutto delle proprie fatiche. 126 127 Tante invenzioni, nate nel nostro paese grazie all’ingegno della nostra mirabile gente, sono finite in mani altrui per un insieme di circostanze che non sempre si riesce a capire. Così è accaduto a GIOVANNI BATTISTA MARZI che non seppe o non volle o non riuscì o non credette opportuno e necessario far valere il suo indiscutibile primato, quel primato che costituisce appunto lo scopo fondamentale del Convegno, che la terra dove nacque tenacemente e fermamente persegue per quel senso di gratitudine e di giustizia che merita e che gli deve essere riconosciuto. Ma il genio di GIOVANNI BATTISTA MARZI non si esaurisce con l’invenzione del Centralino Telefonico Automatico. Va ben oltre! Ed ecco arrivare, uno di seguito all’altro, la prima trasmittente radio con trasmettitore microfonico a ricambio automatico, il bersaglio elettromagnetico, il telegoniometro elettrico a base orizzontale ed il telefono altisonante con relative conseguenti applicazioni, alcune delle quali investono l’intero settore della Marina Militare. Un’altra virtù si rivelò nel nostro concittadino: la conoscenza perfetta della lingua latina (si laureò nella Regia Accademia di Amsterdam), che gli consentì, più tardi, di dettare l’epigrafe della corona di alloro offerta alla salma del Milite Ignoto nella solenne tumulazione sotto l’altare della Patria il 3 novembre 1921. Ci troviamo quindi dinanzi ad una delle figure più belle, più nobili, più interessanti della nostra gente, una delle creature che, col proprio ingegno, col proprio lavoro, spesso tra difficoltà, incomprensioni e gelosie di ogni genere, seppe onorare, sulla via dell’umano progresso, non soltanto la terra natia ma l’Italia per la quale nutrì sempre un amore profondo. La PATRIA! Così era solito chiamarla. Quell’amore, privo ormai del grande significato dei tempi passati, sta scomparendo nel cuore degli italiani per i quali la PATRIA e già chiamata PAESE. E noi di Tarquinia dobbiamo essere fieri ed orgogliosi di aver contribuito con un genio di casa nostra al progresso dell’umanità grazie ad un uomo che avrebbbe potuto crearsi una invidiabile fortuna e che morì invece povero e dimenticato. Giuseppe Santiloni Presidente <<Organizzazione e Servizio Stampa>> SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA TARQUINIA Per le realizzazioni dei programmi della Società, tendenti a porre nella giusta e doverosa collocazione quei nostri concittadini che, nel campo delle scienze, dell’arte, della 127 128 letteratura, della religione e della storia, hanno reso onore e gloria alla nostra città, avrà luogo quest’anno il CONVEGNO su GIOVANNI BATTISTA MARZI Scienziato e Poeta nato a Corneto il 3.8.1857 e morto a Roma il 15.6.1928, che prevede le seguenti manifestazioni: SABATO 12 Ottobre 1991 nella Residenza Comunale: ORE 16.00 - Saluto del Sindaco e del Presidente della Società Tarquiniense d’Arte e Storia. ORE 17.00 - In Piazza San Giovanni: Scoprimento della lapide in memoria di Giovanni Battista Marzi. DOMENICA 13 Ottobre 1991, nella Sala Sacchetti, Sede Sociale della S.T.A.S. ORE 10.00 - Conferenze sul tema: VITA ed OPERE dell’Elettrotecnico Giovanni Battista Marzi. Le Autorità civili, militari e religiose, i Soci del Sodalizio, i cittadini tutti, sono vivamente pregati di partecipare al Convegno. TARQUINIA, li 5 ottobre 1991 IL PRESIDENTE Bruno Blasi Interverrà la banda G. Setaccioli diretta dal Maestro Bruno Benedetti. IL SALUTO DEL SINDACO GIOVANNI CHIATTI Debbo confessare che non conoscevo, prima di questa occasione questo personaggio così importante per la nostra città: Giovanni Battista Marzi scienziato, poeta e patriota. E come me anche tanta parte della nostra cittadinanza. E’ un onore ed un piacere quindi, per me oggi, dare il benvenuto a tutti voi che siete venuti a Tarquinia per partecipare a questo Convegno, che ha come scopo quello di riproporre e di spiegare l’importanza di questo 128 129 nostro concittadino all’opinione pubblica non solo tarquiniese ma dell’intera Italia. Tarquinia, ha tra i suoi figli, molte grandi personalità, oggi ufficialmente a queste, si aggiunge quella di Marzi, un uomo al quale la nostra nazione deve molto per le sue invenzioni e per le sue intuizioni nel campo scientifico. INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA SOCIETA’ TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA Se dovessi cedere a un principio di orgoglio o a un motivo di personale soddisfazione, dovrei ascrivere al mio passato di pubblico amministratore un vanto: quello cioè di avere intestato, nel lontano 1958, allorquando ricoprivo la carica di sindaco della nostra città, una nuova strada, appena alla periferia, al nome di Giovanni Battista Marzi. Devo però ammettere allo stesso tempo la mia scarsa conoscenza riguardo alla genialità di questo nostro concittadino intorno alla sua invenzione del telefono automatico, giacché la mia cultura nel campo elettronico si era fermata a quella che ci veniva insegnata nella scuola: che cioè l’invenzione del telefono apparteneva a un italiano, Antonio Meucci, che dovette ricorrere altrove per affermare quella sua scoperta. Siccome ebbi poi occasione di leggere su di una rivista l’invenzione di Giovanni Battista Marzi che aveva messo in opera all’interno della Città del Vaticano un primo impianto del telefono in maniera automatica, dovendo perciò dedicare nuove vie nel centro abitato, feci deliberare dal Consiglio Comunale la dedicazione di una via al nome di questo, almeno per me, illustre sconosciuto, quale era a quel momento il Marzi. Allora non ci furono cerimonie, né pubbliche, né private, nell’apporre una targa di marmo. Né avendo senso profetico, potevo minimamente immaginare che a distanza di quasi un quarantennio, avrei dovuto interessarmi di una manifestazione pubblica, come si sta facendo oggi, in onore del suo nome, che è passato alla storia, oltre che per la prima automazione del telefono, anche per l’invenzione di strumenti per la Marina Italiana, alcuni dei quali godono tuttora del segreto militare; e per la sua attività letteraria e poetica che gli meritò l’alloro della Reale Accademia di Amsterdam. Mi sovviene di aver sfruttato in seguito il suo nome allor che, vantandomi della sua invenzione, convinsi il Presidente della SIP, l’allora onorevole Paganelli, a non sottoporre ulteriormente la nostra città, che aveva dato i natali all’inventore del telefono automatico, alle lungaggini di un unico centralino che andava sempre più arricchendosi di numeri. E 129 130 prima che lasciassi, nel 1960, la carica sindacale, ebbi la fortuna e la soddisfazione di veder realizzata a Tarquinia la prima centrale automatica del telefono. Ora, dopo le parole commemorative del Sindaco che ha illustrato, per linee generali, la figura del nostro concittadino, a me non resta che congratularmi con i congiunti e i parenti per questa loro illustre ascendenza, e ringraziare e salutare tutti i convenuti che hanno voluto con la personale presenza partecipare a queste commemorazioni che la Società Tarquiniense d’Arte e Storia, così come fece in passato per altre personalità, quali Lawrence, Stendhal e Cardarelli, ha voluto promuovere in onore di Giovanni Battista Marzi. Perché resti nella memoria e negli annali della città di Tarquinia questa data e questa commemorazione che noi e i famigliari vogliamo fissare, anche se tardivamente, nella storia e nel marmo che questa sera verrà scoperto sulla sua casa natale. IL RINGRAZIAMENTO Dell’Amm. di Div. Orazio Luigi Marzi Ringraziamento alla STAS ed al Comune di Tarquinia per questa celebrazione. Compiacimento per la partecipazione dei familiari, giunti da varie città italiane per godere di questa giornata dedicata ad un rappresentante tanto insigne della loro famiglia. SALUTO DELL’ISPETTORE GENERALE Dr. LUCIANO MARZIANO in rappresentanza del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio Centrale Beni Librari e Istituti Culturali Mi è gradito porgere un cordiale saluto mio personale e del prof. Francesco Sicilia, Direttore Generale dell’Ufficio Centrale per i Beni librari e gli Istituti culturali del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali che avrebbe voluto essere presente a questa manifestazione ma inderogabili impegni connessi alla sua carica glielo hanno impedito. La mia presenza in rappresentanza del Ministero per i Beni Culturali e ambientali, vuole avere il significato di testimonianza dell’attenzione che lo stesso Ministero porta verso tutto quanto contribuisce alla crescita di quella memoria storica attraverso la quale viene a configurarsi l’identità e il destino di una comunità. E’, oramai, ben noto come siano queste ragioni per le quali negli ultimi tempi si è avuta una modificazione dell’idea del bene culturale che, da semplice <<cosa>>, intesa questa quale documento visivamente evidente (quadro, statua, architettura, reperto archeologico, codice, libro ecc.) ha esteso il proprio interesse alla sfera più impropriamente 130 131 concettuale. Ne consegue che la salvaguardia, la tutela, la valorizzazione del bene culturale vanno intese come interessanti anche le Istituzioni che dedicano la propria attività alla conservazione del patrimonio storico. Per questi motivi, il Ministero per i Beni Culturali e ambientali nella corretta estensività della propria competenza, oltre ai beni artistici (Musei, Gallerie ecc.) ai Beni librari (Biblioteche) intende tutelare e valorizzare l’immenso patrimonio fisico e morale costituito dalle varie istituzioni culturali fra le quali grande importanza e sicuro prestigio riveste la Società Tarquiniense di Arte e Storia, la cui attività, mi sia consentito darne diretta testimonianza, è molto importante e riscuote apprezzati riconoscimenti a livello di Amministrazione centrale. La manifestazione odierna dedicata alla figura di G.B. Marzi, conferma, ulteriormente la funzione positiva di una Istituzione culturale e si inserisce in quel programma di valorizzazione della memoria locale. Occorre aggiungere, conclusivamente, come la personalità del Marzi, superando i confini della città natale, nonché, come acutamente ha ieri sottolineato il sindaco dr Chiatti, le griglie delle varie discipline, ha apportato un notevole contributo alla cultura nazionale. E’ con questi sentimenti che mi è gradito augurare pieno successo all’odierno convegno. COMMEMORAZIONE DELL’ELETTROTECNICO G.B. MARZI INTERVENTO DELL’AMMIRAGLIO FRANCO PAPILI Sig. Sindaco di Tarquinia, qui presente anche se temporaneamente assente, sig. presidente della STAS, prof. Fedi, famiglia Marzi qui presente attraverso varie generazioni, e in varie forme, un particolare saluto a quei congiunti della famiglia Marzi che durante la II guerra mondiale (ho visto ora i quadri nel palazzo avito) hanno lasciato la loro vita al servizio della patria. Erano nomi ovviamente noti dalla lettura di storie e fatti d’arme; adesso ho potuto vedere le loro sembianze. Amici di Tarquinia e in particolare amici marinai di Tarquinia che ho appreso con piacere, essere numerosi, e questo d’altronde non mi meraviglia affatto perché tutte le province italiane hanno contribuito a formare nel tempo, nei secoli vorrei dire, gli equipaggi della marina militare. L’attuale sistema di reclutamento taglia una sola provincia, Terni, e i marinai di Terni numerosissimi per la vicinanza con la famosa fabbrica di corazze e di cannoni di cui avrò modo di parlare, soffrono moltissimo di questo fatto. Non esitano ogni anno a 131 132 ricorrere a ministri, a deputati o agli alti gradi dello Stato Maggiore nel tentativo di riavere che il reclutamento dei marinai raggiunga di nuovo la provincia di Terni, che guarda caso, faceva capo qui alla Capitaneria di Civitavecchia. Chiudo questa parentesi per delineare la vita di Gian Battista Marzi (1857-1928) e inquadrerò la sua vita in quella che è stata, a brevissime linee, a colpi di accetta, la vita della Nazione ed in particolare quella della Marina Militare al servizio di questa Nazione. Quando Giovanni Battista Marzi vide la luce in quella che allora si chiamava Corneto, il Regno d’Italia non era ancora formato: c’era il Regno di Sardegna che combatteva per l’unità d’Italia e quindi quando nel novembre 1861 si formò il Regno d’Italia che allora comprendeva l’Italia attuale meno il Triveneto ed il Lazio, che allora era ancora sotto il papato, ovviamente Marzi non era in condizioni né di intendere né di volere per la tenera età. Peraltro sono certo che, a partire da Lissa e da Custoza, G.B. Marzi, che nella sua autobiografia risulta molto attento a quelle che sono le esigenze della nazione in tutti i campi, nel campo tecnico e scientifico sarà stato ben in grado di capire quella che era l’evoluzione di questo regno che nasceva già con ambizioni di potenza medio-grande. Al momento della sua formazione, la politica estera prevedeva che il nemico numero uno (io parlo storicamente e quindi non ho alcuna reverenza a pronunciare parole come nemico, guerra, politica, perché questa conferenza va inquadrata nel periodo in cui si parlava in questi termini e gli stati, i governi, i monarchi ragionavano in questi termini) poteva essere considerata la Spagna (non è molto noto) perché veniva considerata il naturale erede del Regno dei Borboni che sì, aveva lasciato piuttosto precipitosamente, senza una particolare resistenza tutta l’Italia Meridionale e la Sicilia sia prima ai garibaldini e poi all’armata del Re, però non aveva trascurato di far presente, e lo fece presente in tutte le maniere allora possibili (la guerriglia, la corruzione, l’elargizione di fondi) una intensa volontà di rivincita che praticamente venne a mancare solo quando la giovane regina Sofia di Baviera, che era il <<vero uomo forte>> del regime, lasciò questa terra nel non troppo lontano 1925. Quindi ecco che agli inizi del Regno è la Spagna più ancora che il secolare nemico Austria, che condiziona gli orientamenti militari del momento. Cavour era ben convinto di quello che aveva detto Napoleone che l’Italia sarebbe stata una potenza, o non sarebbe stata una potenza, ed eccolo quindi prendere quelle decisioni, a tutti ben note in ambito Marina, come la suddivisione di quello che allora era il Segretario della Guerra e Marina, assumendo per sè l’incarico di Stato per la Marina, Ministro cioè della Marina (è stato il primo ministro per la marina che abbiamo avuto anche se per pochi mesi), l’impostazione 132 133 di un programma ambizioso di navi, l’impostazione di quella costruzione che di lì a nove anni sarebbe stato l’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia, concepito nel 1852, sospeso per la guerra di Crimea, ripreso dopo la guerra di Crimea e assegnato all’allora cap. Chiodo perché fosse costruito. Chi di voi ha avuto modo di andare a La Spezia, visitare l’Arsenale e il contiguo Museo Navale, potrà aver visto l’ampiezza della visione che Cavour aveva delle necessità della Marina come strumento di una nazione marinara. Ma a parte le navi e l’Arsenale era però necessario formare gli uomini. Tre o quattro marine confluirono in quella che fu l’Armata Navale: la Marina sardo-piemontese rigidamente organizzata secondo gli schemi piemontesi,la Marina borbonica più grande, con un regolamento più moderno se vogliamo, ma meno addestrata perché il Borbone, oltre tutto non gradiva che i suoi ufficiali viaggiassero molto in maniera che non venissero in contatto con altre civiltà o altre nazioni e con le democrazie. E naturalmente se da un punto di vista della concezione politica la Marina ebbe una nascita, dal punto di vista della formazione degli uomini la ebbe meno. Quindi sono certo che il giovane Marzi, che allora aveva 8/9 anni, quindi era in grado di intendere, volere e ricordare, fu certamente in grado di percepire, acuto studioso, intelligenza, precoce, cultore di studi classici, il dramma allora non solo della Marina ma anche dell’esercito italiano, drammi che si videro chiaramente a Custoza e a Lissa dove gli uomini provenienti dal sud non si erano ancora amalgamati con gli uomini provenienti dal nord. Molti incarichi quindi dovevano essere assegnati per motivi politici. E’ ben noto che il Persano a Lissa voleva come suo Capo di Stato Maggiore il contrammiraglio Anguissola che aveva conosciuto all’epoca dei fatti di Palermo (1860) (l’ammiraglio proveniva dalla Marina delle Due Sicilie, la Marina Garibaldina) mentre per ragioni politiche gli fu imposto il napoletano Edoardo D’Amico, persona degnissima, grande marinaio, ma con il quale l’ammiraglio Persano, nato a Vercelli, non si prendeva particolarmente anche perché prima non si erano mai incontrati. E quindi in questa atmosfera il Marzi segue, vive quelle che sono i primi passi della nazione. Ho detto politica da medio-grande potenza. Indubbiamente lo fu anche se la politica estera italiana a quel tempo fu probabilmente oscillante. E’ stata severamente criticata non solo oggi ma anche allora, però indubbiamente la nazione cercava un suo spazio di vita, un suo spazio d’azione ed ecco allora che le navi o provenienti dalla marina borbonica o provenienti dalla marina del Granduca di Toscana, o provenienti dalla marina sardopiemontese, o alcune addirittura acquisite all’estero, iniziano subito quelle che allora erano le attività principali di una marina militare, l’attività politico-diplomatica che vedeva le navi a mostrare bandiera e a rappresentare il governo del Re in tutti i porti del mondo. Può essere sintomatico pensare che mentre nel luglio del ‘66 aveva luogo l’infausto episodio di 133 134 Lissa, quello che poi fu anche discusso in Italia con un autolesionismo degno di miglior causa, che dette inizio a quello che poi venne chiamato <<il periodo penitenziale della Marina>>, una nave di S.M. il Re, la <<Magenta>>, costruita nei cantieri di Livorno e quindi poi completata sotto l’egida dell’Armata Navale, si trovava nell’agosto del ‘66 a Tokyo dove il cav. Arminjon comandante della nave, investito dall’incarico di Ministro plenipotenziario di I classe e ambasciatore straordinario di S.M. il Re, firmava con il governo giapponese, dopo essere stato ricevuto in udienza, del tutto straordinaria, dal Mikado (che non riceveva facilmente stranieri) firmava dunque un trattato commerciale e culturale con il Giappone, il primo stabilito dal neonato Regno d’Italia, e due mesi dopo a Pechino, dentro la Città Sacra avveniva la stessa cerimonia con l’allora Imperatore della Cina. Allora erano le navi che portavano non solo la bandiera ma quelli che erano gli interessi nazionali in tutto il mondo. Oggigiorno si parla alcune volte ingiustamente, alcune volte con sprezzo <<di politica delle cannoniere>>, di politica delle cannoniere ormai finita, ultimata che non deve essere continua. Può darsi che oggi la situazione sia diversa, sta di fatto che allora la classifica direi, la graduatoria delle nazioni veniva dalla potenza della loro marina militare in grado di difendere gli interessi nazionali in tutte le parti del mondo. Già il piccolo Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove c’erano numerosi italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose colonie. Già il Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove c’erano numerosi italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose colonie. Già il piccolo Regno di Sardegna aveva mandato navi nella Plata, dove c’erano numerosi italiani (ci sono anche ora) per difendere gli interessi di quelle popolose colonie. Già il Regno di Sardegna aveva mandato la corvetta Eridano con una macchina della potenza di 150 cavalli giù nel Pacifico fino a Valparaiso e poi fino al Perù perché allora questa era la politica. Questo era l’ambiente in cui Marzi sviluppò la sua cultura tecnica e la sua cultura umanistica. Va detto che assieme ad una Marina Militare rinasce subito il problema delle navi. Non c’è dubbio che Marzi seguì, fu viva parte di quello che allora fu il problema, la <<questione delle navi>> tra uomini del calibro del Riboty (il ministro della rivincita, della rinascita, della riscossa della Marina Italiana), Saint Bon il vincitore di Porto San Giorgio a Lissa e Benedetto Brin, uno dei nostri più noti costruttori navali. Ma non va dimenticato quanto segue: l’eredità di Persano, l’eredità di Lissa, la raccolse Riboty decorato di medaglia d’oro a Lissa, comandante del <<Re del Portogallo>>. Fu lui che nel 1871, un anno critico per la Marina Militare, quando il bilancio per la marina scese a 29,1 milioni di lire (Quintino Sella diceva: <<se noi vendessimo tutte le navi da battaglia che abbiamo, saremmo in grado di sanare il bilancio dello Stato>> ma naturalmente il Parlamento, che 134 135 era ben consapevole della necessità per l’Italia di continuare una politica navale malgrado Lissa, non accettò mai queste sue proposte), nel 1871 dunque, Riboty fece approvare dal Parlamento la legge che lo autorizzava ad impostare nei cantieri di Castellamare di Stabia e in quelli di La Spezia le navi da battaglia <<Duilio>> e <<Lepanto>>. Il Duilio è quello più famoso perché quando scese in mare nel 1876 con i suoi cannoni da 450 mm (aveva per la prima volta cannoni in torrette asimmetriche binova), la vicina nazione francese cominciò a pensare seriamente che in quel momento cominciava per lei un periodo di inferiorità e corse subito ai ripari. Dicevo dunque a Riboty va attribuito questo merito. Il progetto della <<Duilio>> era ovviamente di Brin allora giovane Ispettore del Genio Navale. Successivamente Brin divenne Ministro della Marina e da contraltare gli faceva Saint Bon, altra medaglia d’oro di Lissa, comandante della <<Formidabile>>, il quale da buon Ufficiale di Stato Maggiore non si lasciava ingannare dall’aspetto guerriero delle navi o dalla potenza delle macchine, ma ovviamente aveva a cuore il problema dell’addestramento, il problema del personale, il problema della logistica e quelli della tattica e dell’impiego. E’l’epoca in cui anche D’Annunzio, allora poco più che ventenne, entra in campo a favore di Saint Bon contro Brin, scrivendo quel famoso libretto-opuscolo <<L’armata navale>> dopo aver passato sette giorni su una nave da guerra che lo aveva salvato in Adriatico durante una infelice crociera su una barca a vela con un amico. D’Annunzio chiamava Brin <<il maestro sovrano>>, lo accusava di fare delle navi bellissime e potentissime sotto tutti i punti di vista, ma una volta che le navi avevano completato le prove di macchina se ne disinteressava mentre Saint Bon si occupava seriamente di tutto il resto. Ma allora Saint Bon non aveva i poteri degli attuali Capi di Stato Maggiore, era solo capo dell’Ufficio di Stato Maggiore che si interessava di pianificazione, attività tattica ed operativa. Siamo quindi in un momento in cui si sviluppano le navi, si sviluppano le macchine, le artiglierie ed il Marzi intanto ha ottenuto già i suoi primi successi nel campo della telefonia. Ovviamente chiamato a fare il servizio militare, siamo nel 1879, viene rapidamente catturato dal Genio Militare dell’Esercito, provvede di telefoni e collega tra loro tutte le caserme di Roma e successivamente si dedica a quell’impianto famoso di telefonia dello Stato della Città del Vaticano di cui oggi sono piene le enciclopedie ed i testi tecnici. Siamo nel 1880, è un periodo in cui quando alla Camera il 20/2/1880, ministro Ferdinando Acton, questi informa i deputati che il <<Duilio>> alle prove di macchina ha superato abbondantemente i 15 nodi previsti dalle specifiche, interviene Crispi che propone alla Camera un o.d.g. che dice che la Camera dei Deputati prende, con grande soddisfazione, nota dei risultati ottenuti in prova dalle macchine del <<Duilio>> e auspica 135 136 che questa nave porterà ovunque il tricolore nella difesa dei supremi interessi della nazione. E successivamente poi il <<Duilio>> entrerà in squadra con il gemello <<Lepanto>> e poi i vari ministri, che si succederanno, dovranno combattere con la situazione che in quel momento circondava l’Italia per attuare quella Marina di cui aveva bisogno il paese. E’ il periodo in cui Saint Bon, diventato poi ministro dopo Riboty, alternandosi con Benedetto Brin, pone la questione delle navi. Saint Bon non era insensibile al pericolo francese. La Francia in quel momento, sfumata la Spagna, era il pericolo numero uno. C’era il problema della Tunisia, delle migliaia e migliaia di siciliani che vivevano in Tunisia. Già allora Biserta era considerata una pistola puntata al fianco dell’Italia. Nel 1864 quando dei tumulti misero in pericolo gli italiani in Tunisia, l’Albini fu mandato davanti a Tunisi con una squadra, e aveva già a bordo le truppe (altre erano pronte a Napoli e a Palermo) per, se necessario, invadere la Tunisia. Successivamente allora la Sinistra criticò aspramente il governo (destra) per non aver occupato la Tunisia. Successivamente tutti i tentativi furono frustrati quando nel 1881, all’epoca in cui si faceva la politica <<amici di tutti>> (ossia di nessuno), la Francia con il Trattato del Pardo, si impossessò della Tunisia. E’ questo il periodo in cui Marzi si interessava sempre di più dei problemi della Marina Militare, rimane colpito, nella guerra ispano-americana di lì a pochi anni, dal fatto che le batterie costiere spagnole sono rapidamente vittime delle navi da guerra americane e concepisce quel sistema che in definitiva si può spiegare così: se io nascondo le batterie mentre sulla spiaggia metto due uomini con un qualsiasi sistema che mi indichi la posizione della nave nemica, dalla congiunzione delle due visuali e tenendo presente la posizione dei due uomini rispetto alla mia posizione dei cannoni con normali risoluzioni trigonometriche, è possibile puntare i cannoni nella direzione del nemico. Il Telegoniometro Marzi venne approvato dalla Marina Militare che lo sperimentò a La Maddalena, piazzaforte che per essere molto vicina alla Corsica, era allora considerata anche base di prima linea e quindi potentemente rafforzata, difesa da batterie, sbarramenti ecc. Ed è del 1890 una lettera del contrammiraglio Federico Labrano, in cui si elogia appunto il Marzi per i risultati del telegoniometro che potremo chiamare <<sistema per il tiro indiretto senza visuale del bersaglio>> e che successivamente viene non solo elogiato dal Ministero della Marina ed anche dalla Direzione delle Armi e materiale d’Artiglieria dell’Esercito cioè dal Tenente Generale Matti che a quell’epoca ne era il Direttore. Nel frattempo aveva anche sperimentato quei bersagli che, sfruttando l’energia del proiettile 136 137 che li colpiva, potevano segnalare il risultato del tiro stesso. Naturalmente credo che si riferisse a tiri di armi leggere non certamente a tiri con cannone. Tiri su sagome che riguardano quindi fucili, pistole, roba di grande interesse non solo per l’Esercito ma anche per la Marina di allora. Il tempo passa e si sviluppano le artiglierie là dove i potenti cannoni <<Duilio>> avevano aperto una via! Non più cannoni in batteria ma torri corazzate in coperta mosse da pompe idrauliche, con due canne a caricamento ad avancarica. Se c’è qualche artigliere qui può avere un’idea di cosa vuol dire ad avancarica: sparavano praticamente un colpo ogni 12/15 minuti. Il proiettile pesava 907 chili, la carica di lancio era di 240 chili e la velocità iniziale del proiettile era 500 e rotti metri al secondo. Oggigiorno i proiettili di artiglieria, anche i grossi calibri ne fanno 1000/900. Comunque, a parte questo, perché questo proiettile indubbiamente costoso anche per allora, arrivasse a destinazione, dove era in grado di perforare una corazza di 65cm, bisognava dirigerlo ossia bisognava imprimere al cannone una direzione, che noi artiglieri <<cursore e alzo>> come l’ammiraglio Marzi 1) ben sa. Ebbene tutto questo veniva fatto con quella che veniva chiamata la <<camera dei cori>> cioè in un punto centrale il Direttore del Tiro calcolava in una maniera qualsiasi i dati che poi, attraverso i <<portavoce>> degli uomini dai polmoni robusti venivano ritrasmessi al punto centrale che poi li ritrasmetteva ai cannoni dove degli uomini introducevano questi dati in una maniera qualsiasi nei congegni di punteria. Ed ecco che Marzi con il <<telefono altisonante>> risolve questo problema. Adesso non è nelle mie possibilità tecniche discutere sul come Marzi, che quando seppe che la marina si approvvigionava all’estero dalla Siemens e da altri, di questi telefoni di cui la Marina non era soddisfatta, andò a sentire e si accorse che, proprio quando a bordo c’era silenzio (e a bordo non c’è mai silenzio), questi telefoni altosonanti facevano sentire questi dati al massimo ad un metro di distanza. Ed allora ecco il suo telefono che sfruttò credo l’energia meccanica ed è noto che questo sistema messo su varie navi da battaglia di I o II classe, incrociatori, corazzate etc. attirò anche l’attenzione del Kaiser, il quale durante una crociera in Adriatico, assistette da 100 metri di distanza ad una sperimentazione del genere su uno dei suoi incrociatori: questo fatto interessò anche altre Marine straniere, e la notizia raggiunse anche lo zar che, veleggiando nel mar Baltico, dalle parti dell’allora Reval (dicono le storie) la Tallin dell’attuale neonata repubblica di Estonia, e volle assistere anche lui dal suo panfilo ad una manifestazione del genere. Questo è un qualcosa che non 1) Presente nel Salone Sacchetti della SOCIETA’TARQUINIENSE D’ARTE E STORIA c’è anche l’Amm. Div. ORAZIO LUIGI MARZI al quale l’oratore si riferirà spesso. 137 138 solo contribuì notevolmente all’efficienza dei servizi artigliereschi, ma in alcuni casi rimase in servizio fino alla II guerra mondiale. Tra le navi che ebbero istallato questo sistema a bordo, c’era per esempio l’incrociatore corazzato <<S.Giorgio>>, che forse l’amm. Orazio Luigi Marzi ha visto. Io non l’ho mai visto, ma come molti ricordano, durante la II guerra mondiale era a Tobruk e lì salto in aria nel gennaio del ‘41 alla prima occupazione inglese, non solo ma, e questa credo fu l’ultima opera del Marzi a favore della Marina Militare, a cavallo degli anni 1910/11 fece istallare sugli esploratori <<Bixio>>, <<Marsala>> e <<Quarto>> degli speciali telegrafi di macchina. E va detto che l’ultima nave di queste che lasciò il servizio fu il <<Quarto>> che nel 1939, declassato e radiato dal quadro del naviglio militare dello stato, rimase in servizio come nave-caserma per alcuni anni, credo nel porto di La Spezia. Questo è grosso modo il quadro di quello che fece G.Battista Marzi nel momento che la Marina Militare sosteneva la vita della nazione. Ancora cinque minuti per approfondire qualche cosa del periodo in cui Marzi operava. Nel 1911, in ottobre (sono passati pochi giorni dall’ottantesimo anniversario che non è stato né celebrato né ricordato nemmeno inter nos), ma non va dimenticato che tra il 29 settembre del 1911 e la prima decade di ottobre, la Marina italiana operava, in base alle direttive del governo di allora, il primo Ministro era G. Giolitti, quelle operazioni di sbarco sulla costa libica (ossia Tripolitania e Cirenaica) dell’impero ottomano (una Libia ancora non c’era) che rese celebri i <<garibaldini>> del mare, comandante Cagni, marinai delle compagnie da sbarco, sbarcati a Tripoli, a Bengasi, a Tobruk, a Misurata, a Derna e la Marina teneva quelle piazze e quei porti fino all’arrivo dell’Esercito. Era una Marina che in quell’epoca teneva alta la bandiera e all’occasione anche con il fuoco difendeva gli interessi nazionali. Non dimentichiamo per esempio all’epoca della <<guerra dei nitrati>> dell’1881 (tra Cile, Perù e Bolivia) vinta dal Cile, al largo delle coste peruviane c’erano tre navi italiane insieme a quelle inglesi, americane, austriache e germaniche, tutte per la difesa degli interessi delle colonie lì presenti. La Marina Italiana però era presente con tre navi perché aveva le stazioni navali di Rio de la Plata, del Sud Pacifico e Valparaiso nel Cile, e della Califormia a San Francisco. C’era un incrociatore, il <<Colombo>> comandante Morin ecc. ed avevamo poi la stazione in Cina e la stazione del Levante. All’epoca della guerra di Libia, ci ritorno, non dimentichiamo che all’occasione la Marina Italiana sequestrò due piroscafi e resistette a tutte le minacce francesi quando i francesi, da buoni vicini, rifornivano i Turchi di munizioni, di fucili ecc. Marzi assistette, probabilmente in rapporti non felici con la Marina Militare, a quella che è stata la I guerra mondiale, come risulta dalle istorie. In effetti in quel periodo non ci sono prodotti a favore della Marina Militare; dopo i suoi successi con le 138 139 trasmissioni radiofoniche da Bruxelles a Parigi, risulta che si è dedicato soprattutto ad apparati radiotelefonici che riguardavano gli aerei; gli aerei allora erano dell’esercito e della Marina, ma mancava ancora una aeronautica militare. Mi risulta che si è dedicato soprattutto a questi esperimenti. Successivamente, un po' rattristato perché nel suo stabilimento di Cornigliano Ligure non aveva più quei successi ed anche la stampa parlava poco di quello che faceva, probabilmente rattristato negli ultimi anni della sua vita assistette alla naturale riduzione delle Forze Armate di un paese che esce vittorioso da una guerra. Ma è motivo di soddisfazione per me pensare che se il Marzi, come tutti noi dobbiamo ritenere, seguiva ancora attentamente le vicende della nazione, prima di chiudere gli occhi vide andare per mare quelle che erano le prime unità della rinascita, di quella marina oceanica che nella visione del governo di allora doveva spezzare quella che era considerata la <<prigionia italiana nel Mediterraneo>> chiusa da Suez e da Gibilterra. Avrei terminato ma devo solo aggiungere alcuni dettagli di colore. Quando Marzi comincia ad intendere e volere le navi più grosse, in servizio nella marina erano il vascello <<Re Galantuomo>>, le fregate da 3000 tonnellate ed avevano da 32 a 50 cannoni. Erano navi più corte di 100 metri il che parlando di fregate può ancora andare bene perché l’ammiraglio Orazio Luigi Marzi ha comandato la fregata <<Fasan>> che era lunga 93 metri (negli anni’60) ed io ho comandato dopo, negli anni ‘70, il <<Carabiniere>> che era lungo 113 metri. Mentre oggi per le fregate <<Maestrale>> che si sono distinte anche nel Golfo Persico due e nel Persico uno, e che si sono distinte anche nel Libano quando c’ero io, sono lunghe 123m; però la tecnologia camminava anche allora e quando nel 1892 (quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America) ci fu la parata navale di Genova la nave più importante italiana era la <<Lepanto>> che era lunga già 122m. aveva una potenza di macchina di 16000 cavalli, e faceva 18 nodi contro i 15 del <<Duilio>> con un equipaggio di 600 persone. La vita a bordo era dura, era quasi inumana, a quell’epoca (1863 primo <<Regolamento per il servizio a bordo delle navi>>), una colazione tra le 8/8,30 del mattino, e un pranzo alle 16. Quindi oggi è cambiato notevolmente l’aspetto sociale della vita militare della marina. Come l’amm. Marzi sa e lo so anch’io, quando siamo entrati in Marina i marinai si facevano la branda e ogni mattina riponevano la branda nelle impavesate e fino a che la sera non veniva dato l’ordine <<giù le impavesate>> il marinaio non aveva di che riposare, al massimo si sedeva per terra. Oggi, invece, le cuccette permettono a tutti una vita tranquilla. Non c’era allora il telefono altosonante Marzi e i segnali venivano dati a bordo delle navi dal <<centro nave>> in quattro maniere diverse: o con la tromba, o con il fischietto, o con il fischio (quello dei nostromi) o con il tamburo. Finisco accennando al fatto che Marzi 139 140 non era solo uno scienziato ma un patriota, oltre che uomo di cultura. Mi sia contentito di leggere in italiano non in latino (Marzi scriveva in latino) una/due strofe di due odi scritte in occasione di avvenimenti della nostra vita nazionale: <<Mare nostrum>> (scritta a Cornegliano Ligure il 5 maggio 1915. Nel giorno 4 D’Annunzio con il discorso sullo scoglio di Quarto, condizionava l’ingresso dell’Italia nella I guerra mondiale. Il Parlamento era contrario) Marzi scriveva così: <<Tu batti con onda amica le spiagge liguri/mare nostro/tu batti con onda amara le spiagge venete/ricantando ognora la flebile canzone / o mare nostro...>>. E nel 1920, in occasione del trasferimento prima in treno poi su traino a cavalli del Milite Ignoto da Aquileila al Vittoriano, dove si trova adesso, scriveva un’ode <<Italico militi>>: <<... Non sei ignoto, o fortunato, fosti già un nome, poi/un numero, di frale spirto or sei! Vivono i fatti/d’arme, vive de la stirpe il valor! - Te pria accolse/d’Aquileia il sacro tempio, d’onde trionfal cocchio da/l’idrico vapor sospinto, Te portò d’Italia attraverso le/terre e le cittadi, finché, da negri destrietri tratto/per le vie de l’Urbe con innumerevole scorta di popolo e/di guerrieri, al fin riposi nel decretato Capitolino ostello/pronto sempre a sorgere al cenno de la madre...>>. Signori vi ringrazio. Franco Papili 140 141 Lettere del Legato Vitelleschi ai Priori di Viterbo Il dott. Antonio Pardi, vice-presidente della Società Tarquiniense d’Arte e Storia, pubblicò sul Bollettino dello scorso anno 1990, precisamente nel numero 19, dalla pagina 223 e seguenti fino al 229, un suo lavoro dal titolo: <<Lettere del legato Vitelleschi ai Priori di Viterbo>>, sintetizzando lo stile e la maniera con cui il Cardinale era abituato trattare i viterbesi e spillar denaro per far fronte alle necessità militari della Chiesa contro i propri nemici. Incuriosito da questa iniziativa, ho cercato di leggere attentamente tutte le numerose lettere del cardinale Giovanni Vitelleschi, scritte in lingua corrente del XV secolo, mentre altre furono redatte in lingua latina. E poiché i nostri Bollettini hanno lo scopo di trattare le storie della nostra città, dei suoi personaggi e del nostro territorio, ho pensato, d’accordo con il Consiglio Direttivo del Sodalizio, di pubblicare integralmente tutte le lettere inviate ai Priori di Viterbo, facilitando il lettore con la traduzione di quelle scritte in latino, una lingua che, disgraziatamente per la nostra cultura, non viene più studiata nemmeno nei seminari religiosi. Si deve però dire che tutte le lettere, con una perspicace prefazione dello storico Cesare Pinzi, furono pubblicate nel 1908 dalla Società di Storia Patria e che si riproducono fedelmente così come furono stampate a quel tempo, e come si fece, anni fa, con gli <<Statuti dell’Arte degli Ortolani>>, tradotti e curati dal nostro storico Francesco Guerri. Mi scuso con i lettori di questo scritto, forse un po' troppo lungo, con la certezza però di aver portato alla lettura e alla conoscenza dei Soci questo ulteriore documento, riguardante il nostro conterraneo, a cui la sfortuna e l’invidia tagliarono il cammino verso un avvenire glorioso che l’avrebbe condotto a tenere, in mani abbastanza salde, le chiavi di San Pietro. Come pure ringrazio la socia Lidia Perotti per avermi aiutato in questa realizzazione storica. N.B. Tutte le lettere sono presenti nella copia del presente bollettino dell’archivio della S.T.A.S. n.20 (anno 1991)e possono essere fotocopiate (pagg. 228-283). 141 142 TITTA MARINI <<IL POETA DIMENTICATO>> Titta Marini, il <<poeta dimenticato>>. Oggi, a distanza di dodici anni dalla sua scomparsa, solo pochi tarquiniesi lo ricordano, quelli che lo hanno più amato e compreso; indubbiamente non ha lasciato un segno tangibile, ma chi, tirando le somme, come tarquiniese ha lasciato un segno a Tarquinia, una città che ha sempre prediletto <<gente forestiera>>. Giovanni Battista Marini, in arte Titta, nacque a Tarquinia nella Parrocchia di San Martino il 6 luglio 1902; figlio di agricoltori, non amava la campagna anche se questa ha lasciato un’impronta sulla sua personalità. Ed è sulla natura che riteniamo opportuno cominciare l’analisi di questo poeta privo di ogni cultura ma il cui intento di migliorarsi in ogni momento lo ha portato ad un accettabile livello artistico. Secondo alcuni ha letto il libro della natura come pochi hanno saputo fare; il contrasto tra le grandi cose della natura creatrice e delle piccole cose dell’uomo distruttore è espresso nella poesia <<Villa del silenzio>> considerata da molti la più bella e profonda anche perché si parla di Tarquinia: <<O Villa del Silenzio, lassù, abbracciata dalle antiche mura, fra il trifoglio e gli ulivi, pare t’abbia creata la natura! E la natura, da gran miliardaria, frulla le stelle in aria, che grondano sul mare tra fuochi di lampare. 142 143 La torre che ti fa da sentinella con un raggio di luna s’incorona e sembra in lontananza un’altra stella Ma appena vedo là nella vallata nelle strade contorte le luci del baccano e della morte, sento che più profondo, e guardo in alto mentre va sempre più precipitando il mondo. Marini fu costretto a trasferirsi con la famiglia in campagna per lavorare, all’età di undici anni. Si ritiene che proprio dal suo contatto con la natura siano nate le cosiddette <<poesie corporali>> che si rifanno essenzialmente ad un linguaggio campagnolo oggi del tutto scomparso. Sono poesie che risentono del passaggio agreste, delle immense distese di campi di quel tempo dove non esistevano agi e comodità e dove si andava avanti con spirito di sacrificio e di adattamento. Tra le più rilevanti di questo genere ricordiamo: Er cornuto scornato <<Er vergaro entrò a casa ch’era sera e sorprese lamoje cor sensale: - Se la scanno - pensò - vado in galera Riannò in campagna, ar buio intruppò un verro, e, scivolanno su uno sciacquale, scocciò, a volo, le corna contro un cerro. Fortuna che, passanno un pecoraro, lo caricò come un par di bisacce sur somaro. Portato a la capanna er povero scornato, siccome che fu tanto rinsaccato con quer caracollà su la bardella appena se trovò fra le lenzola, cor fasse pure fritto e coratella stroncò le canne de la rapazzola!!! 143 144 Er re avventato <<Er re quella mattina era avventato: - Te pij er carbonchio - disse a la reggina ogni quarvorta vengo a la latrina trovo occupato! - Ma cos’hai - fece lei - che cosa vuoli, non possa entratti la corona in testa Ma el re, ch’era attrippato de facioli, se ne fregava, e se sventava strombazzanno a festa. E la regina con prosopopea j’arisponneva a strappo de chinea. Scenetta di campagna <<Fiottava un fungo: - sto callo m’ha ridotto floscio floscio: ardo de sete, e sempre più m’ammoscio Ma a vedé poi ‘na donna, che je faceva ombrello co’la vesta, scatennanno ‘na specie de tempesta, lui fece arzillo: - finalmente bevo... ... e je venne ‘na schicchera de testa! Titta Marini era allergico a tutto ciò che riguardava la terra; preferiva leggere il giornale, cosa rara in quei tempi, vagabondare e comunque stare lontano dai campi. La terra era l’unica risorsa di Tarquinia, dava lavoro a molte persone ma non era per lui che, di conseguenza, era considerato uno scansafatiche, gravante sulle spalle della famiglia. Si creò quindi una situazione delicata nei suoi rapporti con gli altri componenti della famiglia che sfociò nella completa rottura. Significativa la poesia l’addio ai lettori: <<L’addio ai lettori>> <<L’unico sogno della vita mia 144 145 è sempre stato quello de scappà via da la trappola boia ndo’ so’nato. Prima perà vorrebbe salutà sti quattro disgraziati de somari castrati, co’ un cristere sonoro de nocciole de persico e vetriolo Addio. La lingua con cui Titta Marini ha scritto le sue poesie è senza dubbio la lingua natia senza forzature. Il prof. Luigi Volpicelli, critico e studioso della poesia del Marini, parla di <<spontaneità di espressione derivata da una ispirazione immediata e reale dove difficilmente appariva una struttura e una particolarità dialettale ma dove invece emergeva una forma letteraria in lingua italiana>>. Secondo il Volpicelli la poesia del Marini era nata nella sua lingua, una lingua che in ogni caso era da considerarsi italiana; l’italiano naturalmente parlato dal poeta. Tutti i vari personaggi nelle sue poesie parlano un loro linguaggio che viene adattato in base al tema e all’epoca (linguaggio bastardo, dei morti, dei pazzi, degli animali ecc.). L’Hotel Tarconte di Tarquinia metteva a disposizione del poeta le sue sale tutte le volte in cui si radunavano professori per frequentare corsi di aggiornamento o congressi; qui il poeta insegnava i diversi linguaggi da lui creati e fatti conoscere da lui stesso nelle varie scuole di Tarquinia, Civitavecchia, Viterbo, Roma ecc. Nell’opera <<Storia sì Storia no>> furono riportate alcune poesie dialettali, pubblicate o inedite, tradotte direttamente in lingua italiana o perfezionate adattandole al gusto linguistico; nonostante questo non persero mai la loro efficacia e il loro scopo, a dimostrazione della tesi portata avanti dal Volpicelli. Molti sono i linguaggi ravvisabili nelle poesie di Titta Marini e da lui stesso coniati: il linguaggio butteresco (<<... piove peggio d’un corpo che je pija...>> da Truitume, espressione poi pubblicata anche da Il Popolo firmata da E. Ravel); il linguaggio butteresco gigante (<< te pije er carbonchio-disse a la reggina - ogniquarvorta vengo a la latrina...>>); linguaggio bastardo accademico sul modello del linguaggio di cattedra (Broccoli: <<Iddio disse ad Eva ed ad Adamo: - Bigna, raggazzi mii, che lavoramo io v’arigalo ir monte, ir 145 146 piano, ir greppo, pe’piantacce li broccoli cor zeppo. - E se Adamo non ebbe più riposo fu perché li piantò co’ un altro coso>>. E se Adamo non ebbe più riposo fu perché li piantò co’ un altro coso>>. Primo pelo; Lettera fra l’emigrato e la moglie: <<Cara Nené, sta pora barca mia va all’incontré. Er cane è morto; la cavalla l’ha impalata er somaro che, da la gioia, con u <<do de petto>> ha scoperchiato er tetto, ha fatto cascà er lume, e tutto è diventato poco e fume...>>; L’Acquacotta; <<L’Acquacottina est qual zuppa composita da pani e cicoriella et frigida insalatiella, et da ben altre herbe degne di essere manducate da ruminanti et similia; Lettera a Cardarelli: <<Titta Marini nato a Corneto nella Parrocchia di San Martino e da don Carlo Scoponi battezzato, tutt’ora abitante in via della Ficonaccia, co’l’orto sotto l’ammazzatora, chiede scuda al poeta Cardarelli se in quest’ora de maremmana callaccia deve esprimersi in modi alquanto bifolcini perché, oltretutto, nato da razza butteresca>>); linguaggio bastardo trucido (da un po' di tempo in qua, la mia morella...); il linguaggio bastardo pazzesco (Lettera d’amore:.... il sanguinolento mio cuore appollaiato... come piccoli suini innocenti vegheranno attrippati...; lettera del pazzo Tapplò: <<... ma, se mi acciccerò nella tua cuccia, io ti ammandrillerò come l’orango quando si imbertuccia!...); il linguaggio dei morti (<<... So’ridotto tre volte più fu... da Tritume); il linguaggio delle cose (Veneto: <<Sussurra il pino al fungo: - Fiacco cadente, ti sollevi dal basso solamente quand’è scirocco - Quello pronto risponde: - Tu sei forte, ma l’altra settimana ti sei piegato un po’ alla tramontana. - Invece - fa il Giornale - io c’ho talento m’alzo e m’abbasso con qualunque vento - Quest’è bella! La pensi come me - sventola la veste lesta della fanciulla leggermente onesta;); le poesie iperboliche (L’amore de la poje: <<Rosa je disse: Abbasta, Rocco mio, che se t’ammalerai d’indigestione, m’ammalerò pur’io... Poi tutt’un botto lei ner vedello gravido, compresso, contorcese e scoppià fra er gnavolà der gatto spaventato, sur povero decesso sospirò: - Te possinammazzatte, sei crepato - <<Da Tritume>>); l’armonia imitativa (Solo silenzio: <<S’infila a letto er principe MIGRAGNA co la moje Luisa Mosemagna, fijia del re Lardo affumicato. Sur quadro un antenato de li sui fiotta: - Che incrocio, i decessacci tui! - Ma quello nun lo vede e nun lo sente, l’ha presa e non la lassa! Tutto è silenzio e, silenz’iosamente, se solleva un penzolo e se riabbassa. Da Zitti tutti che parlo io); Il linguaggio animalesco è rappresentato dalla poesia <<Poesie e prosa>> dove chi parla è un porco e un mulo. La figura del maiale è usata molto spesso da Titta Marini che vi rappresenta l’individuo comune, senza ideali e grosse aspirazioni che si contrappone al mulo che rappresenta invece l’idealista che vuole emergere dalla modestia umana: 146 147 <<O mulo - grugnì un porco - vai in montagna? Resta qua che si mangia, anzi se magna>> <<Io - disse il mulo - là fra la finestra gialla dal fiore che somiglia alla farfalla mentre sento nel fosso tutta la banda delle raganelle, godo dal sottopelle fino all’osso>> <<Tu m’hai più che commosso fece il re della lonza la tua parola sa di grugniti trillati in troiainfà canta, poeta, t’accompagnerò sgranocchiando il granturco a porchindò>> Mentre in Trilussa o Esopo gli animali assumono un aspetto umano quelle di Titta esprimono i loro pensieri restando animali. Il linguaggio dei pazzi è rappresentato invece dalla poesia <<manicomio>> che descriveremo più avanti. Si parla anche di <<teatralità>> come genere di linguaggio del Marini, e considerata dal Cardarelli come il lato più interessante della sua opera; molti critici erano concordi nel ritenere che l’originalità della sua poetica avrebbe potuto costituire consiglio al linguaggio teatrale, offrendo nuove espressioni sceniche. Nel 1968 furono realizzate due opere per il teatro, <<Maremma>> e <<Nerone all’Inferno>>, quest’ultima messa in scena nella Pineta <<Villaggio dei Tarquini>> interpretata dal pittore Santucci con musiche di Biagio Biagiola. Abbiamo il linguaggio paesano antico butteresco (che adé, che adé, tutto sto’ gran girà fin capo ar monno ministri e re e perfinete er papa? Tanto la guerra nun potrà schippà perché la bomba tonica nun capà!) e il linguaggio toscaneggiante con <<Bestie al Chiarore>>: <<Sberciava un’asinella: - il mio figliolo è molto che studia, e cio ho piacere, ma non sa fare l’O con un bicchiere. - Abbi tu fede - gli ciarlò un ronzino - che il ciuchino può sempre diventare sia un beccamorto... che un parlamentare). A differenza di tanti poeti romaneschi, famosi forse più di lui, che avevano bisogno di luoghi discorsi per arrivare ad esprimere ciò che volevano, Titta Marini è stato sempre scarno, preciso, diretto al suo scopo e ciò ha contraddistinto le caratteristiche della sua 147 148 poetica. Una poetica densa di ironia, di un sarcasmo dirompente con cui, si ritiene, abbia voluto celare una certa amarezza e indifferenza nei confronti delle cose e dell’esistenza umana che egli avvertiva nella sua inutilità, una delusione derivata dal malcostume, dalla viltà, dall’ignoranza, dai mali cioè della nostra società e dai personaggi che li rappresentavano i quali diventavano oggetto delle sue sferzate. Diceva il Bulicame nel 1962 <<Avete mai visto che succede all’acido solforico all’aria aperta? Brucia, corrode, distrugge quanto gli capita sotto. Così le poesie di Titta Marini>>. Considerato un Virgilio meno elegante ma meno simbolico, non descrittivo come Trilussa, ha cercato di constatare la realtà con una esposizione semplice, tranquilla, serena. Il Cruciani lo considerava un personaggio uscito da uno degli affreschi tombali di Tarquinia etrusca con <<un carico di profili delimitati a vuoto, entro i quali costringe soggetti dei nostri tempi, lasciando che l’effetto plastico sia il lettore a ricercarlo>>. La poesia del Marini si rifà essenzialmente alle origini classiche dell’epigramma, dove il suo genio si rivela a volte icastico e dove raggiunge una certa sicurezza di effetti. L’origine dell’epigramma risale alla più antica letteratura greca e significa iscrizione. Era infatti un’iscrizione, dapprima destinato ad essere inciso, brevemente, su monumenti o lapidi sepolcrali, su templi o doni votivi, poi destinato a più argomenti assumendo i caratteri di breve concetto, arrivando ad esprimere, sempre in forma concisa, pensieri, riflessioni filosofiche, giudizi su artisti o poeti, sentimenti, giudizi su statue o libri, tratti di spirito, giochi di parole, spunti satirici e soprattutto dichiarazioni, lamenti e sfoghi amorosi. Titta Marini lo ha fatto diventare, in un secolo dove non si faceva più uso di questo genere letterario, un commento a vignette caricaturali. Ciò che distingue il poeta tarquiniese è l’umore di un uomo sempre vivo, una concezione della vita dolce e amara ma sempre vitale. La sua poesia ha spaziato, toccando diversi generi e temi e trattando quasi tutto e tutti con sarcasmo e ironia. Sferzante e provocatore innanzitutto nei confronti dello Stato e dell’ordine pubblico, della struttura giuridica e politica con una serie di poesie che vale la pena ricordare: Filosofia del Buttero <<Bella troiata la democrazia! E’ la sorella der totalitario se porta a strascicone sur binario un treno caricato a zozzeria. P’aggiustà tutto, senza confusione ciarivorrebbe la rivoluzione! (Tritume) 148 149 L’intruio <<Diceva Marcantogno Squarciavento - Ciò un traffico co’ tante trucidone che se concorrerò pe’ er parlamento arricutino voti cor vagone. N’arricutino più d’un deputato che chissà in che troiaio avrà intrujato (Tritume) Giustizia e verità <<Quanno la verità capita tra le mano a la giustizzia nun se sa più da quale parte sta. (Tritume) Pensiero di un politicante <<Bella è la verità, ma, sia che sia, s’è detta bene, è mejo la bucia. (Tritume) Manicomio <<Un pazzo, ner sentisse un doloretto, cercò un medicinale Ner codice penale Appena ciebbe letto: <<Lavoro>>, <<carità>>... strillò: - ‘Stà robba qua fa bene o male? Se me la bevo come finirò?J’arispose un collega - All’ospedale!E lesse ancora: <<Furto>>, <<Tradimento>>... - S’io bevo questo - urlò - che me faranno. E l’artro pazzopronto - Er monumento! (Tritume) Cirilibereranno <<Diceva un mentecatto a un mattacchione: - Oggi, benché sia festa della liberazione, ti vedo moscio: che te passa in testa? - 149 150 E l’artro: - penso quello che faranno se...ci...ri...li...be...re...ran...no.. (Tritume) Finale travolgente <<Indove guardo, tutto me dimostra l’eterna marcia de la patria nostra, Ricca de timbri e tasse, d’inni e sole, e de bande, bandiere e banderuole. (Tritume) Cos’è er deputato <<Er deputato è, se tu lo cercherai, tempo sprecato. Ma come c’è puzzetta d’elezzioni, nun te lo poi staccà da li.... coglio. (Primo Pelo) Un rimedio c’è <<Al mondo, anziché tanti parlamenti, incancreniti fino alla radice, basterebbe un ometto con la forca, un tritacarne... e quale affettatrice. (Storia si Storia no) La libertà <<Da quando si camuffa ogni ideale con un sistema che fa ormai la muffa, non si sa se la vera libertà SIA QUELLA SU QUELLA GIU’ QUELLA LI’ QUELLA LA’ (Ladri e castroni) Ar Ministro de stato <<Er Ministro de Stato, che qui sott’è incassato, 150 151 per esse troppo bello sverto de mascelle magna e rimagna ce lasciò la pelle. Contestazione <<Na giovinastra urlava: - So’distrutta, me butta male e me la vedo brutta. La corpa è der governo ch’è un puzzone, tocca intostà co’ na rivoluzzione. - Per me è peggio - fa un vecchio - so’ le nove e ciò st’orologgio ch’è fermo a le sei e mezza e nun se move! Nun c’è più religgione.... bisognerebbe de cambià nazzione. (Zitti tutti) Ascenzione politica <<Se a qualunque zuccone je dai ‘na carichetta sarà contento come ‘na ciovetta quanno aggranfa er pormone. Eppoi se na combriccola te lo farà apparì ‘na mente rara, ‘sto ber zero gonfiato salirà sempre più cor parapapazuzzù de ‘sta fanfara (Zitti tutti) Curioso questo epitaffio scritto durante il regime di Mussolini: Io seppellito Antonio, morto in guerra, aringranzio de core er Patreterno perché me trovo mejo sotto terra che sotto ‘sto governo. (Tritume) Tra le sue poesie di contenuto burlesco contro l’allora attuale sistema politico spicca per il suo carattere provocatorio <<Ma fateme er piacere>>: <<Dice: - Qui la baracca butta male 151 152 perché non c’è er governo d’una vorta co’capocce de fama nazzionale. Dico: - Però fra tanti, fra chirurghi e avvocati, beccamorti e laureati, volete che nun sanno fa er mestiere?! .... Ma fateme er piacere. Dice: - Er ministro dell’Agricoltura, ch’è medico e, dioguardi, de la destra, farà finì la terra in seportura. Dico: - Macché! sta sempre su in finestra a sgarufà su un vaso de verdura; ar mi parere ce vò, pe fa contenti sti maligni, la supposta e er cristere... Ma fateme er piacere!! Dice: - però ce so’ certi ministri, che, detto interenosse, so’ sinistri, vecchi tarlati, e cianno trippa e sfegati guasti pe li pasti e rimpasti! Dico: - Per me è er contrario: er Presidente nun cià malanni e nun je manca un dente; Sua Eccellenza Mascella batte ancora la sella; perfino Don Veleno giura la serva che lavora in pieno; in quanto all’Onorevole Ganassa nun è più un giovinotto, però sa come daje de grancassa 152 153 e maneggià er pancotto. D’altronne a commannà chi ce mettemo? Un facchino de porto, un corazziere?.... ma fateme er piacere!... Piuttosto, pe’ sta gente che protesta, ce vo quarcuno forte come un mulo che spacca li cocomberi a rinculo e che pija a serciate su la testa a chiunque: bianco, rosso o giù de lì, canti la Marsijese o er Miserere Pure maria, Marì. ... Ma fateme er piacere! Titta Marini amava il suo paese e lo dimostra il discreto numero di poesie scritte su questo tema. Una volta disse di Tarquinia: E’ uno strano paese, mentre immobile va in salita discende contemporaneamente a valle; La gente oscilla tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, critica l’ozio cercando un lavoro a non fa; d’estame insieme ai vetrallesi e ai viterbesi si trasferisce al lido dove ruzza e sguazzuglia, si rotola e si spoltracchia sulla sabbia calda assaporando cocomeri e pesce. Spiccano tra la gente la signorina Rottame, che non parla per non sbagliare, Pommidoropelato che chiacchiera chiacchiera e non dice niente, Castruccio di Castro, il commendator Menzogna. <<Tarquinia>> - secondo Titta - <<affascinava lo studioso e il tombarolo, il burino, lo straniero e la gente del luogo con le sue torri incornacchiate e il Palazzaccio (Palazzo Vitelleschi, sede del museo etrusco), sempre austero. Il bello era di sera, quando nelle bettole affumicate si cantava dopo aver bevuto un bicchiere di vino e quando, nel bagliore delle luci, il Sindaco e il Consiglio comunale passeggiavano sorridendosi, o quando si vedevano al piazzale i giovani coi capelli da <<puttano>> o le ancheggianti vergini, mentre qualche loro mammina arrancava col bidone del pappone per il porco, fra un nuvolo di mosche e di tafani>>. Tra le poesie più significative di Titta Marini su Tarquinia ricordiamo, oltre la già citata e bellissima <<Villa del silenzio>>, <<Chiesa abbandonata>>: <<Senza campana, senza un rintocco 153 154 muta la chiesa di Santa Maria Non fiata il gufo, e s’assonna l’allocco. Il rosone è una bocca di vento, e dentro è un pantano. San Sinforiano nel sepolcro bofonchia un lamento: - Tu cristiano m’hai ridotto tre volte più... fu! Gli risponde soltanto l’allocco: - Uh uh uh,uh,uh, uh, uh, uh, uh!! (1960) Rilevante anche <<Tarquinia alata>> Non qui sotto di voi morrò, mura cadenti ove il cipresso nero a lutto veglia il vostro cimitero. Addio, torre screpolata dal fico. E te saluto, cornacchia torraiola, che un giorno sparirai dal covo antico. o queste tre righe: Paese di Tarquinia, dove spesso, come pignatta al fuoco quando fuma bolle e ribolle, in alto va la schiuma! Ostile nei confronti dei suoi simili, delle cose e dell’esistenza umana e quindi, a volte, anche nei confronti dei suoi concittadini, Titta cambia umore e genere quando parla della sola Tarquinia, svuotata e deserta, assume una certa riverenza e rispetto, rimpicciolendosi di fronte all’austerità del paese che egli ama e da cui non vorrebbe mai staccarsi. Non c’è più quell’ironia travolgente e provocatrice che lascia il posto ad un tenue romanticismo così inusuale per questo poeta a dimostrazione di una sensibilità esistente 154 155 ma non espressa. E da buon tarquiniese non volle mancare all’appuntamento con la processione del Cristo Risorto con una poesia vivace ma profonda: <<Passa Gesù Cristo>>: Passa Gesù Risorto: troppo bello per avello scorpito uno scalpello. A mano arzate ce benedice a tutti pure li farabutti che so tanti perché qui fu ritrovo de briganti. tra la folla e parapia, spari de castagnole trombe e tromboni strombazzanti ar sole, Gesù! quante persone che non credono te se portano a spalla in processione. Tra gli aneddoti più curiosi su Titta Marini e il suo rapporto con Tarquinia il più originale senza dubbio è quello della dichiarazione d’amore. Titta era solito scrivere dichiarazioni galanti su richiesta di giovani tarquiniesi meno colti, soprattutto quando la ragazza era proprio restia. Scriveva quindi delle lettere romantiche e sentimentali mischiando parole poetiche che non avevano molto senso ma che riuscivano a confondere le fanciulle che finalmente aprivano il loro cuore. Una volta un giovane contadino dopo aver tentato a più riprese di conquistare una ragazza del posto senza riuscire nel suo scopo, si rivolse al poeta per una lettera d’amore. La fanciulla non poté resistere alla bellezza della lettera, anche se non capì molto e, su consiglio della comare più esperta di lei, concesse il suo amore al contadino e in breve tempo si sposarono. La lettera era di questo tenore: <<Signorina, nel mio funesto pensiero, e nella similitudine inquieta della mia vita errabonda, sento forte ed impietosa l’infiltrazione penetrante nell’animo mio: infiltrazione che avvolge e sconvolge l’intrinseco mio cuore accaparrato, raddoppiato così la capacità che in esso è contenuta. Nelle gentilizie, incahamuzzate epopee, sento strazio novello che in me si ripercuote, agglomerandosi come piccole farfallette notturne, fuggenti nelle notti dense e tenebrose. La bontà sua che certamente vorrà sanzionare positivamente, spero che vagherà, nella sua cortese risposta, ben gaie ed amene parole, parole che non vorranno disilludere il sanguinolento mio cuore appollaiato in un astuccio, come uno storione infingardo e 155 156 tracotante. E allora si, quando ci immergeremo nell’affetto reciprocamente desiderato, allora come piccoli suini innocenti vagheremo fausti e giulivi per il sentiero del mondo, cosparso di nitrato d’argento e di rose e di gelsomini. Ed io sarò ben lieto di vederla sgalluzzare di palo in frasca come una palombella inquieta riscaldata dal calduccio del focolare domestico. Speranziando in una inculcata, soave ed effimera, la bacio con rispetto la candida mano>>. I guai cominciarono dopo; i due non si comprendevano perché lei aveva creduto di trovare nel marito lo spirito del poeta mentre in realtà non era così. Ci furono liti e discussioni fino a quando non decisero di lasciarsi, secondo alcuni, per colpa del poeta. Molti aneddoti mi sono stati tramandati dal rag. Giuseppe Santiloni che lo conobbe abbastanza bene. <<Ricordo - mi dice il Santiloni - che una volta lo incontrai al piazzale Europa che era appena uscito dall’ospedale dove aveva subito un nuovo intervento chirurgico ed era molto giù di morale. Mi parlò delle difficoltà superate grazie anche alla assistenza e alla bravura di coloro che avevano <<lavorato>> sul suo corpo. Poi quasi serio disse: <<Siamo troppo complicati! Ci vogliono troppi pezzi di ricambio>> una brevissima pausa poi <<Che poi nun se trovano!>>. Un’altra volta gli dissi: <<Soltanto quando non ci sarai più, sarai grande>>, mi rispose <<Ma io sono già grande!>>. Posso raccontarne molte ma forse le storie che più ricordo con simpatia sono quelle del tizio che incontrai alla stazione Termini di Roma, e quello del bar di Tarquinia. Incontrai uan volta un tale alla stazione di Roma; dopo aver saputo che ero di Tarquinia mi disse di portare i suoi saluti al poeta Titta Marini nei confronti del quale espresse molte lodi. Una sera vidi Titta davanti al museo e gli parlai dell’incontro romano e delle lodi nei suoi confronti. Colto nella sua superbia mi chiese il nome di questa persona ma io non riuscii a ricordarlo. Mi sforzai dietro le sue insistenze, mi chiese di descriverlo, se era alto, basso, castano o biondo, ma niente. Fingendosi incurante mi salutò ma dopo aver compiuto pochi passi si girò verso di me dicendomi: <<Lo rivedi ancora questo tizio?>> <<Forse si>> - gli risposi. <<Allora la prossima volta che lo vedi dije de anna a morì ammazzato>>. soggiunse lui. Curiosa è la storiella del bar. Questa mi è stata raccontata da un tale di cui non ricordo il nome. Vedendo uscire Titta dal bar del corso Vittorio Emanuele, dove attualmente c’è la banca, gli chiese se all’interno c’era gente. <<No, non c’è nessuno>> gli rispose Titta. Ma entrando e vedendo il bar affollatissimo di persone il tale rivolgendosi nuovamente a lui gli disse <<A Ti’, m’avevi detto che non c’era gente,>> <<E che la chiami gente quella?>> concluse lui. 156 157 Ricordo infine la sua risposta alla mia domanda sul perché aveva venduto un pezzo di terreno che aveva ereditato: <<ma te pare? ce pioveva>> Il giorno prima infatti un violento temporale lo sorprese su quel terreno e, non avendo ripari, tornò a casa fradicio>>. Titta Marini debuttò inizialmente come scultore (la più celebre opera scultorea è sicuramente <<Ritratto della suocera>> da cui il noto <<Epitaffio a la suocera>>: <<Da quanno che mi’socera qui giace, lei... nu’ lo so, ma io riposo in pace!>>), abbastanza apprezzato anche dallo stesso Cardarelli che lo volle conoscere ed instaurare con lui un rapporto. Non si può dire nulla di certo circa l’opinione di Cardarelli su Titta e i suoi versi; secondo alcuni lo stimava come artista e come uomo secondo altri niente di tutto ciò e a questo proposito è rimasta celebre una battuta dello stesso Cardarelli: a Titta Marini che volendo iniziare un discorso con lui disse: <<A sor Vincé, io però, nella mia piccola ignoranza!! Cardarelli rispose: <<Come! come! Nella tua immensa sconfinata ignoranza vorrai dire!>>. Certamente non lo considerava un grandissimo personaggio ma il fatto di avergli dedicato una filastrocca in versi dimostra una tenue considerazione nei confronti del poeta dialettale cornetano. I due senza dubbio erano buoni amici, Cardarelli nei suoi soggiorni tarquiniesi era spesso accompagnato dal Marini. Tra le innumerevoli lettere scritte da Vincenzo Cardarelli, solo due furono indirizzate a Titta Marini; la prima, datata 19 settembre 1945 si articolava così: <<Caro Titta, non credere ch’io t’abbia dimenticato. Io ti sono gratitissimo per la compagnia che m’hai offerto nei tetri giorni cornetani. Saprai che ho scritto su te una poesiola quasi dialettale. S’intitola <<Ritratto di Cornetano>>, ed è appena uno schizzo, non un ritratto. Né credere che ci possa essere nulla che rischi di offenderti. La poesia è scherzosa ed affettuosa, come i miei discorsi che tu sei abituato a tollerare, non essendo né un marrano né un cretino come tanti altri di nostra conoscenza. Uscirà sulla rivista <<Costume>>. Spero di rivederti a Roma. Ora sono occupato a curarmi e a cercare di guadagnare. La vita qui è carissima. Io sono lieto, ad ogni modo, di non vedere più certe facce, di non sentire certe voci d’inferno. Saluta tutti coloro che si alzano di un pollice sopra lo strame tarquiniese. Infine ricevi un saluto dal tuo affezionatissimo V. C.>> La poesia <<Ritratto di Cornetano>> risale al marzo del 1945: <<Titta Marini, mangiator di nocchie, dormiglione in compagnia, 157 158 se ne va per la sua via, né d’altrui cura le spocchie ....................................................... ... e sfaticato, grazie alla guerra e all’orto è diventato l’uomo più ricco della Ficonaccia. Ti scova a fiuto e, lieve come un cane randagio, ti accompagna e poi si perde, ché ti vuol bene sì, ma pensa al pane che può mancargli e all’orto sempreverde...>> La seconda lettera è datata 13 ottobre 1945: <<Al sommo Titta Marini. Caro Titta, tu sei partito, al solito insalutato ospite. Ti ricorderai dell’olio? La mia bottiglia sta per finire e io ti sarei grato se mi facessi la <<finezza>> di mandarmene un’altra bottiglia, giacché di olio profano e santo, ne ho molto bisogno. Finché il tempo è buono io seguito a lavorare. Tutta la mia opera è passata a Mondadori, il quale mi verserà, d’ora innanzi, 5000 lire al mese. Non so quale effetto può aver fatto la mia poesia tra i tarquiniesi. A Roma è piaciuta. Ora uscirà quella sulle mura. Ma la più cattiva, lunghissima, la pubblicherò in una rivista di Vincenza e nessuno avrà la possibilità di vederla. Saluta tuo fratello del quale ho nuovamente dimenticato il nome. Saluta Bruno Blasi e spingilo a scrivermi. Ma se non ne ha voglia, non importa. Non salutarmi nessun altro, fuorché i due Brunori, Pepparone e Armando. Sta bene e credimi il tuo affezionatissimo V.C.>> Indubbiamente Marini non era considerato un gran personaggio da Cardarelli e lo dimostra il fatto che in questa ultima lettera esordisce con la richiesta di una bottiglia di olio. Nelle lettere a Titta Marini non sono mai presenti dissertazioni critiche tra artisti come l’usanza vuole. Nonostante tutto Marini comparve positivamente in diverse lettere che Cardarelli indirizzò ad altre persone. Una, datata 7 maggio 1943, è indirizzata a Bina Blasi e Cardarelli parla di Titta Marina a proposito di una Nannina che sta dando alla luce un figlio, figlio <<covato>> nelle veglie d’inverno tra i discorsi dei due poeti cosicché se nasce maschio c’è l’augurio che diventi un po' estroso e se sarà femmina che possa ereditare dai due un po' di fantasia musicale. Un’altra lettera è indirizzata a Nino Calandrini il 2 ottobre 1945 e Cardarelli parla del suo compaesano come portavoce dei suoi saluti e delle sue condizioni di vita. Del 20 agosto 1945 è una lettera indirizzata a Bruno Blasi nella quale Cardarelli esorta il parente a salutare Titta Marini ed ancora altre datate settembre 1945 sempre dirette a Bruno Blasi: 158 159 <<Usciranno poesie mie su Città e altre riviste. Ce n’è anche una su Titta Marini, alla cornetana. Pregalo di non offendersi perché avrà, in tutti i casi, una poesia affettuosa>>. <<Oggi ho collocato la poesia su Titta Marini (Ritratto di Cornetano). Uscirà su Costume, la rivistuola che già conosci. Non ci guadagnerò un soldo, ma sarà, una maniera per sdebitarmi delle tante cortesie che ho ricevute e che ricevo da Mucci e dalla Signora Dora...>> In una lettera del 21 ottobre 1945 diretta al Blasi, Cardarelli informa che la poesia su Titta Marini ha avuto uno strano successo tanto che ne parla anche la rivista Cosmopolita in uno degli ultimi numeri>>. Artisti nettamente diversi l’uno dall’altro, Marini e Cardarelli si attiravano proprio per la loro diversità; là dove il primo poneva accenti sarcastici ed ironici nella descrizione dei suoi soggetti, l’altro faceva dello scritto un’espressione romantico-sentimentale. Certamente Titta ha tenuto in considerazione Cardarelli più di quanto avesse fatto quest’ultimo nei suoi confronti. Nota è la poesia <<Premio Cardarelli>> (visto da un grassone): Un grassonaccio a larga intravatura sta, tutto trippa, in un caffé e fa il chilo e, ignorante di fronte di profilo, critica il premio letteratura. Dice fra l’altro: - Cardarelli è noto, però è finito povero, per cui io, essendo ricco, conto più di lui: non perdo un pasto e rutto a terremoto. ... La penserà così fin quando muore, finché il grasso gli avrà sommerso il cuore. Sempre molto ironica e provocatrice è la poesia <<Funerale a Cardarelli>> Bande e bandiere, che bell’accompagno! Fin laggiù framezzo a la fiumana, che se sperdeva da la vista umana, c’era chi a Cencio, quanno aveva fame, nun lo guardava manco a la lontana e mo j’annava appresso come un cane; c’era gente de fama nazzionale; cricche che je facevano la corte 159 160 invidiannolo a morte, venuti p’esse messi sur giornale. Tutta ‘na zepparella, un tiettelà: un mare de ceriole e baccalà. E pure in chiesa fu (‘n’acciaccapisto), tanto che, in mezzo a quella confusione, nun vedevamo manco Gesù Cristo! ... Questo p’un morto è ‘na soddisfazione! Oppure <<davanti alla tomba di Cardarelli>> del 1969: <<Un sarcofago, e intorno dove guardo non vedo un fiore. Ti seppelli ‘l dolore che t’ha lasciato in compagnia del cardo>>. Altre poesie di Titta Marini su Cardarelli sono <<Omaggio a Vincenzo Cardarelli>>: Tu dalla quiete del dilà potresti spiegarci perché oggi la vita straripa in tragefia Io qui, tra tanto mistero di morti e viventi, non so se mi vedi né so se mi senti, fra tutto un frondeggiar del Cimitero <<alto su rupe, battuto dai venti>>; e <<A Vincenzo Cardarelli>> Hai fatto l’arte per arte, nulla hai chiesto e tutto hai dato, povero sei nato e povero sei morto Tra i poveri hai avuto sepoltura e con la mano, che ha fatto con l’inchiostro monumenti, 160 161 oggi insegni Tarquinia da lontano>>. Artista dalla personalità non molto complessa, Titta Marini si può riassumere in questi versi: <<Io nacqui in un paese ove, dalla gran fiacca, gli alberi non fanno ombra e la cicala non canta>>. Ed infatti ciò che lo contraddistinse fu un’innata e perdurante pigrizia, una profonda ed incurabile svogliatezza che cercò di trasmettere agli altri attraverso le sue teorie sull’ozio e sul dolce far niente. Considerato il precursore del tempo libero, elaborò nel 1946 il famoso piano (o pianone) iniziato a Tarquinia presso il Consorzio Agrario insieme al ragionier Giuseppe Santiloni. Creò il <<fronte dell’ozio>> il cui stemma raffigurava un granchio con lo slogan <<l’ozio ci unisce e il lavoro ci divide>> e <<la terra è sempre la peggiore impresa, da vivo è bassa, da defunto pesa>>: Molti giornali si interessarono al lavoro del Marini; Elio Filippo Accrocca (un giornalista che lo seguì dal punto di vista critico per moltissimo tempo) in un giornale genovese scriveva: <<... il discorso era stato tenuto al caffé principale di Tarquinia, davanti al Palazzo Vitelleschi, sede del museo Etrusco. Il fondatore del <<fronte>> aveva illustrato il piano di lavoro nelle sue premesse e nei suoi particolari. L’Italia può far vivere sessanta milioni di individui. Questo proponeva il piano che riteneva sufficienti quaranta giorni lavorativi a testa se tutti gli italiani avessero lavorato tutti indistintamente dai venticinque ai cinquant’anni. E poi? Poi passatempi, letture, sport e viaggi; il Fronte dell’ozio si diffuse in provincia di Viterbo, Roma e in Toscana raccogliendo ovunque consensi. <<Tarquinia ha il suo poeta stanco - scrive Danilo Telloni nella rivista Rotosei - è stato amico di Trilussa e del conterraneo Vincenzo Cardarelli, più celebre di lui, ma, in vita, non certo meno <<stanco>>. <<Il nucleo centrale della sua teoria sull’ozio era il lavoro: Marini avrebbe diminuito le ore di lavoro di ciascun lavoratore consentendo così a tutti di poter prestare la loro opera; in una giornata lavorativa di 8 ore il datore di lavoro poteva avvalersi della prestazione di due dipendenti per quattro ore ciascuno. Si poteva inoltre strutturare l’organizzazione lavorativa di una azienda di cinque dipendenti facendo lavorare a turno uno solo dei lavoratori subordinati. Il lavoratore nel suo turno avrebbe svolto anche il lavoro degli altri che nel frattempo non facevano nulla e venivano retribuiti ugualmente. Grossa importanza veniva data al progresso tecnologico che avrebbe impedito, con il tempo, grosse fatiche ai lavoratori i quali lavorando un’ora su otto, avrebbero di conseguenza lavorato un giorno su otto, un mese su otto mesi e così via. Non era dunque la negazione assoluta del lavoro al quale peraltro il Marini attribuiva quella importanza sociale come centro intorno a cui gravita l’esistenza umana; considerava inutile 161 162 lavorare molto quando lavorando poco, ma in modo più razionale, si potevano raggiungere i medesimi risultati. Il binomio produzione-riposo trova quindi una completa esaltazione in questa teoria che rivisitata opportunamente, non è da disprezzare del tutto. Ci sono stati tramandati numerosi aneddoti che sottolineano questa sua attitudine a lavorare poco o, comunque, a far lavorare gli altri. Anche il suo aspetto esteriore era sinonimo del suo io: disordinato nel vestire, le sue tasche sempre piene di fogli, foglietti pieni di versi o ispirazioni alla rinfusa, trasandato anche nel muoversi. Tra i suoi primi libri ricordiamo <<Uomini, donne e fazzoletti da naso>> con cui si fece conoscere guadagnandosi anche la stima di Trilussa (1930), <<Il cadavere>> del 1931, <<Quanno la sorca gode>> del 1932, <<L’amore in camicia>> del 1946, <<Cose grosse>> del 1950. Tra il 1968 e il 1970 uscirono Tritume, Primo pelo, Ladri e castroni, Zitti tutti che parlo io, dove oggetto del suo sarcasmo e della sua ironia erano i tipi saccenti del paese. Nel 1973 è uscito <<Storia si Storia no>>, che poi in realtà è l’ultima opera pubblicata. Tra il 1973 e il 1978, data del definitivo ricovero in ospedale, scrisse le poesie che avrebbero dovuto formare un nuovo libro (TUTTO TITTA), rimasto poi inedito, raccolto in un blocco notes. Furono scoperte dal prof. Maurizio Brunori nell’abitazione di Marisa Marini e rese note da quest’ultimo nell’opera <<Poesie inedite>> uscita nel luglio del 1981 quasi contemporaneamente alla rappresentazione, presso il teatro Etrusco, di una sceneggiata sulla vita e le opere del poeta dal titolo <<Il Fronte dell’ozio>> messa in scena dalla Filodrammatica Cornetana. <<Poesie inedite>> può essere definita la raccolta più completa e matura con le ultime, nuove poesie di una certa intensità e bellezza che denotano nuovi tratti della sua personalità fino allora sconosciuti. L’autobiografismo che si comincia ad intravedere in un poeta così sempre restio a parlare si dè, i passaggi da toni drammatici a quelli più propriamente ironico-sarcastici, da un mondo fantastico-surreale ad uno più realistico della vita che in quel momento lo stava per lasciare rappresentano la definitiva consacrazione artistica, la maturazione completa di un personaggio poco considerato e poco compreso in patria. Risale tuttavia a qualche anno prima una delle poesie più belle che il Marini tenne nascosta fino alla morte e che fu pubblicata solo nel 1981: Annuncio mortuario o Avviso mortuario, secondo il Brunori una specie di testamento scritto in versi, colorito da un tono provocatorio, beffardo e insolente, una poesia ricca di ironia destinata a lasciare una traccia per la sua vena scherzosa e scanzonata: <<Titta Marini s’è impiccato: è morto. Occhi de fora e lingua a pennollone 162 163 come se cojonasse le persone, ha fatto rabbia pure al beccamorto, che da la bile è diventato giallo tanto che non voleva più incassallo. O sacrestani, scampanate a festa, perché ‘sto fregno ce tratto’ da fessi. Dar camposanto pure li cipressi se ne so’annati in segno di protesta. Le sue opere e le sue poesie furono oggetto di numerosi riconoscimenti, tra questi, il più importante, gli fu conferito nel 1964. Nel corso di una solenne cerimonia alla presenza di numerose autorità culturali dell’epoca, in occasione del centocinquantatreesimo anno accademico della Tiberina, istituzione fondata da Giuseppe Gioacchino Belli che contava tra i suoi membri illustri uomini d’arte (Canova, Quasimodo, Gioberti, Rossini, Croce, Marconi ecc.), fu insignito del Lauro Tiberino, per i suoi meriti di poeta dialettale in vernacolo romanesco; unico poeta dialettale a cui fu conferita questa onorificenza dopo Gioacchino Belli, Marini tenne molto a questo premio. Nel 1966 ottenne per meriti letterari un premio dell’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Tuscania. Nel 1968 vinse la poesia <<Cristo in croce>> il primo premio in un concorso bandito dall’Associazione Culturale per la Gioventù fondata da Nicola Pende e Lucia Poli. Di questa associazione ci è stata tramandata una lettera scritta dal presidente Romolo Volpini a Titta che riportiamo: caro e buon amico Titta, i tuoi recenti volumi <<Ladri e Castroni>> e <<Tritume>>, che ho letto centellinandoli, sono permeati dal pesante odore della terra maremmana che è un po' anche la mia, e, per tale ragione, vi trovo le vecchie cose della mia giovinezza, dette con quello spirito furbesco, scanzonato e pieno di calore di gente che sa discendere da un popolo che aveva già scritto centinaia di volumi della sua storia quando gli altri popoli ancora non avevano imparato a scrivere. I titoli stessi dei tuoi volumi sono pesanti, e le immagini degli etruschi, immortalati nell’antica pietra sono pesanti, ma tu sai ammorbidire tutto e tutti col tuo sorriso genuino, franco, di uomo puro e sicuro che poeteggia non per dare ad intendere di avere una cultura ermetica, ma per il bisogno di cantare, in faccia al mondo e alle sue brutture, che se anche s’imbellettano rimangono sempre brutture perché oltre il <<bello>>, il <<buono>>, e il <<giusto>> non rimane che che il <<brutto>>, il <<cattivo>> e l’<<ingiusto>>. Dalle cose insignificanti, giornaliere, alla portata di tutti, ricchi e poveri di spirito, sai salire senza reticenze per le vie dell’Arte e lo fai con umiltà cosciente perché sei buono, 163 164 generoso e sembri dire ad ogni istante <<perdonatemi se sono poeta!>>. Grazie, caro amico Titta Marini, per avermi data la possibilità di trascorrere alcune ore non soltanto in tua compagnia spirituale ma anche avvolto nel profumo inconfondibile della nostra terra di perfetti menefreghisti! Ti abbraccio con cordialità affettuosa. Romolo Volpini>>. Nel 1979 il comune e l’Azienda autonoma di soggiorno e turismo di Tarquinia lo onorarono con una Medaglia d’oro. Nel 1972 vinse il premio <<Roma 72>> per, cito testualmente, <<le numerose opere stampate e presentate al pubblico in vernacolo e in lingua italiana; per l’opera di ausilio didattico che svolge in molte scuole elementari e medie inferiori e superiori; per il profondo senso umano dei suoi contenuti, resi con brevi tocchi incisivi, con mordente ilare e talvolta sarcastico>>: Ricco di poesie significative e degne di rilevanza è l’argomento religioso da dove traspare l’animo sensibile e nobile che il poeta forse non ha mai espresso pienamente nei suoi versi. Poesie come <<Sermoncino der futuro>>, <<Papa Giovanni>>, <<La mejo tana>> (1944), <<Crocepugnale>>, <<Ar chiericante>>, <<Se cambia vento>>, <<Il Cristo in croce>>, <<La tua croce>>, <<Preghiera>>, <<Madonna pellegrina>>, <<La predica>>, <<Ringrazziamento>>; <<Processione maremmana>> ecc. alcune scritte in lingua italiana altre in dialetto, mostrano come a volte Titta Marini desiderasse trasmigrare dalla realtà delle cose e dell’esistenza umana per instaurare un dialogo soprannaturale con Dio, reso spesso molto vicino a noi nel linguaggio, quasi a volersi rassicurare della sua esistenza o consolarsi e sfogarsi con qualcuno per le Amarezze terrene da sopportare insistentemente; ed anche queste poesie possono collocarsi tra quelle che sono servite a Titta per attaccare indirettamente il male della società ed i personaggi che per lui lo hanno più o meno rappresentato. Titta Marini è stato solito dedicare alcune delle sue poesie a pesonaggi generici o definiti. Soggetti come il Commendator Monnezza, il Ministro de Stato, lo Scapocciato, il genio, il Monsignore, Trilussa, la socera, l’omo, il cavajere, lo scontento, l’avaro, il lavoratore, il contadino ecc. danno il titolo ai rispettivi epitaffi. Vere e proprie dediche furono invece riservate al Barone Enrico di Portanova, a Giovacchino Rosati, ad Alberto Renzi, a Claudio Breccia, al dottor Antonio Pardi ch’aringrazziava de core p’aveje sarvato er core, all’avvocato Attilio Bandiera, suo migliore amico e suo peggior cliente, al pittore tuscanese Renato Morelli, a Piperno a Monte Cenci, a Viviana ed Ambrogio Camurani, al pittore Amilcare Tomassetti, a Corrado Marini, al dottor Giampiero Leoni, al dottor Luigi Sereno, al Principe Vittorio Massimo, a Gastone Venzi, a Giovanni Perone, Andrea Castra, Peppone, Zuccone, magnacane che <<tribbolarono>> con lui in campagna da giovani, alla pittrice e scultrice Lucia Poli, al 164 165 dottor Corrado Chiatti, ai baroni Renato e Gislero Flesch ed agli amici Vergilio Valentini, Tommaso Maggi, Stefano Albertini, Manlio e Vittorio Alfieri, Andrea Amici, Gastone Venzi. Dell’agosto 1969 è una significativa lettera di R. Loverme: Caro poeta, ho letto il suo volume di poesie romanesche, Tritume, e le confesso che mi ha sorpreso la singolare originalità del mezzo tecnico-espressivo, il quale si sostanzia di incomparabili espressioni primordiali ricollegantisi ad una unica matrice: il <<volgare centrale>>. Al riguardo bene ha precisato uno dei prefatori, Trieste Valdi: <<Occorre innanzi tutto fare caso alla lingua usata dal Marini, che non è sempre il dialetto parlato in Maremma né, tantomeno, il romanesco, ma una lingua centrale, espressione di una stirpe che deriva direttamente dagli etruschi>>. Ritengo che la icasticità del suo linguaggio, quella efficacia di rappresentazione che i Greci chiamavano enargia e, soprattutto la peculiare musicalità di talune composizioni, si debbano proprio al fatto che Lei è rimasto fedele, per sentimento, al linguaggio primordiale d’un mondo favoloso che ha così viva risonanza nella Sua poesia. E sotto questo aspetto può considerarsi l’ultimo discendente degli etruschi... Titta Marini è noto anche per i suoi epitaffi. L’epitaffio era un insieme di parole scritte sopra una tomba e riferire al defunto anche se in origine il termine <<epitaffio>> o <<epitatio>> non comporava neppure l’idea di uno scritto: stava ad indicare invece il discorso pronunciato in lode del defunto nel momento della sua sepoltura. In seguito, ai tempi della repubblica romana, indicò la scritta posta sulla tomba e recante l’indicazione del nome e delle cariche ricoperte dal defunto. Più tardi si diffuse l’usanza di aggiungere a queste brevi indicazioni anche un accenno alle sue virtù. E’ fuor di dubbio che Titta Marini usò l’epitaffio solo ed esclusivamente per finalità ironiche e satiriche, rifacendosi, come già detto all’origine dell’epigramma classico che aveva anche questi intenti. Vale la pena ricordare i più famosi: <<Ar ministro de stato>>: Er ministro de stato, che qui sott’è incassato, per esse troppo sverto de mascelle e rimagna ce lasciò la pelle; <<Der peccatore>>: Siccome p’impegnamme ner peccato, mo sto’ ner regno de la scottatura, nun scocciate Chi m’ha creato, spaternostra no su sta sepportura; <<A la pace>>: la pace, spaventata da la guerra s’è so’er padrone de me stesso perché sto scantinato è senza ingresso; <<Der contadino>>: La terra, brutta impresa, da vivo è bassa e da defunto pesa; <<Der pezzentone>>: Qui nun pago piggione, ciò er giardino in terrazza, e Bella soddisfazione! ma, se rinasco, sai che fo? Rimoro! <<De l’avaro>>: Io sottoscritto... morto, siccome già lo so che chiunque prega vo’, avverto tutti che me trovo a corto; perciò nun do’; <<De lavoratore>>: Onesto e laborioso 165 166 qui, finarmente, se fa un sonno... coso; <<De l’abborto>>: Senza nemmanco l’urtimo conforto, come la libbertà, so’ nato morto; <<A Ava>>: Qui s’ariposa Ava che se vestiva quanno se spojava; <<All’omo>>: Qui ce sta l’omo da la testa dura, che se creò la doppia fregatura, perché fabbrico l’armi p’ammazzasse e, pe fà l’armi, nun pagò che tasse; <<Ar cavajuere>>: Fu fatto pe’ lamoje cavajere, terra e corna je siano leggere; <<A la socera>>: Da quanno che mi socera qui giace lei... nu’ lo so, ma io riposo in pace!; <<A Trilussa>>: Visse cantanno, sempre applaudito, tra fama e fame, fin quanno er falegname l’ha inchiodato nell’urtimo vestito; <<A la pecora>>: Fu ‘na pecora pazza e disgrazziata che, pe seguì la strada d’un leone, morì scapicollata. poteva sceje quella der montone; <<A lo scapocciato>>: dato ch’è senza testa, sto signore se non è deputato è... senatore. E’ molto difficile parlare di Titta Marini, scavare nella sua personalità, sia per la carenza di fonti documentali (i pochi libri pubblicati sono attualmente nelle mani di pochi privati e introvabili nelle librerie), sia per le poche persone in grado di poterlo descrivere in modo esauriente; ritengo inoltre inutile il voler capire da persone tarquiniesi frasi o spiegazioni sulla sua poetica o sul suo modo di vivere, e questa mia sensazione deriva da quell’atteggiamento, peraltro involontario, di indifferenza ed incomprensione che Tarquinia ha sempre avuto nei suoi confronti. L’ho visto solo una volta, da piccolo, quando in un pomeriggio d’estare regalò uno dei suoi libri a mio padre con una dedica. Titta Marini è morto il 25 luglio 1980. Sono riuscito a scoprirlo solo ora attraverso i suoi scritti e forse c’è in me un pizzico di rimpianto per non averlo conosciuto più a fondo di persona; E’ d’uopo chiudere questa trattazione con due sue poesie scritte all’ospedale di Tarquinia dove era ricoverato, poesie molto profonde che racchiudono tutta la sua vita di incompreso, fatta di amarezze, solitudine e insofferenza verso qualcuno o qualcosa che sta al di sopra della vita terrena quasi a volersi finalmente estraneare dal mondo in modo definitivo; per me possono collocarsi tra le sue poesie supreme per la loro crudezza estremamente serena. <<L’ultimo brindisi>>: Sto a letto, stanco, è tanto che cammino, solo, sul filo teso del destino: ma adesso ci sei tu, spalanca la finestra: ch’entri l’aria, brindiamo insieme, o Morte solitaria. <<Tu in vita>>: Da te nacqui malato; poi aucchiai dalla tua vita il latte avaro. Crebbi tra lupi e scrofe, e mai scorderò quando mi dicesti morendo: Come stai?>> <<Tu nell’aldilà>>: Notte. Sto sempre in ospedale, c’è soltanto il crocefisso che sta peggio di me. E vedo pure, nel dormiveglia, te, che al dilà dell’azzurro mi vegli nel tormento. E benché sei lontana ti risento. Giulio Giannuzzi 166 167 Bibliografia T. Marini - Zitti tutti che parlo io - Ediz. Accademia Dell’ozio T. Marini - Poesie inedite - Ediz. a cura Comune di Tarquinia T. Marini - Tritume - Ediz. Accademia Dell’Ozio T. Marini - Storia sì Storia no - Ediz. Accademia Dell’Ozio T. Marini - Primo pelo - Ediz. Accademia Dell’Ozio ATTIVITA’ SVOLTA NELL’ANNO 1991 L’insufficienza del tempo a nostra disposizione (appena sei mesi di impegno) non ci permise, lo scorso anno, di impostare e portare a compimento ciò che avevamo in animo di fare. Ma le promesse, fatte allora, di adoperarci di più e meglio per il raggiungimento dei nostri obiettivi nel proseguimento del nostro mandato, crediano siano state mantenute a tutto vantaggio e nell’interesse della Società, dei soci, di Tarquinia. Sono diverse le manifestazioni e le realizzazioni portate avanti e quasi tutte, se non tutte, in linea con gli scopi sociali che intendiamo perseguire nella maniera più conforme al nostro Statuto e tutte hanno ottenuto favorevoli consensi entro e fuori i confini della nostra 167 168 città, dando ampia dimostrazione della vitalità della SOCIETA’ TARQUINIENSE d’ARTE E STORIA e della necessità della sua presenza nel tessuto connettivo di Tarquinia. Ciò premesso, riportiamo, in sintesi, qui di seguito, quanto è stato fatto nell’anno 1991 da soli o in collaborazione con altre Asssociazioni e gruppi locali: - partecipazione attiva alla Mostra del Presepio di Tarquinia con la concessione gratuita del Salone Sacchetti e della organizzazione interna; - serie di conferenze <<TRA MITO E STORIA>> tenute dal Dr. Filippo Salvati nel salone suddetto; - partecipazione attiva ai Concerti dell’A.GI.MUS. con relativa concessione del salone di cui sopra; - conferenza del Dr. LUCIANO MARZIANO sul tema <<ORIGINE dell’ARTE ASTRATTA in ITALIA>>; - celebrazione della <<FESTA DELLA DONNA>> in collaborazione con l’Associazione <<La Lestra>> di Tarquinia; - distribuzione ai soci del BOLLETTINO dell’anno 1990; - celebrazione del VENTENNALE della nascita della Società (24.04.71) con l’ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA dei SOCI, pranzo sociale e concerto strumentale del maestro pianista MAURIZIO MASTRINI; - presentazione del libro di PIETRO CICERCHIA dal titolo <<TARQUINIA BORGO MEDIEVALE>> Relatore il prof. Arch. GAETANO MIARELLI MARIANI; - Mostra Fotografica Collettiva dal titolo <<DIVERSAMENTE TARQUINIA>>; - quattro Concerti della ASSOCIAZIONE CULTURALE EST. FEST. FESTIVAL con ingresso gratuito; - presentazione del libro su GIOVANNI VITELLESCHI dal titolo <<IL CARDINALE DIABOLICO>> dello scrittore UGO REALE; - gita turistico-culturale della durata di due giorni ai CASTELLI ROMANTICI DELLA ROMAGNA, riservata ai soci; - saggio di fine anno della durata di tre giorni per gli studenti di musica della scuola media <<Ettore Sacconi>>; - <<CONCERTI dell’ESTATE>> in collaborazione con l’Associazione MUSICA e TRADIZIONE di Tarquinia; - mostra di pittura di RENZO VESPIGNANI nell’Auditorium di San Pancrazio; - inaugurazione dei lavori di restauro dell’altare e dei mosaici cosmateschi del presbiterio e del transetto di Santa Maria in Castello con la presenza di Mons. Girolamo 168 169 Grillo Vescovo di Civitavecchia-Tarquinia, con la partecipazione della corale di Magliano in Toscana; - video cassetta dal titolo <<TERRA MIA>> di Vincenzo Cardarelli nel Salone Sacchetti. Ma i fiori all’occhiello della S.T.A.S. sono rappresentati da: 1) Convegno su GIOVANNI BATTISTA MARZI nato a Tarquinia il 3 agosto 1857 scienziato e poeta, inventore del primo centralino telefonico automatico nei locali della Biblioteca Vaticana ed autore della epigrafe dettata per la corona di alloro offerta alla Salma del MILITE IGNOTO nella solenne tumulazione sotto l’Altare della Patria il 3 novembre 1921. 2) Restauro dei mosaici cosmateschi della basilica di Santa Maria in Castello per l’importo complessivo di £. 53.100.000 con il contributo di: LIONS CLUB con £. 9.500.000. ASSOCIAZIONE PRO TARQUINIA £. 5.600.000. CENTRO STUDI CARDARELLIANI £. 3.000.000. EUSEPI TOMMASO BRUNO £. 1.300.000. LENZO LUIGI £. 1.000.000. ASQUINI LETIZIA £. 1.000.000. POTTINO GUIDO £. 1.000.000. SAVINO OBERDAN £. 500.000. GRISPINI LIDIA £. 100.000. 3) nuovo impianto di riscaldamento a metano dei locali della Sede Sociale per il costo complessivo di £. 32.750.000. Una esigenza questa la cui soluzione si imponeva per motivi facilmente comprensibili, onde renderne più facile ed assidua la permanenza. Una cura particolare è stata dedicata al settore <<SOCI>>. Al 31 dicembre 1989 erano 746 al 31 dicembre 1991 sono 724, alla data della Assemblea odierna 731. A prima vista sembrerebbe che le adesioni abbiano subito un arresto anche se lieve ma non è così. Infatti, con l’adesione di nuovi soci (ben 46 soltanto nel 1991), siamo riusciti a contenere il sensibile calo dovuto non soltanto ai soci deceduti ed ai pochissimi che si sono dimessi, ma anche e soprattutto alla cancellazione, d’ufficio, di un rilevante numero di persone residenti lontano da Tarquinia - qualcuno persino oltre i confini d’Italia che si erano iscritti alla Società per motivi di convenienza dovute a mostre, concerti, conferenze, convegni ecc. ecc. Con questa azione di aggiornamento oggi possiamo contare su un quadro soci quasi tutti tarquiniesi, quindi più facili da avvicinare e seguire. 169 170 Con la speranza che il 1992 sia un anno ancor più fecondo, crediamo giusto e doveroso ringraziare tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno offerto la loro collaborazione per il raggiungimento degli scopi sociali. Il Consiglio di Amministrazione APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO A Agnellotto (s.m.) - Deformazione di agnolotto, tipo di lasagna ripiena di carne, condita alla maniera della pasta alimentare con salsa e formaggio. C Centopelle (s.m.) - Una delle cavità dello stomaco dei ruminanti, cioè l’omaso, che viene cucinato e mangiato col nome di trippa o frattaglie vaccine. E’ coperta di sottili lamelle carnose che danno il nome al tipo delle interiora animali. Il riferimento va alla difficoltà di digerire e assimilare determinati alimenti assai pesanti che stazionano nello stomaco umano, quasi non fosse la penultima cavità dei ruminanti, e riescono ad essere smaltiti. C’è un detto popolare in proposito che dice: <<La trippa è trippa, ma questo è centopelle>>. Nel senso cioè che il centopelle è la parte meno ricercata della trippa in genere. Concasse’ (s.m.)- Macchina per frantumare pietre per costruire calcestruzzo. Derivazione del francese strade e fare il <<concasser>> che significa appunto frantumare e frangere. D Doro (s.m.) - Sta per il nome oro. Usato specie nel linguaggio dei bambini che chiamano con questa parola la stagnola che avvolge caramelle e cioccolatini e qualsiasi altro tipo di dolciume. Il riferimento va alle parole <<dorato>> e <<doratura>>. 170 171 L Laniccia (s.f.)- Specie di lana che si forma sotto i letti o sotto i mobili per scarsa pulizia. Derivazione dalla parola <<lana>> usato in senso dispregiativo. M Maccarone (s.m.) - Sta per maccherone. Usato in senso derisorio verso persona buona a nulla. Marrone (s.m.) - E’ il cavallo anziano che si affianca, durante il periodo della doma, al puledro indomo, per non spaventarlo e abituarlo gradatamente a convivere con il cavaliere. Etimologia incerta. Mazzarella (s.f.) - Bastone lungo e sottile di corniolo o di nespolo selvatico, usato dai vergari, dai butteri e dai massari. Derivazione da mazza. C’è un canto popolare che dice <<E lo mio damo fa lo massaro/ la mazzarella gli diventi d’oro / d’oro e d’argento la spiga del grano>>. Monichella (s.f.) - Vezzeggiativo di monaca. E’ riferito anche alla mantide religiosa. P Palombaccio (s.m.) - Viene spesso usato in forma ironica verso persona di poca astuzia e di scarsissima personalità. Derivazione dal nome del volatile che è di facile preda: il quale si ammaestra come zimbello per richiamare gli uccelli di passo. Così viene chiamato il colombo selvatico migratorio. Panzone (s.m.)- Persona dal ventre o dalla pancia molto pronunciata. Derivazione da pancia che in gergo vien detta <<panza>>. Pecettone (s.m.) - Persona eccessivamente appiccicosa, da non distaccarsi quasi mai, come se fosse attaccata con la pece. Da cui deriva questo vocabolo. Sinonimo di appiccicoso e fastidioso. Pelare (v.t.) - Siccome le bruciature portano via pelle e pelo, ecco l’uso che se ne fa per significare appositamente ciò che brucia eccessivamente, specie se riferito alle pentole o ad altri oggetti da cucina. Perazzeta (s.f.) - Campo su cui si trovano piantati alberi di pero selvatico il cui frutto viene chiamato in dialetto perazza. Puntata (s.f.) - Fitta dolorosa che punge. Dal latino <<punctum>>. R 171 172 Rimessino (s.m.)- Alto recinto di passoni all’interno del quale si chiudono cavalli e buoi allo stato brado. Vi si domano i puledri e si marchiano a fuoco vitelli e cavalli. Derivazione da rimessa. T Trippone (s.m.)- Dicesi di persona eccessivamente panciuta. E dato che in gergo la pancia vien detta anche trippa, eccone la derivazione in forma accrescitiva. 172 173 173 174 174 175 175 176 176 177 177 178 178