Dialoghi - Rivista di Studi Italici, vol. IV, 2000, n. 1/2, pp. 1-53
Marco Mamone Capria
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Giordano Bruno e la nascita della scienza moderna
Brunum Romae crematum ex Domino Wackherio didici; ait,
constanter supplicium tulisse. Religionum omnium vanitatem
asseruit, Deum in mundum, in circulos, in puncta convertit.
J. Kepler, 1608*
1. Introduzione. La vicenda intellettuale e umana di Giordano Bruno (1548-1600)
fornisce una prospettiva privilegiata da cui guardare a quel momento di trasformazioni
nella concezione del mondo in cui è nata la scienza moderna. Bruno fu filosofo in un
periodo in cui nessun ramo dello scibile esorbitava dalle competenze della filosofia, ed
entrò in numerose controversie accettando un isolamento ideologico e istituzionale che
poteva avere conseguenze personali molto serie - come di fatto accadde. E d'altra parte,
qualunque cosa si pensi del suo personale contributo alla maturazione del sapere
scientifico e filosofico moderno, il filosofo di Nola (“il Nolano”, come amava
denominarsi), portò nella battaglia delle idee un tipo di passione e, se vogliamo dire la
parola, di intemperanza che scosse l'Europa, lasciando un segno duraturo nella sua
storia culturale.
Bisogna dire che i giudizi di Bruno sono stati molto vari (già fra i suoi contemporanei,
come vedremo). L'età del positivismo, che ne celebrò il terzo centenario della morte e
gli eresse un monumento sul luogo del supplizio (la piazza romana detta Campo de'
Fiori), salutò in lui il martire della scienza e ne fece il simbolo di una accesa polemica
anticattolica. Nella famosa Storia della letteratura italiana (1870) Francesco De
Sanctis dedicò a Bruno parecchie pagine del capitolo su “La nuova scienza”, facendo da
lui partire il risorgimento ideale e, in definitiva, anche politico, del popolo italiano.
Il quarto centenario, che cade appunto in questo anno 2000, è stato invece
caratterizzato da una maggiore incertezza sul preciso posto da assegnargli nella storia
della cultura, e ciò per diverse ragioni.
In primo luogo, alla carica anticlericale di fine Ottocento si è oggi sostituita una
prudenza che si nasconde dietro la pretesa che si sia ormai ‘superata’ l'epoca delle
‘contrapposizioni ideologiche’, in particolare tra scienza e religione. Quanto ci si possa
fidare di queste dichiarazioni di avvenuto ‘superamento’ lascerò giudicare al lettore.
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Dipartimento di Matematica, via Vanvitelli, 1, 06123 Perugia. Questo articolo ha tratto origine
da una conferenza tenuta nell'aprile del 2000 presso il Liceo “Ettore Majorana” di Orvieto, che
ringrazio - in particolare nella persona del prof. Luca Umena - dell'ospitalità.
* “Che Bruno è stato bruciato a Roma l'ho appreso dal signor Wackher; ha detto che sopportò
con fermezza il supplizio. Asserì la vanità di tutte le religioni, trasformò Dio nell'universo, nei
cerchi, nei punti” (K, II, p. 596). N.B. Salvo avviso contrario: 1) le traduzioni sono mie, 2) nelle
citazioni i corsivi, le parentesi quadre, e le note sono aggiunti da me. Le abbreviazioni utilizzate
per i riferimenti alle opere di Bruno, Galilei e Keplero sono elencate nella bibliografia.
1 Il monumento fu inaugurato il 9 giugno 1889; il Papa di allora, Leone XIII, protestò contro
“l'atto sacrilego” (Sale 2000).
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Ma c'è una seconda ragione, che ci interessa di più in questa sede, ed è che gli studi
bruniani, sotto l'impulso di eminenti storici delle idee come Eugenio Garin e,
soprattutto, l'inglese Frances A. Yates, hanno a partire dagli anni Sessanta sempre più
messo l'accento sugli aspetti ‘arcaici’ del pensiero bruniano, e in particolare sul suo
legame con la tradizione ‘magica’ ed ‘ermetica’ . In effetti già prima di questi
contributi, nel 1941, lo storico delle idee Lynn Thorndike aveva sminuito l'importanza
della componente scientifica sia nel pensiero di Bruno che nelle ragioni della sua
condanna da parte dell'Inquisizione; con la tesi ‘ermetica’ si è avuto uno spostamento
di prospettiva ancora più netto: da antesignano della nuova scienza Bruno è diventato
un epigono di una falsa sapienza la quale sognava le sue radici in un Egitto leggendario
e torbido. E ciò ha portato anche a una drastica reinterpretazione del processo subìto da
Bruno. Benché gli studi citati abbiano sicuramente giovato a rinnovare l'interesse per il
nostro autore, ci si può a buon diritto domandare - come vedremo - se la sua figura non
abbia subito più ingiustizie dalla reinterpretazione ‘ermetica’ che dall'unilaterale
interesse dei positivisti per gli aspetti scientifici del suo pensiero.
In questo saggio cercherò di disegnare un profilo di Bruno filosofo della natura e della
scienza che non si riduca a un sondaggio della genuinità delle sue ‘anticipazioni’, ma
che renda almeno in parte giustizia alla complessità della sua posizione intellettuale, ed
espliciti i motivi di un interesse non puramente antiquario per essa. In particolare
vedremo che, in alcuni casi in cui le tesi di Bruno ci appaiono come ‘ovviamente’
bizzarre, la loro stranezza dà la misura della difficoltà di problemi che ancor oggi non si
possono dire risolti del tutto soddisfacentemente.
Le sezioni 2-6 sono dedicate agli aspetti più famosi di Bruno: il suo copernicanesimo,
la cosmologia dell'universo infinito, il principio di relatività; la sezione 7 riguarda poi
una questione connessa ma non altrettanto nota, cioè il rapporto conflittuale di Bruno
con la matematica del suo tempo. A questo punto comincio la discussione della tesi
‘ermetica’ (§§8-9) e passo all'altro lato della concezione del mondo bruniana, cioè il
suo animismo (§§10-11), mostrandone i collegamenti con problemi di
concettualizzazione in fisica (§12) e in biologia (§§13-14), e soffermandomi sulla
questione del fondamento del diverso giudizio moderno sui resoconti storici di eventi
prodigiosi (§15). Faccio poi vedere che la posizione di Bruno rispetto alla medicina e
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È da questo punto di vista significativo, e deprimente, che la sola discussione che si sia
sviluppata con una certa ricchezza sulla stampa italiana nell'anno 2000 a proposito di Bruno
abbia riguardato una questione di ‘appropriazione indebita’ di meriti editoriali. Il clima del
“Giubileo” cattolico, al quale hanno reso omaggio le più alte cariche politiche e istituzionali
italiane, non è stato ovviamente estraneo a questa sordina.
3 Thorndike 1923-58, vol. VI, pp. 423-8.
4 “[...] Bruno fu un intenso ermetista religioso, un credente nella religione magica degli Egizi
come è descritta nell'Asclepius, della quale profetizzò in Inghilterra l'imminente ritorno,
prendendo il Sole copernicano come un prodigio nel cielo di questo imminente ritorno. [...]
Copernico, sebbene non immune dall'influenza del misticismo ermetico del Sole, è
completamente libero dall'ermetismo nella sua matematica. Bruno spinge indietro l'opera
scientifica di Copernico fino a uno stadio prescientifico, all'ermetismo, interpretando il
diagramma copernicano come un geroglifico di misteri divini” (Yates 1964, p. 155). Vedi anche
P, p. 98.
5 Va però detto che la Yates ammise che ci furono feconde connessioni tra 'scienza' ed
'ermetismo' (cfr. in particolare il cap. 8 di Yates 1988, originariamente pubblicato nel 1967).
6 Per ragioni di spazio, ho tralasciato ogni discussione delle opere mnemotecniche di Bruno (cfr.
la classica introduzione Yates 1972).
7 Della letteratura secondaria ho trovato specialmente utili: Tocco 1889, Yates 1964,
Aquilecchia 1993, e l’analisi del processo contenuta in P.
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alla filosofia del suo tempo ha qualcosa da insegnarci (§§16-17), ed espongo la sua
critica a certi aspetti della dimensione sociale della scienza dell'epoca (§18). Dopo aver
trattato del suo atteggiamento ambivalente nei riguardi della libertà religiosa (§19),
entro brevemente (§20) nella questione del rapporto tra la sua filosofia della natura e il
processo e la condanna; in particolare, contro una tendenza oggi molto diffusa,
sottolineo come le accuse a Bruno fossero, in parte, legate al progressivo irrigidimento
della curia romana verso il copernicanesimo. Mi soffermo poi sulla ‘religione cosmica’
bruniana, per esplorare i rapporti tra la sua cosmologia e la concezione della vita (§21).
Passo poi ad alcuni aspetti dell'influenza e dell'eredità bruniane, e dopo una sintesi delle
relazioni con alcuni scienziati suoi contemporanei (§22), concentro l'attenzione su
Galileo Galilei, mostrando affinità con Bruno spesso ignorate o sottovalutate (§23).
Alcune osservazioni di carattere generale chiudono il lavoro (§24).
Ho riportato un certo numero di citazioni da Bruno stesso, per favorire un approccio
quanto più è possibile diretto a questo autore incisivo e dalla straordinaria inventiva
linguistica, capace di passare, nei dialoghi italiani, dalla commedia più irriverente alla
solennità del poema filosofico a poche pagine di distanza.
2. Bruno e Copernico. Negli anni 1583-1585 Giordano Bruno, ex frate domenicano,
fuggito dall'Italia in seguito a denunce circa sue affermazioni eterodosse e a un'accusa
di aver gettato un confratello nel Tevere, si trova a Londra ospite dell'ambasciatore
francese, il signore di Mauvissière, dietro raccomandazione dello stesso re di Francia,
Enrico III. Ad Enrico III Bruno ha impartito lezioni di arte della memoria, e ha dedicato
una delle sue prime opere sull'argomento, il De umbris idearum. Sulle vicende inglesi
abbiamo informazioni frammentarie e da fonti disparate (alcune scoperte solo pochi
anni fa), e soprattutto dalla prima delle sei opere dialogiche italiane pubblicate tra il
1584 e il 1585, che è forse anche la più famosa, La cena delle ceneri (1584). Nella
Cena Bruno racconta di una disputa che sarebbe avvenuta il 14 febbraio 1584
(mercoledì delle Ceneri, appunto) a casa di uno dei suoi amici inglesi, intorno alla
teoria copernicana. L'opera fondamentale di Copernico, il De revolutionibus orbium
caelestium, era stata pubblicata nel 1543, con tanto di dedica al papa Paolo III, ma
anche con una lettera dedicatoria che discuteva conflitti con l'ortodossia cattolica già
emersi e che sarebbero di lì a non molto esplosi (cfr. §20).
È notevole che nella Cena si trovi, tra l'altro, la prima discussione dei rapporti tra
scienza e interpretazione della Scrittura, proprio in relazione alla questione del moto
della Terra - e secondo linee che sono state più volte riconosciute essere identiche a
quelle seguite nelle sue “lettere copernicane” da Galilei stesso:
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nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le dimostrazioni e
speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma, in grazia de la nostra
mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azioni morali. Avendo dunque il
divino legislatore questo scopo avanti gli occhi, nel resto non si cura di parlar secondo
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Accusa infondata, come indicato dal fatto che, pur nota al tribunale dell'Inquisizione, fu da
questo lasciata cadere (cfr. Spampanato 1921, pp. 263-5, e Aquilecchia 1972, p. 654).
9 Qui Bruno ammette di non sapere l'inglese, ma che dei gentiluomini con cui aveva occasione di
parlare tutti sapevano “o latino o francese o spagnolo o italiano” (Cena, p. 86). Quanto alla
diffusione della lingua italiana, può essere interessante ricordare che la regina Elisabetta I, con
cui Bruno ebbe varie conversazioni, “parlava l'italiano e ‘con gli italiani’, scriveva l'ambasciatore
veneto [...] ‘non vuol mai parlare altrimenti’” (DI, p. 67, n. 2). Del resto, Bruno sottolinea
ripetutamente, contro il pedantismo dei filologi, la differenza tra competenze linguistiche e
concettuali: “anco non è che impedisca che uno ch'abbia a pena una de le lingue, ancor bastarda,
sia il più sapiente e dotto di tutto il mondo” (De la causa, p. 260; cfr. § 18).
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quella verità, per la qual non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al
bene; ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo di
maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è
principale. [Cena, pp. 120-1]
Che Galilei abbia conosciuto la Cena è ipotesi suffragata anche da diverse analogie tra
essa e il galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), a cominciare
dalla somiglianza tra il nome del pedante nella Cena (Prudenzio) e dell'aristotelico nel
Dialogo (Simplicio); avremo occasione di tornarci.
Bruno, che ha come portavoce il personaggio di Teofilo, definisce la sua concezione
della natura dichiarandosi a favore delle idee fondamentali di Copernico, ma, da un
lato, estendendole vertiginosamente e, dall'altro, indicando in “altri proprii e più saldi
principii” (p. 91) la base della sua adesione. Copernico
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aveva un grave, elaborato, solecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno
astronomo che sii avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto
al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudosso e tutti gli altri
[...]
Egli era arrivato a tanta eccellenza
per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio
dir cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica
che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier
via le radici de inconvenienti e vani principii [...] [p. 28]
Ma pur parlando anche altrove di “quel suo [di Copernico] più matematico che natural
discorso” (p. 29), Bruno rende onore all'opera di Copernico non solo qualificandolo
come “una aurora, che dovea precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera
filosofia” (Bruno qui allude a se stesso, con tipica immodestia), ma anche confutando la
pretesa contenuta nella prefazione al De revolutionibus (anonima, ma del teologo
protestante Andreas Osiander), che la teoria copernicana dovesse essere intesa soltanto
come un metodo per semplificare i calcoli astronomici. In effetti, quando, nel libro I
della sua opera maggiore, Copernico risponde “sufficientemente [...] ad alcuni
argomenti di quei che stimano il contrario”, egli “non solo fa ufficio di matematico che
suppone, ma anco di fisico che dimostra il moto della terra” (p. 90).
3. In difesa del sistema copernicano. La distinzione che Bruno traccia tra il
“matematico” e il “fisico” è essenziale per capire la natura della controversia nata
attorno alla teoria copernicana. In effetti che fosse possibile descrivere il moto della
Terra dal punto di vista del Sole non era certo cosa da sconcertare i geometri del tempo,
per non dire di quelli antichi. E neppure che una descrizione potesse essere, ai fini del
calcolo, più conveniente di un'altra. Il punto che si discuteva era invece chi, fra il Sole e
la Terra, fosse veramente fermo. L'influenza di una interpretazione diffusa, ma sviante,
di ciò che la teoria generale della relatività sarebbe riuscita a realizzare quattro secoli
dopo (1915-6), ha convinto molti esegeti che una tale disputa non aveva ragione di
essere: non aveva e non ha senso chiedersi se qualcosa è o non è ‘veramente’ in quiete.
Tuttavia una tale banalizzazione di una disputa che ha coinvolto nel corso di secoli
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Prudenzio è detto “troppo prudente” (p. 25); ciò fornirebbe una base testuale ulteriore per
l'interpretazione usuale del nome “Simplicio” nel Dialogo (“Simplicio” sarebbe allora il ‘troppo
semplice’). Vedi, per altri paralleli, Aquilecchia 1995.
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alcuni dei massimi pensatori è di per sé poco plausibile, e di fatto non valida nel caso
della disputa copernicana.
Se Copernico era da prendersi alla lettera, se cioè i pianeti orbitavano attorno al Sole
e non alla Terra, ciò era ritenuto avere conseguenze di due tipi, astronomiche e fisiche.
E se queste conseguenze non corrispondevano ai fatti osservativi, allora la teoria
copernicana andava abbandonata come descrizione letterale del sistema del mondo
(senza per questo perdere tutta la sua utilità). È su questo genere di considerazioni,
niente affatto verbalistiche, che verté l'intera controversia.
Nella prefazione “Ad lectorem de hypothesibus huius operis”, sopra menzionata,
Osiander demoliva le pretese di verità della teoria esposta da Copernico, nella maniera
più diretta, e cioè citando osservazioni astronomiche in disaccordo con essa. Infatti,
l'ipotesi eliocentrica comporta che la distanza dei pianeti interni (Venere e Mercurio)
dalla Terra debba variare considerevolmente, con una differenza massima uguale al
diametro dell'orbita del pianeta, e ciò implica a sua volta una variazione notevole del
diametro e della grandezza apparenti del pianeta visti dalla Terra. Questo, scrive
Osiander, lo capisce chiunque sappia qualcosa di geometria e di ottica. Eppure la
variazione del diametro, per esempio, di Venere, che dovrebbe essere di più di 4 volte,
di fatto non si osserva.
Lo ‘strumentalismo’ di Osiander era quindi di natura estremamente concreta: la teoria
copernicana spiega sì alcuni dati osservativi sui movimenti dei corpi celesti, ma entra in
conflitto con altri. Letteralmente parlando essa è falsa! Inoltre ha in comune con le altre
teorie astronomiche di non assegnare “le cause delle diseguaglianze apparenti dei
moti”. In generale l'astronomo si deve limitare a scegliere l'ipotesi “più facile da
capire”, mentre il filosofo
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forse richiederà piuttosto la verosimiglianza; tuttavia né l'uno né l'altro comprenderà o
insegnerà qualcosa di certo, a meno che non gli sia stato rivelato divinamente.
A questa posizione, che nega a Copernico, ma non al teologo, qualsiasi pretesa
conoscitiva, Bruno si oppone con veemenza, irridendo l’“asino ignorante e
presuntuoso”, il “bel portinaio” del De revolutionibus, che così bassamente introduce
alla partecipazione di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e
misurare e geometrare e perspettivare non è altro che un passatempo da pazzi ingeniosi.
[p. 89]
Questa è una brillante ridicolizzazione di una delle risposte oggi più comuni sul valore
delle teorie scientifiche: esse avrebbero valore in quanto ‘funzionanti’, cioè capaci di
prevedere correttamente i risultati sperimentali. Galileo Galilei, su questo punto, la
penserà esattamente come Bruno, e relegherà in fondo al suo Dialogo quell'argomento
con cui Urbano VIII faceva propria, in sostanza, la posizione di Osiander (cfr. §23).
Bisogna però ammettere che l'atteggiamento di Bruno nei riguardi dell'uso della
matematica nella scienza della natura è, nel complesso, negativo, come quando confuta
la spiegazione usuale (che è ancora la nostra) della diversa temperatura estiva e
invernale in termini dell'inclinazione dei raggi solari: sarebbe appunto una grande
sciocchezza dire
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A rigore Copernico sostiene non esattamente la centralità, ma la ‘quasi-centralità’ del Sole;
d'altro canto secondo lui il Sole è perfettamente immobile, così il suo sistema è più precisamente
‘eliostatico’ che ‘eliocentrico’.
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li raggi perpendicolari e retti esser causa di maggior caldo, e li acuti ed obliqui di maggior
freddo. Il che però è accidente del sole, vera causa di ciò, quando persevera più o meno
sopra la terra. Raggio reflesso e diretto, angolo acuto ed ottuso, linea perpendicolare,
incidente e piana, arco maggiore e minore, aspetto tale e quale son circostanze
matematiche e non cause naturali. Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con
la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno scaldar più o meno il fuoco, ma le
vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore. [Cena, p. 148]
La distinzione qui tracciata non sembra coerente: non si vede, infatti, perché lo stare il
Sole più a lungo a minore distanza da un punto della Terra sia una condizione meno
‘geometrica’ del suo mandare i raggi secondo un certo angolo. L'aspetto interessante
della critica è, a mio avviso, più generale: il rifiuto di considerare come adeguata
spiegazione di un fatto fisico una mera relazione funzionale fra grandezze misurabili,
non importa se confermata dall'esperienza. In altre parole, a una genuina spiegazione
fisica Bruno chiede che si conformi a principi plausibili di filosofia naturale. Questa
esigenza - oggi per lo più considerata ‘ingenua’, ma sulla quale attualmente manca, a
mio parere, un'adeguata riflessione storico-critica - sarà condivisa da quegli
antinewtoniani, fra cui Leibniz, i quali non si accontenteranno del successo predittivo
della legge dell'attrazione universale, ma ne pretenderanno una interpretazione
meccanica.
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4. Le dimensioni apparenti dei pianeti e l'epiciclo lunare. Bruno replica in dettaglio
alla confutazione osservativa del sistema copernicano avanzata ‘in limine’ da Osiander.
Comincia obiettando che dalle dimensioni apparenti di un oggetto non si può dedurre la
distanza, perché bisognerebbe prendere in considerazione anche la sua luminosità
intrinseca. Ma da questa corretta considerazione trae un completo scetticismo sulla
relazione tra dimensioni e distanza dall'osservatore, anche per uno stesso corpo la cui
luminosità possa ritenersi costante (che è appunto il caso di Venere nel ragionamento di
Osiander). Neanche la tesi di Eraclito e poi di Epicuro (e Lucrezio) che le dimensioni
apparenti dei corpi celesti sono proprio quelle reali sarebbe confutabile sulla base di
ottica e geometria, in quanto quei corpi
se per la distanza perdessero la grandezza, a più raggione perderebbero il colore, e certo,
dice [Epicuro], non altrimente doviamo giudicare di que' lumi, che di questi, che sono
appresso noi. [Cena, p. 93]14
Come si vede, Bruno adotta il principio che nel discutere questioni di fisica che
riguardano i corpi celesti ci si possa rifare a ciò che si constata sulla Terra; e in effetti
cita diverse esperienze di visione di fuochi, i quali non riducono la propria grandezza
apparente nella proporzione in cui aumenta la loro distanza dall'osservatore. Da qui
Bruno prosegue con una digressione spericolata su varie questioni di ottica, che gli ha
meritato ingenerosi, ma non infondati, rimproveri. In particolare cerca di confutare la
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Almeno grossolanamente, per quanto riguardava, all'epoca, la temperatura.
In questo senso, com'è noto, Newton stesso non fu un ‘newtoniano’.
14 Il riferimento epicureo è a Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 91, oltre che al V libro (vv.
564-91) del De rerum natura di Lucrezio, citato da Bruno (p. 94). È da notare che anche Plotino
(Enneadi, II, 8, 2) ha obiezioni alla valutazione della grandezza dei corpi distanti mediante
l'ottica geometrica.
15 In relazione proprio alle considerazioni di ottica che seguono, uno storico francese della
matematica, il Libri, ha affermato che Bruno “sembra aver abbracciato a priori il sistema di
Copernico per mezzo di una specie di intuizione, perché era tutto fuorché un matematico: le sue
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dimostrazione della maggior grandezza del Sole rispetto alla Terra tratta dalla
limitatezza del cono d'ombra proiettato da questa. Il punto chiave della ‘confutazione’ è
che, dato che una sorgente puntiforme, posta davanti a una sfera, illumina una calotta
sferica maggiore via via che se ne allontana, essa dovrebbe illuminare, da una distanza
abbastanza grande, anche più di un emisfero! Tale bizzarro argomento è associato con
una dottrina fisico-matematica che ha in Bruno radici più profonde, cioè quella del
minimo (cfr. §7).
Resta tuttavia il fatto che, effettivamente, la luminosità dei corpi può ingannare circa
la loro grandezza, e che dalla uguaglianza della grandezza visiva niente si può dedurre
sulla distanza: in questo la parte dell'argomentazione bruniana derivata dall'esperienza è
corretta. Della stessa questione si occupò Galilei nella Terza Giornata del Dialogo,
dove, avvalendosi delle nuove osservazioni ottenute con il cannocchiale, e dell'assunto
che le esperienze di osservazioni terrestri siano estrapolabili ai corpi celesti, potrà dire
che l'invarianza delle dimensioni visive di Venere portata da Osiander come
confutazione della teoria copernicana era in effetti un'illusione ottica:
In questo ci ha gran parte l'impedimento del nostro occhio stesso, [...] dal quale gli oggetti
risplendenti e lontani non ci vengono rappresentati semplici e schietti; ma ce gli [= li]
porge inghirlandati e di raggi avventizii e stranieri, così lunghi e folti, che il lor nudo
corpicello ci si mostra ingrandito 10, 20, 100 e mille volte più di quello che ci si
rappresenterebbe quando gli si levasse il capellizio [= la capigliatura] radioso non suo.
[Dialogo, p. 363]
Di conseguenza l'effetto indicato da Osiander si rivela, oltre mezzo secolo dopo, come
una conferma della tesi copernicana!
Allo stesso modo Bruno insiste sul fatto che la non visibilità di alterazioni della
posizione relativa delle stelle fra loro non dipende dal fatto che queste siano veramente
‘fisse’, ma solo dalla loro lontananza:
E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesma equidistanza
da noi e tra loro; ma perché il lor moto non è sensibile a noi. Questo si può veder in
essempio d'una nave molto lontana, la quale, se farà un giro di trenta o di quaranta passi,
non meno parrà che la stii ferma, che se non si movesse punto. Cossì, proporzionalmente,
è da considerare in distanze maggiori [...] [Cena, p. 145]
Come dice ancora Bruno, variazioni della posizione delle stelle fisse non sono mai state
trovate perché una tale scoperta necessitava di “lunghissime osservazioni”, e queste
non sono state cominciate, né perseguite, perché tal moto nessuno l'ha creduto, né
cercato, né presupposto; e sappiamo che il principio dell'inquisizione è il sapere e
conoscere, che la cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quello si cave profitto. [p.
145]
Queste considerazioni metodologiche sono estremamente ‘moderne’ e appropriate, e
permettono anche di chiarire in che senso i meriti di Bruno nell'abbracciare (e
procedere oltre, come vedremo) la teoria copernicana non si debbano ricercare,
nemmeno in linea di principio, solo nel fatto che egli abbia contribuito a ‘dimostrarla’.
In effetti, senza una preliminare scommessa a favore della plausibilità di una teoria opere racchiudono gli errori più singolari in geometria” (DI, pp. 97-8, n.1). Ora, mentre gli
errori sono innegabili, non vale la conseguenza che l'adesione di Bruno al sistema copernicano
non sia stata argomentata, e anche con buone ragioni.
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scommessa che va peraltro difesa e argomentata, come Bruno fece - questa non
potrebbe mai crescere fino a mostrare la sua forza.
Ma Bruno sapeva veramente in che cosa consisteva la teoria copernicana? Alcuni
critici l'hanno messo in dubbio a partire da un momento del IV dialogo della Cena, in
cui scopriamo che Bruno riteneva che, secondo Copernico, la Terra si muovesse
sull'epiciclo lunare, il quale quindi non sarebbe geocentrico. Questa interpretazione
erronea, sia del testo, sia della figura che si trovano nel De revolutionibus, nasce,
curiosamente, da un'esigenza empirica: quella di spiegare come mai il diametro solare
visibile dalla Terra subisce variazioni (Cena, p. 140). Ora, è chiaro che la conoscenza
dell'astronomia matematica da parte di Bruno non era paragonabile a quella dei
(peraltro pochissimi) contemporanei in grado di seguire passo per passo le
dimostrazioni di Copernico. Va però notato che nella teoria copernicana, il caso
Terra/Luna è singolare: di tutti gli astri, a parte il Sole, soltanto la Terra è centro di
rivoluzioni di altri pianeti. Questa stranezza, che la lettura - sbagliata - di Bruno avrebbe
il merito di rimuovere (o meglio, di sostituire con un'altra stranezza!), fu avvertita
anche da Galileo, il quale la nota come qualcosa che addirittura “par che alteri in guisa
l'ordine, che lo renda inverisimile e falso” (Dialogo, p. 361). Come sappiamo, la
difficoltà sarà risolta da Galileo stesso quando, trent'anni dopo la memorabile serata
bruniana, scoprirà quattro delle “lune” di Giove.
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5. Il principio di relatività. Poiché la Terra è tonda - dice Copernico nel cap. 8, libro I
della sua opera principale - perché non attribuire ad essa “quella mobilità che si addice
per natura alla sua forma [mobilitatem illi formae suae a natura congruentem]”,
piuttosto che all'universo, del quale né sappiamo né possiamo sapere quali confini
abbia?
E [affermiamo] che le cose stanno come le descriverebbe l'Enea virgiliano, quando dice:
Provehimur portu, terraeque urbesque recedunt.17
Poiché in una nave fluttuante in tranquillità [sub tranquillitate], tutto ciò che è al di fuori è
visto dai naviganti muoversi secondo l'immagine di quel moto, e viceversa essi ritengono
di essere in quiete con tutto ciò che hanno con sé. Così, non c'è da meravigliarsi se nel
moto della Terra può accadere che tutto l'universo sia stimato girare.
È interessante che precisamente lo stesso argomento era stato presentato, un secolo
prima (1438-40), da Nicola Cusano nel De docta ignorantia (II, 12):
Ormai a noi è chiaro che codesta Terra in verità si muove, sebbene a noi ciò non appaia.
Infatti non ci rendiamo conto [apprehendimus] del moto se non per un certo confronto
con qualcosa di fisso. Se infatti qualcuno ignorasse lo scorrere dell'acqua e non vedesse le
rive, stando in una nave nel mezzo dell'acqua, in che modo si renderebbe conto che la
nave si muove? E perciò, poiché a chiunque, che si trovi sulla Terra o sul Sole o su altra
stella, pare sempre di essere al centro, come [quasi] immobile, e che tutte le altre cose si
muovano, egli certamente determinerebbe poli diversi se stesse sul Sole, sulla Terra, sulla
Luna e su Marte, e così delle altre [stelle]. Quindi la macchina del mondo sarà come se
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Non c'è dubbio che anche le ricerche di un grandissimo scienziato come Keplero risentono
della sua visione neopitagorica del cosmo in una misura che certamente influenzò i suoi obiettivi
teorici.
17 “Partiamo dal porto, terre e città indietreggiano” (Eneide, III, 72).
8
avesse il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, poiché la sua circonferenza
e centro è dio, che è dappertutto e in nessun luogo.18
Come si vede, per Cusano è la natura relativa di ogni moto, come noi lo conosciamo,
che impedisce a chi è sulla Terra di accorgersi che la Terra, in realtà, si muove.
Copernico sposta l'accento, sia pure di poco, dalla ‘logica’ del moto e dalla prospettiva
visiva, alla fisica in senso proprio, richiedendo che la navigazione sia tranquilla. Ma il
progresso compiuto da Bruno nella Cena, che pure cita “il divino Cusano” come suo
predecessore (Cena, p. 91), è evidente quando prende in esame l'obiezione classica,
derivata dal De caelo (II, 14) di Aristotele, per cui
19
sarebbe impossibile che una pietra gittata a l'alto potesse per medesima rettitudine
perpendicolare tornare al basso; ma sarrebbe necessario che il velocissimo moto della
terra se la lasciasse molto a dietro verso l'occidente.
Questa conseguenza non vale, risponde Bruno, ponendo immediatamente il parallelo tra
il moto della Terra e quello di una nave, e facendo la necessaria distinzione tra i due
sistemi di riferimento impliciti nell'argomento: essendo infatti il lancio della pietra
dentro la terra, è necessario che col moto di quella si venga a mutar ogni relazione di
rettitudine ed obliquità: perché è differenza tra il moto della nave e moto di quelle cose
che sono nella nave. Il che se non fusse vero, seguitarebbe che, quando la nave corre per il
mare, giamai alcuno potrebbe trarre [= lanciare] per dritto qualche cosa da un canto di
quella a l'altro, e non sarebbe possibile che un potesse far un salto e ritornare co' piè onde
le [= li] tolse. [p. 116]20
Analogamente se dalla cima dell'albero di una nave qualcuno getta verticalmente una
pietra,
quella per la medesma linea ritornarà a basso, muovasi quantosivoglia la nave, pur che
non faccia degl'inchini. [p. 117]
C'è qui lo stesso paragone della Terra con la nave che verrà utilizzato da Galilei in una
celebre pagina del Dialogo, che presenta la più nota formulazione galileiana del
principio di relatività. Si noti che Bruno non si fa sfuggire la condizione cruciale che il
moto debba essere uniforme, appena accennata da Copernico, e che Galilei formulerà
un po' più precisamente con l'espressione: “pur che il moto sia uniforme e non
fluttuante in qua e in là” (Dialogo, p. 213). Bisogna però notare che Bruno insiste, con
18
La famosa comparazione (per la cui storia si può vedere DI, pp. 321-2, n. 2) è utilizzata anche
da Bruno: “possiamo affermare che l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per
tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la
circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella” (De la
causa, p. 321). I curatori tedeschi dell’edizione del De docta ignorantia da me utilizzata
rinviano, per un precedente impiego dell'esempio della nave, a Guglielmo da Conches, nel XII
secolo (Wilpert, Senger 1994, vol. II, p. 133, n. 159). In realtà lo troviamo già in Lucrezio, in
una lista di illusioni dei sensi (De rerum natura, IV, 387-90), e in Cicerone (Academica, II, 25).
Il primo manoscritto del De rerum natura fu scoperto nel 1417, la prima edizione a stampa
apparve nel 1479; gli Academica erano noti già a Petrarca (Schmitt, Skinner 1988).
19 Il nome “Nolano” con cui Bruno amava farsi chiamare è chiaramente esemplato su “Cusano”.
20 “È Giordano Bruno che, in un senso quasi moderno, precisa il concetto di sistema meccanico
o di solido di riferimento” (Tonnelat 1971, p. 30).
9
le stesse parole di Cusano, anche su un punto di vista più generale, quello secondo cui il
moto - ogni moto - dovrebbe essere inteso solo in senso relativo:
come han notato gli antichi e moderni veri contemplatori della natura e come per
esperienza ne [= ci] fa manifesto in mille maniere il senso, non possiamo apprendere il
moto se non per certa comparazione e relazione a qualche cosa fissa: perché, tolto uno che
non sappia che l'acqua corre e che non vegga le ripe, trovandosi in mezzo l'acqui entro una
corrente nave, non arrebe [= avrebbe] senso del moto di quella. Da questo potrei entrare in
dubio ed essere ambiguo di questa quiete e fissione; [...] [De l'infinito, p. 447]
C'è dunque un conflitto fra l'esistenza di precise condizioni empiriche che rendono il
moto di un sistema non rivelabile dal suo interno, e l'esigenza logica di concepire il
moto come essenzialmente relativo. Le discussioni su questo difficile problema
proseguiranno per secoli e, a mio parere, neanche oggi si può dire che siano arrivate a
una soluzione del tutto soddisfacente.
21
22
6. Oltre Copernico: l'universo infinito. La visione del mondo di Bruno non si
esaurisce però nella difesa del copernicanesimo. Copernico era rimasto cautamente al
di qua di un vero e proprio discorso cosmologico, rinviando all'indagine dei fisici la
questione della finitezza o infinità del mondo. L'argomento fondamentale con cui
Bruno argomenta a favore dell'infinità dell'universo è che è assurdo ammettere un
“primo efficiente”, come faceva la metafisica aristotelica, il quale sia infinito ma che
non si esplichi attraverso un effetto infinito. E all'obiezione che non si vedrebbe perché
la “maggiore e minore mole di dimensioni” sia un elemento atto a determinare l'azione
divina, Filoteo, portavoce di Bruno nel dialogo De l'infinito, universo e mondi, replica
che la “dignità” è non “della dimensione o della mole corporea”, ma “delle nature e
specie corporee”,
23
perché incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza
infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però [= perciò], bisogna che di un
inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si
trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. [p. 377]
Infatti,
perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? [...] perché
deve essere frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che
possono essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebe più
risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere infinito,
immenso? [p. 381]
Inoltre, dato che “è bene che questo mondo sia” (p. 374), è lecito chiedersi:
Qual raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può fare un buono infinito, lo
fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in
lui il possere ed il fare tutto uno? [p. 383]
21
La stessa oscillazione è rilevabile in Galileo (cfr. Dialogo, pp. 140-1).
Una raccolta di interventi che danno un'idea dello stato dell'arte è in Barbour, Pfister 1995.
23 “Sive igitur finitus sit mundus, sive infinitus, disputationi physiologorum dimittamus [...]”
(Copernico 1543, lib. I, cap. 8).
22
10
Qui tocchiamo uno dei punti cruciali in cui la posizione di Bruno anticipa, senza alcun
rischio di ‘anacronismo’, quella di Spinoza (1632-77), il quale però non lo citerà mai.
Ma la difesa della sua cosmologia involge Bruno in una articolata confutazione delle
obiezioni aristoteliche contro l'infinità del mondo. Per esempio, contro la tesi dell'ottava
sfera come confine del mondo, Bruno afferma che, ammessane l'esistenza:
24
Io credo ed intendo che oltre quella margine immaginata del cielo sempre sia eterea
regione, e corpi mondani, astri, terre, soli; e tutti sensibili absolutamente secondo sé ed a
quelli che vi sono o dentro o da presso, benché non sieno sensibili a noi per la lor
lontananza. [p. 430]
Ma, in primo luogo, l'ottava sfera, se si abbandona la prospettiva geocentrica, è
appunto solo “immaginata” - è un'illusione ottica, dovuta all'enorme distanza. In
secondo luogo, il fatto che noi non possiamo vedere oltre una certa distanza non ha un
particolare significato: i limiti dei nostri sensi non riescono a distinguere neanche quella
parallasse stellare che pure, su basi teoriche, i copernicani devono ammettere; del resto
Bruno ha già messo in chiaro, preliminarmente, che “l'infinito non può essere oggetto
del senso” (p. 369).
Guardando alla questione con il senno di poi, ciò che colpisce nella posizione
aristotelica è, paradossalmente, l'audacia concettuale di rifiutare la naturale obiezione
alla finitezza dell'universo, già formulata dal pitagorico Archita di Taranto nel IV sec. a.
C., e poi ripresa da Lucrezio (I, 968-83): se l'universo è finito, che cosa succede se si va
fino ai suoi confini e si lancia una freccia o si stende una mano? Dove va la freccia o la
mano? Aristotele sventa questa possibile confutazione definendo il 'luogo' in modo che
la domanda risulti priva di significato. Secondo la sua definizione (Physica IV, 212 a),
infatti, il ‘luogo’ di qualcosa è “il termine [peras] di ciò che lo contiene”: è allora
evidente che non può esserci un ‘dove’ al di là dell'ultima sfera. A ciò Bruno oppone
innanzitutto una difficoltà logica: stando alla definizione aristotelica, l'ultima superficie
sarebbe ‘luogo’ con il suo lato concavo (interno), ma non con il lato convesso (esterno);
inoltre, anche se si accetta questa definizione di luogo, non si riesce a capire come ci
possa essere una superficie che delimiti l'intero universo e che abbia al di fuori
(letteralmente) nulla - il non essere. Naturalmente un aristotelico potrebbe replicare che
il ‘nulla’ non è ‘al di fuori’, se non in un senso logico (il nulla come complementare
insiemistico del tutto). Ma l'unico senso in cui Bruno riesce ad accettare il ‘nulla’ è di
concepirlo come vuoto: “non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l'universo
25
26
27
24
È interessante che il padre Mersenne, che pure scrive un libro dedicato in gran parte a
confutare Bruno (De l'impiété des déistes, athées et libertins du temps, del 1624), pochi anni
dopo mostra di accettare l'argomento fondamentale di Bruno, pur dissimulando la sua
approvazione: “Quanto a Giordano, sebbene si serva di fondamenti cattivi, nondimeno è
abbastanza probabile che il mondo è infinito, se può esserlo. Infatti, perché volete che una
causa infinita non abbia un effetto infinito? Una volta ho avuto altre dimostrazioni contro ciò,
ma è facile dissolverle” (lettera del 10 aprile 1632, cit. in Ricci 1996, p. 32).
25 Il passo di Lucrezio è citato da Bruno nel De infinito, p. 348 e all'argomento risponde il
‘pedante’, l'aristotelico Burchio (p. 371).
26 Cfr. Bruno: “Aristotele ha definito il loco [...] come una superficie di continente corpo” (De
l'infinito, p. 372).
27 Per Koyré [1957, p. 43] la critica di Bruno ad Aristotele è “erronea, naturalmente”; secondo
me, invece, è Koyré che travisa il testo di Bruno, a cui attribuisce “la convinzione del tutto
erronea che essendo questa 'superficie più interna' una concezione puramente matematica, essa
non può opporre resistenza al movimento di un corpo reale”. In realtà questa affermazione non si
trova affatto in Bruno (cfr. p. 373, che è probabilmente alla base dell'interpretazione di Koyré).
11
finito” (p. 373), e da questo punto in poi il discorso procede in una direzione nettamente
fisica. In particolare Bruno, per arivare alla sua dottrina degli infiniti mondi, assume il
principio di omogeneità e isotropia: da qualunque punto e in qualunque direzione si
osservi, l'universo ha lo stesso aspetto. Come scriverà nel De immenso:
Abbiamo detto spesso che nell'universo infinito, secondo la verità della cosa, il centro è
ovunque: pertanto non importa se siamo qui o altrove, per vedere lo stesso aspetto delle
cose intorno a noi: come la faccia di quegli astri a cui ci avviciniamo cresce, così anche
diminuisce quella di questi da cui ci allontaniamo. [...] cosicché non c'è nell'universo un
punto che, rispetto ad altri, non sia centro, polo, zenith, nadir, tropico, e qualsiasi altro di
tal genere. [IV, p. 32]
È questo il principio fondamentale anche della moderna cosmologia relativistica, dove
è usuale chiamarlo ‘principio copernicano’: ma, dato che né Copernico, né - come
vedremo (§22) - il massimo astronomo copernicano, cioè Keplero, hanno mai sostenuto
niente del genere, penso che un nome più giusto sarebbe principio bruniano.
Ora, è chiaro che la teoria aristotelica non è internamente contraddittoria, e che le
argomentazioni bruniane contro di essa cercano solo di mostrarne la ‘stranezza’ - la
difficoltà di immaginarla. Non c'è nulla di assurdo nel concepire l'universo come una
sfera piena, o come una boccia aperta (cioè una sfera piena senza la superficie esterna).
In entrambi i casi, però, l'obiezione di Archita si può riproporre: che succede se, da una
distanza di qualche braccio dalla frontiera del mondo, si scaglia una freccia verso di
essa? Questa non è - di nuovo - un'obiezione logica, ma certamente pone una difficoltà
tecnica: il cosmo aristotelico, infatti, è profondamente non omogeneo e non isotropo, e
quindi è certamente giustificato chiedersi quali leggi fisiche valgono se ci si pone in un
certo punto e si studia una certa direzione.
Per evitare di dover dare spiegazioni su questo punto, gli aristotelici avrebbero potuto
cambiare la geometria del cosmo, e immaginare le proprie sfere bidimensionali come
sezioni parallele di una ipersfera tridimensionale. In tal modo l'universo sarebbe stato
finito, ma non limitato (cioè non avrebbe avuto ‘confini’), e tutti i suoi punti, e tutte le
direzioni uscenti da un certo punto, sarebbero stati equivalenti. In effetti il concetto di
ipersfera non era al di là dei mezzi concettuali degli aristotelici - prova ne sia che lo si
trova adombrato in Dante Alighieri! Ma si tratta di un'anticipazione senza sviluppi, un
tentativo, fatto da un poeta di eccezionale ingegno, di esprimere l'indicibile
(l'avvicinamento a Dio). Curiosamente, per Bruno sarebbe stato possibile arrivare a una
tale concezione sfruttando la cusaniana “coincidentia oppositorum” tra circonferenza di
raggio infinito e retta, e cioè interpretando lo spazio ordinario come il caso limite di
una ipersfera; ci sono nei testi bruniani formulazioni che sembrano sfiorare proprio
questa idea. La possibilità concettuale di distinguere in maniera matematicamente
rigorosa tra finitezza e limitatezza del mondo, e così di eludere l'argomento di Archita,
si darà però solo dopo il 1854, anno in cui Bernhard Riemann lesse la sua celebre
conferenza “Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria”: è in essa che,
probabilmente per la prima volta, la possibilità di una geometria 3-dimensionale
analoga a quella della sfera ordinaria fu chiaramente enunciata e discussa.
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29
28
Nel canto xxviii del Paradiso. Per una discussione recente della questione vedi Egginton
1999.
29 Per esempio: “Di tutte le cose l’infinito è in massimo grado sferico, anzi, è di per sé la sfera
per eccellenza [Infinitum maxime omnium est sphaericum, immo est per se ipsissima sphaera];
una superficie interminata è il più vero dei circoli, e d’altro canto il corpo interminato, che esista
(come crediamo) o che sia supposto, è necessariamente una sfera e accetta [suscipit] la vera
definizione di sfera” (Articuli, p. 22).
12
7. Contro i matematici. Nell'opera di Bruno l'attenzione nei confronti della matematica
è presente e viva, ma è molto diversa da quella di Galilei, che farà di questa disciplina
l'organo della filosofia naturale: si tratta di un'attenzione al tempo stesso affascinata e
fortemente critica. È senza dubbio notevole che le ultime opere scritte da Bruno prima
dell'arresto siano di carattere geometrico (le Praelectiones geometricae e l'Ars
deformationum).
Troviamo diagrammi geometrici un po' in tutte le opere di Bruno, anche là dove meno
ce le aspetteremmo, come nello Spaccio (pp. 755-9), in cui è proposta una 'soluzione'
del problema della quadratura del cerchio, ispirata a un analogo tentativo di Cusano. A
Cusano, e alla sua dottrina della “coincidenza degli opposti” fa riferimento molta della
‘matematica’ bruniana, affascinata dall'identificazione tra circonferenza di raggio
infinito e retta, boccia di raggio infinito e spazio, minima corda e minimo arco ecc. (cfr.
§6). Trovo le critiche di Bruno alla matematica del suo tempo – sulle quali i
commentatori sono stati generalmente severi - più interessanti che i contributi con
intenzioni ‘costruttive’: esse infatti mostrano la problematicità delle nozioni che i
matematici stavano faticosamente eleborando e dell’applicazione di queste all’indagine
fisica.
Uno dei temi che ispirano la sua ostilità è la trattazione aristotelica del continuo, di
cui tratta nel Camoeracensis Acrotismus, del 1588. Bruno contesta che il continuo non
sia composto di indivisibili, almeno da un punto di vista fisico. Nella sua discussione si
scontra con difficoltà che lasceranno perplessi parecchi grandi matematici, fino alla
seconda metà dell’Ottocento, circa la possibilità di confrontare gli insiemi infiniti: se un
segmento e la sua metà sono entrambi divisibili all'infinito, come possono avere un
diverso numero di parti? Eppure è evidente che il segmento doppio deve avere un
numero doppio di parti. Si dovrà dire che il segmento minore è egualmente divisibile
ma ha meno parti del maggiore? La soluzione bruniana è che
30
31
Esiste un qualche termine indivisibile alla divisione fisica [naturae dividenti], il quale non
si divide in altre parti quando la divisione sarà arrivata ad esso; e se la ragione e la
matematica, senza alcuna conseguenza pratica o uso, ma solo al fine di una vana
contemplazione, volesse assumerlo infinitamente divisibile, faccia come crede. [...] Ed è
necessario che un individuo aggiunto a un individuo faccia una somma maggiore, poiché
gli individui sono corpi fisici, non vane specie dei matematici. [Acrotismus, p. 154]
Con la sua teoria del minimo, Bruno può affermare, negli Articuli del 1588, che “tutte
le grandezze sono commensurabili”, e “la ragione del continuo segue necessariamente
la ragione del discreto”. I geometri non si rendono conto delle assurdità in cui cadono
quando affermano che il loro minimo (il punto) “è ciò che non ha parti”, perché con ciò
essi stanno affermando “espressamente che la misura che essi riconoscono è nulla”. È
chiaro che queste considerazioni bruniane mettono in evidenza diversi aspetti
problematici della definizione del continuo e della misura associata ad esso. La
conclusione a cui è arrivata la matematica odierna giustifica ampiamente la sensazione
di paradossalità avvertita da Bruno: in breve, l'unico modo ‘ragionevole’ per far sì che i
punti della retta reale abbiano misura nulla, senza che per questo anche la misura di
32
30
Vedi per es. Tocco 1889, p. 412.
Questo titolo curioso dovrebbe significare, pressappoco, “conferenza a[l collegio di]
Cambrai” (che si trovava a Parigi); cfr. Tocco 1889, p. 107.
32 Sviluppata in uno dei tre ‘poemi’ del 1591, il De Triplici Minimo et Mensura.
31
13
qualsiasi sottinsieme della retta sia nulla, è di accettare che ci siano sottinsiemi non
misurabili.
Connessa alla questione del minimo è l’interpretazione del contatto tra corpi: che
vuol dire che due corpi ‘si toccano’? Se significasse che hanno il punto di contatto in
comune, allora essi formerebbero un singolo continuo, e non sarebbero più due; per
evitare questa conclusione, Bruno propone che tra le due superfici tangenti ci sia in
realtà uno spazio vuoto atomico. (Come in tanti altri casi, il lettore che volesse valutare
questa proposta bruniana dovrebbe prima tentare di fornire una sua soluzione al
problema!).
Bruno critica la geometria sferica, e anche la trigonometria del suo tempo, rea di
misurare gli angoli con i segmenti, e quindi di utilizzare un'unità di misura
disomogenea. Qui c'è sicuramente un fraintendimento degli scopi della trigonometria,
ma è altresì chiaro che Bruno è travagliato da una insoddisfacente definizione di
‘misura’. In effetti, è vero che nessun segmento può ‘misurare’ una circonferenza, se
ciò vuol dire che un segmento non è mai sovrapponibile a un arco di circonferenza;
mentre un arco di circonferenza può ‘misurare’ una circonferenza (dello stesso raggio!).
Ma come si farà a ‘misurare’ una figura curvilinea arbitraria? Bruno riteneva
inaccettabile il dare misure approssimate, ed è chiaro che alla base di queste resistenze
c’era la mancanza di una precisa nozione di limite (e in definitiva di numero reale). Si
tratta di problemi che resteranno fonte di confusione per secoli; nel 1710 Leibniz potrà
parlare del continuo come di uno dei “due labirinti famosi in cui la nostra ragione molto
spesso si perde”. Vale infine la pena di ricordare che la misura degli angoli pone
problemi peculiari, e non è facile ancor oggi presentarla con la dovuta precisione
nell’insegnamento elementare (una funzione di misura degli angoli, nel senso in cui
esiste per i segmenti, non è definibile).
Sul piano dei rapporti tra matematica e fisica è infine notevole l'insistenza di Bruno
circa l'impossibilità che una forma si realizzi perfettamente nella materia; così una sfera
perfetta non può esistere, ma non può esistere neanche una sfera ‘imperfetta’, se
nondimeno la sua forma è intesa nel senso geometrico ideale; tale dottrina deriva dai
“platonici”, i quali sostennero, “non del tutto male”, che “nessuna forma è veramente
nella materia, [...] né il vero uomo, né il vero cavallo”. Pertanto
33
34
35
36
Il geometra da nessuna parte troverà il vero punto e la vera linea, anzi (se è saggio), non
crederà nemmeno che esistano, a meno che non li definisca diversamente da come lo sono
comunemente. [De immenso, III, p. 362]
Allo stesso modo, “la sfericità che conviene agli astri non è esatta geometricamente, o a
regola di matematica, ma secondo le differenze convenienti ai corpi fisici” (Acrotismus,
p. 168). Come si vede, se Bruno qui accentua il divario tra matematica e mondo fisico,
d’altro canto concede alla matematica una sua autonomia, seppure di basso profilo
filosofico (cfr. la “vana contemplazione”). Questa concezione si può contrapporre a
quella galileiana, secondo cui il contrasto tra l’‘astrattezza’ della matematica e il
33
Precisazione tecnica: questo è vero sotto l'ipotesi che la funzione di misura sia
numerabilmente additiva (e della validità dell'assioma della scelta). Se ci si limita a richiedere la
finita additività, allora si può misurare ogni sottinsieme della retta, ma la funzione di misura non
è unica (teoremi di Vitali, Ulam, Tarski ecc.).
34 Bruno cita Democrito a suo supporto (cfr. Tocco 1889, pp. 155-7).
35 Cfr. Articuli, p. 22. Ma su questo punto Bruno oscilla (cfr. Tocco 1889, p. 164).
36 Essais de Théodicée, “Préface”.
14
‘concreto’ della materia può essere interamente ricomposto, senza residui, dallo
scienziato sagace: basterà che “difalchi gli impedimenti della materia”.
37
8. La falsa antichità di Ermete Trismegisto. A questo punto ci proponiamo di
discutere una questione a cui si accennava all'inizio (§1). Secondo la citazione ivi data
(in nota), Yates affermò che Bruno aveva “interpreta[to] il diagramma copernicano
come un geroglifico di misteri divini”, e così aveva “spin[to] indietro l'opera scientifica
di Copernico”. Bruno sarebbe stato affascinato, come del resto molti altri pensatori del
Rinascimento, dal ruolo svolto dal culto solare nei misteriosi testi del Corpus
Hermeticum. Uno di questi, forse il più famoso, l'Asclepius, era circolato in traduzione
latina (la sola versione, peraltro, che ci è pervenuta), durante il Medio Evo. Altri trattati,
di temi e forma diversi, largamente incoerenti gli uni con gli altri, erano stati tradotti da
Marsilio Ficino nel 1463-4 e interpretati come la testimonianza di un'antichissima
sapienza religiosa egiziana, contemporanea a, se non addirittura precedente, quella
ebraica del Pentateuco; e come la paternità di questi libri della Bibbia era attribuita a
Mosè, così l'autore del Corpus fu identificato nel sapiente egiziano Ermete Trismegisto,
“contemporaneo di Mosè”. Bruno, secondo la Yates, si sarebbe creduto l'erede di
quella ipotetica antichissima tradizione, dotata di una forte componente magica, e
avrebbe accolto il copernicanesimo come simbolo del suo ritorno. Ne segue che si
sarebbero sbagliati di grosso gli studiosi che avevano collegato l'adesione al
copernicanesimo alla sia pure imperfetta intuizione, da parte di Bruno, della sua verità
scientifica. Per giunta, lo statuto privilegiato attribuito ai trattati ermetici si fondava su
un equivoco: lungi dall'appartenere a un'antichità così remota, essi risalivano a tempi
ben più recenti. La straordinaria sintonia con alcuni elementi della filosofia pitagorica,
platonica e cristiana era semplicemente da attribuirsi alla loro provenienza da ambienti
culturali neoplatonici e gnostici! Questa scoperta fu merito dell'erudito olandese Isaac
Casaubon, che la pubblicò nel 1614: troppo tardi perché Bruno potesse trarne profitto ammesso che ciò fosse quanto egli sarebbe stato pronto a fare se ne fosse venuto a
conoscenza. Insomma: da un banale errore di datazione avrebbe preso le mosse un
movimento di pensiero gravido di conseguenze per la storia culturale europea, e di cui
Bruno fu il rappresentante più insigne.
Alla luce di quanto abbiamo detto nelle sezioni precedenti, che cosa si può dire di
questa suggestiva e straordinariamente fortunata ricostruzione? Pur non volendone
negare il fascino e anche, fino a un certo punto, la pertinenza, a me pare nel complesso
insoddisfacente.
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40
“Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino sopra i
zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre
bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in
astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro
che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori
dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel
calcolatore, che non sa fare i conti giusti” (Dialogo, p. 234).
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Come recita l'iscrizione in margine alla tarsia marmorea raffigurante “Hermes Mercurius
Trimegistus” (sic), che si trova sul pavimento del duomo di Siena, e che risale a (circa) il 1482.
39 Yates 1964, cap. XXI. La Yates, che descrive Bruno come tanto convinto del proprio ruolo di
messìa ermetico da sfiorare la follia (p. 339), immagina appunto che egli avrebbe probabilmente
sottovalutato, come fece Campanella, la scoperta di Casaubon (p. 402).
40 La ‘banalità’ consiste nel fatto che le tecniche di critica testuale impiegate da Casaubon erano
ben note alla filologia umanistica (Yates 1964, pp. 401-2).
15
In primo luogo, come abbiamo visto, la difesa del copernicanesimo operata da Bruno
nella Cena, e ancor più nel De l'infinito, nell’Acrotismus e nel De immenso, non si
riduce certo alla dimostrazione della sua armonia con un certo credo più o meno
religioso. Bruno affronta le possibili obiezioni astronomiche e fisiche cercando di
provarne l'erroneità, e in ciò mostra intuizione e vigore, nonostante qualche, anche
considerevole, abbaglio. D'altra parte, l'andare oltre Copernico, con la concezione di un
universo infinito costellato di infiniti mondi, non poteva essere fondato empiricamente:
non poteva e non lo può neanche oggi. Anche la cosmologia contemporanea dipende,
ineludibilmente, dalla posizione preliminare di principii generali, i quali si possono
argomentare solo su basi filosofiche (cfr. §22).
In secondo luogo, è chiaro che la sola evidenza disponibile a favore dell'ipotesi
copernicana, nel 1584, era di natura negativa: cioè la sua capacità di opporre
ragionevoli controargomentazioni alle difficoltà avanzate dagli aristotelici. Anche
Galilei non riuscirà a dare una soddisfacente dimostrazione dei moti della Terra. È solo
all'inizio del Settecento - bisogna ricordarlo - che, con l'effetto dell'aberrazione stellare
scoperto da Bradley nel 1727, si ha la prima vera conferma empirica della tesi
copernicana (o più precisamente del moto orbitale della Terra: cioè che la Terra ha una
velocità di traslazione non nulla rispetto alle stelle fisse).
Infine, non è neppure tanto chiaro che Casaubon avesse ragione nel dedurre, dagli
anacronismi (di contenuto e di stile) presenti negli Hermetica, che essi, e in particolare
l'Asclepius, non potessero tramandare elementi genuini dell'antica religione egiziana!
Che il mitico Ermete Trismegisto non ne fosse l'autore poco o nulla autorizzava a
concludere su questo punto, di gran lunga il più importante. In realtà era la
divinizzazione della natura e il culto solare che Bruno aveva ritenuto i capisaldi della
religione egiziana, e su ciò è plausibile che gli Hermetica non lo trassero in inganno.
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9. Chi è amico dell'antichità? La questione cruciale è però un'altra: è vero che Bruno
avrebbe ritenuto l'antichità di una certa filosofia come una misura della sua validità?
Chiaramente la tesi della Yates si fonda in buona parte proprio sul presupposto che a
questa domanda si possa dare una risposta positiva: infatti, in caso contrario, la
supposta antichità degli Hermetica avrebbe al più avvalorato, ma non certo potuto
fondare, l'adesione a tesi filosofiche ‘ermetiche’, come quella sulla mobilità della
Terra.
Ora, per rispondere a questa domanda non occorre andare troppo lontano. In effetti,
abbiamo già visto che nella Cena Bruno considera Copernico come il nunzio del ritorno
del “sole de l'antiqua vera filosofia” (p. 29), e qui il qualificativo “vera” è già di per sé
una preziosa indicazione. Ma poche pagine dopo troviamo una dichiarazione molto più
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O ‘ideologiche’, come hanno scritto due noti esperti dell'argomento: “[...] non siamo capaci di
costruire modelli cosmologici senza qualche mescolanza di ideologia” (Hawking, Ellis 1973, p.
134).
42 Questa fu appunto, nel 1678, la posizione di Ralph Cudworth, fra i principali “platonici di
Cambridge” (Yates 1964, pp. 430-1), sposata da Bernal 1991, p. 162, ai cui capp. II e III rinvio
per un'affascinante sintesi del destino della “sapienza egizia” dal Rinascimento al XVIII secolo.
43 “È chiaro che il Corpus [Hermeticum] contiene materiale scritto durante un lungo periodo, dal
VI sec. a. C. al II sec. d. C. Malgrado la sua relativa tardità, è estremamente [overwhelmingly]
probabile che il Corpus contenga parecchi concetti religiosi e filosofici che sono molto più
antichi e che sia fondamentalmente egiziano. Le influenze iraniane e caldee sono state
menzionate sopra. Ci sono anche indubbie influenze greche, almeno nei testi più tardi. Credo,
comunque, che queste siano difficili da mettere in luce perché la filosofia greca pitagorica e
platonica era così pesantemente dipendente dalla religione e pensiero egiziani” (Bernal 1991,
pp. 144-5).
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esplicita in uno dei passi più celebri dell'intera opera bruniana, quando il pedante,
Prudenzio, afferma di non volersi allontanare “dal parer de gli antichi, perché, dice il
saggio, nell'antiquità è la sapienza”. A ciò Teofilo/Bruno replica:
E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che
dal vostro fondamento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi
siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel
che appartiene in certi giudizii, come in proposito. [p. 39]
E dopo una lista di astronomi (Eudosso, Calippo, Ipparco, Menelao, Albategno, e infine
Copernico), ognuno dei quali avrebbe tratto profitto dall'esperienza dei predecessori,
soggiunge, memorabilmente:
ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei
che furon prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi, non ha però più sale,
questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel
che è peggio, vissero morti questi e quelli negli anni proprii. [p. 41]
Tuttavia Prudenzio non si arrende e insiste di essere “amico de l'antiquità”; allora
Teofilo ridicolizza la sua posizione come segue:
Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto
che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme
al vostro cervello,44 fu quella dei caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima
memoria, conforme al nostro capo; da' quali prima si ribbellorno questi insensati e vani
logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo
dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa
esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come notò il vostro Aristotele.
[p. 41]
E dopo un'interruzione Teofilo prosegue dichiarando che “tanto è aver riguardo alle
filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte” (p.
43): ciò che conta è se siamo nel giorno o nelle tenebre, il che si può giudicare “a la
grossa da' frutti de l'una e l'altra specie di contemplazione”; quanto a questo, basta
notare che i sostenitori della dottrina a cui si rifà Bruno erano
nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi, ne la
divinazione singolari, ne la magia miracolosi, ne le superstizioni providi, ne le leggi
osservanti, ne la moralità irreprensibili, ne la teologia divini, in tutti gli effetti eroici; come
ne mostrano lor prolungate vite, i meno infermi corpi, l'invenzioni altissime, le adempite
pronosticazioni, le sustanze per lor opra trasformate, il convitto pacifico de que' popoli,
gli lor sacramenti inviolabili, l'essecuzione giustissime, la familiarità de buone e protettrici
intelligenze ed i vestigii, ch'ancora durano, de lor maravigliose prodezze. [p. 44]
In altre parole, è chiaro che per Bruno l'aspetto più qualificante della dottrina di cui
aveva assunto l'eredità era la sua efficacia spirituale e operativa: e ciò aveva ben poco a
che fare vuoi con la sua antichità, vuoi con l'esatta datazione delle opere che ne
conservavano il ricordo. Naturalmente è vero, come risulta dall'ultima citazione, che
Bruno credeva nelle testimonianze storiche sull'efficacia, e sperava di poter riprodurre
le “maravigliose prodezze” di quegli adepti; a tale proposito anche solo l'ultima
citazione mostra che il suo autore credeva nell'efficacia della magia. Ma prima di
44
Cioè quella aristotelica.
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arrivare a discutere questo tema, che in effetti occupa un posto considerevole nell'opera
di Bruno, è bene entrare nell'analisi della concezione della natura di cui fa parte.
10. La concezione del mondo. Il problema di fondo nella filosofia di Bruno è quello
dei rapporti tra materia e vita, e tra corpi e anime; e, come ci si può aspettare, la
soluzione adottata reagisce in profondità con le sue prese di posizione riguardanti altri
articoli della filosofia della natura.
Aristotele, nel suo trattato Sull'anima (II, 1-3), aveva proposto di interpretare l'anima
come forma del corpo, privandola quindi di autonomia e sostanzialità, e aprendo la
strada alle interpretazioni averroistiche che ne negavano la sopravvivenza individuale.
Inoltre, aveva distinto tre tipi di anima: la vegetativa, la sensitiva, e la razionale, in
corrispondenza con i tre mondi del vivente: le piante, gli animali, e gli esseri razionali.
Nonostante le frequenti invettive antiaristoteliche, Bruno si riallaccia, in parte, a
questa dottrina, ma nei termini della distinzione di origine neoplatonica tra l'Uno,
l'intelletto universale, e l'anima del mondo. L'universo è concepito come la moltitudine
di forme individuali nel loro avvicendarsi nella materia; l'anima del mondo è ciò che
imprime nella materia le forme, secondo la “diversità di complessioni” della materia; e
l'Intelletto è la facoltà dell'Anima che la rende depositaria e amministratrice di tutte le
forme possibili. L'Uno si può pensare come la coesistenza di queste realtà, nonché la
potenza assoluta identificabile con la divinità. Dato il ruolo della materia, che assume
via via tutte le forme possibili, non appagandosi di nessun assetto se non
provvisoriamente, non stupisce che a volte Bruno sembri dare ad essa una sorta di
primato. Dire però che così facendo egli adotta una posizione ‘materialista’ non aiuta
molto: l'accento posto da Bruno è piuttosto sulla simbiosi tra la materia e l'attività
razionale organizzatrice delle sue forme.
L'ordine dell'universo, sia come legalità fisica sia come ingegneria delle forme, non
può “attribuirsi al caso, né ad altro principio che non sa distinguere e ordinare” (De
l'infinito, p. 385), ed ecco perché si deve ammettere, per Bruno, l'intelletto universale.
Qui vediamo applicato un principio accordato da diverse scuole filosofiche: la causa
non può essere essenzialmente dissimile dall’effetto, e in particolare ‘inferiore’. Si
tratta di un principio dall'apparenza innocua, ma che ha conseguenze sorprendenti se
‘inferiore’ viene interpretato in maniera tale che ciò che non è razionale si possa
considerare 'inferiore' a ciò che lo è. Se si ammette questa interpretazione, infatti, ne
segue che la causa degli esseri razionali (ciò che li produce) deve essere anch'essa
almeno altrettanto razionale. Questo è, in sostanza, il famoso “argomento del progetto”,
che è una delle cinque vie tomistiche per la dimostrazione dell'esistenza di un dio, ma
aveva trovato un'eloquente esposizione (e confutazione) già nel De natura deorum di
Cicerone.
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Cabala, p. 885. La nozione di ‘anima del mondo’ risale a Platone (Timaeus, 34 B-C), fu fatta
propria dagli stoici, e poi recuperata dai neoplatonici, da cui Bruno la riprese.
46 Cfr.: “[...] un giorno discorrendo lui [Bruno] di questa materia, disse che Dio havea tanto
bisogno del mondo quanto il mondo di Dio, e che Dio non sarebbe niente se non vi fosse il
mondo, e che per questo Dio non faceva altro che crear mondi nuovi” (P, pp. 267-8).
47 Nella Logique ou l'art de penser di Port-Royal, testo capitale della filosofia del Seicento,
troviamo il seguente “assioma”: “Tutta la realtà o perfezione che è in una cosa si ritrova
formalmente o eminentemente nella sua causa prima e totale”. Una variante più umile di questo
principio è che “la causa e l'effetto devono più o meno rassomigliarsi”, una delle massime sulla
causalità che ancora nel 1912 Bertrand Russell giudicava “niente affatto estinta” e di cui
criticava l'utilizzazione teologica, analoga a quella descritta sopra (Russell 1917, p. 181).
18
L'altra possibile opzione teorica, oggi più diffusa, è rifiutare il principio suddetto e
assumere che proprietà della materia completamente nuove possano a un certo punto
emergere. Questa dottrina ha un suono di ovvietà quando si pensa che caratteristiche
come lo stato liquido sono, appunto, proprietà di insiemi di atomi che non esisterebbero
in una condizione in cui la materia fosse tutta disgregata: in altre parole, lo stato liquido
è un esempio di proprietà emergente. Ciò stabilisce certamente una differenza rispetto
al naturalismo bruniano, in quanto non ci si potrà aspettare, prima del raggiungimento
di una certa soglia di complessità, alcun grado di psichismo. Da un altro punto di vista,
però, non direi che la differenza sia così profonda. Infatti, una materia che permette la
nascita del ‘nuovo’ è una materia governata da leggi che contemplano questa
possibilità. E ammettere ciò significa accettare qualcosa di abbastanza simile al
connubio tra Intelletto e Anima del mondo, cioè all'efficacia formativa delle idee
contenute nell'Intelletto - e che noi vediamo realizzate nella materia come leggi e
strutture fisiche.
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11. L'animazione universale. Ma Bruno non si ferma qui. Da che cosa inferiamo che
un certo essere individuale è razionale? Dal suo comportamento, evidentemente. E che
cosa significa, per noi, che un certo comportamento è razionale? Che in esso riusciamo
a scoprire un'attività regolare ed autonoma (su quest'ultimo punto torneremo in §12).
Ebbene, quali corpi esibiscono più magnificamente una tale attività? La risposta, data
nell’antichità da più autori, e in particolare dagli stoici, è: i corpi celesti. Da questo
ragionamento segue, allora, che i corpi celesti hanno un'anima razionale. Bisogna poi
considerare che la Terra genera e sostenta la vita, e che se si accetta l'analogia dei corpi
celesti con essa, si ha che tutti fanno altrettanto. Per Bruno, come per molti dei suoi
contemporanei, la generazione spontanea è un dato di fatto, che egli estende, in una
certa misura, anche agli esseri umani. A questo punto l'applicazione del principio
suddetto porta con sé che i corpi celesti sono veri e propri animali razionali: in effetti,
data la perfezione dei loro movimenti, sono divinità visibili (e la Terra è uno di questi):
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Cfr. Popper, Eccles 1977, cap. P3, sez. 19.
Cfr. il De natura deorum di Cicerone (libro II).
50 Cfr. un passo ironico dello Spaccio: “Oltre che le generazioni de gli uomini si trovano in
diversi continenti non al modo con cui si trovano tante altre specie d'animali usciti dal materno
grembo de la natura, ma per forza di transfretazione [= attraversamento di mari] e virtù di
navigazione, perché, verbigrazia, son stati condotti da quelle navi che furono avanti che si
trovasse la prima; [...]” (p. 797). Vedi anche la denuncia di Mocenigo al Santo Uffizio: “come
nascono gl'animali brutti [= bruti] di [= dalla] corrutione, così nascono anco gl'huomini, quando
doppo i diluvii ritornano a nasser” (P, p. 144). Naturalmente Bruno negò, davanti agli
inquisitori, di aver mai sostenuto qualcosa di simile (p. 187).
51 Cfr. nella Cena: “Muovensi dunque la terra e gli altri astri secondo le proprie differenze locali
dal principio intrinseco, che è l'anima propria. - Credete, disse Nundinio, che sii sensitiva
quest'anima? - Non solo sensitiva, rispose il Nolano, ma anco intellettiva; non solo intellettiva,
come la nostra, ma forse anco di più. - Qua tacque Nundinio, e non rise” (pp. 109-10). La
ragione per cui Nundinio, l'interlocutore aristotelico, stavolta non ride, non doveva essere
estranea al fatto che “non è filosofo di qualche riputazione, anco tra' peripatetici, che non voglia
il mondo e le sue sfere essere in qualche modo animate” (p. 239). Nel De magia mathematica, la
tesi viene ripresa e ampliata: “Perché infatti dovremmo negare che la terra e l'acqua vivano,
quando generano da sé, vivificano, nutrono, e fanno crescere innumerevoli piante e animali? In
che modo la vita deriverebbe da cose che non vivono? [Quomodo a non viventibus vita?] In che
modo ciò che non vive produrrà la vita?” (p. 497).
52 Questa espressione è nel Timeo (40 D) di Platone.
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questi magnifici astri e lampeggianti corpi, che son tanti abitati mondi e grandi animali ed
eccellentissimi numi, che sembrano e sono innumerabili mondi non molto dissimili a
questo che ne [= ci] contiene; [...] [De la causa, p. 229]
In ultima analisi tutte le cose, secondo Bruno, in quanto hanno una forma, “hanno in sé
anima, hanno vita, secondo la sustanza e non secondo l'atto ed operazione conoscibile
da' peripatetici tutti, e quelli che la vita e anima definiscono secondo raggioni troppo
grosse” (p. 242). C'è qui una sorta di inversione della tesi aristotelica: se per Aristotele
l'anima è – riduttivamente - la forma del corpo, per Bruno - amplificativamente - ogni
corpo, in quanto ha una forma, deve pure avere un'anima.
12. Come interagiscono i corpi. Come abbiamo visto, per determinare il grado di
sviluppo dello psichismo in ogni dato corpo bisognerà entrare nel merito del suo
comportamento. Precisamente in che cosa consisterebbe la razionalità del
comportamento degli astri, o di corpi ordinariamente considerati inanimati? Perché la
regolarità dei loro movimenti dovrebbe di per sé sembrarci meritevole di tanto onore?
La visione che Bruno eloquentemente presenta è quella di
uno spacio infinito, regione infinita, selva infinita, capacità infinita di mondi innumerabili
simili a questo, i quali cossì compiscono i lor circoli, come la terra il suo; e però
anticamente si chiamavano 'ethera', cioè corridori, 53 corrieri, ambasciadori, nuncii della
magnificenza dell'unico altissimo, che con musicale armonia contemprano l'ordine della
constituzion della natura, vivo specchio dell'infinita deità. [Cena, p. 146]
E a questo punto è chiarita la ragione per cui gli astri sono posti così in alto nella catena
dell'essere: il loro moto deve avere un principio intrinseco, “perché non è sufficiente il
liquido e sottile aria [sic] a muovere sì dense e gran machine”, e così non avviene per
contatto, cioè non deriva né da trazione né da impulso. In ciò i corpi celesti sono
assimilabili a certi oggetti terrestri di dimensioni molto minori, noti fin dall'antichità, e
le cui proprietà costituiscono uno dei principali fondamenti empirici delle parti a prima
vista più stravaganti della filosofia della natura di Bruno e di altri autori rinascimentali:
il magnete, l'ambra, e tutti quei corpi (non importa se vivi o non vivi nel senso
ordinario del termine) che apparentemente attraggono o respingono altri corpi, senza
visibile contatto. Ma che cosa mai può significare che un corpo ne attrae un altro?
(Dove sono le corde?) L'animismo bruniano permette di risolvere elegantemente questa
difficoltà teorica, che avrebbe costituito, più di un secolo dopo, uno dei principali
motivi di contrasto nella disputa tra Leibniz e i newtoniani:
54
Però la intendeno a rovescio quei che dicono, che la calamita tira il ferro, l'ambra la
paglia, il getto55 la piuma, il sole l'elitropia; ma nel ferro è come un senso, il qual è
53
Questa etimologia bizzarra risale al Cratilo di Platone (410 B) e ad Aristotele (De caelo, I, 4);
cfr. DI, p. 13n. L’etimologia moderna (da aithein, ‘bruciare’, ‘abbagliare’) è citata come quella
più comune, e approvata insieme all’altra, nel De immenso (III, p. 377).
54 Per questa ragione non è una buona confutazione di Bruno l'argomento con cui Voltaire, in
un'opera del 1777, ridicolizza una posizione che attribuisce ai pensatori greci: “I Greci [...] si
sono indegnamente presi gioco del genere umano, quando da una parola greca che significava
correre, hanno fatto dei theoi, degli dei che corrono. I loro pretesi filosofi [...] hanno preteso
che corridori come Marte, Mercurio, Giove, Saturno, erano dèi immortali perché corrono
sempre e sembrano muoversi da sé. Avrebbero potuto, con lo stesso argomento, dare la divinità
ai mulini a vento” (Dialogues d'Evhémère).
55 “Smalto composto di ghiaia e calcina” (DI, p. 147, n.1).
20
svegliato da una virtù spirituale, che si diffonde dalla calamita, col quale si muove a
quella, la paglia a l'ambra; e generalmente tutto quel che desidera ed ha indigenza, si
muove alla cosa desiderata, e si converte in quella al suo possibile, cominciando dal voler
essere nel medesmo loco. [p. 147]
In altre parole, il ferro si muove perché sente il desiderio di avvicinarsi alla calamita.
Così Bruno ritorna a Talete. È una concezione a prima vista molto strana, ma in effetti
non tanto distante da quella che sarebbe una descrizione verbale della stessa situazione
nella moderna teoria dei campi: in ambedue i casi il ferro reagisce a ciò che è nel suo
immediato intorno. Quanto al ruolo di queste idee negli immediati sviluppi della fisica
del magnete, ne dovremo riparlare (§23).
Un secondo ordine di fenomeni in cui avviene qualcosa che non si può attribuire al
contatto tra corpi era anch'esso noto fin dall'antichità: le maree, e vari altri fenomeni
legati ai ritmi di crescita delle piante e degli animali. Questi, benché empiricamente
collegati al ciclo lunare, non possono essere provocati dalla Luna, perché - di nuovo niente può muovere qualcos'altro a distanza; né sembrano potersi spiegare in termini di
un desiderio, per esempio, dell'acqua di allontanarsi dalla Terra. La spiegazione
bruniana è che si tratta di un accordo tra l'ordine dei fenomeni terrestri e le fasi lunari:
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Da questo considerar, che nulla cosa si muove localmente da principio estrinseco senza
contatto più vigoroso della resistenza del mobile, depende il considerare quanto sii
sollenne goffaria e cosa impossibile a persuadere ad un regolato sentimento, che la luna
muove l'acqui del mare, caggionando il flusso in quello, fa crescere gli umori, feconda i
pesci, empie l'ostreche e produce altri effetti; atteso che quella di tutte queste cose è
propriamente segno, e non causa. ‘Segno’ ed ‘indizio’, dico, perché il vedere queste cose
con certe disposizioni della luna, ed altre cose contrarie e diverse con contrarie e diverse
disposizioni, procede da l'ordine e corrispondenza delle cose, e le leggi d'una mutazione
che son conformi e corrispondenti alle leggi dell'altra. [p. 147]
C'è qui in embrione l'occasionalismo e la teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz,
utilizzata però per spiegare i fenomeni fisici di azione a distanza, piuttosto che l'accordo
tra le sensazioni delle diverse anime, o monadi. Quando i filosofi della natura dopo
Bruno vorranno eliminare l'anima dalla scena del mondo, per confinarla nella interiorità
della coscienza umana, si troveranno a dover spiegare tutti gli eventi fisici con l'azione per usare le parole di Bruno - per “contatto di dui corpi almeno, de' quali l'uno con
l'estremità sua risospinge e l'altro è risospinto” (p. 146): è il sistema di Descartes, che
non sarà privo, peraltro, di tensioni e incoerenze legate proprio a questa sua
autolimitazione programmatica, e che sarà presto soppiantato da quello newtoniano.
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13. Le statue egizie. Ma fino a che punto l'anima delle cose può essere equiparata a
quella umana? Attribuire ai pianeti un'anima è solo un modo poetico di descrivere la
56
Cfr.: “Consideresi dunque che, come il maschio se muove alla femina e la femina al maschio,
ogni erba e animale, qual più e qual meno espressamente, si muove al suo principio vitale, come
al sole e altri astri; la calamita se muove al ferro, la paglia a l'ambra e finalmente ogni cosa va a
trovar il simile e fugge il contrario” (Cena, p. 109).
57 La seguente formulazione è ancora più vicina: “La ragione per cui un magnete attrae secondo
il genere è un certo consenso formale e un certo efflusso materiale delle parti, che esiste da tutti
i corpi verso tutti [i corpi]” (Theses, p. 470).
58 Cfr. Cicerone, De divinatione, II, 33-4.
59 Per inciso, ‘monade’ è un termine che Leibniz deriva da Bruno, che ad esso intitolò anche
un'opera (il De monade, numero et figura, del 1591).
21
“musicale armonia” delle loro evoluzioni celesti? Se Descartes negherà l'anima alle
bestie, l'empirismo inglese arriverà a vedere come un problema di difficile soluzione
addirittura l'attribuzione di un'esperienza soggettiva ai nostri simili. L'animismo
rinascimentale è invece, per sua natura, audace. Una volta riempito il mondo di attività
spirituale, si presentano insospettate possibilità di intervenire nello svolgersi degli
eventi comunicando con le anime che presiedono ai diversi fenomeni naturali. Il mondo
di Bruno è un mondo dove tutto ha un'anima, tutto è pieno di spiriti e demoni: ma,
appunto, proprio perché tutto ne è pieno, non c'è da averne paura; anzi, il concetto
fondamentale è che
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essendo il spirto o anima o forma universale in tutte le cose, da tutto si può produrre
tutto. [De la causa, p. 243]
e sta all’“uomo saggio con la capacità di agire”, cioè al mago, escogitare la maniera di
effettuare le trasformazioni desiderate. A questo proposito egli si troverà, rispetto ai
demoni, nella stessa condizione in cui siamo noi se cerchiamo di farci capire dalle
aquile (o dagli eventuali extraterrestri): dovrà scoprire un linguaggio simbolico, fatto di
immagini, suoni, gesti ecc., comprensibile a lui e al suo interlocutore.
A questo proposito le testimonianze sull'Egitto leggendario di Ermete Trismegisto
raccontavano delle “maravigliose prodezze” dei loro maghi (cfr. §10), e in particolare
di statue magiche. In un passo dello Spaccio della bestia trionfante Bruno tradusse, dal
dialogo Asclepius (§8), il lamento sulla decadenza della religione egiziana, in cui si
parla appunto delle operazioni di queste statue (è Ermete Trismegisto che si rivolge ad
Asclepio):
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Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di spirito, che fanno tali e degne
operazioni? Queste statue, dico, prognosticatrici di cose future, che inducono le
infirmitadi, le cure, le allegrezze e le tristizie, secondo gli meriti ne gli affetti e corpi
umani? Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo, e per dir meglio, la
colonia de tutte cose che si governano ed esercitano nel cielo? A dir il vero, la nostra terra
è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato
religioso cultore della divinitade [...] O Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente
rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future [...] [Spaccio, pp. 784-5]
Si tratta di un brano di grande suggestione, in cui si profetizza l'avvento di un periodo di
tenebre e di disordine, di rovesciamento dei valori, al quale farà seguito una serie di
catastrofi che restituiranno infine al mondo l'“antico volto”. Ma qui ci interessa
soprattutto il riferimento alle statue animate. Di queste, oltre che il dialogo ermetico
tradotto da Bruno, parlano diversi autori neoplatonici, in particolare Giamblico, Proclo,
Psello, e in particolare si discute della maniera di costruirle: nell'Asclepio si dice che
queste statue sono cave e che in esse si introducono immagini consacrate a cui, per
mezzo di erbe, gemme, aromi, sono stati legati demoni: in tal modo si può dire, con un
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È il problema delle “altre menti”, ancor oggi ampiamente dibattuto nella filosofia
anglosassone.
61 Dei demoni, come esseri intermedi tra l'uomo e la divinità, parlò Platone nel Simposio; una
fortunata operetta, nota anche a Bruno, che riassumeva l'opinione ormai consolidata sulle loro
classi e principali proprietà, fu scritta dal filosofo bizantino Michele Psello, nell'XI secolo.
62 “A philosophis ut sumitur inter philosophos, magus significat hominem sapientem cum virtute
agendi” (De magia, p. 400)
63 Cfr. De magia, p. 412.
64 Cfr. Yates 1964, cap. 2.
22
rovesciamento della relazione stabilita dalla Bibbia, che “l'uomo è creatore di dèi [sic
deorum fictor est homo]”.
Tutto ciò può apparirci oggi come una pura superstizione, ma in un universo in cui
tutto può comunicare con tutto, purché si trovi il codice appropriato, lo è di meno:
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gli animali e le piante son vivi effetti di natura; la qual natura (come devi sapere) non è
altro che dio nelle cose.
[gli Egizi adorarono] in forme de vive bestie, vive piante, vivi astri, ed inspiritate statue
di pietre e di metallo (nelle quali non possiamo dir che non sia quello che è più intimo a
tutte le cose, che la propria forma di esse) [...] la deità una e semplice ed absoluta in se
stessa, multiforme ed omniforme in tutte le cose; [...] [Spaccio, pp. 776, 794-5]
D'altra parte è un fatto che nel Cinquecento (e anche prima e dopo, naturalmente)
troviamo persone di cultura che affermano di aver fatto esperienze che le confortano in
tali credenze. Per esempio, un personaggio concreto e realista quanto pochi altri,
Francesco Guicciardini, l'autore della celebre Storia d'Italia, in uno dei Ricordi (scritti
per uso privato, e stampati postumi nel 1576 a Parigi), scriveva:
Io credo di poter affermare che gli spiriti siano; dico quella cosa che noi chiamiamo
spiriti, cioè di quelli aerei che dimesticamente parlano con le persone, perché n'ho visto
esperienza tale che mi pare esserne certissimo.67
E anche Bruno racconta, nel De magia, episodi accaduti a lui stesso quando ancora
viveva a Nola, e che attribuisce all'azione di demoni. Parlare di un diverso criterio di
evidenza, figlio di una diversa ‘mentalità’ fra gli uomini del Rinascimento e noi,
sarebbe, a mio parere, ben poco illuminante: perché pensatori scettici che, di fronte ai
resoconti sulle statue profetiche, le mettevano in dubbio o le interpretavano come frodi,
c'erano stati fin dall'antichità. È anzi interessante che anche alcuni padri della Chiesa
ipotizzarono l'esistenza di trucchi con cui gli astuti sacerdoti pagani potevano aver
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Su questo tema è molto utile e ricca di citazioni l'appendice II di Dodds 1951 (pp. 283-311).
Anche se la devozione cattolica (e non solo) è ancor oggi piena di statue che lacrimano,
operano miracoli ecc. Che esse vincolino uno spirito grazie alla propria virtù è, tutto sommato,
secondario.
67 E prosegue dicendo: “Ma quello che siano e quali, credo che lo sappia sì poco chi si persuade
di saperlo quanto chi non vi ha punto di pensiero. Questo, e el predire el futuro, come si vede
fare talvolta a qualcuno o per arte o per furore, sono potenze occulte della natura, o vero di
quella virtù superiore che muove tutto: palesi a lui [sic], segreti a noi, e talmente che i cervelli
degli uomini non vi aggiungono [= non ci arrivano]” (Ricordi, n. 211). Una suggestiva
esposizione della teoria neoplatonica degli spiriti si trova nel dialogo Il messaggiero (1580-7) di
un illustre contemporaneo di Bruno, Torquato Tasso.
68 “Anche a me accadde di vederli [i demoni] presso i monti Libero e Lauro, né soltanto a me,
ma frequentemente appaiono agli abitanti di quel luogo, ai quali talvolta sono dannosi (sebbene
non tanto), sottraendo e nascondendo bestie, che poi rimettono nelle stalle qualche giorno dopo.
[...] nei dintorni di Nola e presso il tempio di Porto in un luogo solitario, e anche sotto una rupe
ai piedi del monte Cicada, che fu in passato cimitero degli appestati, io (e molti altri) ne ho fatto
esperienza passando nottetempo, raggiunto da molte pietre che, per lo più sfiorando il capo e
altre parti del corpo e inseguendomi per un bel pezzo, non causarono tuttavia alcuna lesione del
corpo, né a me né agli altri che attestano lo stesso caso. Psello li ricorda nel libro ‘Sui demoni’,
chiamandoli lucifugi, lanciatori di pietre, i cui lanci sono tuttavia a vuoto” (De magia, p. 431).
Michele Psello in effetti scrive: “I demoni sotterranei sono soliti anche assalire con sassi i
viandanti con colpi particolarmente deboli: per questo è possibile evitarli” (Pizzari 1989, p. 66).
66
23
illuso i propri fedeli: naturalmente non portarono lo scetticismo fino ad infirmare
l'attendibilità di racconti analoghi presenti nella Bibbia. Inoltre, prima di attribuire a
Bruno un grado di credulità eccessivamente alto, bisognerebbe ricordare che nella sua
prima opera, la commedia Candelaio, pubblicata a Parigi nel 1582, egli aveva messo in
scena due truffe, una operata da un ciarlatano proprio ai danni di un uomo che si affida
all'arte magica per avere successo con una cortigiana, e l'altra da un sedicente
alchimista che cita fra le sue autorità anche “Mercurio Trimegisto”.
Bisogna poi rendersi conto che le virtù delle statue egizie non erano, tutto sommato,
molto più sorprendenti della connessione tra ciclo lunare e certi fenomeni terrestri, o
delle virtù dei magneti: non solo, ma c'erano anche altri fenomeni, del tutto comuni, in
cui accadeva qualcosa di difficile da spiegare. Per esempio, come mai le pietre preziose
hanno la capacità di influire sull'umore degli uomini? Esse,
rotte e recise e poste in pezzi disordinati, hanno certe virtù di alterar il spirto ed ingenerar
novi affetti e passioni ne l'anima, non solo nel corpo. E sappiamo noi che tali effetti non
procedeno, né possono provenire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si
riferiscono a principio simbolico vitale e animale; oltre che il medesimo veggiamo
sensibilmente ne' sterpi e radici smorte, che, purgando e congregando gli umori, alterando
gli spirti, mostrano necessariamente effetti di vita. Lascio che non senza raggione li
necromantici sperano effettuar molte cose per le ossa de' morti; e credeno che quelle
ritegnano, se non quel medesmo, un tale però e quale atto di vita, che gli viene a proposito
a effetti straordinari. [De la causa, p. 243]
Come si vede, c'è qui una serie di esempi che vanno dal plausibile all'assurdo, con la
porta lasciata aperta anche alle follie dei negromanti. Ciò che li accomuna è l'idea che
gli effetti sulla psiche (“ingenerar novi affetti e passioni”), che indubbiamente possono
essere provocati da tutti quei procedimenti, debbano riferirsi “a principio simbolico
animale e vitale”. L'argomento si fonda, evidentemente, sul postulato, sopra richiamato,
per cui la causa non può essere inferiore all'effetto (cfr. §10); è proprio da ciò che si
inferisce l'esistenza di uno spirito universale (cioè l'anima del mondo) che
si trova in tutte le cose, le quali, se non sono animali, sono animate; se non secondo l'atto
sensibili d'animalità e vita, son però secondo il principio e certo atto primo d'animalità e
vita. [p. 243]
Questa teoria può sembrare oggi estremamente bizzarra e primitiva. In realtà la
posizione attuale sui problemi discussi dai filosofi rinascimentali è quanto meno
incerta, come adesso accenneremo.
14. Le anime e le cose. Per Bruno esiste realmente solo l'anima universale, quelle
individuali risultando dall'attività della prima nella “material complessione” (Cabala
del cavallo pegaseo, p. 887) dei singoli corpi. Tale complessione potrà essere incapace
di esprimere questa o quella “forza di sentimento”, ma in ultima l'analisi la “sustanza
spirituale” è la stessa per tutti gli esseri:
come tutti gli umori sono uno umore in sustanza, tutte le parti aeree son un aere in
sustanza, tutti gli spiriti sono dall'Anfitrite d'un spirito, ed a quello ritornan tutti. [p. 883]
69
L'operetta di Luciano (II sec. d. C.) intitolata Philopseudeis [Gli amanti delle menzogne] è
impressionante per la sua completa ‘modernità’ di atteggiamento; l'intera gamma delle tecniche
divinatorie era del resto già stata oggetto, nel De divinatione di Cicerone (I sec. a. C.), di una
devastante critica.
24
Questa dottrina, appunto, non esclude che i diversi esseri abbiano diversi gradi di
sensibilità. Bruno nello Spaccio condanna la dieta carnivora, affermando che quello del
macellaio è mestiere “più vile che non è l'esser boia”, in quanto
sempre amministra alla disordinata gola, a cui non basta il cibo ordinato dalla natura, più
conveniente alla complessione e vita dell'uomo (lascio l'altre più degne raggione da
canto). [p. 811]
Nel carcere dell'Inquisizione rimproverò un compagno di cella per aver ucciso un ragno.
D'altra parte, sempre nello Spaccio (pp. 812-4), la caccia è in qualche modo
approvata; non è poi sicuro che Bruno fosse sistematicamente vegetariano, poiché in un
luogo delle deposizioni spiega di aver mangiato carne il venerdì al tempo in cui viveva
presso i protestanti (P, p. 184). È vero però che, nel contesto in cui si trovava, scusarsi
di aver mangiato carne poteva anche essere un modo obliquo di scagionarsi dall'accusa,
che gli venne in effetti mossa e da cui dovette difendersi esplicitamente, di credere
nella metempsicosi. In questa consistono appunto l'“altre più degne raggione”; le quali
sono peraltro difficilmente conciliabili con l’idea del ritorno di tutti gli spiriti al mare
(l’“Anfitrite”) dell’anima del mondo. Non c'è dubbio, tuttavia, che l'animismo
conduceva Bruno a un rispetto per gli animali che non sarà affatto condiviso né da
Descartes, né, più sorprendentemente, da Spinoza.
L'idea che lo psichismo sia una proprietà diffusa in misura maggiore o minore in tutte
le cose sarà riproposta, fra gli altri, dal fisico e matematico Maupertuis nel Settecento,
e abbracciata da un illustre fisiologo dell'Ottocento, Gustav T. Fechner, e da uno dei
massimi psicologi vissuti tra Ottocento e Novecento, William James. Un celebre
fisiologo del Novecento, Charles Sherrington, scrisse:
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74
Sembra che non ci sia un chiaro limite inferiore alla mente. [...] Che cosa dire di una
mente che non può imparare, che è forse solo la cieca spinta verso il cibo, o il richiamo
verso la luce o l'ombra? [...] Oggi la stessa distinzione [tra vivente e non vivente] è una
convenzione. Ciò cancella la 'vita' come una categoria scientifica; o, se preferite, la porta
fino ad abbracciare l'atomo. Il punto di fuga della vita è perso.75
A ciò si può aggiungere che, nonostante le accuse di ingenuità ai sostenitori della
generazione spontanea, e gli elogi degli scienziati che li confutarono in nome del
70
“Essendo egli in letto, andai a trovarlo e trovandoli vicino un ragnetto, l'ammazzai, e lui mi
disse ch'havevo fatto male, e cominciò a discorrere, che in quelli animali poteva esser l'anima di
qualche suo amico [...]” (P, p. 284).
71 Ai suoi compagni di carcere Bruno dirà di ricordare alcune sue vite precedenti; ciò
comporterebbe che, a suo parere, gli spiriti non si riconfondono totalmente nell’anima
universale, ma conservano una qualche memoria (cfr. Cabala, pp. 883-4). Per analoghe tensioni,
vedi la dottrina esposta nel VI libro dell’Eneide (vv. 724-51).
72 La sorpresa nasce non solo dalla fondamentale affinità tra il sistema spinoziano e la
concezione bruniana, ma anche dal fatto che Spinoza non nega la sensibilità agli animali, al
contrario di Descartes (cfr. Ethica, IV, scolio I alla prop. xxxvii).
73 Nel Système de la Nature. Essai sur la formation des corps organisés (1756).
74 Rispettivamente in due opere, Zend-Avesta (1851) e A Pluralistic Universe (1909).
75 Sherrington 1951, pp. 218-9. Jacques Monod [1970, cap. II] individuò nel vitalismo e
nell'animismo i principali ostacoli allo sviluppo di una concezione scientifica della realtà,
fondata su ciò che chiama il “principio di oggettività”; il suo libro mostra, d'altra parte, gli
aspetti fortemente paradossali di una stretta aderenza al suddetto principio.
25
principio che “omne vivum a vivo”, l'attuale visione (ortodossa) delle origini della vita
suppone che in qualche maniera (sulla quale sussiste ancora molta incertezza) la vita sia
nata sulla Terra proprio da materia inorganica. È vero però che si è al tempo stesso
sostenuto che “non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia
apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le
sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle”. Il che equivale a dire che la vita
potrebbe essere un evento pressoché inesplicabile. È appena il caso di aggiungere che
quanto il fenomeno ‘vita’ sia da considerarsi eccezionale nell’universo è tuttora oggetto
di accese discussioni.
Quanto alla considerazione morale per gli esseri viventi, la scienza di oggi intrattiene
atteggiamenti contraddittori. Non è qui il luogo per un esame dettagliato, ma almeno
varrà la pena sottolineare un contrasto. Da un lato si fa uso, spesso spietato, degli
animali come ‘modelli sperimentali’, fondandosi sull'ipotesi (largamente azzardata) di
una precisa somiglianza tra le loro reazioni (compreso il dolore) e quelle umane.
Dall'altro, a chi obietta contro le sofferenze provocate da tali pratiche, si replica spesso
che ‘nessuno sa se le piante che i vegetariani mangiano non soffrano quanto o più degli
animali’, assumendo una posizione di totale agnosticismo circa il collegamento tra
costituzione fisica e psichismo, e quindi sulla possibilità di definire razionalmente
analogie e disanalogie al riguardo tra specie diverse.
In un certo senso anche in Bruno si trova una tensione corrispondente: da un lato gli
animali non sono come le pietre (o come gli stivali di Poliinnio, cfr. Cena, p. 241),
dall'altro è possibile associare, grazie alle arti magiche, spiriti a pietre, e quindi
constatare in queste comportamenti tipici di esseri superiori.
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79
15. Perché non crediamo alle statue magiche? A questo punto è utile una breve
riflessione su quella che ci potrebbe sembrare l'eccessiva credulità di Bruno e altri
uomini della sua epoca. Che cosa fa sì che molti di noi, oggi, dubitiamo dei resoconti
sulle statue divinatorie? La risposta che ha maggior corso è che i progressi scientifici ci
hanno dimostrato l'impossibilità di certi eventi. In realtà la questione è più complicata.
Tanto per cominciare, non era solo l'Asclepius che riferiva dei prodigi dei maghi
egiziani, ma anche la Bibbia. Nell'Esodo (7, 8-13) si racconta come i maghi da un lato,
e Mosè ed Aronne dall'altro, si esibissero in prove di bravura - trasformare bastoni in
serpenti e l'acqua del Nilo in sangue, far salire a terra le rane ecc. - e che Aronne e
Mosè, grazie all'aiuto divino, riuscirono a far meglio degli egizi. Che si può dire di
questi racconti? Se li si accetta come letteralmente veri, allora essi pongono senza
dubbio un problema per la scienza della natura: i maghi dell'antico Egitto erano infatti
in grado di operare alcuni di quei prodigi senza l'assistenza del Padre Eterno. E il meno
che si può dire, allora, sullo stato delle nostre conoscenze (o di quelle del tempo di
Bruno) è che quella sapienza è andata perduta.
L'empietà di Bruno consisté nel dare un'interpretazione integralmente naturalistica di
quegli episodi, identificando in Mosè un mago dello stesso tipo di quelli egiziani, anzi
un loro discepolo, soltanto più abile:
76
Monod 1970, p. 141 (corsivo nell'originale).
Una discussione vivace e ricca di informazioni sulla questione dell'origine della vita è in Casti
1989, cap. 2 (nel cap. 6 si trova discussa l’ipotesi dell'esistenza di intelligenze extraterrestri).
78 L'uso degli animali come 'modelli sperimentali' per la medicina e la psicologia è fra le pratiche
che più chiaramente mostrano i limiti della tanto vantata 'razionalità scientifica' moderna.
79 Cfr. Rollin 1989, pp. 115-7.
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26
Quel Mosè dico, che in tutte le scienze de gli Egizii uscì addottorato da la corte di
Faraone;80 quello che ne la moltitudine di segni vinze tutti que' periti nella magia; [...]
[Spaccio, pp. 791-2]81
In generale la sapienza degli Ebrei - sostiene Bruno – “è proceduta da gli Egizii
appresso de quali fu instrutto Mosè” (p. 783). Il caso di Bruno è interessante, in quanto come si vede - egli non era particolarmente disposto a credere a tutto quanto
tramandato dalla Bibbia: se credette alle storie bibliche sui maghi è, indubbiamente,
perché trovava in esse, come nelle testimonianze ermetiche sulla taumaturgia egiziana,
una conferma della propria concezione del mondo, elaborata largamente - come
abbiamo visto (§§9-10) - su basi non storiche. È tuttavia notevole la continuità
dell’atteggiamento bruniano nell’abolire la barriera tra storia ‘profana’ e ‘sacra’, così
come aveva fatto con la divisione tra fisica ‘terrestre’ e ‘celeste’ (§4).
C'è naturalmente da considerare anche l'inerzia della tradizione, unita alla frequente
difficoltà di effettuare verifiche indipendenti, e al ruolo secondario svolto dagli
esperimenti. Un chiaro esempio si ha quando Bruno, nel De vinculis (art. xxx) dice che
“il gallo con la voce batte il leone [gallus voce rumpit leonem]”, notizia che
probabilmente gli proviene da Lucrezio, anche se questi ne dà una versione un po'
diversa: sarebbe la vista dei galli che risulterebbe insopportabile per i leoni (De rer.
nat., IV, 710-7). Plinio addirittura sostiene che basterebbe ungersi di brodo di pollo
(meglio se cotto con aglio) per tenere alla larga leoni e pantere (Nat. Hist., XXIX, 78 e
XXX, 142). Thomas Browne, che nel Seicento scrisse un libro sulle più diffuse false
credenze - e a cui devo il precedente riferimento pliniano - , notava come questa
opinione sui rapporti tra galli e leoni era “riportata da molti, e creduta dai più”, ma cita
un caso, documentato da uno storico (J. Camerarius, contemporaneo di Bruno), in cui
un leone era entrato in un cortile facendo razzia di galli non meno che di galline, senza
farsi minimamente sconcertare. Naturalmente un solo caso sfavorevole non sarebbe
bastato a togliere credibilità all'affermazione in linea di massima; e il vantaggio di
sapere come stanno le cose veramente era, per molti autori, inferiore ai costi di una
verifica sperimentale seria. Nel valutare la verosimiglianza di proposizioni che è
difficile verificare direttamente, è giocoforza - oggi come allora - fondarsi su elementi
esterni, e l'accordo tra autori prestigiosi non sembrava il peggiore dei criteri.
Doveva passare del tempo prima che si cominciasse sistematicamente a dubitare della
Bibbia e di altri testi antichi in quanto fonti storiche. Quando questo passo fu compiuto,
la scienza moderna era nata da pochi decenni, ed è interessante che proprio dalla
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Qui Bruno cita dagli Atti degli Apostoli (7, 22), come farà anche in sede processuale (P, p.
275).
81 L'accusa di aver calunniato, in questo senso, Mosè ebbe un posto non secondario nel processo
(cfr. P, pp. 274-5). Affermazioni del genere si trovavano in evidente contiguità con la teoria,
attribuita all’imperatore miscredente Federico II, secondo cui Mosè, Gesù e Maometto erano
stati tre impostori. Secondo un’accusa di un compagno di prigionia, Bruno aveva detto che
“Christo tutti li miracoli che fece li fece per arte di nigromantia” (P, p. 261; cfr. Spaccio, p.
806).
82 Se però si considera che Bruno si occupa per lo più di fenomeni che oggi sono di competenza
di biologia, medicina, psicologia ecc., e se si prende atto del significato spesso ben poco
rigoroso della ‘sperimentazione’ in queste branche (§14), allora è difficile non concedergli
un’ampia indulgenza al riguardo (cfr. §16).
83 Pseudodoxia Epidemica, 1646, 1672 6, cap. xxvii. Lo scetticismo di Browne non gl'impedì,
peraltro, di essere un fermo credente nella stregoneria, come risulta dalla sua Religio medici
(1643).
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questione delle statue magiche prese le mosse uno dei testi più rappresentativi del
nuovo indirizzo di pensiero:
È certo che ci sono demoni, genii malefici e condannati a tormenti eterni. La religione ce
l'insegna, la ragione ci insegna poi che questi demoni hanno potuto animare statue, e
rendere oracoli, se Dio glielo ha permesso; la questione è solo di sapere se hanno
ricevuto da Dio questo permesso.
Queste parole sono tratte dalla Storia degli oracoli di Bernard le Bovier de Fontenelle,
pubblicata nel 1686, uno dei 'manifesti' del nuovo scetticismo storico, che minò le basi
per l'accettazione del significato letterale di ben più che i racconti sui presunti oracoli
resi da statue consacrate. È da notare che Fontenelle non fa riferimento a ‘dimostrazioni
scientifiche di impossibilità’ dei fenomeni di cui vuole provare l'infondatezza - anzi,
come abbiamo visto, comincia enunciando (sia pure con finta ingenuità) precisamente il
contrario! La spiegazione del suo metodo data da Fontenelle è di una estrema chiarezza:
Non è sorprendente che gli effetti della natura diano filo da torcere ai filosofi. I suoi
principii sono così ben nascosti che la ragione umana quasi non può, senza temerarietà,
pensare di scoprirli; ma quando non è questione che di sapere se gli oracoli hanno potuto
essere un inganno e un artificio dei preti pagani, dove può essere la difficoltà? Noi che
siamo uomini, non sappiamo fino a qual punto altri uomini hanno potuto essere o
impostori o vittime di imposture?
Come si vede Fontenelle, invece che le scoperte scientifiche (della cui divulgazione,
peraltro, fu abile e fortunato pioniere), sottolinea l'importanza della conoscenza
comune - della nostra comune umanità come chiave interpretativa della storia. Bruno,
invece di fondarsi sulla conoscenza comune, che pure aveva dimostrato di
padroneggiare molto bene fin dal suo Candelaio (cfr. anche §18), si affidò alla
capacità del pensiero astratto di rivelare l'intima essenza della realtà. Da questo punto
di vista la parziale sconfitta del suo programma conoscitivo ha qualcosa da insegnarci,
ben al di là delle prese di distanza, oggi così poco audaci, da ‘un'epoca in cui si credeva
nella magia’.
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16. La medicina. A conforto empirico delle dottrine di Bruno veniva, del resto, anche
l'esperienza della medicina della sua epoca. Nella pratica medica di allora la guarigione
delle malattie era ricercata, e talvolta ottenuta, con metodi disparati, alcuni dei quali
non escludevano l'impiego di incantesimi. Ai re di Francia si attribuiva la capacità di
guarire le scrofole mediante imposizione delle mani, un effetto menzionato anche da
Bruno. Ma, pur supponendo che forse tutte le malattie potrebbero essere provocate da
demoni, e che fosse “estremamente consono alla natura della cosa” che un medico
possa curare ferite a distanza, Bruno non esagera l'importanza delle tecniche magiche,
ed è ben consapevole che la pratica medica si fonda in generale anche sulla fiducia dei
pazienti. L'esito pratico della sua posizione è l'adozione di un punto di vista pluralista,
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I suoi famosi Entretiens sur la pluralité des mondes, dal tema così ‘bruniano’, apparvero nello
stesso anno, e furono messi all’Indice già l’anno dopo.
85 Una curiosa storia delle ‘statue parlanti’ dall'antichità all'età moderna, con molte citazioni, è
Pettorino, Giannini 1999.
86 Vedi De magia, p. 433. Il testo classico sul tema è Bloch 1924.
87 De magia, p. 432; Theses de magia, p. 467.
88 Nel Sigillus Sigillorum (1583) Bruno dice che “Hanno particolare potere quei medici in cui
moltissimi confidano […]” (Praepollent medici, in quibus plurimi confidunt; cit. da Tocco
28
di straordinaria attualità, che bada al fine - oggettivo e verificabile - dell'arte medica,
piuttosto che ai metodi:
Come anco in diversi ordini di medicare, non riprovo quello che si fa magicamente per
applicazion di radici, appension di pietre e murmurazione d'incanti, s'il rigor di teologi mi
lascia parlar come puro naturale. Approvo quello che si fa fisicamente e procede per
apotecarie ricette, con le quali si perseguita o fugge la còlera, il sangue, la flemma e la
melancolia. Accetto quello altro che si fa chimicamente, che abstrae le quinte essenze e,
per opera del fuoco, da tutti que' composti fa volar il mercurio, subsidere il sale e
lampeggiar o disoglar89 il solfro. Ma però, in proposito di medicina, non voglio
determinare tra tanti buoni modi qual sia il megliore, perché l'epilettico, sopra il quale
han perso il tempo il fisico ed il chimista, se vien curato dal mago, approvarà non senza
raggione più questo che quello e quell'altro medico. Similmente discorri per l'altre specie:
de quali nessuna verrà ad essere men buona che l'altra, se cossì l'una come le altre viene ad
effettuar il fine che si propone. Nel particolar poi è meglior questo medico che mi
sanarà, che gli altri che m'uccidano o mi tormentino. [De la causa, pp. 276-7]
E a questo punto Bruno aggiunge uno scambio memorabile che dà la misura del suo
sguardo disincantato sulla dimensione sociale della produzione del sapere:
Gervasio. Onde avviene che son tanto nemiche fra lor queste sette di medici?
Teofilo. Dall'avarizia, dall'invidia, dall'ambizione e dall'ignoranza. [pp. 276-7]
Parole che suonano, a distanza di quattro secoli, tristemente attuali - e senza che si
debba temere, purtroppo, nessun 'anacronismo' se non per quanto riguarda le dimensioni
del fenomeno (oggi, come è noto, assai più ragguardevoli). Senza negare che la
speranza di guarire può favorire talora anche i raggiri dei ciarlatani, c'è nondimeno
qualcosa di profondamente assurdo, oltre che di arrogante, in una pratica medica che si
vuole 'scientifica' e raccomanda che ci si rassegni ai suoi fallimenti, negando la
razionalità della ricerca di alternative.
17. Il pluralismo filosofico. L'atteggiamento di apertura a metodi diversi in medicina è
in Bruno un caso particolare di un pluralismo teoretico che va molto più in là: nessuna
filosofia, nemmeno la sua, può pretendere di possedere l'unica via di accesso alla verità:
Perché è cosa da ambizioso e cervello presuntuoso, vano e invidioso voler persuadere ad
altri, che non sia che una sola via di investigare e venire alla cognizione della natura; ed
è cosa da pazzo e uomo senza discorso donarlo ad intendere a se medesimo . Benché la
via più costante e più ferma, e più contemplativa e distinta, e il modo di considerar più
alto deve sempre esser preferito, onorato e procurato più; non per tanto è da biasimar
quell'altro modo il quale non è senza buon frutto, benché quello non sia il medesmo
arbore. [De la causa, p. 275]
Ne segue che lo studio di diverse filosofie va incoraggiato:
Dicsono. Dunque, approvate il studio de diverse filosofie?
Teofilo. Assai, a chi ha copia di tempo ed ingegno: ad altri approvo il studio della
megliore, se gli Dei vogliono che l'addovine.
Dicsono. Son certo però che non approvate tutte le filosofie, ma le buone e le megliori.
1889, p. 206).
89 Cioè estrarre olio (cfr. Aquilecchia 1991, pp. 60-1).
29
Teofilo. Cossì è. [p. 276]90
All'epoca di Bruno, naturalmente, questo atteggiamento non era così diffuso (come, del
resto, non lo è oggi): attorno al controllo delle opinioni ‘lecite’ si muoveva una
industria del consenso e della pubblica onorificenza che, gestita da accademie e chiese,
aveva degradato lo studio della filosofia e la circolazione delle idee a operazioni di
erudizione di basso profilo. L'analisi che di questo fenomeno fa Bruno – “academico di
nulla Academia, detto il fastidito” -, attraverso la satira del pedante, è profonda e
lungimirante.
91
18. Sociologia della scienza. Nei dialoghi italiani di Bruno, nonché nella sua
commedia, troviamo sotto diversi nomi un personaggio, che per lo più interrompe
brevemente la discussione con citazioni latine, a volte non del tutto impertinenti ma
quasi sempre superficiali: è, appunto, il pedante. Di questa figura Bruno fa il simbolo
del tipo di cultura filosofica 'delle scuole' che egli rifiuta, e che a sua volta lo rifiuta.
Vediamo di ricavare dai testi bruniani una specie di 'tipo ideale' del pedante.
Il pedante ha una cultura essenzialmente linguistico-grammaticale. È convinto che
conoscere le lingue sia l'elemento fondamentale della comprensione di tutte le scienze.
Contro questo assunto il Nolano dichiara che non basta sapere l'italiano per capire la
sua filosofia, proprio come, viceversa,
un che non sa greco, può intender tutto il senso d'Aristotele e conoscere molti errori in
quello, [...] ed uno che non sa né di greco, né di arabico, e forse né di latino, come il
Paracelso, può aver meglio conosciuta la natura di medicamenti e medicina che Galeno,
Avicenna e tutti che si fanno udir con la lingua romana. Le filosofie e leggi non vanno in
perdizione per penuria d'interpreti, ma di que’ che profondano ne’ sentimenti. [De la
causa, p. 258]
A tal proposito Bruno sottolinea la possibilità di scrivere libri interi su un autore senza
contribuire minimamente alla sua comprensione. È il caso di Francesco Patrizi (152997), la cui opera, Discussiones peripateticae, Bruno così descrive: non possiamo dire
che l'autore (che egli nemmeno nomina) abbia capito Aristotele
92
né bene né male; ma che l'abbia letto e riletto, cucito, scucito e conferito con mill'altri
greci autori, amici e nemici di quello; e al fine fatta una grandissima fatica, non solo senza
profitto alcuno, ma etiam con un grandissimo sprofitto, di sorte che chi vuol vedere in
quanta pazzia e presuntuosa vanità può precipitar e profondare un abito pedantesco, veda
quel sol libro, prima che se ne perda la somenza. [p. 261]
90
Alla luce di queste citazioni, una frase come “Tutti sappiamo che il Bruno era nelle sue
asserzioni dommatico e intransigente non meno dei suoi censori [...]” (P, p. 114) non lascia una
buona impressione circa la competenza bruniana - per non dire del senso della misura - di uno
storico come Firpo, pur eminente come ricercatore e studioso di documenti sui processi di Bruno
e Campanella.
91 Così Bruno si definisce nel frontespizio del Candelaio.
92 Per Patrizi vedi Yates 1964 (pp. 345-6) e Rossi 1977, cap. 3. Il destino di Patrizi risultò
collegato a quello di Bruno in una maniera strana: la buona accoglienza ricevuta da Patrizi, “che
non crede niente”, presso il Papa gli aveva fatto sperare di poter entrare anch'egli nei favori della
Curia (P, p. 248). Ma anche la fortuna di Patrizi durò poco: l'Inquisizione lo mise sotto accusa
per certe sue affermazioni ‘pericolose’ ed egli le ritrattò.
30
Il pedante, poi, è intrinsecamente tradizionalista: non perché sia legato a nozioni e
valori culturali di cui abbia un pieno possesso, bensì perché non può concepire - per
spirito di casta più ancora che per difetto di immaginazione - che tanti studiosi della sua
'levatura' possano aver letto e commentato, per generazioni, questo o quell'autore senza
accorgersi delle sue manchevolezze. Nel De l'infinito il pedante, Burchio, così inveisce
contro un personaggio antiaristotelico, Fracastorio:
93
Volete far vane tante fatiche, studii, sudori di fisici auditi, de cieli e mondi, ove s'han
lambiccato il cervello tanti gran commentatori, parafrasti, glosatori, compendiarii,
summisti, traslatatori, questionarii, teoremisti? ove han poste le sue basi e gittati i suoi
fondamenti i dottori profondi, suttili, aurati, magni, inespugnabili, irrefragabili, angelici,
serafici, cherubici e divini? [...] Volete che Platone sia uno ignorante, Aristotele sia un
asino, e quel che l'hanno seguitati, sieno insensati, stupidi e fanatici? [...] Or chi ne sarà
giudice? [pp. 466-7]
E alla risposta di Fracastorio all'ultima domanda (“Ogni regolato senso e svegliato
giudizio [...] quando si conoscerà convitto ed impotente a defendere le raggioni” della
sua dottrina e “a resistere a le nostre”), Burchio oppone che, anche qualora fosse vinto
in una disputa, ciò non proverebbe il difetto del suo indirizzo di pensiero, ma solo la sua
insufficienza personale e l'abilità sofistica dell’avversario. Fracastorio replica allora che
un uomo come Burchio si dovrebbe stimare “dotto per fede e non per scienza”, al che
Burchio esplode insultandolo come
un asino presuntuoso, sofista, perturbator delle buone lettere, carnefice de gl'ingegni,
amator delle novitadi, nemico de la verità, suspetto d'eresia. [p. 467]
Il pedante è qui ritratto nella sua dimensione più sinistra, di persona disposta a
difendere la propria rispettabilità anche chiamando in aiuto autorità civili e religiose
contro i propri avversari, colpevoli - sopra ogni altra cosa - di fargli sentire la sua
incapacità di giudicare con la propria testa. Caratterialmente, egli tenderà a farsi
accecare dall'“atro velo di corrosiva invidia” (p. 502), e a cercare di contrastare in tutti i
modi, “con molte machine ed artificii”, avvalendosi dell'appoggio del “grande e grave
senato della stolta ignoranza” (pp. 534-5), chiunque minacci la sua supremazia
culturale. In questo egli sarà spesso vittorioso, grazie allo spirito di partito che in lui è
vivo molto al di là della comprensione delle dottrine sotto la cui bandiera combatte (cfr.
Cena, pp. 42-3).
Infine, quel che è in gioco, per il pedante, non è soltanto un'infondata presunzione di
sapere, ma anche onori e interessi materiali di vario ordine:
comunemente si va appresso al giudizio comone, a fin che, se si fa errore, quello non sarà
senza gran favore e compagnia [Cena, p. 48]
In effetti la filosofia attrae anche “i più miseri di tutti i miseri, quelli che filosofano per
guadagnarsi il pane”,
94
93
Si tratta di un passo i cui echi si ritrovano molto distinti nel Dialogo di Galilei (per es.:
“Simplicio. E a chi si ha da ricorrere per definire le nostre controversie, levato che fusse di
seggio Aristotile?” [p. 71]).
94 De immenso (I, p. 208): “ad miserorum omnium miserrimos, qui pro pane lucrando
philosophantur”.
31
quelli sordidi e mercenarii ingegni che, poco e niente solleciti circa la verità, si contentano
saper secondo che comunmente è stimato il sapere; amici poco di vera sapienza, bramosi
di fama e riputazion di quella; vaghi d'apparire, poco curiosi 95 d'essere. [De l'infinito, p.
499]
È questo tipo di personaggi del mondo dell'erudizione e dell'accademia che odiò Bruno
proprio a causa delle sue virtù teoretiche e del suo coraggio. I loro eredi, che ancora
affollano il mondo della cultura - dai giornali alle università - non gli hanno in realtà
mai perdonato di essere stati da lui smascherati già quattro secoli fa, e lo hanno punito
‘storicizzandolo’ (o per meglio dire, sterilizzandolo), riducendolo a una specialità
erudita, ed evitando di entrare nel merito delle sue penetranti osservazioni.
È comunque importante aggiungere che la critica di Bruno nei confronti degli
intellettuali del suo tempo non gli fa abbracciare quel tipo di scetticismo che attribuisce
uno stesso valore a ogni opinione e dottrina (e che oggi, talvolta, è impropriamente
denominato 'relativismo'). Nel 1581, durante il suo soggiorno a Tolosa, egli ricevette in
dono dall'autore una copia con dedica di un libro fra i più radicali e rappresentativi
della corrente scettica dell'epoca, il Quod nihil scitur [“Che niente si sa”], di Francisco
Sanchez; sul frontespizio, accanto alle qualifiche dell'autore, “philosophus et medicus
doctor”, egli annotò: “C'è da stupirsi che codesto asino chiami se stesso dottore”. In
effetti anche altrove, e in particolare nella Cabala, Bruno ironizza nei riguardi di coloro
che cercano di dimostrare che non esistono dimostrazioni, e dà una spiegazione
psicologica della loro posizione:
96
97
Questi poltroni per scampar la fatica di dar raggioni delle cose, e per non accusar la loro
inerzia, ed invidia ch'hanno all'industria altrui, volendo parer megliori, e non bastandoli
d'occultar la propria viltade, non possendoli passar avanti né correre al pari né aver modo
di far qualche cosa del suo, per non pregiudicar alla lor vana presunzione confessando
l'imbecillità del proprio ingegno, grossezza di senso e privazion d'intelletto, donano la
colpa alla natura, alle cose che mal si rapresentano, e non principalmente alla mala
apprensione de gli dogmatici; [...] [p. 905]
Ciò che a mio parere è degno di nota è come Bruno riesca a tenere gli occhi ben aperti
circa i condizionamenti sociali dell'attività intellettuale, senza per questo scadere in una
comoda equiparazione di ogni dottrina. Che l'unica maniera di analizzare i fattori
sociali della scienza consista nell'abolire ogni differenza tra vero e falso è un'opinione
oggi molto corrente, e che, evidentemente, favorisce sia la pedanteria accademica di
certi sedicenti ‘sociologi della scienza’, sia - soprattutto - l'arroganza di chi, fingendo di
difendere la ‘razionalità scientifica’, ha in mente essenzialmente la propria posizione di
privilegio e gli interessi di chi gliela garantisce.
98
19. La religione dei “rozzi popoli” e i protestanti. Visto che il grosso della cultura
accademica era, per Bruno, infestato dalla peste della pedanteria, è al popolo che egli
pensava di rivolgersi? È interessante notare che nei dialoghi italiani Bruno introduce
spesso un personaggio che fa da antitesi al pedante: è l'uomo di senso comune, che, pur
95
Cioè che poco si curano.
Naturalmente ci sono eccezioni, come Schopenhauer, che cita con approvazione il Bruno
‘sociologo’ nel capitolo sulla “Filosofia delle università” dei Parerga und Paralipomena (1851).
97 “Mirum quod onager iste appellat se doctorem” (Canone 2000, p. 80).
98 Devo però aggiungere - senza potermici addentrare in questa sede - che il libro di Sanchez è in
realtà piuttosto interessante, e che fornisce anche spunti preziosi per un'analisi realistica della
formazione del consenso scientifico.
96
32
incapace di sollevarsi ai più elevati misteri della filosofia, riesce bene a distinguere tra
il Nolano e i pedanti, e a ridicolizzare efficacemente la vana supponenza di costoro. Ma
quali sono le verità che Bruno ritiene inadatte al popolo? C'è almeno una affermazione
principale del sistema bruniano che egli non vorrebbe fosse indiscriminatamente
divulgata.
Abbiamo visto che per il dio di Bruno l'azione è
necessaria, perché procede da tal volontà quale, per essere inmutabilissima, anzi la
immutabilità stessa, è ancora la istessa necessità; onde sono a fatto medesima cosa
libertà, volontà, necessità, ed oltre il fare col volere, possere ed essere. [De l'infinito, p.
384]
Siamo qui ormai in un'atmosfera strettamente parlando spinoziana, con le stesse
conseguenze, apparentemente deprimenti, circa la volontà umana. Per questo Bruno
afferma che
99
Tutta volta lodo che alcuni degni teologi non le admettano [quelle sue tesi]; perché,
providamente considerando, sanno che gli rozzi popoli ed ignoranti con questa necessità
vegnono a non posser concipere come possa star la elezione e dignità e merito di giusticia;
onde, confidati o desperati sotto certo fato, sono necessariamente sceleratissimi. [p. 385]
I filosofi, i “savii e generosi spiriti e quei che son veramente uomini, li quali senza
legge fanno quel che conviene” (Cena, p. 121), invece, “sanno bene e possono capire,
come siano compossibili questa necessità e questa libertà”; anzi, come dirà nel De
immenso (I, p. 243), che “La necessità e la libertà sono una cosa sola [...]”. Ma queste
sono affermazioni che
100
non son proposte da noi al volgo, ma a sapienti soli che possono aver accesso
all'intelligenza di nostri discorsi. Da questo principio depende che gli non meno dotti che
religiosi teologi giamai han pregiudicato alla libertà de filosofi; e gli veri, civili, e bene
accostumati filosofi sempre hanno faurito [= favorito] le religioni; perché gli uni e gli
altri sanno che la fede si richiede per l'instituzione di rozzi popoli che denno essere
governati, e la demonstrazione per gli contemplativi che sanno governar sé ed altri. [p.
387]
Sono parole che avranno una lunga (per lo più inconsapevole) discendenza, che
culminerà nel famoso motto di Voltaire (“Se Dio non esistesse bisognerebbe
inventarlo” - per mantenere nel timore, cioè, i potenziali malfattori), e in Italia troverà
accoglienza nel neoidealismo di Gentile - peraltro benemerito per gli studi bruniani - e
Croce. Resta il fatto che il problema di come comporre la libertà umana con l'ipotesi
dell'universale necessità delle cose non è affatto di facile soluzione, e non è chiaro che
Bruno si sentisse così a suo agio con la propria soluzione. A considerare le invettive
terribili che scaglia, soprattutto nello Spaccio, contro la religione riformata, colpevole,
ai suoi occhi, di aver denigrato l'importanza delle opere, pare di avvertire una specie di
101
99
Il parallelo con Spinoza non è cosa nuova, naturalmente: l'aveva posto già Pierre Bayle, nella
voce dedicata a Bruno del suo celebre Dizionario: “L'immensità di Dio e il resto non sono un
dogma meno empio in Giordano Bruno che in Spinoza: questi due scrittori sono unitari
oltranzisti; non riconoscono che una sola sostanza” (Bayle 1696).
100 Il passo rilevante è citato in DI, p. 386, n. 1.
101 “Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che
dir male de l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e
33
eccesso di difesa interiore, per l'omaggio reso anche dalla sua filosofia all'immutabile
necessità che in quegli anni decretava l'infuriare delle guerre di religione e le
persecuzioni dei “veri filosofi”. Ciò forse serve a spiegare, in parte, la foga con cui
invoca un principe che
con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa,
fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con multiforme eresia
sparge il fatal veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella.
[...] questi soli son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati
come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel
spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà
più chi le [= li] toglierà, quanto la pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli.
[Spaccio, pp. 623, 625]
Un'altra possibile spiegazione (che non esclude la prima) per questi passi di inusitata
violenza contro le sette protestanti è che Bruno, frate che ha deposto l'abito, non può più
sopportare l'idea che la salvezza si possa ottenere “mediante certi affetti interiori e
fantasie” riguardanti “cose invisibili, le quali né essi, né mai altri intesero” (cioè i
misteri della religione cristiana), e che il desiderio di gloria terrena sia vano, mentre
“bisogna gloriarsi in non so che tragedia cabalistica” (Spaccio, p. 655). Lo Spaccio è in
effetti un'opera in cui non solo si celebra l'antica religione egiziana, ma in cui l'intera
tradizione giudaico-cristiana viene sottoposta alla critica e all'irrisione più spietate,
come già riconobbero i contemporanei. Tuttavia è chiaro che una filosofia dell'unità
profonda di tutti gli esseri, come quella bruniana, poco si presta a giustificare
teoreticamente queste esplosioni di odio; e in effetti non sembra che possa dare altro
esito che un ottimismo metafisico e una generale tolleranza verso tutte le
manifestazione della vita.
102
103
che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni [= alberghi], ospitali, collegii ed universitadi;
[...]” (Spaccio, p. 623).
102 Il cosiddetto “Postillatore napoletano” (un italiano emigrato in Inghilterra, probabilmente) ha
lasciato sulla sua copia dello Spaccio annotazioni che mostrano come il messaggio anticristiano
dell'opera fosse perfettamente percepibile per i contemporanei. È stato congetturato che Bruno
alla fine del processo rinunciò a lottare quando gli inquisitori menzionarono di aver avuto notizia
che “mentre eri in Inghilterra eri tenuto per ateista e che avevi composto un libro di ‘Trionfante
bestia’”: vedendo che gli inquisitori erano ormai sulle tracce dello Spaccio, egli sapeva che ogni
dissimulazione sarebbe presto diventata impraticabile (Ciliberto 1990, p. 275). A conforto di
questa congettura, che reputo plausibile, penso si possa addurre un indizio che non so se sia stato
notato: quando a Venezia Bruno si difese dall'accusa di aver simpatizzato per i protestanti
durante i suoi soggiorni fuori Italia, egli nominò il De la causa e il De l'infinito come fonti di
sue affermazioni contro di loro, e dette una citazione testuale abbastanza lunga. Gentile, curatore
di DI, non trovando una perfetta corrispondenza con il testo del De l'infinito, commenta:
“Bruno, naturalmente, citava a memoria” (DI, p. 386n). In effetti Bruno, per rincarare la dose,
inserì elementi da un passo dello Spaccio (p. 625), molto più aspro, in una citazione dal De
l'infinito (p. 385); ma celò l’esistenza dello Spaccio - a cui avrebbe altrimenti potuto
comodamente riferirsi come a una fonte inequivocabile delle sue critiche ai protestanti -, non
certo per dimenticanza, ma perché sapeva che era di gran lunga la più compromettente delle sue
opere.
103 Nella lettera dedicatoria degli Articuli, Bruno scrive dell'abbandono in cui al suo tempo è
caduta “quella famosa legge dell'amore [...] la quale, proveniente non dal demone maligno
protettore di un solo popolo [ab unius gentis cacodaemone], ma certo da Dio padre di tutti in
quanto consona con la natura universale, prescrive la filantropia generale, con cui amare anche
i nostri nemici, per non rassomigliare ai bruti e ai barbari, ma per trasfigurarci nell'immagine di
colui che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i malvagi, e che fa piovere le sue grazie sopra i
34
20. L'Inquisizione e la scienza. Bruno tornò in Italia dalla Germania nell'agosto del
1591, invitato da un nobile veneziano, G. Mocenigo, di quasi 10 anni più giovane, ma
non sembra che la principale ragione del suo ritorno sia da individuare nella richiesta di
costui di ricevere lezioni di mnemotecnica. In effetti, arrivato a Venezia Bruno non
andò ad abitare presso di lui, ma in una locanda. Partì poco dopo per Padova, dove è
probabile che abbia concorso alla cattedra di matematica lasciata vacante l'anno
precedente da Girolamo Borro; la cattedra in ogni caso non fu assegnata a Bruno, ma a
Galileo Galilei pochi mesi dopo.
La denuncia di Mocenigo all'Inquisizione veneziana portò Bruno all'incarcerazione
nel maggio del 1592. Alla fine dell'anno la richiesta di estradizione fatta
dall'Inquisizione romana fu accolta, e così l'istruttoria si spostò a Roma nel febbraio
1593. Come il processo veneziano sembrava poter giungere rapidamente a una tutto
sommato accettabile conclusione per l'imputato, che si era dichiarato pentito degli
errori dottrinali e di comportamento commessi, così il processo romano, che durerà ben
sette anni, si annunciò lento e intransigente, e si concluse con la condanna a morte sul
rogo (17 febbraio 1600), nonché la distruzione e la messa all'Indice di tutte le opere.
In questa e nella prossima sezione non mi concentrerò se non su alcuni aspetti
generali del processo, soprattutto nell'intento di mostrare il nesso tra la filosofia
naturale di Bruno e la sua condanna. Ciò è utile non solo perché il caso Bruno
rappresenta - a mio parere - un episodio emblematico di scontro tra potere e pensiero
'non allineato', ma anche perché la valutazione di questo episodio è legata anche al
ruolo che si pensa che la scienza bruniana vi abbia svolto. In effetti, l'attuale ‘consenso’
sul processo di Bruno assume che questi non fu processato in quanto filosofo, e meno
che mai in quanto scienziato, bensì per le sue deviazioni in materia teologica e
religiosa: la Chiesa cattolica sarebbe stata dunque nel suo pieno diritto a metterlo sotto
accusa. Questo punto è di solito rafforzato con l'adozione oggi molto comune della tesi
della Yates, secondo cui di scientifico nell'opera di Bruno c'era ben poco, e che egli fu
104
probabilmente bruciato come mago, [...] e propagatore in tutta Europa di un qualche
movimento magico-religioso. [...] Se punti filosofici o cosmologici furono inclusi nella
sua condanna, questi sarebbero stati inestricabilmente legati al suo ‘egizianesimo’. 105
Quanto di questa ricostruzione è sostenibile?
Innanzitutto, che nel processo contro Bruno si sia trattato anche di questioni di
filosofia naturale è attestato senza alcun dubbio. Ad un certo punto del processo romano
risulta addirittura che egli chiese un compasso, evidentemente per redigere una
memoria difensiva in cui occorreva disegnare diagrammi astronomici (P, p. 110).
Risulta che Bruno fu interrogato anche “Circa motum terrae”; dichiarò:
giusti e gli ingiusti. Questa è la religione che osservo, senza alcuna controversia e prima di ogni
disputa, sia per sentimento interiore, sia anche per la consuetudine della gente della mia patria
[ratione patriae consuetudinis atque gentis]” (p. 4). Si noti la critica, appena velata, dell’idea di
“popolo eletto”, più esplicitamente svolta nello Spaccio (p. 804).
104Cfr. Aquilecchia 1972.
105 Voce “Bruno, Giordano” (risalente al 1970), in Gillispie 1970-80; cfr. anche Yates 1988, p.
108. È verosimile, a mio parere, che la tesi ‘ermetica’ della Yates abbia incontrato tanta fortuna
anche per la sua capacità di smorzare i toni del contrasto tra scienza e religione che, secondo la
versione tradizionale, aveva avuto nel caso Bruno il suo primo grande ‘incidente’. Insomma, a
molti piacerebbe poter sostenere che Bruno sarebbe stato condannato anche dal tribunale della
ragione scientifica.
35
Prima generalmente dico, ch'il modo e la cosa del moto della terra e della immobilità del
firmamento e cielo sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità, le quali sono certe
e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura, come ognuno ch'ha buona
inetelligenza dell'una e dell'altra sarà sforzato anco al fine di ammettere e concedere. [...]
Gli venne allora obiettato che “questa sua posizione ripugna all'autorità dei santi Padri”;
Bruno rispose che ciò poteva valere
non in quanto santi, buoni et essemplari, ma in quanto che sono meno de' filosofi prattichi
e meno attenti alle cose della natura. [P, pp. 302-3]
In altre parole, Bruno cercò di distinguere, davanti agli inquisitori, tra l'insegnamento
morale e i fatti fisici incidentalmente toccati dalla Scrittura, come aveva fatto nella
Cena (cfr. §2), e come Galilei ripeterà nella Lettera a Madama Cristina di Lorena (EN,
V, pp. 309-86): tutti tentativi inutili - e prevedibilmente inutili, per una ragione che
vedremo fra poco.
Alcuni autori hanno detto che, in ogni caso, l'ipotesi copernicana non poteva rivestire
una grande importanza tra i capi di accusa, anzi, probabilmente gli inquisitori non
l'avrebbero neanche discussa se Bruno stesso non l'avesse introdotta a un certo punto
degli interrogatori (P, p. 188). A riprova di ciò starebbe il fatto che la condanna del
copernicanesimo da parte della Chiesa cattolica sarebbe arrivata solo nel 1616. Ma
questo argomento è sicuramente errato, ciò che è dimostrabile almeno a partire dal
1975, quando Garin ha curato l'edizione di un opuscolo anticopernicano in latino,
scritto tra il 1546 e il 1547 da un domenicano di Firenze, Giovanni Maria Tolosani, che
lo aveva inserito come appendice in un suo libro di apologia (intitolato
significativamente De veritate S. Scripturae). Nel testo, Tolosani mostra “in quanti e
quanto grandi errori Copernico sia caduto” nel libro I del De revolutionibus, “anche
contro le sacre scritture” (etiam contra divinas literas), e menziona il fatto che il
Maestro del Sacro Palazzo di Paolo III - il Papa a cui l'opera era dedicata! - aveva
pensato di scriverne una confutazione, cosa a cui l'avevano impedito solo la malattia e
la morte. Non solo, ma si legge che a Roma si era disputato sulla teoria e che
Copernico “era stato rimproverato moltissimo” (plurimum reprehensus fuit), prima
ancora della pubblicazione dell'opera. Insomma, l'ipotesi copernicana aveva
praticamente da subito suscitato reazioni negative ai vertici della Chiesa cattolica.
Vale la pena anche di ricordare che, tra le affermazioni che Patrizi (cfr. nota 92) fu
costretto a ritrattare dall'Inquisizione romana, quando Bruno era già in carcere, ce n'era
anche una che riguardava la rotazione terrestre.
Questo, naturalmente, non significa che tra i capi d'accusa contro Bruno non ci
fossero punti più tipicamente teologici – ma non per questo privi di contatto con la
filosofia! -, come la transustanziazione, l’inferno, la Trinità ecc.; e bisogna anche tener
conto che erano stati riferiti dall’accusa anche giudizi non teologici e tuttavia molto
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“E la Chiesa cattolica forse non sarebbe mai stata accusata di aver messo Bruno a morte per
la sua adesione alla teoria copernicana, se non avesse condannato quella teoria nel 1616 e più
tardi costretto Galileo a sconfessarla” (Thorndike 1923-58, p. 428).
107 Nota, grazie al Commentariolus, almeno dal 1533 (cfr. Koyré, Vivanti 1975, p. xv).
108 L'interesse dell'operetta del Tolosani, “ben noto teologo e scienziato”, sta anche nel fatto che
il domenicano T. Caccini, “persecutore implacabile di Galileo fin dal 1611” avrebbe tenuto su di
essa “pubbliche lezioni in Firenze”, e che sia lui sia l'altro accusatore di Galileo, N. Lorini, erano
frati dello stesso convento fiorentino di cui aveva fatto parte Tolosani (Garin 1975, pp. 283,
284).
109 Rossi 1977, pp. 146-7.
36
poco atti a ben predisporre gli inquisitori: per esempio, che per Bruno agli ordini
religiosi si sarebbero dovute togliere le entrate (P, pp. 144, 179). Ma bisogna dire che
soprattutto in questo contesto distinguere nettamente tra opinioni teologiche da un lato,
e scientifiche e cosmologiche dall'altro, sarebbe profondamente manchevole di senso
storico. La Chiesa considerava di propria competenza l'interpretazione della Bibbia
sotto ogni profilo: quindi se l'interpretazione approvata di una frase qualsiasi implicava
l'adozione di una certa opinione in merito a una questione naturalistica, o storica, o di
altro genere non strettamente teologico, la suddetta opinione diventava nondimeno
parte integrante dell'interpretazione autorizzata. Per esempio, l'interpretazione
autorizzata di alcuni passi del Genesi presuppone la possibilità fisica di un'inondazione
di tutta la Terra nello stesso tempo (il diluvio universale, appunto); chiunque avesse
sostenuto, dunque, l'impossibilità fisica di questo fenomeno, sarebbe stato dichiarato
automaticamente eretico. Di questa circostanza abbiamo una conferma in una famosa
lettera che uno degli inquisitori che giudicarono Bruno, cioè il cardinale Roberto
Bellarmino (con cui dovrà fare i conti anche Galilei) spedì parecchi anni dopo, nel
1615, al teologo carmelitano Antonio Foscarini, reo di aver difeso la conformità della
teoria copernicana con l'ortodossia cattolica; Bellarmino scriveva che, leggendo “non
dico solo li santi Padri, ma li commentari moderni sopra il Genesi, sopra i Salmi, sopra
l'Ecclesiaste, sopra Giosuè”, si sarebbe trovato che
110
tutti convengono in esporre ‘ad literam’ ch'il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con
somma velocità e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo,
immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia
alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri e a tutti gli espositori greci e latini. Né si
può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede ‘ex
parte obiecti’, è materia di fede ‘ex parte dicentis’; e così sarebbe heretico chi dicesse
che Abramo non habbia havuti due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo
non è nato da vergine, perché l'uno e l'altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de' Profeti
et Apostoli.111
In altre parole, qualsiasi affermazione può essere considerata “materia di fede” se la fa
lo Spirito Santo (debitamente interpretato dall'autorità della Chiesa),
indipendentemente dal suo contenuto. Mi sembra che alla luce di questo passo,
estremamente chiaro nella sua brutalità, la distinzione fra le opinioni teologiche, e
quelle ‘solamente’ filosofiche o scientifiche, di Bruno, perda ogni rilevanza: Bruno
sarebbe stato processato anche soltanto per la sua dottrina degli infiniti mondi, o per il
moto della Terra ecc., a meno che non avesse prudentemente sostenuto che quelli
erano, per lui, solo ‘modi di dire’, senza pretese di verità filosofica. Il processo, del
resto, arrivò a concentrarsi nell'ultima fase proprio sui punti di rilievo filosofico, sui
quali Bruno restò inflessibile. Insomma, la questione, in ultima analisi, era quella della
112
110
Si noti che Bruno, nello Spaccio, si fa beffe anche della storia biblica del diluvio (p. 797),
anche se ciò non emerse durante il processo.
111 Fantoli 1993, p. 156 (la fonte della lettera a Foscarini, citata integralmente da Fantoli, è EN,
XII, pp. 171-2). Fantoli così commenta: “Senza dubbio, la risposta di Bellarmino era una
risposta privata. Ma dato il prestigio del cardinale nel mondo teologico del tempo, essa aveva un
gran peso e poteva essere presa come un indice dell'atteggiamento della Chiesa di fronte al
problema copernicano” (p. 157).
112 “Certo dunque si è che la lunga disputa [...] che si disnoda nel corso del 1599, ebbe il suo
terreno precipuo nel cuore della filosofia bruniana, sopra le tesi dell'infinita creazione senza
tempo, dell'animazione universale e del moto terrestre” (P, p. 109).
37
libertà di pensiero in generale, anche in campo scientifico, proprio come i 'superati'
storici ottocenteschi avevano pensato.
113
21. L'anima universale e il destino umano. Una caratteristica del pensiero
cosmologico di Bruno che costituisce un motivo di estremo fascino per il lettore di oggi
è il suo atteggiamento nei confronti dell'universo senza limiti da lui teorizzato. Si tratta
di un atteggiamento di profondo entusiasmo - non di paura o di senso di nullità
dell'uomo al cospetto di tanta immensità, che saranno descritti da Pascal alcuni decenni
dopo - in contrapposizione alla situazione degli aristotelici, visti come pappagalli chiusi
in una gabbia:
Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suttragano la infinita copia
de le cose. [...] Or provedete, signori astrologi, con li vostri pedissequi fisici, per que'
vostri cerchi che vi discriveno le fantasiate nove sfere; con le quali venete ad
impriggionarvi il cervello di sorte che me vi presentate non altrimente che come tanti
papagalli in gabbia, mentre raminghi vi veggio ir saltellando, versando e girando entro
quelli. [De l'infinito, p. 361]
Questo aspetto, che assimila Bruno a Lucrezio, da lui ammirato, sembra incompatibile
con una certa immagine della rivoluzione copernicana, tuttora diffusa, che vuole che
l'uomo sia uscito umiliato dalla ‘perdita della centralità’. Ma le cose non stanno
esattamente così: la centralità dell'uomo, nell'universo tolemaico-cristiano coincide con
la sua vicinanza al punto peggiore in cui si possa essere: l'Inferno. E la Terra è la
sentina nell'universo medievale, il posto più basso che c'è (sia letteralmente, nel senso
aristotelico, sia moralmente). Invece nella Cena Bruno descrive se stesso, tra le altre
cose, come colui che ci apre gli occhi
114
a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce,
dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne raccoglie, e non pensar
oltre [= più] lei essere un corpo senza alma e vita, ed anche feccia tra le sustanze
corporali. [p. 33]
La visione bruniana dunque ‘riabilita’ la Terra, e fa sentire l'uomo veramente a suo agio
nell'universo, grazie al riconoscimento della ubiquità della vita e della ragione. Questo
non significa che l'individuo sia permanente o immortale, ma la paura della
dissoluzione è scacciata dalla consapevolezza dell'universale conservazione della
materia e della forma:
Ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la
sustanza sempre medesma; perché non è che una, uno ente divino, immortale. [...] Avete
dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello,
quello in noi; e cossì tutto concorre in una perfetta unità. Ecco come non doviamo
travagliarci il spirto, ecco come cosa non è, per cui sgomentarne doviamo. Perché questa
unità è sola e stabile, sempre rimane; questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogni
altra cosa è vanità, è come nulla, anzi è nulla tutto lo che è fuor di questo uno. [ De la
causa, p.324]
113
Quanto alla possibilità di ancorare solidamente al testo biblico tesi teologiche, mi sembra
appropriato (e per niente invecchiato) il commento di Bruno, secondo cui le diverse sette “tutte
vi [nella Scrittura] san trovare quel proposito che gli piace e meglio gli vien comodo: non solo il
proposito diverso e differente, ma ancor tutto il contrario, facendo di un sì un non, e di un non
un sì, come, verbigrazia, in certi passi, dove dicono che Dio parla con ironia” (Cena, p. 126).
114 Vedi Lovejoy 1936, pp. 101-3, e per un'ampia discussione recente, Stoffel 1998.
38
Questo “sentimento religioso cosmico”, per usare l'espressione di Einstein, ha
certamente qualcosa di affascinante, e il fatto che Bruno lo vivesse come genuina
esperienza interiore è suggerito dalle memorabili parole di sfida che pronunciò al
momento della sentenza. D'altra parte non è chiaro perché ciò che permane dovrebbe
contare più di ciò che non permane. Basta a consolarsi della perdita delle cose e delle
persone a noi care la riflessione che, nel frattempo, l'energia è rimasta costante e le
leggi fisiche sono state tutte rispettate? Forse Bruno avrebbe risposto che anche le
singole forme (in un senso importante del termine, anche se non in ogni senso) non
vanno perdute, e che tutto si ripete, in qualche tempo, e in uno degli innumerevoli
mondi – anche se non identicamente. Questo lascerebbe pensare che il “Nihil sub sole
novum”, che era il motto favorito da Bruno, avesse per lui anche il significato letterale
di un ‘eterno ritorno’, in cui nulla sparisce veramente per sempre. (È una questione
sulla quale non sono sicuro che dalle affermazioni di Bruno si possa estrarre una teoria
coerente). Ma è possibile - e, se sì, ragionevole - mantenere un distacco nei confronti
della nostra esistenza particolare attraverso l'identificazione con l’Uno o anche con tutte
le future e passate materializzazioni, più o meno identiche, della nostra ‘forma’? Qual è
il prezzo che si pagherebbe, a livello di considerazione di noi stessi qui ed ora, per
questo surrogato dell'immortalità? Sono domande che qui basterà aver posto, ma che,
nonostante l’apparenza stravagante, si connettono a un livello molto profondo con le
nostre concezioni di persona e di ego. Certo è che Bruno, coerentemente con quanto da
lui tante volte sostenuto, non si lasciò “sgomentar[e]” nel momento supremo e
“sopportò con fermezza il supplizio”.
115
116
117
118
22. Bruno e gli scienziati del suo tempo. L'opera di Bruno fu conosciuta da diversi
scienziati famosi del suo tempo, i quali ne dettero valutazini diverse. Bruno inviò, con
dedica, il Camoeracensis Acrotismus a Tycho Brahe, sperando di ricevere un avallo
delle proprie concezioni da un astronomo professionista che considerava “il più nobile e
il principe” degli “astronomi del nostro tempo”, ma questi ne ricavò una impressione
negativa, e si divertì a prenderlo in giro privatamente con giochi di parole non proprio
brillanti (come “Iordanus Nullanus”). È probabile che Brahe, il quale era in generale
poco incline ad elargire riconoscimenti, si sentisse irritato anche sul piano ideologico,
considerata la chiarezza con cui menziona nei suoi scritti il rispetto per l'autorità biblica
come una delle ragioni per non accettare il sistema copernicano. Fatto sta che, anche su
119
120
115
Il quale così lo descrive (senza riferimento a Bruno): “L'individuo sente la futilità dei desideri
e scopi umani, e la sublimità e l'ordine meraviglioso che si rivelano sia nella natura che nel
mondo del pensiero. L'esistenza individuale lo colpisce come una specie di prigione e vuole fare
esperienza dell'universo come di un singolo tutto dotato di significato” (Einstein 1930).
116 “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam” (P, p. 351).
117 “Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod est. Nihil sub sole
novum” (De la causa, pp. 246-7; cfr. Ecclesiaste, I, 9-10)
118 In particolare Bruno ironizza sulla concezione del Grande Anno platonico in un dialogo tra
una pulce e una cimice che stanno per morire, e di cui la prima conforta la seconda dicendole
che un giorno (molto remoto!) saranno di nuovo insieme (De immenso, III, pp. 367-8, vv. 6-35).
A mio parere, però, in questo brano stranamente inquietante Bruno sta adombrando il suo rifiuto
della resurrezione cristiana.
119 De immenso, I, p. 221.
120 Pagnoni Sturlese 1985, p. 317.
39
un piano più tecnico, le ragioni tolemaiche per la stabilità della Terra, che Bruno aveva
demolito o per lo meno incrinato, convincevano perfettamente Brahe.
Diverso è il caso dell'allievo di Brahe, Johann Kepler. Nel De Stella Nova in Pede
Serpentarii, del 1606, egli espone le ragioni per cui non può accettare la tesi
dell'infinità dell'universo proposta da Bruno: ma la coscienziosità con cui definisce la
propria posizione fa capire che non ritiene affatto trascurabile la ‘minaccia’ bruniana.
In primo luogo egli sottolinea che Bruno ha sostenuto non solo che l'universo è infinito,
ma anche che esso mostra lo stesso aspetto se visto da una qualsiasi stella fissa:
121
122
123
[L'immensità dell'universo] derivata dalle antiche scuole dei filosofi gentili si riduce
principalmente a questo argomento: che Aristotele dimostrò a partire dal moto che il
mondo è finito, mentre Copernico, privata la sfera delle stelle fisse del moto, tollera che
sia infinita. Così la difende quel famoso, sventurato Giordano Bruno: e senza mezzi
termini l'asserì pure, sotto l'apparenza del dubbio [sub specie dubitantis],124 William
Gilbert nel libro, peraltro celeberrimo, sul Magnete; tuttavia mostrò un sentimento
religioso nello stimare che l'infinita potenza divina non si può concepire correttamente che
attribuendole l'edificazione di un mondo infinito. Ma Bruno fa l'universo infinito in
maniera tale che, quante sono le stelle fisse, altrettanti sono i mondi, e fa di questa nostra
regione di corpi mobili uno degli innumerevoli mondi, quasi per nessun segno distinta
dagli altri che la circondano: sicché, se qualcuno fosse sulla stella del Cane (diciamo uno
dei Cinocefali di Luciano), gli apparirebbe lo stesso aspetto del mondo che appare a noi
che guardiamo alle stelle fisse. [K, II, p. 688]
Come si vede qui Keplero attribuisce a Gilbert (1544-1603), incidentalmente, un
argomento squisitamente bruniano (§6), ma ciò che più lo interessa è l'attenzione verso
la tesi astronomica, correttamente attribuita a Bruno, dell'omogeneità e isotropia
dell'universo su scala siderale. Ed è questa che cerca di confutare.
Per esempio, sulla cintura di Orione ci sono tre stelle che hanno per noi una distanza
angolare a due a due di 83 minuti d'arco, e ognuna un diametro di 2 minuti; se le
immaginiamo tutt'e tre a uguale distanza dalla Terra, allora da ognuna di esse le altre si
vedrebbero come stelle molto più grandi del nostro Sole: il che vuol dire che
l'apparenza dell'universo visto da Orione non sarebbe quella a noi familiare. Per giunta,
un osservatore su una di quelle stelle vedrebbe non solo le due altre stelle citate, ma
“quasi un mare continuo di grandi stelle che apparentemente quasi si toccano” (p. 689).
L'obiezione più naturale è che basterebbe ipotizzare una distribuzione più rada delle
stelle, e cioè che le stelle che vediamo così vicine, siano in realtà molto distanti le une
dalle altre, ma Keplero la confuta rifacendosi all'aspetto dell'universo come visto dalla
121
Granada 1996, capp. 1 e 2.
Vedi Koyré 1957, cap. 3, che riporta in traduzione ampie citazioni.
123 Riluttanza del resto dichiarata in maniera inequivocabile: il pensiero che la stella nuova sia un
qualche mondo “presenta un non so che di occulto orrore, quando ci si scopre ad errare in questa
infinità, di cui si nega che ci siano termini, centro e perciò luoghi certi”; poco dopo dice di
proporsi di ricondurre “codesta pazzia dei filosofanti [...] entro i confini del mondo e le sue
carceri. Certamente non è bene vagare per quell'infinito [Certe equidem vaganti per illud
infinitum bene non est]” (K, II, p. 689), dove, dietro un velo di ironia, si avverte un timore reale
per le conseguenze religiose di un cosmo dilatato oltre ogni limite.
124 Cioè Keplero legge Gilbert ‘fra le righe’: è vero - dice Keplero - che Gilbert esprime la sua
adesione all'infinità dell'universo in forma dubitativa, ma si capisce che è solo un accorgimento
retorico. La cosa strana è che la capacità di interpretare un testo del Cinquecento o Seicento
facendo la tara di quella reticenza che era pienamente giustificata da concretissimi timori, sia
andata perduta tra molti degli studiosi di oggi, i quali addirittura tacciano di “anacronismo” chi
in questo cerca di imitare Keplero (cfr. § 23).
122
40
Terra. Non è qui il luogo per entrare in un'analisi di queste argomentazioni,
effettivamente abili (e che saranno riprese e approfondite nell’Epitome Astronomiae
Copernicanae [lib. I, pars II] del 1621), ma l'impressione è che Keplero si rifugi
nell'astronomia osservativa per evitare di approvare un principio che lo disorienta. In
effetti anche la cosmologia moderna ha dovuto fare i conti con successive smentite
osservazionali del principio di omogeneità e isotropia dell'universo, ma la risposta è
stata di aumentare la scala delle distanze su cui esso può essere mantenuto: in
maniera analoga avrebbe probabilmente reagito Bruno alla confutazione kepleriana.
L'idea dell'animazione universale è stata spesso presentata come una delle componenti
più sconcertanti del pensiero di Bruno, una zavorra arcaica che avrebbe inibito il
progresso scientifico, e che i grandi scienziati del Seicento dovettero scrollarsi di dosso
prima di poter cominciare a fare veramente scienza. Ancora una volta, basta aprire i
libri di questi grandi scienziati per rendersi conto che le cose stanno in tutt'altro modo.
Il testo che fonda la scienza del magnetismo in età moderna, cioè il De magnete (1600)
di Gilbert, che abbiamo visto citato da Keplero, è saturo di motivi bruniani. Ecco un
passo che riguarda la Terra, in cui sentiamo distintamente echi di argomenti che
abbiamo incontrato in Bruno, e troviamo un'applicazione del principio sopra discusso
(§10):
125
Cosa mostruosa sembrerebbe codesta nel mondo aristotelico, in cui tutte le cose sono
perfette, vitali, animate; mentre unicamente la Terra è una particella sfortunata, imperfetta,
inanimata, e caduca. Al contrario Ermete, Zoroastro, Orfeo, riconoscono un'anima
universale. [...] Poiché dalla Terra e dal Sole nascono i corpi viventi, e crescono sulla terra
le erbe senza che siano stati gettati semi [...] non è verisimile che possano produrre ciò
che non sono: ma fanno nascere le anime, quindi sono animati .
E, per quanto riguarda il magnetismo, ecco come Gilbert intitola il capitolo 12 del libro
V:
La forza magnetica è animata, oppure imita l'anima; anzi, in molte cose supera l'anima
umana quando quest'ultima è legata a un corpo organico.126
Come si vede, pur avendo dato notevolissimi contributi allo sviluppo di una scienza del
magnetismo, che saranno ammirati da Galilei, Gilbert abbraccia cordialmente
l'animismo bruniano. Se ciò può apparire strano, è solo perché non ci si rende conto
che, nell'attribuire un'anima razionale a un sistema fisico ‘materiale’, i pensatori
rinascimentali pensavano appunto alla razionalità e comprensibilità del comportamento
di quel sistema, e non alla sua arbitrarietà e instabilità - che sono piuttosto le proprietà
che noi tendiamo ad associare ai sistemi viventi. Quindi, non solo l'animismo non
inibiva la ricerca scientifica, ma ne poteva anche diventare il garante filosofico. Né, del
resto, si trattava di una concezione metafisica sterile, perché da essa sorgeva
naturalmente, come abbiamo visto (§§11-12), una questione passibile di indagine
empirica a più livelli e in più contesti: quali sono le ulteriori caratteristiche del
comportamento dei corpi che ci assicurano che si muovono in maniera non meccanica,
ma di propria iniziativa (per un “principio intrinseco”)?
127
125
Cfr. Narlikar 1993, cap. 1.
“Vis magnetica animata est, aut animam imitatur; quae humanam animam, dum organico
corpori alligatur, in multis superat”.
127 Che Bruno sia nominato da Gilbert, anche se non nel De magnete, è messo in evidenza da
Ricci 1985, p. 39.
126
41
Esemplare è a questo riguardo il caso di Keplero. Nella prima edizione del Mysterium
Cosmographicum (1596), egli discute l'alternativa tra (i) attribuire ai singoli pianeti
anime responsabili del loro moto (“motrices animae”), tanto più deboli quanto più
distanti dal Sole; (ii) conferire un'anima soltanto al Sole, la quale “incita con tanto
maggiore forza qualsiasi corpo quanto più questo è vicino”. Fra le due opzioni,
favorisce nettamente la seconda, pur rinviando ad altra occasione una trattazione più
approfondita. In una lettera del 1607 dichiara di non considerare la “simpatia”
magnetica come dello stesso tipo del “senso o percezione con cui la Terra percepisce
gli aspetti celesti”, per il seguente motivo:
128
il magnete invero manca dell'uso della ragione: ciò che mette in atto, lo fa non secondo
linee circolari, ma secondo rette, come fanno le materie. [K, II, p. 591]
Nella seconda edizione del Mysterium, nel 1621, Keplero aggiunge nelle note di aver
rifiutato le anime motrici già nell'Astronomia nova (1609), e spiega come si debba
intendere questo cambiamento: la sua nuova concezione coincide esattamente con la
(ii), purché si sostituisca la parola “anima” (Anima) con “forza” (Vis). Il punto chiave,
che gli aveva fatto abbandonare la concezione delle “Intelligenze motrici”, appresa
dall'opera di Giulio Cesare Scaligero, era stato l'osservazione che
questa causa motrice si indebolisce con la distanza, e anche la luce del Sole si attenua con
la distanza dal Sole: ne conclusi, che questa Forza fosse qualcosa di corporeo, se non in
senso proprio, almeno metaforico [aequivoce]; come la luce la diciamo qualcosa di
corporeo, cioè una specie rilasciata da un corpo, ma priva di materia.
Ecco che, per passi quasi insensibili, accompagnati da un grandioso sforzo di
elaborazione teorica di osservazioni pazientemente raccolte, ci ritroviamo di fronte
(quasi) la legge di attrazione universale di Newton: un passo cruciale, quello che dà
l'inverso del quadrato della distanza, sta per essere compiuto – ma non lo sarà da
Keplero stesso – grazie all'assimilazione della forza alla diffusione della luce.
Ciò che mi sembra chiaramente mostrato da questa pur brevissima esemplificazione
e analisi è che i concetti bruniani, e più in generale della filosofia della natura del
Rinascimento, non dovettero essere preliminarmente cancellati dalla nuova scienza,
ma, anzi, formarono la base da cui si arrivò, per successivi raffinamenti e
puntualizzazioni, sulla soglia delle nozioni più caratteristiche della ‘rivoluzione
scientifica’.
129
130
23. Bruno e Galilei. Galileo Galilei ha vent'anni quando Bruno pubblica la Cena.
Abbiamo già fatto menzione di qualche punto di contatto tra quest'opera (e il De
l’infinito) e il Dialogo di Galileo, e abbiamo detto che la definizione dei rapporti tra
128
A Bernegger, del 30 novembre.
La quale, appunto, ha intensità tanto più debole quanto maggiore è la distanza dalla sorgente;
e la relazione quantitativa si ottiene pensando la luce come una sostanza “quasi materiale” che,
spostandosi radialmente dalla sorgente, si distribuisce uniformemente su aree sferiche
(proporzionali, appunto, al quadrato del raggio) sempre maggiori.
130 L'influenza di Bruno sui grandi scienziati suoi contemporanei non si ferma però qui; un altro
caso notevole è costituito dallo scopritore della circolazione sanguigna, William Harvey, che
potrebbe essere venuto in contatto con l'anticipazione che Bruno ne fa nel De immenso, durante
il suo soggiorno padovano (degli anni 1600-1602; vedi la classica trattazione di Pagel 1979, pp.
112-22). Sulle connessioni tra le opere mnemotecniche di Bruno e le ricerche sulla
“characteristica universalis” di Leibniz pioniere della logica ha insistito la Yates [1972, cap. 17].
129
42
scienza naturale e interpretazione della Bibbia li trova praticamente sulla stessa
posizione. A mio parere, si può in effetti considerare la politica culturale di Galileo, in
parte, come il tentativo di erodere l'autorità della Chiesa cattolica in campo filosofico,
in uno spirito affine a quello di Bruno. Questa ipotesi è oggi molto impopolare fra gli
studiosi di Galilei, anche perché si scontra con ciò che la maggior parte di essi ritiene
pressoché indiscutibile: la sua buona fede cattolica. Così leggiamo, in una nota
biografia di uno storico e filosofo non cattolico, che
Essendo nato in un paese cattolico, [Galileo] era un cattolico praticante; ma il problema
religioso non costituiva per lui il benché minimo assillo. [Geymonat 1969, p. 79]
Ora questa è una notizia che, se vera, sarebbe indubbiamente rilevante, anche se non
decisiva; è tuttavia notevole che, per un elemento fattuale così importante, e di per sé di
non facile accertamento, non venga fornita alcuna prova documentaria. In realtà, per un
imprevedibile colpo di fortuna, da pochi anni sappiamo positivamente che la notizia è
falsa, ma già da molto più tempo si poteva avanzare qualche fondato dubbio al
proposito.
Un viaggiatore lionese interessato alla scienza e ai suoi protagonisti, Balthasar de
Monconys (1611-1665), il 6 novembre del 1646 incontra a Firenze l'allievo e biografo
di Galilei, Vincenzio Viviani, e così descrive la conversazione intercorsa:
fui a passeggiare con il Sig. Viviani che è stato per tre anni con il Sig. Galileo. Mi disse la
sua opinione del Sole131 che egli credeva una stella fissa, la necessità di tutte le cose, la
nullità del male, la partecipazione dell'anima universale, la conservazione di tutte le
cose: [...]132
Ora, benché la frase “la sua opinione” è ambigua, una scritta sul margine del diario di
Monconys riporta: “Opinions du Sieur Viuiano”, che sembrerebbe implicare che
Viviani riferisse le proprie opinioni, e non quelle di Galileo. In ogni caso, è improbabile
che l'ultimo discepolo di Galilei, potesse formulare - a soli 24 anni! - un credo
filosofico così ardito ed esporlo a un visitatore occasionale senza in qualche modo poter
confidare sulla concordia con l'amato maestro, scomparso solo quattro anni prima. È
appena il caso di sottolineare che la concezione del mondo brevemente delineata da
Viviani è di chiara derivazione bruniana. Ma ci sono basi testuali nell'opera di Galileo
per affermare una convergenza in tal senso? La risposta è che almeno una delle più
tipiche dottrine bruniane (cfr. §6) è enunciata nel Dialogo, sia pure con la precauzione
di metterla in bocca non a Salviati, ma a Sagredo, il quale così interviene in un
momento della discussione in cui si sta toccando il problema della vastità dell'universo:
133
Grandissima mi par l'inezzia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l'universo
più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso, che all'immensa, anzi infinita,
Sua potenza. [p. 397]
131
Nel testo è indicato con un asterisco.
Henry 1887, p. 36. Per inciso, Leibniz, nel suo Tentamen de motuum caelestium causis
(1689), cita il libro di Monconys a due pagine di distanza dal brano sopra riportato, e secondo
una logica simile (precisamente per ricostruire, da un'affermazione di Torricelli, le probabili
opinioni di Galilei sulla natura della gravità).
133 Il che non toglie che quando nel 1654 Viviani scriverà su commissione del granduca
Leopoldo il Racconto Istorico della Vita del Signor Galileo Galilei (EN, XIX, pp. 597-632),
egli parlerà del suo maestro come di un “vero cattolico”, e userà a sua volta tranquillamente
espressioni pie.
132
43
Galileo era stato molto prudente, in diverse occasioni, nel dichiarare le proprie
simpatie per idee o persone 'pericolose': ciò si era verificato all'epoca del grave conflitto
tra Venezia e il Vaticano (l'“interdetto” lanciato dal Papa contro la repubblica
veneziana nel 1606), durante il quale egli non aveva preso posizione in pubblico; non
solo, ma aveva cercato di non pubblicizzare la sua amicizia con fra Paolo Sarpi, il
futuro autore dell'Istoria del Concilio Tridentino; e, nonostante l'amicizia e l'affetto per
Giovanfrancesco Sagredo (1571-1620), che immortalerà come uno dei personaggi del
Dialogo, si era ben guardato dal proporne l'elezione all'Accademia del Lincei,
probabilmente perché Sagredo si era distinto per la sua aggressiva ironia contro la
Chiesa cattolica.
Ma, quanto a Galileo come “cattolico praticante”, ci si sarebbe potuti limitare, per
sfatare la leggenda, alla circostanza ben nota che a Padova egli frequentò per anni una
donna da cui ebbe tre figli, e che non sposò mai: qualcosa che sarebbe considerato
molto lontano dal comportamento di un cattolico praticante ancor oggi, e che all'epoca
equivaleva a vivere in peccato mortale e con pubblico scandalo (solo in parte attenuato
dalla non convivenza).
Ora, però, recentemente sono emersi documenti che riguardano qualcosa di
insospettato e ancora non sufficientemente valorizzato dagli studiosi: una precedente
inchiesta dell'Inquisizione a carico di Galileo, risalente al 1604! Risulta che, mentre era
ancora a Padova, Galileo era stato denunciato, sembra dal suo amanuense, al
Sant'Uffizio, perché praticava l'astrologia (a pagamento); fra le accuse contenute nel
testo della denuncia, c'è che in 18 mesi non era mai andato alla messa, se non “una
volta […] per accidente”. La madre sembra che lo avesse sorvegliato e fatto
134
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137
138
134
Si rischia con ciò di farlo apparire un “codardo”? È notevole che Lucien Febvre [1942, p.
17], che tale accusa muoveva agli storici che scorgevano reticenze e dissimulazioni negli scritti
di Rabelais o Erasmo, scrivesse solo pochi anni dopo che in Italia la richiesta di giurare fedeltà
al regime fascista, pena il licenziamento (un provvedimento grave, ma non esattamente
paragonabile al carcere, alla tortura, o al rogo), era stata rifiutata - nonostante molti casi di
‘ripugnanza interiore’ - da soli (o circa) 12 docenti universitari su oltre 1200 (cfr. Goetz 1993).
Quanto poi al rischio di anacronismo, “il peccato fra tutti imperdonabile” (Febvre 1942, p. 15),
basterà citare un passo di una lettera di Bernegger a Keplero, dell'8 giugno 1608, con cui
rispondeva alla lettera da cui è tratta l'epigrafe del presente saggio: “Non posso meravigliarmi
abbastanza della follia di Giordano Bruno; che cosa ci ha guadagnato a sopportare così grandi
tormenti? Se non esistesse alcun Dio vendicatore dei crimini (come egli credette), non avrebbe
potuto simulare qualsiasi cosa, al fine di salvare in questa maniera la vita?” (K, II, p. 596). In
effetti, come abbiamo visto (cfr. nota 102), Bruno portò avanti per quasi otto anni una strategia
di parziale dissimulazione.
135 Il papa di allora, Paolo V (1605-21), protestò in questo modo perché a Venezia erano stati
arrestati, per reati comuni (fra cui un omicidio), due sacerdoti; è interessante che ciò avveniva in
un'epoca in cui la Chiesa cattolica trovava del tutto appropriato contare sulla collaborazione del
potere civile nella persecuzione dei sospetti di eresia.
136 Biagioli 1993, pp. 250-2.
137 Non per niente gli inquisitori tornarono a più riprese nei loro interrogatori di Bruno circa le
sue affermazioni riguardanti il “peccato della carne”, che egli avrebbe ereticamente ritenuto
quasi veniale: e Bruno, che pure insiste sulla sua posizione eterodossa in merito a punti così
delicati della fede cattolica come l'interpretazione della Trinità, non esita invece a dire di aver
parlato con “leggierezza” (P, pp. 288-9) a quel proposito.
138 Poppi 1992, pp. 55-61. Chi pensi che questa negligenza non fosse poi considerata tanto
grave, non ha che da aprire il Directorium Inquisitorum, dove, nella classificazione degli eretici
secondo i “segni esteriori”, troviamo “coloro che non vanno spesso alla messa come è obbligo,
coloro che non ricevono l'eucaristia o che non si confessano nei periodi stabiliti dalla Chiesa
44
sorvegliare sotto il profilo dell'osservanza religiosa fin da quando il figlio era
adolescente a Firenze, dove era stato già convocato dal Sant'Uffizio (tanto basti anche
per l'affermazione che “il problema religioso non costituiva per lui il benché minimo
assillo”!). A mio parere è probabilmente per questo che, proprio a partire dal 1604,
cominciano le manovre di Galileo per lasciare Padova: nonostante quanto è stato detto
dai biografi circa i rischi affrontati nel lasciare la 'protezione' della repubblica
veneziana, egli aveva ottime ragioni per non sentirvisi più al sicuro.
Tutto ciò basta ampiamente a spiegare, a mio parere, perché Galileo non abbia mai
fatto il nome di Bruno nelle sue opere, nonostante il rimprovero di Keplero nella
Dissertatio cum Nuncio sidereo (K, II, pp. 501-2): non perché volesse prendere le
distanze da una concezione troppo diversa dalla propria, ma per il rischio di
compromettere una battaglia culturale in fondo pericolosamente simile a quella dello
sventurato Nolano. In effetti Galileo tentò di fare qualcosa che a Bruno non era
riuscito: mettere la Chiesa cattolica con le spalle al muro dimostrando la verità della
tesi copernicana, e quindi costringendo a rinunciare all'“unanime consenso dei Padri
della Chiesa” su una questione non banale di interpretazione delle Scritture. Questa era
una mossa che Sant'Agostino (citato a proprio supporto da Galileo) aveva previsto come
ammissibile, ma che avrebbe costituito, per la Chiesa post-tridentina, uno smacco dalle
conseguenze incalcolabili. L'“argomento di Urbano VIII”, che Galileo era stato
richiesto di inserire alla fine del Dialogo, era appunto destinato a impedire che una tale
eventualità dovesse mai capitare: esso sosteneva che l'onnipotenza divina potrebbe
realizzare un certo fenomeno per mezzo di più sistemi di cause, e non solo di quello che
alla mente umana sembra il più plausibile, o anche il solo concepibile. Accettare questo
argomento significava per Galileo ammettere ben più che la non conclusività di un
ragionamento tecnico (quello delle maree): era la sconfitta del suo programma
filosofico. È per questo che, nonostante una serie di piccole concessioni disseminate nel
Dialogo, non resisté, nelle pagine finali dell’opera, a mettere l'argomento di Urbano
VIII proprio in bocca al personaggio ridicolo e ‘perdente’, Simplicio. È questo atto di
insubordinazione cruciale e gravido di conseguenze che va considerato, in Galileo,
l'analogo della decisione di non abiurare che Bruno manifestò alla fine dei suoi otto
anni di reclusione.
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142
24. Conclusione. Spero di aver dato, nelle pagine precedenti, un'idea della
straordinaria ricchezza di temi che si addensano attorno alla figura di Giordano Bruno.
Il diritto alla memoria storica non si fonda, nel caso di Bruno, soltanto su una biografia
avventurosa e sull'atroce violenza finale; si può anzi dire che queste abbiano talvolta
ristretto la visuale da cui lo si è studiato. Come abbiamo visto, per molte delle
[...]” (Sala-Molins 2000, p. 152).
139 Per inciso, anche la nota e polemica preferenza di Galileo per l’Ariosto rispetto al Tasso, il
“Poeta sacro” (Dialogo, p. 463), potrebbe essere ridotta a una dimensione puramente esteticoletteraria solo con una buona dose di ingenuità (che però non ha fatto difetto ai commentatori:
cfr. Geymonat 1957, p. 25).
140 Cfr. Biagioli 1993 (p. 250) che però non utilizza Poppi 1992.
141 Ciò non toglie, naturalmente, che ai grandiosi quadri teorici tipici dei filosofi della natura,
Galilei volesse sostituire la paziente analisi anche dei fenomeni più ordinari, con la massima
attenzione ai dettagli tecnici, senza i quali non si può arrivare a una vera “dimostrazione”. È
possibile che anche a Bruno egli pensasse quando nel Dialogo (p. 436) ironizza su chi voglia
limitarsi a spiegare i fenomeni del magnetismo mediante la “simpatia” e l'“odio”.
142 Come del resto è chiaro dalla rigidezza mostrata da Bellarmino nella sua lettera a Foscarini
(§20).
45
problematiche affrontate nella sua opera Bruno costituisce uno snodo cruciale della
storia del pensiero scientifico occidentale. Non solo, ma molto di ciò che ha detto,
compresi gli errori che ha commesso, è ancora singolarmente vivo, nel senso di
connettersi in profondità con questioni che, sotto diverse spoglie, sono ancora al centro
delle nostre preoccupazioni. Dalla relatività del moto all'infinità dell'universo, dal
determinismo alla idea di legge di conservazione, dalla logica delle interazioni fisiche
ai ‘gradi del vivente’, dalle origini extraeuropee del pensiero greco alla medicina
psicosomatica - sono tanti e di evidente importanza i campi in cui l'immersione
nell'opera bruniana ci permette non solo di misurare i nostri reali progressi rispetto alla
filosofia rinascimentale, ma anche di individuare le zone in cui la visione delle cose
oggi dominante è elusiva e incerta. Inoltre Bruno ci propone un'immagine di filosofo
della scienza che non si limita a rendere omaggio ai successi, veri o presunti, degli
scienziati del suo tempo, ma cerca di forgiare una concezione generale del mondo da
cui i contributi di costoro ricevano un senso più ampio o risultino eventualmente
ridimensionati. Come abbiamo visto, c'erano anche al suo tempo scienziati come Brahe,
che reagivano a questi tentativi con sufficienza e irrisione: ma solo al costo di inchinarsi
all'autorità religiosa e lasciarle l'ultima parola.
Più in generale Bruno ci offre l'opportunità di meditare sugli spazi che si dischiudono
a un pensiero innovativo per rompere le catene delle opinioni ricevute e
istituzionalmente protette. La Chiesa cattolica non costituisce più il principale nemico
per la libertà del pensiero, ma altre agenzie, non meno opprimenti, ne hanno preso il
posto. Il legame tra potere politico-economico e limiti imposti all'espressione del
dissenso è oggi non meno ferreo che al tempo di Bruno, sebbene agisca in forme più
sottili e mascherate - ed anche per questo più efficaci. Ma la strategia fondamentale
della repressione intellettuale, cioè la ‘congiura’ del silenzio sulle tesi non gradite ai
detentori del potere, è oggi adoperata come quattro secoli fa. Dai successi di Bruno e
dal suo finale fallimento si possono raccogliere importanti lezioni per un progetto
realistico di trasformazione della scienza da strumento di una tecnologia della
persuasione e del disciplinamento delle masse, a forza di liberazione (certo non l’unica)
dall'oppressione dei corpi e delle coscienze.
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Giova però osservare, a sottolineare una solidarietà di fondo nei comportamenti della Chiesa
attraverso i secoli - simile a quella di altre istituzioni del potere -, che sono solo pochi decenni
(nel 1930) che il persecutore di Bruno e Galilei, il cardinale Bellarmino, fu proclamato santo
(Barbera 1980, p. 139).
144 A proposito di Bruno, la Chiesa cattolica si guardò bene dal pubblicizzarne il caso, anche se,
come testimonia l'epigrafe di questo saggio, la notizia si venne a sapere già dopo pochi anni. E
tuttavia è notevole che Pierre Bayle, nella sua voce su Bruno pubblicata alla fine del secolo,
dicesse di non sapere per certo se Bruno era stato mandato al rogo e, anzi, esprimesse un suo
personale dubbio al riguardo (Bayle 1696, nota (D)). Dubbi riaffiorarono anche nell'Ottocento, e
dovette intervenire Leone XIII a confermare, nel 1891, che l'esecuzione era stata veramente
eseguita (Barbera 1980, p. 127n). Fu d’altra parte solo nel 1942 (sic!) che la Chiesa rese noto un
importante documento, il “Sommario”, redatto “non prima del 1597” (e cioè durante la fase
romana del processo), rinvenuto nel 1940 dal cardinale A. Mercati fra le carte del predecessore
di Leone XIII, Pio IX (morto nel 1878; P, pp. 3-4).
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Bibliografia
I) Abbreviazioni
Le edizioni delle opere di Bruno utilizzate sono:
[OL] FIORENTINO F., TOCCO F., VITELLI G., IMBRIANI V., TALLARIGO C. M. (a
cura di) 1879-91: Iordani Bruni Opera Latine Conscripta, publicis sumptibus edita,
Napoli, Morano, poi Firenze, Le Monnier.
[DI] GENTILE G., AQUILECCHIA G. (a cura di) 1985: Giordano Bruno, Dialoghi
italiani [1925], Firenze, Sansoni.
[P] FIRPO L. 1993: Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma,
Salerno.
Quest’ultimo testo contiene (pp. 143-358) un’edizione critica di tutti i documenti
processuali pervenutici.
Le singole opere di Bruno a cui ho fatto riferimento sono citate secondo le seguenti
abbreviazioni, qui elencate nell'ordine cronologico delle opere (la data di pubblicazione
è inserita tra [ ], mentre quella di - probabile - composizione tra < >):
Cena = La cena delle ceneri [1584], in DI, pp. 3-171
De la causa = De la causa, principio e uno [1584], in DI, pp. 173-342
De l'infinito = De l'infinito, universo e mondi [1584], in DI, pp. 343-537
Spaccio = Spaccio della bestia trionfante [1584], in DI, pp. 547-831
Cabala = Cabala del cavallo pegaseo [1585], in DI, pp. 833-923
Acrotismus = Camoeracensis Acrotismus [1588] in OL, I.1, pp. 53-191
Articuli = Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque
philosophos [1588], in OL, I.3, pp. 1-118
De magia, Theses de Magia = De Magia et Theses de Magia <1589-90>, in OL, III, pp.
395-491
De magia mathematica <1589-90>, in OL, III, pp. 493-506.
De immenso = De Immenso et Innumerabilibus [1591], in OL, I.1, pp. 193-391 (libri 13) e OL, I.2, pp. 1-318 (libri 4-8)
De vinculis = De Vinculis in Genere <1591>, in OL, III, pp. 635-700
I testi del De magia e De vinculis sono riprodotti e tradotti in Parinetto 2000.
Si sono usate anche le seguenti abbreviazioni:
[K] FRISCH Ch. (a cura di) 1858-71: Johannes Kepler, Opera Omnia, Francoforte ed
Erlangen.
[EN] FAVARO A. (a cura di) 1890-1909: Edizione Nazionale delle Opere di Galileo
Galilei, Firenze.
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In particolare per il Dialogo, che appare in EN, VII, pp. 25-489, si è dato il riferimento
di pagina all'Edizione Nazionale; tale numerazione è riprodotta anche in edizioni
moderne (per es. Sosio 1970).
II) Altri riferimenti
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italiani, vol. 14, pp. 654-65.
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AQUILECCHIA G. 1993: Schede bruniane, Roma, Vecchiarelli.
AQUILECCHIA G. 1995: “Possible Brunian Echoes in Galileo”, Nouvelles de la
République des Lettres, pp. 1-18.
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