Dialoghi - Rivista di Studi Italici, vol. IV, 2000, n. 1/2, pp. 1-53 Marco Mamone Capria # Giordano Bruno e la nascita della scienza moderna Brunum Romae crematum ex Domino Wackherio didici; ait, constanter supplicium tulisse. Religionum omnium vanitatem asseruit, Deum in mundum, in circulos, in puncta convertit. J. Kepler, 1608* 1. Introduzione. La vicenda intellettuale e umana di Giordano Bruno (1548-1600) fornisce una prospettiva privilegiata da cui guardare a quel momento di trasformazioni nella concezione del mondo in cui è nata la scienza moderna. Bruno fu filosofo in un periodo in cui nessun ramo dello scibile esorbitava dalle competenze della filosofia, ed entrò in numerose controversie accettando un isolamento ideologico e istituzionale che poteva avere conseguenze personali molto serie - come di fatto accadde. E d'altra parte, qualunque cosa si pensi del suo personale contributo alla maturazione del sapere scientifico e filosofico moderno, il filosofo di Nola (“il Nolano”, come amava denominarsi), portò nella battaglia delle idee un tipo di passione e, se vogliamo dire la parola, di intemperanza che scosse l'Europa, lasciando un segno duraturo nella sua storia culturale. Bisogna dire che i giudizi di Bruno sono stati molto vari (già fra i suoi contemporanei, come vedremo). L'età del positivismo, che ne celebrò il terzo centenario della morte e gli eresse un monumento sul luogo del supplizio (la piazza romana detta Campo de' Fiori), salutò in lui il martire della scienza e ne fece il simbolo di una accesa polemica anticattolica. Nella famosa Storia della letteratura italiana (1870) Francesco De Sanctis dedicò a Bruno parecchie pagine del capitolo su “La nuova scienza”, facendo da lui partire il risorgimento ideale e, in definitiva, anche politico, del popolo italiano. Il quarto centenario, che cade appunto in questo anno 2000, è stato invece caratterizzato da una maggiore incertezza sul preciso posto da assegnargli nella storia della cultura, e ciò per diverse ragioni. In primo luogo, alla carica anticlericale di fine Ottocento si è oggi sostituita una prudenza che si nasconde dietro la pretesa che si sia ormai ‘superata’ l'epoca delle ‘contrapposizioni ideologiche’, in particolare tra scienza e religione. Quanto ci si possa fidare di queste dichiarazioni di avvenuto ‘superamento’ lascerò giudicare al lettore. 1 2 # Dipartimento di Matematica, via Vanvitelli, 1, 06123 Perugia. Questo articolo ha tratto origine da una conferenza tenuta nell'aprile del 2000 presso il Liceo “Ettore Majorana” di Orvieto, che ringrazio - in particolare nella persona del prof. Luca Umena - dell'ospitalità. * “Che Bruno è stato bruciato a Roma l'ho appreso dal signor Wackher; ha detto che sopportò con fermezza il supplizio. Asserì la vanità di tutte le religioni, trasformò Dio nell'universo, nei cerchi, nei punti” (K, II, p. 596). N.B. Salvo avviso contrario: 1) le traduzioni sono mie, 2) nelle citazioni i corsivi, le parentesi quadre, e le note sono aggiunti da me. Le abbreviazioni utilizzate per i riferimenti alle opere di Bruno, Galilei e Keplero sono elencate nella bibliografia. 1 Il monumento fu inaugurato il 9 giugno 1889; il Papa di allora, Leone XIII, protestò contro “l'atto sacrilego” (Sale 2000). 1 Ma c'è una seconda ragione, che ci interessa di più in questa sede, ed è che gli studi bruniani, sotto l'impulso di eminenti storici delle idee come Eugenio Garin e, soprattutto, l'inglese Frances A. Yates, hanno a partire dagli anni Sessanta sempre più messo l'accento sugli aspetti ‘arcaici’ del pensiero bruniano, e in particolare sul suo legame con la tradizione ‘magica’ ed ‘ermetica’ . In effetti già prima di questi contributi, nel 1941, lo storico delle idee Lynn Thorndike aveva sminuito l'importanza della componente scientifica sia nel pensiero di Bruno che nelle ragioni della sua condanna da parte dell'Inquisizione; con la tesi ‘ermetica’ si è avuto uno spostamento di prospettiva ancora più netto: da antesignano della nuova scienza Bruno è diventato un epigono di una falsa sapienza la quale sognava le sue radici in un Egitto leggendario e torbido. E ciò ha portato anche a una drastica reinterpretazione del processo subìto da Bruno. Benché gli studi citati abbiano sicuramente giovato a rinnovare l'interesse per il nostro autore, ci si può a buon diritto domandare - come vedremo - se la sua figura non abbia subito più ingiustizie dalla reinterpretazione ‘ermetica’ che dall'unilaterale interesse dei positivisti per gli aspetti scientifici del suo pensiero. In questo saggio cercherò di disegnare un profilo di Bruno filosofo della natura e della scienza che non si riduca a un sondaggio della genuinità delle sue ‘anticipazioni’, ma che renda almeno in parte giustizia alla complessità della sua posizione intellettuale, ed espliciti i motivi di un interesse non puramente antiquario per essa. In particolare vedremo che, in alcuni casi in cui le tesi di Bruno ci appaiono come ‘ovviamente’ bizzarre, la loro stranezza dà la misura della difficoltà di problemi che ancor oggi non si possono dire risolti del tutto soddisfacentemente. Le sezioni 2-6 sono dedicate agli aspetti più famosi di Bruno: il suo copernicanesimo, la cosmologia dell'universo infinito, il principio di relatività; la sezione 7 riguarda poi una questione connessa ma non altrettanto nota, cioè il rapporto conflittuale di Bruno con la matematica del suo tempo. A questo punto comincio la discussione della tesi ‘ermetica’ (§§8-9) e passo all'altro lato della concezione del mondo bruniana, cioè il suo animismo (§§10-11), mostrandone i collegamenti con problemi di concettualizzazione in fisica (§12) e in biologia (§§13-14), e soffermandomi sulla questione del fondamento del diverso giudizio moderno sui resoconti storici di eventi prodigiosi (§15). Faccio poi vedere che la posizione di Bruno rispetto alla medicina e 3 4 5 6 7 2 È da questo punto di vista significativo, e deprimente, che la sola discussione che si sia sviluppata con una certa ricchezza sulla stampa italiana nell'anno 2000 a proposito di Bruno abbia riguardato una questione di ‘appropriazione indebita’ di meriti editoriali. Il clima del “Giubileo” cattolico, al quale hanno reso omaggio le più alte cariche politiche e istituzionali italiane, non è stato ovviamente estraneo a questa sordina. 3 Thorndike 1923-58, vol. VI, pp. 423-8. 4 “[...] Bruno fu un intenso ermetista religioso, un credente nella religione magica degli Egizi come è descritta nell'Asclepius, della quale profetizzò in Inghilterra l'imminente ritorno, prendendo il Sole copernicano come un prodigio nel cielo di questo imminente ritorno. [...] Copernico, sebbene non immune dall'influenza del misticismo ermetico del Sole, è completamente libero dall'ermetismo nella sua matematica. Bruno spinge indietro l'opera scientifica di Copernico fino a uno stadio prescientifico, all'ermetismo, interpretando il diagramma copernicano come un geroglifico di misteri divini” (Yates 1964, p. 155). Vedi anche P, p. 98. 5 Va però detto che la Yates ammise che ci furono feconde connessioni tra 'scienza' ed 'ermetismo' (cfr. in particolare il cap. 8 di Yates 1988, originariamente pubblicato nel 1967). 6 Per ragioni di spazio, ho tralasciato ogni discussione delle opere mnemotecniche di Bruno (cfr. la classica introduzione Yates 1972). 7 Della letteratura secondaria ho trovato specialmente utili: Tocco 1889, Yates 1964, Aquilecchia 1993, e l’analisi del processo contenuta in P. 2 alla filosofia del suo tempo ha qualcosa da insegnarci (§§16-17), ed espongo la sua critica a certi aspetti della dimensione sociale della scienza dell'epoca (§18). Dopo aver trattato del suo atteggiamento ambivalente nei riguardi della libertà religiosa (§19), entro brevemente (§20) nella questione del rapporto tra la sua filosofia della natura e il processo e la condanna; in particolare, contro una tendenza oggi molto diffusa, sottolineo come le accuse a Bruno fossero, in parte, legate al progressivo irrigidimento della curia romana verso il copernicanesimo. Mi soffermo poi sulla ‘religione cosmica’ bruniana, per esplorare i rapporti tra la sua cosmologia e la concezione della vita (§21). Passo poi ad alcuni aspetti dell'influenza e dell'eredità bruniane, e dopo una sintesi delle relazioni con alcuni scienziati suoi contemporanei (§22), concentro l'attenzione su Galileo Galilei, mostrando affinità con Bruno spesso ignorate o sottovalutate (§23). Alcune osservazioni di carattere generale chiudono il lavoro (§24). Ho riportato un certo numero di citazioni da Bruno stesso, per favorire un approccio quanto più è possibile diretto a questo autore incisivo e dalla straordinaria inventiva linguistica, capace di passare, nei dialoghi italiani, dalla commedia più irriverente alla solennità del poema filosofico a poche pagine di distanza. 2. Bruno e Copernico. Negli anni 1583-1585 Giordano Bruno, ex frate domenicano, fuggito dall'Italia in seguito a denunce circa sue affermazioni eterodosse e a un'accusa di aver gettato un confratello nel Tevere, si trova a Londra ospite dell'ambasciatore francese, il signore di Mauvissière, dietro raccomandazione dello stesso re di Francia, Enrico III. Ad Enrico III Bruno ha impartito lezioni di arte della memoria, e ha dedicato una delle sue prime opere sull'argomento, il De umbris idearum. Sulle vicende inglesi abbiamo informazioni frammentarie e da fonti disparate (alcune scoperte solo pochi anni fa), e soprattutto dalla prima delle sei opere dialogiche italiane pubblicate tra il 1584 e il 1585, che è forse anche la più famosa, La cena delle ceneri (1584). Nella Cena Bruno racconta di una disputa che sarebbe avvenuta il 14 febbraio 1584 (mercoledì delle Ceneri, appunto) a casa di uno dei suoi amici inglesi, intorno alla teoria copernicana. L'opera fondamentale di Copernico, il De revolutionibus orbium caelestium, era stata pubblicata nel 1543, con tanto di dedica al papa Paolo III, ma anche con una lettera dedicatoria che discuteva conflitti con l'ortodossia cattolica già emersi e che sarebbero di lì a non molto esplosi (cfr. §20). È notevole che nella Cena si trovi, tra l'altro, la prima discussione dei rapporti tra scienza e interpretazione della Scrittura, proprio in relazione alla questione del moto della Terra - e secondo linee che sono state più volte riconosciute essere identiche a quelle seguite nelle sue “lettere copernicane” da Galilei stesso: 8 9 nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le dimostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma, in grazia de la nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti gli occhi, nel resto non si cura di parlar secondo 8 Accusa infondata, come indicato dal fatto che, pur nota al tribunale dell'Inquisizione, fu da questo lasciata cadere (cfr. Spampanato 1921, pp. 263-5, e Aquilecchia 1972, p. 654). 9 Qui Bruno ammette di non sapere l'inglese, ma che dei gentiluomini con cui aveva occasione di parlare tutti sapevano “o latino o francese o spagnolo o italiano” (Cena, p. 86). Quanto alla diffusione della lingua italiana, può essere interessante ricordare che la regina Elisabetta I, con cui Bruno ebbe varie conversazioni, “parlava l'italiano e ‘con gli italiani’, scriveva l'ambasciatore veneto [...] ‘non vuol mai parlare altrimenti’” (DI, p. 67, n. 2). Del resto, Bruno sottolinea ripetutamente, contro il pedantismo dei filologi, la differenza tra competenze linguistiche e concettuali: “anco non è che impedisca che uno ch'abbia a pena una de le lingue, ancor bastarda, sia il più sapiente e dotto di tutto il mondo” (De la causa, p. 260; cfr. § 18). 3 quella verità, per la qual non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale. [Cena, pp. 120-1] Che Galilei abbia conosciuto la Cena è ipotesi suffragata anche da diverse analogie tra essa e il galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), a cominciare dalla somiglianza tra il nome del pedante nella Cena (Prudenzio) e dell'aristotelico nel Dialogo (Simplicio); avremo occasione di tornarci. Bruno, che ha come portavoce il personaggio di Teofilo, definisce la sua concezione della natura dichiarandosi a favore delle idee fondamentali di Copernico, ma, da un lato, estendendole vertiginosamente e, dall'altro, indicando in “altri proprii e più saldi principii” (p. 91) la base della sua adesione. Copernico 10 aveva un grave, elaborato, solecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudosso e tutti gli altri [...] Egli era arrivato a tanta eccellenza per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii [...] [p. 28] Ma pur parlando anche altrove di “quel suo [di Copernico] più matematico che natural discorso” (p. 29), Bruno rende onore all'opera di Copernico non solo qualificandolo come “una aurora, che dovea precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia” (Bruno qui allude a se stesso, con tipica immodestia), ma anche confutando la pretesa contenuta nella prefazione al De revolutionibus (anonima, ma del teologo protestante Andreas Osiander), che la teoria copernicana dovesse essere intesa soltanto come un metodo per semplificare i calcoli astronomici. In effetti, quando, nel libro I della sua opera maggiore, Copernico risponde “sufficientemente [...] ad alcuni argomenti di quei che stimano il contrario”, egli “non solo fa ufficio di matematico che suppone, ma anco di fisico che dimostra il moto della terra” (p. 90). 3. In difesa del sistema copernicano. La distinzione che Bruno traccia tra il “matematico” e il “fisico” è essenziale per capire la natura della controversia nata attorno alla teoria copernicana. In effetti che fosse possibile descrivere il moto della Terra dal punto di vista del Sole non era certo cosa da sconcertare i geometri del tempo, per non dire di quelli antichi. E neppure che una descrizione potesse essere, ai fini del calcolo, più conveniente di un'altra. Il punto che si discuteva era invece chi, fra il Sole e la Terra, fosse veramente fermo. L'influenza di una interpretazione diffusa, ma sviante, di ciò che la teoria generale della relatività sarebbe riuscita a realizzare quattro secoli dopo (1915-6), ha convinto molti esegeti che una tale disputa non aveva ragione di essere: non aveva e non ha senso chiedersi se qualcosa è o non è ‘veramente’ in quiete. Tuttavia una tale banalizzazione di una disputa che ha coinvolto nel corso di secoli 10 Prudenzio è detto “troppo prudente” (p. 25); ciò fornirebbe una base testuale ulteriore per l'interpretazione usuale del nome “Simplicio” nel Dialogo (“Simplicio” sarebbe allora il ‘troppo semplice’). Vedi, per altri paralleli, Aquilecchia 1995. 4 alcuni dei massimi pensatori è di per sé poco plausibile, e di fatto non valida nel caso della disputa copernicana. Se Copernico era da prendersi alla lettera, se cioè i pianeti orbitavano attorno al Sole e non alla Terra, ciò era ritenuto avere conseguenze di due tipi, astronomiche e fisiche. E se queste conseguenze non corrispondevano ai fatti osservativi, allora la teoria copernicana andava abbandonata come descrizione letterale del sistema del mondo (senza per questo perdere tutta la sua utilità). È su questo genere di considerazioni, niente affatto verbalistiche, che verté l'intera controversia. Nella prefazione “Ad lectorem de hypothesibus huius operis”, sopra menzionata, Osiander demoliva le pretese di verità della teoria esposta da Copernico, nella maniera più diretta, e cioè citando osservazioni astronomiche in disaccordo con essa. Infatti, l'ipotesi eliocentrica comporta che la distanza dei pianeti interni (Venere e Mercurio) dalla Terra debba variare considerevolmente, con una differenza massima uguale al diametro dell'orbita del pianeta, e ciò implica a sua volta una variazione notevole del diametro e della grandezza apparenti del pianeta visti dalla Terra. Questo, scrive Osiander, lo capisce chiunque sappia qualcosa di geometria e di ottica. Eppure la variazione del diametro, per esempio, di Venere, che dovrebbe essere di più di 4 volte, di fatto non si osserva. Lo ‘strumentalismo’ di Osiander era quindi di natura estremamente concreta: la teoria copernicana spiega sì alcuni dati osservativi sui movimenti dei corpi celesti, ma entra in conflitto con altri. Letteralmente parlando essa è falsa! Inoltre ha in comune con le altre teorie astronomiche di non assegnare “le cause delle diseguaglianze apparenti dei moti”. In generale l'astronomo si deve limitare a scegliere l'ipotesi “più facile da capire”, mentre il filosofo 11 forse richiederà piuttosto la verosimiglianza; tuttavia né l'uno né l'altro comprenderà o insegnerà qualcosa di certo, a meno che non gli sia stato rivelato divinamente. A questa posizione, che nega a Copernico, ma non al teologo, qualsiasi pretesa conoscitiva, Bruno si oppone con veemenza, irridendo l’“asino ignorante e presuntuoso”, il “bel portinaio” del De revolutionibus, che così bassamente introduce alla partecipazione di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misurare e geometrare e perspettivare non è altro che un passatempo da pazzi ingeniosi. [p. 89] Questa è una brillante ridicolizzazione di una delle risposte oggi più comuni sul valore delle teorie scientifiche: esse avrebbero valore in quanto ‘funzionanti’, cioè capaci di prevedere correttamente i risultati sperimentali. Galileo Galilei, su questo punto, la penserà esattamente come Bruno, e relegherà in fondo al suo Dialogo quell'argomento con cui Urbano VIII faceva propria, in sostanza, la posizione di Osiander (cfr. §23). Bisogna però ammettere che l'atteggiamento di Bruno nei riguardi dell'uso della matematica nella scienza della natura è, nel complesso, negativo, come quando confuta la spiegazione usuale (che è ancora la nostra) della diversa temperatura estiva e invernale in termini dell'inclinazione dei raggi solari: sarebbe appunto una grande sciocchezza dire 11 A rigore Copernico sostiene non esattamente la centralità, ma la ‘quasi-centralità’ del Sole; d'altro canto secondo lui il Sole è perfettamente immobile, così il suo sistema è più precisamente ‘eliostatico’ che ‘eliocentrico’. 5 li raggi perpendicolari e retti esser causa di maggior caldo, e li acuti ed obliqui di maggior freddo. Il che però è accidente del sole, vera causa di ciò, quando persevera più o meno sopra la terra. Raggio reflesso e diretto, angolo acuto ed ottuso, linea perpendicolare, incidente e piana, arco maggiore e minore, aspetto tale e quale son circostanze matematiche e non cause naturali. Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno scaldar più o meno il fuoco, ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore. [Cena, p. 148] La distinzione qui tracciata non sembra coerente: non si vede, infatti, perché lo stare il Sole più a lungo a minore distanza da un punto della Terra sia una condizione meno ‘geometrica’ del suo mandare i raggi secondo un certo angolo. L'aspetto interessante della critica è, a mio avviso, più generale: il rifiuto di considerare come adeguata spiegazione di un fatto fisico una mera relazione funzionale fra grandezze misurabili, non importa se confermata dall'esperienza. In altre parole, a una genuina spiegazione fisica Bruno chiede che si conformi a principi plausibili di filosofia naturale. Questa esigenza - oggi per lo più considerata ‘ingenua’, ma sulla quale attualmente manca, a mio parere, un'adeguata riflessione storico-critica - sarà condivisa da quegli antinewtoniani, fra cui Leibniz, i quali non si accontenteranno del successo predittivo della legge dell'attrazione universale, ma ne pretenderanno una interpretazione meccanica. 12 13 4. Le dimensioni apparenti dei pianeti e l'epiciclo lunare. Bruno replica in dettaglio alla confutazione osservativa del sistema copernicano avanzata ‘in limine’ da Osiander. Comincia obiettando che dalle dimensioni apparenti di un oggetto non si può dedurre la distanza, perché bisognerebbe prendere in considerazione anche la sua luminosità intrinseca. Ma da questa corretta considerazione trae un completo scetticismo sulla relazione tra dimensioni e distanza dall'osservatore, anche per uno stesso corpo la cui luminosità possa ritenersi costante (che è appunto il caso di Venere nel ragionamento di Osiander). Neanche la tesi di Eraclito e poi di Epicuro (e Lucrezio) che le dimensioni apparenti dei corpi celesti sono proprio quelle reali sarebbe confutabile sulla base di ottica e geometria, in quanto quei corpi se per la distanza perdessero la grandezza, a più raggione perderebbero il colore, e certo, dice [Epicuro], non altrimente doviamo giudicare di que' lumi, che di questi, che sono appresso noi. [Cena, p. 93]14 Come si vede, Bruno adotta il principio che nel discutere questioni di fisica che riguardano i corpi celesti ci si possa rifare a ciò che si constata sulla Terra; e in effetti cita diverse esperienze di visione di fuochi, i quali non riducono la propria grandezza apparente nella proporzione in cui aumenta la loro distanza dall'osservatore. Da qui Bruno prosegue con una digressione spericolata su varie questioni di ottica, che gli ha meritato ingenerosi, ma non infondati, rimproveri. In particolare cerca di confutare la 15 12 Almeno grossolanamente, per quanto riguardava, all'epoca, la temperatura. In questo senso, com'è noto, Newton stesso non fu un ‘newtoniano’. 14 Il riferimento epicureo è a Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 91, oltre che al V libro (vv. 564-91) del De rerum natura di Lucrezio, citato da Bruno (p. 94). È da notare che anche Plotino (Enneadi, II, 8, 2) ha obiezioni alla valutazione della grandezza dei corpi distanti mediante l'ottica geometrica. 15 In relazione proprio alle considerazioni di ottica che seguono, uno storico francese della matematica, il Libri, ha affermato che Bruno “sembra aver abbracciato a priori il sistema di Copernico per mezzo di una specie di intuizione, perché era tutto fuorché un matematico: le sue 13 6 dimostrazione della maggior grandezza del Sole rispetto alla Terra tratta dalla limitatezza del cono d'ombra proiettato da questa. Il punto chiave della ‘confutazione’ è che, dato che una sorgente puntiforme, posta davanti a una sfera, illumina una calotta sferica maggiore via via che se ne allontana, essa dovrebbe illuminare, da una distanza abbastanza grande, anche più di un emisfero! Tale bizzarro argomento è associato con una dottrina fisico-matematica che ha in Bruno radici più profonde, cioè quella del minimo (cfr. §7). Resta tuttavia il fatto che, effettivamente, la luminosità dei corpi può ingannare circa la loro grandezza, e che dalla uguaglianza della grandezza visiva niente si può dedurre sulla distanza: in questo la parte dell'argomentazione bruniana derivata dall'esperienza è corretta. Della stessa questione si occupò Galilei nella Terza Giornata del Dialogo, dove, avvalendosi delle nuove osservazioni ottenute con il cannocchiale, e dell'assunto che le esperienze di osservazioni terrestri siano estrapolabili ai corpi celesti, potrà dire che l'invarianza delle dimensioni visive di Venere portata da Osiander come confutazione della teoria copernicana era in effetti un'illusione ottica: In questo ci ha gran parte l'impedimento del nostro occhio stesso, [...] dal quale gli oggetti risplendenti e lontani non ci vengono rappresentati semplici e schietti; ma ce gli [= li] porge inghirlandati e di raggi avventizii e stranieri, così lunghi e folti, che il lor nudo corpicello ci si mostra ingrandito 10, 20, 100 e mille volte più di quello che ci si rappresenterebbe quando gli si levasse il capellizio [= la capigliatura] radioso non suo. [Dialogo, p. 363] Di conseguenza l'effetto indicato da Osiander si rivela, oltre mezzo secolo dopo, come una conferma della tesi copernicana! Allo stesso modo Bruno insiste sul fatto che la non visibilità di alterazioni della posizione relativa delle stelle fra loro non dipende dal fatto che queste siano veramente ‘fisse’, ma solo dalla loro lontananza: E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesma equidistanza da noi e tra loro; ma perché il lor moto non è sensibile a noi. Questo si può veder in essempio d'una nave molto lontana, la quale, se farà un giro di trenta o di quaranta passi, non meno parrà che la stii ferma, che se non si movesse punto. Cossì, proporzionalmente, è da considerare in distanze maggiori [...] [Cena, p. 145] Come dice ancora Bruno, variazioni della posizione delle stelle fisse non sono mai state trovate perché una tale scoperta necessitava di “lunghissime osservazioni”, e queste non sono state cominciate, né perseguite, perché tal moto nessuno l'ha creduto, né cercato, né presupposto; e sappiamo che il principio dell'inquisizione è il sapere e conoscere, che la cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quello si cave profitto. [p. 145] Queste considerazioni metodologiche sono estremamente ‘moderne’ e appropriate, e permettono anche di chiarire in che senso i meriti di Bruno nell'abbracciare (e procedere oltre, come vedremo) la teoria copernicana non si debbano ricercare, nemmeno in linea di principio, solo nel fatto che egli abbia contribuito a ‘dimostrarla’. In effetti, senza una preliminare scommessa a favore della plausibilità di una teoria opere racchiudono gli errori più singolari in geometria” (DI, pp. 97-8, n.1). Ora, mentre gli errori sono innegabili, non vale la conseguenza che l'adesione di Bruno al sistema copernicano non sia stata argomentata, e anche con buone ragioni. 7 scommessa che va peraltro difesa e argomentata, come Bruno fece - questa non potrebbe mai crescere fino a mostrare la sua forza. Ma Bruno sapeva veramente in che cosa consisteva la teoria copernicana? Alcuni critici l'hanno messo in dubbio a partire da un momento del IV dialogo della Cena, in cui scopriamo che Bruno riteneva che, secondo Copernico, la Terra si muovesse sull'epiciclo lunare, il quale quindi non sarebbe geocentrico. Questa interpretazione erronea, sia del testo, sia della figura che si trovano nel De revolutionibus, nasce, curiosamente, da un'esigenza empirica: quella di spiegare come mai il diametro solare visibile dalla Terra subisce variazioni (Cena, p. 140). Ora, è chiaro che la conoscenza dell'astronomia matematica da parte di Bruno non era paragonabile a quella dei (peraltro pochissimi) contemporanei in grado di seguire passo per passo le dimostrazioni di Copernico. Va però notato che nella teoria copernicana, il caso Terra/Luna è singolare: di tutti gli astri, a parte il Sole, soltanto la Terra è centro di rivoluzioni di altri pianeti. Questa stranezza, che la lettura - sbagliata - di Bruno avrebbe il merito di rimuovere (o meglio, di sostituire con un'altra stranezza!), fu avvertita anche da Galileo, il quale la nota come qualcosa che addirittura “par che alteri in guisa l'ordine, che lo renda inverisimile e falso” (Dialogo, p. 361). Come sappiamo, la difficoltà sarà risolta da Galileo stesso quando, trent'anni dopo la memorabile serata bruniana, scoprirà quattro delle “lune” di Giove. 16 5. Il principio di relatività. Poiché la Terra è tonda - dice Copernico nel cap. 8, libro I della sua opera principale - perché non attribuire ad essa “quella mobilità che si addice per natura alla sua forma [mobilitatem illi formae suae a natura congruentem]”, piuttosto che all'universo, del quale né sappiamo né possiamo sapere quali confini abbia? E [affermiamo] che le cose stanno come le descriverebbe l'Enea virgiliano, quando dice: Provehimur portu, terraeque urbesque recedunt.17 Poiché in una nave fluttuante in tranquillità [sub tranquillitate], tutto ciò che è al di fuori è visto dai naviganti muoversi secondo l'immagine di quel moto, e viceversa essi ritengono di essere in quiete con tutto ciò che hanno con sé. Così, non c'è da meravigliarsi se nel moto della Terra può accadere che tutto l'universo sia stimato girare. È interessante che precisamente lo stesso argomento era stato presentato, un secolo prima (1438-40), da Nicola Cusano nel De docta ignorantia (II, 12): Ormai a noi è chiaro che codesta Terra in verità si muove, sebbene a noi ciò non appaia. Infatti non ci rendiamo conto [apprehendimus] del moto se non per un certo confronto con qualcosa di fisso. Se infatti qualcuno ignorasse lo scorrere dell'acqua e non vedesse le rive, stando in una nave nel mezzo dell'acqua, in che modo si renderebbe conto che la nave si muove? E perciò, poiché a chiunque, che si trovi sulla Terra o sul Sole o su altra stella, pare sempre di essere al centro, come [quasi] immobile, e che tutte le altre cose si muovano, egli certamente determinerebbe poli diversi se stesse sul Sole, sulla Terra, sulla Luna e su Marte, e così delle altre [stelle]. Quindi la macchina del mondo sarà come se 16 Non c'è dubbio che anche le ricerche di un grandissimo scienziato come Keplero risentono della sua visione neopitagorica del cosmo in una misura che certamente influenzò i suoi obiettivi teorici. 17 “Partiamo dal porto, terre e città indietreggiano” (Eneide, III, 72). 8 avesse il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, poiché la sua circonferenza e centro è dio, che è dappertutto e in nessun luogo.18 Come si vede, per Cusano è la natura relativa di ogni moto, come noi lo conosciamo, che impedisce a chi è sulla Terra di accorgersi che la Terra, in realtà, si muove. Copernico sposta l'accento, sia pure di poco, dalla ‘logica’ del moto e dalla prospettiva visiva, alla fisica in senso proprio, richiedendo che la navigazione sia tranquilla. Ma il progresso compiuto da Bruno nella Cena, che pure cita “il divino Cusano” come suo predecessore (Cena, p. 91), è evidente quando prende in esame l'obiezione classica, derivata dal De caelo (II, 14) di Aristotele, per cui 19 sarebbe impossibile che una pietra gittata a l'alto potesse per medesima rettitudine perpendicolare tornare al basso; ma sarrebbe necessario che il velocissimo moto della terra se la lasciasse molto a dietro verso l'occidente. Questa conseguenza non vale, risponde Bruno, ponendo immediatamente il parallelo tra il moto della Terra e quello di una nave, e facendo la necessaria distinzione tra i due sistemi di riferimento impliciti nell'argomento: essendo infatti il lancio della pietra dentro la terra, è necessario che col moto di quella si venga a mutar ogni relazione di rettitudine ed obliquità: perché è differenza tra il moto della nave e moto di quelle cose che sono nella nave. Il che se non fusse vero, seguitarebbe che, quando la nave corre per il mare, giamai alcuno potrebbe trarre [= lanciare] per dritto qualche cosa da un canto di quella a l'altro, e non sarebbe possibile che un potesse far un salto e ritornare co' piè onde le [= li] tolse. [p. 116]20 Analogamente se dalla cima dell'albero di una nave qualcuno getta verticalmente una pietra, quella per la medesma linea ritornarà a basso, muovasi quantosivoglia la nave, pur che non faccia degl'inchini. [p. 117] C'è qui lo stesso paragone della Terra con la nave che verrà utilizzato da Galilei in una celebre pagina del Dialogo, che presenta la più nota formulazione galileiana del principio di relatività. Si noti che Bruno non si fa sfuggire la condizione cruciale che il moto debba essere uniforme, appena accennata da Copernico, e che Galilei formulerà un po' più precisamente con l'espressione: “pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là” (Dialogo, p. 213). Bisogna però notare che Bruno insiste, con 18 La famosa comparazione (per la cui storia si può vedere DI, pp. 321-2, n. 2) è utilizzata anche da Bruno: “possiamo affermare che l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella” (De la causa, p. 321). I curatori tedeschi dell’edizione del De docta ignorantia da me utilizzata rinviano, per un precedente impiego dell'esempio della nave, a Guglielmo da Conches, nel XII secolo (Wilpert, Senger 1994, vol. II, p. 133, n. 159). In realtà lo troviamo già in Lucrezio, in una lista di illusioni dei sensi (De rerum natura, IV, 387-90), e in Cicerone (Academica, II, 25). Il primo manoscritto del De rerum natura fu scoperto nel 1417, la prima edizione a stampa apparve nel 1479; gli Academica erano noti già a Petrarca (Schmitt, Skinner 1988). 19 Il nome “Nolano” con cui Bruno amava farsi chiamare è chiaramente esemplato su “Cusano”. 20 “È Giordano Bruno che, in un senso quasi moderno, precisa il concetto di sistema meccanico o di solido di riferimento” (Tonnelat 1971, p. 30). 9 le stesse parole di Cusano, anche su un punto di vista più generale, quello secondo cui il moto - ogni moto - dovrebbe essere inteso solo in senso relativo: come han notato gli antichi e moderni veri contemplatori della natura e come per esperienza ne [= ci] fa manifesto in mille maniere il senso, non possiamo apprendere il moto se non per certa comparazione e relazione a qualche cosa fissa: perché, tolto uno che non sappia che l'acqua corre e che non vegga le ripe, trovandosi in mezzo l'acqui entro una corrente nave, non arrebe [= avrebbe] senso del moto di quella. Da questo potrei entrare in dubio ed essere ambiguo di questa quiete e fissione; [...] [De l'infinito, p. 447] C'è dunque un conflitto fra l'esistenza di precise condizioni empiriche che rendono il moto di un sistema non rivelabile dal suo interno, e l'esigenza logica di concepire il moto come essenzialmente relativo. Le discussioni su questo difficile problema proseguiranno per secoli e, a mio parere, neanche oggi si può dire che siano arrivate a una soluzione del tutto soddisfacente. 21 22 6. Oltre Copernico: l'universo infinito. La visione del mondo di Bruno non si esaurisce però nella difesa del copernicanesimo. Copernico era rimasto cautamente al di qua di un vero e proprio discorso cosmologico, rinviando all'indagine dei fisici la questione della finitezza o infinità del mondo. L'argomento fondamentale con cui Bruno argomenta a favore dell'infinità dell'universo è che è assurdo ammettere un “primo efficiente”, come faceva la metafisica aristotelica, il quale sia infinito ma che non si esplichi attraverso un effetto infinito. E all'obiezione che non si vedrebbe perché la “maggiore e minore mole di dimensioni” sia un elemento atto a determinare l'azione divina, Filoteo, portavoce di Bruno nel dialogo De l'infinito, universo e mondi, replica che la “dignità” è non “della dimensione o della mole corporea”, ma “delle nature e specie corporee”, 23 perché incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però [= perciò], bisogna che di un inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. [p. 377] Infatti, perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? [...] perché deve essere frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che possono essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebe più risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere infinito, immenso? [p. 381] Inoltre, dato che “è bene che questo mondo sia” (p. 374), è lecito chiedersi: Qual raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può fare un buono infinito, lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere ed il fare tutto uno? [p. 383] 21 La stessa oscillazione è rilevabile in Galileo (cfr. Dialogo, pp. 140-1). Una raccolta di interventi che danno un'idea dello stato dell'arte è in Barbour, Pfister 1995. 23 “Sive igitur finitus sit mundus, sive infinitus, disputationi physiologorum dimittamus [...]” (Copernico 1543, lib. I, cap. 8). 22 10 Qui tocchiamo uno dei punti cruciali in cui la posizione di Bruno anticipa, senza alcun rischio di ‘anacronismo’, quella di Spinoza (1632-77), il quale però non lo citerà mai. Ma la difesa della sua cosmologia involge Bruno in una articolata confutazione delle obiezioni aristoteliche contro l'infinità del mondo. Per esempio, contro la tesi dell'ottava sfera come confine del mondo, Bruno afferma che, ammessane l'esistenza: 24 Io credo ed intendo che oltre quella margine immaginata del cielo sempre sia eterea regione, e corpi mondani, astri, terre, soli; e tutti sensibili absolutamente secondo sé ed a quelli che vi sono o dentro o da presso, benché non sieno sensibili a noi per la lor lontananza. [p. 430] Ma, in primo luogo, l'ottava sfera, se si abbandona la prospettiva geocentrica, è appunto solo “immaginata” - è un'illusione ottica, dovuta all'enorme distanza. In secondo luogo, il fatto che noi non possiamo vedere oltre una certa distanza non ha un particolare significato: i limiti dei nostri sensi non riescono a distinguere neanche quella parallasse stellare che pure, su basi teoriche, i copernicani devono ammettere; del resto Bruno ha già messo in chiaro, preliminarmente, che “l'infinito non può essere oggetto del senso” (p. 369). Guardando alla questione con il senno di poi, ciò che colpisce nella posizione aristotelica è, paradossalmente, l'audacia concettuale di rifiutare la naturale obiezione alla finitezza dell'universo, già formulata dal pitagorico Archita di Taranto nel IV sec. a. C., e poi ripresa da Lucrezio (I, 968-83): se l'universo è finito, che cosa succede se si va fino ai suoi confini e si lancia una freccia o si stende una mano? Dove va la freccia o la mano? Aristotele sventa questa possibile confutazione definendo il 'luogo' in modo che la domanda risulti priva di significato. Secondo la sua definizione (Physica IV, 212 a), infatti, il ‘luogo’ di qualcosa è “il termine [peras] di ciò che lo contiene”: è allora evidente che non può esserci un ‘dove’ al di là dell'ultima sfera. A ciò Bruno oppone innanzitutto una difficoltà logica: stando alla definizione aristotelica, l'ultima superficie sarebbe ‘luogo’ con il suo lato concavo (interno), ma non con il lato convesso (esterno); inoltre, anche se si accetta questa definizione di luogo, non si riesce a capire come ci possa essere una superficie che delimiti l'intero universo e che abbia al di fuori (letteralmente) nulla - il non essere. Naturalmente un aristotelico potrebbe replicare che il ‘nulla’ non è ‘al di fuori’, se non in un senso logico (il nulla come complementare insiemistico del tutto). Ma l'unico senso in cui Bruno riesce ad accettare il ‘nulla’ è di concepirlo come vuoto: “non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l'universo 25 26 27 24 È interessante che il padre Mersenne, che pure scrive un libro dedicato in gran parte a confutare Bruno (De l'impiété des déistes, athées et libertins du temps, del 1624), pochi anni dopo mostra di accettare l'argomento fondamentale di Bruno, pur dissimulando la sua approvazione: “Quanto a Giordano, sebbene si serva di fondamenti cattivi, nondimeno è abbastanza probabile che il mondo è infinito, se può esserlo. Infatti, perché volete che una causa infinita non abbia un effetto infinito? Una volta ho avuto altre dimostrazioni contro ciò, ma è facile dissolverle” (lettera del 10 aprile 1632, cit. in Ricci 1996, p. 32). 25 Il passo di Lucrezio è citato da Bruno nel De infinito, p. 348 e all'argomento risponde il ‘pedante’, l'aristotelico Burchio (p. 371). 26 Cfr. Bruno: “Aristotele ha definito il loco [...] come una superficie di continente corpo” (De l'infinito, p. 372). 27 Per Koyré [1957, p. 43] la critica di Bruno ad Aristotele è “erronea, naturalmente”; secondo me, invece, è Koyré che travisa il testo di Bruno, a cui attribuisce “la convinzione del tutto erronea che essendo questa 'superficie più interna' una concezione puramente matematica, essa non può opporre resistenza al movimento di un corpo reale”. In realtà questa affermazione non si trova affatto in Bruno (cfr. p. 373, che è probabilmente alla base dell'interpretazione di Koyré). 11 finito” (p. 373), e da questo punto in poi il discorso procede in una direzione nettamente fisica. In particolare Bruno, per arivare alla sua dottrina degli infiniti mondi, assume il principio di omogeneità e isotropia: da qualunque punto e in qualunque direzione si osservi, l'universo ha lo stesso aspetto. Come scriverà nel De immenso: Abbiamo detto spesso che nell'universo infinito, secondo la verità della cosa, il centro è ovunque: pertanto non importa se siamo qui o altrove, per vedere lo stesso aspetto delle cose intorno a noi: come la faccia di quegli astri a cui ci avviciniamo cresce, così anche diminuisce quella di questi da cui ci allontaniamo. [...] cosicché non c'è nell'universo un punto che, rispetto ad altri, non sia centro, polo, zenith, nadir, tropico, e qualsiasi altro di tal genere. [IV, p. 32] È questo il principio fondamentale anche della moderna cosmologia relativistica, dove è usuale chiamarlo ‘principio copernicano’: ma, dato che né Copernico, né - come vedremo (§22) - il massimo astronomo copernicano, cioè Keplero, hanno mai sostenuto niente del genere, penso che un nome più giusto sarebbe principio bruniano. Ora, è chiaro che la teoria aristotelica non è internamente contraddittoria, e che le argomentazioni bruniane contro di essa cercano solo di mostrarne la ‘stranezza’ - la difficoltà di immaginarla. Non c'è nulla di assurdo nel concepire l'universo come una sfera piena, o come una boccia aperta (cioè una sfera piena senza la superficie esterna). In entrambi i casi, però, l'obiezione di Archita si può riproporre: che succede se, da una distanza di qualche braccio dalla frontiera del mondo, si scaglia una freccia verso di essa? Questa non è - di nuovo - un'obiezione logica, ma certamente pone una difficoltà tecnica: il cosmo aristotelico, infatti, è profondamente non omogeneo e non isotropo, e quindi è certamente giustificato chiedersi quali leggi fisiche valgono se ci si pone in un certo punto e si studia una certa direzione. Per evitare di dover dare spiegazioni su questo punto, gli aristotelici avrebbero potuto cambiare la geometria del cosmo, e immaginare le proprie sfere bidimensionali come sezioni parallele di una ipersfera tridimensionale. In tal modo l'universo sarebbe stato finito, ma non limitato (cioè non avrebbe avuto ‘confini’), e tutti i suoi punti, e tutte le direzioni uscenti da un certo punto, sarebbero stati equivalenti. In effetti il concetto di ipersfera non era al di là dei mezzi concettuali degli aristotelici - prova ne sia che lo si trova adombrato in Dante Alighieri! Ma si tratta di un'anticipazione senza sviluppi, un tentativo, fatto da un poeta di eccezionale ingegno, di esprimere l'indicibile (l'avvicinamento a Dio). Curiosamente, per Bruno sarebbe stato possibile arrivare a una tale concezione sfruttando la cusaniana “coincidentia oppositorum” tra circonferenza di raggio infinito e retta, e cioè interpretando lo spazio ordinario come il caso limite di una ipersfera; ci sono nei testi bruniani formulazioni che sembrano sfiorare proprio questa idea. La possibilità concettuale di distinguere in maniera matematicamente rigorosa tra finitezza e limitatezza del mondo, e così di eludere l'argomento di Archita, si darà però solo dopo il 1854, anno in cui Bernhard Riemann lesse la sua celebre conferenza “Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria”: è in essa che, probabilmente per la prima volta, la possibilità di una geometria 3-dimensionale analoga a quella della sfera ordinaria fu chiaramente enunciata e discussa. 28 29 28 Nel canto xxviii del Paradiso. Per una discussione recente della questione vedi Egginton 1999. 29 Per esempio: “Di tutte le cose l’infinito è in massimo grado sferico, anzi, è di per sé la sfera per eccellenza [Infinitum maxime omnium est sphaericum, immo est per se ipsissima sphaera]; una superficie interminata è il più vero dei circoli, e d’altro canto il corpo interminato, che esista (come crediamo) o che sia supposto, è necessariamente una sfera e accetta [suscipit] la vera definizione di sfera” (Articuli, p. 22). 12 7. Contro i matematici. Nell'opera di Bruno l'attenzione nei confronti della matematica è presente e viva, ma è molto diversa da quella di Galilei, che farà di questa disciplina l'organo della filosofia naturale: si tratta di un'attenzione al tempo stesso affascinata e fortemente critica. È senza dubbio notevole che le ultime opere scritte da Bruno prima dell'arresto siano di carattere geometrico (le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum). Troviamo diagrammi geometrici un po' in tutte le opere di Bruno, anche là dove meno ce le aspetteremmo, come nello Spaccio (pp. 755-9), in cui è proposta una 'soluzione' del problema della quadratura del cerchio, ispirata a un analogo tentativo di Cusano. A Cusano, e alla sua dottrina della “coincidenza degli opposti” fa riferimento molta della ‘matematica’ bruniana, affascinata dall'identificazione tra circonferenza di raggio infinito e retta, boccia di raggio infinito e spazio, minima corda e minimo arco ecc. (cfr. §6). Trovo le critiche di Bruno alla matematica del suo tempo – sulle quali i commentatori sono stati generalmente severi - più interessanti che i contributi con intenzioni ‘costruttive’: esse infatti mostrano la problematicità delle nozioni che i matematici stavano faticosamente eleborando e dell’applicazione di queste all’indagine fisica. Uno dei temi che ispirano la sua ostilità è la trattazione aristotelica del continuo, di cui tratta nel Camoeracensis Acrotismus, del 1588. Bruno contesta che il continuo non sia composto di indivisibili, almeno da un punto di vista fisico. Nella sua discussione si scontra con difficoltà che lasceranno perplessi parecchi grandi matematici, fino alla seconda metà dell’Ottocento, circa la possibilità di confrontare gli insiemi infiniti: se un segmento e la sua metà sono entrambi divisibili all'infinito, come possono avere un diverso numero di parti? Eppure è evidente che il segmento doppio deve avere un numero doppio di parti. Si dovrà dire che il segmento minore è egualmente divisibile ma ha meno parti del maggiore? La soluzione bruniana è che 30 31 Esiste un qualche termine indivisibile alla divisione fisica [naturae dividenti], il quale non si divide in altre parti quando la divisione sarà arrivata ad esso; e se la ragione e la matematica, senza alcuna conseguenza pratica o uso, ma solo al fine di una vana contemplazione, volesse assumerlo infinitamente divisibile, faccia come crede. [...] Ed è necessario che un individuo aggiunto a un individuo faccia una somma maggiore, poiché gli individui sono corpi fisici, non vane specie dei matematici. [Acrotismus, p. 154] Con la sua teoria del minimo, Bruno può affermare, negli Articuli del 1588, che “tutte le grandezze sono commensurabili”, e “la ragione del continuo segue necessariamente la ragione del discreto”. I geometri non si rendono conto delle assurdità in cui cadono quando affermano che il loro minimo (il punto) “è ciò che non ha parti”, perché con ciò essi stanno affermando “espressamente che la misura che essi riconoscono è nulla”. È chiaro che queste considerazioni bruniane mettono in evidenza diversi aspetti problematici della definizione del continuo e della misura associata ad esso. La conclusione a cui è arrivata la matematica odierna giustifica ampiamente la sensazione di paradossalità avvertita da Bruno: in breve, l'unico modo ‘ragionevole’ per far sì che i punti della retta reale abbiano misura nulla, senza che per questo anche la misura di 32 30 Vedi per es. Tocco 1889, p. 412. Questo titolo curioso dovrebbe significare, pressappoco, “conferenza a[l collegio di] Cambrai” (che si trovava a Parigi); cfr. Tocco 1889, p. 107. 32 Sviluppata in uno dei tre ‘poemi’ del 1591, il De Triplici Minimo et Mensura. 31 13 qualsiasi sottinsieme della retta sia nulla, è di accettare che ci siano sottinsiemi non misurabili. Connessa alla questione del minimo è l’interpretazione del contatto tra corpi: che vuol dire che due corpi ‘si toccano’? Se significasse che hanno il punto di contatto in comune, allora essi formerebbero un singolo continuo, e non sarebbero più due; per evitare questa conclusione, Bruno propone che tra le due superfici tangenti ci sia in realtà uno spazio vuoto atomico. (Come in tanti altri casi, il lettore che volesse valutare questa proposta bruniana dovrebbe prima tentare di fornire una sua soluzione al problema!). Bruno critica la geometria sferica, e anche la trigonometria del suo tempo, rea di misurare gli angoli con i segmenti, e quindi di utilizzare un'unità di misura disomogenea. Qui c'è sicuramente un fraintendimento degli scopi della trigonometria, ma è altresì chiaro che Bruno è travagliato da una insoddisfacente definizione di ‘misura’. In effetti, è vero che nessun segmento può ‘misurare’ una circonferenza, se ciò vuol dire che un segmento non è mai sovrapponibile a un arco di circonferenza; mentre un arco di circonferenza può ‘misurare’ una circonferenza (dello stesso raggio!). Ma come si farà a ‘misurare’ una figura curvilinea arbitraria? Bruno riteneva inaccettabile il dare misure approssimate, ed è chiaro che alla base di queste resistenze c’era la mancanza di una precisa nozione di limite (e in definitiva di numero reale). Si tratta di problemi che resteranno fonte di confusione per secoli; nel 1710 Leibniz potrà parlare del continuo come di uno dei “due labirinti famosi in cui la nostra ragione molto spesso si perde”. Vale infine la pena di ricordare che la misura degli angoli pone problemi peculiari, e non è facile ancor oggi presentarla con la dovuta precisione nell’insegnamento elementare (una funzione di misura degli angoli, nel senso in cui esiste per i segmenti, non è definibile). Sul piano dei rapporti tra matematica e fisica è infine notevole l'insistenza di Bruno circa l'impossibilità che una forma si realizzi perfettamente nella materia; così una sfera perfetta non può esistere, ma non può esistere neanche una sfera ‘imperfetta’, se nondimeno la sua forma è intesa nel senso geometrico ideale; tale dottrina deriva dai “platonici”, i quali sostennero, “non del tutto male”, che “nessuna forma è veramente nella materia, [...] né il vero uomo, né il vero cavallo”. Pertanto 33 34 35 36 Il geometra da nessuna parte troverà il vero punto e la vera linea, anzi (se è saggio), non crederà nemmeno che esistano, a meno che non li definisca diversamente da come lo sono comunemente. [De immenso, III, p. 362] Allo stesso modo, “la sfericità che conviene agli astri non è esatta geometricamente, o a regola di matematica, ma secondo le differenze convenienti ai corpi fisici” (Acrotismus, p. 168). Come si vede, se Bruno qui accentua il divario tra matematica e mondo fisico, d’altro canto concede alla matematica una sua autonomia, seppure di basso profilo filosofico (cfr. la “vana contemplazione”). Questa concezione si può contrapporre a quella galileiana, secondo cui il contrasto tra l’‘astrattezza’ della matematica e il 33 Precisazione tecnica: questo è vero sotto l'ipotesi che la funzione di misura sia numerabilmente additiva (e della validità dell'assioma della scelta). Se ci si limita a richiedere la finita additività, allora si può misurare ogni sottinsieme della retta, ma la funzione di misura non è unica (teoremi di Vitali, Ulam, Tarski ecc.). 34 Bruno cita Democrito a suo supporto (cfr. Tocco 1889, pp. 155-7). 35 Cfr. Articuli, p. 22. Ma su questo punto Bruno oscilla (cfr. Tocco 1889, p. 164). 36 Essais de Théodicée, “Préface”. 14 ‘concreto’ della materia può essere interamente ricomposto, senza residui, dallo scienziato sagace: basterà che “difalchi gli impedimenti della materia”. 37 8. La falsa antichità di Ermete Trismegisto. A questo punto ci proponiamo di discutere una questione a cui si accennava all'inizio (§1). Secondo la citazione ivi data (in nota), Yates affermò che Bruno aveva “interpreta[to] il diagramma copernicano come un geroglifico di misteri divini”, e così aveva “spin[to] indietro l'opera scientifica di Copernico”. Bruno sarebbe stato affascinato, come del resto molti altri pensatori del Rinascimento, dal ruolo svolto dal culto solare nei misteriosi testi del Corpus Hermeticum. Uno di questi, forse il più famoso, l'Asclepius, era circolato in traduzione latina (la sola versione, peraltro, che ci è pervenuta), durante il Medio Evo. Altri trattati, di temi e forma diversi, largamente incoerenti gli uni con gli altri, erano stati tradotti da Marsilio Ficino nel 1463-4 e interpretati come la testimonianza di un'antichissima sapienza religiosa egiziana, contemporanea a, se non addirittura precedente, quella ebraica del Pentateuco; e come la paternità di questi libri della Bibbia era attribuita a Mosè, così l'autore del Corpus fu identificato nel sapiente egiziano Ermete Trismegisto, “contemporaneo di Mosè”. Bruno, secondo la Yates, si sarebbe creduto l'erede di quella ipotetica antichissima tradizione, dotata di una forte componente magica, e avrebbe accolto il copernicanesimo come simbolo del suo ritorno. Ne segue che si sarebbero sbagliati di grosso gli studiosi che avevano collegato l'adesione al copernicanesimo alla sia pure imperfetta intuizione, da parte di Bruno, della sua verità scientifica. Per giunta, lo statuto privilegiato attribuito ai trattati ermetici si fondava su un equivoco: lungi dall'appartenere a un'antichità così remota, essi risalivano a tempi ben più recenti. La straordinaria sintonia con alcuni elementi della filosofia pitagorica, platonica e cristiana era semplicemente da attribuirsi alla loro provenienza da ambienti culturali neoplatonici e gnostici! Questa scoperta fu merito dell'erudito olandese Isaac Casaubon, che la pubblicò nel 1614: troppo tardi perché Bruno potesse trarne profitto ammesso che ciò fosse quanto egli sarebbe stato pronto a fare se ne fosse venuto a conoscenza. Insomma: da un banale errore di datazione avrebbe preso le mosse un movimento di pensiero gravido di conseguenze per la storia culturale europea, e di cui Bruno fu il rappresentante più insigne. Alla luce di quanto abbiamo detto nelle sezioni precedenti, che cosa si può dire di questa suggestiva e straordinariamente fortunata ricostruzione? Pur non volendone negare il fascino e anche, fino a un certo punto, la pertinenza, a me pare nel complesso insoddisfacente. 38 39 40 “Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti” (Dialogo, p. 234). 37 38 Come recita l'iscrizione in margine alla tarsia marmorea raffigurante “Hermes Mercurius Trimegistus” (sic), che si trova sul pavimento del duomo di Siena, e che risale a (circa) il 1482. 39 Yates 1964, cap. XXI. La Yates, che descrive Bruno come tanto convinto del proprio ruolo di messìa ermetico da sfiorare la follia (p. 339), immagina appunto che egli avrebbe probabilmente sottovalutato, come fece Campanella, la scoperta di Casaubon (p. 402). 40 La ‘banalità’ consiste nel fatto che le tecniche di critica testuale impiegate da Casaubon erano ben note alla filologia umanistica (Yates 1964, pp. 401-2). 15 In primo luogo, come abbiamo visto, la difesa del copernicanesimo operata da Bruno nella Cena, e ancor più nel De l'infinito, nell’Acrotismus e nel De immenso, non si riduce certo alla dimostrazione della sua armonia con un certo credo più o meno religioso. Bruno affronta le possibili obiezioni astronomiche e fisiche cercando di provarne l'erroneità, e in ciò mostra intuizione e vigore, nonostante qualche, anche considerevole, abbaglio. D'altra parte, l'andare oltre Copernico, con la concezione di un universo infinito costellato di infiniti mondi, non poteva essere fondato empiricamente: non poteva e non lo può neanche oggi. Anche la cosmologia contemporanea dipende, ineludibilmente, dalla posizione preliminare di principii generali, i quali si possono argomentare solo su basi filosofiche (cfr. §22). In secondo luogo, è chiaro che la sola evidenza disponibile a favore dell'ipotesi copernicana, nel 1584, era di natura negativa: cioè la sua capacità di opporre ragionevoli controargomentazioni alle difficoltà avanzate dagli aristotelici. Anche Galilei non riuscirà a dare una soddisfacente dimostrazione dei moti della Terra. È solo all'inizio del Settecento - bisogna ricordarlo - che, con l'effetto dell'aberrazione stellare scoperto da Bradley nel 1727, si ha la prima vera conferma empirica della tesi copernicana (o più precisamente del moto orbitale della Terra: cioè che la Terra ha una velocità di traslazione non nulla rispetto alle stelle fisse). Infine, non è neppure tanto chiaro che Casaubon avesse ragione nel dedurre, dagli anacronismi (di contenuto e di stile) presenti negli Hermetica, che essi, e in particolare l'Asclepius, non potessero tramandare elementi genuini dell'antica religione egiziana! Che il mitico Ermete Trismegisto non ne fosse l'autore poco o nulla autorizzava a concludere su questo punto, di gran lunga il più importante. In realtà era la divinizzazione della natura e il culto solare che Bruno aveva ritenuto i capisaldi della religione egiziana, e su ciò è plausibile che gli Hermetica non lo trassero in inganno. 41 42 43 9. Chi è amico dell'antichità? La questione cruciale è però un'altra: è vero che Bruno avrebbe ritenuto l'antichità di una certa filosofia come una misura della sua validità? Chiaramente la tesi della Yates si fonda in buona parte proprio sul presupposto che a questa domanda si possa dare una risposta positiva: infatti, in caso contrario, la supposta antichità degli Hermetica avrebbe al più avvalorato, ma non certo potuto fondare, l'adesione a tesi filosofiche ‘ermetiche’, come quella sulla mobilità della Terra. Ora, per rispondere a questa domanda non occorre andare troppo lontano. In effetti, abbiamo già visto che nella Cena Bruno considera Copernico come il nunzio del ritorno del “sole de l'antiqua vera filosofia” (p. 29), e qui il qualificativo “vera” è già di per sé una preziosa indicazione. Ma poche pagine dopo troviamo una dichiarazione molto più 41 O ‘ideologiche’, come hanno scritto due noti esperti dell'argomento: “[...] non siamo capaci di costruire modelli cosmologici senza qualche mescolanza di ideologia” (Hawking, Ellis 1973, p. 134). 42 Questa fu appunto, nel 1678, la posizione di Ralph Cudworth, fra i principali “platonici di Cambridge” (Yates 1964, pp. 430-1), sposata da Bernal 1991, p. 162, ai cui capp. II e III rinvio per un'affascinante sintesi del destino della “sapienza egizia” dal Rinascimento al XVIII secolo. 43 “È chiaro che il Corpus [Hermeticum] contiene materiale scritto durante un lungo periodo, dal VI sec. a. C. al II sec. d. C. Malgrado la sua relativa tardità, è estremamente [overwhelmingly] probabile che il Corpus contenga parecchi concetti religiosi e filosofici che sono molto più antichi e che sia fondamentalmente egiziano. Le influenze iraniane e caldee sono state menzionate sopra. Ci sono anche indubbie influenze greche, almeno nei testi più tardi. Credo, comunque, che queste siano difficili da mettere in luce perché la filosofia greca pitagorica e platonica era così pesantemente dipendente dalla religione e pensiero egiziani” (Bernal 1991, pp. 144-5). 16 esplicita in uno dei passi più celebri dell'intera opera bruniana, quando il pedante, Prudenzio, afferma di non volersi allontanare “dal parer de gli antichi, perché, dice il saggio, nell'antiquità è la sapienza”. A ciò Teofilo/Bruno replica: E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel che appartiene in certi giudizii, come in proposito. [p. 39] E dopo una lista di astronomi (Eudosso, Calippo, Ipparco, Menelao, Albategno, e infine Copernico), ognuno dei quali avrebbe tratto profitto dall'esperienza dei predecessori, soggiunge, memorabilmente: ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei che furon prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi, non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti questi e quelli negli anni proprii. [p. 41] Tuttavia Prudenzio non si arrende e insiste di essere “amico de l'antiquità”; allora Teofilo ridicolizza la sua posizione come segue: Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello,44 fu quella dei caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da' quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come notò il vostro Aristotele. [p. 41] E dopo un'interruzione Teofilo prosegue dichiarando che “tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte” (p. 43): ciò che conta è se siamo nel giorno o nelle tenebre, il che si può giudicare “a la grossa da' frutti de l'una e l'altra specie di contemplazione”; quanto a questo, basta notare che i sostenitori della dottrina a cui si rifà Bruno erano nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi, ne la divinazione singolari, ne la magia miracolosi, ne le superstizioni providi, ne le leggi osservanti, ne la moralità irreprensibili, ne la teologia divini, in tutti gli effetti eroici; come ne mostrano lor prolungate vite, i meno infermi corpi, l'invenzioni altissime, le adempite pronosticazioni, le sustanze per lor opra trasformate, il convitto pacifico de que' popoli, gli lor sacramenti inviolabili, l'essecuzione giustissime, la familiarità de buone e protettrici intelligenze ed i vestigii, ch'ancora durano, de lor maravigliose prodezze. [p. 44] In altre parole, è chiaro che per Bruno l'aspetto più qualificante della dottrina di cui aveva assunto l'eredità era la sua efficacia spirituale e operativa: e ciò aveva ben poco a che fare vuoi con la sua antichità, vuoi con l'esatta datazione delle opere che ne conservavano il ricordo. Naturalmente è vero, come risulta dall'ultima citazione, che Bruno credeva nelle testimonianze storiche sull'efficacia, e sperava di poter riprodurre le “maravigliose prodezze” di quegli adepti; a tale proposito anche solo l'ultima citazione mostra che il suo autore credeva nell'efficacia della magia. Ma prima di 44 Cioè quella aristotelica. 17 arrivare a discutere questo tema, che in effetti occupa un posto considerevole nell'opera di Bruno, è bene entrare nell'analisi della concezione della natura di cui fa parte. 10. La concezione del mondo. Il problema di fondo nella filosofia di Bruno è quello dei rapporti tra materia e vita, e tra corpi e anime; e, come ci si può aspettare, la soluzione adottata reagisce in profondità con le sue prese di posizione riguardanti altri articoli della filosofia della natura. Aristotele, nel suo trattato Sull'anima (II, 1-3), aveva proposto di interpretare l'anima come forma del corpo, privandola quindi di autonomia e sostanzialità, e aprendo la strada alle interpretazioni averroistiche che ne negavano la sopravvivenza individuale. Inoltre, aveva distinto tre tipi di anima: la vegetativa, la sensitiva, e la razionale, in corrispondenza con i tre mondi del vivente: le piante, gli animali, e gli esseri razionali. Nonostante le frequenti invettive antiaristoteliche, Bruno si riallaccia, in parte, a questa dottrina, ma nei termini della distinzione di origine neoplatonica tra l'Uno, l'intelletto universale, e l'anima del mondo. L'universo è concepito come la moltitudine di forme individuali nel loro avvicendarsi nella materia; l'anima del mondo è ciò che imprime nella materia le forme, secondo la “diversità di complessioni” della materia; e l'Intelletto è la facoltà dell'Anima che la rende depositaria e amministratrice di tutte le forme possibili. L'Uno si può pensare come la coesistenza di queste realtà, nonché la potenza assoluta identificabile con la divinità. Dato il ruolo della materia, che assume via via tutte le forme possibili, non appagandosi di nessun assetto se non provvisoriamente, non stupisce che a volte Bruno sembri dare ad essa una sorta di primato. Dire però che così facendo egli adotta una posizione ‘materialista’ non aiuta molto: l'accento posto da Bruno è piuttosto sulla simbiosi tra la materia e l'attività razionale organizzatrice delle sue forme. L'ordine dell'universo, sia come legalità fisica sia come ingegneria delle forme, non può “attribuirsi al caso, né ad altro principio che non sa distinguere e ordinare” (De l'infinito, p. 385), ed ecco perché si deve ammettere, per Bruno, l'intelletto universale. Qui vediamo applicato un principio accordato da diverse scuole filosofiche: la causa non può essere essenzialmente dissimile dall’effetto, e in particolare ‘inferiore’. Si tratta di un principio dall'apparenza innocua, ma che ha conseguenze sorprendenti se ‘inferiore’ viene interpretato in maniera tale che ciò che non è razionale si possa considerare 'inferiore' a ciò che lo è. Se si ammette questa interpretazione, infatti, ne segue che la causa degli esseri razionali (ciò che li produce) deve essere anch'essa almeno altrettanto razionale. Questo è, in sostanza, il famoso “argomento del progetto”, che è una delle cinque vie tomistiche per la dimostrazione dell'esistenza di un dio, ma aveva trovato un'eloquente esposizione (e confutazione) già nel De natura deorum di Cicerone. 45 46 47 45 Cabala, p. 885. La nozione di ‘anima del mondo’ risale a Platone (Timaeus, 34 B-C), fu fatta propria dagli stoici, e poi recuperata dai neoplatonici, da cui Bruno la riprese. 46 Cfr.: “[...] un giorno discorrendo lui [Bruno] di questa materia, disse che Dio havea tanto bisogno del mondo quanto il mondo di Dio, e che Dio non sarebbe niente se non vi fosse il mondo, e che per questo Dio non faceva altro che crear mondi nuovi” (P, pp. 267-8). 47 Nella Logique ou l'art de penser di Port-Royal, testo capitale della filosofia del Seicento, troviamo il seguente “assioma”: “Tutta la realtà o perfezione che è in una cosa si ritrova formalmente o eminentemente nella sua causa prima e totale”. Una variante più umile di questo principio è che “la causa e l'effetto devono più o meno rassomigliarsi”, una delle massime sulla causalità che ancora nel 1912 Bertrand Russell giudicava “niente affatto estinta” e di cui criticava l'utilizzazione teologica, analoga a quella descritta sopra (Russell 1917, p. 181). 18 L'altra possibile opzione teorica, oggi più diffusa, è rifiutare il principio suddetto e assumere che proprietà della materia completamente nuove possano a un certo punto emergere. Questa dottrina ha un suono di ovvietà quando si pensa che caratteristiche come lo stato liquido sono, appunto, proprietà di insiemi di atomi che non esisterebbero in una condizione in cui la materia fosse tutta disgregata: in altre parole, lo stato liquido è un esempio di proprietà emergente. Ciò stabilisce certamente una differenza rispetto al naturalismo bruniano, in quanto non ci si potrà aspettare, prima del raggiungimento di una certa soglia di complessità, alcun grado di psichismo. Da un altro punto di vista, però, non direi che la differenza sia così profonda. Infatti, una materia che permette la nascita del ‘nuovo’ è una materia governata da leggi che contemplano questa possibilità. E ammettere ciò significa accettare qualcosa di abbastanza simile al connubio tra Intelletto e Anima del mondo, cioè all'efficacia formativa delle idee contenute nell'Intelletto - e che noi vediamo realizzate nella materia come leggi e strutture fisiche. 48 11. L'animazione universale. Ma Bruno non si ferma qui. Da che cosa inferiamo che un certo essere individuale è razionale? Dal suo comportamento, evidentemente. E che cosa significa, per noi, che un certo comportamento è razionale? Che in esso riusciamo a scoprire un'attività regolare ed autonoma (su quest'ultimo punto torneremo in §12). Ebbene, quali corpi esibiscono più magnificamente una tale attività? La risposta, data nell’antichità da più autori, e in particolare dagli stoici, è: i corpi celesti. Da questo ragionamento segue, allora, che i corpi celesti hanno un'anima razionale. Bisogna poi considerare che la Terra genera e sostenta la vita, e che se si accetta l'analogia dei corpi celesti con essa, si ha che tutti fanno altrettanto. Per Bruno, come per molti dei suoi contemporanei, la generazione spontanea è un dato di fatto, che egli estende, in una certa misura, anche agli esseri umani. A questo punto l'applicazione del principio suddetto porta con sé che i corpi celesti sono veri e propri animali razionali: in effetti, data la perfezione dei loro movimenti, sono divinità visibili (e la Terra è uno di questi): 49 50 51 52 48 Cfr. Popper, Eccles 1977, cap. P3, sez. 19. Cfr. il De natura deorum di Cicerone (libro II). 50 Cfr. un passo ironico dello Spaccio: “Oltre che le generazioni de gli uomini si trovano in diversi continenti non al modo con cui si trovano tante altre specie d'animali usciti dal materno grembo de la natura, ma per forza di transfretazione [= attraversamento di mari] e virtù di navigazione, perché, verbigrazia, son stati condotti da quelle navi che furono avanti che si trovasse la prima; [...]” (p. 797). Vedi anche la denuncia di Mocenigo al Santo Uffizio: “come nascono gl'animali brutti [= bruti] di [= dalla] corrutione, così nascono anco gl'huomini, quando doppo i diluvii ritornano a nasser” (P, p. 144). Naturalmente Bruno negò, davanti agli inquisitori, di aver mai sostenuto qualcosa di simile (p. 187). 51 Cfr. nella Cena: “Muovensi dunque la terra e gli altri astri secondo le proprie differenze locali dal principio intrinseco, che è l'anima propria. - Credete, disse Nundinio, che sii sensitiva quest'anima? - Non solo sensitiva, rispose il Nolano, ma anco intellettiva; non solo intellettiva, come la nostra, ma forse anco di più. - Qua tacque Nundinio, e non rise” (pp. 109-10). La ragione per cui Nundinio, l'interlocutore aristotelico, stavolta non ride, non doveva essere estranea al fatto che “non è filosofo di qualche riputazione, anco tra' peripatetici, che non voglia il mondo e le sue sfere essere in qualche modo animate” (p. 239). Nel De magia mathematica, la tesi viene ripresa e ampliata: “Perché infatti dovremmo negare che la terra e l'acqua vivano, quando generano da sé, vivificano, nutrono, e fanno crescere innumerevoli piante e animali? In che modo la vita deriverebbe da cose che non vivono? [Quomodo a non viventibus vita?] In che modo ciò che non vive produrrà la vita?” (p. 497). 52 Questa espressione è nel Timeo (40 D) di Platone. 49 19 questi magnifici astri e lampeggianti corpi, che son tanti abitati mondi e grandi animali ed eccellentissimi numi, che sembrano e sono innumerabili mondi non molto dissimili a questo che ne [= ci] contiene; [...] [De la causa, p. 229] In ultima analisi tutte le cose, secondo Bruno, in quanto hanno una forma, “hanno in sé anima, hanno vita, secondo la sustanza e non secondo l'atto ed operazione conoscibile da' peripatetici tutti, e quelli che la vita e anima definiscono secondo raggioni troppo grosse” (p. 242). C'è qui una sorta di inversione della tesi aristotelica: se per Aristotele l'anima è – riduttivamente - la forma del corpo, per Bruno - amplificativamente - ogni corpo, in quanto ha una forma, deve pure avere un'anima. 12. Come interagiscono i corpi. Come abbiamo visto, per determinare il grado di sviluppo dello psichismo in ogni dato corpo bisognerà entrare nel merito del suo comportamento. Precisamente in che cosa consisterebbe la razionalità del comportamento degli astri, o di corpi ordinariamente considerati inanimati? Perché la regolarità dei loro movimenti dovrebbe di per sé sembrarci meritevole di tanto onore? La visione che Bruno eloquentemente presenta è quella di uno spacio infinito, regione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i lor circoli, come la terra il suo; e però anticamente si chiamavano 'ethera', cioè corridori, 53 corrieri, ambasciadori, nuncii della magnificenza dell'unico altissimo, che con musicale armonia contemprano l'ordine della constituzion della natura, vivo specchio dell'infinita deità. [Cena, p. 146] E a questo punto è chiarita la ragione per cui gli astri sono posti così in alto nella catena dell'essere: il loro moto deve avere un principio intrinseco, “perché non è sufficiente il liquido e sottile aria [sic] a muovere sì dense e gran machine”, e così non avviene per contatto, cioè non deriva né da trazione né da impulso. In ciò i corpi celesti sono assimilabili a certi oggetti terrestri di dimensioni molto minori, noti fin dall'antichità, e le cui proprietà costituiscono uno dei principali fondamenti empirici delle parti a prima vista più stravaganti della filosofia della natura di Bruno e di altri autori rinascimentali: il magnete, l'ambra, e tutti quei corpi (non importa se vivi o non vivi nel senso ordinario del termine) che apparentemente attraggono o respingono altri corpi, senza visibile contatto. Ma che cosa mai può significare che un corpo ne attrae un altro? (Dove sono le corde?) L'animismo bruniano permette di risolvere elegantemente questa difficoltà teorica, che avrebbe costituito, più di un secolo dopo, uno dei principali motivi di contrasto nella disputa tra Leibniz e i newtoniani: 54 Però la intendeno a rovescio quei che dicono, che la calamita tira il ferro, l'ambra la paglia, il getto55 la piuma, il sole l'elitropia; ma nel ferro è come un senso, il qual è 53 Questa etimologia bizzarra risale al Cratilo di Platone (410 B) e ad Aristotele (De caelo, I, 4); cfr. DI, p. 13n. L’etimologia moderna (da aithein, ‘bruciare’, ‘abbagliare’) è citata come quella più comune, e approvata insieme all’altra, nel De immenso (III, p. 377). 54 Per questa ragione non è una buona confutazione di Bruno l'argomento con cui Voltaire, in un'opera del 1777, ridicolizza una posizione che attribuisce ai pensatori greci: “I Greci [...] si sono indegnamente presi gioco del genere umano, quando da una parola greca che significava correre, hanno fatto dei theoi, degli dei che corrono. I loro pretesi filosofi [...] hanno preteso che corridori come Marte, Mercurio, Giove, Saturno, erano dèi immortali perché corrono sempre e sembrano muoversi da sé. Avrebbero potuto, con lo stesso argomento, dare la divinità ai mulini a vento” (Dialogues d'Evhémère). 55 “Smalto composto di ghiaia e calcina” (DI, p. 147, n.1). 20 svegliato da una virtù spirituale, che si diffonde dalla calamita, col quale si muove a quella, la paglia a l'ambra; e generalmente tutto quel che desidera ed ha indigenza, si muove alla cosa desiderata, e si converte in quella al suo possibile, cominciando dal voler essere nel medesmo loco. [p. 147] In altre parole, il ferro si muove perché sente il desiderio di avvicinarsi alla calamita. Così Bruno ritorna a Talete. È una concezione a prima vista molto strana, ma in effetti non tanto distante da quella che sarebbe una descrizione verbale della stessa situazione nella moderna teoria dei campi: in ambedue i casi il ferro reagisce a ciò che è nel suo immediato intorno. Quanto al ruolo di queste idee negli immediati sviluppi della fisica del magnete, ne dovremo riparlare (§23). Un secondo ordine di fenomeni in cui avviene qualcosa che non si può attribuire al contatto tra corpi era anch'esso noto fin dall'antichità: le maree, e vari altri fenomeni legati ai ritmi di crescita delle piante e degli animali. Questi, benché empiricamente collegati al ciclo lunare, non possono essere provocati dalla Luna, perché - di nuovo niente può muovere qualcos'altro a distanza; né sembrano potersi spiegare in termini di un desiderio, per esempio, dell'acqua di allontanarsi dalla Terra. La spiegazione bruniana è che si tratta di un accordo tra l'ordine dei fenomeni terrestri e le fasi lunari: 56 57 58 Da questo considerar, che nulla cosa si muove localmente da principio estrinseco senza contatto più vigoroso della resistenza del mobile, depende il considerare quanto sii sollenne goffaria e cosa impossibile a persuadere ad un regolato sentimento, che la luna muove l'acqui del mare, caggionando il flusso in quello, fa crescere gli umori, feconda i pesci, empie l'ostreche e produce altri effetti; atteso che quella di tutte queste cose è propriamente segno, e non causa. ‘Segno’ ed ‘indizio’, dico, perché il vedere queste cose con certe disposizioni della luna, ed altre cose contrarie e diverse con contrarie e diverse disposizioni, procede da l'ordine e corrispondenza delle cose, e le leggi d'una mutazione che son conformi e corrispondenti alle leggi dell'altra. [p. 147] C'è qui in embrione l'occasionalismo e la teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz, utilizzata però per spiegare i fenomeni fisici di azione a distanza, piuttosto che l'accordo tra le sensazioni delle diverse anime, o monadi. Quando i filosofi della natura dopo Bruno vorranno eliminare l'anima dalla scena del mondo, per confinarla nella interiorità della coscienza umana, si troveranno a dover spiegare tutti gli eventi fisici con l'azione per usare le parole di Bruno - per “contatto di dui corpi almeno, de' quali l'uno con l'estremità sua risospinge e l'altro è risospinto” (p. 146): è il sistema di Descartes, che non sarà privo, peraltro, di tensioni e incoerenze legate proprio a questa sua autolimitazione programmatica, e che sarà presto soppiantato da quello newtoniano. 59 13. Le statue egizie. Ma fino a che punto l'anima delle cose può essere equiparata a quella umana? Attribuire ai pianeti un'anima è solo un modo poetico di descrivere la 56 Cfr.: “Consideresi dunque che, come il maschio se muove alla femina e la femina al maschio, ogni erba e animale, qual più e qual meno espressamente, si muove al suo principio vitale, come al sole e altri astri; la calamita se muove al ferro, la paglia a l'ambra e finalmente ogni cosa va a trovar il simile e fugge il contrario” (Cena, p. 109). 57 La seguente formulazione è ancora più vicina: “La ragione per cui un magnete attrae secondo il genere è un certo consenso formale e un certo efflusso materiale delle parti, che esiste da tutti i corpi verso tutti [i corpi]” (Theses, p. 470). 58 Cfr. Cicerone, De divinatione, II, 33-4. 59 Per inciso, ‘monade’ è un termine che Leibniz deriva da Bruno, che ad esso intitolò anche un'opera (il De monade, numero et figura, del 1591). 21 “musicale armonia” delle loro evoluzioni celesti? Se Descartes negherà l'anima alle bestie, l'empirismo inglese arriverà a vedere come un problema di difficile soluzione addirittura l'attribuzione di un'esperienza soggettiva ai nostri simili. L'animismo rinascimentale è invece, per sua natura, audace. Una volta riempito il mondo di attività spirituale, si presentano insospettate possibilità di intervenire nello svolgersi degli eventi comunicando con le anime che presiedono ai diversi fenomeni naturali. Il mondo di Bruno è un mondo dove tutto ha un'anima, tutto è pieno di spiriti e demoni: ma, appunto, proprio perché tutto ne è pieno, non c'è da averne paura; anzi, il concetto fondamentale è che 60 61 essendo il spirto o anima o forma universale in tutte le cose, da tutto si può produrre tutto. [De la causa, p. 243] e sta all’“uomo saggio con la capacità di agire”, cioè al mago, escogitare la maniera di effettuare le trasformazioni desiderate. A questo proposito egli si troverà, rispetto ai demoni, nella stessa condizione in cui siamo noi se cerchiamo di farci capire dalle aquile (o dagli eventuali extraterrestri): dovrà scoprire un linguaggio simbolico, fatto di immagini, suoni, gesti ecc., comprensibile a lui e al suo interlocutore. A questo proposito le testimonianze sull'Egitto leggendario di Ermete Trismegisto raccontavano delle “maravigliose prodezze” dei loro maghi (cfr. §10), e in particolare di statue magiche. In un passo dello Spaccio della bestia trionfante Bruno tradusse, dal dialogo Asclepius (§8), il lamento sulla decadenza della religione egiziana, in cui si parla appunto delle operazioni di queste statue (è Ermete Trismegisto che si rivolge ad Asclepio): 62 63 Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di spirito, che fanno tali e degne operazioni? Queste statue, dico, prognosticatrici di cose future, che inducono le infirmitadi, le cure, le allegrezze e le tristizie, secondo gli meriti ne gli affetti e corpi umani? Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo, e per dir meglio, la colonia de tutte cose che si governano ed esercitano nel cielo? A dir il vero, la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade [...] O Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future [...] [Spaccio, pp. 784-5] Si tratta di un brano di grande suggestione, in cui si profetizza l'avvento di un periodo di tenebre e di disordine, di rovesciamento dei valori, al quale farà seguito una serie di catastrofi che restituiranno infine al mondo l'“antico volto”. Ma qui ci interessa soprattutto il riferimento alle statue animate. Di queste, oltre che il dialogo ermetico tradotto da Bruno, parlano diversi autori neoplatonici, in particolare Giamblico, Proclo, Psello, e in particolare si discute della maniera di costruirle: nell'Asclepio si dice che queste statue sono cave e che in esse si introducono immagini consacrate a cui, per mezzo di erbe, gemme, aromi, sono stati legati demoni: in tal modo si può dire, con un 64 60 È il problema delle “altre menti”, ancor oggi ampiamente dibattuto nella filosofia anglosassone. 61 Dei demoni, come esseri intermedi tra l'uomo e la divinità, parlò Platone nel Simposio; una fortunata operetta, nota anche a Bruno, che riassumeva l'opinione ormai consolidata sulle loro classi e principali proprietà, fu scritta dal filosofo bizantino Michele Psello, nell'XI secolo. 62 “A philosophis ut sumitur inter philosophos, magus significat hominem sapientem cum virtute agendi” (De magia, p. 400) 63 Cfr. De magia, p. 412. 64 Cfr. Yates 1964, cap. 2. 22 rovesciamento della relazione stabilita dalla Bibbia, che “l'uomo è creatore di dèi [sic deorum fictor est homo]”. Tutto ciò può apparirci oggi come una pura superstizione, ma in un universo in cui tutto può comunicare con tutto, purché si trovi il codice appropriato, lo è di meno: 65 66 gli animali e le piante son vivi effetti di natura; la qual natura (come devi sapere) non è altro che dio nelle cose. [gli Egizi adorarono] in forme de vive bestie, vive piante, vivi astri, ed inspiritate statue di pietre e di metallo (nelle quali non possiamo dir che non sia quello che è più intimo a tutte le cose, che la propria forma di esse) [...] la deità una e semplice ed absoluta in se stessa, multiforme ed omniforme in tutte le cose; [...] [Spaccio, pp. 776, 794-5] D'altra parte è un fatto che nel Cinquecento (e anche prima e dopo, naturalmente) troviamo persone di cultura che affermano di aver fatto esperienze che le confortano in tali credenze. Per esempio, un personaggio concreto e realista quanto pochi altri, Francesco Guicciardini, l'autore della celebre Storia d'Italia, in uno dei Ricordi (scritti per uso privato, e stampati postumi nel 1576 a Parigi), scriveva: Io credo di poter affermare che gli spiriti siano; dico quella cosa che noi chiamiamo spiriti, cioè di quelli aerei che dimesticamente parlano con le persone, perché n'ho visto esperienza tale che mi pare esserne certissimo.67 E anche Bruno racconta, nel De magia, episodi accaduti a lui stesso quando ancora viveva a Nola, e che attribuisce all'azione di demoni. Parlare di un diverso criterio di evidenza, figlio di una diversa ‘mentalità’ fra gli uomini del Rinascimento e noi, sarebbe, a mio parere, ben poco illuminante: perché pensatori scettici che, di fronte ai resoconti sulle statue profetiche, le mettevano in dubbio o le interpretavano come frodi, c'erano stati fin dall'antichità. È anzi interessante che anche alcuni padri della Chiesa ipotizzarono l'esistenza di trucchi con cui gli astuti sacerdoti pagani potevano aver 68 69 65 Su questo tema è molto utile e ricca di citazioni l'appendice II di Dodds 1951 (pp. 283-311). Anche se la devozione cattolica (e non solo) è ancor oggi piena di statue che lacrimano, operano miracoli ecc. Che esse vincolino uno spirito grazie alla propria virtù è, tutto sommato, secondario. 67 E prosegue dicendo: “Ma quello che siano e quali, credo che lo sappia sì poco chi si persuade di saperlo quanto chi non vi ha punto di pensiero. Questo, e el predire el futuro, come si vede fare talvolta a qualcuno o per arte o per furore, sono potenze occulte della natura, o vero di quella virtù superiore che muove tutto: palesi a lui [sic], segreti a noi, e talmente che i cervelli degli uomini non vi aggiungono [= non ci arrivano]” (Ricordi, n. 211). Una suggestiva esposizione della teoria neoplatonica degli spiriti si trova nel dialogo Il messaggiero (1580-7) di un illustre contemporaneo di Bruno, Torquato Tasso. 68 “Anche a me accadde di vederli [i demoni] presso i monti Libero e Lauro, né soltanto a me, ma frequentemente appaiono agli abitanti di quel luogo, ai quali talvolta sono dannosi (sebbene non tanto), sottraendo e nascondendo bestie, che poi rimettono nelle stalle qualche giorno dopo. [...] nei dintorni di Nola e presso il tempio di Porto in un luogo solitario, e anche sotto una rupe ai piedi del monte Cicada, che fu in passato cimitero degli appestati, io (e molti altri) ne ho fatto esperienza passando nottetempo, raggiunto da molte pietre che, per lo più sfiorando il capo e altre parti del corpo e inseguendomi per un bel pezzo, non causarono tuttavia alcuna lesione del corpo, né a me né agli altri che attestano lo stesso caso. Psello li ricorda nel libro ‘Sui demoni’, chiamandoli lucifugi, lanciatori di pietre, i cui lanci sono tuttavia a vuoto” (De magia, p. 431). Michele Psello in effetti scrive: “I demoni sotterranei sono soliti anche assalire con sassi i viandanti con colpi particolarmente deboli: per questo è possibile evitarli” (Pizzari 1989, p. 66). 66 23 illuso i propri fedeli: naturalmente non portarono lo scetticismo fino ad infirmare l'attendibilità di racconti analoghi presenti nella Bibbia. Inoltre, prima di attribuire a Bruno un grado di credulità eccessivamente alto, bisognerebbe ricordare che nella sua prima opera, la commedia Candelaio, pubblicata a Parigi nel 1582, egli aveva messo in scena due truffe, una operata da un ciarlatano proprio ai danni di un uomo che si affida all'arte magica per avere successo con una cortigiana, e l'altra da un sedicente alchimista che cita fra le sue autorità anche “Mercurio Trimegisto”. Bisogna poi rendersi conto che le virtù delle statue egizie non erano, tutto sommato, molto più sorprendenti della connessione tra ciclo lunare e certi fenomeni terrestri, o delle virtù dei magneti: non solo, ma c'erano anche altri fenomeni, del tutto comuni, in cui accadeva qualcosa di difficile da spiegare. Per esempio, come mai le pietre preziose hanno la capacità di influire sull'umore degli uomini? Esse, rotte e recise e poste in pezzi disordinati, hanno certe virtù di alterar il spirto ed ingenerar novi affetti e passioni ne l'anima, non solo nel corpo. E sappiamo noi che tali effetti non procedeno, né possono provenire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si riferiscono a principio simbolico vitale e animale; oltre che il medesimo veggiamo sensibilmente ne' sterpi e radici smorte, che, purgando e congregando gli umori, alterando gli spirti, mostrano necessariamente effetti di vita. Lascio che non senza raggione li necromantici sperano effettuar molte cose per le ossa de' morti; e credeno che quelle ritegnano, se non quel medesmo, un tale però e quale atto di vita, che gli viene a proposito a effetti straordinari. [De la causa, p. 243] Come si vede, c'è qui una serie di esempi che vanno dal plausibile all'assurdo, con la porta lasciata aperta anche alle follie dei negromanti. Ciò che li accomuna è l'idea che gli effetti sulla psiche (“ingenerar novi affetti e passioni”), che indubbiamente possono essere provocati da tutti quei procedimenti, debbano riferirsi “a principio simbolico animale e vitale”. L'argomento si fonda, evidentemente, sul postulato, sopra richiamato, per cui la causa non può essere inferiore all'effetto (cfr. §10); è proprio da ciò che si inferisce l'esistenza di uno spirito universale (cioè l'anima del mondo) che si trova in tutte le cose, le quali, se non sono animali, sono animate; se non secondo l'atto sensibili d'animalità e vita, son però secondo il principio e certo atto primo d'animalità e vita. [p. 243] Questa teoria può sembrare oggi estremamente bizzarra e primitiva. In realtà la posizione attuale sui problemi discussi dai filosofi rinascimentali è quanto meno incerta, come adesso accenneremo. 14. Le anime e le cose. Per Bruno esiste realmente solo l'anima universale, quelle individuali risultando dall'attività della prima nella “material complessione” (Cabala del cavallo pegaseo, p. 887) dei singoli corpi. Tale complessione potrà essere incapace di esprimere questa o quella “forza di sentimento”, ma in ultima l'analisi la “sustanza spirituale” è la stessa per tutti gli esseri: come tutti gli umori sono uno umore in sustanza, tutte le parti aeree son un aere in sustanza, tutti gli spiriti sono dall'Anfitrite d'un spirito, ed a quello ritornan tutti. [p. 883] 69 L'operetta di Luciano (II sec. d. C.) intitolata Philopseudeis [Gli amanti delle menzogne] è impressionante per la sua completa ‘modernità’ di atteggiamento; l'intera gamma delle tecniche divinatorie era del resto già stata oggetto, nel De divinatione di Cicerone (I sec. a. C.), di una devastante critica. 24 Questa dottrina, appunto, non esclude che i diversi esseri abbiano diversi gradi di sensibilità. Bruno nello Spaccio condanna la dieta carnivora, affermando che quello del macellaio è mestiere “più vile che non è l'esser boia”, in quanto sempre amministra alla disordinata gola, a cui non basta il cibo ordinato dalla natura, più conveniente alla complessione e vita dell'uomo (lascio l'altre più degne raggione da canto). [p. 811] Nel carcere dell'Inquisizione rimproverò un compagno di cella per aver ucciso un ragno. D'altra parte, sempre nello Spaccio (pp. 812-4), la caccia è in qualche modo approvata; non è poi sicuro che Bruno fosse sistematicamente vegetariano, poiché in un luogo delle deposizioni spiega di aver mangiato carne il venerdì al tempo in cui viveva presso i protestanti (P, p. 184). È vero però che, nel contesto in cui si trovava, scusarsi di aver mangiato carne poteva anche essere un modo obliquo di scagionarsi dall'accusa, che gli venne in effetti mossa e da cui dovette difendersi esplicitamente, di credere nella metempsicosi. In questa consistono appunto l'“altre più degne raggione”; le quali sono peraltro difficilmente conciliabili con l’idea del ritorno di tutti gli spiriti al mare (l’“Anfitrite”) dell’anima del mondo. Non c'è dubbio, tuttavia, che l'animismo conduceva Bruno a un rispetto per gli animali che non sarà affatto condiviso né da Descartes, né, più sorprendentemente, da Spinoza. L'idea che lo psichismo sia una proprietà diffusa in misura maggiore o minore in tutte le cose sarà riproposta, fra gli altri, dal fisico e matematico Maupertuis nel Settecento, e abbracciata da un illustre fisiologo dell'Ottocento, Gustav T. Fechner, e da uno dei massimi psicologi vissuti tra Ottocento e Novecento, William James. Un celebre fisiologo del Novecento, Charles Sherrington, scrisse: 70 71 72 73 74 Sembra che non ci sia un chiaro limite inferiore alla mente. [...] Che cosa dire di una mente che non può imparare, che è forse solo la cieca spinta verso il cibo, o il richiamo verso la luce o l'ombra? [...] Oggi la stessa distinzione [tra vivente e non vivente] è una convenzione. Ciò cancella la 'vita' come una categoria scientifica; o, se preferite, la porta fino ad abbracciare l'atomo. Il punto di fuga della vita è perso.75 A ciò si può aggiungere che, nonostante le accuse di ingenuità ai sostenitori della generazione spontanea, e gli elogi degli scienziati che li confutarono in nome del 70 “Essendo egli in letto, andai a trovarlo e trovandoli vicino un ragnetto, l'ammazzai, e lui mi disse ch'havevo fatto male, e cominciò a discorrere, che in quelli animali poteva esser l'anima di qualche suo amico [...]” (P, p. 284). 71 Ai suoi compagni di carcere Bruno dirà di ricordare alcune sue vite precedenti; ciò comporterebbe che, a suo parere, gli spiriti non si riconfondono totalmente nell’anima universale, ma conservano una qualche memoria (cfr. Cabala, pp. 883-4). Per analoghe tensioni, vedi la dottrina esposta nel VI libro dell’Eneide (vv. 724-51). 72 La sorpresa nasce non solo dalla fondamentale affinità tra il sistema spinoziano e la concezione bruniana, ma anche dal fatto che Spinoza non nega la sensibilità agli animali, al contrario di Descartes (cfr. Ethica, IV, scolio I alla prop. xxxvii). 73 Nel Système de la Nature. Essai sur la formation des corps organisés (1756). 74 Rispettivamente in due opere, Zend-Avesta (1851) e A Pluralistic Universe (1909). 75 Sherrington 1951, pp. 218-9. Jacques Monod [1970, cap. II] individuò nel vitalismo e nell'animismo i principali ostacoli allo sviluppo di una concezione scientifica della realtà, fondata su ciò che chiama il “principio di oggettività”; il suo libro mostra, d'altra parte, gli aspetti fortemente paradossali di una stretta aderenza al suddetto principio. 25 principio che “omne vivum a vivo”, l'attuale visione (ortodossa) delle origini della vita suppone che in qualche maniera (sulla quale sussiste ancora molta incertezza) la vita sia nata sulla Terra proprio da materia inorganica. È vero però che si è al tempo stesso sostenuto che “non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle”. Il che equivale a dire che la vita potrebbe essere un evento pressoché inesplicabile. È appena il caso di aggiungere che quanto il fenomeno ‘vita’ sia da considerarsi eccezionale nell’universo è tuttora oggetto di accese discussioni. Quanto alla considerazione morale per gli esseri viventi, la scienza di oggi intrattiene atteggiamenti contraddittori. Non è qui il luogo per un esame dettagliato, ma almeno varrà la pena sottolineare un contrasto. Da un lato si fa uso, spesso spietato, degli animali come ‘modelli sperimentali’, fondandosi sull'ipotesi (largamente azzardata) di una precisa somiglianza tra le loro reazioni (compreso il dolore) e quelle umane. Dall'altro, a chi obietta contro le sofferenze provocate da tali pratiche, si replica spesso che ‘nessuno sa se le piante che i vegetariani mangiano non soffrano quanto o più degli animali’, assumendo una posizione di totale agnosticismo circa il collegamento tra costituzione fisica e psichismo, e quindi sulla possibilità di definire razionalmente analogie e disanalogie al riguardo tra specie diverse. In un certo senso anche in Bruno si trova una tensione corrispondente: da un lato gli animali non sono come le pietre (o come gli stivali di Poliinnio, cfr. Cena, p. 241), dall'altro è possibile associare, grazie alle arti magiche, spiriti a pietre, e quindi constatare in queste comportamenti tipici di esseri superiori. 76 77 78 79 15. Perché non crediamo alle statue magiche? A questo punto è utile una breve riflessione su quella che ci potrebbe sembrare l'eccessiva credulità di Bruno e altri uomini della sua epoca. Che cosa fa sì che molti di noi, oggi, dubitiamo dei resoconti sulle statue divinatorie? La risposta che ha maggior corso è che i progressi scientifici ci hanno dimostrato l'impossibilità di certi eventi. In realtà la questione è più complicata. Tanto per cominciare, non era solo l'Asclepius che riferiva dei prodigi dei maghi egiziani, ma anche la Bibbia. Nell'Esodo (7, 8-13) si racconta come i maghi da un lato, e Mosè ed Aronne dall'altro, si esibissero in prove di bravura - trasformare bastoni in serpenti e l'acqua del Nilo in sangue, far salire a terra le rane ecc. - e che Aronne e Mosè, grazie all'aiuto divino, riuscirono a far meglio degli egizi. Che si può dire di questi racconti? Se li si accetta come letteralmente veri, allora essi pongono senza dubbio un problema per la scienza della natura: i maghi dell'antico Egitto erano infatti in grado di operare alcuni di quei prodigi senza l'assistenza del Padre Eterno. E il meno che si può dire, allora, sullo stato delle nostre conoscenze (o di quelle del tempo di Bruno) è che quella sapienza è andata perduta. L'empietà di Bruno consisté nel dare un'interpretazione integralmente naturalistica di quegli episodi, identificando in Mosè un mago dello stesso tipo di quelli egiziani, anzi un loro discepolo, soltanto più abile: 76 Monod 1970, p. 141 (corsivo nell'originale). Una discussione vivace e ricca di informazioni sulla questione dell'origine della vita è in Casti 1989, cap. 2 (nel cap. 6 si trova discussa l’ipotesi dell'esistenza di intelligenze extraterrestri). 78 L'uso degli animali come 'modelli sperimentali' per la medicina e la psicologia è fra le pratiche che più chiaramente mostrano i limiti della tanto vantata 'razionalità scientifica' moderna. 79 Cfr. Rollin 1989, pp. 115-7. 77 26 Quel Mosè dico, che in tutte le scienze de gli Egizii uscì addottorato da la corte di Faraone;80 quello che ne la moltitudine di segni vinze tutti que' periti nella magia; [...] [Spaccio, pp. 791-2]81 In generale la sapienza degli Ebrei - sostiene Bruno – “è proceduta da gli Egizii appresso de quali fu instrutto Mosè” (p. 783). Il caso di Bruno è interessante, in quanto come si vede - egli non era particolarmente disposto a credere a tutto quanto tramandato dalla Bibbia: se credette alle storie bibliche sui maghi è, indubbiamente, perché trovava in esse, come nelle testimonianze ermetiche sulla taumaturgia egiziana, una conferma della propria concezione del mondo, elaborata largamente - come abbiamo visto (§§9-10) - su basi non storiche. È tuttavia notevole la continuità dell’atteggiamento bruniano nell’abolire la barriera tra storia ‘profana’ e ‘sacra’, così come aveva fatto con la divisione tra fisica ‘terrestre’ e ‘celeste’ (§4). C'è naturalmente da considerare anche l'inerzia della tradizione, unita alla frequente difficoltà di effettuare verifiche indipendenti, e al ruolo secondario svolto dagli esperimenti. Un chiaro esempio si ha quando Bruno, nel De vinculis (art. xxx) dice che “il gallo con la voce batte il leone [gallus voce rumpit leonem]”, notizia che probabilmente gli proviene da Lucrezio, anche se questi ne dà una versione un po' diversa: sarebbe la vista dei galli che risulterebbe insopportabile per i leoni (De rer. nat., IV, 710-7). Plinio addirittura sostiene che basterebbe ungersi di brodo di pollo (meglio se cotto con aglio) per tenere alla larga leoni e pantere (Nat. Hist., XXIX, 78 e XXX, 142). Thomas Browne, che nel Seicento scrisse un libro sulle più diffuse false credenze - e a cui devo il precedente riferimento pliniano - , notava come questa opinione sui rapporti tra galli e leoni era “riportata da molti, e creduta dai più”, ma cita un caso, documentato da uno storico (J. Camerarius, contemporaneo di Bruno), in cui un leone era entrato in un cortile facendo razzia di galli non meno che di galline, senza farsi minimamente sconcertare. Naturalmente un solo caso sfavorevole non sarebbe bastato a togliere credibilità all'affermazione in linea di massima; e il vantaggio di sapere come stanno le cose veramente era, per molti autori, inferiore ai costi di una verifica sperimentale seria. Nel valutare la verosimiglianza di proposizioni che è difficile verificare direttamente, è giocoforza - oggi come allora - fondarsi su elementi esterni, e l'accordo tra autori prestigiosi non sembrava il peggiore dei criteri. Doveva passare del tempo prima che si cominciasse sistematicamente a dubitare della Bibbia e di altri testi antichi in quanto fonti storiche. Quando questo passo fu compiuto, la scienza moderna era nata da pochi decenni, ed è interessante che proprio dalla 82 83 80 Qui Bruno cita dagli Atti degli Apostoli (7, 22), come farà anche in sede processuale (P, p. 275). 81 L'accusa di aver calunniato, in questo senso, Mosè ebbe un posto non secondario nel processo (cfr. P, pp. 274-5). Affermazioni del genere si trovavano in evidente contiguità con la teoria, attribuita all’imperatore miscredente Federico II, secondo cui Mosè, Gesù e Maometto erano stati tre impostori. Secondo un’accusa di un compagno di prigionia, Bruno aveva detto che “Christo tutti li miracoli che fece li fece per arte di nigromantia” (P, p. 261; cfr. Spaccio, p. 806). 82 Se però si considera che Bruno si occupa per lo più di fenomeni che oggi sono di competenza di biologia, medicina, psicologia ecc., e se si prende atto del significato spesso ben poco rigoroso della ‘sperimentazione’ in queste branche (§14), allora è difficile non concedergli un’ampia indulgenza al riguardo (cfr. §16). 83 Pseudodoxia Epidemica, 1646, 1672 6, cap. xxvii. Lo scetticismo di Browne non gl'impedì, peraltro, di essere un fermo credente nella stregoneria, come risulta dalla sua Religio medici (1643). 27 questione delle statue magiche prese le mosse uno dei testi più rappresentativi del nuovo indirizzo di pensiero: È certo che ci sono demoni, genii malefici e condannati a tormenti eterni. La religione ce l'insegna, la ragione ci insegna poi che questi demoni hanno potuto animare statue, e rendere oracoli, se Dio glielo ha permesso; la questione è solo di sapere se hanno ricevuto da Dio questo permesso. Queste parole sono tratte dalla Storia degli oracoli di Bernard le Bovier de Fontenelle, pubblicata nel 1686, uno dei 'manifesti' del nuovo scetticismo storico, che minò le basi per l'accettazione del significato letterale di ben più che i racconti sui presunti oracoli resi da statue consacrate. È da notare che Fontenelle non fa riferimento a ‘dimostrazioni scientifiche di impossibilità’ dei fenomeni di cui vuole provare l'infondatezza - anzi, come abbiamo visto, comincia enunciando (sia pure con finta ingenuità) precisamente il contrario! La spiegazione del suo metodo data da Fontenelle è di una estrema chiarezza: Non è sorprendente che gli effetti della natura diano filo da torcere ai filosofi. I suoi principii sono così ben nascosti che la ragione umana quasi non può, senza temerarietà, pensare di scoprirli; ma quando non è questione che di sapere se gli oracoli hanno potuto essere un inganno e un artificio dei preti pagani, dove può essere la difficoltà? Noi che siamo uomini, non sappiamo fino a qual punto altri uomini hanno potuto essere o impostori o vittime di imposture? Come si vede Fontenelle, invece che le scoperte scientifiche (della cui divulgazione, peraltro, fu abile e fortunato pioniere), sottolinea l'importanza della conoscenza comune - della nostra comune umanità come chiave interpretativa della storia. Bruno, invece di fondarsi sulla conoscenza comune, che pure aveva dimostrato di padroneggiare molto bene fin dal suo Candelaio (cfr. anche §18), si affidò alla capacità del pensiero astratto di rivelare l'intima essenza della realtà. Da questo punto di vista la parziale sconfitta del suo programma conoscitivo ha qualcosa da insegnarci, ben al di là delle prese di distanza, oggi così poco audaci, da ‘un'epoca in cui si credeva nella magia’. 84 85 16. La medicina. A conforto empirico delle dottrine di Bruno veniva, del resto, anche l'esperienza della medicina della sua epoca. Nella pratica medica di allora la guarigione delle malattie era ricercata, e talvolta ottenuta, con metodi disparati, alcuni dei quali non escludevano l'impiego di incantesimi. Ai re di Francia si attribuiva la capacità di guarire le scrofole mediante imposizione delle mani, un effetto menzionato anche da Bruno. Ma, pur supponendo che forse tutte le malattie potrebbero essere provocate da demoni, e che fosse “estremamente consono alla natura della cosa” che un medico possa curare ferite a distanza, Bruno non esagera l'importanza delle tecniche magiche, ed è ben consapevole che la pratica medica si fonda in generale anche sulla fiducia dei pazienti. L'esito pratico della sua posizione è l'adozione di un punto di vista pluralista, 86 87 88 84 I suoi famosi Entretiens sur la pluralité des mondes, dal tema così ‘bruniano’, apparvero nello stesso anno, e furono messi all’Indice già l’anno dopo. 85 Una curiosa storia delle ‘statue parlanti’ dall'antichità all'età moderna, con molte citazioni, è Pettorino, Giannini 1999. 86 Vedi De magia, p. 433. Il testo classico sul tema è Bloch 1924. 87 De magia, p. 432; Theses de magia, p. 467. 88 Nel Sigillus Sigillorum (1583) Bruno dice che “Hanno particolare potere quei medici in cui moltissimi confidano […]” (Praepollent medici, in quibus plurimi confidunt; cit. da Tocco 28 di straordinaria attualità, che bada al fine - oggettivo e verificabile - dell'arte medica, piuttosto che ai metodi: Come anco in diversi ordini di medicare, non riprovo quello che si fa magicamente per applicazion di radici, appension di pietre e murmurazione d'incanti, s'il rigor di teologi mi lascia parlar come puro naturale. Approvo quello che si fa fisicamente e procede per apotecarie ricette, con le quali si perseguita o fugge la còlera, il sangue, la flemma e la melancolia. Accetto quello altro che si fa chimicamente, che abstrae le quinte essenze e, per opera del fuoco, da tutti que' composti fa volar il mercurio, subsidere il sale e lampeggiar o disoglar89 il solfro. Ma però, in proposito di medicina, non voglio determinare tra tanti buoni modi qual sia il megliore, perché l'epilettico, sopra il quale han perso il tempo il fisico ed il chimista, se vien curato dal mago, approvarà non senza raggione più questo che quello e quell'altro medico. Similmente discorri per l'altre specie: de quali nessuna verrà ad essere men buona che l'altra, se cossì l'una come le altre viene ad effettuar il fine che si propone. Nel particolar poi è meglior questo medico che mi sanarà, che gli altri che m'uccidano o mi tormentino. [De la causa, pp. 276-7] E a questo punto Bruno aggiunge uno scambio memorabile che dà la misura del suo sguardo disincantato sulla dimensione sociale della produzione del sapere: Gervasio. Onde avviene che son tanto nemiche fra lor queste sette di medici? Teofilo. Dall'avarizia, dall'invidia, dall'ambizione e dall'ignoranza. [pp. 276-7] Parole che suonano, a distanza di quattro secoli, tristemente attuali - e senza che si debba temere, purtroppo, nessun 'anacronismo' se non per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno (oggi, come è noto, assai più ragguardevoli). Senza negare che la speranza di guarire può favorire talora anche i raggiri dei ciarlatani, c'è nondimeno qualcosa di profondamente assurdo, oltre che di arrogante, in una pratica medica che si vuole 'scientifica' e raccomanda che ci si rassegni ai suoi fallimenti, negando la razionalità della ricerca di alternative. 17. Il pluralismo filosofico. L'atteggiamento di apertura a metodi diversi in medicina è in Bruno un caso particolare di un pluralismo teoretico che va molto più in là: nessuna filosofia, nemmeno la sua, può pretendere di possedere l'unica via di accesso alla verità: Perché è cosa da ambizioso e cervello presuntuoso, vano e invidioso voler persuadere ad altri, che non sia che una sola via di investigare e venire alla cognizione della natura; ed è cosa da pazzo e uomo senza discorso donarlo ad intendere a se medesimo . Benché la via più costante e più ferma, e più contemplativa e distinta, e il modo di considerar più alto deve sempre esser preferito, onorato e procurato più; non per tanto è da biasimar quell'altro modo il quale non è senza buon frutto, benché quello non sia il medesmo arbore. [De la causa, p. 275] Ne segue che lo studio di diverse filosofie va incoraggiato: Dicsono. Dunque, approvate il studio de diverse filosofie? Teofilo. Assai, a chi ha copia di tempo ed ingegno: ad altri approvo il studio della megliore, se gli Dei vogliono che l'addovine. Dicsono. Son certo però che non approvate tutte le filosofie, ma le buone e le megliori. 1889, p. 206). 89 Cioè estrarre olio (cfr. Aquilecchia 1991, pp. 60-1). 29 Teofilo. Cossì è. [p. 276]90 All'epoca di Bruno, naturalmente, questo atteggiamento non era così diffuso (come, del resto, non lo è oggi): attorno al controllo delle opinioni ‘lecite’ si muoveva una industria del consenso e della pubblica onorificenza che, gestita da accademie e chiese, aveva degradato lo studio della filosofia e la circolazione delle idee a operazioni di erudizione di basso profilo. L'analisi che di questo fenomeno fa Bruno – “academico di nulla Academia, detto il fastidito” -, attraverso la satira del pedante, è profonda e lungimirante. 91 18. Sociologia della scienza. Nei dialoghi italiani di Bruno, nonché nella sua commedia, troviamo sotto diversi nomi un personaggio, che per lo più interrompe brevemente la discussione con citazioni latine, a volte non del tutto impertinenti ma quasi sempre superficiali: è, appunto, il pedante. Di questa figura Bruno fa il simbolo del tipo di cultura filosofica 'delle scuole' che egli rifiuta, e che a sua volta lo rifiuta. Vediamo di ricavare dai testi bruniani una specie di 'tipo ideale' del pedante. Il pedante ha una cultura essenzialmente linguistico-grammaticale. È convinto che conoscere le lingue sia l'elemento fondamentale della comprensione di tutte le scienze. Contro questo assunto il Nolano dichiara che non basta sapere l'italiano per capire la sua filosofia, proprio come, viceversa, un che non sa greco, può intender tutto il senso d'Aristotele e conoscere molti errori in quello, [...] ed uno che non sa né di greco, né di arabico, e forse né di latino, come il Paracelso, può aver meglio conosciuta la natura di medicamenti e medicina che Galeno, Avicenna e tutti che si fanno udir con la lingua romana. Le filosofie e leggi non vanno in perdizione per penuria d'interpreti, ma di que’ che profondano ne’ sentimenti. [De la causa, p. 258] A tal proposito Bruno sottolinea la possibilità di scrivere libri interi su un autore senza contribuire minimamente alla sua comprensione. È il caso di Francesco Patrizi (152997), la cui opera, Discussiones peripateticae, Bruno così descrive: non possiamo dire che l'autore (che egli nemmeno nomina) abbia capito Aristotele 92 né bene né male; ma che l'abbia letto e riletto, cucito, scucito e conferito con mill'altri greci autori, amici e nemici di quello; e al fine fatta una grandissima fatica, non solo senza profitto alcuno, ma etiam con un grandissimo sprofitto, di sorte che chi vuol vedere in quanta pazzia e presuntuosa vanità può precipitar e profondare un abito pedantesco, veda quel sol libro, prima che se ne perda la somenza. [p. 261] 90 Alla luce di queste citazioni, una frase come “Tutti sappiamo che il Bruno era nelle sue asserzioni dommatico e intransigente non meno dei suoi censori [...]” (P, p. 114) non lascia una buona impressione circa la competenza bruniana - per non dire del senso della misura - di uno storico come Firpo, pur eminente come ricercatore e studioso di documenti sui processi di Bruno e Campanella. 91 Così Bruno si definisce nel frontespizio del Candelaio. 92 Per Patrizi vedi Yates 1964 (pp. 345-6) e Rossi 1977, cap. 3. Il destino di Patrizi risultò collegato a quello di Bruno in una maniera strana: la buona accoglienza ricevuta da Patrizi, “che non crede niente”, presso il Papa gli aveva fatto sperare di poter entrare anch'egli nei favori della Curia (P, p. 248). Ma anche la fortuna di Patrizi durò poco: l'Inquisizione lo mise sotto accusa per certe sue affermazioni ‘pericolose’ ed egli le ritrattò. 30 Il pedante, poi, è intrinsecamente tradizionalista: non perché sia legato a nozioni e valori culturali di cui abbia un pieno possesso, bensì perché non può concepire - per spirito di casta più ancora che per difetto di immaginazione - che tanti studiosi della sua 'levatura' possano aver letto e commentato, per generazioni, questo o quell'autore senza accorgersi delle sue manchevolezze. Nel De l'infinito il pedante, Burchio, così inveisce contro un personaggio antiaristotelico, Fracastorio: 93 Volete far vane tante fatiche, studii, sudori di fisici auditi, de cieli e mondi, ove s'han lambiccato il cervello tanti gran commentatori, parafrasti, glosatori, compendiarii, summisti, traslatatori, questionarii, teoremisti? ove han poste le sue basi e gittati i suoi fondamenti i dottori profondi, suttili, aurati, magni, inespugnabili, irrefragabili, angelici, serafici, cherubici e divini? [...] Volete che Platone sia uno ignorante, Aristotele sia un asino, e quel che l'hanno seguitati, sieno insensati, stupidi e fanatici? [...] Or chi ne sarà giudice? [pp. 466-7] E alla risposta di Fracastorio all'ultima domanda (“Ogni regolato senso e svegliato giudizio [...] quando si conoscerà convitto ed impotente a defendere le raggioni” della sua dottrina e “a resistere a le nostre”), Burchio oppone che, anche qualora fosse vinto in una disputa, ciò non proverebbe il difetto del suo indirizzo di pensiero, ma solo la sua insufficienza personale e l'abilità sofistica dell’avversario. Fracastorio replica allora che un uomo come Burchio si dovrebbe stimare “dotto per fede e non per scienza”, al che Burchio esplode insultandolo come un asino presuntuoso, sofista, perturbator delle buone lettere, carnefice de gl'ingegni, amator delle novitadi, nemico de la verità, suspetto d'eresia. [p. 467] Il pedante è qui ritratto nella sua dimensione più sinistra, di persona disposta a difendere la propria rispettabilità anche chiamando in aiuto autorità civili e religiose contro i propri avversari, colpevoli - sopra ogni altra cosa - di fargli sentire la sua incapacità di giudicare con la propria testa. Caratterialmente, egli tenderà a farsi accecare dall'“atro velo di corrosiva invidia” (p. 502), e a cercare di contrastare in tutti i modi, “con molte machine ed artificii”, avvalendosi dell'appoggio del “grande e grave senato della stolta ignoranza” (pp. 534-5), chiunque minacci la sua supremazia culturale. In questo egli sarà spesso vittorioso, grazie allo spirito di partito che in lui è vivo molto al di là della comprensione delle dottrine sotto la cui bandiera combatte (cfr. Cena, pp. 42-3). Infine, quel che è in gioco, per il pedante, non è soltanto un'infondata presunzione di sapere, ma anche onori e interessi materiali di vario ordine: comunemente si va appresso al giudizio comone, a fin che, se si fa errore, quello non sarà senza gran favore e compagnia [Cena, p. 48] In effetti la filosofia attrae anche “i più miseri di tutti i miseri, quelli che filosofano per guadagnarsi il pane”, 94 93 Si tratta di un passo i cui echi si ritrovano molto distinti nel Dialogo di Galilei (per es.: “Simplicio. E a chi si ha da ricorrere per definire le nostre controversie, levato che fusse di seggio Aristotile?” [p. 71]). 94 De immenso (I, p. 208): “ad miserorum omnium miserrimos, qui pro pane lucrando philosophantur”. 31 quelli sordidi e mercenarii ingegni che, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano saper secondo che comunmente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi di fama e riputazion di quella; vaghi d'apparire, poco curiosi 95 d'essere. [De l'infinito, p. 499] È questo tipo di personaggi del mondo dell'erudizione e dell'accademia che odiò Bruno proprio a causa delle sue virtù teoretiche e del suo coraggio. I loro eredi, che ancora affollano il mondo della cultura - dai giornali alle università - non gli hanno in realtà mai perdonato di essere stati da lui smascherati già quattro secoli fa, e lo hanno punito ‘storicizzandolo’ (o per meglio dire, sterilizzandolo), riducendolo a una specialità erudita, ed evitando di entrare nel merito delle sue penetranti osservazioni. È comunque importante aggiungere che la critica di Bruno nei confronti degli intellettuali del suo tempo non gli fa abbracciare quel tipo di scetticismo che attribuisce uno stesso valore a ogni opinione e dottrina (e che oggi, talvolta, è impropriamente denominato 'relativismo'). Nel 1581, durante il suo soggiorno a Tolosa, egli ricevette in dono dall'autore una copia con dedica di un libro fra i più radicali e rappresentativi della corrente scettica dell'epoca, il Quod nihil scitur [“Che niente si sa”], di Francisco Sanchez; sul frontespizio, accanto alle qualifiche dell'autore, “philosophus et medicus doctor”, egli annotò: “C'è da stupirsi che codesto asino chiami se stesso dottore”. In effetti anche altrove, e in particolare nella Cabala, Bruno ironizza nei riguardi di coloro che cercano di dimostrare che non esistono dimostrazioni, e dà una spiegazione psicologica della loro posizione: 96 97 Questi poltroni per scampar la fatica di dar raggioni delle cose, e per non accusar la loro inerzia, ed invidia ch'hanno all'industria altrui, volendo parer megliori, e non bastandoli d'occultar la propria viltade, non possendoli passar avanti né correre al pari né aver modo di far qualche cosa del suo, per non pregiudicar alla lor vana presunzione confessando l'imbecillità del proprio ingegno, grossezza di senso e privazion d'intelletto, donano la colpa alla natura, alle cose che mal si rapresentano, e non principalmente alla mala apprensione de gli dogmatici; [...] [p. 905] Ciò che a mio parere è degno di nota è come Bruno riesca a tenere gli occhi ben aperti circa i condizionamenti sociali dell'attività intellettuale, senza per questo scadere in una comoda equiparazione di ogni dottrina. Che l'unica maniera di analizzare i fattori sociali della scienza consista nell'abolire ogni differenza tra vero e falso è un'opinione oggi molto corrente, e che, evidentemente, favorisce sia la pedanteria accademica di certi sedicenti ‘sociologi della scienza’, sia - soprattutto - l'arroganza di chi, fingendo di difendere la ‘razionalità scientifica’, ha in mente essenzialmente la propria posizione di privilegio e gli interessi di chi gliela garantisce. 98 19. La religione dei “rozzi popoli” e i protestanti. Visto che il grosso della cultura accademica era, per Bruno, infestato dalla peste della pedanteria, è al popolo che egli pensava di rivolgersi? È interessante notare che nei dialoghi italiani Bruno introduce spesso un personaggio che fa da antitesi al pedante: è l'uomo di senso comune, che, pur 95 Cioè che poco si curano. Naturalmente ci sono eccezioni, come Schopenhauer, che cita con approvazione il Bruno ‘sociologo’ nel capitolo sulla “Filosofia delle università” dei Parerga und Paralipomena (1851). 97 “Mirum quod onager iste appellat se doctorem” (Canone 2000, p. 80). 98 Devo però aggiungere - senza potermici addentrare in questa sede - che il libro di Sanchez è in realtà piuttosto interessante, e che fornisce anche spunti preziosi per un'analisi realistica della formazione del consenso scientifico. 96 32 incapace di sollevarsi ai più elevati misteri della filosofia, riesce bene a distinguere tra il Nolano e i pedanti, e a ridicolizzare efficacemente la vana supponenza di costoro. Ma quali sono le verità che Bruno ritiene inadatte al popolo? C'è almeno una affermazione principale del sistema bruniano che egli non vorrebbe fosse indiscriminatamente divulgata. Abbiamo visto che per il dio di Bruno l'azione è necessaria, perché procede da tal volontà quale, per essere inmutabilissima, anzi la immutabilità stessa, è ancora la istessa necessità; onde sono a fatto medesima cosa libertà, volontà, necessità, ed oltre il fare col volere, possere ed essere. [De l'infinito, p. 384] Siamo qui ormai in un'atmosfera strettamente parlando spinoziana, con le stesse conseguenze, apparentemente deprimenti, circa la volontà umana. Per questo Bruno afferma che 99 Tutta volta lodo che alcuni degni teologi non le admettano [quelle sue tesi]; perché, providamente considerando, sanno che gli rozzi popoli ed ignoranti con questa necessità vegnono a non posser concipere come possa star la elezione e dignità e merito di giusticia; onde, confidati o desperati sotto certo fato, sono necessariamente sceleratissimi. [p. 385] I filosofi, i “savii e generosi spiriti e quei che son veramente uomini, li quali senza legge fanno quel che conviene” (Cena, p. 121), invece, “sanno bene e possono capire, come siano compossibili questa necessità e questa libertà”; anzi, come dirà nel De immenso (I, p. 243), che “La necessità e la libertà sono una cosa sola [...]”. Ma queste sono affermazioni che 100 non son proposte da noi al volgo, ma a sapienti soli che possono aver accesso all'intelligenza di nostri discorsi. Da questo principio depende che gli non meno dotti che religiosi teologi giamai han pregiudicato alla libertà de filosofi; e gli veri, civili, e bene accostumati filosofi sempre hanno faurito [= favorito] le religioni; perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l'instituzione di rozzi popoli che denno essere governati, e la demonstrazione per gli contemplativi che sanno governar sé ed altri. [p. 387] Sono parole che avranno una lunga (per lo più inconsapevole) discendenza, che culminerà nel famoso motto di Voltaire (“Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo” - per mantenere nel timore, cioè, i potenziali malfattori), e in Italia troverà accoglienza nel neoidealismo di Gentile - peraltro benemerito per gli studi bruniani - e Croce. Resta il fatto che il problema di come comporre la libertà umana con l'ipotesi dell'universale necessità delle cose non è affatto di facile soluzione, e non è chiaro che Bruno si sentisse così a suo agio con la propria soluzione. A considerare le invettive terribili che scaglia, soprattutto nello Spaccio, contro la religione riformata, colpevole, ai suoi occhi, di aver denigrato l'importanza delle opere, pare di avvertire una specie di 101 99 Il parallelo con Spinoza non è cosa nuova, naturalmente: l'aveva posto già Pierre Bayle, nella voce dedicata a Bruno del suo celebre Dizionario: “L'immensità di Dio e il resto non sono un dogma meno empio in Giordano Bruno che in Spinoza: questi due scrittori sono unitari oltranzisti; non riconoscono che una sola sostanza” (Bayle 1696). 100 Il passo rilevante è citato in DI, p. 386, n. 1. 101 “Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e 33 eccesso di difesa interiore, per l'omaggio reso anche dalla sua filosofia all'immutabile necessità che in quegli anni decretava l'infuriare delle guerre di religione e le persecuzioni dei “veri filosofi”. Ciò forse serve a spiegare, in parte, la foga con cui invoca un principe che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con multiforme eresia sparge il fatal veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella. [...] questi soli son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà più chi le [= li] toglierà, quanto la pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli. [Spaccio, pp. 623, 625] Un'altra possibile spiegazione (che non esclude la prima) per questi passi di inusitata violenza contro le sette protestanti è che Bruno, frate che ha deposto l'abito, non può più sopportare l'idea che la salvezza si possa ottenere “mediante certi affetti interiori e fantasie” riguardanti “cose invisibili, le quali né essi, né mai altri intesero” (cioè i misteri della religione cristiana), e che il desiderio di gloria terrena sia vano, mentre “bisogna gloriarsi in non so che tragedia cabalistica” (Spaccio, p. 655). Lo Spaccio è in effetti un'opera in cui non solo si celebra l'antica religione egiziana, ma in cui l'intera tradizione giudaico-cristiana viene sottoposta alla critica e all'irrisione più spietate, come già riconobbero i contemporanei. Tuttavia è chiaro che una filosofia dell'unità profonda di tutti gli esseri, come quella bruniana, poco si presta a giustificare teoreticamente queste esplosioni di odio; e in effetti non sembra che possa dare altro esito che un ottimismo metafisico e una generale tolleranza verso tutte le manifestazione della vita. 102 103 che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni [= alberghi], ospitali, collegii ed universitadi; [...]” (Spaccio, p. 623). 102 Il cosiddetto “Postillatore napoletano” (un italiano emigrato in Inghilterra, probabilmente) ha lasciato sulla sua copia dello Spaccio annotazioni che mostrano come il messaggio anticristiano dell'opera fosse perfettamente percepibile per i contemporanei. È stato congetturato che Bruno alla fine del processo rinunciò a lottare quando gli inquisitori menzionarono di aver avuto notizia che “mentre eri in Inghilterra eri tenuto per ateista e che avevi composto un libro di ‘Trionfante bestia’”: vedendo che gli inquisitori erano ormai sulle tracce dello Spaccio, egli sapeva che ogni dissimulazione sarebbe presto diventata impraticabile (Ciliberto 1990, p. 275). A conforto di questa congettura, che reputo plausibile, penso si possa addurre un indizio che non so se sia stato notato: quando a Venezia Bruno si difese dall'accusa di aver simpatizzato per i protestanti durante i suoi soggiorni fuori Italia, egli nominò il De la causa e il De l'infinito come fonti di sue affermazioni contro di loro, e dette una citazione testuale abbastanza lunga. Gentile, curatore di DI, non trovando una perfetta corrispondenza con il testo del De l'infinito, commenta: “Bruno, naturalmente, citava a memoria” (DI, p. 386n). In effetti Bruno, per rincarare la dose, inserì elementi da un passo dello Spaccio (p. 625), molto più aspro, in una citazione dal De l'infinito (p. 385); ma celò l’esistenza dello Spaccio - a cui avrebbe altrimenti potuto comodamente riferirsi come a una fonte inequivocabile delle sue critiche ai protestanti -, non certo per dimenticanza, ma perché sapeva che era di gran lunga la più compromettente delle sue opere. 103 Nella lettera dedicatoria degli Articuli, Bruno scrive dell'abbandono in cui al suo tempo è caduta “quella famosa legge dell'amore [...] la quale, proveniente non dal demone maligno protettore di un solo popolo [ab unius gentis cacodaemone], ma certo da Dio padre di tutti in quanto consona con la natura universale, prescrive la filantropia generale, con cui amare anche i nostri nemici, per non rassomigliare ai bruti e ai barbari, ma per trasfigurarci nell'immagine di colui che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i malvagi, e che fa piovere le sue grazie sopra i 34 20. L'Inquisizione e la scienza. Bruno tornò in Italia dalla Germania nell'agosto del 1591, invitato da un nobile veneziano, G. Mocenigo, di quasi 10 anni più giovane, ma non sembra che la principale ragione del suo ritorno sia da individuare nella richiesta di costui di ricevere lezioni di mnemotecnica. In effetti, arrivato a Venezia Bruno non andò ad abitare presso di lui, ma in una locanda. Partì poco dopo per Padova, dove è probabile che abbia concorso alla cattedra di matematica lasciata vacante l'anno precedente da Girolamo Borro; la cattedra in ogni caso non fu assegnata a Bruno, ma a Galileo Galilei pochi mesi dopo. La denuncia di Mocenigo all'Inquisizione veneziana portò Bruno all'incarcerazione nel maggio del 1592. Alla fine dell'anno la richiesta di estradizione fatta dall'Inquisizione romana fu accolta, e così l'istruttoria si spostò a Roma nel febbraio 1593. Come il processo veneziano sembrava poter giungere rapidamente a una tutto sommato accettabile conclusione per l'imputato, che si era dichiarato pentito degli errori dottrinali e di comportamento commessi, così il processo romano, che durerà ben sette anni, si annunciò lento e intransigente, e si concluse con la condanna a morte sul rogo (17 febbraio 1600), nonché la distruzione e la messa all'Indice di tutte le opere. In questa e nella prossima sezione non mi concentrerò se non su alcuni aspetti generali del processo, soprattutto nell'intento di mostrare il nesso tra la filosofia naturale di Bruno e la sua condanna. Ciò è utile non solo perché il caso Bruno rappresenta - a mio parere - un episodio emblematico di scontro tra potere e pensiero 'non allineato', ma anche perché la valutazione di questo episodio è legata anche al ruolo che si pensa che la scienza bruniana vi abbia svolto. In effetti, l'attuale ‘consenso’ sul processo di Bruno assume che questi non fu processato in quanto filosofo, e meno che mai in quanto scienziato, bensì per le sue deviazioni in materia teologica e religiosa: la Chiesa cattolica sarebbe stata dunque nel suo pieno diritto a metterlo sotto accusa. Questo punto è di solito rafforzato con l'adozione oggi molto comune della tesi della Yates, secondo cui di scientifico nell'opera di Bruno c'era ben poco, e che egli fu 104 probabilmente bruciato come mago, [...] e propagatore in tutta Europa di un qualche movimento magico-religioso. [...] Se punti filosofici o cosmologici furono inclusi nella sua condanna, questi sarebbero stati inestricabilmente legati al suo ‘egizianesimo’. 105 Quanto di questa ricostruzione è sostenibile? Innanzitutto, che nel processo contro Bruno si sia trattato anche di questioni di filosofia naturale è attestato senza alcun dubbio. Ad un certo punto del processo romano risulta addirittura che egli chiese un compasso, evidentemente per redigere una memoria difensiva in cui occorreva disegnare diagrammi astronomici (P, p. 110). Risulta che Bruno fu interrogato anche “Circa motum terrae”; dichiarò: giusti e gli ingiusti. Questa è la religione che osservo, senza alcuna controversia e prima di ogni disputa, sia per sentimento interiore, sia anche per la consuetudine della gente della mia patria [ratione patriae consuetudinis atque gentis]” (p. 4). Si noti la critica, appena velata, dell’idea di “popolo eletto”, più esplicitamente svolta nello Spaccio (p. 804). 104Cfr. Aquilecchia 1972. 105 Voce “Bruno, Giordano” (risalente al 1970), in Gillispie 1970-80; cfr. anche Yates 1988, p. 108. È verosimile, a mio parere, che la tesi ‘ermetica’ della Yates abbia incontrato tanta fortuna anche per la sua capacità di smorzare i toni del contrasto tra scienza e religione che, secondo la versione tradizionale, aveva avuto nel caso Bruno il suo primo grande ‘incidente’. Insomma, a molti piacerebbe poter sostenere che Bruno sarebbe stato condannato anche dal tribunale della ragione scientifica. 35 Prima generalmente dico, ch'il modo e la cosa del moto della terra e della immobilità del firmamento e cielo sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità, le quali sono certe e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura, come ognuno ch'ha buona inetelligenza dell'una e dell'altra sarà sforzato anco al fine di ammettere e concedere. [...] Gli venne allora obiettato che “questa sua posizione ripugna all'autorità dei santi Padri”; Bruno rispose che ciò poteva valere non in quanto santi, buoni et essemplari, ma in quanto che sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura. [P, pp. 302-3] In altre parole, Bruno cercò di distinguere, davanti agli inquisitori, tra l'insegnamento morale e i fatti fisici incidentalmente toccati dalla Scrittura, come aveva fatto nella Cena (cfr. §2), e come Galilei ripeterà nella Lettera a Madama Cristina di Lorena (EN, V, pp. 309-86): tutti tentativi inutili - e prevedibilmente inutili, per una ragione che vedremo fra poco. Alcuni autori hanno detto che, in ogni caso, l'ipotesi copernicana non poteva rivestire una grande importanza tra i capi di accusa, anzi, probabilmente gli inquisitori non l'avrebbero neanche discussa se Bruno stesso non l'avesse introdotta a un certo punto degli interrogatori (P, p. 188). A riprova di ciò starebbe il fatto che la condanna del copernicanesimo da parte della Chiesa cattolica sarebbe arrivata solo nel 1616. Ma questo argomento è sicuramente errato, ciò che è dimostrabile almeno a partire dal 1975, quando Garin ha curato l'edizione di un opuscolo anticopernicano in latino, scritto tra il 1546 e il 1547 da un domenicano di Firenze, Giovanni Maria Tolosani, che lo aveva inserito come appendice in un suo libro di apologia (intitolato significativamente De veritate S. Scripturae). Nel testo, Tolosani mostra “in quanti e quanto grandi errori Copernico sia caduto” nel libro I del De revolutionibus, “anche contro le sacre scritture” (etiam contra divinas literas), e menziona il fatto che il Maestro del Sacro Palazzo di Paolo III - il Papa a cui l'opera era dedicata! - aveva pensato di scriverne una confutazione, cosa a cui l'avevano impedito solo la malattia e la morte. Non solo, ma si legge che a Roma si era disputato sulla teoria e che Copernico “era stato rimproverato moltissimo” (plurimum reprehensus fuit), prima ancora della pubblicazione dell'opera. Insomma, l'ipotesi copernicana aveva praticamente da subito suscitato reazioni negative ai vertici della Chiesa cattolica. Vale la pena anche di ricordare che, tra le affermazioni che Patrizi (cfr. nota 92) fu costretto a ritrattare dall'Inquisizione romana, quando Bruno era già in carcere, ce n'era anche una che riguardava la rotazione terrestre. Questo, naturalmente, non significa che tra i capi d'accusa contro Bruno non ci fossero punti più tipicamente teologici – ma non per questo privi di contatto con la filosofia! -, come la transustanziazione, l’inferno, la Trinità ecc.; e bisogna anche tener conto che erano stati riferiti dall’accusa anche giudizi non teologici e tuttavia molto 106 107 108 109 106 “E la Chiesa cattolica forse non sarebbe mai stata accusata di aver messo Bruno a morte per la sua adesione alla teoria copernicana, se non avesse condannato quella teoria nel 1616 e più tardi costretto Galileo a sconfessarla” (Thorndike 1923-58, p. 428). 107 Nota, grazie al Commentariolus, almeno dal 1533 (cfr. Koyré, Vivanti 1975, p. xv). 108 L'interesse dell'operetta del Tolosani, “ben noto teologo e scienziato”, sta anche nel fatto che il domenicano T. Caccini, “persecutore implacabile di Galileo fin dal 1611” avrebbe tenuto su di essa “pubbliche lezioni in Firenze”, e che sia lui sia l'altro accusatore di Galileo, N. Lorini, erano frati dello stesso convento fiorentino di cui aveva fatto parte Tolosani (Garin 1975, pp. 283, 284). 109 Rossi 1977, pp. 146-7. 36 poco atti a ben predisporre gli inquisitori: per esempio, che per Bruno agli ordini religiosi si sarebbero dovute togliere le entrate (P, pp. 144, 179). Ma bisogna dire che soprattutto in questo contesto distinguere nettamente tra opinioni teologiche da un lato, e scientifiche e cosmologiche dall'altro, sarebbe profondamente manchevole di senso storico. La Chiesa considerava di propria competenza l'interpretazione della Bibbia sotto ogni profilo: quindi se l'interpretazione approvata di una frase qualsiasi implicava l'adozione di una certa opinione in merito a una questione naturalistica, o storica, o di altro genere non strettamente teologico, la suddetta opinione diventava nondimeno parte integrante dell'interpretazione autorizzata. Per esempio, l'interpretazione autorizzata di alcuni passi del Genesi presuppone la possibilità fisica di un'inondazione di tutta la Terra nello stesso tempo (il diluvio universale, appunto); chiunque avesse sostenuto, dunque, l'impossibilità fisica di questo fenomeno, sarebbe stato dichiarato automaticamente eretico. Di questa circostanza abbiamo una conferma in una famosa lettera che uno degli inquisitori che giudicarono Bruno, cioè il cardinale Roberto Bellarmino (con cui dovrà fare i conti anche Galilei) spedì parecchi anni dopo, nel 1615, al teologo carmelitano Antonio Foscarini, reo di aver difeso la conformità della teoria copernicana con l'ortodossia cattolica; Bellarmino scriveva che, leggendo “non dico solo li santi Padri, ma li commentari moderni sopra il Genesi, sopra i Salmi, sopra l'Ecclesiaste, sopra Giosuè”, si sarebbe trovato che 110 tutti convengono in esporre ‘ad literam’ ch'il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con somma velocità e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri e a tutti gli espositori greci e latini. Né si può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede ‘ex parte obiecti’, è materia di fede ‘ex parte dicentis’; e così sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non habbia havuti due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato da vergine, perché l'uno e l'altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de' Profeti et Apostoli.111 In altre parole, qualsiasi affermazione può essere considerata “materia di fede” se la fa lo Spirito Santo (debitamente interpretato dall'autorità della Chiesa), indipendentemente dal suo contenuto. Mi sembra che alla luce di questo passo, estremamente chiaro nella sua brutalità, la distinzione fra le opinioni teologiche, e quelle ‘solamente’ filosofiche o scientifiche, di Bruno, perda ogni rilevanza: Bruno sarebbe stato processato anche soltanto per la sua dottrina degli infiniti mondi, o per il moto della Terra ecc., a meno che non avesse prudentemente sostenuto che quelli erano, per lui, solo ‘modi di dire’, senza pretese di verità filosofica. Il processo, del resto, arrivò a concentrarsi nell'ultima fase proprio sui punti di rilievo filosofico, sui quali Bruno restò inflessibile. Insomma, la questione, in ultima analisi, era quella della 112 110 Si noti che Bruno, nello Spaccio, si fa beffe anche della storia biblica del diluvio (p. 797), anche se ciò non emerse durante il processo. 111 Fantoli 1993, p. 156 (la fonte della lettera a Foscarini, citata integralmente da Fantoli, è EN, XII, pp. 171-2). Fantoli così commenta: “Senza dubbio, la risposta di Bellarmino era una risposta privata. Ma dato il prestigio del cardinale nel mondo teologico del tempo, essa aveva un gran peso e poteva essere presa come un indice dell'atteggiamento della Chiesa di fronte al problema copernicano” (p. 157). 112 “Certo dunque si è che la lunga disputa [...] che si disnoda nel corso del 1599, ebbe il suo terreno precipuo nel cuore della filosofia bruniana, sopra le tesi dell'infinita creazione senza tempo, dell'animazione universale e del moto terrestre” (P, p. 109). 37 libertà di pensiero in generale, anche in campo scientifico, proprio come i 'superati' storici ottocenteschi avevano pensato. 113 21. L'anima universale e il destino umano. Una caratteristica del pensiero cosmologico di Bruno che costituisce un motivo di estremo fascino per il lettore di oggi è il suo atteggiamento nei confronti dell'universo senza limiti da lui teorizzato. Si tratta di un atteggiamento di profondo entusiasmo - non di paura o di senso di nullità dell'uomo al cospetto di tanta immensità, che saranno descritti da Pascal alcuni decenni dopo - in contrapposizione alla situazione degli aristotelici, visti come pappagalli chiusi in una gabbia: Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suttragano la infinita copia de le cose. [...] Or provedete, signori astrologi, con li vostri pedissequi fisici, per que' vostri cerchi che vi discriveno le fantasiate nove sfere; con le quali venete ad impriggionarvi il cervello di sorte che me vi presentate non altrimente che come tanti papagalli in gabbia, mentre raminghi vi veggio ir saltellando, versando e girando entro quelli. [De l'infinito, p. 361] Questo aspetto, che assimila Bruno a Lucrezio, da lui ammirato, sembra incompatibile con una certa immagine della rivoluzione copernicana, tuttora diffusa, che vuole che l'uomo sia uscito umiliato dalla ‘perdita della centralità’. Ma le cose non stanno esattamente così: la centralità dell'uomo, nell'universo tolemaico-cristiano coincide con la sua vicinanza al punto peggiore in cui si possa essere: l'Inferno. E la Terra è la sentina nell'universo medievale, il posto più basso che c'è (sia letteralmente, nel senso aristotelico, sia moralmente). Invece nella Cena Bruno descrive se stesso, tra le altre cose, come colui che ci apre gli occhi 114 a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne raccoglie, e non pensar oltre [= più] lei essere un corpo senza alma e vita, ed anche feccia tra le sustanze corporali. [p. 33] La visione bruniana dunque ‘riabilita’ la Terra, e fa sentire l'uomo veramente a suo agio nell'universo, grazie al riconoscimento della ubiquità della vita e della ragione. Questo non significa che l'individuo sia permanente o immortale, ma la paura della dissoluzione è scacciata dalla consapevolezza dell'universale conservazione della materia e della forma: Ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre medesma; perché non è che una, uno ente divino, immortale. [...] Avete dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello, quello in noi; e cossì tutto concorre in una perfetta unità. Ecco come non doviamo travagliarci il spirto, ecco come cosa non è, per cui sgomentarne doviamo. Perché questa unità è sola e stabile, sempre rimane; questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogni altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno. [ De la causa, p.324] 113 Quanto alla possibilità di ancorare solidamente al testo biblico tesi teologiche, mi sembra appropriato (e per niente invecchiato) il commento di Bruno, secondo cui le diverse sette “tutte vi [nella Scrittura] san trovare quel proposito che gli piace e meglio gli vien comodo: non solo il proposito diverso e differente, ma ancor tutto il contrario, facendo di un sì un non, e di un non un sì, come, verbigrazia, in certi passi, dove dicono che Dio parla con ironia” (Cena, p. 126). 114 Vedi Lovejoy 1936, pp. 101-3, e per un'ampia discussione recente, Stoffel 1998. 38 Questo “sentimento religioso cosmico”, per usare l'espressione di Einstein, ha certamente qualcosa di affascinante, e il fatto che Bruno lo vivesse come genuina esperienza interiore è suggerito dalle memorabili parole di sfida che pronunciò al momento della sentenza. D'altra parte non è chiaro perché ciò che permane dovrebbe contare più di ciò che non permane. Basta a consolarsi della perdita delle cose e delle persone a noi care la riflessione che, nel frattempo, l'energia è rimasta costante e le leggi fisiche sono state tutte rispettate? Forse Bruno avrebbe risposto che anche le singole forme (in un senso importante del termine, anche se non in ogni senso) non vanno perdute, e che tutto si ripete, in qualche tempo, e in uno degli innumerevoli mondi – anche se non identicamente. Questo lascerebbe pensare che il “Nihil sub sole novum”, che era il motto favorito da Bruno, avesse per lui anche il significato letterale di un ‘eterno ritorno’, in cui nulla sparisce veramente per sempre. (È una questione sulla quale non sono sicuro che dalle affermazioni di Bruno si possa estrarre una teoria coerente). Ma è possibile - e, se sì, ragionevole - mantenere un distacco nei confronti della nostra esistenza particolare attraverso l'identificazione con l’Uno o anche con tutte le future e passate materializzazioni, più o meno identiche, della nostra ‘forma’? Qual è il prezzo che si pagherebbe, a livello di considerazione di noi stessi qui ed ora, per questo surrogato dell'immortalità? Sono domande che qui basterà aver posto, ma che, nonostante l’apparenza stravagante, si connettono a un livello molto profondo con le nostre concezioni di persona e di ego. Certo è che Bruno, coerentemente con quanto da lui tante volte sostenuto, non si lasciò “sgomentar[e]” nel momento supremo e “sopportò con fermezza il supplizio”. 115 116 117 118 22. Bruno e gli scienziati del suo tempo. L'opera di Bruno fu conosciuta da diversi scienziati famosi del suo tempo, i quali ne dettero valutazini diverse. Bruno inviò, con dedica, il Camoeracensis Acrotismus a Tycho Brahe, sperando di ricevere un avallo delle proprie concezioni da un astronomo professionista che considerava “il più nobile e il principe” degli “astronomi del nostro tempo”, ma questi ne ricavò una impressione negativa, e si divertì a prenderlo in giro privatamente con giochi di parole non proprio brillanti (come “Iordanus Nullanus”). È probabile che Brahe, il quale era in generale poco incline ad elargire riconoscimenti, si sentisse irritato anche sul piano ideologico, considerata la chiarezza con cui menziona nei suoi scritti il rispetto per l'autorità biblica come una delle ragioni per non accettare il sistema copernicano. Fatto sta che, anche su 119 120 115 Il quale così lo descrive (senza riferimento a Bruno): “L'individuo sente la futilità dei desideri e scopi umani, e la sublimità e l'ordine meraviglioso che si rivelano sia nella natura che nel mondo del pensiero. L'esistenza individuale lo colpisce come una specie di prigione e vuole fare esperienza dell'universo come di un singolo tutto dotato di significato” (Einstein 1930). 116 “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (P, p. 351). 117 “Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole novum” (De la causa, pp. 246-7; cfr. Ecclesiaste, I, 9-10) 118 In particolare Bruno ironizza sulla concezione del Grande Anno platonico in un dialogo tra una pulce e una cimice che stanno per morire, e di cui la prima conforta la seconda dicendole che un giorno (molto remoto!) saranno di nuovo insieme (De immenso, III, pp. 367-8, vv. 6-35). A mio parere, però, in questo brano stranamente inquietante Bruno sta adombrando il suo rifiuto della resurrezione cristiana. 119 De immenso, I, p. 221. 120 Pagnoni Sturlese 1985, p. 317. 39 un piano più tecnico, le ragioni tolemaiche per la stabilità della Terra, che Bruno aveva demolito o per lo meno incrinato, convincevano perfettamente Brahe. Diverso è il caso dell'allievo di Brahe, Johann Kepler. Nel De Stella Nova in Pede Serpentarii, del 1606, egli espone le ragioni per cui non può accettare la tesi dell'infinità dell'universo proposta da Bruno: ma la coscienziosità con cui definisce la propria posizione fa capire che non ritiene affatto trascurabile la ‘minaccia’ bruniana. In primo luogo egli sottolinea che Bruno ha sostenuto non solo che l'universo è infinito, ma anche che esso mostra lo stesso aspetto se visto da una qualsiasi stella fissa: 121 122 123 [L'immensità dell'universo] derivata dalle antiche scuole dei filosofi gentili si riduce principalmente a questo argomento: che Aristotele dimostrò a partire dal moto che il mondo è finito, mentre Copernico, privata la sfera delle stelle fisse del moto, tollera che sia infinita. Così la difende quel famoso, sventurato Giordano Bruno: e senza mezzi termini l'asserì pure, sotto l'apparenza del dubbio [sub specie dubitantis],124 William Gilbert nel libro, peraltro celeberrimo, sul Magnete; tuttavia mostrò un sentimento religioso nello stimare che l'infinita potenza divina non si può concepire correttamente che attribuendole l'edificazione di un mondo infinito. Ma Bruno fa l'universo infinito in maniera tale che, quante sono le stelle fisse, altrettanti sono i mondi, e fa di questa nostra regione di corpi mobili uno degli innumerevoli mondi, quasi per nessun segno distinta dagli altri che la circondano: sicché, se qualcuno fosse sulla stella del Cane (diciamo uno dei Cinocefali di Luciano), gli apparirebbe lo stesso aspetto del mondo che appare a noi che guardiamo alle stelle fisse. [K, II, p. 688] Come si vede qui Keplero attribuisce a Gilbert (1544-1603), incidentalmente, un argomento squisitamente bruniano (§6), ma ciò che più lo interessa è l'attenzione verso la tesi astronomica, correttamente attribuita a Bruno, dell'omogeneità e isotropia dell'universo su scala siderale. Ed è questa che cerca di confutare. Per esempio, sulla cintura di Orione ci sono tre stelle che hanno per noi una distanza angolare a due a due di 83 minuti d'arco, e ognuna un diametro di 2 minuti; se le immaginiamo tutt'e tre a uguale distanza dalla Terra, allora da ognuna di esse le altre si vedrebbero come stelle molto più grandi del nostro Sole: il che vuol dire che l'apparenza dell'universo visto da Orione non sarebbe quella a noi familiare. Per giunta, un osservatore su una di quelle stelle vedrebbe non solo le due altre stelle citate, ma “quasi un mare continuo di grandi stelle che apparentemente quasi si toccano” (p. 689). L'obiezione più naturale è che basterebbe ipotizzare una distribuzione più rada delle stelle, e cioè che le stelle che vediamo così vicine, siano in realtà molto distanti le une dalle altre, ma Keplero la confuta rifacendosi all'aspetto dell'universo come visto dalla 121 Granada 1996, capp. 1 e 2. Vedi Koyré 1957, cap. 3, che riporta in traduzione ampie citazioni. 123 Riluttanza del resto dichiarata in maniera inequivocabile: il pensiero che la stella nuova sia un qualche mondo “presenta un non so che di occulto orrore, quando ci si scopre ad errare in questa infinità, di cui si nega che ci siano termini, centro e perciò luoghi certi”; poco dopo dice di proporsi di ricondurre “codesta pazzia dei filosofanti [...] entro i confini del mondo e le sue carceri. Certamente non è bene vagare per quell'infinito [Certe equidem vaganti per illud infinitum bene non est]” (K, II, p. 689), dove, dietro un velo di ironia, si avverte un timore reale per le conseguenze religiose di un cosmo dilatato oltre ogni limite. 124 Cioè Keplero legge Gilbert ‘fra le righe’: è vero - dice Keplero - che Gilbert esprime la sua adesione all'infinità dell'universo in forma dubitativa, ma si capisce che è solo un accorgimento retorico. La cosa strana è che la capacità di interpretare un testo del Cinquecento o Seicento facendo la tara di quella reticenza che era pienamente giustificata da concretissimi timori, sia andata perduta tra molti degli studiosi di oggi, i quali addirittura tacciano di “anacronismo” chi in questo cerca di imitare Keplero (cfr. § 23). 122 40 Terra. Non è qui il luogo per entrare in un'analisi di queste argomentazioni, effettivamente abili (e che saranno riprese e approfondite nell’Epitome Astronomiae Copernicanae [lib. I, pars II] del 1621), ma l'impressione è che Keplero si rifugi nell'astronomia osservativa per evitare di approvare un principio che lo disorienta. In effetti anche la cosmologia moderna ha dovuto fare i conti con successive smentite osservazionali del principio di omogeneità e isotropia dell'universo, ma la risposta è stata di aumentare la scala delle distanze su cui esso può essere mantenuto: in maniera analoga avrebbe probabilmente reagito Bruno alla confutazione kepleriana. L'idea dell'animazione universale è stata spesso presentata come una delle componenti più sconcertanti del pensiero di Bruno, una zavorra arcaica che avrebbe inibito il progresso scientifico, e che i grandi scienziati del Seicento dovettero scrollarsi di dosso prima di poter cominciare a fare veramente scienza. Ancora una volta, basta aprire i libri di questi grandi scienziati per rendersi conto che le cose stanno in tutt'altro modo. Il testo che fonda la scienza del magnetismo in età moderna, cioè il De magnete (1600) di Gilbert, che abbiamo visto citato da Keplero, è saturo di motivi bruniani. Ecco un passo che riguarda la Terra, in cui sentiamo distintamente echi di argomenti che abbiamo incontrato in Bruno, e troviamo un'applicazione del principio sopra discusso (§10): 125 Cosa mostruosa sembrerebbe codesta nel mondo aristotelico, in cui tutte le cose sono perfette, vitali, animate; mentre unicamente la Terra è una particella sfortunata, imperfetta, inanimata, e caduca. Al contrario Ermete, Zoroastro, Orfeo, riconoscono un'anima universale. [...] Poiché dalla Terra e dal Sole nascono i corpi viventi, e crescono sulla terra le erbe senza che siano stati gettati semi [...] non è verisimile che possano produrre ciò che non sono: ma fanno nascere le anime, quindi sono animati . E, per quanto riguarda il magnetismo, ecco come Gilbert intitola il capitolo 12 del libro V: La forza magnetica è animata, oppure imita l'anima; anzi, in molte cose supera l'anima umana quando quest'ultima è legata a un corpo organico.126 Come si vede, pur avendo dato notevolissimi contributi allo sviluppo di una scienza del magnetismo, che saranno ammirati da Galilei, Gilbert abbraccia cordialmente l'animismo bruniano. Se ciò può apparire strano, è solo perché non ci si rende conto che, nell'attribuire un'anima razionale a un sistema fisico ‘materiale’, i pensatori rinascimentali pensavano appunto alla razionalità e comprensibilità del comportamento di quel sistema, e non alla sua arbitrarietà e instabilità - che sono piuttosto le proprietà che noi tendiamo ad associare ai sistemi viventi. Quindi, non solo l'animismo non inibiva la ricerca scientifica, ma ne poteva anche diventare il garante filosofico. Né, del resto, si trattava di una concezione metafisica sterile, perché da essa sorgeva naturalmente, come abbiamo visto (§§11-12), una questione passibile di indagine empirica a più livelli e in più contesti: quali sono le ulteriori caratteristiche del comportamento dei corpi che ci assicurano che si muovono in maniera non meccanica, ma di propria iniziativa (per un “principio intrinseco”)? 127 125 Cfr. Narlikar 1993, cap. 1. “Vis magnetica animata est, aut animam imitatur; quae humanam animam, dum organico corpori alligatur, in multis superat”. 127 Che Bruno sia nominato da Gilbert, anche se non nel De magnete, è messo in evidenza da Ricci 1985, p. 39. 126 41 Esemplare è a questo riguardo il caso di Keplero. Nella prima edizione del Mysterium Cosmographicum (1596), egli discute l'alternativa tra (i) attribuire ai singoli pianeti anime responsabili del loro moto (“motrices animae”), tanto più deboli quanto più distanti dal Sole; (ii) conferire un'anima soltanto al Sole, la quale “incita con tanto maggiore forza qualsiasi corpo quanto più questo è vicino”. Fra le due opzioni, favorisce nettamente la seconda, pur rinviando ad altra occasione una trattazione più approfondita. In una lettera del 1607 dichiara di non considerare la “simpatia” magnetica come dello stesso tipo del “senso o percezione con cui la Terra percepisce gli aspetti celesti”, per il seguente motivo: 128 il magnete invero manca dell'uso della ragione: ciò che mette in atto, lo fa non secondo linee circolari, ma secondo rette, come fanno le materie. [K, II, p. 591] Nella seconda edizione del Mysterium, nel 1621, Keplero aggiunge nelle note di aver rifiutato le anime motrici già nell'Astronomia nova (1609), e spiega come si debba intendere questo cambiamento: la sua nuova concezione coincide esattamente con la (ii), purché si sostituisca la parola “anima” (Anima) con “forza” (Vis). Il punto chiave, che gli aveva fatto abbandonare la concezione delle “Intelligenze motrici”, appresa dall'opera di Giulio Cesare Scaligero, era stato l'osservazione che questa causa motrice si indebolisce con la distanza, e anche la luce del Sole si attenua con la distanza dal Sole: ne conclusi, che questa Forza fosse qualcosa di corporeo, se non in senso proprio, almeno metaforico [aequivoce]; come la luce la diciamo qualcosa di corporeo, cioè una specie rilasciata da un corpo, ma priva di materia. Ecco che, per passi quasi insensibili, accompagnati da un grandioso sforzo di elaborazione teorica di osservazioni pazientemente raccolte, ci ritroviamo di fronte (quasi) la legge di attrazione universale di Newton: un passo cruciale, quello che dà l'inverso del quadrato della distanza, sta per essere compiuto – ma non lo sarà da Keplero stesso – grazie all'assimilazione della forza alla diffusione della luce. Ciò che mi sembra chiaramente mostrato da questa pur brevissima esemplificazione e analisi è che i concetti bruniani, e più in generale della filosofia della natura del Rinascimento, non dovettero essere preliminarmente cancellati dalla nuova scienza, ma, anzi, formarono la base da cui si arrivò, per successivi raffinamenti e puntualizzazioni, sulla soglia delle nozioni più caratteristiche della ‘rivoluzione scientifica’. 129 130 23. Bruno e Galilei. Galileo Galilei ha vent'anni quando Bruno pubblica la Cena. Abbiamo già fatto menzione di qualche punto di contatto tra quest'opera (e il De l’infinito) e il Dialogo di Galileo, e abbiamo detto che la definizione dei rapporti tra 128 A Bernegger, del 30 novembre. La quale, appunto, ha intensità tanto più debole quanto maggiore è la distanza dalla sorgente; e la relazione quantitativa si ottiene pensando la luce come una sostanza “quasi materiale” che, spostandosi radialmente dalla sorgente, si distribuisce uniformemente su aree sferiche (proporzionali, appunto, al quadrato del raggio) sempre maggiori. 130 L'influenza di Bruno sui grandi scienziati suoi contemporanei non si ferma però qui; un altro caso notevole è costituito dallo scopritore della circolazione sanguigna, William Harvey, che potrebbe essere venuto in contatto con l'anticipazione che Bruno ne fa nel De immenso, durante il suo soggiorno padovano (degli anni 1600-1602; vedi la classica trattazione di Pagel 1979, pp. 112-22). Sulle connessioni tra le opere mnemotecniche di Bruno e le ricerche sulla “characteristica universalis” di Leibniz pioniere della logica ha insistito la Yates [1972, cap. 17]. 129 42 scienza naturale e interpretazione della Bibbia li trova praticamente sulla stessa posizione. A mio parere, si può in effetti considerare la politica culturale di Galileo, in parte, come il tentativo di erodere l'autorità della Chiesa cattolica in campo filosofico, in uno spirito affine a quello di Bruno. Questa ipotesi è oggi molto impopolare fra gli studiosi di Galilei, anche perché si scontra con ciò che la maggior parte di essi ritiene pressoché indiscutibile: la sua buona fede cattolica. Così leggiamo, in una nota biografia di uno storico e filosofo non cattolico, che Essendo nato in un paese cattolico, [Galileo] era un cattolico praticante; ma il problema religioso non costituiva per lui il benché minimo assillo. [Geymonat 1969, p. 79] Ora questa è una notizia che, se vera, sarebbe indubbiamente rilevante, anche se non decisiva; è tuttavia notevole che, per un elemento fattuale così importante, e di per sé di non facile accertamento, non venga fornita alcuna prova documentaria. In realtà, per un imprevedibile colpo di fortuna, da pochi anni sappiamo positivamente che la notizia è falsa, ma già da molto più tempo si poteva avanzare qualche fondato dubbio al proposito. Un viaggiatore lionese interessato alla scienza e ai suoi protagonisti, Balthasar de Monconys (1611-1665), il 6 novembre del 1646 incontra a Firenze l'allievo e biografo di Galilei, Vincenzio Viviani, e così descrive la conversazione intercorsa: fui a passeggiare con il Sig. Viviani che è stato per tre anni con il Sig. Galileo. Mi disse la sua opinione del Sole131 che egli credeva una stella fissa, la necessità di tutte le cose, la nullità del male, la partecipazione dell'anima universale, la conservazione di tutte le cose: [...]132 Ora, benché la frase “la sua opinione” è ambigua, una scritta sul margine del diario di Monconys riporta: “Opinions du Sieur Viuiano”, che sembrerebbe implicare che Viviani riferisse le proprie opinioni, e non quelle di Galileo. In ogni caso, è improbabile che l'ultimo discepolo di Galilei, potesse formulare - a soli 24 anni! - un credo filosofico così ardito ed esporlo a un visitatore occasionale senza in qualche modo poter confidare sulla concordia con l'amato maestro, scomparso solo quattro anni prima. È appena il caso di sottolineare che la concezione del mondo brevemente delineata da Viviani è di chiara derivazione bruniana. Ma ci sono basi testuali nell'opera di Galileo per affermare una convergenza in tal senso? La risposta è che almeno una delle più tipiche dottrine bruniane (cfr. §6) è enunciata nel Dialogo, sia pure con la precauzione di metterla in bocca non a Salviati, ma a Sagredo, il quale così interviene in un momento della discussione in cui si sta toccando il problema della vastità dell'universo: 133 Grandissima mi par l'inezzia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l'universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso, che all'immensa, anzi infinita, Sua potenza. [p. 397] 131 Nel testo è indicato con un asterisco. Henry 1887, p. 36. Per inciso, Leibniz, nel suo Tentamen de motuum caelestium causis (1689), cita il libro di Monconys a due pagine di distanza dal brano sopra riportato, e secondo una logica simile (precisamente per ricostruire, da un'affermazione di Torricelli, le probabili opinioni di Galilei sulla natura della gravità). 133 Il che non toglie che quando nel 1654 Viviani scriverà su commissione del granduca Leopoldo il Racconto Istorico della Vita del Signor Galileo Galilei (EN, XIX, pp. 597-632), egli parlerà del suo maestro come di un “vero cattolico”, e userà a sua volta tranquillamente espressioni pie. 132 43 Galileo era stato molto prudente, in diverse occasioni, nel dichiarare le proprie simpatie per idee o persone 'pericolose': ciò si era verificato all'epoca del grave conflitto tra Venezia e il Vaticano (l'“interdetto” lanciato dal Papa contro la repubblica veneziana nel 1606), durante il quale egli non aveva preso posizione in pubblico; non solo, ma aveva cercato di non pubblicizzare la sua amicizia con fra Paolo Sarpi, il futuro autore dell'Istoria del Concilio Tridentino; e, nonostante l'amicizia e l'affetto per Giovanfrancesco Sagredo (1571-1620), che immortalerà come uno dei personaggi del Dialogo, si era ben guardato dal proporne l'elezione all'Accademia del Lincei, probabilmente perché Sagredo si era distinto per la sua aggressiva ironia contro la Chiesa cattolica. Ma, quanto a Galileo come “cattolico praticante”, ci si sarebbe potuti limitare, per sfatare la leggenda, alla circostanza ben nota che a Padova egli frequentò per anni una donna da cui ebbe tre figli, e che non sposò mai: qualcosa che sarebbe considerato molto lontano dal comportamento di un cattolico praticante ancor oggi, e che all'epoca equivaleva a vivere in peccato mortale e con pubblico scandalo (solo in parte attenuato dalla non convivenza). Ora, però, recentemente sono emersi documenti che riguardano qualcosa di insospettato e ancora non sufficientemente valorizzato dagli studiosi: una precedente inchiesta dell'Inquisizione a carico di Galileo, risalente al 1604! Risulta che, mentre era ancora a Padova, Galileo era stato denunciato, sembra dal suo amanuense, al Sant'Uffizio, perché praticava l'astrologia (a pagamento); fra le accuse contenute nel testo della denuncia, c'è che in 18 mesi non era mai andato alla messa, se non “una volta […] per accidente”. La madre sembra che lo avesse sorvegliato e fatto 134 135 136 137 138 134 Si rischia con ciò di farlo apparire un “codardo”? È notevole che Lucien Febvre [1942, p. 17], che tale accusa muoveva agli storici che scorgevano reticenze e dissimulazioni negli scritti di Rabelais o Erasmo, scrivesse solo pochi anni dopo che in Italia la richiesta di giurare fedeltà al regime fascista, pena il licenziamento (un provvedimento grave, ma non esattamente paragonabile al carcere, alla tortura, o al rogo), era stata rifiutata - nonostante molti casi di ‘ripugnanza interiore’ - da soli (o circa) 12 docenti universitari su oltre 1200 (cfr. Goetz 1993). Quanto poi al rischio di anacronismo, “il peccato fra tutti imperdonabile” (Febvre 1942, p. 15), basterà citare un passo di una lettera di Bernegger a Keplero, dell'8 giugno 1608, con cui rispondeva alla lettera da cui è tratta l'epigrafe del presente saggio: “Non posso meravigliarmi abbastanza della follia di Giordano Bruno; che cosa ci ha guadagnato a sopportare così grandi tormenti? Se non esistesse alcun Dio vendicatore dei crimini (come egli credette), non avrebbe potuto simulare qualsiasi cosa, al fine di salvare in questa maniera la vita?” (K, II, p. 596). In effetti, come abbiamo visto (cfr. nota 102), Bruno portò avanti per quasi otto anni una strategia di parziale dissimulazione. 135 Il papa di allora, Paolo V (1605-21), protestò in questo modo perché a Venezia erano stati arrestati, per reati comuni (fra cui un omicidio), due sacerdoti; è interessante che ciò avveniva in un'epoca in cui la Chiesa cattolica trovava del tutto appropriato contare sulla collaborazione del potere civile nella persecuzione dei sospetti di eresia. 136 Biagioli 1993, pp. 250-2. 137 Non per niente gli inquisitori tornarono a più riprese nei loro interrogatori di Bruno circa le sue affermazioni riguardanti il “peccato della carne”, che egli avrebbe ereticamente ritenuto quasi veniale: e Bruno, che pure insiste sulla sua posizione eterodossa in merito a punti così delicati della fede cattolica come l'interpretazione della Trinità, non esita invece a dire di aver parlato con “leggierezza” (P, pp. 288-9) a quel proposito. 138 Poppi 1992, pp. 55-61. Chi pensi che questa negligenza non fosse poi considerata tanto grave, non ha che da aprire il Directorium Inquisitorum, dove, nella classificazione degli eretici secondo i “segni esteriori”, troviamo “coloro che non vanno spesso alla messa come è obbligo, coloro che non ricevono l'eucaristia o che non si confessano nei periodi stabiliti dalla Chiesa 44 sorvegliare sotto il profilo dell'osservanza religiosa fin da quando il figlio era adolescente a Firenze, dove era stato già convocato dal Sant'Uffizio (tanto basti anche per l'affermazione che “il problema religioso non costituiva per lui il benché minimo assillo”!). A mio parere è probabilmente per questo che, proprio a partire dal 1604, cominciano le manovre di Galileo per lasciare Padova: nonostante quanto è stato detto dai biografi circa i rischi affrontati nel lasciare la 'protezione' della repubblica veneziana, egli aveva ottime ragioni per non sentirvisi più al sicuro. Tutto ciò basta ampiamente a spiegare, a mio parere, perché Galileo non abbia mai fatto il nome di Bruno nelle sue opere, nonostante il rimprovero di Keplero nella Dissertatio cum Nuncio sidereo (K, II, pp. 501-2): non perché volesse prendere le distanze da una concezione troppo diversa dalla propria, ma per il rischio di compromettere una battaglia culturale in fondo pericolosamente simile a quella dello sventurato Nolano. In effetti Galileo tentò di fare qualcosa che a Bruno non era riuscito: mettere la Chiesa cattolica con le spalle al muro dimostrando la verità della tesi copernicana, e quindi costringendo a rinunciare all'“unanime consenso dei Padri della Chiesa” su una questione non banale di interpretazione delle Scritture. Questa era una mossa che Sant'Agostino (citato a proprio supporto da Galileo) aveva previsto come ammissibile, ma che avrebbe costituito, per la Chiesa post-tridentina, uno smacco dalle conseguenze incalcolabili. L'“argomento di Urbano VIII”, che Galileo era stato richiesto di inserire alla fine del Dialogo, era appunto destinato a impedire che una tale eventualità dovesse mai capitare: esso sosteneva che l'onnipotenza divina potrebbe realizzare un certo fenomeno per mezzo di più sistemi di cause, e non solo di quello che alla mente umana sembra il più plausibile, o anche il solo concepibile. Accettare questo argomento significava per Galileo ammettere ben più che la non conclusività di un ragionamento tecnico (quello delle maree): era la sconfitta del suo programma filosofico. È per questo che, nonostante una serie di piccole concessioni disseminate nel Dialogo, non resisté, nelle pagine finali dell’opera, a mettere l'argomento di Urbano VIII proprio in bocca al personaggio ridicolo e ‘perdente’, Simplicio. È questo atto di insubordinazione cruciale e gravido di conseguenze che va considerato, in Galileo, l'analogo della decisione di non abiurare che Bruno manifestò alla fine dei suoi otto anni di reclusione. 139 140 141 142 24. Conclusione. Spero di aver dato, nelle pagine precedenti, un'idea della straordinaria ricchezza di temi che si addensano attorno alla figura di Giordano Bruno. Il diritto alla memoria storica non si fonda, nel caso di Bruno, soltanto su una biografia avventurosa e sull'atroce violenza finale; si può anzi dire che queste abbiano talvolta ristretto la visuale da cui lo si è studiato. Come abbiamo visto, per molte delle [...]” (Sala-Molins 2000, p. 152). 139 Per inciso, anche la nota e polemica preferenza di Galileo per l’Ariosto rispetto al Tasso, il “Poeta sacro” (Dialogo, p. 463), potrebbe essere ridotta a una dimensione puramente esteticoletteraria solo con una buona dose di ingenuità (che però non ha fatto difetto ai commentatori: cfr. Geymonat 1957, p. 25). 140 Cfr. Biagioli 1993 (p. 250) che però non utilizza Poppi 1992. 141 Ciò non toglie, naturalmente, che ai grandiosi quadri teorici tipici dei filosofi della natura, Galilei volesse sostituire la paziente analisi anche dei fenomeni più ordinari, con la massima attenzione ai dettagli tecnici, senza i quali non si può arrivare a una vera “dimostrazione”. È possibile che anche a Bruno egli pensasse quando nel Dialogo (p. 436) ironizza su chi voglia limitarsi a spiegare i fenomeni del magnetismo mediante la “simpatia” e l'“odio”. 142 Come del resto è chiaro dalla rigidezza mostrata da Bellarmino nella sua lettera a Foscarini (§20). 45 problematiche affrontate nella sua opera Bruno costituisce uno snodo cruciale della storia del pensiero scientifico occidentale. Non solo, ma molto di ciò che ha detto, compresi gli errori che ha commesso, è ancora singolarmente vivo, nel senso di connettersi in profondità con questioni che, sotto diverse spoglie, sono ancora al centro delle nostre preoccupazioni. Dalla relatività del moto all'infinità dell'universo, dal determinismo alla idea di legge di conservazione, dalla logica delle interazioni fisiche ai ‘gradi del vivente’, dalle origini extraeuropee del pensiero greco alla medicina psicosomatica - sono tanti e di evidente importanza i campi in cui l'immersione nell'opera bruniana ci permette non solo di misurare i nostri reali progressi rispetto alla filosofia rinascimentale, ma anche di individuare le zone in cui la visione delle cose oggi dominante è elusiva e incerta. Inoltre Bruno ci propone un'immagine di filosofo della scienza che non si limita a rendere omaggio ai successi, veri o presunti, degli scienziati del suo tempo, ma cerca di forgiare una concezione generale del mondo da cui i contributi di costoro ricevano un senso più ampio o risultino eventualmente ridimensionati. Come abbiamo visto, c'erano anche al suo tempo scienziati come Brahe, che reagivano a questi tentativi con sufficienza e irrisione: ma solo al costo di inchinarsi all'autorità religiosa e lasciarle l'ultima parola. Più in generale Bruno ci offre l'opportunità di meditare sugli spazi che si dischiudono a un pensiero innovativo per rompere le catene delle opinioni ricevute e istituzionalmente protette. La Chiesa cattolica non costituisce più il principale nemico per la libertà del pensiero, ma altre agenzie, non meno opprimenti, ne hanno preso il posto. Il legame tra potere politico-economico e limiti imposti all'espressione del dissenso è oggi non meno ferreo che al tempo di Bruno, sebbene agisca in forme più sottili e mascherate - ed anche per questo più efficaci. Ma la strategia fondamentale della repressione intellettuale, cioè la ‘congiura’ del silenzio sulle tesi non gradite ai detentori del potere, è oggi adoperata come quattro secoli fa. Dai successi di Bruno e dal suo finale fallimento si possono raccogliere importanti lezioni per un progetto realistico di trasformazione della scienza da strumento di una tecnologia della persuasione e del disciplinamento delle masse, a forza di liberazione (certo non l’unica) dall'oppressione dei corpi e delle coscienze. 143 144 143 Giova però osservare, a sottolineare una solidarietà di fondo nei comportamenti della Chiesa attraverso i secoli - simile a quella di altre istituzioni del potere -, che sono solo pochi decenni (nel 1930) che il persecutore di Bruno e Galilei, il cardinale Bellarmino, fu proclamato santo (Barbera 1980, p. 139). 144 A proposito di Bruno, la Chiesa cattolica si guardò bene dal pubblicizzarne il caso, anche se, come testimonia l'epigrafe di questo saggio, la notizia si venne a sapere già dopo pochi anni. E tuttavia è notevole che Pierre Bayle, nella sua voce su Bruno pubblicata alla fine del secolo, dicesse di non sapere per certo se Bruno era stato mandato al rogo e, anzi, esprimesse un suo personale dubbio al riguardo (Bayle 1696, nota (D)). Dubbi riaffiorarono anche nell'Ottocento, e dovette intervenire Leone XIII a confermare, nel 1891, che l'esecuzione era stata veramente eseguita (Barbera 1980, p. 127n). Fu d’altra parte solo nel 1942 (sic!) che la Chiesa rese noto un importante documento, il “Sommario”, redatto “non prima del 1597” (e cioè durante la fase romana del processo), rinvenuto nel 1940 dal cardinale A. Mercati fra le carte del predecessore di Leone XIII, Pio IX (morto nel 1878; P, pp. 3-4). 46 Bibliografia I) Abbreviazioni Le edizioni delle opere di Bruno utilizzate sono: [OL] FIORENTINO F., TOCCO F., VITELLI G., IMBRIANI V., TALLARIGO C. M. (a cura di) 1879-91: Iordani Bruni Opera Latine Conscripta, publicis sumptibus edita, Napoli, Morano, poi Firenze, Le Monnier. [DI] GENTILE G., AQUILECCHIA G. (a cura di) 1985: Giordano Bruno, Dialoghi italiani [1925], Firenze, Sansoni. [P] FIRPO L. 1993: Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma, Salerno. Quest’ultimo testo contiene (pp. 143-358) un’edizione critica di tutti i documenti processuali pervenutici. Le singole opere di Bruno a cui ho fatto riferimento sono citate secondo le seguenti abbreviazioni, qui elencate nell'ordine cronologico delle opere (la data di pubblicazione è inserita tra [ ], mentre quella di - probabile - composizione tra < >): Cena = La cena delle ceneri [1584], in DI, pp. 3-171 De la causa = De la causa, principio e uno [1584], in DI, pp. 173-342 De l'infinito = De l'infinito, universo e mondi [1584], in DI, pp. 343-537 Spaccio = Spaccio della bestia trionfante [1584], in DI, pp. 547-831 Cabala = Cabala del cavallo pegaseo [1585], in DI, pp. 833-923 Acrotismus = Camoeracensis Acrotismus [1588] in OL, I.1, pp. 53-191 Articuli = Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos [1588], in OL, I.3, pp. 1-118 De magia, Theses de Magia = De Magia et Theses de Magia <1589-90>, in OL, III, pp. 395-491 De magia mathematica <1589-90>, in OL, III, pp. 493-506. De immenso = De Immenso et Innumerabilibus [1591], in OL, I.1, pp. 193-391 (libri 13) e OL, I.2, pp. 1-318 (libri 4-8) De vinculis = De Vinculis in Genere <1591>, in OL, III, pp. 635-700 I testi del De magia e De vinculis sono riprodotti e tradotti in Parinetto 2000. Si sono usate anche le seguenti abbreviazioni: [K] FRISCH Ch. (a cura di) 1858-71: Johannes Kepler, Opera Omnia, Francoforte ed Erlangen. [EN] FAVARO A. (a cura di) 1890-1909: Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, Firenze. 47 In particolare per il Dialogo, che appare in EN, VII, pp. 25-489, si è dato il riferimento di pagina all'Edizione Nazionale; tale numerazione è riprodotta anche in edizioni moderne (per es. Sosio 1970). II) Altri riferimenti AQUILECCHIA G. 1972: “Giordano Bruno”, voce del Dizionario biografico degli italiani, vol. 14, pp. 654-65. AQUILECCHIA G. 1991: Le opere italiane di Giordano Bruno, Napoli, Bibliopolis. AQUILECCHIA G. 1993: Schede bruniane, Roma, Vecchiarelli. 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