Cinema e dialogo interreligioso
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A
Edizione
2016
FEDI IN GIOCO
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Cinema e dialogo interreligioso
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A
Edizione
2016
FEDI IN GIOCO
Voci di pace nelle Sale della comunità
di Francesco Giraldo, Segretario Generale ACEC
L
e Religioni, come la lingua, sono gli elementi culturali più
importanti, si può dire costituiscano i fili essenziali del tessuto
sociale. La Religione instaura il processo della creazione
dell’identità.
Allo stesso tempo le religioni sono in costante
trasformazione e non sono delle realtà
monolitiche come si crede. Sono processi
che evolvono nel tempo e nello spazio e non
sono eventi statici dati una volta per tutte.
La loro interazione con il tessuto sociale
può subire accelerazioni o rallentamenti
o comunque anche processi di stagnazione
e di degenerazione. Chi prefigurava la fine,
la scomparsa delle religioni si è dovuto
ricredere. L’attuale quadro delle religioni
diffuse capillarmente nel mondo è in piena
espansione e affonda le sue radici in una vasta
e complessa gamma di eventi storici e di
motivazioni sociali e psicologiche; spesso,
poi, le stesse religioni sono strettamente
connesse alle condizioni geografiche e sociali,
dove la religione è nata e si è sviluppata.
Il quadro attuale può considerarsi in piena
evoluzione. Due fenomeni toccano da vicino
il fatto religioso: il primo è determinato
dal grande movimento di fedeli islamici
innescato dall’emigrazione verso i paesi
più sviluppati e dalle emigrazioni dovute
ai conflitti armati. Il secondo è dovuto
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al processo di secolarizzazione che
caratterizza molte aree in varie parti del
mondo, compresa la nostra Europa.
“FEDI IN GIOCO - Cinema e dialogo
interreligioso” nasce dalla partnership stretta
dall’Acec con il Religion Today Filmfestival
a
che, giunto alla sua 18 edizione, è stato
il primo festival internazionale di cinema
delle religioni e ha cercato di promuovere
da subito una cultura della pace e del dialogo
tra persone, popoli, fedi e culture.
L’iniziativa, proposta in 30 Sale della
comunità, in periodo di grandi stravolgimenti
sociali, segnati da una spaventosa crisi
economica e dal pericolo del fondamentalismo
religioso, ci aiuta a leggere attraverso tre film
di altrettante religioni (Magic Men - Ebraismo,
Gold and Copper - Islam, Marie Heurtin
- Cristianesimo) “il contesto in cui viviamo
e ci offre gli strumenti per interpretarlo,
richiamandoci all’impegno personale,
al mettersi in gioco, all’aprirsi alla speranza,
a farci testimoni e promotori dei valori del
rispetto, della solidarietà, dell’accoglienza,
della disponibilità al dialogo” (dall’introduzione
di Ugo Rossi, Presidente della Provincia
Autonoma di Trento, al catalogo Religion Today
2015).
Attraverso l’iniziativa FEDI IN GIOCO - Cinema
e dialogo interreligioso, l’Acec ha il desiderio
che le sale della comunità e le realtà ecclesiali
in particolare, riescano ad aprirsi alla
contemporaneità, attraverso il cinema, che
stimolerà la coscienza critica delle persone
e favorirà la cultura dell’incontro e della pace.
Per favorire una idea di dialogo e, nello
specifico, di dialogo interreligioso che
intercetti le istanze della società e della
religione in un contesto culturale intessuto
dalla complessità, dal pluralismo culturale
e da un “politeismo dei valori” può aiutare
la conoscenza delle indicazioni offerte
in proposito da Hans Kung: “Non c’è pace tra
i popoli di questo mondo senza la pace tra le
religioni universali. Non c’è pace tra le religioni
universali senza la pace tra le chiese cristiane.
L’ecumene ecclesiale è parte integrante
dell’ecumene mondiale. L’ecumenismo
ad intra, concentrato sulla cristianità,
e l’ecumenismo ad extra, rivolto all’intera terra
abitata, sono interdipendenti”. Ecco perché
il dialogo interreligioso appare come il dialogo
necessario e definitivo. A tal proposito sempre
lo stesso Kung ci dice: “la credibilità di tutte
le religioni, anche di quelle minori, in futuro
dipenderà dal fatto che esse sottolineino più
ciò che le unisce e meno ciò che le divide.
Sempre meno, infatti, l’umanità può
permettersi che su questo pianeta le religioni
fomentino guerre invece di apportare pace,
favoriscano il fanatismo invece di cercare
la conciliazione, pratichino il predominio
invece di esercitare il dialogo”.
È sempre più chiaro e necessario che non c’è
pace tra le nazioni senza pace tra le religioni.
Non c’è pace tra le religioni senza dialogo
tra le stesse religioni.
Nell’anno del Giubileo della Misericordia
le religioni, pur nella loro diversità, sono
chiamate a perseguire un fine comune, cioè
la trasformazione dell’uomo, e quindi un agire
non all’insegna della vendetta, bensì
dell’amore e del perdono. L’atto di perdonare
non è la risultanza di un ragionamento logico;
per riuscire a perdonare realmente occorre
la forza dello Spirito. Per attuare questo
è richiesta la capacità di immedesimarsi
nell’altro, di mettersi nell’alveo di un cammino
improntato alla comprensione o simpatia
interiore, attivando un atteggiamento di
apertura totale di se stessi nei confronti
dell’altro.
Spesso ci poniamo la domanda: perché
le religioni diventano un ostacolo alla fede?
Perché la professione di fede non è favorita
dalla religione? Per il semplice motivo che
se le religioni perdono la loro anima spirituale,
dialogica ed “amorosa” diventano dei sistemi
ben organizzati, chiusi ed autoreferenziali.
Il rischio è che le religioni, trattando temi che
riguardano la Divinità, che viene definita
immutabile e atemporale, definiscano di
conseguenza i rapporti umani con lo stesso
Dio automaticamente sacri e quindi
immutabili, atemporali e aridi.
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Diciotto anni di dialogo tra cinema e religioni
di Katia Malatesta, Direttrice Religion Today Filmfestival
R
i-conoscere l’immensa varietà dei rapporti umani con quel
mistero che per qualcuno - ma non è così per tutte le tradizioni
religiose - prende il nome di Dio. E considerare, al contempo,
la ricchezza delle soluzioni con cui il cinema del nostro tempo
interpreta questa inesauribile pluralità.
È questa la prima sfida, scientifica e culturale,
attorno alla quale si è sviluppato nel tempo
il percorso di Religion Today, il festival
internazionale e itinerante che da diciotto anni
si domanda come il religioso possa diventare
oggetto di espressione (ma anche di industria
e di intrattenimento) attraverso lo specifico
di un medium contemporaneo qual è quello
cinematografico.
Fin dalle origini, d’altra parte, Religion Today
si è posto anche un obiettivo più militante:
esplorare il potenziale del cinema per
il dialogo interreligioso, a partire dalla
constatazione, confermata nel tempo, che
la settima arte, con la sua diffusione
planetaria, può fare molto per intaccare
i cliché, gli stereotipi, le generalizzazioni
ingiuste e offensive e contribuire ad una
migliore conoscenza delle diverse spiritualità,
culture, mentalità, concezioni del mondo.
Inizia così, dal 7 al 10 ottobre 1998, la storia
del primo festival di cinema delle religioni,
nato a Trento in collegamento con la
particolare chiamata della “città del Concilio”
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a rinnovare nel presente il desiderio
di fraternità e riconciliazione. Quelle prime
giornate erano il frutto di mesi intensi
di confronto e discussione tra operatori,
studiosi del cinema e scienziati sociali.
Al tramonto di un secolo segnato da forme
eclatanti di secolarizzazione, le religioni erano
considerate con diffidenza, se non tabù,
dalla critica cinematografica e nei maggiori
festival europei e americani. In questo
contesto, erano in molti a dubitare che
Religion Today potesse intercettare un numero
consistente di film di qualità. Le 128 iscrizioni
dell’esordio smentirono le previsioni negative,
forzando schemi ancora eurocentrici. Rispetto
ai film, meno interessanti, concepiti come
illustrazione didascalica di riti e credenze,
emerse da subito una produzione capace
di restituire la complessità poliedrica
e mutevole dei fenomeni religiosi, fuori di ogni
categorizzazione schematica e raggelante.
Inizialmente il Festival cercava sul grande
schermo soprattutto la manifestazione
dell’unità della fede e dei valori fondamentali
condivisi dalle diverse tradizioni religiose,
considerate “sotto un unico cielo” come
premessa di incontro e convivenza. A poche
settimane dal trauma epocale dell’11
settembre, l’edizione del 2001, lontano dai
furori mediatici, rilanciò drammaticamente
l’urgenza del dialogo interreligioso come
unica via d’uscita dalla logica dello “scontro
di civiltà”. Parallelamente si faceva strada
la percezione del generale risveglio religioso
in un mondo un po’ libero un po’ orfano
delle ideologie novecentesche. Questioni,
immagini, personaggi a lungo confinati in una
produzione autoriale o “di nicchia”
cominciarono ad affacciarsi sempre più
spesso anche in opere mainstream
o di cineasti tradizionalmente indifferenti
alle tematiche religiose. Anche Religion Today
avvia una nuova fase sintetizzata nella
metafora del “viaggio nelle differenze”:
un invito ad abitare la diversità come dato
naturale e irriducibile della vita e della storia,
lasciando spazio alle distinzioni non meno
che alle convergenze, nella consapevolezza
che il dialogo non mira al consenso, ma
al reciproco progresso. “Viaggiando” attraverso generi, stili, scuole,
sperimentazioni cinematografiche spesso
provenienti da industrie lontane e poco
conosciute, difficilmente accessibili in altri
contesti, il Festival anno dopo anno richiama
operatori delle più varie appartenenze
nazionali e religiose. Si impone
progressivamente l’importanza degli incontri
che si svolgono lontano dal palco e dalle
telecamere: in un clima familiare
e accogliente, ospiti provenienti da paesi
divisi da profonde tensioni internazionali
per la prima volta si trovano a condividere
i loro punti di vista sul cinema, sulla religione,
sulla comune aspirazione alla pace. È l’idea
apparentemente ovvia ma nei fatti
rivoluzionaria di un “laboratorio di convivenza”
tra filmaker che, con le loro opere, possono
farsi moltiplicatori di opinione nei rispettivi
paesi di provenienza.
Negli anni Religion Today consolida anche
la propria “anima migrante”, raggiungendo
di volta in volta le valli trentine, Bolzano,
Ravenna, Assisi, Bassano, il Salento, Roma,
Nomadelfia, avviando nuovi scambi
da Gerusalemme al Regno Unito, alla Polonia,
al Bangladesh, all’Iran. Questa logica di rete
si estende alle collaborazioni sempre più
numerose con associazioni, movimenti, enti
e istituzioni locali. Le attività si dispiegano
lungo tutto l’anno e cresce l’impegno nelle
scuole, con proposte che declinano per
le varie fasce di età la dialettica tra cinema,
dialogo, religioni. Ogni edizione si caratterizza
per la scelta di un tema dell’anno, inteso come
strumento per orientarsi nella complessità dei
fenomeni religiosi e delle loro rappresentazioni,
senza nascondere criticità e tensioni che
diventano spunto per allargare lo sguardo
al dialogo tra credenti e non credenti. Un ponte
verso un futuro che nuovamente ci chiama
a difendere la possibilità della pace.
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Secolarizzazione e risveglio religioso
in Occidente: l’inevitabile coabitazione
di Salvatore Abbruzzese, Dipartimento di Sociologia - Università di Trento
I
l nostro mondo contemporaneo è profondamente diverso da quello
nel quale, all’inizio del processo di civilizzazione, sono sorte
e si sono strutturate le prime grandi religioni.
Queste emergevano in un universo sociale
nel quale il sapere scientifico non aveva
ancora visto la luce e dove tanto il mistero
della natura quanto quello della vita e della
morte restavano senza spiegazioni. Esigenze
di protezione e di rassicurazione
accompagnavano i passi dei primi gruppi
sociali volti a insediarsi in modo stabile,
lasciando segni e simboli per comunicare
con le anonime potenze soprannaturali.
Le grandi religioni si sono imposte su di un
tale mondo magico e pre-animista elaborando
altrettante immagini di Dio e del mondo
sfocianti in principi di vita e norme di condotta.
Per tale strada, là dove sono riuscite
ad imporsi, queste hanno realizzato il più
potente tentativo di strutturazione dell’intera
vita sociale, tanto dei singoli quanto
delle comunità.
Oggi che i misteri della natura e della vita,
ricondotti ai saperi delle scienze fisiconaturali, sono oramai consegnati ai manuali
scolastici; oggi che uomini e società hanno
appreso a proteggersi da ogni evenienza
e lo stesso animo umano, filtrato dalle scienze
della psiche, non sembra avere più misteri,
l’intero universo delle eredità religiose
non sembra più essere necessario. Un’intera
ricerca del divino mossa dalle esigenze
di protezione e di rassicurazione
è definitivamente in declino. Non restano
che opere d’arte e siti archeologici, luoghi di
culto e scenari estetici dove, verosimilmente,
al posto della devozione del credente sembra
prevalere la curiosità del turista.
In un tale scenario l’affermazione attuale
della sensibilità religiosa, la stessa generale
e innegabile tendenza alla ricerca spirituale
che così potentemente caratterizza e
attraversa la nostra modernità contemporanea
è attivata da ragioni ed esigenze inedite.
Una tale ricerca spirituale e religiosa, non
avendo più ragione di alimentarsi alle fonti
dell’esigenza di protezione e di rassicurazione,
scaturisce da altre sorgenti, si origina a partire
da altre dimensioni.
Per rintracciare quest’ultime dobbiamo
entrare nelle domande dell’umano rimaste
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senza risposta. La scienza infatti ci restituisce
delle verità oggettive, meccanicamente
assicurate da connessioni causali,
assolutamente indifferenti ad un universo
personale di emozioni, di relazioni e di affetti
che ci scuote dall’interno. L’intero universo
delle emozioni individuali non rappresenta
nulla di sostanziale. Quella che definiamo
con il termine di “anima” non sembra
più avere una casa nell’universo disincantato
delle pure conseguenzialità fisico-naturali.
Lo stesso riconoscimento della pura fatalità
svuota i cieli dalla possibilità di rintracciarvi
una presenza capace di dare senso a ciò
che non lo ha. L’analisi razionale del reale,
colto nella forma storica della scienza
moderna, non ha nulla da dire delle passioni,
delle emozioni, dei desideri di bene, di buono
e di giusto ricercati e desiderati in quanto tali.
Questi restano senza ragioni che li rendano
legittimi, confinati alle connessioni psichiche
che li governano e che sono le uniche a poter
essere prese in considerazione.
Tuttavia, nel contesto apertamente
e quietamente secolarizzato, dove l’intero
universo della vita pratica scorre più che mai
sotto le regole di una razionalità ancorata
alle sole connessioni fattuali, questa risposta
mancata, quest’assenza di ragioni
è considerata inaccettabile. Il soggetto
costruisce uno spazio di senso dove preserva
i propri desideri di bontà e di giustizia
ponendoli al riparo tanto dall’indifferenza
corrosiva che proviene dall’universo fisiconaturale, quanto dal primato della razionalità
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strumentale emergente in quello storicosociale.
Nella vita di ciascuno si struttura uno spazio
interiore protetto dai benefici della
extraterritorialità riconosciuti alla vita privata,
nella quale nessuna istituzione secolare
può pretendere di accedere, esattamente
come nessuna meccanica razionale può
proporsi di regolare. Si tratta in primo luogo
di uno spazio di ricordi, di affetti, di passioni
intime e profonde, di cose care da custodire
e proteggere. Un tale spazio interiore
costituisce la vera stanza privata dove tutto
viene sistemato, ricollocato ed elevato a fonte
inesauribile di senso.
Ma un tale spazio è anche quello dove trova
riparo l’esigenza di interpretare il divenire
del mondo inteso come storia collettiva
condivisa. I ricordi non possono essere fonte
di senso se non sono inseriti in una cornice
più ampia della quale sono testimoni. Nulla
può proteggere la propria memoria privata
quanto la certezza di un divenire collettivo,
di un’umanità che non è sola, di un altrove
nel quale ciò che ci è caro risiede come parte
integrante. In pratica non c’è cosmo interiore
che si possa mantenere a lungo senza poter
essere ricondotto ad una dimensione
trascendente che lo riconosca e della quale
le religioni traccino la mappa indicando forme
e precisando contenuti.
Le religioni, così come, più in generale
le oggettivazioni di un Dio al quale un tale
universo interiore può essere confidato,
finiscono allora per detenere un’importanza
decisiva. Altari e cappelle, volti e immagini,
silenzi e meditazioni, esattamente come
le formule e i canti della liturgia condivisa
diventano allora gli alvei dentro i quali una
simile comunicazione con le fonti di
legittimazione di senso è assicurata. Questi
luoghi e questi tempi, dove il proprio universo
interiore è confidato e confermato nella sua
solenne solidità, sono anche quelli nei quali
ci si imbatte in una comunità di quanti,
condividendo la stessa esigenza, fanno della
relazione con la trascendenza una dimensione
strutturante la coscienza del proprio sé.
Così si riempiono di nuovo le basiliche,
si riaccendono candele e si riaprono i libri
di teologia e i testi di spiritualità.
Il risveglio religioso nella società moderna,
slegato oramai dall’esigenza di protezione
che sopravvive solo nelle devozioni popolari,
non ha oramai nulla di automatico ma rinvia
completamente alle scelte individuali. È allora
la realtà sociale dei credenti che riscrive
il calendario delle solennità e ridefinisce
la mappa dei luoghi. Le Chiese, dopo aver
diretto per decine di secoli un’umanità alla
ricerca di protezione e di rassicurazione,
accompagnano oggi una nebulosa di
comunità in cammino.
Di un tale fenomeno sfugge completamente
la portata. Relegati nell’universo della nostra
vita quotidiana ed avendo accesso alle notizie
provenienti dall’universo mediatico, siamo
intrappolati in una dimensione congiunturale
nella quale qualsiasi tema viene trattato solo
quando sfocia nei fatti. Il movimento appena
descritto tende così a restare nel retrobottega
dell’informazione.
Le grandi dinamiche dell’esistenza, l’universo
impalpabile eppure decisivo dei sentimenti
resterebbero inespressi se non trovassero
nell’arte e in particolare nell’arte
cinematografica, il luogo essenziale nel quale
possono essere ricompresi. In particolare
è proprio il cinema, con la sua capacità
di descrivere e narrare, di ri-presentare
ed analizzare, che rende possibile osservare
l’universo sociale delle credenze religiose,
assieme alle dinamiche che lo attraversano
ed alle esigenze che vi dimorano. Il cinema,
inteso come riserva di documenti e analisi su
di una realtà immancabilmente approfondita,
diventa il portale qualificato di accesso a tutte
quelle dinamiche dell’umano che restano
in ombra a dispetto del ruolo che svolgono
e dell’importanza che ricoprono.
Si realizza così un’opera di profondo
riequilibrio, dove l’essenziale torna ad
emergere, dove ciò che conta e che decide
le grandi scelte dell’esistenza è riportato
alla luce.
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Con le mie opere ti mostrerò la mia fede
Di Katia Malatesta e Davide Zordan (1968-2015)
«
Quando si parla delle potenzialità religiose del cinema, dei modi
in cui il mezzo cinematografico riesce a onorare la dimensione
spirituale offrendone una rappresentazione, una delle formule
più ricorrenti è quella del “vedere” o “filmare l’invisibile”.
Lo ricordava, nel 2011, Davide Zordan,
teologo, critico cinematografico e presidente
del Religion Today Filmfestival, scomparso,
troppo presto, il 25 ottobre del 2015.
Sintetizzando la sfida di dare visibilità a
qualcosa che normalmente si sottrae alla
nostra vista, l’espressione caratterizza quella
produzione che, fin dalle origini della settima
arte, ha corteggiato la trascendenza, di volta
in volta ricorrendo al simbolo, agli effetti
speciali, o piuttosto aderendo ad una realtà
intrisa di pietà, in cui traluce, miracoloso,
il momento di grazia.
Uno sguardo generale ai film raccolti
nell’archivio del Religion Today Filmfestival,
e in particolare ai titoli selezionati per questa
breve rassegna interreligiosa, ci guida però
in un’altra direzione, all’intersezione tra
cinema e fede come vissuto che non può non
documentarsi anche visivamente. «In questo
senso - continuava Zordan - non è l’invisibile
a mostrarsi improvvisamente, ma piuttosto
il visibile ad ospitare i percorsi e i gesti della
fede di tanti uomini e donne, e questi gesti
interessano il cinema come tutto ciò che
12
»
è radicato nell’esperienza umana. “Con le mie
opere ti mostrerò la mia fede”, afferma un
celebre passaggio della Lettera di Giacomo
(2,18), ed è precisamente così che la fede
si mostra nello spazio della visibilità:
attraverso opere, condotte, testimonianze, atti,
voti, suppliche. Il cinema dell’invisibile,
intendendo con questo il cinema che ha una
ambizione spirituale, è chiamato anzitutto
a misurarsi con queste pratiche del visibile,
ed è chiamato a restituirle in maniera
adeguata, cioè rispettando il contesto umano
e fenomenico del loro prodursi, senza enfasi
inopportune. L’incontro tra cinema e fede
si realizza qui, nell’ambito del pienamente
visibile, di ciò che è accessibile a tutti pur
restando oscuro a chi-regista o semplice
spettatore-non possiede una sensibilità
adeguata e una attenzione davvero
partecipativa.»
Nelle parole dell’apostolo Giacomo,
recentemente commentate da papa Francesco,
risuona con forza l’appello alla testimonianza:
le opere inverano una fede che non può e non
deve restare astratta teoria. È l’amore del
prossimo la “regola d’oro”, mai abbastanza
conosciuta e ribadita, presente da sempre
in tutte le culture e le religioni, troppo spesso
tradita, tragicamente, da coloro che proprio
della religione fanno strumento di violenza
e di morte. Ma di quell’imperativo universale “Tutto quanto volete che gli uomini facciano
a voi, anche voi fatelo a loro” - il cinema può
e anzi ama farsi interprete. Al centro di film
come “Marie Heurtin”, “Gold and Copper”,
“Magic Men” si colloca evidentemente
la relazione: il sentimento che diventa fare,
la fede che dà frutto, il comandamento sentito
come tale in ogni tempo e a ogni latitudine.
«C’è un altro importante aspetto da
considerare - avvertiva ancora Davide Zordan
in un intervento del 2014 al congresso
mondiale organizzato a Roma da SIGNIS. È esattamente attraverso l’osservazione
di pratiche concrete che le religioni
dimostrano di essere soggette a ridefinizioni
e trasformazioni continue. Si potrebbe dire
che le formule dogmatiche sono immutabili,
e in un certo senso ciò è corretto, ma è
evidente che i comportamenti religiosi si
rinnovano continuamente. Accanto ad antiche
e venerabili tradizioni, come per esempio
i pellegrinaggi, troviamo sempre nuove forme
di partecipazione religiosa, sia personali che
di gruppo. A volte queste nuove forme
risultano problematiche per le chiese, per
i rappresentanti delle istituzioni religiose,
ma sono di grande interesse per capire
la vitalità e l’ambiguità del fenomeno religioso.
Un altro vantaggio del cinema è la sua
capacità di collocarsi in un contesto e in
circostanze concrete, o di ricrearli. Nella
stragrande maggioranza dei casi, i film sulle
religioni non si curano molto della “religione”
nel suo complesso - con l’eccezione di
qualche documentario particolarmente noioso.
Il cinema si interessa piuttosto di storie
concrete, di frammenti di vita, ritratti di
modalità specifiche di appartenenza religiosa,
in cui a volte diverse tradizioni confessionali
si incontrano e si intrecciano, fino a scoprirsi
diverse da quello che pensavano.
Privilegiando il frammento vivido, il dettaglio
e non l’intero, il cinema ci fa perdere
l’illusione che le religioni siano sistemi
monolitici, uniformi nel loro crèdo e nel modo
di esprimerlo, e ci permette di cogliere
la relazione dialettica, e a volte drammatica,
esistente all’interno di ogni gruppo religioso.
In quanto arte del tempo, esprimendo l’idea
della mutevole natura di ogni cosa, il cinema
ci aiuta a capire meglio i movimenti, talvolta
impercettibili, che animano le religioni nella
nostra realtà presente, e ci invita, se vogliamo,
a riscoprire le implicazioni spirituali di questi
cambiamenti.»
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GOLD AND COPPER
“Oro e rame” di Homayoun Assadian
CAST: Negar Javaherian, Behrouz Shaibi, Javad Ezati
IRAN, 2010 |
97’
Scheda film
Per secoli gli alchimisti hanno cercato il segreto per la trasmutazione in oro dei metalli meno
nobili, intesa anche come metafora di una profonda trasformazione spirituale. Il titolo “Gold
and Copper”, esplicitato nella conclusione del film, ha in sé lo sviluppo necessario di una storia
che inizia tra gli scaffali di una biblioteca e si chiude quando lo studio diventa azione, appena
fuori dell’aula di etica, nel cortile del seminario di Teheran.
Seyed Reza, discendente del Profeta, è uno studente di teologia che si è appena trasferito
con la famiglia nella capitale per perfezionarsi negli studi. Perno della vita familiare è la
sorridente abnegazione di Zahra, la giovane moglie che si prende cura di Seyed e dei bambini
come della nuova vicina di casa, trovando anche il tempo di tessere i tappeti tradizionali che
guadagnano loro da vivere. Ma la salute di Zahra peggiora costantemente, fino al ricovero in
ospedale, dove le viene diagnosticata la sclerosi multipla. Stordito dalla disgrazia, Seyed si
trova improvvisamente nella necessità di cucinare, cambiare pannolini, accompagnare la figlia
a scuola e portare con sé il bambino tra gli allievi e i maestri del seminario.
Attraverso dettagli sottili ma rivelatori, dalla freddezza dei colleghi di Seyed alla diversa
accoglienza che gli è riservata a seconda che si presenti “in borghese” o con l’abito religioso,
il film denuncia, in modo spesso inatteso, le tensioni di una società che fa pochi sconti ad una
famiglia in crisi. Con una narrazione apparentemente semplice e spontanea, in realtà frutto
di un attento controllo di tutti gli elementi tecnici e artistici, Asadian rilegge il classico
melodramma domestico trasformando una storia alla “Mister mamma” in una commovente
parabola di respiro universale, che mescola humour e tragedia con un forte senso del sacro
nelle fatiche quotidiane. La malattia, nel sovvertire schemi e ruoli collaudati, costringe tutti
a una strenua prova di “etica applicata” che concretizza le eloquenti citazioni coraniche sul
potere trasformativo dell’amore. La recitazione offre più di un tour de force nella resa del
rapporto di coppia in un contesto che proibisce di mostrare sullo schermo il contatto fisico
tra uomini e donne; nei panni di Zahra, Negar Javaherian è semplicemente straziante quando
le gambe la tradiscono mentre cerca di cucinare per la figlia un piatto di spaghetti. Apprezzato
anche in patria per equilibrio e intelligenza, tanto dal clero tradizionalista quanto dagli studenti
più radicali, “Gold and Copper” è soprattutto un appello alla compassione, che non contesta la
religione ma il freddo dogmatismo con cui essa, talvolta, viene praticata. Una finestra su una
terra misconosciuta e un’occasione rara per scoprire il cinema iraniano non distribuito in
Occidente.
15
Lettura teologica
di Shahrzad Housmand, teologa musulmana e docente di studi islamici
I
l forte appello ad amare Dio nell’altro con cui si conclude
“Gold and Copper” trova precisa ispirazione in molti passi
del Corano.
Credere e operare il bene
Pienezza di amore e misericordia
U
I
no degli ultimi “capitoli” (sure)
del Corano è dedicato al Tempo.
In pochissimi versetti, il Corano stesso
giura sul tempo che in verità gli esseri umani
sono perduti, con l’eccezione di coloro che
credono e operano il bene, raccomandandosi
reciprocamente alla verità e alla pazienza
(Corano 103). Il credere dunque si abbina
sostanzialmente all’opera: limitarsi a parlare
di Dio come di una ipotesi non è abbastanza
per uscire dallo stato di perdizione; la fede
non può rimanere chiusa in una scatola
di teoria ma dovrebbe necessariamente
diventare azione. Le due formule che chiudono
il capitolo chiamano in causa anche la
relazione “orizzontale” tra gli esseri umani:
si salveranno solo coloro che si raccomandano
reciprocamente alla verità come assoluto
che non entra nelle tasche di nessuno,
né individuo né società né religione, mistero
al quale possiamo avvicinarci soltanto
aprendoci verso l’altro. In una vita piena di
sofferenza e fatica, infine, la sura del Tempo
ci richiama alla pazienza reciproca.
16
l Corano si presenta come un invito
a una lettura profonda e meditata tesa
a decodificare la verità di se stesso
e dell’universo. Questo libro, considerato sacro
da un miliardo e settecento milioni di
musulmani del mondo, ma rivolto
singolarmente a ciascun essere umano,
attribuisce dei nomi a Dio: simbolicamente 99,
per indicare l’assenza del limite. A Lui, infatti,
appartengono tutti i bei nomi (59,24).
Tra questi infiniti nomi, “Allah” si traduce
letteralmente come “il Dio”. Altri due nomi
più specifici sono “Rahman” - l’Amore infinito
e assoluto che si offre indistintamente
e senza condizioni a chiunque, dovunque
e in qualunque tempo - e “Rahim”, l’amore
relazionale che trova risposta nei fedeli.
Proprio questa è la formula che inizia 113
su 114 capitoli del Corano: l’invocazione
del nome di Dio, pienezza di amore e
misericordia.
Testimoni di Dio
Il Corano ci invita: siate coloro che “mettono
in atto” Dio pensando al prossimo; siate
uesto Dio presentato dal Corano come testimoni di Dio facendovi portatori della
giustizia. Alla sura 13 troviamo anche un
Amore crea pure per amore. Dio non
chiaro appello alla fratellanza religiosa con
si assenta dalla creazione; l’Essere
chiunque crede: “Egli ha stabilito per voi la
entra nell’essere, niente è distaccato da Lui.
“A Dio appartengono gli Orienti e gli Occidenti; stessa via di religione che già aveva prescritto
ovunque vi giriate lì è il Volto di Dio” (2,115). a Noè e quella che rivelammo a te (al Profeta
Muhammad) e quello che raccomandammo
Nel racconto della creazione si legge che a
ad Abramo, a Mosè, e Gesù, dicendo loro:
dar vita alla materia è lo stesso spirito di Dio
adempite al culto e non dividetevi riguardo ad
soffiato nell’essere umano. Ciò che dà
esso” (42,23). In verità una sola è la legge che
esistenza all’essere umano è la stessa
essenza di Dio: Dio ha dato dignità all’essere ci è data, l’amore verso il nostro prossimo.
I veri testimoni di Dio, in cui si riesce a vedere
umano e in ogni essere umano esiste lo
pienamente il volto di Dio, sono coloro che
spirito di Dio (32,9). Per questo si dice, con
operano la giustizia, lasciata nelle mani
termine oggi totalmente frainteso, che
dell’essere umano. l’essere umano è il califfo: il successore,
Le religioni oggi più che mai, attraverso una
il luogotenente di Dio.
comunione umana e spirituale, devono dare
Ma chi può dirsi veramente religioso?
risposta alla sofferenza del mondo uscendo
Non coloro che pensano di avere un “diritto
dagli egoismi religiosi. È anche il richiamo
esclusivo” su Dio: un virus che colpisce
di papa Francesco, in cui oggi anche
a volte tutte le religioni. La storia ci ricorda
i musulmani vedono il volto di Dio: con le sue
che nessuna religione è rimasta immune
opere, per esempio inchinandosi di fronte
dal rischio della superbia. Pensando di avere
alla donna nera in carcere, Francesco si fa
afferrato la verità, ci sentiamo migliori degli
vero testimone di Dio e commuove i cuori
altri. L’idea malintesa che “l’altro da noi”
di migliaia di musulmani nel mondo.
valga di meno, nei casi più estremi, ci porta
fatalmente a credere di poter fare quello che
vogliamo della sua cultura, delle sue scuole,
del suo sangue, di tutto quello che ha. Per uscire da questa malattia, che colpisce
anche l’ateismo, dal quale pure sono derivati
violenze e terrori, il Corano ci rammenta che
per operare la volontà di Dio è indispensabile
avere a cuore il prossimo. Q
17
MAGIC MEN
“Gli illusionisti” di Erez Tadmor e Guy Nattiv
CAST: Makram Khoury, Zohar Shtrauss, Ariane Labed
ISRAELE, 2013 |
100’
Scheda film
Secondo film del sodalizio artistico di Erez Tadmor e Guy Nattiv, tra le voci più interessanti
del nuovo cinema israeliano, “Magic Men” affonda in una storia di famiglia: quella dei nonni
dei registi, tornati entrambi nella nativa Polonia nel tentativo di ritrovare i “giusti” che li avevano
salvati dall’Olocausto.
Vicende simili non sono nuove agli storici e neppure al cinema della Shoah. L’ambientazione
greca, nel pieno della recente crisi finanziaria, aggiunge però nuove sfumature ad una commedia
che approfondisce con il caratteristico miscuglio di riso e di lacrime l’inesauribile esplorazione
dell’identità ebraica.
Protagonista del film è l’anziano Avraham (Makram J. Khoury), scampato all’occupazione nazista
di Salonicco, ora membro stimato - seppure ben noto per le sue intemperanze - della comunità
ebraica greca in Israele. Il suo ritorno in Grecia per una cerimonia commemorativa si trasforma
piuttosto in una surreale odissea crossculturale alla ricerca dell’illusionista che lo aveva nascosto
e gli aveva insegnato i suoi trucchi durante la Seconda guerra mondiale. Ad accompagnare
Avraham, ateo radicale, è il figlio quarantenne, devoto rapper ultra-ortodosso che vede nel
viaggio l’opportunità di sanare le laceranti incomprensioni che li hanno tenuti lontani per anni.
La forza del film risiede proprio nella vivace caratterizzazione dei personaggi: il vecchio collerico
ma estroverso che rifiuta sdegnosamente il conforto della fede, l’irresistibile musicista chassidico
con le sue coinvolgenti fragilità, e a completare inaspettatamente il triangolo la squillo greca
che rinnova l’immagine trita della prostituta di buon cuore.
La straordinaria interpretazione di Khoury, l’attore arabo israeliano già interprete di celebri film
come “La sposa siriana” e “Munich” di Steven Spielberg, ha guadagnato a “Magic Men”
il prestigioso riconoscimento dell’Israel Film Academy. La scelta di affidare la parte di un
sopravvissuto ad un artista palestinese ha fatto discutere - e in qualche caso indignare - la
società ebraica. Dopo averlo visto sulla scena, tuttavia, non si può che concordare con i registi,
che in lui hanno riconosciuto semplicemente “l’uomo giusto nella parte giusta”, scrivendo così
una nuova pagina della storia del cinema come strumento di integrazione. Memorabile in questo
senso anche la scena in cui Avraham-Khoury sfugge alla violenza antisemita di un gruppo
di skinhead.
Scandito da accattivanti momenti musicali, “Magic Men” sviluppa i temi del rapporto padre figlio e del contrasto tra il credere e il non credere rispolverando la formula collaudata del road
movie; ma in entrambi infonde complessità e sentimento, ritrovando la ricchezza e l’incanto
del vivere quotidiano.
19
Lettura teologica
di Gilad Goldschmidt, regista e cultore di studi ebraici, Israele
Sulle orme di Abramo
Ma le figure di Avraham - Abramo e di suo
figlio Isacco sono indissolubilmente legate
anche alla dimensione del viaggio come stato
el raccontare la sfida della fede
che stimola cambiamenti profondi
attraverso più generazioni, “Magic
e contribuisce a formare e far crescere
Men” tocca diversi aspetti
la persona. Il viaggio verso il monte Moria
fondamentali dell’ebraismo, come il rapporto
e l’altare del sacrificio è per entrambi anche
padre-figlio, il concetto del viaggio, il tema
l’occasione di un importante percorso interiore
della magia e del miracolo, l’importanza
a fronte dell’impossibile prova che li attende.
della gratitudine.
La stessa “costruzione” del popolo di Israele,
I rapporti padre-figlio sono messi alla prova
del resto, è legata all’Esodo dall’Egitto.
in tutta la Bibbia, fin dal libro della Genesi.
Per la sua trasgressione Adamo viene cacciato È in questi quarant’anni di peregrinazioni
nel deserto che prende forma la più intrinseca
dalla casa paterna, il Paradiso terrestre.
“personalità” del popolo di Israele. Per questo
Dal canto suo Abramo - il patriarca del quale
il viaggio è un elemento chiave del modo
il protagonista del film porta il nome in cui l’ebraismo vede la vita: una condizione
abbandona il padre biologico per seguire
mentale innata, connaturata all’essere ebrei.
il disegno del suo nuovo Padre celeste.
Il nostro viaggio inizia con la nascita e si
E la dinamica tra conflitto e obbedienza,
conclude con la morte: un’opera in tre atti
allontanamento e rappacificazione si rinnova
che prende avvio come distacco, prosegue
di generazione in generazione. Costretto
come costante ricerca, e si conclude
a scacciare Ismaele, chiamato a sacrificare
nel ricongiungimento finale con Dio.
Isacco, Abramo ne riassume tutte le
contraddizioni. Sarà lui anche a fondare
La “magica” sequenza della nostra vita
una nazione che si riconosce nella relazione
col Padre. “Dice il Signore: Israele è il mio
figlio primogenito” (Esodo 4,23), e da questo
rtisti, illusionisti, maghi. Trucchi
momento il rapporto tra Dio e il popolo
e giochi di prestigio in “Magic Men”
di Israele è descritto frequentemente, in tutta
non sono solo materiale per sketch
la Bibbia, come quello tra un genitore e la sua e scenette. Il film di Erez Tadmor e Guy Nattiv
progenie - forse il rapporto più basilare
ci ricorda infatti che nelle scritture ebraiche
della vita umana.
sono presenti due diverse tipologie di miracoli.
N
A
20
Nel primo caso l’evento miracoloso sospende
e infrange le leggi naturali di Dio - ciò che
avviene in forma eclatante durante l’Esodo
dall’Egitto. Le dieci piaghe - l’acqua che
si trasforma in sangue, le invasioni di rane
o di mosche, e infine la morte di tutti
i primogeniti d’Egitto - sono la dimostrazione
immensa della potenza di Dio che controlla
l’universo e sovverte l’ordine della creazione.
Appartengono al secondo tipo, invece, quegli
eventi che non sconvolgono le leggi della
natura, ma piuttosto si presentano
“statisticamente” come altamente improbabili
- di fatto impossibili. Come quelli del Libro di
Ester, in cui affondano le radici della festività
di Purim. Nel racconto, l’ordine naturale delle
cose non viene violato e neppure una volta
è menzionato il nome di Dio; eppure durante
Purim siamo chiamati più che mai a gioire
e rendere grazie a Dio per i miracoli che ha
compiuto per noi.
È dunque “compito” del credente riconoscere
nell’eventualità inaspettata l’azione miracolosa
di Dio, ovvero accettare che tutta la nostra
realtà è governata da Dio e che tutto ciò che
sembra solido e stabile nella nostra esistenza
inizia e finisce in Lui. Nella più piena tradizione
ebraica, “Magic Men” ci invita insomma
a riconoscerci spettatori della più grande
e stupenda illusione; e ad aprire gli occhi alla
“magia” che abita la “normalità” di ogni
momento, grati per la meravigliosa sequenza
delle nostre vite.
Al cuore della fede
N
el film, infine, il viaggio del
protagonista alla ricerca dell’uomo che
gli ha salvato la vita celebra appunto la
gratitudine come valore cardine dell’ebraismo.
I nostri Saggi ci hanno insegnato che chiunque
non riconosca il bene ricevuto finirà per non
credere in Dio. È così semplice, così profondo!
Se non sappiamo ringraziare chi ci ha fatto del
bene, rifiutiamo Dio stesso. Ma la nostra
gratitudine non deve esaurirsi nel rapporto
con i viventi: dobbiamo essere grati anche nei
confronti mondo inanimato, come Mosè lo fu
del fiume Nilo, che lo aveva salvato quando
era un bambino.
Neppure a chi ci ha fatto male va negato
il nostro ringraziamento, quand’anche per una
sola scintilla di bene. Agli egiziani, che hanno
torturato e reso schiavo il popolo d’Israele per
230 anni, come ebrei dobbiamo gratitudine,
perché ci hanno ospitati nel loro paese.
I Saggi ci rivelano che lo scopo dei 613
precetti che regolano le nostre vite è quello
di insegnarci la gratitudine. Così semplice.
Così profondo. La gratitudine, sopra ogni cosa,
ci avvicina al Creatore. E anche un film può
aiutarci a comprenderlo.
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MARIE HEURTIN
“Dal buio alla luce” di Jean-Pierre Améris
CAST: Isabelle Carré, Ariana Rivoire, Brigitte Catillon
FRANCIA, 2014 |
95’
Scheda film
L’isolamento assoluto di un mondo senza suoni e senza immagini. È la prigione della piccola
Marie Heurtin, 14 anni, nata sorda e cieca nella Francia di fine Ottocento, dove la sua incapacità
di comunicare è considerata un’insanabile minorazione. Di fronte al parere del medico che la
giudica “idiota”, il padre di Marie, modesto artigiano, tenta il tutto per tutto chiedendo soccorso
all’Istituto di Larnay vicino Poitiers, opera delle Figlie della Sapienza, dove le suore si prendono
cura di ragazze sorde. Vincendo lo scetticismo della madre superiora, la giovane suor
Marguerite prende sotto la propria ala quel “piccolo animale” dal destino segnato e decide
di dedicarsi con tutta se stessa a liberare Marie dall’oscurità che la avvolge.
Nel suo “Marie Heurtin - Dal buio alla luce”, Jean-Pierre Améris prosegue con sincerità
di ispirazione il cammino defilato ma coerente imboccato vent’anni fa, ancora una volta
scegliendo di dare voce agli invisibili e ai dimenticati in un cinema di contenuti che trascende
la retorica dei buoni sentimenti per restituire la vertigine del dubbio e della grazia che si annida
nelle più piccole gioie quotidiane.
Raccontando la storia vera di Marie e della religiosa che contribuì a sviluppare un metodo
pionieristico per l’educazione delle persone sordocieche, l’autore raccoglie un’eredità che dal
“ragazzo selvaggio” di François Truffaut rimonta al pensiero del filosofo ginevrino JeanJacques Rousseau, innestandovi il ritratto attento e partecipe di una situazione di grave
disabilità sensoriale. Una sfida vinta soprattutto evitando ogni cedimento patetico nella
descrizione della sconvolgente battaglia fisica tra due corpi e due anime che lottano per
comunicare.
Sullo schermo prende forma una storia d’amore umile, paziente, sviluppata in punta di dita,
attraverso le inquadrature sensibili delle mani che ci invitano all’esperienza sinestetica della
ruvidezza di una corteccia o del calore del sole prima di diventare parola e linguaggio.
Fondamentale l’apporto delle due protagoniste, l’attrice sorda Ariana Rivoire, alla sua prima
apparizione nei panni di Marie, e l’intensa Isabelle Carré, straordinaria interprete di una forma
di maternità spirituale che permette alla ragazzina selvaggia di crescere come donna,
con dignità, autonomia, consapevolezza, capacità di fare le proprie scelte.
Come d’abitudine Améris si affida per le musiche alla violoncellista francese Sonia WiederAtherton, ma sono i lunghi silenzi a contrassegnare una visione che con semplicità invita
lo spettatore a interrogarsi su cosa significhi vivere senza poter vedere, sentire, parlare;
un ponte di precomprensione che arricchisce il lungo dialogo tra cinema e diversità.
23
Lettura teologica
di sr Federica Cacciavillani, presidente associazione Presenza Donna
Conoscere: in modo diverso
D
al mondo delle idee e della fede che
si esprime in concetti, al mondo del
corpo, della fiducia che si esprime in
gesti. Non è forse questo anche il passaggio
di conoscenza diversa che Dio ha voluto
che l’umanità facesse, mandando suo Figlio
nella carne di un uomo?
“Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio
unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). “E il Verbo
si fece carne e venne ad abitare in mezzo
a noi” (Gv 1,14).
Un difficile passaggio di conoscenza per
l’umanità in tutte le sue fasi storico-evolutive:
riconoscere un Dio che si fa carne è più
difficile che riconoscere un Dio che sta solo
nei cieli. È destabilizzante, rompe gli schemi
di una divinità che si fa adorare ma non
si coinvolge con l’umanità, non ne fa parte
integrante. È più semplice lasciare Dio nei
cieli, a non sconvolgere la vita delle persone
per la sua vicinanza.
Ed invece il grande mistero della fede cristiana
è il Dio-con-noi, il Dio che si fa uomo, che si
coinvolge completamente con le creature
umane tanto da assumerne la natura. È anche
il grande dono che il cristianesimo porta nella
storia dell’umanità, nelle rivelazioni che Dio
ha donato di sé nel tempo.
24
Il Dio unico che si è rivelato al popolo eletto
di Israele è Liberatore dalla schiavitù d’Egitto,
un Dio del quale non si fanno raffigurazioni;
è il Dio che si comunica ai musulmani come
il Misericordioso, al quale si deve obbedienza
e sottomissione.
Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della vicinanza,
dei corpi, delle mani, degli occhi, dei gesti,
un Dio che ha vissuto relazioni umane in una
storia determinata, squarciando i cieli per
dare dignità sulla terra ad ogni essere umano.
Per dire che tutto ciò che è creato, tutte
le persone che sono generate sulla terra, sono
benedette da Dio e sono una benedizione
per il mondo.
Il passaggio del Dio di Gesù Cristo è sempre
un evento di liberazione, concreta liberazione
da un male che incurva, che tiene prigionieri,
che rinchiude in se stessi, che non permette
al bene che Lui ha impresso in ogni vita
umana di esprimersi secondo le modalità,
le possibilità, le potenzialità di ciascuno.
“Gesù stava insegnando in una sinagoga
in giorno di sabato. C’era là una donna che
uno spirito teneva inferma da diciotto anni;
era curva e non riusciva in alcun modo a stare
diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse:
«Donna, sei liberata dalla tua malattia».
Impose le mani su di lei e subito quella
si raddrizzò e glorificava Dio.” (Lc 13,10-13)
Donne chiuse nel proprio dolore,
nell’incomprensione della propria differenza,
messe ai margini, tenute in disparte: il Dio
- vicino chiama e tocca, non ha paura di
contaminarsi, di fare gesti inusuali e non
accettati: e guarisce.
Il film di Jean Pierre Amèris non riporta
a situazioni miracolistiche, ma racconta gesti
di vita concreti che si fanno guarigione,
conoscenza, affetto, amicizia, amore, senza
sconti di facilitazioni irreali.
Lottare: per la relazione
L
a vita è una lotta: in questo film
al femminile c’è una lotta di corpi, di
caratteri, di oggetti che volano, di idee,
di incomprensioni, di delusioni, di scontri.
È la lunga lotta per la relazione, per riuscire
ad avere una reciprocità di relazione tra
persone che vivono in mondi così diversi,
l’uno incomprensibile all’altro, dal silenzio
ai suoni, dal buio alla luce, dal conoscere
per parola e sguardo al conoscere per tocco
e olfatto.
“La nostra è una vita di combattimenti...
combattiamo contro il male, contro il mondo,
contro noi stessi”, dice la superiora a sr
Marguerite. Religiose consacrate a Dio che
lottano con determinazione, forza, tenerezza,
fede, contro i colpi bassi della vita: non per se
stesse, ma per gli altri, le altre, le donne curve
che stanno immobili in un angolo della casa,
o rannicchiate sugli alberi, rinchiuse nelle
fredde stanze dell’indifferenza.
Non da sole: non da eroine solitarie, anche
se la lotta è personale e la responsabilità
è individuale. In comunità, in sororità,
riuscendo ad essere l’una per l’altra motivo
di cambiamento di idea, di gesto, di prassi,
di fede condivisa e vissuta in pienezza.
La figura di sr Marguerite è una figura
cristologica: che lotta per il bene della piccola
Marie, che dona tutta se stessa a questa
causa, che è una missione concreta, una
persona da toccare, amare, educare,
da rendere capace di vivere in relazione,
capace di saper ricostituire relazioni con
il padre e la madre, restituita alla sua dignità
di essere umano.
Marguerite è una discepola di poche parole
ma di tanti gesti, che comprende dalle
vicende della sua vita come seguire
il Maestro, nella dedizione alla vita di Marie,
alla sua possibilità di ritrovarsi donna che può
tessere relazioni. Sapendo che non tutto
finisce con lei, con le sue mani che guidano
alla vita: ma che sempre Qualcuno veglierà
sulla sua creatura e continuerà ad essere
vicino alla piccola Marie.
E la luce irrompe dal cielo, i gesti si fanno
parola, la vita risorge.
Un film che dà immagine creativa all’anno
dedicato da Papa Francesco alla Vita
Consacrata: Vangelo, profezia, speranza.
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Progetto grafico: Erika Stedile
Stampa 2016
Grafiche Dalpiaz - Trento
FEDI IN GIOCO
Cinema e dialogo interreligioso
La parabola di un giovane mullah che quando la moglie si ammala si trova a
cambiare pannolini in una Teheran multiforme e inaspettata. Il “magico”
viaggio di un anziano ebreo ateo, che mangia maiale con gusto durante lo
Shabbat, in compagnia (mal tollerata) del figlio rapper ultraortodosso. La
storia vera dell’incontro tra la piccola Marie Heurtin, nata sorda e cieca nella
Francia di fine Ottocento, e la giovane suora che dedicò tutta se stessa a
tirarla fuori dal buio.
Tre racconti di “ordinaria meraviglia” per viaggiare tra popoli, fedi, culture,
società. Tre film dall’archivio di Religion Today - il festival deI cinema e
religioni per una cultura della pace e della convivenza - per le Sale della
comunità, rappresentate dall’ACEC.
Le Sale della comunità sono quasi mille in Italia e a tutti gli effetti sono un
“limen”, un “confine” che, mentre delimita il campo, le apre verso orizzonti
sconosciuti. Sono luoghi in cui nasce la communitas: uno spazio di confronto,
una soglia che fa accedere alla realtà, all’esperienza, che si qualifica e si
distingue in ragione della loro capacità di porsi in dialogo e di interagire con
la vita delle persone e delle comunità locali.
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opuscolo di presentazione e approfondimento dell