Cinema e dialogo interreligioso 1 A Edizione 2016 FEDI IN GIOCO 1 Cinema e dialogo interreligioso 1 A Edizione 2016 FEDI IN GIOCO Voci di pace nelle Sale della comunità di Francesco Giraldo, Segretario Generale ACEC L e Religioni, come la lingua, sono gli elementi culturali più importanti, si può dire costituiscano i fili essenziali del tessuto sociale. La Religione instaura il processo della creazione dell’identità. Allo stesso tempo le religioni sono in costante trasformazione e non sono delle realtà monolitiche come si crede. Sono processi che evolvono nel tempo e nello spazio e non sono eventi statici dati una volta per tutte. La loro interazione con il tessuto sociale può subire accelerazioni o rallentamenti o comunque anche processi di stagnazione e di degenerazione. Chi prefigurava la fine, la scomparsa delle religioni si è dovuto ricredere. L’attuale quadro delle religioni diffuse capillarmente nel mondo è in piena espansione e affonda le sue radici in una vasta e complessa gamma di eventi storici e di motivazioni sociali e psicologiche; spesso, poi, le stesse religioni sono strettamente connesse alle condizioni geografiche e sociali, dove la religione è nata e si è sviluppata. Il quadro attuale può considerarsi in piena evoluzione. Due fenomeni toccano da vicino il fatto religioso: il primo è determinato dal grande movimento di fedeli islamici innescato dall’emigrazione verso i paesi più sviluppati e dalle emigrazioni dovute ai conflitti armati. Il secondo è dovuto 4 al processo di secolarizzazione che caratterizza molte aree in varie parti del mondo, compresa la nostra Europa. “FEDI IN GIOCO - Cinema e dialogo interreligioso” nasce dalla partnership stretta dall’Acec con il Religion Today Filmfestival a che, giunto alla sua 18 edizione, è stato il primo festival internazionale di cinema delle religioni e ha cercato di promuovere da subito una cultura della pace e del dialogo tra persone, popoli, fedi e culture. L’iniziativa, proposta in 30 Sale della comunità, in periodo di grandi stravolgimenti sociali, segnati da una spaventosa crisi economica e dal pericolo del fondamentalismo religioso, ci aiuta a leggere attraverso tre film di altrettante religioni (Magic Men - Ebraismo, Gold and Copper - Islam, Marie Heurtin - Cristianesimo) “il contesto in cui viviamo e ci offre gli strumenti per interpretarlo, richiamandoci all’impegno personale, al mettersi in gioco, all’aprirsi alla speranza, a farci testimoni e promotori dei valori del rispetto, della solidarietà, dell’accoglienza, della disponibilità al dialogo” (dall’introduzione di Ugo Rossi, Presidente della Provincia Autonoma di Trento, al catalogo Religion Today 2015). Attraverso l’iniziativa FEDI IN GIOCO - Cinema e dialogo interreligioso, l’Acec ha il desiderio che le sale della comunità e le realtà ecclesiali in particolare, riescano ad aprirsi alla contemporaneità, attraverso il cinema, che stimolerà la coscienza critica delle persone e favorirà la cultura dell’incontro e della pace. Per favorire una idea di dialogo e, nello specifico, di dialogo interreligioso che intercetti le istanze della società e della religione in un contesto culturale intessuto dalla complessità, dal pluralismo culturale e da un “politeismo dei valori” può aiutare la conoscenza delle indicazioni offerte in proposito da Hans Kung: “Non c’è pace tra i popoli di questo mondo senza la pace tra le religioni universali. Non c’è pace tra le religioni universali senza la pace tra le chiese cristiane. L’ecumene ecclesiale è parte integrante dell’ecumene mondiale. L’ecumenismo ad intra, concentrato sulla cristianità, e l’ecumenismo ad extra, rivolto all’intera terra abitata, sono interdipendenti”. Ecco perché il dialogo interreligioso appare come il dialogo necessario e definitivo. A tal proposito sempre lo stesso Kung ci dice: “la credibilità di tutte le religioni, anche di quelle minori, in futuro dipenderà dal fatto che esse sottolineino più ciò che le unisce e meno ciò che le divide. Sempre meno, infatti, l’umanità può permettersi che su questo pianeta le religioni fomentino guerre invece di apportare pace, favoriscano il fanatismo invece di cercare la conciliazione, pratichino il predominio invece di esercitare il dialogo”. È sempre più chiaro e necessario che non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le stesse religioni. Nell’anno del Giubileo della Misericordia le religioni, pur nella loro diversità, sono chiamate a perseguire un fine comune, cioè la trasformazione dell’uomo, e quindi un agire non all’insegna della vendetta, bensì dell’amore e del perdono. L’atto di perdonare non è la risultanza di un ragionamento logico; per riuscire a perdonare realmente occorre la forza dello Spirito. Per attuare questo è richiesta la capacità di immedesimarsi nell’altro, di mettersi nell’alveo di un cammino improntato alla comprensione o simpatia interiore, attivando un atteggiamento di apertura totale di se stessi nei confronti dell’altro. Spesso ci poniamo la domanda: perché le religioni diventano un ostacolo alla fede? Perché la professione di fede non è favorita dalla religione? Per il semplice motivo che se le religioni perdono la loro anima spirituale, dialogica ed “amorosa” diventano dei sistemi ben organizzati, chiusi ed autoreferenziali. Il rischio è che le religioni, trattando temi che riguardano la Divinità, che viene definita immutabile e atemporale, definiscano di conseguenza i rapporti umani con lo stesso Dio automaticamente sacri e quindi immutabili, atemporali e aridi. 5 Diciotto anni di dialogo tra cinema e religioni di Katia Malatesta, Direttrice Religion Today Filmfestival R i-conoscere l’immensa varietà dei rapporti umani con quel mistero che per qualcuno - ma non è così per tutte le tradizioni religiose - prende il nome di Dio. E considerare, al contempo, la ricchezza delle soluzioni con cui il cinema del nostro tempo interpreta questa inesauribile pluralità. È questa la prima sfida, scientifica e culturale, attorno alla quale si è sviluppato nel tempo il percorso di Religion Today, il festival internazionale e itinerante che da diciotto anni si domanda come il religioso possa diventare oggetto di espressione (ma anche di industria e di intrattenimento) attraverso lo specifico di un medium contemporaneo qual è quello cinematografico. Fin dalle origini, d’altra parte, Religion Today si è posto anche un obiettivo più militante: esplorare il potenziale del cinema per il dialogo interreligioso, a partire dalla constatazione, confermata nel tempo, che la settima arte, con la sua diffusione planetaria, può fare molto per intaccare i cliché, gli stereotipi, le generalizzazioni ingiuste e offensive e contribuire ad una migliore conoscenza delle diverse spiritualità, culture, mentalità, concezioni del mondo. Inizia così, dal 7 al 10 ottobre 1998, la storia del primo festival di cinema delle religioni, nato a Trento in collegamento con la particolare chiamata della “città del Concilio” 6 a rinnovare nel presente il desiderio di fraternità e riconciliazione. Quelle prime giornate erano il frutto di mesi intensi di confronto e discussione tra operatori, studiosi del cinema e scienziati sociali. Al tramonto di un secolo segnato da forme eclatanti di secolarizzazione, le religioni erano considerate con diffidenza, se non tabù, dalla critica cinematografica e nei maggiori festival europei e americani. In questo contesto, erano in molti a dubitare che Religion Today potesse intercettare un numero consistente di film di qualità. Le 128 iscrizioni dell’esordio smentirono le previsioni negative, forzando schemi ancora eurocentrici. Rispetto ai film, meno interessanti, concepiti come illustrazione didascalica di riti e credenze, emerse da subito una produzione capace di restituire la complessità poliedrica e mutevole dei fenomeni religiosi, fuori di ogni categorizzazione schematica e raggelante. Inizialmente il Festival cercava sul grande schermo soprattutto la manifestazione dell’unità della fede e dei valori fondamentali condivisi dalle diverse tradizioni religiose, considerate “sotto un unico cielo” come premessa di incontro e convivenza. A poche settimane dal trauma epocale dell’11 settembre, l’edizione del 2001, lontano dai furori mediatici, rilanciò drammaticamente l’urgenza del dialogo interreligioso come unica via d’uscita dalla logica dello “scontro di civiltà”. Parallelamente si faceva strada la percezione del generale risveglio religioso in un mondo un po’ libero un po’ orfano delle ideologie novecentesche. Questioni, immagini, personaggi a lungo confinati in una produzione autoriale o “di nicchia” cominciarono ad affacciarsi sempre più spesso anche in opere mainstream o di cineasti tradizionalmente indifferenti alle tematiche religiose. Anche Religion Today avvia una nuova fase sintetizzata nella metafora del “viaggio nelle differenze”: un invito ad abitare la diversità come dato naturale e irriducibile della vita e della storia, lasciando spazio alle distinzioni non meno che alle convergenze, nella consapevolezza che il dialogo non mira al consenso, ma al reciproco progresso. “Viaggiando” attraverso generi, stili, scuole, sperimentazioni cinematografiche spesso provenienti da industrie lontane e poco conosciute, difficilmente accessibili in altri contesti, il Festival anno dopo anno richiama operatori delle più varie appartenenze nazionali e religiose. Si impone progressivamente l’importanza degli incontri che si svolgono lontano dal palco e dalle telecamere: in un clima familiare e accogliente, ospiti provenienti da paesi divisi da profonde tensioni internazionali per la prima volta si trovano a condividere i loro punti di vista sul cinema, sulla religione, sulla comune aspirazione alla pace. È l’idea apparentemente ovvia ma nei fatti rivoluzionaria di un “laboratorio di convivenza” tra filmaker che, con le loro opere, possono farsi moltiplicatori di opinione nei rispettivi paesi di provenienza. Negli anni Religion Today consolida anche la propria “anima migrante”, raggiungendo di volta in volta le valli trentine, Bolzano, Ravenna, Assisi, Bassano, il Salento, Roma, Nomadelfia, avviando nuovi scambi da Gerusalemme al Regno Unito, alla Polonia, al Bangladesh, all’Iran. Questa logica di rete si estende alle collaborazioni sempre più numerose con associazioni, movimenti, enti e istituzioni locali. Le attività si dispiegano lungo tutto l’anno e cresce l’impegno nelle scuole, con proposte che declinano per le varie fasce di età la dialettica tra cinema, dialogo, religioni. Ogni edizione si caratterizza per la scelta di un tema dell’anno, inteso come strumento per orientarsi nella complessità dei fenomeni religiosi e delle loro rappresentazioni, senza nascondere criticità e tensioni che diventano spunto per allargare lo sguardo al dialogo tra credenti e non credenti. Un ponte verso un futuro che nuovamente ci chiama a difendere la possibilità della pace. 7 Secolarizzazione e risveglio religioso in Occidente: l’inevitabile coabitazione di Salvatore Abbruzzese, Dipartimento di Sociologia - Università di Trento I l nostro mondo contemporaneo è profondamente diverso da quello nel quale, all’inizio del processo di civilizzazione, sono sorte e si sono strutturate le prime grandi religioni. Queste emergevano in un universo sociale nel quale il sapere scientifico non aveva ancora visto la luce e dove tanto il mistero della natura quanto quello della vita e della morte restavano senza spiegazioni. Esigenze di protezione e di rassicurazione accompagnavano i passi dei primi gruppi sociali volti a insediarsi in modo stabile, lasciando segni e simboli per comunicare con le anonime potenze soprannaturali. Le grandi religioni si sono imposte su di un tale mondo magico e pre-animista elaborando altrettante immagini di Dio e del mondo sfocianti in principi di vita e norme di condotta. Per tale strada, là dove sono riuscite ad imporsi, queste hanno realizzato il più potente tentativo di strutturazione dell’intera vita sociale, tanto dei singoli quanto delle comunità. Oggi che i misteri della natura e della vita, ricondotti ai saperi delle scienze fisiconaturali, sono oramai consegnati ai manuali scolastici; oggi che uomini e società hanno appreso a proteggersi da ogni evenienza e lo stesso animo umano, filtrato dalle scienze della psiche, non sembra avere più misteri, l’intero universo delle eredità religiose non sembra più essere necessario. Un’intera ricerca del divino mossa dalle esigenze di protezione e di rassicurazione è definitivamente in declino. Non restano che opere d’arte e siti archeologici, luoghi di culto e scenari estetici dove, verosimilmente, al posto della devozione del credente sembra prevalere la curiosità del turista. In un tale scenario l’affermazione attuale della sensibilità religiosa, la stessa generale e innegabile tendenza alla ricerca spirituale che così potentemente caratterizza e attraversa la nostra modernità contemporanea è attivata da ragioni ed esigenze inedite. Una tale ricerca spirituale e religiosa, non avendo più ragione di alimentarsi alle fonti dell’esigenza di protezione e di rassicurazione, scaturisce da altre sorgenti, si origina a partire da altre dimensioni. Per rintracciare quest’ultime dobbiamo entrare nelle domande dell’umano rimaste 9 senza risposta. La scienza infatti ci restituisce delle verità oggettive, meccanicamente assicurate da connessioni causali, assolutamente indifferenti ad un universo personale di emozioni, di relazioni e di affetti che ci scuote dall’interno. L’intero universo delle emozioni individuali non rappresenta nulla di sostanziale. Quella che definiamo con il termine di “anima” non sembra più avere una casa nell’universo disincantato delle pure conseguenzialità fisico-naturali. Lo stesso riconoscimento della pura fatalità svuota i cieli dalla possibilità di rintracciarvi una presenza capace di dare senso a ciò che non lo ha. L’analisi razionale del reale, colto nella forma storica della scienza moderna, non ha nulla da dire delle passioni, delle emozioni, dei desideri di bene, di buono e di giusto ricercati e desiderati in quanto tali. Questi restano senza ragioni che li rendano legittimi, confinati alle connessioni psichiche che li governano e che sono le uniche a poter essere prese in considerazione. Tuttavia, nel contesto apertamente e quietamente secolarizzato, dove l’intero universo della vita pratica scorre più che mai sotto le regole di una razionalità ancorata alle sole connessioni fattuali, questa risposta mancata, quest’assenza di ragioni è considerata inaccettabile. Il soggetto costruisce uno spazio di senso dove preserva i propri desideri di bontà e di giustizia ponendoli al riparo tanto dall’indifferenza corrosiva che proviene dall’universo fisiconaturale, quanto dal primato della razionalità 10 strumentale emergente in quello storicosociale. Nella vita di ciascuno si struttura uno spazio interiore protetto dai benefici della extraterritorialità riconosciuti alla vita privata, nella quale nessuna istituzione secolare può pretendere di accedere, esattamente come nessuna meccanica razionale può proporsi di regolare. Si tratta in primo luogo di uno spazio di ricordi, di affetti, di passioni intime e profonde, di cose care da custodire e proteggere. Un tale spazio interiore costituisce la vera stanza privata dove tutto viene sistemato, ricollocato ed elevato a fonte inesauribile di senso. Ma un tale spazio è anche quello dove trova riparo l’esigenza di interpretare il divenire del mondo inteso come storia collettiva condivisa. I ricordi non possono essere fonte di senso se non sono inseriti in una cornice più ampia della quale sono testimoni. Nulla può proteggere la propria memoria privata quanto la certezza di un divenire collettivo, di un’umanità che non è sola, di un altrove nel quale ciò che ci è caro risiede come parte integrante. In pratica non c’è cosmo interiore che si possa mantenere a lungo senza poter essere ricondotto ad una dimensione trascendente che lo riconosca e della quale le religioni traccino la mappa indicando forme e precisando contenuti. Le religioni, così come, più in generale le oggettivazioni di un Dio al quale un tale universo interiore può essere confidato, finiscono allora per detenere un’importanza decisiva. Altari e cappelle, volti e immagini, silenzi e meditazioni, esattamente come le formule e i canti della liturgia condivisa diventano allora gli alvei dentro i quali una simile comunicazione con le fonti di legittimazione di senso è assicurata. Questi luoghi e questi tempi, dove il proprio universo interiore è confidato e confermato nella sua solenne solidità, sono anche quelli nei quali ci si imbatte in una comunità di quanti, condividendo la stessa esigenza, fanno della relazione con la trascendenza una dimensione strutturante la coscienza del proprio sé. Così si riempiono di nuovo le basiliche, si riaccendono candele e si riaprono i libri di teologia e i testi di spiritualità. Il risveglio religioso nella società moderna, slegato oramai dall’esigenza di protezione che sopravvive solo nelle devozioni popolari, non ha oramai nulla di automatico ma rinvia completamente alle scelte individuali. È allora la realtà sociale dei credenti che riscrive il calendario delle solennità e ridefinisce la mappa dei luoghi. Le Chiese, dopo aver diretto per decine di secoli un’umanità alla ricerca di protezione e di rassicurazione, accompagnano oggi una nebulosa di comunità in cammino. Di un tale fenomeno sfugge completamente la portata. Relegati nell’universo della nostra vita quotidiana ed avendo accesso alle notizie provenienti dall’universo mediatico, siamo intrappolati in una dimensione congiunturale nella quale qualsiasi tema viene trattato solo quando sfocia nei fatti. Il movimento appena descritto tende così a restare nel retrobottega dell’informazione. Le grandi dinamiche dell’esistenza, l’universo impalpabile eppure decisivo dei sentimenti resterebbero inespressi se non trovassero nell’arte e in particolare nell’arte cinematografica, il luogo essenziale nel quale possono essere ricompresi. In particolare è proprio il cinema, con la sua capacità di descrivere e narrare, di ri-presentare ed analizzare, che rende possibile osservare l’universo sociale delle credenze religiose, assieme alle dinamiche che lo attraversano ed alle esigenze che vi dimorano. Il cinema, inteso come riserva di documenti e analisi su di una realtà immancabilmente approfondita, diventa il portale qualificato di accesso a tutte quelle dinamiche dell’umano che restano in ombra a dispetto del ruolo che svolgono e dell’importanza che ricoprono. Si realizza così un’opera di profondo riequilibrio, dove l’essenziale torna ad emergere, dove ciò che conta e che decide le grandi scelte dell’esistenza è riportato alla luce. 11 Con le mie opere ti mostrerò la mia fede Di Katia Malatesta e Davide Zordan (1968-2015) « Quando si parla delle potenzialità religiose del cinema, dei modi in cui il mezzo cinematografico riesce a onorare la dimensione spirituale offrendone una rappresentazione, una delle formule più ricorrenti è quella del “vedere” o “filmare l’invisibile”. Lo ricordava, nel 2011, Davide Zordan, teologo, critico cinematografico e presidente del Religion Today Filmfestival, scomparso, troppo presto, il 25 ottobre del 2015. Sintetizzando la sfida di dare visibilità a qualcosa che normalmente si sottrae alla nostra vista, l’espressione caratterizza quella produzione che, fin dalle origini della settima arte, ha corteggiato la trascendenza, di volta in volta ricorrendo al simbolo, agli effetti speciali, o piuttosto aderendo ad una realtà intrisa di pietà, in cui traluce, miracoloso, il momento di grazia. Uno sguardo generale ai film raccolti nell’archivio del Religion Today Filmfestival, e in particolare ai titoli selezionati per questa breve rassegna interreligiosa, ci guida però in un’altra direzione, all’intersezione tra cinema e fede come vissuto che non può non documentarsi anche visivamente. «In questo senso - continuava Zordan - non è l’invisibile a mostrarsi improvvisamente, ma piuttosto il visibile ad ospitare i percorsi e i gesti della fede di tanti uomini e donne, e questi gesti interessano il cinema come tutto ciò che 12 » è radicato nell’esperienza umana. “Con le mie opere ti mostrerò la mia fede”, afferma un celebre passaggio della Lettera di Giacomo (2,18), ed è precisamente così che la fede si mostra nello spazio della visibilità: attraverso opere, condotte, testimonianze, atti, voti, suppliche. Il cinema dell’invisibile, intendendo con questo il cinema che ha una ambizione spirituale, è chiamato anzitutto a misurarsi con queste pratiche del visibile, ed è chiamato a restituirle in maniera adeguata, cioè rispettando il contesto umano e fenomenico del loro prodursi, senza enfasi inopportune. L’incontro tra cinema e fede si realizza qui, nell’ambito del pienamente visibile, di ciò che è accessibile a tutti pur restando oscuro a chi-regista o semplice spettatore-non possiede una sensibilità adeguata e una attenzione davvero partecipativa.» Nelle parole dell’apostolo Giacomo, recentemente commentate da papa Francesco, risuona con forza l’appello alla testimonianza: le opere inverano una fede che non può e non deve restare astratta teoria. È l’amore del prossimo la “regola d’oro”, mai abbastanza conosciuta e ribadita, presente da sempre in tutte le culture e le religioni, troppo spesso tradita, tragicamente, da coloro che proprio della religione fanno strumento di violenza e di morte. Ma di quell’imperativo universale “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” - il cinema può e anzi ama farsi interprete. Al centro di film come “Marie Heurtin”, “Gold and Copper”, “Magic Men” si colloca evidentemente la relazione: il sentimento che diventa fare, la fede che dà frutto, il comandamento sentito come tale in ogni tempo e a ogni latitudine. «C’è un altro importante aspetto da considerare - avvertiva ancora Davide Zordan in un intervento del 2014 al congresso mondiale organizzato a Roma da SIGNIS. È esattamente attraverso l’osservazione di pratiche concrete che le religioni dimostrano di essere soggette a ridefinizioni e trasformazioni continue. Si potrebbe dire che le formule dogmatiche sono immutabili, e in un certo senso ciò è corretto, ma è evidente che i comportamenti religiosi si rinnovano continuamente. Accanto ad antiche e venerabili tradizioni, come per esempio i pellegrinaggi, troviamo sempre nuove forme di partecipazione religiosa, sia personali che di gruppo. A volte queste nuove forme risultano problematiche per le chiese, per i rappresentanti delle istituzioni religiose, ma sono di grande interesse per capire la vitalità e l’ambiguità del fenomeno religioso. Un altro vantaggio del cinema è la sua capacità di collocarsi in un contesto e in circostanze concrete, o di ricrearli. Nella stragrande maggioranza dei casi, i film sulle religioni non si curano molto della “religione” nel suo complesso - con l’eccezione di qualche documentario particolarmente noioso. Il cinema si interessa piuttosto di storie concrete, di frammenti di vita, ritratti di modalità specifiche di appartenenza religiosa, in cui a volte diverse tradizioni confessionali si incontrano e si intrecciano, fino a scoprirsi diverse da quello che pensavano. Privilegiando il frammento vivido, il dettaglio e non l’intero, il cinema ci fa perdere l’illusione che le religioni siano sistemi monolitici, uniformi nel loro crèdo e nel modo di esprimerlo, e ci permette di cogliere la relazione dialettica, e a volte drammatica, esistente all’interno di ogni gruppo religioso. In quanto arte del tempo, esprimendo l’idea della mutevole natura di ogni cosa, il cinema ci aiuta a capire meglio i movimenti, talvolta impercettibili, che animano le religioni nella nostra realtà presente, e ci invita, se vogliamo, a riscoprire le implicazioni spirituali di questi cambiamenti.» 13 GOLD AND COPPER “Oro e rame” di Homayoun Assadian CAST: Negar Javaherian, Behrouz Shaibi, Javad Ezati IRAN, 2010 | 97’ Scheda film Per secoli gli alchimisti hanno cercato il segreto per la trasmutazione in oro dei metalli meno nobili, intesa anche come metafora di una profonda trasformazione spirituale. Il titolo “Gold and Copper”, esplicitato nella conclusione del film, ha in sé lo sviluppo necessario di una storia che inizia tra gli scaffali di una biblioteca e si chiude quando lo studio diventa azione, appena fuori dell’aula di etica, nel cortile del seminario di Teheran. Seyed Reza, discendente del Profeta, è uno studente di teologia che si è appena trasferito con la famiglia nella capitale per perfezionarsi negli studi. Perno della vita familiare è la sorridente abnegazione di Zahra, la giovane moglie che si prende cura di Seyed e dei bambini come della nuova vicina di casa, trovando anche il tempo di tessere i tappeti tradizionali che guadagnano loro da vivere. Ma la salute di Zahra peggiora costantemente, fino al ricovero in ospedale, dove le viene diagnosticata la sclerosi multipla. Stordito dalla disgrazia, Seyed si trova improvvisamente nella necessità di cucinare, cambiare pannolini, accompagnare la figlia a scuola e portare con sé il bambino tra gli allievi e i maestri del seminario. Attraverso dettagli sottili ma rivelatori, dalla freddezza dei colleghi di Seyed alla diversa accoglienza che gli è riservata a seconda che si presenti “in borghese” o con l’abito religioso, il film denuncia, in modo spesso inatteso, le tensioni di una società che fa pochi sconti ad una famiglia in crisi. Con una narrazione apparentemente semplice e spontanea, in realtà frutto di un attento controllo di tutti gli elementi tecnici e artistici, Asadian rilegge il classico melodramma domestico trasformando una storia alla “Mister mamma” in una commovente parabola di respiro universale, che mescola humour e tragedia con un forte senso del sacro nelle fatiche quotidiane. La malattia, nel sovvertire schemi e ruoli collaudati, costringe tutti a una strenua prova di “etica applicata” che concretizza le eloquenti citazioni coraniche sul potere trasformativo dell’amore. La recitazione offre più di un tour de force nella resa del rapporto di coppia in un contesto che proibisce di mostrare sullo schermo il contatto fisico tra uomini e donne; nei panni di Zahra, Negar Javaherian è semplicemente straziante quando le gambe la tradiscono mentre cerca di cucinare per la figlia un piatto di spaghetti. Apprezzato anche in patria per equilibrio e intelligenza, tanto dal clero tradizionalista quanto dagli studenti più radicali, “Gold and Copper” è soprattutto un appello alla compassione, che non contesta la religione ma il freddo dogmatismo con cui essa, talvolta, viene praticata. Una finestra su una terra misconosciuta e un’occasione rara per scoprire il cinema iraniano non distribuito in Occidente. 15 Lettura teologica di Shahrzad Housmand, teologa musulmana e docente di studi islamici I l forte appello ad amare Dio nell’altro con cui si conclude “Gold and Copper” trova precisa ispirazione in molti passi del Corano. Credere e operare il bene Pienezza di amore e misericordia U I no degli ultimi “capitoli” (sure) del Corano è dedicato al Tempo. In pochissimi versetti, il Corano stesso giura sul tempo che in verità gli esseri umani sono perduti, con l’eccezione di coloro che credono e operano il bene, raccomandandosi reciprocamente alla verità e alla pazienza (Corano 103). Il credere dunque si abbina sostanzialmente all’opera: limitarsi a parlare di Dio come di una ipotesi non è abbastanza per uscire dallo stato di perdizione; la fede non può rimanere chiusa in una scatola di teoria ma dovrebbe necessariamente diventare azione. Le due formule che chiudono il capitolo chiamano in causa anche la relazione “orizzontale” tra gli esseri umani: si salveranno solo coloro che si raccomandano reciprocamente alla verità come assoluto che non entra nelle tasche di nessuno, né individuo né società né religione, mistero al quale possiamo avvicinarci soltanto aprendoci verso l’altro. In una vita piena di sofferenza e fatica, infine, la sura del Tempo ci richiama alla pazienza reciproca. 16 l Corano si presenta come un invito a una lettura profonda e meditata tesa a decodificare la verità di se stesso e dell’universo. Questo libro, considerato sacro da un miliardo e settecento milioni di musulmani del mondo, ma rivolto singolarmente a ciascun essere umano, attribuisce dei nomi a Dio: simbolicamente 99, per indicare l’assenza del limite. A Lui, infatti, appartengono tutti i bei nomi (59,24). Tra questi infiniti nomi, “Allah” si traduce letteralmente come “il Dio”. Altri due nomi più specifici sono “Rahman” - l’Amore infinito e assoluto che si offre indistintamente e senza condizioni a chiunque, dovunque e in qualunque tempo - e “Rahim”, l’amore relazionale che trova risposta nei fedeli. Proprio questa è la formula che inizia 113 su 114 capitoli del Corano: l’invocazione del nome di Dio, pienezza di amore e misericordia. Testimoni di Dio Il Corano ci invita: siate coloro che “mettono in atto” Dio pensando al prossimo; siate uesto Dio presentato dal Corano come testimoni di Dio facendovi portatori della giustizia. Alla sura 13 troviamo anche un Amore crea pure per amore. Dio non chiaro appello alla fratellanza religiosa con si assenta dalla creazione; l’Essere chiunque crede: “Egli ha stabilito per voi la entra nell’essere, niente è distaccato da Lui. “A Dio appartengono gli Orienti e gli Occidenti; stessa via di religione che già aveva prescritto ovunque vi giriate lì è il Volto di Dio” (2,115). a Noè e quella che rivelammo a te (al Profeta Muhammad) e quello che raccomandammo Nel racconto della creazione si legge che a ad Abramo, a Mosè, e Gesù, dicendo loro: dar vita alla materia è lo stesso spirito di Dio adempite al culto e non dividetevi riguardo ad soffiato nell’essere umano. Ciò che dà esso” (42,23). In verità una sola è la legge che esistenza all’essere umano è la stessa essenza di Dio: Dio ha dato dignità all’essere ci è data, l’amore verso il nostro prossimo. I veri testimoni di Dio, in cui si riesce a vedere umano e in ogni essere umano esiste lo pienamente il volto di Dio, sono coloro che spirito di Dio (32,9). Per questo si dice, con operano la giustizia, lasciata nelle mani termine oggi totalmente frainteso, che dell’essere umano. l’essere umano è il califfo: il successore, Le religioni oggi più che mai, attraverso una il luogotenente di Dio. comunione umana e spirituale, devono dare Ma chi può dirsi veramente religioso? risposta alla sofferenza del mondo uscendo Non coloro che pensano di avere un “diritto dagli egoismi religiosi. È anche il richiamo esclusivo” su Dio: un virus che colpisce di papa Francesco, in cui oggi anche a volte tutte le religioni. La storia ci ricorda i musulmani vedono il volto di Dio: con le sue che nessuna religione è rimasta immune opere, per esempio inchinandosi di fronte dal rischio della superbia. Pensando di avere alla donna nera in carcere, Francesco si fa afferrato la verità, ci sentiamo migliori degli vero testimone di Dio e commuove i cuori altri. L’idea malintesa che “l’altro da noi” di migliaia di musulmani nel mondo. valga di meno, nei casi più estremi, ci porta fatalmente a credere di poter fare quello che vogliamo della sua cultura, delle sue scuole, del suo sangue, di tutto quello che ha. Per uscire da questa malattia, che colpisce anche l’ateismo, dal quale pure sono derivati violenze e terrori, il Corano ci rammenta che per operare la volontà di Dio è indispensabile avere a cuore il prossimo. Q 17 MAGIC MEN “Gli illusionisti” di Erez Tadmor e Guy Nattiv CAST: Makram Khoury, Zohar Shtrauss, Ariane Labed ISRAELE, 2013 | 100’ Scheda film Secondo film del sodalizio artistico di Erez Tadmor e Guy Nattiv, tra le voci più interessanti del nuovo cinema israeliano, “Magic Men” affonda in una storia di famiglia: quella dei nonni dei registi, tornati entrambi nella nativa Polonia nel tentativo di ritrovare i “giusti” che li avevano salvati dall’Olocausto. Vicende simili non sono nuove agli storici e neppure al cinema della Shoah. L’ambientazione greca, nel pieno della recente crisi finanziaria, aggiunge però nuove sfumature ad una commedia che approfondisce con il caratteristico miscuglio di riso e di lacrime l’inesauribile esplorazione dell’identità ebraica. Protagonista del film è l’anziano Avraham (Makram J. Khoury), scampato all’occupazione nazista di Salonicco, ora membro stimato - seppure ben noto per le sue intemperanze - della comunità ebraica greca in Israele. Il suo ritorno in Grecia per una cerimonia commemorativa si trasforma piuttosto in una surreale odissea crossculturale alla ricerca dell’illusionista che lo aveva nascosto e gli aveva insegnato i suoi trucchi durante la Seconda guerra mondiale. Ad accompagnare Avraham, ateo radicale, è il figlio quarantenne, devoto rapper ultra-ortodosso che vede nel viaggio l’opportunità di sanare le laceranti incomprensioni che li hanno tenuti lontani per anni. La forza del film risiede proprio nella vivace caratterizzazione dei personaggi: il vecchio collerico ma estroverso che rifiuta sdegnosamente il conforto della fede, l’irresistibile musicista chassidico con le sue coinvolgenti fragilità, e a completare inaspettatamente il triangolo la squillo greca che rinnova l’immagine trita della prostituta di buon cuore. La straordinaria interpretazione di Khoury, l’attore arabo israeliano già interprete di celebri film come “La sposa siriana” e “Munich” di Steven Spielberg, ha guadagnato a “Magic Men” il prestigioso riconoscimento dell’Israel Film Academy. La scelta di affidare la parte di un sopravvissuto ad un artista palestinese ha fatto discutere - e in qualche caso indignare - la società ebraica. Dopo averlo visto sulla scena, tuttavia, non si può che concordare con i registi, che in lui hanno riconosciuto semplicemente “l’uomo giusto nella parte giusta”, scrivendo così una nuova pagina della storia del cinema come strumento di integrazione. Memorabile in questo senso anche la scena in cui Avraham-Khoury sfugge alla violenza antisemita di un gruppo di skinhead. Scandito da accattivanti momenti musicali, “Magic Men” sviluppa i temi del rapporto padre figlio e del contrasto tra il credere e il non credere rispolverando la formula collaudata del road movie; ma in entrambi infonde complessità e sentimento, ritrovando la ricchezza e l’incanto del vivere quotidiano. 19 Lettura teologica di Gilad Goldschmidt, regista e cultore di studi ebraici, Israele Sulle orme di Abramo Ma le figure di Avraham - Abramo e di suo figlio Isacco sono indissolubilmente legate anche alla dimensione del viaggio come stato el raccontare la sfida della fede che stimola cambiamenti profondi attraverso più generazioni, “Magic e contribuisce a formare e far crescere Men” tocca diversi aspetti la persona. Il viaggio verso il monte Moria fondamentali dell’ebraismo, come il rapporto e l’altare del sacrificio è per entrambi anche padre-figlio, il concetto del viaggio, il tema l’occasione di un importante percorso interiore della magia e del miracolo, l’importanza a fronte dell’impossibile prova che li attende. della gratitudine. La stessa “costruzione” del popolo di Israele, I rapporti padre-figlio sono messi alla prova del resto, è legata all’Esodo dall’Egitto. in tutta la Bibbia, fin dal libro della Genesi. Per la sua trasgressione Adamo viene cacciato È in questi quarant’anni di peregrinazioni nel deserto che prende forma la più intrinseca dalla casa paterna, il Paradiso terrestre. “personalità” del popolo di Israele. Per questo Dal canto suo Abramo - il patriarca del quale il viaggio è un elemento chiave del modo il protagonista del film porta il nome in cui l’ebraismo vede la vita: una condizione abbandona il padre biologico per seguire mentale innata, connaturata all’essere ebrei. il disegno del suo nuovo Padre celeste. Il nostro viaggio inizia con la nascita e si E la dinamica tra conflitto e obbedienza, conclude con la morte: un’opera in tre atti allontanamento e rappacificazione si rinnova che prende avvio come distacco, prosegue di generazione in generazione. Costretto come costante ricerca, e si conclude a scacciare Ismaele, chiamato a sacrificare nel ricongiungimento finale con Dio. Isacco, Abramo ne riassume tutte le contraddizioni. Sarà lui anche a fondare La “magica” sequenza della nostra vita una nazione che si riconosce nella relazione col Padre. “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito” (Esodo 4,23), e da questo rtisti, illusionisti, maghi. Trucchi momento il rapporto tra Dio e il popolo e giochi di prestigio in “Magic Men” di Israele è descritto frequentemente, in tutta non sono solo materiale per sketch la Bibbia, come quello tra un genitore e la sua e scenette. Il film di Erez Tadmor e Guy Nattiv progenie - forse il rapporto più basilare ci ricorda infatti che nelle scritture ebraiche della vita umana. sono presenti due diverse tipologie di miracoli. N A 20 Nel primo caso l’evento miracoloso sospende e infrange le leggi naturali di Dio - ciò che avviene in forma eclatante durante l’Esodo dall’Egitto. Le dieci piaghe - l’acqua che si trasforma in sangue, le invasioni di rane o di mosche, e infine la morte di tutti i primogeniti d’Egitto - sono la dimostrazione immensa della potenza di Dio che controlla l’universo e sovverte l’ordine della creazione. Appartengono al secondo tipo, invece, quegli eventi che non sconvolgono le leggi della natura, ma piuttosto si presentano “statisticamente” come altamente improbabili - di fatto impossibili. Come quelli del Libro di Ester, in cui affondano le radici della festività di Purim. Nel racconto, l’ordine naturale delle cose non viene violato e neppure una volta è menzionato il nome di Dio; eppure durante Purim siamo chiamati più che mai a gioire e rendere grazie a Dio per i miracoli che ha compiuto per noi. È dunque “compito” del credente riconoscere nell’eventualità inaspettata l’azione miracolosa di Dio, ovvero accettare che tutta la nostra realtà è governata da Dio e che tutto ciò che sembra solido e stabile nella nostra esistenza inizia e finisce in Lui. Nella più piena tradizione ebraica, “Magic Men” ci invita insomma a riconoscerci spettatori della più grande e stupenda illusione; e ad aprire gli occhi alla “magia” che abita la “normalità” di ogni momento, grati per la meravigliosa sequenza delle nostre vite. Al cuore della fede N el film, infine, il viaggio del protagonista alla ricerca dell’uomo che gli ha salvato la vita celebra appunto la gratitudine come valore cardine dell’ebraismo. I nostri Saggi ci hanno insegnato che chiunque non riconosca il bene ricevuto finirà per non credere in Dio. È così semplice, così profondo! Se non sappiamo ringraziare chi ci ha fatto del bene, rifiutiamo Dio stesso. Ma la nostra gratitudine non deve esaurirsi nel rapporto con i viventi: dobbiamo essere grati anche nei confronti mondo inanimato, come Mosè lo fu del fiume Nilo, che lo aveva salvato quando era un bambino. Neppure a chi ci ha fatto male va negato il nostro ringraziamento, quand’anche per una sola scintilla di bene. Agli egiziani, che hanno torturato e reso schiavo il popolo d’Israele per 230 anni, come ebrei dobbiamo gratitudine, perché ci hanno ospitati nel loro paese. I Saggi ci rivelano che lo scopo dei 613 precetti che regolano le nostre vite è quello di insegnarci la gratitudine. Così semplice. Così profondo. La gratitudine, sopra ogni cosa, ci avvicina al Creatore. E anche un film può aiutarci a comprenderlo. 21 MARIE HEURTIN “Dal buio alla luce” di Jean-Pierre Améris CAST: Isabelle Carré, Ariana Rivoire, Brigitte Catillon FRANCIA, 2014 | 95’ Scheda film L’isolamento assoluto di un mondo senza suoni e senza immagini. È la prigione della piccola Marie Heurtin, 14 anni, nata sorda e cieca nella Francia di fine Ottocento, dove la sua incapacità di comunicare è considerata un’insanabile minorazione. Di fronte al parere del medico che la giudica “idiota”, il padre di Marie, modesto artigiano, tenta il tutto per tutto chiedendo soccorso all’Istituto di Larnay vicino Poitiers, opera delle Figlie della Sapienza, dove le suore si prendono cura di ragazze sorde. Vincendo lo scetticismo della madre superiora, la giovane suor Marguerite prende sotto la propria ala quel “piccolo animale” dal destino segnato e decide di dedicarsi con tutta se stessa a liberare Marie dall’oscurità che la avvolge. Nel suo “Marie Heurtin - Dal buio alla luce”, Jean-Pierre Améris prosegue con sincerità di ispirazione il cammino defilato ma coerente imboccato vent’anni fa, ancora una volta scegliendo di dare voce agli invisibili e ai dimenticati in un cinema di contenuti che trascende la retorica dei buoni sentimenti per restituire la vertigine del dubbio e della grazia che si annida nelle più piccole gioie quotidiane. Raccontando la storia vera di Marie e della religiosa che contribuì a sviluppare un metodo pionieristico per l’educazione delle persone sordocieche, l’autore raccoglie un’eredità che dal “ragazzo selvaggio” di François Truffaut rimonta al pensiero del filosofo ginevrino JeanJacques Rousseau, innestandovi il ritratto attento e partecipe di una situazione di grave disabilità sensoriale. Una sfida vinta soprattutto evitando ogni cedimento patetico nella descrizione della sconvolgente battaglia fisica tra due corpi e due anime che lottano per comunicare. Sullo schermo prende forma una storia d’amore umile, paziente, sviluppata in punta di dita, attraverso le inquadrature sensibili delle mani che ci invitano all’esperienza sinestetica della ruvidezza di una corteccia o del calore del sole prima di diventare parola e linguaggio. Fondamentale l’apporto delle due protagoniste, l’attrice sorda Ariana Rivoire, alla sua prima apparizione nei panni di Marie, e l’intensa Isabelle Carré, straordinaria interprete di una forma di maternità spirituale che permette alla ragazzina selvaggia di crescere come donna, con dignità, autonomia, consapevolezza, capacità di fare le proprie scelte. Come d’abitudine Améris si affida per le musiche alla violoncellista francese Sonia WiederAtherton, ma sono i lunghi silenzi a contrassegnare una visione che con semplicità invita lo spettatore a interrogarsi su cosa significhi vivere senza poter vedere, sentire, parlare; un ponte di precomprensione che arricchisce il lungo dialogo tra cinema e diversità. 23 Lettura teologica di sr Federica Cacciavillani, presidente associazione Presenza Donna Conoscere: in modo diverso D al mondo delle idee e della fede che si esprime in concetti, al mondo del corpo, della fiducia che si esprime in gesti. Non è forse questo anche il passaggio di conoscenza diversa che Dio ha voluto che l’umanità facesse, mandando suo Figlio nella carne di un uomo? “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Un difficile passaggio di conoscenza per l’umanità in tutte le sue fasi storico-evolutive: riconoscere un Dio che si fa carne è più difficile che riconoscere un Dio che sta solo nei cieli. È destabilizzante, rompe gli schemi di una divinità che si fa adorare ma non si coinvolge con l’umanità, non ne fa parte integrante. È più semplice lasciare Dio nei cieli, a non sconvolgere la vita delle persone per la sua vicinanza. Ed invece il grande mistero della fede cristiana è il Dio-con-noi, il Dio che si fa uomo, che si coinvolge completamente con le creature umane tanto da assumerne la natura. È anche il grande dono che il cristianesimo porta nella storia dell’umanità, nelle rivelazioni che Dio ha donato di sé nel tempo. 24 Il Dio unico che si è rivelato al popolo eletto di Israele è Liberatore dalla schiavitù d’Egitto, un Dio del quale non si fanno raffigurazioni; è il Dio che si comunica ai musulmani come il Misericordioso, al quale si deve obbedienza e sottomissione. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della vicinanza, dei corpi, delle mani, degli occhi, dei gesti, un Dio che ha vissuto relazioni umane in una storia determinata, squarciando i cieli per dare dignità sulla terra ad ogni essere umano. Per dire che tutto ciò che è creato, tutte le persone che sono generate sulla terra, sono benedette da Dio e sono una benedizione per il mondo. Il passaggio del Dio di Gesù Cristo è sempre un evento di liberazione, concreta liberazione da un male che incurva, che tiene prigionieri, che rinchiude in se stessi, che non permette al bene che Lui ha impresso in ogni vita umana di esprimersi secondo le modalità, le possibilità, le potenzialità di ciascuno. “Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.” (Lc 13,10-13) Donne chiuse nel proprio dolore, nell’incomprensione della propria differenza, messe ai margini, tenute in disparte: il Dio - vicino chiama e tocca, non ha paura di contaminarsi, di fare gesti inusuali e non accettati: e guarisce. Il film di Jean Pierre Amèris non riporta a situazioni miracolistiche, ma racconta gesti di vita concreti che si fanno guarigione, conoscenza, affetto, amicizia, amore, senza sconti di facilitazioni irreali. Lottare: per la relazione L a vita è una lotta: in questo film al femminile c’è una lotta di corpi, di caratteri, di oggetti che volano, di idee, di incomprensioni, di delusioni, di scontri. È la lunga lotta per la relazione, per riuscire ad avere una reciprocità di relazione tra persone che vivono in mondi così diversi, l’uno incomprensibile all’altro, dal silenzio ai suoni, dal buio alla luce, dal conoscere per parola e sguardo al conoscere per tocco e olfatto. “La nostra è una vita di combattimenti... combattiamo contro il male, contro il mondo, contro noi stessi”, dice la superiora a sr Marguerite. Religiose consacrate a Dio che lottano con determinazione, forza, tenerezza, fede, contro i colpi bassi della vita: non per se stesse, ma per gli altri, le altre, le donne curve che stanno immobili in un angolo della casa, o rannicchiate sugli alberi, rinchiuse nelle fredde stanze dell’indifferenza. Non da sole: non da eroine solitarie, anche se la lotta è personale e la responsabilità è individuale. In comunità, in sororità, riuscendo ad essere l’una per l’altra motivo di cambiamento di idea, di gesto, di prassi, di fede condivisa e vissuta in pienezza. La figura di sr Marguerite è una figura cristologica: che lotta per il bene della piccola Marie, che dona tutta se stessa a questa causa, che è una missione concreta, una persona da toccare, amare, educare, da rendere capace di vivere in relazione, capace di saper ricostituire relazioni con il padre e la madre, restituita alla sua dignità di essere umano. Marguerite è una discepola di poche parole ma di tanti gesti, che comprende dalle vicende della sua vita come seguire il Maestro, nella dedizione alla vita di Marie, alla sua possibilità di ritrovarsi donna che può tessere relazioni. Sapendo che non tutto finisce con lei, con le sue mani che guidano alla vita: ma che sempre Qualcuno veglierà sulla sua creatura e continuerà ad essere vicino alla piccola Marie. E la luce irrompe dal cielo, i gesti si fanno parola, la vita risorge. Un film che dà immagine creativa all’anno dedicato da Papa Francesco alla Vita Consacrata: Vangelo, profezia, speranza. 25 Progetto grafico: Erika Stedile Stampa 2016 Grafiche Dalpiaz - Trento FEDI IN GIOCO Cinema e dialogo interreligioso La parabola di un giovane mullah che quando la moglie si ammala si trova a cambiare pannolini in una Teheran multiforme e inaspettata. Il “magico” viaggio di un anziano ebreo ateo, che mangia maiale con gusto durante lo Shabbat, in compagnia (mal tollerata) del figlio rapper ultraortodosso. La storia vera dell’incontro tra la piccola Marie Heurtin, nata sorda e cieca nella Francia di fine Ottocento, e la giovane suora che dedicò tutta se stessa a tirarla fuori dal buio. Tre racconti di “ordinaria meraviglia” per viaggiare tra popoli, fedi, culture, società. Tre film dall’archivio di Religion Today - il festival deI cinema e religioni per una cultura della pace e della convivenza - per le Sale della comunità, rappresentate dall’ACEC. Le Sale della comunità sono quasi mille in Italia e a tutti gli effetti sono un “limen”, un “confine” che, mentre delimita il campo, le apre verso orizzonti sconosciuti. Sono luoghi in cui nasce la communitas: uno spazio di confronto, una soglia che fa accedere alla realtà, all’esperienza, che si qualifica e si distingue in ragione della loro capacità di porsi in dialogo e di interagire con la vita delle persone e delle comunità locali.