TERZO SUD
ALDO BELLO
TERZO SUD
TIPOGRAFIA DI MATINO
A Niny
e a Sergio.
Affrontare oggi i problemi del Mezzogiorno, riproporli in chiave moderna, significa correre diversi rischi: cadere nelle vecchie tematiche, con gravi distorsioni ottiche nella fisica, nella geografia, nell'economia,
nello sviluppo civile del Sud degli anni settanta; lasciarsi corrompere dalla tentazione di formulazioni astratte,
quasi fosse, questo Sud, una bella preda, una gran cavia
per gli esperimenti nel laboratorio dei tecnocrati e dei
futuribles; subire il pestaggio morale dei conservatori
ad oltranza e dei progressisti: per posizione o per strategia, apparentemente agli antipodi, ugualmente incontentabili.
Sono rischi reali. Vale la pena di correrli?
Per intere epoche tutti i problemi che confluivano nel
limbo incandescente della questione meridionale hanno
fatto moda. I politici se ne son serviti per le loro esercitazioni oratorie; le opposizioni ne hanno tratto buon
gioco per le requisitorie morali; i trotters, da Gladstone
ad Alvaro, dalla Lutz a Répaci, per le loro cronache paternalistiche o giacobine. Gli echi di cinquant'anni di
incontri e di scontri sui problemi del Mezzogiorno,
(nell'età d'oro del meridionalismo, dai giorni della Unità ai primi trent'anni del nostro secolo), son serviti a riproporre in termini concreti la necessità di un massiccio
intervento dello Stato. Era il secondo dopoguerra. Sulle
macerie d'un popolo e d'un Paese germinava la speran-
za d'una nuova vita. Una ventata di ottimismo, nel clima
della libertà riconquistata, scuoteva uomini del Nord e
del Sud. All'irrazionalismo tragico e grottesco del ventennio succedeva un'ansia illuministica, con la quale
soltanto era possibile affrontare situazioni gravissime e
problemi immensi. Ci si mise al lavoro guidati dalla necessità, e per qualche anno si trattò, per il Mezzogiorno,
di una politica quasi giolillitiana, empirica, occasionale. Poi vennero i tempi della nueva ola, i tempi della
Cassa e della pacifica "aggressione" degli antichi problemi delle aree meridionali.
Cominciò a morire, così, il vecchio Sud, il primo
Sud della grande sete oraziana, del latifondo, delle rivolte contadine, delle pacificazioni armate, del fiscalismo alla rovescia, delle rapine coloniali, delle collusioni mafiose, del sottosviluppo da paese equatoriale.
Vent'anni dopo, oggi. Resta ancora molto del passato, ma c'è anche un "nuovo Sud". Accanto ai
paesi-ombra, ai villaggi-cimitero, svuotati dalle migrazioni, fulminati da un'impossibile agricoltura montana,
accartocciati da climi torridi o corrosi da valanghe
d'acqua torrentizia, sorgono nuovi quartieri in aree sistemate, rimboschite, con acquedotti, irrigazioni, strade,
scuole, ospedali. Con le industrie. Migliaia di giovani
hanno sostituito il mulo col trattore, la roncola con il
tornio e la fresatrice. In vaste aree del Mezzogiorno si è
verificato un cataclisma di trasformazioni, di sovvertimenti. Scuola e qualificazione professionale stanno per
sconfiggere l'analfabetismo e il bracciantato generico.
Chilometri di inutili muscoli caratterizzavano il primo
Sud. La tuta blu e l'abitudine al salario cominciano a
caratterizzare il secondo.
Ma tutto questo non basta. Le contraddizioni non
sono teoriche. Esistono. E sono ancora troppo gravi.
Accanto al Mezzogiorno tramandato dalla cultura agraria ha preso posto il Mezzogiorno della cultura industriale. Un mito del passato accostato a un mito del presente, che rischia anch'esso di trasformarsi, per ogni
giorno che se ne va, in un monumento protostorico. Il
secondo Sud sta per morire nello stesso momento in cui
nasce. Il gap, il nuovo gap, è ancora una volta umano e
tecnologico. Economico e civile. Questo divario può ricondurre la questione ai punti originari, annullando
un'intera epoca di politica meridionalistica. Sicchè i
termini in cui si ripropone la questione, oggi, sono nuovamente drammatici. O il Sud diventa una frontiera dello sviluppo tecnologico italiano ed europeo, o fra dieci
anni, forse anche molto meno, potremo rileggere, con
lievi aggiornamenti, i classici del meridionalismo, e trovarvi, incontaminata, una realtà bruciante, in perfette
proiezioni euclidee, con parametri immutati se non apparentemente. E' una assioma. Come tutte le verità fondamentali, non ammette aggettivi. Non ha limiti di verifica, perchè non lascia spazio al dubbio.
Da ciò, la necessità di un terzo Sud, il Sud del secolo ventunesimo, che, superati tutti i gaps che formano
il suo gap maggiore, si trasformi, come si dice, nel Tennessee o nella California italiana. Un Sud aggressivo,
spregiudicato, dinamico, libero dai ruderi della sua
preistoria e della sua protostoria, che entri nel futuro
non riflettendolo, ma determinandolo.
Esistono le basi per il take off?
Rispondere a questa domanda significa percorrere il cammino alla rovescia: più che mettere in evidenza
ciò che spinge al decollo, occorre circoscrivere quel che
vi si oppone. Ciò vieta le facili illusioni, e cala in una
realtà senza scorie. Questo è l'obiettivo che ci si propone. Sulla scorta delle recenti esperienze, che sono state
cronaca e storia del Sud postbellico, è stato impressionato uno scarno giornale di bordo. Slegato, caleidoscopico, antipoetico (ha troppo nociuto, al Sud, una lunga
stagione poetica putrida mente decadente). Si è guardato alle cose. Le risposte ai quesiti di fondo, come vuole
chi è cresciuto nella patria e sulla memoria di Vico, sono spontanee, intrinsecamente conseguenti. Se, a tratti,
inconsapevolmente, il cronista ha tradito le sue intenzioni, la ragione va cercata in un "interno", oscuro e affascinante, indecifrabile, in cui resta, malgrado
l’evasione e l'avventura in altre latitudini, un segreto
amore per una terra che si ha nella pelle.
MERIDIONALlSMO IN CRISI?
Il desiderio di una interpretazione della storia
ha radici così profonde che se non possediamo una visione costruttiva del passato, finiamo per cadere nel misticismo o nel cinismo.
Frederick Maurice Powicke
Quando un'età è in declino tutte le tendenze
sono soggettive.
Goethe citato da Huizinga
La nostra nuova frontiera non è una serie di
promesse ma una serie di problemi. Al di là
di questa frontiera si aprono le terre inesplorate della scienza e dello spazio, dei problemi
irrisolti della pace, dell'ignoranza, del pregiudizio, della povertà.
John Fitzgerald Kennedy
1
Il 30 marzo 1967 si inaugura presso l'Università di Torino un
Seminario di Studi su Nord e Sud nella società e nell'economia d'oggi.
L'incontro, patrocinato dalla Fondazione Einaudi, dura nove giorni, e
registra un cospicuo numero di relazioni, tra cui quelle fondamentali di
Francesco Compagna, Augusto Graziani, Giuseppe Galasso e Manlio
Rossi Doria. In sintesi, il Convegno vuol chiarire i termini in cui si pone la questione meridionale alle soglie degli anni settanta, e sottolineare quel che va fatto per attuare in concreto l'unificazione economicosociale del Paese e porre fine al dualismo della società italiana.
Coerenti. con le premesse, i relatori parlano del dramma dello
spopolamento rurale, dell'emigrazione, degli eterni squilibri territoriali,
del caotico urbanesimo del Nord, delle aspirazioni del Sud. E fin qui,
nihil sub sole novi. Son temi antichi, motivi che riecheggiano tutto il
tradizionale arco del pensiero meridionalista. La doccia fredda si ha nel
momento in cui intervengono gli economisti puri. Uno di essi, tra i più
autorevoli, è Francesco Forte, dell'Ateneo torinese, elaboratore della
«tesi efficientista», secondo cui lo sviluppo del Mezzogiorno può essere automaticamente determinato dal dilatarsi dello sviluppo dell'intero
sistema economico italiano. In altri termini, secondo Forte, più che
preoccuparsi degli interventi straordinari nel Sud, occorre garantire la
massima efficienza al sistema economico, e in particolare al sistema
industriale di tutto il Paese, (ma è noto che i pilastri sono al Nord, tra
Milano, Torino e Genova). Avviato sul binario dell'efficienza, il sistema industriale autoalimenterebbe la propria rapida espansione, «trascinando» nella scia dello sviluppo economico anche le regioni meno prospere, geograficamente periferiche1 .
1
E. Mazzetti Impegnarsi per il Sud Il Mattino 11 aprile 1967.
3
Questa tesi, cara ad alcuni politici, ma soprattutto agli industriali
del Nord, suscita taciti consensi e vivaci reazioni. La Stampa non va oltre una fredda elencazione di alcuni temi, con una evidente preferenza
per quelli di ordine sociologico ed umano 2. Il Sole – 24 - Ore liquida i
fatti in poche righe distratte. Il Corriere della Sera è perplesso,: «Il meridionalismo, nel dopoguerra, aveva coagulato intorno a sè grandi forze politiche e morali, determinando la politica diretta a rovesciare le
condizioni di secolare miseria del Mezzogiorno. Oggi, sembra invece
incapace di esercitare la stessa influenza sui poteri pubblici e privat» 3.
Interviene il ministro Pastore: «Esistono ormai tutte le condizioni
per eliminare l'inferiorità storica del Sud rispetto al Nord. Sia sul piano culturale (...) che sul piano della geografia economica (...)
II Mezzogiorno non è più quello di vent'anni fa». E' il discorso che
avrebbero dovuto fare gli economisti, gli industriali. Lo ha fatto un
politico, un ministro della maggioranza governativa.
2
In. quegli stessi giorni, a Roma, nella sede della Cassa per il
Mezzogiorno si svolge un seminario di studi sull'agricoltura nelle aree
depresse e soggette ad emigrazione, organizzato in collaborazione con
il Mediterranean Social Sciences Research Council. Vi partecipano docenti ed esperti di otto Paesi del bacino mediterraneo. Le relazioni sono
tenute da Vassilios Filias per la Grecia, Peter Serracino Inglott per Malta, Corrado Barberis per l'Italia, Mubeccel Belik Kiray per la Turchia,
Zvinimir Baletic per la Jugoslavia, De Oteyza per la Spagna, B. Kayser
e P. Maine per la Francia. Si rileva che non è soltanto l'Italia ad avere
un suo problema di aree depresse. E' un fenomeno comune a tutta l'Europa e pertanto è una questione nazionale ed europea. E si confrontano
2
R. Lugli Meridionali al Nord La stampa 7 aprile 1967.
G. Russo Industrializzare il Sud e frenare l'incontrollata migrazione Corriere della Sera 8 aprile
1967.
3
4
esperienze e metodi per portare a soluzione questo problema. Si sottolinea un fatto: i grandi mutamenti avvenuti in Europa hanno avuto un
loro effetto sulle aree in via di sviluppo. Queste aree si avviano a trasformarsi da civiltà agricole a civiltà urbane. Ma sono centri ancora insufficienti a dar lavoro alla maggioranza degli abitanti. Potranno farlo
in futuro, potenziando la loro spinta evolutiva. Altrimenti, saranno
condannati a restare mali europei, nuclei di espulsione demografica.
Per l'Italia, in particolare, «oltre tre milioni di meridionali hanno abbandonato il Sud, negli ultimi quindici anni, lasciando paesi dove avevano un reddito individuale che si aggirava dalle 180 alle 250 mila lire
all'anno». Di conseguenza, «è da prevedere che altrettanti meridionali
seguiranno la stessa strada, nei prossimi anni, se non si provvederà a
industrializzare il Sud»4.
Da quale parte sta la verità?
La tesi di Forte, cui si è associato un altro economista, Siro
Lombardini, sostiene che creando una « società di consumo » in Italia
anche il problema del Mezzogiorno sarà automaticamente risolto. I meridionalisti invece affermano di conoscere bene questo ed altri soliti
motivi con cui dall'Unità ad oggi non s'è fatto altro che mantenere, anzi
accrescere, il dislivello delle due grandi ripartizioni territoriali. Ma i
meridionalisti sembrano essere considerati delle Cassandre. «Con loro
sono venuti a colloquiare solo i comunisti, i sindacalisti torinesi della
Cisl e della Cgil, gli esponenti cioé dell'estrema sinistra, offrendo al
solito l'alternativa di una «modifica» del sistema, alternativa irreale, il
cui costo sarebbe incalcolabile per tutto il Paese. Non c'è stato un uomo politico responsabile dei partiti di Torino (eccezion fatta per il ministro Pastore che rappresentava però il governo), il quale abbia sentito il bisogno di seguire il Convegno, almeno per documentarsi sui dati
scientifici che esso offriva. Ecco perchè il convegno è stato il ritorno
ad una situazione che può diventare grave. A chi può convenire una
4
Id. Esistono tutte le condizioni per dare prosperità al Sud Ib. 9
aprile 1967.
5
politica di cosiddetta «efficienza», che in realtà non è affatto conveniente per tutto il Paese, in quanto incrementerà il dislivello dell'Italia
del Sud rispetto a quella del Nord? Ciò può essere desiderato solo dai
comunisti. A chi può convenire il favorire un'emigrazione massiccia
dal Sud, creando tensione sociale e masse di disagiati nel Nord. e «desertificando» il Sud? A nessuno, tranne che ai comunist» 5.
3
Chi tenta di otturare l'ampia falla apertasi nella barca meridionalista tra le acque di Torino è Francesco Compagna, direttore di Nord e
Sud, il quale, come informa Sassano 6, interviene (con il consueto linguaggio pittoresco», (le città giacimenti di materia grigia; l'industrializzazione meridionale telecomandata dal Nord; oppure la individuazione di un morbo che potremmo chiamare anemia di concentramento
decisionale a Roma e a Milano, ecc.). Cosa dice Compagna? Che è stata una bella partita giocata «fuori casa»7.
E dalla partita in trasferta estrae due impressioni. La prima: «... che nel
Nord molte persone, troppe, abbiano del Sud un'idea anacronistica:
come se in questi anni non si fosse fatto tutto quello che si è fatto per
promuovere la pre-industrializzazione; come se nel Mezzogiorno fosse
ancora e tutto «oltre Eboli»; come se il discorso sull’industrializzazione fosse un discorso per domani, e non per oggi, e come se, invece, oggi si dovesse fare soltanto quel discorso sulle infrastrutture che è
stato già fatto ieri e che la Cassa ha avuto il merito di portare avanti
con una serie di realizzazioni che hanno cambiato la faccia di certe
zone del Mezzogiorno (...) e che hanno sensibilmente ridotto quella che
Giustino Fortunato chiamava la «segregazione topografica» del Mezzogiorno (non solo le autostrade che si stanno completando, come la
Salerno-Reggio Calabria e la Napoli-Bari, ma anche e soprattutto (...)
5
Id. Ib.
F. Sassano Industrializzare il Sud per unificare il Paese Avanti! 8 aprile 1967.
7
F. Compagna Una bella partita « fuori casa» Il Giorno 11 aprile 1967.
6
6
le moderne strade a scorrimento veloce di fondovalle» E la seconda:
quando i comunisti, facendo leva su alcuni « innegabili lati negativi e
su alcune deficienze organiche» della politica meridionalista parlano di
fallimento di quella politica, «possono fornire in definitiva un alibi a
quegli ambienti della destra economica che non vogliono impegnarsi
nella industrializzazione del Mezzogiorno», perchè ritengono che i problemi dell'efficienza sono alternativi rispetto ai problemi e agli squilibri
regionali, « anche rispetto al grande problema delle due Italie».
A Compagna. pertanto, « non sembra lecito affermare che la politica meridionalista è fallita». Ma essa potrebbe fallire se venissero
meno la continuità e la coerenza dell'impegno meridionalista. e, ancor
più, «se i contenuti della programmazione non fossero adeguatamente
meridionalistici»: in questo caso, l'Italia farà del Sud una zona depressa
come l'Irlanda al principio del secolo. Ciò significa che anche l'Italia
avrà condannato un terzo del suo territorio e della sua popolazione alla
decadenza.
Allora? Allora resta stabilito che «la politica meridionalista è
una politica in corso, dura e difficile, e deve essere seguita con un coscienzioso e vigilante spirito di autocritica, onde si possa di volta in
volta apportarvi i necessari correttivi ed aggiustamenti, e soprattutto
onde si possano mettere subito a frutto, in termini di vera e propria industrializzazione, i risultati conseguiti con la pre-industrializzazione. E
a questo proposito ci sembra di estremo interesse l'indicazione emersa
dal seminario di Torino. Non si tratta soltanto di impiantare nel Mezzogiorno fabbriche di prodotti tradizionali, filiali di grandi imprese del
Nord: tali fabbriche devono essere localizzate nel Mezzogiorno perchè
è sempre meglio collocare le fabbriche vicino alle riserve di manodopera che non richiamare la manodopera in zone di urbanizzazione già
molto dense e di consolidata piena occupazione. Ma si tratta anche e
soprattutto di impiantare nel Mezzogiorno fabbriche di prodotti nuovi
che devono entrare in questi anni nella storia dell'industria italiana e
che sono in gran parte del tipo cosiddetto «ubiquitario»: dall'aeronau7
tica all'elettronica, tanto per fare esempi. La industrializzazione del
Mezzogiorno è, dunque, necessaria, ed è possibile. Il discorso che siamo andati a fare a Torino è stato appunto questo: non un discorso regionalista, querimonioso, da postulante. Il nostro meridionalismo, che
attinge alla tradizione di Fortunato e di Salvemini, è un modo di interpretare gli interessi generali del Paese. Che cosa è allora più conforme
a questi interessi generali? Che più di un terzo del Paese nei prossimi
anni sia destinato a subire un processo di degradazione (...), oppure
che il Mezzogiorno e le Isole si trasformino e diventino una California
dell'Europa, e sia pure una California meno strepitosa, più domestica,
di quella americana? Il seminario di Torino, se non avesse avuto altri
meriti, ha avuto certamente quello di porre in termini chiari - alla coscienza nazionale, vorremmo sperare - questo interrogativo».
Il seminario di Torino, in realtà, ha avuto un altro merito: quello
di aver chiarito i termini reali della situazione che può riassumersi nella
generale tiepidezza e nella scarsa convinzione meridionalista dei partiti
e dei sindacati, che nel Sud «sono legati a forme organizzative d'altri
tempi»8 ; nel respiro asfittico dei quaranta nuclei di industrializzazione
meridionali; nella ritrosia degli industriali settentrionali a investire nel
Sud, costringendo le altre imprese che operano al di qua della linea Gotica a restare chiuse nel loro guscio aziendalistico; nella stagnazione
coatta dei comitati regionali per la programmazione; nell'elefantiasi del
sottogoverno; nella sopravvivenza di strutture remote, non più rispondenti alle esigenze del nuovo Mezzogiorno. Tutto questo, ed altro ancora, determinano il prolungamento della fase di pre-industrializzazione;
la continuità della «protesta»; la fuga dal Sud verso il Nord, con la conseguente «meridionalizzazione della popolazione italiana» 9.
E' la crisi del meridionalismo?
8
9
F. Sassano Non si gioca col Sud Avanti! 12 aprile 1967.
L'emigrazione meridionale nel Nord sta provocando profondi mutamenti Il Popolo 12 aprile 1967.
8
4
E' stato scritto che in questi ultimi tempi la caduta d'interesse per
i problemi impliciti nella questione meridionale «sembra avere assunto
un significato (...) più profondo» 10. Cioè, il filone d'impegno e di verifica culturale che il meridionalismo fu per molti, sembra essersi tramutato in un discorso definitivamente chiuso, in un elemento della storia
politica italiana valido assai più come memoria del passato, che come
prospettiva per l'avvenire. Leggiamo ancora che se le tensioni che avevano preceduto la proroga degli strumenti meridionalistici messi in opera nel quindicennio 1950-64 si sono sostanzialmente allentate con
l'approvazione della nuova legge che definisce la «disciplina degli interventi per lo sviluppo del Mezzogiorno», l'adozione della Programmazione economica nazionale, che pone generalmente tra i suoi fondamentali obiettivi lo sviluppo delle regioni meridionali, induce molti a
ritenere che il passo decisivo verso la soluzione della questione sia stato compiuto. Dal momento che «non si può dire, in realtà, che l'inserimento del Mezzogiorno nell'assetto socio-economico e istituzionale,
realizzato con questi provvedimenti, abbia corrisposto pienamente alle
istanze e alle condizioni che i gruppi impegnati nella politica meridionalista avevano sottolineato e sollecitato», a torto la problematica meridionalista «ha smarrito rispetto ad essi un suo senso univoco, e si è
spesso perduta o in vane auto commiserazioni o in proteste ed invettive
di scarsa incidenza» 11.
A queste più scientifiche cause, vanno poi aggiunte le motivazioni di quanti ritengono che le condizioni affermatesi nel periodo recente sul mercato nazionale ed internazionale non giustifichino un rafforzamento della politica meridionalista, ma al contrario, ne condizionino fortemente il significato e la validità.
10
11
De Rita - Collidà - Carabba Meridionalismo in crisi? F. Angeli Ed collana Isvet N. 3, pag. II.
Ib. Pag. 12.
9
Non è facile verificare perchè e come ciò sia potuto accadere.
Certo, si possono registrare momenti di stanchezza - o smarrimento in
qualsiasi filone politico o culturale. Ma che stanchezza o smarrimento
dei meridionalisti abbiano trovato il loro momento più critico proprio
quando l'evoluzione delle strutture istituzionali del Paese cominciava a
muoversi con maggiore o minore decisione, ma senza dubbio con più
fermezza di quanto non fosse mai avvenuto in passato, alla realizzazione degli strumenti da essi a lungo invocati, può comunque suscitare legittime perplessità.
Quali sono, pertanto, le ipotesi possibili a proposito di questa
presunta o reale crisi del meridionalismo?
Che essa discenda da una mancanza o insufficienza di impegno,
di attenzione, di analisi tecnica e scientifica, delle nuove condizioni poste dalla più recente evoluzione del sistema alla questione, e che quindi
sia risolvibile a breve o medio termine;
che in effetti essa si richiami più profondamente alla sostanza dei
fatti, che - col venir meno delle condizioni che costituivano il tradizionale quadro interpretativo della questione - la questione stessa sia venuta meno nei suoi contenuti reali, e che, di conseguenza, ogni tentativo
di risollevare il problema e di tenere aperto il discorso sia destinato solo a rievocare spoglie prive di significato;
che essa non sia più sentita come fatto nazionale, italiano, ma
soltanto europeo, e quindi rischi di disperdersi nella problematica più
vasta delle aree depresse continentali, (Epiro greco, area jugoslava,
nord-est e fascia pirenaica spagnola, sud-ovest Schlewigh-Hollstein tedesco, Borinage belga, ecc.);
che essa sia vista dai grandi imprenditori associati del Nord, e in
genere dalla più retriva destra economica, come preliminare ad un "piano futuro di sviluppo globale capace di sostituire il Sud al Nord a certi
livelli concorrenziali politico-economici, (assorbimento di capitali italiani e stranieri, autosufficienza, conquista di mercati mediterranei e
10
medio-orientali, sbocchi nei Paesi dell'Africa e della penisola Iberica,
ecc.).
Con l'intento di trovare una giustificazione o una smentita efficaci a queste ipotesi o tendenze che sembrano avere più concrete conferme nei fatti, l'Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progresso Tecnico (Isvet) promosse nel giugno 1965 una tavola rotonda
sul tema «Mezzogiorno e Programmazione». I contributi portati in
quell'occasione da esperti ed operatori, sebbene di grande rilievo non
valsero a chiarire i dubbi, nè a concretizzare le ipotesi di partenza. Dal
dibattito si riuscì soltanto a desumere che i punti fondamentali da approfondire per una meno incerta collocazione della questione meridionale nel contesto economico e sociale e nell'assetto istituzionale che si
andavano delineando erano ricollegabili al sussistere di una unitarietà
della questione, e alle caratteristiche che l'inserimento della politica
meridionalista avrebbe assunto nel quadro istituzionale generale. Così
il circolo si chiudeva viziosamente. E si era al punto di partenza .
5
Dal 1950 ad oggi, ha preso corpo l'esigenza di sbloccare la questione meridionale dai suoi involucri tradizionali. Va rilevato che il meridionalismo ha avuto le sue origini ed anche le sue interpretazioni più
salienti nelle affermazioni di coloro che vedevano, in una certa evoluzione storica che andava sempre più distanziando le regioni italiane, la
conferma ad impostazioni volte a mettere in causa le strutture politiche:
dalla visione rivoluzionaria di Gramsci, alle strategie riformiste di Salvemini e Dorso. Oggi, pertanto, può senz'altro accadere che anche il
Mezzogiorno in sè abbia perduto buona parte del suo potere di contestazione, e che la maggiore articolazione dei vari elementi che fanno
parte del sistema consenta di identificare in fatti e fenomeni più precisi
i presupposti di una strategia di revisione e rinnovamento delle strutture. In questo senso, e soprattutto in questa misura, le tesi di Gramsci,
11
Salvemini e Dorso non hanno più - o sembrano non avere - il valore di
fatti su cui sia possibile basare concreti disegni operativi, ma soltanto
di un insegnamento storicamente valido come lezione di comportamento, cioè di pensiero politico.
La questione, così come Gramsci l'aveva interpretata, e cioè come ponte che garantiva una sostanziale unità politica al Paese nei suoi
effettivi contenuti (blocco industriali-agrari) e sulle prospettive rivoluzionarie (alleanza operai del Nord - contadini del Sud), non può trovare
oggi un confronto puntuale con la realtà 12. Un eventuale tentativo di
reimpostare una strategia rivoluzionaria facendo riferimento alla questione meridionale, «richiederebbe innanzitutto che la questione stessa
venga reimpostata e rielaborata nei suoi termini essenziali» 13. E questo
non è che un esempio del diverso ruolo che il Mezzogiorno deve assumere all'interno di un sistema che ha provveduto a sollecitare la nascita
di meccanismi di integrazione, anche se incompleti, e a mutare quindi il
significato connesso al sussistere di situazioni conflittuali. D'altro canto, se per le ragioni accennate il Sud non può rivestire oggi lo stesso
ruolo politico che gli era stato riservato nel passato, esso non realizza
più neppure a livello economico e sociale le condizioni che consentano
di mantenere quelle interpretazioni, propugnate nel decennio 1950-60,
che costituivano le basi degli interventi successivi.
Ciò conferma, a nostro avviso, che la «decadenza» della questione meridionale propone innanzitutto un problema di ripensamento. Ripensare al Mezzogiorno vuol dire ritrovare all'arretratezza meridionale
e alle sue manifestazioni a tutti i livelli un ruolo e un significato precisi;
rivedere le linee dello sviluppo economico e sociale del Sud, e riproporle in termini più efficaci, in modo che possano costituire un perno,
un punto di riferimento organico e chiaro per l'azione politica e di politica economica. Oppure chiudere definitivamente un discorso che non
presenta prospettive legittime e valide. In questo caso 1'«era meridiona12
13
V. Fiore Il Mezzogiorno e l'unità delle sinistre Avanti! 29 marzo 1967.
(13) De Rita-Collidà-Carabba Op. cit., pag. 18.
12
lista» sarà finita. Per inerzia, per abbandono dell'impegno intellettuale,
culturale e politico. Per una spirale di nebbia che avrà offuscato le voci
di un revival che affonda le sue radici nella più fertile e robusta tradizione del problema meridionale.
13
VECCHI MITI E NUOVE FRONTIERE
Non si può mai produrre una rivoluzione ...
seguendo idee troppo generali, nè seguendo
un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad
ogni passo, che non si erano preveduti;
mille contraddizioni d'interessi che, non
potendosi distruggere, è necessario conciliare.
Vincenzo Cuoco
Può darsi che in un mondo statico vi
troviate costretti a sanzionare un divorzio tra
fatti e valori.
Edward Hallett Carr
Se una causa particolare, come
l'esito accidentale di una battaglia, ha
condotto uno Stato alla rovina, esisteva una
causa di carattere generale, che provocò
la caduta di quello Stato per colpa
di un'unica battaglia.
Montesquieu
15
Fortuna e sfortuna sono termini che non si addicono soltanto alle
cose umane. Anche le idee del mondo morale, anche i principi scientifici, per aprirsi una strada e imporsi, hanno bisogno di una parte almeno di quella eterna opportunità che, affermava Machiavelli, regge per
una buona metà il destino dell'uomo. Non è allora possibile negare che
in questo dopoguerra la questione meridionale abbia incontrato un lungo momento di fortuna. E la causa prima del rinato successo è nell'aver
potuto assumere, subito dopo la caduta del fascismo, una certa aria da
perseguitata che chiedeva riabilitazione e giustizia.
Il fascismo aveva vietato che si parlasse di questione meridionale, o meglio, aveva consentito che se ne parlasse, ma in un certo senso
soltanto, per rivendicare verso di essa benemerenze che proprio non
aveva. Dice Caizzi14: la questione meridionale aveva angustiato per
molti decenni la vita dell'Italia unita, aveva rappresentato il problema di
fondo che l'Italia liberale non era riuscita a risolvere; ma - a sentire certi esaltatori del regime - il fascismo l'aveva debellata. Si veda, per esempio, la voce «Mezzogiorno (Questione del)» nel volume 23 dell'Enciclopedia Italiana. L'autore vi sostiene alla fine che ormai, grazie all'opera del fascismo, di una questione meridionale non sia più il caso di
parlare. Nei manuali scolastici e nei libri di propaganda, il tema della
questione si confondeva con l'altro della bonifica integrale, e con quelli
delle migrazioni interne, della difesa della razza, dell'Opera Maternità e
Infanzia, di Quota 90, della trasvolata atlantica, di tutto l'armamentario
apologetico redatto nell'ombra di Palazzo Venezia.
14
B. Caizzi La questione meridionale negli anni 60 Sapere marzo 1965.
17
In realtà, l'argomento del Mezzogiorno non poteva venire affrontato esplicitamente e criticamente. Il che non toglie che la situazione
fosse quella che era, che nelle squallide campagne pugliesi e lucane i
cafoni continuassero la loro esistenza di miseria, che la Calabria andasse fisicamente e spiritualmente in frantumi, che in Sicilia regnasse e
governasse la mafia, che in Sardegna si radicasse la più primordiale civiltà pastorale, che Napoli si presentasse sempre più come un agglomerato urbano così strutturato socialmente da far pensare all'Oriente assai
prima che all'Europa.
2
Bandita per decreto governativo, appena il fascismo cadde, la
questione mostrò di non essere affatto morta, e cominciò a far sentire la
sua voce, sollecitando la presenza in prima linea, tra i problemi capitali
che dovevano di nuovo essere affrontati. Fra gli imputati maggiori della
decadenza, venne citata subito l'altra Italia, il Nord ricco di industrie e
di traffici, sede di grandi complessi finanziari e bancari, vero manipolatore della politica nazionale, che aveva mantenuto il Sud in grige condizioni di primitivismo, e poco meno che allo stato di colonia di sfruttamento. E' un'accusa, questa, che poi si è venuta via via modificando e
allargando, fino a porre in una luce nuova l'intera questione. Scrive Rosario Villari: «L'idea di un efficace sfruttamento finanziario ed economico del Mezzogiorno e delle Isole a vantaggio della trasformazione
industriale del Nord, non è facilmente conciliabile, almeno nei termini
tradizionali, con la constatazione dell'arretratezza, dell'immobilismo
semifeudale e dell'estrema povertà del mercato nelle regioni meridionali. La pressione dello Stato e dell'industria protetta si è esercitata in
generale su tutte le campagne, creando gravi difficoltà nei rapporti tra
agricoltura e industria; ma queste difficoltà non hanno sempre la stessa natura delle contraddizioni e dei problemi che indichiamo col ter-
18
mine « questione meridionale», non si identificano con essa» 15. Concetto, questo, in buona parte condiviso da Vittore Fiore16, che in un dibattito alla Società Umanitaria di Milano, dopo aver rilevato che « la
lezione gramsciana è andata disattesa» e che il problema del Mezzogiorno oggi dev'essere affrontato diversamente da come era concepito
quaranta o cinquanta anni fa, ha affermato che il moderno meridionalismo non parla più in termini di giustizia storica, «ma di efficienza, di
convenienza per tutto il Paese e per l'Europa». Pertanto, «un meridionalismo territoriale non giova alla causa comune: di qui, la necessità
di riprendere e mantenere vivo il dibattito tra le forze democratiche del
Nord e del Sud (...) Tale esigenza, che va calata nella realtà e spogliata
di tutti gli elementi schematici e astratti, impone profonde revisioni politiche e ideologiche, a cominciar: da una maggiore consapevolezza
della politicità della questione meridionale. Un nuovo meridionalismo
può trovare spazio e vigore nella misura in cui riesca a differenziarsi
dalle posizioni attualmente operanti sul piano culturale e politico. Non
basta rinnovare l'appello ad industrializzare il Mezzogiorno, come non
è sufficiente l'analisi che da sinistra viene condotta sul potere delle
masse popolari e sulla forza contestativa e democratica dei partiti e dei
sindacati».
3
Alla base dell'accusa al Nord, erano anche alcuni temi antichi,
cari a Colajanni e a Nitti. Primi tra gli altri, le imposte mal distribuite
fra le varie regioni, i capitali pompati nelle campagne meridionali, e attraverso il sistema bancario e delle casse postali, passati a disposizione
dell'economia piemontese e lombarda, l'industria settentrionale che si
era fatta le ossa a forza di protezionismo e di premi statali, e il carissimo prezzo del ferro, dei tessuti, degli attrezzi di lavoro, sopportato dal15
16
R. Villari Il Sud nella storia d'Italia. Vol. I pag. V. Bari, Laterza 1966.
La questione meridionale non è tecnica ma politica Avanti! 19 maggio1967.
19
la parte più povera d'Italia, insieme con quella barbara catena di imposte a rovescio che colpivano i beni di consumo popolare, dal frumento
al sale, allo zucchero. Sicchè si affacciarono minacciosi propositi separatisti, come in Sicilia, o presero piede acuti rancori antiunitari, in un
pò tutte le contrade meridionali. La questione minacciava di rinascere
tal quale era stata un tempo, di trascinarsi ancora nei vecchi termini, di
far rivivere antichi miti, di ritornare ai gridi di dolore, agli allarmi, ai
disperati appelli, mentre su c'era passato il diluvio della guerra. e c'erano passati anni e letterature, invasioni e liberazioni, esperienze storiche,
politiche, sociali, e speranze d'un rinnovamento e d'una rinascita dignitosa e liberatrice,
Tra l'altro, in passato, la polemica intorno alle condizioni economiche e sociali in cui versava il Mezzogiorno raramente era sfociata
nello studio scientifico dei grandi problemi d'intervento. Se uomini
quali De Viti De Marco, Fortunato e Salvemini avevano collegato la
questione alla politica generale, (libero scambio, protezionismo, sistema tributario e magari anche espansione coloniale), sul terreno dei
provvedimenti da attuare aveva dominato costantemente una tematica
spicciola. Gli stessi deputati meridionali s'erano accontentati quasi
sempre di chiedere opere pubbliche di qualsiasi genere, da eseguire nelle loro province per offrire occasioni di lavoro a imprenditori e manovalanze locali, e per tener vive le clientele personali. Nel dopoguerra,
quando si cominciò a guardar lontano, si comprese la scarsa utilità generale di una politica impostata sui sussidi e la carità statale. Dappertutto i movimenti di rivendicazione regionale tendevano ormai ad altro: a
mutare radicalmente le strutture amministrative e sociali, a dotare le latitudini meridionali di adeguati complessi industriali, a farle uscire dal
loro isolamento geografico, inserendole nei grandi circuiti di comunicazione nazionali ed internazionali. Anche la questione meridionale si è
così risollevata di tono. Certamente, dal basso e dalla periferia son
giunte ancora vecchie istanze. Rimane tuttavia innegabile che la legislazione in favore del Mezzogiorno almeno in teoria si è ispirata a cri20
teri più aperti e maggiormente validi di quelli di un tempo. E soprattutto è certo che l'attuale letteratura economica, liberatasi dagli spettri della preistoria del meridionalismo, si è portata ad un livello di conoscenza e di maturità che non ha confronti nell'antico.
4
Nel primissimo dopoguerra parve per un istante che le masse
contadine dovessero assurgere a protagoniste e beneficiarie della nuova
fase della questione meridionale. Per quanti si rifiutavano ancora di
considerare l'arretratezza del Sud come un problema di mancato sviluppo, contavano soprattutto le decine di migliaia di contadini poveri,
di coloni, di piccoli affittuari, di braccianti. dei negri bianchi della
campagna, che non avevano abbastanza terra da coltivare, vivevano ai
margini dei grandi possedimenti signorili e dei latifondi, e aspiravano
da secoli a diventare proprietari, o per lo meno a venir finalmente liberati da una catena di patti esosi e di servitù feudali. Molti, che s'erano
fatta del Mezzogiorno un'idea quasi mitologica. e quindi ingannevole,
come d'un paese fertile e d'inesauribili risorse agricole, mostravano di
credere che vi fosse abbastanza buona terra da distribuire ai contadini
affamati attraverso un processo legale ed equo di requisizioni e acquisti. Credevano inoltre che la riforma agraria avrebbe avuto importanti
riflessi d'ordine sociale e generale; intorno ad un nuovo centro di piccoli proprietari indipendenti si sarebbe rafforzata una democrazia egualitaria di tipo scandinavo; la piccola proprietà contadina avrebbe compiuto miracoli anche in fatto di produttività, profondendo tesori di lavoro
sulla terra finalmente raggiunta; e dal cresciuto reddito agricolo sarebbe
partita la spinta di un risollevamento più profondo dell'intera vita meridionale.
Quante illusioni e quanti errori di valutazione e di prospettiva si
nascondessero in quei calcoli si sarebbe visto fin troppo presto. La riforma agraria non seppe nè poté incidere profondamente nella
21
realtà economica e sociale del Mezzogiorno. Essa suscitò solo debolmente quelle forze collaterali che i più ottimisti avevano sperato di vedere sprigionate . Grifone ha scritto 17 che quel tipo di riforma fu determinato da «uno stato di necessità». Pertanto, essa
fallì. Ma fallì due volte, perchè «lo stralcio non fu portato fino in
fondo». Continua Grifone: «Iniziata la riforma, con l'esproprio di
una parte della grande proprietà, bisognava portarla avanti, sul
piano del graduale superamento di tutti i contratti agrari, per
far coincidere dovunque, come giustamente postula, in sede teorica,
Manlio Rossi Doria, l'impresa con la proprietà, per consentire poi
alle singole proprietà coltivatrici di dar vita, autonomamente e liberamente, con le forme associative, a imprese di appropriate dimensioni, tali da evitare i danni economici del parcellamento. Invece, attuato lo stralcio di riforma, si lasciarono in piedi tutte le altre arretrate strutture, e in primo luogo i vecchi, assurdi contratti agrari
...» E questa è un'analisi in buona parte vera, anche se incompleta.
Ma soprattutto a posteriori. Una critica del mito di quella riforma agraria, infatti, non potrà esimersi dal chiamare in causa la classe politica che la volle, che la ideò e realizzò, e non potrà ignorare le scoperte contaminazioni di ordine particolaristico che ne compromisero i
risultati. Se un'attenuante potrà essere concessa ai promotori, sarà
probabilmente questa: che quando essi si misero al lavoro e progettarono le grandi linee d'intervento, il dato preminente della situazione nelle campagne meridionali era costituito da una paurosa pressione
demografica .
5
Chiariamo meglio i termini. Le masse chiedevano terra, anche
soltanto un boccone, e gli autori della riforma si sforzarono di allargare
i quadri dei possidenti e dei beneficiari, finendo con l'anteporre criteri
17
P. Grilone Meridionalismo sotto la Mole Rinascita 21 aprile 1967.
22
di socialità ed emergenza ad autentici criteri economici. Un buon nucleo di famiglie ebbero un tetto e trovarono una sistemazione, ma certamente su basi precarie, che si sarebbero rivelate catastrofiche appena
fossero mutate le circostanze esterne. Allorchè, qualche tempo dopo,
l'Italia settentrionale e l'Europa cominciarono ad esercitare un forte richiamo sui contadini del Mezzogiorno, e la fabbrica lontana offrì retribuzioni più elevate e meno incerte dei redditi ritraibili dai miseri poderi
della riforma, caddero i presupposti psicologici sui quali la riforma
stessa era stata pensata. E crollarono anche quelli politico-economici.
Di qui, in altro senso, la necessità di tener presente il rapporto che intercorre tra riforma agraria e migrazioni dal Mezzogiorno. Perchè i
primi a fuggire dal Sud sono stati gli assegnatari della riforma. Gli altri
sono partiti dopo. I «treni della speranza», di cui parla in un'acuta inchiesta Rampino 18, convogliavano al Nord e all'estero un carico umano
che, nel suo vasto campionario, registrava molti esemplari di nuovi
proprietari di case coloniche fragilissime, di campi senza reddito, senza acqua, senza macchine, senza pascoli, senza vita, ove, sempre più
grande tra le rocce e le aride sabbie meridionali, dominava terrificante
lo spettro della fame.
6
Il Mezzogiorno, da allora, ha fatto molti passi. E' diventato adulto. Ma anche se la sua tenuta di marcia è stata elevata, non ha potuto
tener dietro al progresso dell'economia italiana globalmente considerata. Il solco si approfondisce ancora. E diventerà incolmabile se non saranno aperte nuove, imponenti prospettive. E' stato scritto che dobbiamo «impegnare ed ottenere da tutta intera la maggioranza democratica un rinnovellato impegno nella vivificazione soprattutto nell'opinione
pubblica, della politica per il Mezzogiorno, che deve essere sempre più
18
G, Rampino Il treno della speranza Tribuna del Salento 22 dicembre 1961 e
segg.
23
vista non come politica regionale, ma, come in effetti è, politica interessante tutto il Paese» 19. Da qui, le prospettive maggiormente valide
per il futuro del Sud, quelle che svincoleranno gli «schiavi della miseria» e opereranno una radicale trasformazione della società italiana,
quale è stata auspicata, a livello esecutivo, da Pastore 20, e sul piano della pubblicistica da numerosi esponenti della cultura e del giornalismo
militante. Ci sono, ovviamente, remore di ordine geografico, fisico e
naturale, umano e psicologico. Questi pesanti fardelli non possono essere buttati in mare da un giorno all'altro. Nell'economia, nella tecnologia, nello stesso ritmo della società, il Mezzogiorno è stato prigioniero
d'un suo fuso orario, d'una macchina del tempo speciale che domina
sempre la sfera del sottosviluppo. Spesso, ancora oggi, il Sud stenta a
infrangere i confini della sua dimensione temporale. Dov'è la forza della spinta? Anzitutto nello Stato. Ma questo motore, lo Stato, che interviene dove sono i vuoti della società sottosviluppata, segue tempi propri, assai diversi dai tempi dell'industria moderna: arrivano le infrastrutture, gli incentivi, gli interventi diretti, arrivano molte altre cose,
ma sempre tardi. L'altra spinta del Sud è nella sua stessa società, che
esiste, ma per tanto tempo ha seguito anch'essa tempi ritardati, poichè
si trattava d'una società ancora abituata al ritmo del mondo rurale più
che industriale, degli uomini legati al passato, che non era quello delle
catene automatiche di produzione, e sfuggiva al controllo, non si
dominava , non si accelerava a volontà.
«Ora, solo da poco, si sente che muore un poco alla volta il
vecchio Sud: quell'antico Mezzogiorno intelligente, enfatico, salace
e pettegolo, colto e pettinato. prepotente e individualista, quel vec19
20
F. Ventriglia Riparliamo del Mezzogiorno Il Mattino 12 aprile 1967.
G. Pastore Linee di una nuova legislazione meridionalistica. Discorso al Convegno promosso dalla Giunta Consultiva del Senato per il Mezzogiorno, Bari, Fiera del Levante, 18 settembre 1963; Id. Una moderna politica per il Mezzogiorno. Discorso all'Istituto di Economia. Agraria della Università di Portici, 30 novembre 1964; Id. Politica nuova per il Mezzogiorno. Discorso alla Camera dei
Deputati, 18 maggio 1965.
24
chio Sud mai disposto a far riposare la propria età nei circoli cittadini, nei caffè provinciali o tra le carte gialle del proprio tempo, ma
al contrario, che si propone ai giovani quasi con rabbia, con l'accanimento di chi sente sopra di sè il peso d'una nuova pagina di storia.
Va spegnendosi poco a poco il vecchio Sud degli uomini dal cuore viola, dalle forti passioni, dalle impetuose personalità; va spegnendosi lasciando il passo ad un mondo nuovo, diverso, che tra le
vigne e gli olivi va piantando tralicci e di fronte alle morbide pieghe d'un barocco glorioso erige la propria architettura, ardita e snella, spesso sconcertante. Vanno perdendosi a poco a poco gli ultimi
grandi uomini soli, i grandi vecchi ...»21.
Questo è un Sud ch e va racchiudendo sempre di più nel
muro di cinta di un solido lager una tradizione -e non chiamiamola
ancora civiltà- di romantici idoli, di feticci, di sibaritici immobilismi. Un nuovo mondo pare voglia nascere non dalle rovine del passato, ma su di esse. Questa è la sua dimensione più valida in prospettiva.
21
G Rampino Vecchio Sud Tribuna del Salento 14 aprile 1967
25
L'AGGRESSIONE DEL MEZZOGIORNO
Più forte è la mente del popolo,
più ostinato è l'eretico.
Bemard Shaw
La storia è la rottura con la natura,
provocata dal risveglio della consapevolezza.
Jacob Burckhardt
l filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in
varie maniere: ma il problema è di cambiarlo.
Karl Marx
Se vogliamo che tutto rimanga com'è,
bisogna che tutto cambi.
Tomasi di Lampedusa
27
Si verifica in questi tempi un fenomeno interessante: parlano tutti
del Mezzogiorno. Non soltanto coloro che ne sono direttamente interessati, perchè questo rientra nella più rigorosa normalità. Se ne occupano anche organismi non investiti esclusivamente del problema; uomini e fogli d'informazione che col Sud non hanno voluto avere mai
gran che da spartire; politici, tecnici, economisti, che hanno sempre
guardato con sospetto alla questione; scrittori e giornalisti italiani e
stranieri che il Sud d'Italia avevano appena sfiorato nelle loro scorribande letterarie e gazzettiere. E non è male. Va registrato poi un altro
aspetto degno di rilievo: c'è una certa insistenza nel tirare le somme,
cioè nell'operare una sintesi della geografia delle cifre che interessano
il Mezzogiorno 22. Scorriamole brevemente. Il Comitato dei Ministri
per il Mezzogiorno informa che dal 1950 al '61 gli investimenti industriali nel Sud sono stati pari a 6.126 miliardi di lire, di cui 4.108 per
nuovi impianti; 1.656 miliardi, pari al ventisette per cento, sono stati
spesi per le industrie chimiche; 1.217, pari al 19,8 per cento, per le metalmeccaniche; 771, pari all'11,6 per cento, per le alimentari. La Campania ha assorbito il 25,8 per cento degli investimenti complessivi; la
Sicilia il 22,1; la Puglia il 12,8; il Basso Lazio l'11 per cento.
Il ministero dell'Industria si esprime con i termini della legge 623
del 1959, poi prorogata fino al 1970. Cos'è stata in questi anni la legge
623? Per comprendere anche i motivi ispiratori, è necessario premettere
che essa fu preparata dal governo nell'inverno del '58, quando da un lato si avvertivano ancora i segni della stagnazione che colpì il sistema
22
F. Ventriglia I conti del Sud, cit.; Id. Una scelta per il Mezzogiorno Il Mattino
25 maggio 1967; dati ISTAT Sull'evoluzione e la struttura delle forze di lavoro
in Italia, maggio 1967.
29
economico italiano nella seconda parte di quell'anno, e dall'altro, essendo entrato in attuazione il Mercato Comune Europeo, tutta l'industria italiana veniva ad essere sottoposta ad un notevole sforzo di ammodernamento produttivo per poter reggere alla concorrenza internazionale.
Il ministero dell'Industria ritenne necessario facilitare, attraverso
lo strumento del credito, gli investimenti delle aziende piccole e medie,
e di conseguenza predispose quella legge, la quale consentiva alle imprese che realizzavano nuovi impianti o ammodernavano quelli esistenti di ottenere gran parte dei capitali necessari dagli istituti di credito a
medio termine, non al tasso di mercato, (che si aggirava sull'8-8,25 per
cento), ma ad un tasso di favore e per un lungo periodo di tempo. Misura del tasso, durata dei mutui, importo dei finanziamenti, furono stabiliti in misura differenziata per il Centro-Nord e per il Mezzogiorno.
Quanto ai tassi: cinque per cento per le imprese localizzate nel CentroNord, e tre per cento per quelle localizzate nel Centro-Sud; quanto alla
durata: dieci anni per i mutui del Centro-Nord, quindici anni per quelli
al Mezzogiorno; quanto all'importo dei mutui: nel caso di nuovi impianti, un miliardo nel Centro-Nord, e un miliardo e mezzo nel Sud; nel
caso di ampliamento, 500 milioni nel Centro- Nord, e un miliardo nel
Sud.
Nonostante tali misure differenziate, l'applicazione della legge
fece chiaramente intendere che le domande del Centro-Nord avrebbero
sopravanzato quelle del Mezzogiorno, e, all'interno del Centro-Nord, le
domande delle tre regioni più avanzate - quelle del triangolo - avrebbero costituito una schiacciante maggioranza. Nel 1961-62 si provvide
perciò a limitare l'applicazione della legge alle regioni del triangolo,
essenzialmente escludendo dai benefici le domande di finanziamento
relative a nuovi impianti quando superavano certi limiti. Si introdusse,
inoltre, con una legge aggiuntiva, l'obbligo di riservare al Mezzogiorno
almeno il cinquanta per cento dei contributi che lo Stato avrebbe eroga-
30
to per abbassare ai livelli stabiliti nella legge il tasso corrente di
mercato.
Quali sono stati i risultati dell'applicazione della legge fino allo
scadere del 1966? Sono stati concessi 14.600 finanziamenti per circa
1.200 miliardi, che hanno comportato investimenti (alla quota di
credito occorre aggiungere quella investita dai promotori dell'iniziativa) per circa 2.700 miliardi, ed un'occupazione che ha sfiorato il
mezzo milione di unità. I finanziamenti riguardanti imprese localizzate nel Mezzogiorno sono stati 6.600 (pari al 46 per cento del totale), per un ammontare di 700 miliardi (quasi il sessanta per cento
del totale); gli investimenti che ne sono conseguiti sono ascesi a
1.700 miliardi (oltre il sessanta per cento del totale), e l'occupazione
a 201 mila unità (48 per cento del totale).
L'applicazione passata della legge è stata dunque favorevole al
Mezzogiorno.
2
A questo punto siamo obbligati a chiederci: è bastato tutto
questo? Si è trattato , indubbiamente, dei primi passi, che son sempre i più difficili. Purtroppo , allo stato delle cose, le circostanze
sembrano giocare contro il Sud , scoraggiandovi nuovi investimenti
industriali privati. Non solo. Sta crescendo una polemica, ancora
non del tutto scoperta, ma già carica di spunti vivaci, rancorosi, che
ci richiamano alla memoria antiche controversie sulle due Italie.
Ha scritto Ernesto d'Albergo 23: «Già, in sede di pura teoria finanziaria, ho dimostrato che il solo concedere, "positivamente", incentivi a certe zone, anche come settori di "Mezzogiorno" ed Isole o
Centro-Italia e, in vista del superamento di date condizioni, o a causa di esse, come vincoli determinanti, significa discriminare "contro"
23
E. D'Albergo Disincentivi contraddittori Il Sole - 24 ore 27
maggio 1967.
31
altre zone, settori territoriali e produttivi, se proprio vogliamo concedere posto alla visione indiretta dei "disincentivi".
E' vero che della legislazione, ad esempio, per le "aree depresse", si è fatto, talora, abuso come estensione a zone che, in media, fatto
uno studio approfondito ed oggettivo di mercato, non meritavano detta
classificazione. Questo rilievo, che vale anche per le agevolazioni varie
alla "piccola industria", estese a tutte le zone territoriali italiane contribuisce a far comprendere che la contrapposizione tra "incentivi" e
"disincentivi", se proprio vi si vuole insistere, pur essendo contraddittoria e controproducente, si attua con l'accordare agevolazioni agli uni
e negarle agli altri, in senso territoriale e settoriale, variamente classificato».
Questo discorso, a nostro avviso, sarebbe in parte valido solo nel
caso che l'economia italiana non fosse « dualistica», che non vi fossero
squilibri territoriali, e che «disincentivo» fosse sinonimo di «taglio dei
viveri» in senso assoluto. Il che non è. Nel Sud, infatti, l'aumento tra il
1963 e il '66, delle risorse è stato del 13,2 per cento, contro il 14,7
dell'Italia globalmente considerata, e il 16,9 per cento del Centro-Nord.
La minore espansione delle risorse a disposizione del Mezzogiorno rispetto alla media nazionale e a quella del Centro-Nord è da collegarsi
anche al fatto che le «importazioni nette» sono aumentate nel 1964 sul
1963 (l901 contro 1779,4 miliardi), ma sono diminuite dal 1965 al
1967.
3
Secondo D'Albergo, coloro che hanno « lamentato il fatto che i
mezzi finanziari, inseriti nel ciclo economico localizzato, come nel caso
della Cassa per il Mezzogiorno, che li eroga da oltre tre lustri, "finiscono per riversarsi verso il Nord" e verso il "triangolo Milano - Torino
- Genova", dimenticano che ciò risponde ad una inesorabile logica. Invero, "creare" industrie nel Mezzogiorno, "poli di sviluppo", "nuclei
32
industriali", ecc., significa fare richiesta di impianti e beni strumentali vari, per " mettere in piedi "stabilimenti, fabbriche, uffici, ecc.».
Uno dei chiodi della vexata quaestio è proprio questa inesorabile
logica che, finchè esisterà di fatto, avrà forza e valore di assoluta illogicità. Il Nord, che ha affermato a più riprese di non vedere di
buon occhio la Cassa e gli altri istituti di intervento straordinario
nel Mezzogiorno, il Nord che si lamenta, e dice di spendere troppo
per il Sud, che afferma di aver creato un nuovo Sud, poi si rimangia
tutto, come Saturno divorava le sue stesse creature . Il controsenso è
qui, nella chiusura esclusivista e dogmatica del discorso dell'equilibrio nello sviluppo. Stimolare e agevolare gli incentivi nel Sud non significa «disincentivare» nel Nord. Soprattutto, non significa «ritardare
(...) l'equilibrato progresso», perchè non esiste l'equilibrio, ma proprio
il campanilismo regionalistico che l'Autore dice di condannare.
In realtà, son parecchi a cadere sempre negli stessi errori . Crediamo, in buona fede. Ma è un fatto: al di là di un discorso generalmente basato su una politica delle infrastrutture, in alcuni ambienti italiani
riesce ancora difficile accettare «in termini di rivoluzione» l'impostazione
«della problematica meridionale»24. Sicchè pare cadere desolatamente
nel vuoto, al di fuori degli interessi intellettuali dei meridionalisti, qualsiasi tentativo di spinta al progresso. «La Puglia - è stato scritto dovrà trovare le linee di livello paritarie nell'affrontare i problemi della
crescita forzata, con Lucania, Molise, Abruzzo, Campania e Calabria,
perchè la conseguente crescita spontanea non accentui le distanze fra
regione e regione, e quella ancor più sensibile tra Nord e Sud»25.
Qui ci si duole perchè la discussione meridionale avviene a compartimenti stagni. Poi, quando si riesce a rompere il grande muro discriminatorio che si innalza tra le due ripartizioni territoriali, e si supera
un pò lo steccato, e non si rovesciano, ma si inclinano appena certe vec24
25
Dibattito E. Bonea- V. Fiore in Sempre Avanti! –Tribuna del Salento dicembre
1966 e segg.
E. Bonea Discorsi meridionalisti Tribuna del Salento 23
dicembre
1966.
33
chie posizioni, e si tenta di allentare le remote tendenze coercitive
che per lunghe epoche hanno relegato le genti meridionali in
una sacca di povertà, ecco che dalle trincee conservatrici son
tiri di reazione e di sbarramento. Sul piano storico, la verifica di questo fenomeno è più che puntuale. In termini di progresso economico
e sociale, quale Italia si unificherà così?
Dopo un lungo viaggio attraverso il Mezzogiorno, Ronchey si
chiede: «Quanto tempo occorre perchè sia ridotto e poi cancellato questo divario fra le "due Italie?" Può il Sud correre più del
Nord? E anzitutto : il ritardo è misurabile? Se dovessi indicare una
stima prudente del ritardo, direi circa trent'anni (...). Finora, in
quindici anni, si è avuto non solo un divario crescente fra
quantità di reddito in valori assoluti (che sarebbe stato ovvio), ma
pure un divario fra i tassi medi di sviluppo a favore del Nord. Si
può invertire almeno questo rapporto?Il Sud corre, ma perde terrreno rispetto al resto dell'Italia (...). Quale "doppia Italia" preparano le proiezioni statistiche?»26.
4
Il problema delle dotazioni di base, cioè dei servizi elementari,
è ancora in via di soluzione. Certamente, strade, telefoni, scuole professionali, nuclei industriali, avviamento dell' attività turistica, vanno
realizzando una nuova geografia infrastrutturale. In un certo senso,
dunque, il Mezzogiorno è stato «aggredito». Ma non con la mano di
ferro, con la volontà ferma e decisa che inquadra il problema, ne esamina i punti di fondo, lo seziona e lo risolve rapidamente. E' stata, ed
è, una mano in guanto giallo. Si è trattato di un'aggressione morbida,
che ha maturato alcuni frutti , lentamente, che continua tuttora la sua
lunga marcia di trasferimento verso un nuovo assetto fisico e sociale.
26
A . Ronchey Bilancio di un lungo viaggio nel Sud La Stampa
26.6.1966.
34
Il problema cardinale del Sud, ora, si chiama industrializzazione. O
arrivano le industrie organiche ed autonome, avvertiva qualche tempo
fa Sterpa,27 o il Sud non riuscirà a colmare la frattura che lo separa dal
Nord. Un primo passo è stato fatto 28. Lo si avverte anche nel costume,
nelle aspirazioni dei giovani, e poi nella stessa struttura urbanistica
delle città, persino nella idrografia, che era la vera piaga del Mezzogiorno, e ne faceva, come disse Fortunato, una «terra che vale assai
poco». Molto di meno si è fatto per la bonifica del suolo. Si pensi che
in Calabria, ove tali opere pubbliche sono favorite da due leggi speciali, «si è operato fra pianura e collina su circa l'1,13 per cento del territorio dal 1951 al '66, realizzando soltanto l'8,5 per cento di quanto
pianificato» 29. Ancora di meno nel settore ferroviario. Sebbene l'Enel
vincoli al Sud il sessanta per cento dei propri investimenti, circa un
milione di meridionali non usufruiscono dell'energia elettrica. Inoltre,
873 centri abitati del Sud sono senza acquedotti, e 1.989 dispongono
di portate d'acqua del tutto insufficienti 30.
Mettersi in linea coi tempi, significa svincolare le aree meridionali da
questi gravissimi mali. Ma significa soprattutto non rinviare per essi il
processo di escalation industriale, anche se le circostanze possono
sembrare avverse31. Le Relazioni sulla situazione economica del Paese
mettono in luce che gli investimenti industriali in Italia aumentano costantemente. Ma nel '65 e nel '66, per il Mezzogiorno, sono passati da
370 a 300 miliardi, con una riduzione del 19 per cento. E' un. fatto di
congiuntura negativa, o una tendenza, cioè un fenomeno non transito27
28
29
30
31
E. Sterpa punteggiato di interrogativi il futuro industriale del Sud Corriere della
sera 23 giugno 1966.
G. Ceralli Il Mezzogiorno vent'anni dopo Tribuna del Salento 7.4.1967.
La conservazione del suolo selle pendici coltivate. Comunicazione di L.A- Carrieri al XIII Congresso Nazionale delle Bonifiche. Nello stesso Convegno il Ministro Pieraccini ha confermato che lo stato ha predisposto nel Piano quinquennale una spesa di 900 miliardi di lire 1963 (mille miliardi attuali) «per interventi
in tutta la penisola»
Istat Rilevazione statistica sull'approvvigionamento idrico in Italia Roma, 1967.
S. Petriccione I consorzi industriali nel Sud Avanti! 25 maggio 1967.
35
rio, destinato a confermarsi e aggravarsi in prospettiva? Difficile rispondere. Il fatto stesso che sia lo Stato attraverso l'IRI, a dover sostituire nel Sud i privati, che alla resa dei conti si sono trovati scoperti e impreparati nei confronti di un «programma meridionale», è abbastanza
indicativo, e non fa che accrescere certe perplessità e certi rancori dei
meridionali. Dall'Europa si guarda all'Italia e al suo Sud con occhi diversi da quelli di otto o dieci anni fa 32. Dunque, è anche nella dimensione europea che va focalizzato il complesso dei problemi del Mezzogiorno. In questa visione, quali sono le «politiche» da attuare? Come
«aggredire» il vecchio Sud? Come allungare l'Europa al centro del Mediterraneo ?
5
Ce lo indica, in sintesi, una rivista specializzata33. Si deve partire
da una politica di localizzazione industriale, volta a facilitare l'espansione verso il Sud delle nuove capacità creatrici del sistema produttivo,
e che abbia come punti fermi: il ricondurre gli incentivi esistenti nelle
varie regioni del Paese ad un sistema unitario a carattere nazionale, da
manovrare secondo le esigenze della politica di riequilibrio territoriale,
con la totale eliminazione degli incentivi oggi esistenti nelle zone già
sviluppate, e con una concentrazione di essi nelle aree meridionali; il
condizionamento delle localizzazioni degli investimenti che sono finanziati con il ricorso diretto al mercato finanziario; la localizzazione
nel Mezzogiorno di nuovi investimenti delle partecipazioni statali, fer-
32
33
R. Guillain Au secours d'un monae oubtié Le Monde 13 agosto 1960; Id. L'écart
Nord-Sud n'a pas diminué, Ib. 14 settembre 1960. Per contro il londines Economist, in un saggio dedicato il 17 marzo 1967 all'Italia, (Italy' catches up, L Italia
çuatiaçna terreno), afferma che in una sola generazione «un Paese povero, sovrappopolato, in preminenza agricolo, si è trasformato in una società industriale e urbana a rapido sviluppo». Vi sono ancora «sacche di povertà», ma qui
«l'immobilismo sta cedendo a un desiderio di riforme».
Le politiche per il Mezzogiorno II Nuovo Osservatore, maggio 1964.
36
me restando le integrazioni degli impianti già esistenti nelle altre regioni.
Poi l'attuazione di politiche nel campo fiscale, della legislazione
delle società, delle concentrazioni finanziarie ed economiche, ecc., destinate a favorire processi di diffusione delle iniziative industriali e finanziarie.
Una politica agricola che, attraverso il superamento. della politica di sostegno cerealicolo, orienti gli indirizzi produttivi in senso più
corrispondente alle vocazioni ambientali e alla domanda dei mercati di
consumo, con la realizzazione delle strutture sotto l’aspetto delle dimensioni aziendali e della meccanizzazione.
Una politica agricola che, attraverso il superamento della politica
di sostegno cerealicolo, orienti gli indirizzi produttivi in senso più
corrispondente alle vocazioni ambientali e alla domanda dei mercati
di consumo, con la realizzazione delle strutture sotto l'aspetto delle
dimensioni aziendali e della meccanizzazione.
Una politica dei trasporti intesa a tener conto, sia in termini di
disponibilità di strutture che di prezzi, della necessità di un pieno e
rapido inserimento delle regioni meridionali nel mercato nazionale ed internazionale.
Una politica commerciale ispirata a principi di maggiore facilitazione, nei rapporti con l'estero, alle imprese di minore dimensione
ed ai settori di nuovo sviluppo.
Una politica della spesa pubblica che tenga conto della necessità
di favorire l'accrescimento dell'efficienza del sistema economico
meridionale attraverso l'adeguamento delle infrastrutture e dei servizi
pubblici statali e locali: ciò dovrebbe comportare, in termini quantitativi, la destinazione al Mezzogiorno di un'aliquota pari al 45 per
cento della spesa pubblica complessiva.
La definizione di una politica dell'energia elettrica; una revisione dei criteri di compartecipazione degli enti locali alle entrate tributarie pubbliche, sulla base di una maggiore aderenza ai bisogni dei
37
singoli enti e all'entità della popolazione; una decisiva politica delle
bonifiche e degli acquedotti; una politica urbanistica non strumentalizzata; una politica scolastica adeguata alle molteplici esigenze
che si pongono nel Sud, non solo sotto l'aspetto generico della preparazione di base o professionale, ma anche della riqualificazione e
della specializzazione universitaria di una quota rilevante di unità, per
la nascita nell'ambiente meridionale di migliori condizioni di vita sociale, civile e culturale.
Una politica delle remunerazioni, che tenga conto dell'esigenza
di mantenere nell'economia un'accumulazione di capitale adeguata alle
necessità di finanziamento dello sviluppo del Mezzogiorno, dando luogo a forme di risparmio dei lavoratori, che possano svolgere anche una
funzione utile ai fini del controllo comunitario dei processi di investimento.
Una politica di programmazione nazionale che sia l'elemento
condizionante del successo di un'azione di sviluppo nel Mezzogiorno,
basato su una rapida efficienza del sistema economico e un più vasto
impiego delle forze di lavoro.
In sintesi, una politica globale per il Mezzogiorno, senza che ciò
significhi disancorarsi dalla politica generale del Paese, e da quella, ancor più ampia, dell'Europa comunitaria. Qualcuno obietterà che non si
tratta di proposte nuove. Non è la novità che qui conta. Nuovo, cioè vivace, moderno, creativo, deve essere lo spirito, e nuovi, in questo senso, devono essere l'intelligenza, il coraggio, l'audacia, con cui quelle
proposte devon prender corpo e farsi realtà. Diversamente, resteremo
ancora legati alla montagna verso cui nessun profeta va a realizzare il
segno di un rinnovamento radicale. O rischieremo l'assimilazione fossile. E saremo noi stessi una catena di grandi pietre ferme nel tempo.
Senza vita.
38
POLITICA AGRARIA: TALLONE D'ACHILLE
Gli uomini pratici,che si credono perfettamente
indipendenti da ogni influenza intellettuale,
sono spesso schiavi di alcuni economisti defunti.
J.M. Keynes
Venne la libertà: ma misurata, omeopatica,
soggetta a sospensioni e ad eccezioni che non
potevano renderla benefica.
Napoleone Colajanni
Cercate la realtà in ogni cosa,
e fuggite l'ostentazione.
Vincenzo Gioberti
39
Statistiche alla mano, un ettaro di buona terra meridionale irrigata e meccanizzata rende quanto uno e mezzo di terra francese o australiana, quanto due ettari di terra statunitense o canadese. Il Sud ha dodici
milioni di ettari di terra, ma il quaranta per cento non è realmente coltivabile. Poca pianura, molta collina, troppa montagna. Su questo scacchiere sorgono due milioni e duecentomila aziende agricole. Ma dire
aziende è ricorrere ad un palese eufemismo. Tranne poche eccezioni,
sono manciate di terra. La superficie media censita per azienda in Italia
è pari a 1,82 ettari. Ma la media di Napoli è di mezzo ettaro; quella di
Frosinone, Benevento, Avellino, Lecce e Messina, non raggiunge l'ettaro; a Latina, L'Aquila, Campobasso, Pescara, Salerno, Caserta, Brindisi, Taranto, Bari, Reggio Calabria e in tutte le province siciliane tranne
Messina, i valori medi si aggirano sull'ettaro e mezzo; a Cosenza, Catanzaro, Matera e Potenza, superano di poco i due ettari; a Foggia e
Cagliari, i tre ettari; a Sassari e Nuoro, i sei ettari. In tutto il territorio
nazionale, cinque milioni di italiani operano in quattro milioni e mezzo
di aziende, su una superficie realmente coltivabile di diciassette milioni
di ettari. In media, la produzione lorda vendibile è di cinquemila miliardi. Se togliamo i 1.200 miliardi per le spese di produzione, i capitali
tecnici e gli oneri degli ammortamenti, vien fuori un prodotto netto di
3.700 miliardi. Da cui, ovviamente, vanno sottratte le remunerazioni
del lavoro e le tasse: Risultato: settecentomila lire per azienda (58 mila
lire al mese), e mezzo milione per lavoratore (41 mila lire al mese). aziende degne di questo nome sono al Nord, e il Nord ha un reddito agricolo doppio rispetto al Sud.
Facciamo il raffronto con un'economia agricola industrializzata. Su
160 milioni di ettari realmente coltivabili negli Stati Uniti, operano so41
lo tre milioni e mezzo di aziende, che occupano poco più di dodici
milioni di uomini. In media, la produzione lorda vendibile è pari a
28.200 miliardi, e il prodotto netto pari a 23 miliardi. Sette milioni
buoni per azienda, più di due milioni netti per lavoratore. Si spiega così perchè gli agricoltori statunitensi possiedono il quindici per cento
dei titoli di Stato. E si spiegano anche imotivi storici che hanno spinto
i contadini e i rurali generici italiani, al novanta per cento meridionali, a fare « spedizioni stagionali all'estero per contribuire alla costruzione del Canale di Suez, dei ponti della Scozia, delle ferrovie americane, delle gallerie attraverso le Alpi, dei porti di Calais e di
Marsiglia. E ogni progresso permanente in Patria sarebbe rimasto
(...) quanto mai improbabile finchè l'agricoltura nazionale non avesse
guadagnato in razionalità e spirito d'iniziativa, e non fosse stata in
grado di provvedere in misura maggiore ai bisogni di una popolazione industriale»34.
2
Insieme ad altri miti ugualmente pericolosi, da un pezzo dovrebbe essere tramontato anche quello virgiliano dell'Italia alma parens frugum. Ed è almeno dalla grande inchiesta Jacini, e dalle spietate radiografie di Nitti e Fortunato, che la povertà agricola del Mezzogiorno è assurta a dato incontrastato di giudizio. Povertà naturale,
aggravata in genere dagli ordinamenti economici e sociali, quasi sempre inadeguati, a volte addirittura arcaici: dapprima latifondo e coltivazioni estensive in zone affollate di uomini; subito dopo il secondo conflitto mondiale, eccessiva frantumazione della terra; sempre, agricoltura
di rapina, imprese contadine ancorate al principio della sussistenza domestica, degradazione del paesaggio agrario, scarsa produttività ad ogni livello. E quasi dappertutto miseria, bracciantato, ignoranza tecnica
e immaturità civile, rurali affamati di pane e agitati da un confuso
34
D.Mack Smith Storia d’Italia 1861-1958 vol.I pag. 74 Bari, Laterza 1965
42
desiderio di giustizia. Pane e giustizia tante volte negati, se è vero che
l'Italia meridionale si è mostrata «nella storia, nelle cronache, nei
documenti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e prepotenze
baronali, povero, con agricoltura primitiva, con scarsissima ricchezza
mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia, e, insomma, in
condizioni tutt'altro che prospere, eque e benigne» 35. Si dice che non
sempre e non tutto è così, nel Sud. Ma quanto si ammira in certe zone
agricole della Campania, della Piana di Catania, della Conca d'Oro, del
Metapontino, assai più che la regola, costituisce l'eccezione 36.
Il fatto è che l'agricoltura italiana è in una sfera, in una dimensione di tempi non ancora moderni. Da anni ormai cresce il deficit della
nostra bilancia commerciale: l'agricoltura, cioè, non sa tenere il passo
con il ritmo dei consumi, sicchè siamo costretti ad aumentare gli acquisti di derrate alimentari sui mercati esteri. Circa la metà della carne
consumata in Italia è importata, con una spesa di oltre trecento miliardi
all'anno. Il passivo medio per anno supera i 1.200 miliardi per importazioni agricolo-alimentari. La cifra non comprende i tabacchi, i prodotti
forestali, lo scatolame, che insieme accrescono quel passivo di un buon
terzo.
3
Si dovrebbe affrontare il problema alla radice. Cosa si fa?
Nell'ambito della riforma fondiaria si vogliono espropriare un milione
di ettari 37. Cioè, si spezzetteranno ulteriormente le ultime terre di me-
35
36
37
B. Croce storia del Regno di Napoli, Bari Laterza 1966.Pag. 26.
B. Caizzi La riforma agraria nel Mezzogiorno Sapere giugno 1965.
Strutture e servizi per lo sviluppo produttivistico delle campagne. Quaderno
di studio e d'informazione N. 9, a cura della Direzione Generale della Bonifica e della Colonizzazione del ministero dell'Agricoltura e Foreste, senza data (ma 1966). Un quadro più completo dell'attività degli organismi di riforma si ha confrontando anche il Quaderno N. 8, estratto dalla rivista Agricoltura, edita dall'Istituto di Tecnica e Propaganda Agraria, e dedicato a Noti43
dia e grande pezzatura, per integrare «microaziende che non potranno
"mai" ingrossare al punto di diventare una cosa seria (...), non potranno mai risolvere il problema della terra polverizzata, già troppa
da noi, e alla quale si deve in gran parte la inefficienza globale della
nostra agricoltura e il deficit alimentare...» 38.
Il panorama si completa con i colossali debiti contratti dagli operatori agricoli. Gran parte di questo indebitamento è dovuto ai mutui accesi per la formazione di nuove proprietà coltivatrici, all’ acquisto di
macchine, ai processi di ammodernamento, alle riorganizzazioni aziendali. Ma può la nostra agricoltura continuare a sostenere pesi così
grandi, compressa com'è tra costi e ricavi, e con un equilibrio di mercato che non ha alle spalle nè organizzazioni per la produzione, nè una
chiaroveggente impostazione commerciale?
Quel che si verifica nei campi meridionali è indicativo.
Nel momento in cui l'affacciarsi del settore industriale pone il problema di una qualificazione che dovrà tentare di tradurre in termini
produttivi gli sviluppi della ricerca scientifica e tecnologica, l'arretratezza generale dell'agricoltura pesa sempre più negativamente. Le
componenti sono molte, ma tutte collegate: preesistono strutture arretrate sia nella fase produttiva che in quella di mercato; manca una politica di sistemazione definitiva del suolo, dei corsi d'acqua, della
montagna e della collina; è scarsa l'irrigazione; difettano i trasporti;
fa fatica ad imporsi l'idea della cooperazione; soprattutto, mancano i
capitali.
4
Sono stati perduti anni preziosi in un settore che è decisivo , quello
della ricerca scientifica e tecnologica. La soluzione di questo pro-
38
zie, dati e documenti sulle strutture fondiarie di pubblico interesse, senza data
(ma 1963).
M . Pompei Lo sbilancio alimentare Giornale d'Italia 16 marzo 1966.
44
blema propone una serie di altri problemi che interessano i più diversi
campi della scienza e della tecnologia: la genetica per la selezione di
sementi più produttive e la sperimentazione per il loro ambientamento
in aree agronomiche diverse (problema particolarmente acuto per l'Italia, per la diversità di condizioni naturali); l'uso dei prodotti chimici
nelle varie fasi della coltivazione, che comporta uno studio specialistico per la fabbricazione dei preparati; una indagine sulla loro funzionalità ed efficacia verso le colture; l'invenzione di nuove macchine
per la lavorazione del suolo, la loro progettazione è messa in prova;
la creazione di vasti ranchs nelle aree più idonee delle dorsali appenniniche meridiona1i. E così via. Dalla soluzione di questi problemi
dipende la « resa» del prodotto, il risultato finale. E così per ogni
questione che alla ricerca si pone.
Le discipline interessate alla sperimentazione agraria sono almeno
quaranta. Chi si incarica della ricerca scientifica? Il professor Haussmann, nel suo opuscolo significativamente intitolato «Le stazioni tragicamente indietro con i tempi», scrive che il nostro Paese annovera
un numero sorprendente di organi di ricerca per l'agricoltura fra statali, parastatali e privati (questi ultimi pochissimi), per un totale di 377
unità, superiore perfino a quello della Francia e della Germania Federale. Quanto ai risultati, afferma Haussmann, il quadro «è sconsolante». Non siamo riusciti a registrare, nella nostra rapida ricognizione in
questo settore, un solo giudizio diverso. Lo stesso professor Cavazza,
della Cassa per il Mezzogiorno, ha scritto: «Grave è nel suo insieme lo
stato della organizzazione della sperimentazione agraria, specie nel
Mezzogiorno; per quanto si riferisce di quadri, del tutto inadeguato è il
loro numero. E' ben strano che una nazione come l'Italia non trovi
modo di organizzare seriamente una ricerca applicata, capace di
aiutarla a risolvere i suoi problemi agricoli». Un recente decreto-legge
ha «ristrutturato» i centri statali di sperimentazione. Ne ha soppresso
alcuni, ha fuso altri, molti li ha trasferiti nella Capitale, alimentando il
sospetto di una loro «politicizzazione».
45
A nostro avviso, si ritrovano in questo settore alcune anomalie
tipiche della pubblica amministrazione. Esaminando, ad esempio, l'elenco delle stazioni sperimentali dipendenti dal ministero della Agricoltura, si trova che tutta la zona dei grandi oliveti meridionali è sprovvista di stazioni autonome di ricerca specializzata. Roma avrà sei centri
di ricerca, ma non ne esistono dove oggi c'è la più gran parte di prodotti
agricoli italiani. Il terzo articolo della seconda edizione del Piano Verde
delegava il governo a procedere ad una riorganizzazione generale, al
potenziamento della sperimentazione agraria e alla sua specializzazione, collegando gli istituti per la ricerca a quelle zone ove i risultati di
essa sono realmente importanti per lo sviluppo della agricoltura. E' stato stabilito anche un ampliamento dei ruoli del personale scientifico e
tecnico, e sono state accolte importanti richieste degli sperimentatori.
Tra l'altro, d'ora in avanti - a differenza del passato - sarà anche possibile impiegare in Italia, con contratti a termine, tecnici di altri Paesi per
la soluzione di determinati problemi. In altri termini: noi, primi al
mondo per produzione di vino, importiamo vino; primi per produzione
di olio, importiamo olio; primi in Europa per numero e spesso per qualità di periti e specialisti e tecnici agrari, che fuggono all'estero in cerca
di lavoro, o ripiegano all'insegnamento nelle scuole secondarie, rischiamo di offrire lavoro ad esperti stranieri. E' mai possibile -si chiede
Dominione-39 che tutte le volte che un settore dell'agricoltura raggiunge un certo equilibrio, lo si debba nuovamente deprimer e con le
importazioni?
5
Passiamo al suolo. Nella prima metà del '65, in Parlamento si insisteva specificatamente sulla «necessità di armonizzare l'economia delle zone montane con l'economia della pianura». A proposito del se39
C. Dominione L'agricoltura è gravata da un forte indebitamento. Corriere della Sera, 15 gennaio 1967.
46
condo paragrafo del XV Capitolo del Piano quinquennale, si rilevavano alcune disarmonie e certe pericolose lacune della politica d'intervento nel Mezzogiorno. In sostanza si precisava che «gli investimenti (...)
pioveranno là dove esiste già una concentrazione e dove sussistono
le premesse di uno sviluppo ulteriore» mentre « le altre zone non individuate nel disegno di legge dovranno sperare che gli incentivi, le agevolazioni fiscali (...), possano convincere gli imprenditori, per lo più
quelli del Nord, in quanto nel Sud è lenta la trasformazione dell'abitudine secolare dell'investimento agricolo in quello industriale, a realizzare impianti, sia pure con limitazione fissata dall'art. 12 (penultimo comma) in merito alla localizzazione...».
Il grido d'allarme non era ingiustificato. Infatti – si temeva- l a
politica dell'identikit, cioè della scelta a tavolino delle cosiddette «zone
omogenee», lungi dal ridurre lo squilibrio globale tra Mezzogiorno e
resto d'Italia, avrebbe aggravato gli stessi squilibri esistenti tra le varie
zone del Sud 40. In questo caso ha ragion e Sterpa41, quando sottoscrive
«in buona parte» l'osservazione fondamentale di Giorgio Baglieri in
«Cronache dei tempi lunghi», edito da Lacaita. Dice Baglieri:
«Quando si farà il bilancio finale d ella Cassa per il Mezzogiorno e
della riforma agraria, si troverà che in luogo di due Italie se ne sono
create tre, che il Mezzogiorno è stato scisso in due parti. La prima,
di stampo padano, con orti, frutteti, stabilimenti industriali e migliaia
di casette ai bordi di comode e larghe strade di comunicazione,
servirà per nascondere la seconda, quella dei tratturi e delle trazzere,
dell'asino e dell'aratro di legno, del grano coltivato come si gioca al
lotto, e dei paesaggi lunari».
6
Quattro milioni di ettari di montagna e sette milioni di ettari di
40
41
A. Bello La montagna in disarmo Il Globo 22 luglio 1965.
E. Sterpa Il mondo contadino si evolve ma il cammino è ancora lungo Corriere della Sera 21 settembre 1966.
47
collina pesano da sempre sulla volontà di sviluppo delle popolazioni
meridionali. L'ottanta per cento del suolo nazionale è montano e alto collinare. E se un terzo del Veneto e tutta la fascia orientale del
Polesine che si allarga lungo la via Romea sono indifendibili perchè
al di sotto del livello del mare, la Calabria ha più di seicento fiumare, che tagliano trasversalmente la regione, riottose e incomunicanti;
la Lucania smotta paurosamente; il Gargano va a carte quarantanove
ogni volta che piove; circa due milioni di ettari dell'Appennino meridionale superano la pendenza del 20-25 per cento; solo un milione
di ettari sono rimboschiti, ma più della metà son cedui, cioè degradati, inefficienti ai fini idrogeologici; un milione e 800 mila ettari
montani sono incolti e abbandonati. Ebbene, dei 1700 miliardi di lire a disposizione della Cassa per il Mezzogiorno per il quinquennio 1966-70, 450 mili ardi, pari al 27 per cento, andranno all'agricoltura. Di questi, appena settanta per opere di sistemazione montana
a difesa degli impianti idrici. Soltanto dodici miliardi all'anno, che
tuttavia non interessano la viabilità montana, le opere antifrana, l'elettrificazione dei terreni alti, la ricostituzione delle aree destinate ai
boschi e ai pascoli, e tutti gli altri problemi che riguardano i moderni
insediamenti agricoli. Si può sperare soltanto nella «discrezione» del
ministro per il Mezzogiorno. Una discrezione che la limitazione di
capitali disponibili esilia spesso in un vicolo senza uscite.
7
Ancora nell'immediato dopoguerra, l'Italia era un Paese precapitalistico, col quarantuno per cento di popolazione agricola. Oggi, il Piano prevede l'impiego in agricoltura del diciotto per cento delle forze di
lavoro. Forse, nella realtà di domani, questo indice scenderà ancora, fino al sedici-quindici per cento. Avremo cioè tremilioni di lavoratori agricoli. Qui, secondo l'opinione degli esperti, converrà fermarsi. L'esodo agricolo, che è stato un fatto positivo, oltre un certo limite potrebbe
48
ottenere risultati estremamente negativi. Creare le condizioni perchè
una parte della popolazione possa continuare a vivere in zone di campagna, trovandovi la propria convenienza, rappresenta dunque un obiettivo.
Nei primi anni della sua presidenza, Roosevelt dovette affrontare
problemi che, in fondo, non erano dissimili dai nostri. Lo fece lasciandosi guidare dal principio dell'utilità pubblica. Non solo costruì dighe,
ma piantò foreste, strutturò il suolo, regolò i fiumi, apri strade e ferrovie, rilanciò l'agricoltura. Poi, come nella vallata del Tennessee, sorsero
le grandi industrie.
Noi abbiamo seguito il cammino opposto. Abbiamo creato aziende agricole e impiantato imprese industriali sullo sfasciume d'un
terreno minato da secoli di abbandono, senza difese, senza strutture, o
con infrastrutture incomplete e fragili. Prende piede così l'aria di scetticismo, si raffredda l'entusiasmo di partenza, si minaccia la smobilitazione, diventa cronico il logoramento del settore economico. Ora, lo
Stato calcola che il solo costo dell'opera di rimboschimento si aggiri sul
mezzo milione all'ettaro. C'è però chi dice che questa è una valutazione
ottimistica. Comunque, il programma dovrebbe essere questo: sessantamila ettari rimboschiti ogni anno, per una spesa di trenta miliardi, più
venti per le strade. Con questo ritmo arriveremmo in cinquant'anni al
traguardo di tre milioni di ettari. E' il meno che si possa fare. La meta
non è vicina, lo sforzo che richiede è grandioso. Per misurarne le dimensioni, basta dire che attualmente il bilancio destina alla difesa del
suolo dieci miliardi annui, cinque dei quali sono assorbiti dalle opere
stradali. Il prezzo da pagare per la sicurezza è alto. Ma lo pagano tranquillamente Paesi che, come la Spagna e la Jugoslavia, non sono più
ricchi di noi.
8
Una delle manifestazioni più interessanti del processo di sviluppo economico è senza dubbio quella dell'esodo rurale. Essa consegue
49
ad una redistribuzione delle forze di lavoro, e si concreta nel loro trasferimento dal settore agricolo verso altri settori, soprattutto verso quello industriale. Più accelerato è il ritmo di crescita della economia, più
accentuato è l'esodo dai campi. Nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno, poi nel Veneto, il fenomeno ha preso consistenza verso il '55,
raggiungendo l'intensità massima negli anni '60-64, in corrispondenza
di quella forte espansione economica che è passata alle cronache contemporanee col nome di miracolo economico. Con la fase di recessione, l'esodo si è rapidamente contratto, fino a stagnare nel '65.
Qualche dato può essere interessante. La popolazione agricola
ammontava nel '51 a 8,3 milioni di unità (oltre il 41 per cento della popolazione attiva italiana). Nel '64, secondo le indagini campionare Istat,
si scese a cinque milioni di unità (25 per cento). Grosso modo, a questo
livello sono rimaste nel corso di questi anni. Si può ritenere quindi che
in via approssimata, poichè i dati non sono esattamente comparabili,
circa tre milioni di unità lavorative si siano trasferite dall'agricoltura
verso l'industria e gli altri settori, in quindici anni, durante i quali la
popolazione agricola è complessivamente diminuita di circa il quaranta
per cento.
Nel periodo di punta (1963), l'esodo ha avuto luogo con la frequenza media di una unità ogni minuto primo. La « fuga» ha interessato le classi giovani, soprattutto quelle tra i quindici e i vent'anni; gli
uomini rispetto alle donne; i lavoratori indipendenti rispetto a quelli dipendenti. Fin qui, niente di eccezionale. E' la storia che, molto prima
che da noi, si è verificata puntualmente in tutte le altre agricolture. Ma
quelle nell'esodo hanno trovato il più forte incentivo a non invecchiare,
a non femminilizzarsi, e a industrializzarsi, cioè a darsi schemi aziendali più consoni alle esigenze della moderna economia. Quella che si
chiamò la « rivoluzione agraria» dell'Inghilterra intervenne quando le
industrie urbane richiamarono e assorbirono i lavoratori dei campi. In
pochi decenni, la superficie media delle aziende agricole inglesi raddoppiò e triplicò, si incrementarono gli allevamenti, e la Gran Bretagna
50
per un certo periodo fu persino esportatrice di cereali. Niente di tutto
questo da noi.
Il fatto è che in Italia l'agricoltura si giudica ancora con criteri
più sentimentali che economici. Proprio in recenti documenti legislativi
si elogia « l'artigianato rurale» dei coltivatori diretti. Si favorisce in ogni modo - malgrado qualche contraria dichiarazione teorica - la sopravvivenza di strutture arcaiche, sentimentalmente apprezzabili, ma
economicamente negative. Dice Bignardi: «Anche noi apprezziamo
l'artigianato, e lo riteniamo - in molti casi - insostituibile. Ma se l'economia manifatturiera pretendesse basarsi sull'artigianato, farebbe bancarotta. E' lo stesso caso nell'agricoltura: colture cerealicole, bieticole, frutteti per produzione di massa, allevamenti razionalizzati, esigono
dimensioni aziendali che puntino su produzioni tipiche, scelte, e a costi
decrescenti. Accanto a questi settori c'è naturalmente spazio per produzioni specializzate, che si avvalgano delle insostituibili premure artigianali di piccoli e medi coltivatori».
Il fondatore dell'agricoltura moderna, Arthur Young, diceva che
l'agricoltura dipende da due fattori: dal buon Dio e dalla politica. Niente di irriverente in questa proposizione che veniva da uno spirito cristianissimo, anzi torturato da scrupoli religiosi. Egli voleva dire che
I'agricoltura dipende dall'imperscrutabile andamento delle vicende stagionali e dalla politica che al settore si applica. Diciamo allora che, essendo impossibile programmare il primo termine del binomio younghiano, sarà necessario proporsi un severo esame di coscienza, sempre,
applicando il secondo,
9
Abbiamo detto dei problemi della montagna e dell'esodo rurale.
Potremmo parlare di quelli corollari dei fiumi, delle irrigazioni, della
zootecnica, delle bonifiche costiere, dell'elettrificazione rurale, dei trasporti rapidi, degli sbocchi di mercato, dell'istruzione professionale. Li
51
sfioreremo in seguito. Del resto, c'è una folta pubblicistica che affronta
dettagliatamente e con obiettività tutti questi aspetti di un problema che
riteniamo globale42. Rimane un fatto importante: su novemila miliardi
di spesa statale (conto medio dei Bilanci italiani) soltanto 250 vanno
all'agricoltura. Con gli stanziamenti straordinari previsti dal Piano Verde numero due, la spesa pubblica raddoppia. Dunque, è in particolar
modo un problema di capitali. Lo aveva affermato, con la consueta brillante logica, Augusto Guerriero43. Invece, nel momento in cui l'Europa
Verde vuol crescere, l'agricoltura italiana, questo nostro fragilissimo
tallone d'Achille, si presenta in tali condizioni di precarietà e di depressione, da compromettere perfino i settori che notoriamente sono stati
una nostra antica esclusività, come l'olivicoltura, o in cui abbiamo
sempre primeggiato con pochi altri Paesi, come l'ortofrutticoltura e la
viticoltura.
10
Pare, ora, che il «divorzio» tra agricoltura e politica voglia comporsi. Certamente, il coraggio imprenditoriale, se assistito dalla capacità e impiegato in corrispondenza delle scelte indicate per il Sud e l'Ita42
43
Degni di nota, fra gli altri: N. Lupori Politica Agraria Europea Edizioni ISE:
Roma 1966; Bonifica. Mezzogiorno - Europa, Atti del XXII Congresso Nazionale della Bonifica, Bari 26·30 maggio 1965, Laterza. G. Medici La protezione
del suolo e. la regolazione delle acque, Relazione al XXIII Congresso Nazionale
delle Bonifiche, Roma 20 maggio 1967. Interessanti anche gli estratti dal bollettino La Bonifica Integrale. Citiamo per tutti: G. Fiori Della contribuenza privata
per le opere pubbliche di bonifica nei comprensori dell'Italia meridionale, Fasc:
V 1960; G. Compagno-AM.Martuscellì La disciplina giuridica della bonifica
nel paesi della Comunità Europea, Fase. IV 1961; E. Anzillotti Tendenza delle
esportazioni agricole italiane, Fase. III del 1959. Infine si vedano: S. Bertani.
La ricomposizione Fondaria fattore di alta produttività. Esso. Agricola 1 febbraìo 1967; A. Calzecchi-Onestì Bonifica agraria e difesa del suolo Il Globo 3
giugno 1967. Infine, le pagine dedicate dall'Avanti! alla Conferenza Agraria,
date varie per tutto il 1967.
Ricciardetto I problemi del Sud Epoca 26 marzo 1961; ma anche: Le industrie
del Sud, Ib. 4 giugno 1961, e Il problema del Mezzogiorno, Ib. 31 marzo1963
52
lia, va aiutato e protetto con una politica coerente e appropriata. Gli agricoltori meridionali ritengono di essere eterni vasi d'argilla. Ora qualcuno, portando il paragone in campo internazionale, ha pensato che tutta l'agricoltura italiana possa essere il vaso d'argilla fra tanti vasi di ferro.
11
In realtà, Italia e Mezzogiorno hanno buone chances. Se è vero
che per l'agricoltura son difficili da raggiungere gli obiettivi del Piano44, è altrettanto vero che la ricomposizione fondiaria, la cooperazione, la partecipazione diretta dei contadini agli utili societari, in aree
globalmente strutturate, con l'aiuto del credito, con i capitali dello Stato, con gli investimenti privati dei meridionali, con le facilitazioni fiscali, con l'alleggerimento della pressione demografica, e poi con l'energia elettrica, l'acqua, le macchine, e via dicendo, possono operare il
miracolo di un grande rilancio. Tutto ciò, tenendo presenti le reali vocazioni territoriali, e col più scrupoloso rispetto dei fattori latitudinali,
altimetrici e di mercato.
Ci sono, quindi, varie politiche tecniche che vanno realizzate al
momento giusto, seriamente e incisivamente. Noi siamo cuciti con
l'Europa su quattro frontiere. Eppure, nei quattro Paesi confinanti, per
non andar più lontano, siamo battuti spesso dalla concorrenza della
Spagna e della Grecia, dell'Algeria, della Tunisia, di Israele e del Libano. Anche della Bulgaria, da qualche anno in qua. E proprio con quei
beni vendibili che hanno tradizionalmente caratterizzato la produzione
agricola italiana. E' che siamo quasi rassegnati all'inferiorità internazionale. Anzi, essa è spesso pretesto per le nostre baruffe intestine, per
il sopravvento delle fazioni, per la difesa a oltranza dell'economia di
campanile. Un esempio per tutti: il rapporto presentato al Cnel per conto dell'Inea, parla di alimenti che «non sarebbe conveniente produrre
44
C. Bonato in corriere della Sera, 11 marzo 1967.
53
da noi», come se si trattasse di nuove iniziative di incerto esito economico. La realtà è del tutto diversa. Si tratta «di investimenti già effettuati e di iniziative in corso, dalle quali occorre semplicemente ottenere non il poco che oggi si ricava, bensì il molto che si può ricavare applicando i necessari perfezionamenti»45. Il sospetto nasce dal fatto che
la diagnosi di «non-convenienza» coincide con la terapia di risanamento del deficit che è stata proposta, e che consiste nel compensare l'importazione alimentare con l'esportazione di manufatti del triangolo Milano-Torino-Genova. E' un correttivo alla rovescia. Un intervento indicativo di certi timori degli agricoltori, che temono la sopraffazione e la
costrizione in mercati limitati con prodotti limitati. E' anche qui il
dramma dell'agricoltura meridionale.
45
A. Pagani Deleterio rassegnarsi all'inferiorità in agricoltura Il Giorno 27 maggio 1967.
54
IL SUD COL CUORE D'ACCIAIO
Ogni nazione ha i suoi fenomeni,
secondo le cause remote e prossime
dei quali sono effetti, e quindi in ogni nazione
ci sarà diversità di caratteristiche,
di fasi e di sviluppo.
Luigi Sturzo
Non lamento, ma azione ...
Pio XII
Questa democrazia può esistere soltanto se si
estende anche al campo economico,
può essere prospera e fruttuosa soltanto se
la nazione è in grado di far rispettare
la sua autorità e la sua legge in ogni settore,
e particolarmente in quello economico,
che una volta le era interdetto.
Mendès France
55
In uno dei non rari momenti m cui si fermava a far quattro chiacchere nel «transatlantico» della facoltà di Lettere dell'università di Roma, Federico Chabod ebbe a dire che il difetto tradizionale della classe
dirigente italiana dall'Unità ad oggi è stato quello di aver quasi sempre
sacrificato le esigenze della realpolitik sull'altare di un vago plaisir de
paraitre 46. Il ricordo ci è tornato più vivo che mai nei giorni di disordine e morte nel Medio Oriente, ove si è maggiormente concretizzato il
nostro impegno mediterraneo. In Egitto, ad esempio, abbiamo investito
milioni di dollari in opere di bonifica. Abbiamo trasformato il deserto
in uno scacchiere di fattorie tra le più moderne e redditizie del Nord
Africa. Abbiamo imbrigliato terreni, scavato pozzi, regolato fiumi e
torrenti, costruito strade e case, silos, ponti, officine. Abbiamo speso in
quelle latitudini, sotto forma di prestito agevolato, (ormai irrecuperabile), le stesse cifre che il bilancio dello Stato destina in almeno quindici
anni alla viabilità montana e alla sistemazione del suolo, ai rimboschimenti e alle bonifiche costiere. Li abbiamo spesi soprattutto nell'area
del Cairo, che ha un reddito medio superiore a quelli di Bari e Palermo,
o di Taranto e Siracusa, o di Cagliari, Reggio e Matera. Ora, un progetto di legge prevede la destinazione di mille miliardi ai Paesi sottosviluppati. I meridionali affermano che «sottosviluppo» può essere un
termine generico e non discriminatorio, e si chiedono se, scavalcando il
Sud e aggirando alcuni suoi antichi problemi, si potrà mai svolgere una
autentica politica mediatrice e d'equilibrio nel bacino mediterraneo.
Osservano infine che i cattolici intransigenti, attraverso la loro rivista
46
F. Chabod Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Bari, Laterza
1951
57
ufficiale47, al tempo delle imprese di Crispi in Africa, non esitarono a
gridare: «Milioni in Africa e fame in Italia!»48. Oggi, dicono ancora, i
cattolici non sono più all'opposizione, ma al potere. E lo «spreco»
resta. I capitali continuano a trasmigrare, mentre il Sud sta a guardare.
I Paesi poveri, è stato scritto, sono quelli che spendono di più. Noi
abbiamo un’agricoltura povera, un'industria che è l'unica speranza del
Paese, commerci internazionali passivi, risorse minerarie scadenti. Ma
spendiamo troppo e male, in Egitto, in Argentina, in Iraq, in Corea anche, perchè ci rifiutiamo di ammettere di non essere ricchi, cioè di essere ancora poveri. I più poveri della piccola Europa. Tra i meno ricchi delle due Europe.
2
Le cause profonde di questa povertà coincidono in qualche maniera con la palla al piede del Mezzogiorno. Anche del Mezzogiorno in via di sviluppo. Quel Mezzogiorno che vedrà altri miliardi
partire per esili lontani, e che ha visto negarsi pochi quattrini per
alcuni indispensabili raddoppi ferroviari, per il prolungamento di
certe autostrade, per la sistemazione rapida dello sfasciume montano, e via dicendo. Sicchè, a volte, pare trovare conferma quel complesso della rassegnazione fatalistica, che ha le sue radici nel pessimismo geografico di Giustino Fortunato, secondo cui dalla Balcania alla Spagna, «e perfino negli opulenti Stati Uniti, il "profondo
Sud'' sembra condannato da fattori climatici determinanti a una inferiorità ineluttabile».
3
Polemiche e rancori «storici» a parte, le nuove frontiere del Sud
non devono consistere più nel sostituire la civiltà del mulo con quella
47
48
La Civiltà Cattolica, Serie XVI. vol. V, 1896.
G. Spadolini Le due Italie, in L'opposizione cattolica, pagg. 373 e segg.
58
della vaporiera, ma nell'impiegare le smisurate potenze della elettronica
e della fissione nucleare, nel condizionare il clima, nel desalinizzare le
acque marine, nel redimere la terra, nel promuovere alla ordinata civiltà
urbana e industriale le masse rurali ancora chiuse, in vastissime aree, in
un isolamento feudale. Problemi di immensa portata si aprono di fronte
a questo coraggioso realismo. Ha scritto La Stampa: «A un Mezzogiorno che depone le querele per immaginarie spoliazioni nordiste, i retorici vanti delle proprie supremazie intellettuali, il vagheggiamento idillico dello status quo, il velleitario radicalismo estremista - a questo
Mezzogiorno smagato, lucido e risoluto, il Nord deve una risposta fraterna».
La risposta a quale domanda? Il Sud ha chiesto un cuore d'acciaio. Un cuore a più vertici: Bari-Brindisi-Taranto, Potenza -Napoli - Salerno -Caserta,- Palermo - Siracusa - Reggio, Pescara - L'Aquila- Campobasso, Matera - Lecce attraverso Taranto, Foggia - Benevento - Avellino. Poi, le aorte delle università, dei centri tecnologici altamente
specializzati, delle aree elettronucleari. Parecchio è stato fatto, in vari
settori e per diverse aree. Le chiamano direttrici di sviluppo, o ipotesi
di direzione, sulle quali ci si è incamminati, anche se fin dall'inizio si
sono registrati «errori, ritardi, dispersioni, tortuosità» 49, col pericolo di
una integrazione impossibile, «dal momento che differiscono nella impostazione e nei metodi, si riferiscono a periodi di tempo di diversa
lunghezza, e si prefiggono obiettivi non sempre confrontabili»50.
Qualche tempo fa, il ministro Pastore affermò: «E' tempo (... ) di
respingere definitivamente tutte le tesi economiche, le posizioni politiche e anche gli orientamenti imprenditoriali, che ritengono che la linea
prioritaria dell'economia italiana consista nello sviluppare il Nord e
riservare al Sud alcuni, pur importanti, sottoprodotti dell'espansione
generale dell'economia del Paese. All'epoca in cui queste idee sembra49
E. Sterpa Ancora troppe strozzature allontanano il Nord dal Sud. Corriere della
Sera 21 aprile 1967.
50
A. Bello L'industrializzazione del nostro Mezzogiorno Mondo Agricolo, 22 maggio 1966.
59
vano dominanti, avemmo ben chiari gli effetti negativi di uno sviluppo
che continuasse a concentrarsi in limitate zone del Paese nelle quali,
malgrado una elevata mobilità dei fattori produttivi, le condizioni di
costo andavano ad aggravarsi notevolmente. Io non voglio entrare a
discutere se la situazione di certe aree del Nord presenti caratteri di
"congestione" analoghi a quelli che si riscontrano nei grandi distretti
metropolitani dei Paesi dell'Europa occidentale o dell'America: posso
anche ammettere che i nostri fenomeni di congestione abbiano assunto
una entità minore; ma nessuno può disconoscere che con il procedere
dello sviluppo si sono moltiplicati fenomeni di disordine tali da rendere
sempre più difficoltoso l'ulteriore svolgersi dello sviluppo stesso. Le esigenze di infrastrutture generali e di servizi civili sono andate paurosamente crescendo, e la spesa pubblica - statale e degli enti locali - è
stata sollecitata ad interventi sempre maggiori ; gli effetti di reddito
determinati da tale spesa, dal consolidarsi dell'apparato produttivo e
dalla crescita della domanda locale, hanno provocato una domanda
addizionale, un nuovo afflusso di popolazione e il richiamo di nuove
forze di lavoro. Tutto ciò ha sollecitato nuova spesa pubblica nelle regioni già favorite, sottraendo automaticamente risorse agli investimenti nel Mezzogiorno» 51.
4
Nelle intenzioni del ministro per gli interventi nel Mezzogiorno,
il problema di fondo resta quello della creazione di un sistema armonioso di sviluppo che impegni al suo rispetto i singoli e lo Stato: un sistema che esalti quanto di buono si è fatto finora attraverso l'intervento
meridionalistico, e che abbia, come ultimo fine, l'unità economicosociale e geografica della nazione. A questo scopo unitario, tutti gli in51
G. Pastore Nord e Sud in una nuova politica di sviluppo, conferenza tenuta alla
Camera di Commercio di Milano. Quaderno N. 14 a cura del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, 29 gennaio 1966.
60
terventi, e quindi non solo quelli di natura strettamente economica,
debbono essere conformi. I due grandi piani che maggiormente ci interessano - il piano economico nazionale, e quello di rilancio della Cassa
- sono da considerarsi capaci, nella loro formulazione, di assumere
quella unità come fine e come permanente parametro di verifica della
conformità o meno al fine dei singoli provvedimenti?
Risponde Orlando: «Il Cnel, nel suo parere sul piano di sviluppo,
ha rilevato che squilibri non trascurabili esistono anche fuori della
tradizionale contrapposizione Nord-Sud e che la programmazione deve
approfondire tale problema in una più ampia visione della politica del
territorio (...) Da troppi anni (...) il Paese è alle prese col problema del
Mezzogiorno per non capire che lo sviluppo generale altro non è che
sintesi di una politica di mobilitazione delle risorse , secondo criteri di
massimo rendimento economico»52.
E risponde l'efficacia delle cifre, che indicano chiaramente il diverso grado di industrializzazione delle ripartizioni geografiche, e mettono in evidenza - anche tenendo in debito conto la popolazione residente - che l'occupazione nell'industria a Sud è quasi esattamente la
metà di quella del Nord. Ecco il confronto tra popolazione residente e il
numero degli occupati d'ambo i sessi nell'industria, quale risulta da una
recentissima pubblicazione dell'Istat, che tratta dell'argomento per un
intero quindicennio 53:
Abitanti
Occ. Industria
Nord
45%
58%
Centro
19%
17%
Sud
36%
25%
Il contrasto più stridente si nota fra le due ripartizioni estreme:
nell'Italia settentrionale, dove risiede il 45 per cento della popolazione,
52
53
F. Orlando Saturno nel Sud. La Tribuna 20 aprile 1965.
Supplemento straordinario al Bollettino mensile di statistica, dedicato
all'«Occupa-zione in Italia negli anni 1951-65, Industria». Roma 1968.
61
vi è il 58 per cento di tutti gli occupati nell'industria. E' la percentuale
più elevata, che in cifre reali raggiunge tre milioni di unità. Per il Mezzogiorno, il 25 per cento del 1966-67 supera di poco quel 22 per cento
che era stato registrato dieci anni prima, alla fine del 1956-57. Quanto
si è investito nel Sud nel quindicennio 1951-65? Oltre seimila miliardi
di lire54. E' stabilito che il 67 per cento dei capitali investiti hanno interessato nuovi impianti. E' anche stabilito che un nuovo impianto industriale realizzato nel Mezzogiorno costa fino a un terzo in meno rispetto
ad un impianto simile localizzato nel Nord. Malgrado ciò, e sebbene il
Sud abbia «tenuto» nel periodo della congiuntura assai meglio che il
Nord, la politica di industrializzazione segna il passo. Non fosse stato
per l'Iri, avrebbe dovuto registrare un disastroso regresso rispetto all'indice di incremento del Nord.
5
Luchino Manfredino, nel suo libro «Il Mezzogiorno», sostiene
l'impossibilità di un avviamento autonomo del Sud, (e della Calabria in
particolare), ad un processo di industrializzazione, e per difetto di capitali, e per lo scarso senso associativo e imprenditoriale dei meridionali.
Manfredino trova come unico rimedio possibile al «malanno» l'emigrazione nel Mezzogiorno degli industriali del Nord. Alle stesse conclusioni approda Mario Mesuca55, dopo un ampio esame dei consuntivi relativi all'attività dell'ultimo quindicennio dell'Isveimer, dai quali evince
che gli interventi extra-settori tradizionali nel Meridione si riducono a
ben poca cosa, anche per la estrema cautela - o diffidenza - dell'Istituto
a concederli. In realtà, questo pionerismo settentrionale non avrebbe alcuna ragione d'essere invocato, se soltanto si apportassero opportune
modifiche ad alcuni strumenti d'intervento nel Mezzogiorno; se la vo54
55
G. Ceralli Investimenti industriali per 6.126 miliardi in quindici anni». Il Globo
11 agosto 1966.
M. Mesuca Prospettive di industrializzazione. Cronache Economiche N. 2, febbraio 1966.
62
lontà politica del meridionalismo si trasferisse da certe sfere astratte,
ancora vive nel gioco delle parti, al piano concreto, aggressivo, risolutivo, delle realizzazioni su vasta scala; se infine si operasse nello stesso
Mezzogiorno una vasta trasformazione del costume, delle coscienze,
dell'ambiente anche intellettuale, con azioni e rapporti moderni, non
formali, con l'attuazione di quella che Croce chiamò «chiarezza di coscienza e di definizione» della questione meridionale e dei meridionali
impostata in termini etici, politici e storici, e riconosciuta, di conseguenza, come questione massima dello Stato unitario italiano.
6
L'attuale complessa procedura creditizia di favore per l’industrializzazione del Sud si fonda su due leggi: quella del 29 luglio 1957,
numero 634; quella del 18 luglio 1959, numero 555. La prima stabilisce
l'erogazione di contributi a fondo perduto nella misura del venti per
cento della spesa per l'impianto di piccole e medie industrie in comuni
con meno di 75 mila abitanti e scarsamente industrializzati, e il contributo per l'acquisto di attrezzature e di macchinari pari al dieci per cento
della spesa totale. La seconda, con la quale il limite degli abitanti è
spostato da 75 a 200 mila abitanti, estende il contributo anche agli ampliamenti, ed eleva quello per i macchinari al venti per cento, purchè
siano prodotti da industrie meridionali. Prescindendo dai ritardi della
loro applicazione, «le leggi suddette non hanno apportato beneficio di
rilievo per la complicata procedura creditizia, che è valsa a scoraggiare ogni iniziativa, e che non è stata sanata dalla successiva concessione della garanzia sussidiaria dello Stato sino a 50 milioni» 56 .
Del resto, a proposito dell'azione negativa svolta dagli istituti di
credito per il Mezzogiorno, il Torquato, sul numero due di «Pianificazione» del 1966, scriveva: «Le manchevolezze che si possono rilevare
56
S. Calvano L'industrializzazione del Sud ostacolata dalla politica creditizia.
Giornale del Mezzogiorno, 2 febbraio 1966.
63
nell'azione svolta da questi istituti sono inerenti, più che al loro operare, alla mancanza di direttive politiche e di azioni di supporto a quelle
che essi istituzionalmente e nell'ambito del nostro sistema creditizio
potevano svolgere. Pertanto, i rilievi da fare vanno ricercati: in una
mancanza di precise indicazioni circa il tipo di impresa da agevolare
preferenzialmente e, di conseguenza, di una azione di indirizzo degli
imprenditori verso certi tipi di investimento piuttosto che altri; nella
carenza di una politica coordinata di insediamenti industriali, tale che
potesse portare ad utilizzare questi istituti per convogliare gli investimenti in zone di maggiore suscettibilità, carenza che ha portato dispersioni di mezzi a fronte dei risultati che si potevano conseguire; nello
scarso appoggio che gli istituti speciali hanno potuto dare per creare
una classe imprenditoriale, e aiutare quella esistente, cosa da attribuirsi al loro carattere istituzionale».
Occorre dunque modificare profondamente la politica finanziaria
per l'industria meridionale. A tal proposito, un recente studio della
Svimez suggerisce la creazione di «una grossa società finanziaria alla
quale faccia capo tutta l'attività creditizia pubblica per il Mezzogiorno
e le isole, che curi l'esecuzione degli indirizzi di politica industriale che
derivano dalla politica di programmazione (...) con un capitale di dotazione fornito dalla Cassa per il Mezzogiorno». La società potrebbe
«emettere azioni ed obbligazioni con garanzia statale» . La creazione
di una società finanziaria «riferita precisamente al settore agricolo»,
del resto, era stata prospettata dal ministro Pastore in più occasioni57, con
«l'assicurazione ( ...) che tale società non è destinata a restare uno dei molti enti improduttivi».
Molti capitali investiti bene possono evitare che al mulo si sostituisca solo la civiltà della vaporiera. Citiamo ancora Pastore: «La storia di miserie e dolori del Mezzogiorno non è soltanto il risultato di una gravissima
57
Discorso all'Assemblea dell'Isveimer, Napoli 30 aprile 1966; Discorso all'Assemblea dell'Irfis, Palermo 5 aprile 1966. Raccolti nel Quaderno N. 15 dedicato
alle «Linee di una nuova politica industriale per il Mezzogiorno». Roma, Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, 1966.
64
depressione economica; è anche e soprattutto storia materiata da profonde
fratture volute e create da chi sedeva in alto, vuoi per motivi di comando
politico, vuoi per motivi di censo o d'altro. Sono queste fratture che portano il popolo meridionale al più grave isolamento, e quindi ad un profondo
deperimento spirituale»58.
Come si è reagito a queste fratture? La risposta è data in un pregevole studio dell'Italconsult, i cui esperti hanno rilevato che la industrializzazione del Sud non si può raggiungere se non saranno installate una volta
per tutte in queste regioni quelle «industrie motrici» che, sole, hanno la capacità di suscitare altre unità industriali. Finora, è detto, nel Mezzogiorno si
son visti nascere complessi siderurgici e petrolchimici. Ma nessuno di essi
costituisce una unità motrice. «Anche dal punto di vista storico dell'origine
dei poli nelle regioni del blocco centrale (dai Paesi Bassi alla Val Padana)
non si può considerare in senso stretto la siderurgia come industria motrice; in verità fu il carbone il fattore di localizzazione primario, poi il mercato formato dagli agglomerati di popolazione sorti intorno alle industrie
minerarie, siderurgiche ed altre grandi consumatrici di combustibile; infine, modernamente, con l'affermarsi d'intense interrelazioni industriali, le
economie della concentrazione».
Ma quali sono queste industrie motrici? Nell’ordine: quelle meccaniche, quelle tessili, e quelle a valle della chimica. Dice Sterpa59 «Ebbene,
proprio questo tipo di industrie non ha avuto sviluppo nel Sud, pur disponendo (...) potenzialmente di ampi mercati». Qualcosa si muove soltanto per il settore meccanico, ma si è trattato finora di pochi complessi, che hanno assorbito un centinaio di miliardi di lire. E' tuttavia indicativo che il loro incremento lordo «si è manifestato decisamente superiore a quello rilevato nelle altre circoscrizioni italiane (...), al punto
58
59
«Analisi e prospettive dello sviluppo del Mezzogiorno». Discorso al Senato 10
maggio 1961.
E. Sterpa «Nel Sud mancano ancora le grandi « industrie motrici» Corriere della sera, 5 luglio 1966; ed anche P. Ottone Il Mezzogiorno «nuova frontiera» dello sviluppo industriale italiano. Ib. 11 giugno 1967.
65
che la loro incidenza sul prodotto lordo nazionale del settore, per
quanto ancora limitata, è andata gradualmente accentuandosi» 60.
7
Se l'industria normale può realmente dare al Mezzogiorno un
volto nuovo, e può annullare, o limitare al minimo, distanze e lacune,
quella «speciale», prima fra tutte quella elettronucleare, può portarlo
all'avanguardia della civiltà europea. E' l'industria del balzo in avanti,
dei precursori, dei pionieri, di frontiere che soltanto la fantasia più accesa può tradurre in immagini. Esiste il pericolo del balzo? Scesi in Italia a scovare un territorio adatto all'installazione di un ciclosincrotrone,
gli specialisti del Centro Europeo di Ricerche Nucleari misero gli occhi
su tre comprensori: quello di Brindisi, quello di Doberdò, fra Trieste e
Gorizia, e quello di Nardò al centro della penisola salentina. Scartato il
primo (perché troppo vicino a un'area di industrializzazione in pieno
sviluppo, con terreni non sufficientemente carsici, quindi poco adatti ad
assorbire le radiazioni), sono restati gli altri due, simili per caratteristiche fisiche e geologiche, ma diversi per dotazione di infrastrutture. A
questo punto, dunque, la scelta comportava la valutazione di fattori non
solo materiali, ma politici, sociali, spirituali anche, con tutte le componenti interne ed esterne che li determinano.
L'impianto sarà tra i maggiori del mondo, misurerà due chilometri e mezzo di diametro, racchiuderà centri di ricerca teorica e applicata,
campi di sperimentazione, laboratori, settori di studio e progettazione.
Lo frequenteranno quindicimila unità: cinque mila scienziati adibiti alle
ricerche, altrettanti specialisti e tecnici, altrettanti studenti dell'Europa
comunitaria61. Il problema più immediato nel rapporto Italia-CernSincrotrone, era quello dell'inserimento di un discorso molto chiaro del
Comitato dei ministri per il Mezzogiorno per il possesso della cittadella
60
61
L. De Rosa Industria meccanica e Mezzogiorno L'Avanti! 1.2.1967.
A. Bello Un sincrotrone per il Salento Il Globo 11 giugno 1965.
66
nucleare. In proposito, un ordine del giorno di parte liberale affermava:
«Considerato che lo sviluppo del Mezzogiorno non si esaurisce nel favorire le capacità e le possibilità di realizzazione produttiva e di espansione della occupazione, ma che si effettua con una profonda modificazione dell'ambiente umano e culturale; tenuto conto della qualificazione altamente scientifica delle quindicimila unità che si dovrebbero accompagnare all'insediamento del nuovo impianto nucleare e del
notevole contributo che questa presenza apporterebbe alla crescita civile del Mezzogiorno; impegna il governo ad esprimere la definitiva
determinazione nella scelta della zona di Nardò, valutando, più che le
eventuali deficienze in confronto dell'altra area del Nord, forse più favorita dalla posizione geografica e più favorevole per situazioni contingenti che possono tuttavia pareggiarsi in breve tempo, nel meridione, l'apporto insostituibile sul piano spirituale e scientifico, e il concreto completamento della politica meridionilistica ...». All'ordine del
giorno aderirono favorevolmente molti gruppi parlamentari. E il ministro Pastore lo accettò come raccomandazione al governo. Si era a metà
1965. In seguito non un passo fu fatto per l'aggiudicazione del protosincrotrone. La posizione italiana e meridionale, anzi, fu aggravata, nel
momento in cui Francia, Germania e Paesi Bassi avanzarono formale
richiesta di possesso della cittadella nucleare. Il Cern è organo esecutivo dell'Euratom. E dall'Euratom, Francia e Germania in particolare
hanno avuto parecchio: insieme, hanno assorbito il sessanta per cento
degli impianti, pari al settantadue per cento degli investimenti comunitari. Motivo di più, questo, per avanzare un'efficace domanda di aggiudicazione, puntando anche sul movimento d'opinione pubblica che, a
livello eurupeo, parla e discute del nostro Mezzogiorno come di una
frontiera non più soltanto italiana, ma, appunto, comunitaria62.
Per il Mezzogiorno, l'Europa chiede all'Italia una trasformazione
radicale dell'ambiente umano, sollecitatrice del mutamento di un ordine
62
B. Cialdea Sviluppo storico-politico della cooperazione europea. Ediz. Ise Roma
1965.
67
economico, sociale, intellettuale. Scelta ideologica, pertanto, doveva
essere quella del governo, su indicazione del Comitato dei ministri per
il Mezzogiorno. Si cadde invece nell'attendismo, nella politica del perditempo, che intiepidì la disponibilità e le simpatie del Cern. E per il
Sud restò anche questa un'occasione mancata.
Parlando alla Camera sulla «Politica nuova per il Mezzogiorno»,
Pastore ebbe a dire che «il nostro obiettivo di fondo è quello di fare
della società meridionale la grande protagonista di questa nuova questione nazionale». Soltanto lo sviluppo delle coscienze, aggiunse il ministro, il loro pieno dispiegarsi, la possibilità di esprimersi responsabilmente e di comprendersi reciprocamente, possono dar nuova possibilità di soluzione alla questione nazionale; possono conferire nuove
spinte al riavvicinamento fra i cittadini e il potere; fra le speranze della
società e le esigenze dello Stato. Forse, ebbe a dire ancora, «se dovessi
fare un bilancio di sette anni di attività di governo, un elemento positivo, credo, emergerebbe, e tale elemento è costituito dall'aver sempre
creduto nelle virtù civili del Mezzogiorno; nella capacità, vorrei dire
storica, dei meridionali, di porsi, risolta la loro secolare questione, alla testa della società nazionale per dare un decisivo contributo alla soluzione di questa nuova questione: saldare, cioè, in una grande prospettiva unitaria, l'autorità dello Stato e la libertà della persona, attraverso le articolazioni sociali; giungere con una nuova sintesi a costruire più solide basi alla democrazia del nostro Paese».
E questo è un modo esemplare di interpretare in chiave moderna
il pensiero nittiano. Ma quanti, al di là della linea del Sud, oltre il muro
e il deserto del sottosviluppo, potranno accettare senza scetticismo,
senza immense riserve e senza un sorriso smagato queste parole? Al
Nono Convegno azionale per la Civiltà del Lavoro, tenutosi a Roma il
27 ottobre 1966, Emanuele Dubini affermò: «Talune agevolazioni esistenti per favorire nuove iniziative e l'industrializzazione del Mezzogiorno possono essere considerate negative: mi riferisco in particolare
a talune forme di incentivi che, limitando il rischio dell'attività impren68
ditoriale, possono snaturare le imprese che vanno nascendo, al punto
da limitarne la validità sia sul piano economico, sia sul piano sociale.
La capacità di assumere rischi economici infatti è da considerarsi una
caratteristica tipica dell'attività imprenditoriale. D'altra parte, occorre
tener presente che il nostro sistema economico si va ormai definitivamente inserendo nel quadro del più vasto mercato europeo, nel quale
dovremo affrontare nuove, impegnative concorrenze, anche se lo stesso
ci offrirà nuove, importanti possibilità».
E questo è un modo sleale di guardare al Sud. E' il discorso tipico di chi vede nella sconfitta graduale del sottosviluppo un pericolo
crescente per la propria espansione economica. E' considerato dannoso
anche il fatto che in un «nuovo Sud» si possa realizzare il pericolo teorico dell'apertura di un mercato globale di lavoro in grado di trattenere
la maggior parte dei lavoratori63.
8
Un nuovo Mezzogiorno non ci sarà mai, se oltre alle politiche
delle infrastrutture, del suolo, dell'agricoltura, delle industrie tradizionali, non si attuerà la politica più nuova del cuore atomico e delle astronavi della tecnologia. Come è accaduto alle foci del Garigliano.
Perchè il futuro si è fermato qui, tra Roma e Napoli, quasi sul ponte di
Teano.
E' stato scritto: «Gli industriali, nella loro recente assemblea,
hanno guardato di traverso al Mezzogiorno, quando nella relazione
generale hanno testualmente dichiarato:
"Si deve rilevare l'insufficienza dello stanziamento di quattrocento miliardi per la concessione di contributi in conto capitale e in conto
interessi sui finanziamenti a tasso agevolato nei confronti delle previsioni di sviluppo industriale nel Mezzogiorno formulate dal programma
1966-70. Il programma, al fine di creare nel Mezzogiorno 590 mila
63
A. Bello Perché i meridionali non vanno più al Nord? Il Globo13 agosto 1965.
69
nuovi posti di lavoro nelle attività industriali, prevede che alla fine del
1970 debbano essere realizzati investimenti lordi per complessivi 4.500
miliardi, con una media di circa 900 miliardi all'anno, notevolmente
superiore alla più alta punta raggiunta in questi ultimi anni (548 miliardi nel 1963) e alle previsioni di sviluppo per il quadriennio 1966-69 elaborate dalla Confederazione dell'Industria (una media annua di 550
miliardi di lire) ...»
«Vorrei dire che, invertite le parti, gli industriali hanno impostato anch’essi il loro discorso «nel sistema». E' logico che essi tacciano
un ragionamento poggiato sui «contributi», perchè la loro mentalità è
«partitica», di quel partito che ha per simbolo l'investimento «alla rovescia», quello cioè che a differenza di quanto avviene nel Nord, deve
essere « garantito contro le perdite», sol perchè fatto nel Sud, buono
peraltro come mercato di consumo e come miniera di braccia da lavoro. Ma è inaccettabile per noi meridionalisti, perchè è un ragionamento che non poggia su basi « anagrafiche» e non si propone obiettivi
complementari a quello comune a tutti i meridionali, dello sviluppo
quantitativo e qualitativo del Mezzogiorno... » 64 .
Da questi concetti, che illuminano la proiezione dell'antica condizione economica delle « due Italie », si estrae la necessità di fondo di
una politica generale che sia unitariamente indirizzata, senza coercizioni ma anche senza debolezze. Una politica che vada «oltre Eboli»,
con la volontà di impiantarvi massicci polmoni industriali, capaci di
vitalizzare i corpi produttivi asfittici, deboli, condizionati, del Meridione; e in grado di svincolarli dal complesso del telecomando settentrionale, per proiettarli sul livello della concorrenza europea. E oltre
l'Europa, in Africa, nel Medio Oriente, anche più in là. Che guardi al
Mediterraneo come a un ponte, non come ad un muro.
64
E. Bonea Un'anagrafe del Mezzogiorno. (Dibattito con V. Fiore), Tribuna del
Salento 10 marzo 1967.
70
DIECI MILIONI DI BRACCIA
Comme le monde physique ne subsiste que parce que
chaque partie de la matière tend a s'éloigner
du centre, aussi le monde politique se soutient-il
par ce désir interieur et inquiet que
chacun a de sortir du lieu où il est placé.
Montesquieu
Sono le istituzioni a modellare e condizionare
la vita degli uomini, il loro comportamento,
i loro costumi, la loro psicologia.
Gaetano Martino
Questi progressi erano generali in ogni parte
del paese, ma, di necessità, comparativamente
diseguali e talora compiuti a spese di una parte
sull' altra. Donde contrasti d'interessi, che,
svaniti gli ultimi strascichi delle resistenze antiunitarie,
si determinarono come economici.
Benedetto Croce
71
Ogni domenica la Germania Federale sorride. A tratti, ride rumorosamente. Se non altro, perchè è tutta im Ferien von Crich, nella lingua di Goethe che, resa in quella di Dante, suona fuori di sè. Divertita e
divertente, questa Germania, nella sua ricca veste festiva, costruitale su
misura dagli statisti-economisti del dopoguerra, è presente dappertutto,
in ogni forma che implichi la testimonianza, visibile o invisibile, eloquente o muta, del suo benessere economico e sociale. Il lunedì, quella
stessa Germania s'incupisce e si rimette in tuta. Casacche di tela blu,
guanti di pelle, berretti calati sul viso, scarpe con grosse tomaie, anche
questi sfornati dai soliti statisti-economisti stravaganti e miracolosi, che
nel '50 importavano fino a sette piroscafi al giorno carichi di derrate alimentari, da pagare con una macchinetta contenuta in una valigia, e
che oggi riuscirebbero a vendere anche il sol levante al Giappone.
Nel giro di pochi anni, questa terra bruciata dalla guerra più rovinosa della storia ha aumentato del trecento per cento la produzione di
tutti settori, e del quattrocento per cento quella delle quattordici sezioni
della chimica. E intende superare l'attuale bassa congiuntura con un'ardita politica di espansione delle fabbriche, delle officine, delle aziende
agricole, concentrandone la produzione e rovesciandola sui mercati
mondiali.
Per realizzare queste nuove dimensioni economiche e produttive,
la Repubblica Federale ha impegnato tutti i suoi tecnici, dal primo
all'ultimo. Ha trasformato il lavoro nel più cospicuo bene di consumo.
Ha chiesto in prestito tecnici e specialisti all'Europa. E ne ha chiesti,
paradossalmente, anche all'Italia. Paradossalmente, perchè di tecnici, di
operai specializzati - e di scuole di qualificazione - di ingegneri, di
73
chimici, di fisici - e di università e scuole scientifiche modernamente
attrezzate - l'Italia e il Sud han fin troppo più bisogno della Germania, e
non da oggi soltanto. Tutto quel che ancora oggi noi possediamo in più
larga misura è sintetizzato nella manodopera più numerosa e meno qualificata dell'Europa dei Sei. Tutto quel che abbiamo potuto e potremo
prestare agli altri, tedeschi o no, sono milioni di braccia, miriametri di
fasci muscolari, e nulla più. La nostra emigrazione è fatta di forze specializzate solo in misura minima. Gli esodi biblici hanno visto muoversi masse disparate, caotiche, non omogenee. Sempre. In Europa sono
sparsi due milioni di italiani: 200 mila in Belgio e in Olanda, 800 mila
in Francia, più di mezzo milione in Svizzera, 400 mila in Germania.
Nel resto del mondo ve ne sono altri tre milioni. Il conto fa dieci milioni buoni di braccia. L'ottanta per cento sono meridionali.
2
L'emigrante meridionale è ancora un esule solitario della fame.
Fugge dal Sud, pur sapendo che le condizioni giuridiche, economiche,
sociali, della nostra emigrazione, sono spesso tutt'altro che incoraggianti. Interi villaggi della Puglia, della Lucania, della Calabria, delle isole,
sono ormai deserti senza vita, squallide necropoli incartapecorite dalle
piogge e dal sole, con campi senza reddito. Un malinconico destino ha
spinto per anni gli ex contadini a fuggire. Cos'hanno lasciato dietro, oltre alle donne, ai vecchi, ai bambini? Terre argillose, che d'estate hanno
il colore della savana, borghi che franano, redditi di fame, speranze inappagate, i desideri poveri degli uomini umili, e il rancore, mai sopito,
verso chi li ha respinti, e costretti alla condizione di negri bianchi. Si
rimproverano al meridionale la mancanza del senso dello Stato, il clientelismo come sistema di vita, lo scetticismo nei confronti delle istituzioni democratiche, altre cose del genere. Ma non sempre è stato tenuto
presente che tali effetti si superano solo con quei «miglioramenti indiscutibili» che sono «l’attenzione ai problemi concreti» e soprattutto
74
«l'elaborazione di piattaforme programmatiche uguali in tutto il Paese
e non sottoposte alle più svariate correzioni»65, a tutto vantaggio di una
ripartizione territoriale rispetto all'altra.
3
Da sempre, le condizioni dell'emigrazione meridionale in qualsiasi Paese corrispondono al trinomio «SSS» col quale in Germania vengono definiti gli svevi: schaften-sparen-sterben, risparmiare-lavoraremorire. Per gli emigrati il risparmio costituisce una specie di incubo.
Spesso si tratta del primo salario, al quale sacrificano tutto, anche il vitto. Si calcola che dal 1946 ad oggi le loro rimesse abbiano superato i
diecimila miliardi. I tedeschi, spaventati, chiedono agli italiani di aprire
le loro pagnotte: vogliono controllare se dentro c'è la carne. Lo fanno
anche i francesi, i belgi, gli svizzeri. L'italiano tollera. e tira a campare 66. Il «Garstarbeiter» italiano, 1'«ospite lavoratore», secondo un'efemistica traduzione, è occupato nella metallurgia, nell'edilizia, nell'industria automobilistica, o in quella manifatturiera, nei trasporti, nelle
miniere. Oppure è un imprenditore libero, gelataio, fruttivendolo, venditore ambulante, incantatore di serpenti, magliaro. Qualche tempo fa il
Bild Zeitung pubblicò un'inchiesta che distruggeva, sulla base di rigorosi accertamenti operati attraverso interviste ai dirigenti dell'industria,
una infinità di pregiudizi sugli emigrati italiani. Risultò falso che fossero pigri, disordinati, litigiosi, dediti al vino, pronti ad ammalarsi e facili
al coltello. «La verità è - scriveva - che i lavoratori italiani sarebbero
disposti a lavorare fino a dodici ore al giorno e anche più, e invece i
nostri nicchiano per quaranta ore a settimana, e gli straordinari pagati
con fior di quattrini. Senza gli immigrati, la nostra economia andrebbe
a rotoli».
65
V. De Caprariis Le garanzie della libertà. Il Saggiatore, Milano 1966. Pagg. 52 e
segg.
66
A. Bello Il «boom» dell'emigrazione. Tribuna 20 settembre 1963
75
Lo stesso discorso vale per gli altri Paesi europei che ospitano gli
italiani. La nostra manodopera è acquistata dagli imprenditori europei a
buon mercato. Ma è un fatto che oggi i movimenti migratori siano profondamente diversi da quelli di ieri: propongono un ripensamento sul
nuovi valori che scaturiscono dai contatti con modelli di vita e di civiltà
diverse; alimentano una osmosi conoscitiva che diversamente non potrebbe verificarsi; annullano, col tempo, pregiudizi e visioni parziali;
infine, si risolvono in concreti benefici per le regioni invase e per quelle abbandonate.
4
Un discorso del genere, come è stato notato nel Primo Convegno
Provinciale di Studi su «Il Meridione e l'Europa», organizzato a Lecce,
era stato già fatto da Nitti, tra la diffidenza e l'incredulità generale, nel
1919. E in realtà, a parte le lacerazioni psicologiche dei primi tempi
dell'esodo, a parte soprattutto certe espulsioni demografiche di massa
operate dalla fine del secondo conflitto mondiale a tutto il 1960 dallo
spettro della fame e della disoccupazione, oggi si può realmente parlare
anche dell'emigrazione come industria, che produce un reddito fluttuante, comunque mai inferiore ai trecento miliardi annui di rimesse. Certo,
gli effetti non sono sempre felici, se si pensa al depauperamento indiscriminato delle zone senza braccia, dove il flusso e l'organizzazione
migratoria non sono regolati. Ma è altrettanto certo che la condizione
etica dell'emigrato migliorerà sensibilmente se ai «garstarbeiter», si
impartirà un'educazione politica e sociale che permetta un più rapido
inserimento, anche spirituale, nel Paese ospitante. In questo senso, e alla luce di quell'ideale che non è più un'utopia, l'Europa unita, l'emigrazione può essere concepita non come un «salto nel buio», ma come un
movimento interno, in cui l'uomo non deve assolutamente sentirsi un
76
derelitto, uno straniero, ma appunto un turista del lavoro, che si trasferisce nella stessa patria spirituale e politica67.
Intendiamoci. Non si tratta di risolvere i problemi del Mezzogiorno facendo affidamento soltanto sui movimenti migratori interni ed
internazionali. Si tratta di vedere nell'emigrazione, qual'essa si presenta
allo stato attuale, cioè un esodo ormai controllato, una fase necessaria
dell'assestamento dell'economia del Sud e, poi, della penisola. In questo
senso l'emigrazione è respiro, dilazione dei tempi, ammorbidimento
della pressione demografica. Tutte cose, queste, che permettono di organizzare strutture operative e funzionali per l'assorbimento delle nuove forze di lavoro, e l'assimilazione delle correnti migratorie di ritorno,
se si avvierà un'accorta ed efficace politica di ristrutturazione agricola,
industriale e terziaria nel Mezzogiorno. Altrimenti, se muteranno le
condizioni di congiuntura europea, se cioè dovremo assistere ad una
generale recessione nel vecchio continente, ci ritroveremo in casa uno
stock di lavoratori qualificati all'estero abituati alla fabbrica e al salario,
che non accetteranno semplicisticamente un ritorno alle origini, alla
depressione, alla fame, alla sottoccupazione e al bracciantato generico.
I centri europei e italiani non sono più quelli di una volta. Molte
cose sono cambiate anche in Italia. Per passare dal Sud a Milano o a
Torino non si deve più «varcare l'oceano». Grazie ai meridionali in
giacchetta, città chiuse si sono rivitalizzate. Oggi Torino è una metropoli: in dieci anni è passata da 700 mila a un milione e 200 mila abitanti. Su centomila edili della provincia di Milano, i lombardi non sono
più di trentamila.
Qualcosa di nuovo occorre a questo punto creare nel Mezzogiorno. Col '65 i saldi migratori sono diventati passivi. L'emigrazione stagna, in parte per la saturazione dell'Italia del Nord e dei mercati europei
di tradizionale assorbimento, in parte perchè nello stesso Mezzogiorno
si sono create alcune favorevoli condizioni di lavoro. Il problema di
67
Intervento di E. Bonea al cit. Convegno su «Meridione ed Europa».
77
fondo, pertanto, è quello di accrescere le prospettive di impiego. Noi
non saremo mai d'accordo con coloro che reclamano una politica di totale arresto dell'esodo rurale del Mezzogiorno. Quell'esodo, al contrario, va incoraggiato, e sostenuto con la creazione di moderne aziende
extra-agricole, sicchè sarà possibile creare successivamente imprese
agricole di appropriate dimensioni, ove si realizzi un'agricoltura industrializzata a tutti i livelli, dal produttivo al commerciale.
5
Piero Ottone, in una recente inchiesta sulla «Nuova frontiera dello sviluppo italiano» 68, riassume alcuni principi fondamentali per l'attuazione di una politica del genere. Tra questi: il rilancio nel Mezzogiorno di «industrie nuove, quali l'elettronica e l'aeronautica, invece di
prolungare l'apparato produttivo del Nord con il pericolo di creare
doppioni ; l'industrializzazione della "via delle arance" per reggere alla concorrenza dei Paesi mediterranei con forti produzioni ortofrutticole; l'inserimento dei coltivatori in un mercato unitario europeo».
Niente di nuovo, in tutto questo, se non si trattasse di schemi di studio e
di indagine svolti e proposti dalla Fiat, dall'Alfa, da Giacomo Costa, da
Diego Guicciardi. Ottone prospetta non soltanto gli aspetti positivi di
queste iniziative, ma anche le obiezioni e le diffidenze dei meridionalisti, i quali presentono il pericolo di un controllo pressocchè assoluto
degli imprenditori del Nord, per esempio, sulle produzioni specializzate
del Sud. E' un pericolo reale, non teorico. Ma è un fatto che ci siano in
ballo grossi nomi dell'industria associata settentrionale, e che si vada
riaprendo un altro capitolo sulla questione, in un momento in cui si profila la minaccia della difficoltà di investire nel Sud, «soprattutto per la
carenza del risparmio»69. Si tratta, in altri termini, di trovare soluzioni
originali per : l'industrializzazione, anche agricola, del Meridione, sic68
69
P. Ottone, in Corriere della sera 14, 16, 17, 19 giugno 1967.
E. Corbino Un momento difficile per nuovi investimenti Ib. 17.6.1967.
78
chè non debba verificarsi un temporaneo «miracolo economico appannato», come dice Vera Lutz, che poi crolli in una defaillance tout court,
e ci restituisca altri profughi del lavoro, in ritorni tumultuosi e incontrollabili.
«Ora o mai più», dice Ottone a proposito dell'industrializzazione
del Sud. Bene, il Mezzogiorno ha una popolazione più giovane di quella settentrionale. Su cento abitanti, il Sud ha trenta ragazzi, contro i
ventuno del Centro-Nord. Ora, dunque, o mai più, forse, saranno create
le premesse per la valorizzazione di queste future forze di lavoro, per le
quali non dovranno ripetersi quelle condizioni che il ministro Pastore
ha sintetizzato nel venir meno di «tutta una struttura di sostegno e di
garanzia di cui i soggetti fruivano all'interno degli assetti istituzionali
dei vecchi insediamenti», che hanno «messo l'individuo in una condizione di estrema solitudine psicologica nell'ambito di una nuova trama
di rapporti e di reazioni» 70. Ora o mai più, per spezzare definitivamente quella realtà che Amendola71 indicava in centomila posti di lavoro
contro due milioni di emigranti.
6
E' stato notato (dal prof. Saraceno, in «L'unificazione economica
italiana»), che il processo di unificazione economica del nostro Paese
potrà dirsi sicuramente avviato, allorchè il sistema produttivo italiano
sarà stato posto in una condizione di mercato nella quale la componente
più dinamica della domanda effettiva sia costituita non già dai consumi,
ma dalla domanda di beni di investimento occorrenti per superare le de70
71
G. Pastore Le migrazioni interne. Discorsi pronunciati al centro di Formazione e
Addestramento professionale per i Lavoratori Immigrati di Torino, 29 ottobre
1961, e al Convegno della Cisl, 12 novembre 1961.
G. Amendola Il «vecchio» e il «nuovo Il nel Mezzogiorno. e nel Nord. Centro
Studi di Politica Economica del Comitato Centrale del PCI Atti dei Convegni di
Napoli e Milano, marzo-aprile 1967, pag. 43.
79
ficienze che la situazione del Sud tuttora presenta. Facciamo nostre
queste parole. Non vogliamo parlare di una limitazione dei consumi attuali dell’Italia e del Sud, poichè da questo non potrebbe avere origine
un altro tipo di domanda. Ma è evidente che solo con una robusta politica di piano è possibile sostituire l'effetto propulsivo oggi esercitato
dalla domanda per consumi con un'altra che scaturisca da una più intensa formazione di capitali nelle zone arretrate. Questo devono tener
presente innanzitutto coloro che, intervenendo nel Mezzogiorno per investire capitali, impiantare industrie, o «determinare lo sviluppo» per il
freno dell'emigrazione, non intendano fare soltanto politica paternalistica. E in questo soprattutto il loro intervento si differenzierà concretamente dalle «invasioni», peraltro mai massicce, ma sempre opportunisticamente giovevoli per il Nord, del passato. Pastore ebbe ad affermare che «non è pensabile di annullare, sia pure in dieci anni, movimenti di popolazione all'interno di un Paese interessato, come il nostro, da una così profonda trasformazione delle proprie strutture». Ma,
sulla scorta dei dati previsionali offerti dal Piano, indicava la possibilità
di intervenire autorevolmente e fermare le fughe al Nord e all'estero
con la creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro nei settori extra-agricoli, e una temporanea emigrazione di appena mezzo milione di unità al Centro e al Nord. Ora, secondo le rilevazioni dell'Istat,
si va registrando una riduzione dell'occupazione. Pertanto, da una parte
continua l'esodo dalle campagne, dall'altra l'emigrazione stagna; in prospettiva, non crescono i nuovi posti di lavoro nei settori extra-agricoli,
cioè industriali, se non per l'intervento pubblico. Il settore terziario, dopo avere assorbito e «nascosto» un elevato numero di disoccupati negli
anni cruciali della crisi produttiva, (più di quattrocentomila unità
dall'ottobre 1963 all'ottobre 1965), tende anch'esso a riportarsi su livelli
di occupazione più normali.
80
7
Ora si parla molto della ripresa delle industrie leggere. E' certamente un fatto positivo, ma soltanto se preliminare anche alla ripresa
delle altre aziende, di quelle che occupano su vasta scala tecnici e specialisti, progettisti ed esperti di indagini dei mercati interni ed internazionali, studiosi e costruttori e brevettatori, che insieme formano l'aristocrazia del mondo del lavoro, e che possono essere presenti soltanto
nei complessi di livello europeo, autonomi, nel Sud, ove, come ha recentemente ribadito Carli, troppe volte si creano industrie come controfigure delle consorelle del Nord, che in definitiva sono le uniche a decidere, e le sole a non rischiare la morte per asfissia.
Scriveva Einaudi: «L'industriale oggi non può limitarsi a guardare quel che succede entro le mura dello stabilimento. Deve guardare
oltre; ed essere, oltrechè il creatore della macchina produttrice, l'organizzatore della vita per i suoi collaboratori...». E aggiungeva: «Dobbiamo inquadrare la visione del nostro cammino in quella del cammino
che percorrono tutte le società moderne (...) Sarebbe stolto non comprendere l'imponenza del fenomeno sociale al quale assistiamo e credere di averne ragione con la più furiosa resistenza». Commentando
queste parole, Ottone afferma che soltanto una borghesia forte, sicura
di sè, avrebbe potuto accogliere questi consigli72. Vi fu, invece, un irrigidimento. Era il '20, e le cose andarono come tutti sappiamo. Il problema dei rapporti con le masse fu rimandato. E ci regalammo la dittatura. Oggi, la borghesia economica è abbastanza forte per affrontare
queste prove.
Sull'altro fronte, sindacati sono deboli, politicizzati, non sempre
seguiti dalle masse, e ben lontani dalla autentica forza contrattuale che
hanno, ad esempio, i sindacati americani o quelli scandinavi. Ma si tratta di un'impasse dalla quale non è preclusa una ragionevole via d'uscita.
72
P. Ottone La ripresa economica deve stabilire nuovi e più armoniosi rapporti di
classe Corriere della sera, 26 settembre 1966
81
Per di più, fra gli imprenditori giovani cominciano a diffondersi idee
più chiare e moderne. Esiste, dunque, nella società italiana, una base,
una formazione in nuce per nuovi rapporti di classe, cioè per una più
autentica democrazia, per una responsabilità civile, economica, sociale,
maggiore e più corroborante. Il problema sta nell'accelerarne il processo di maturazione. A cento e più anni di unificazione territoriale, vi è
nell'aria qualcosa che pare tendere alla riunificazione umana. Forse,
senza che ce ne accorgiamo immediatamente, stiamo per avviarci verso
un clima che non è più quello della tollerante convivenza, ma della osmosi, della compenetrazione delle componenti razziali della penisola.
Si guarda all'emigrazione dei meridionali, al banditismo sardo, alla povertà lucana, ai disastri geologici siciliani e calabresi, all'industrializzazione della Puglia, non più come a fatti di un altro pianeta, ma con la
coscienza che si tratti di cose nazionali, italiane. Forse, perchè al di là
dell'Italia c'è la prospettiva europea, e un certo pudore nostrano ci fa
sentire il ritardo che portiamo nei confronti degli altri Paesi della Comunità. Forse ancora perchè una maturazione, lenta ma costante, c'è
stata, e alla distanza se ne debbono pur raccogliere i frutti. Certo, anche
la pressione comunitaria per il recupero delle aree depresse, e una più
attenta politica interna, e una più costante e costruttiva critica, diremmo
una più determinante sollecitazione delle forze parlamentari, hanno avuto il loro peso, almeno in questi ultimi anni. Ma indiscutibilmente, al
di là delle proposizioni della classe politica che si è venuta esprimendo
dal '46 ad oggi, anche al di là di certe impostazioni espresse dopo la
«ricostruzione» 73, rimane viva ed operante l'esperienza meridionali sta,
unica al mondo per condizione, intelligenza, complessità; diversa per le
forze intellettuali che vi hanno partecipato; irripetibile per i drammi che
l'hanno accesa, sostenuta, resa adulta.
73
Autori vari Problemi dell'Unità d'Italia. Atti del Secondo Convegno di Studi
Grarnsciani. Editori Riuniti. 19-21 marzo 1960.
82
8
Nel suo ambito - almeno dal 1896 ai nostri giorni - l'emigrazione
ha avuto una voce ben definita, e, in termini di analisi culturale, è stata
quasi il philum conduttore che non si è mai estinto. Anzi, è stata proprio questa a tener vivo l'impegno, e ad acuire l’interesse politico alla
questione, facendola riemergere più urgente che mai, in varie riprese,
come aspetto fondamentale del più vasto problema del rinnovamento
delle strutture della società meridionale e italiana. Ed è a questo dibattito che risale il merito, se non altro, delle proposizioni volte a far riconquistare al Mezzogiorno una concreta valenza economica nello sviluppo futuro dell'economia italiana ed europea, cioè la capacità, la possibilità di individuare una strategia di avanzamento tale da comportare
un'efficace utilizzazione delle risorse meridionali per il riequilibrio territoriale. Ancora oggi, mentre si apre uno spiraglio di questa grande
frontiera, c'è chi profetizza sventure. Sono lamenti goffi. In un immortale libro sulla democrazia, è stato scritto press'a poco: questa terra vi è
stata data in mano per qualche ragione; cercate di far sì, che poi, nei
fatti, non abbiano il sopravvento le altre ragioni per cui ve la siete presa.
83
GLI ANNI DELL'ULTIMATUM
Si lodava allora come una virtù
la frugalità eccessiva dei nostri contadini:
anche quella lode è un pregiudizio:
chi non consuma non produce.
Giovanni Giolitti
Molti restano sospesi nel giudizio
di quello che convenga meglio ...
Silvio Spaventa
Si considera il Mezzogiorno come una
Vandea legittimista,
come il baluardo delle istituzioni:
e invece non è nè fedele, nè infedele,
è indifferente.
F. S. Nitti
85
Una delle maggiori difficoltà che incontra chi si interessa dei
problemi delle infrastrutture meridionali e degli interventi speciali nel
Mezzogiorno è quello di distinguere ciò che si deve alla Cassa da ciò
che si deve alla riforma agraria e alla politica generale degli investimenti statali. E' una difficoltà che, obiettivamente, non siamo riusciti a
superare. Nè crediamo che altri, prima di noi, siano venuti a capo di
qualcosa di chiaro e concreto.
La Cassa per il Mezzogiorno nacque in mezzo all'infuriare del
problema agrario meridionale, quando la terra tremava per le sollevazioni dei contadini che se ne impossessavano con la forza. E fu inizialmente concepita come perfezionamento e coronamento della riforma.
La logica che guidò i legislatori fu press'a poco questa: redistribuire le
terre per far calare la febbre; dopo di che, impostare un piano di sviluppo per curare la malattia. Ma era sottinteso che questo sviluppo doveva
avere per base l'agricoltura.
2
Quali siano stati i difetti della riforma agraria lo sanno tutti,
compresi coloro che la fecero, e che li videro benissimo anche nel momento in cui la decisero. Pertanto, essa va collocata nelle prospettive di
quella emergenza. Erano le giornate buie e tragiche di Fragalà, Crotone
e Melissa, quando torme di braccianti affamati si contendevano a randellate le radici di liquerizia che la zappa disseppelliva. La fame di terra, questo dato permanente dell'economia meridionale, era giunta allo
stato acuto nel momento in cui crollavano tutti i pilastri dell'ordine costituito. Non c'erano le prospettive del decongestionamento delle cam87
pagne. Il miracolo economico era di là da venire. I comunisti avevano
impiantato una speculazione facile e micidiale su quella jacquerie, e
prima o poi sarebbero riusciti a darle il suo Pugacev.
I legislatori agirono anche sotto la pressione di queste forze scatenate. Occorreva far qualcosa, e alla svelta. Essi sapevano che il metodo era demagogico, perchè quella che si ripartiva non era ricchezza, ma
miseria, la grande miseria di un ettaro di pietre e deserto. Non è possibile, dunque, che non abbiano misurato l'irrazionalità della sistemazione fondiaria che ne sarebbe derivata. E non potevano che fare una cosa:
predisporre un piano di strade, acquedotti, bonifiche, irrigazioni, elettrificazioni, che dessero alle terre riformate e ai loro nuovi padroni una
prospettiva, meno nebulosa e incerta possibile, di sviluppo economico.
E fu questo appunto il compito affidato alla Cassa per il Mezzogiorno.
Dieci anni dopo, 1960. Uno spettacolo fra i tanti, nel «nuovo
Mezzogiorno»: paesi semivuoti, nelle cui strade ciondolano donne,
vecchi, bambini, il prete e il carabiniere, il proprietario terriero e il suo
fattore. Gli uomini non ci sono più, le braccia sono tutte emigrate, non
raccolgono più olive a quattrocento lire al giorno, sono al Nord, o fuori,
oltrefrontiera, e valgono ciascuna tre o quattromila lire per sette ore lavorative. Sui «minifundi» abbandonati pascolano le capre.
«Come si chiama questo paesino? Non ha importanza. Battendo
le strade del Mezzogiorno, se ne incontrano a dozzine, a centinaia.
L'epicentro di questa frana demografica è, si capisce, la Calabria. Ma
si ripercuote in Lucania e nelle zone più inospitali delle Puglie. Il fenomeno ha preso di contropiede i partiti, specialmente quello comunista, i cui pochi funzionari disposti a dire (qualche volta) la verità, riconoscono di esserne stati scavalcati. Ma ha preso di contropiede anche la Cassa per il Mezzogiorno, nata per parare il fenomeno opposto:
il fuperaffollamento, l'alta pressione, la fame di terra»74.
74
I. Montanelli Buio alla Cassa per il Mezzogiorno Corriere della Sera 13 marzo
1963; Id. Un'isola separata dallo Stato è il Sud per la burocrazia Ib. 10 marzo;
88
3
A cose fatte, ora, è facile capire come sia stata provocata questa
lavina. Il primo motivo, certamente, è stato determinato dallo affascinante richiamo della tuta blu delle fabbriche del Nord. Ma anche la
Cassa ha dato una spinta decisiva, strappando gli uomini alla rassegnazione e abituandoli al guadagno. Citiamo un esempio. Nel '54 fu scelto,
in provincia di Matera, Grassano, per un esperimento in alambicco. Per
dodici mesi furono versati i salari ai disoccupati come se lavorassero a
pieno impiego. In realtà, lavoravano soltanto - non tutti, e per poche
settimane - alla costruzione di una strada, perchè per qualsiasi altra impresa mancavano attrezzi e materiali. Ma allo scadere del dodicesimo
mese, i disoccupati si rifiutarono di diventar tali, e partirono in massa,
alla ricerca di un salario vero. Con certe sue iniziative sostanziali, la
Cassa ha moltiplicato all'infinito questi casi. Ha costruito dighe, bacini,
acquedotti, porti; ma soprattutto, ha dato a volte alle popolazioni del
Sud uno scossone i cui effetti per lungo tempo non si è stati in grado di
controllare e frenare. Il Sud, per una lunga stagione, ha subito una vastissima frana demografica. Era una terra che si risvegliava come da un
remoto letargo, da un sonno che aveva covato energie inaspettate. Quel
Sud voleva muoversi. E si è spostato compattamente. Scriveva Montanelli: «C'è un comune che non ha più donne, perchè ne sono partite
trecento per la Svizzera, a far le cameriere. Ce n'è un altro che è emigrato interamente nel Brasile, col sindaco e tutto».
4
La Cassa doveva trionfare su settecentomila ettari di terra. Oltre
quattrocentomila dovevano essere bonificati entro il '60. A questa data,
però, si era intervenuto soltanto su centomila ettari. Ma non è stata tutta
Id. Un successo e un fallimento concludono il quindicennio della Cassa per il
Mezzogiorno Ib. 15 marzo.
89
colpa della Cassa. Ci sono stati dei Consorzi di bonifica che non hanno
saputo, o potuto, o voluto fare quel minimo cui eran tenuti per approfittare delle dighe, delle strade, dei canali, delle acque che la Cassa aveva
portato fino alle loro soglie. Forse era da prevedersi. Il problema meridionale è anche qui, in questa mancanza di iniziativa dei meridionali.
Col passar dei secoli ci si abitua alla depressione. Essa crea una mentalità con cui è d'obbligo fare i conti. Proprio per questo, quando nel '50
fu varata la Cassa, solo il piccolo gruppo dei tecnocrati riuniti nella
Svimez intorno a Saraceno credeva ad una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno, e vi puntava tutte le sue carte. Tutti gli altri
pensavano ad un «graduale sviluppo», fumoso e indistinto, e lo concepivano, secondo i vecchi principi conservatori, come una naturale espansione di iniziative private in un clima reso favorevole da certe previdenze, che in generale non avrebbero dovuto superare i limiti delle
opere pubbliche alla maniera giolittiana, dell'alleggerimento fiscale,
delle agevolazioni creditizie. Su questo erano tutti d'accordo. Gli industriali del Nord, che sentivano odor di commesse che avrebbero riconvogliato alle industrie settentrionali il denaro speso dalla Cassa; gli imprenditori borbonici del Sud, che vedevano aprirsi insperate prospettive
di appalti e forniture di vario ordine, per i quali, comunque, nemmeno
erano tecnicamente preparati. I meridionalisti più consapevoli, e questi
soltanto, previdero che il collasso demografico avrebbe costretto un pò
tutti a rivedere le cose. Quel che è successo è noto: lo spopolamento del
Mezzogiorno, le nuove frontiere della Piccola Europa, la meridionalizzazione della popolazione italiana, la congestione, cioè, del Nord, hanno portato ai piani di industrializzazione accelerata del Sud. Cassa, industriali, governo, Stato, privati, hanno dovuto cambiar rotta. C'è stato
un momento in cui la Cassa, che è lo strumento che più ha contribuito a
trasformare dalle fondamenta le condizioni del Mezzogiorno, ha operato come se nessuna «rivoluzione» si fosse verificata, come se niente
fosse cambiato, rischiando di disperdere i frutti del primo slancio, che
poi è rimasto insuperato. Poi si è ripresa. Ma sub conditione. Ci spie90
ghiamo: la Cassa opera nel Sud, ed è fatale che un poco ne subisca il
costume. Sebbene sia un ente autonomo, dipende da un ministro per il
Mezzogiorno, che a sua volta dipende da un governo, espressione di un
partito, o di una coalizione di partiti, i quali ultimi dipendono da certi
interessi settoriali. Accade così, ad esempio, che Avellino abbia una
sua zona industriale voluta da un gruppo politico: sarà, questa, l'area
industriale destinata a registrare opere pubbliche che non incideranno
realmente sullo sviluppo economico del territorio, di imprese difficilmente non deficitarie, di rapporti commerciali difficili, se non eternamente passivi. Accade anche che alcuni cospicui stanziamenti effettuati
dal Comitato dei ministri per il Mezzogiorno in favore della regione siciliana siano spesi da Palermo più secondo una strategia politica che
economica o di sviluppo, se è vero che Licata ha avuto l'acquedotto per
intervento del Consiglio dei ministri, e se è vero che le atee occidentali
dell'isola sono rimaste immobili nel loro bianco, allucinante sertao di
argille levigate, con sparsi villaggi chiusi, senz'acque, senza scuole,
senza ospedali, senza luce di notte. E senza uomini di giorno.
5
Questi esempi, tuttavia, poco tolgono al merito della Cassa. E'
già tanto se essa ha saputo resistere e reagire alle richieste interessate
degli ultimi notabili meridionali. Ha scritto Leo Solari che un tempo i
baroni meridionali erano perpetuamente mobilitati per ottenere dal governo l'insediamento di una prefettura nel proprio paese. Oggi lo sono
per ottenere la «zona di sviluppo industriale».
Queste interferenze erano scontate in partenza, e c'erano fondati
timori che mandassero tutto a carte quarantanove. In realtà hanno
scombinato ben poco. Meno, comunque di quanto i pessimisti potevano
pensare. Si può discutere all'infinito soltanto sul programma della Cassa nel primo quindicennio, e sui tempi e i metodi impostati con la legge
di proroga. Si potrà anche discutere, con maggiore concretezza, sulla
91
lentezza degli interventi nella fase di preindustrializzazione, e sul prolungamento di questa nell'attuale ciclo di attività. Si possono avanzare
riserve e appunti. Ma è innegabile che, con il decollo della Cassa, il
«Mezzogiorno in frantumi» ha cominciato a contare i giorni dell'ultimatum al suo passato. Saranno i giorni più lunghi. Ma non più quelli di
un'età che poteva offrire al primo Presidente del Consiglio venuto a visitare il Sud uno char-à-bancs trainato da una coppia di buoi sulle strade lucane che erano state progettate dai tecnici di Murat; o di un'età più
recente, che copriva agli occhi del Duce le miserie del Sud sotto immense muraglie di coperte di seta. Ha scritto Rumor: «Fu proprio la
spinta alla liberalizzazione che, superando il vecchio protezionismo,
dette al Paese sempre più nitida coscienza del dualismo della struttura
economica italiana, dell'esistenza cioè del grave problema della mancata unificazione economica del Paese, risalente nelle sue cause storiche alla diversa formazione della struttura sociale ed economica delle
diverse regioni italiane, e al modo in cui si è formata la nostra unità
politica»75. Questa liberalizzazione ha consentito la più clamorosa
smentita delle teorie della statunitense Vera Lutz 76, la quale individuava, come soluzione ottimale, la formazione di una «migrazione assistita» dal Sud verso il Nord, tale da «permettere lo sfruttamento dei vantaggi che l'ubicazione dell'area settentrionale presenta e probabilmente continuerà a presentare in un futuro indefinito». Secondo la Lutz, la
politica attuata con la Cassa, in quanto destinata a sviluppo industriale
nelle regioni meridionali, avrebbe soltanto contribuito a «rendere l'Italia un Paese più povero del necessario».
75
M. Rumor La programmazione come metodo di libertà e di progresso, in La Democrazia Cristiana e il Piano. Ediz. Cinque Lune. Roma 1965, pag. 17.
76
V. Lutz Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno d'Italia. Mondo Economico
29 ottobre 1960, n. 44. Id. Il processo di sviluppo in un sistema economico dualistico. Moneta e Credito N. 44 1959, pagg. 459 e segg.
92
6
Lo stesso Einaudi affermò che se lo Stato italiano avesse adempiuto nel
Mezzogiorno alla sua fondamentale funzione, che era quella di «creare
le premesse di una vita civile», la questione meridionale sarebbe risolta
non con un interevento immediato, fonte di sprechi e di disfunzioni, ma
con un'azione che si protraesse nel «tempo lungo» necessario perchè lo
Stato, promuovendo l'iniziativa privata ed opponendosi al predominio
dei monopoli, potesse veramente garantire al Mezzogiorno «mete che
oggi paiono fuori da ogni speranza». Occorreva in sostanza attendere
che le opere infrastrutturali intraprese dessero i loro frutti, senza lanciarsi nella pericolosa avventura dell'industrializzazione, diretta a provocare risultati che l'autore considerava incerti e a sfondo soprattutto
demogogico.
L'interpretazione di Einaudi, appena un poco ammorbidita dalle
successive elaborazioni e revisioni dello Schema Vanoni e dalla traduzione della legge 634 del 1957 in provvedimento a carattere operativo,
era determinata soprattutto dalla scarsa efficacia della spesa pubblica
addizionale sostenuta nel Sud; dall'inefficacia generale delle leggi speciali (Napoli, Calabria) ; dal tramonto della tesi che aveva visto nell'agricoltura la piattaforma di lancio di una grande economia meridionale.
A tutto questo, crediamo che debba essere aggiunta la diffidenza che lo
statista liberale usava nei riguardi di quegli economisti (RosensteinRodan. Nurske, Hirschman, Rostow, ecc.) che si erano occupati, in varie fasi, delle politiche di sviluppo a favore delle aree depresse, ai quali
si ispirava constantemente l'azione intellettuale e pratica della Svimes,
e che hanno influito profondamente sui principi e i metodi d'intervento
dello Stato nelle aree meridionali.
7
E' a questo livello, riteniamo, che deve inserirsi la critica costruttiva dei meridionalisti. Questi economisti, per la prima volta, hanno
93
considerato le aree depresse europee come fatto, appunto, europeo.
L'errore da evitare, e questo punto, sta proprio nel non far coincidere i
termini della soluzione dello sviluppo delle aree italiane con quelli delle altre e del tutto diverse aree europee.
In proporzioni minori, ciò si è verificato in Nigeria, ove peraltro
le aree depresse non solo sono rimaste tali, ma accusano di giorno in
giorno un distacco crescente dalle aree sviluppate. Se tale politica fosse
adottata dall'Italia, noi consegneremmo all'Europa tre quinti di territorio «irlandese» o «nigeriano», contro due quinti di territorio «californiano». Da ciò, la necessità di interventi d'urto, contro le dispersioni e
le strategie che in non pochi casi hanno caratterizzato, e continuano a
caratterizzare, l'intervento pubblico e quello privato nel Mezzogiorno.
Ha scritto Margherita Barnabei: «Il nocciolo della faccenda meridionale resta pur sempre quello istituzionale. Oggi più che mai, dopo aver
fatto il primo bilancio dell'azione di questi anni, i meridionalisti devono guardare ai problemi di coordinamento amministrativo e di funzionalità degli Enti interessati, come alla premessa prima di una seria
impostazione degli interventi dei prossimi anni. Il nodo della questione
sta proprio in questo: se si vuole fare una politica di sviluppo, occorre
darsi degli strumenti operativi idonei e moderni»77.
Del resto, Vittore Fiore aveva lanciato uno dei primi sassi nello
stagno della questione meridionale quando aveva affermato: «Discutere
oggi del Mezzogiorno in termini di schemi, in termini di formule che
possono essere applicate ad uno dei paesi sottosviluppati, vuol dire ignorare la tipicità storico-politica della questione meridionale. (...)
Che cosa accade realmente nel Mezzogiorno? (...) Ci troviamo di fronte ad una realtà profondamente diversa, ed in continua trasformazione,
che non è stata per nulla analizzata, e che deve invece costituire il punto di partenza serio e indispensabile per una analisi spregiudicata, che
comporta dei rischi, comporta il rischio di subire quel pestaggio mora77
M. Barnabei Piano nazionale e azione meridionalista, in Aggiornamenti sulla
questione meridionale. Ediz. Opere Nuove. Roma 1962, pagg. 90-91.
94
le al quale chi senza conformismi creda in una battaglia democratica,
è tuttora sottoposto»78.
8
Un Paese indugia nel proprio processo di crescita fino a quando
ha raggiunto un punto di maturità. Dopo di che, scatta e procede più rapidamente. Gli anglosassoni in questo caso dicono che l'economia ha
raggiunto il take off. E' un'economia che si muove, che decolla, per la
quale si predispongono un'industria sempre più aggiornata, un ceto imprenditoriale dinamico, l'istruzione tecnica su vasta scala, torcendo il
collo al settore terziario, ove sia pletorico e parassitario. Così il reddito
cresce più della popolazione, e si creano condizioni di benessere generale e settoriale.
Ben poco di tutto questo si è verificato per il Mezzogiorno. Lo
stesso Stato ha troppo spesso creduto opportuno applicare la politica
del laisser faire, puntando sull'azione della Cassa, e contribuendo così,
a tratti in misura notevole, ad allentare quella tensione che soltanto la
presenza e l'opera di tutti gli organi istituzionali, dal maggiore al più
piccolo e periferico, potevano render sempre viva ed operante. Si è' venuta così in un certo senso a ricreare la tendenza a considerare il Nord
una locomotiva che ha a rimorchio un Sud incapace di svincolarsi dal
suo passato, nonostante gli strumenti speciali predisposti. E' questa
tendenza che occorre modificare79, per operare il miracolo della «organicità dell'agire, della validità delle metodologie adottate, dell'efficacia
perseguita con coerenza» 80. In questo senso, ha scritto Petriccione 81,
78
V. Fiore Verso un nuovo meridionalismo, in Programmazione e Mezzogiorno, di
Autori Vari, Quaderni di Mondo Operaio N. 2. Atti del Convegno di Napoli, 5-6
giugno 1965.
79
M. Barnabei Il Mezzogiorno e gli anni '70. Avanti! 21 giugno 1967.
80
M. D'Erme Pianificazione tecnica e Mezzogiorno d'Italia. Tecnica e Mezzogiorno N. 1, gennaio 1967.
95
occorre che la Cassa divenga non soltanto l'ente che finanzia e coordina
i singoli intero venti, ma un centro capace di prospettare i problemi del
Mezzogiorno in tutti i settori, e di puntualizzare le situazioni poco note
che possono costituire delle remore allo sviluppo. Sarà necessario, per
questo, l'autonomia della Cassa. E l'autonomia dipenderà quasi esclusivamente dall'impegno meridionalista dei suoi organi direttivi, dalla capacità di mobilitare le energie intellettuali ancora latenti e di avventarle
nel Sud, a costituire nuclei strategici, gruppi in grado di proiettare in
termini moderni i problemi vivi e veri del Mezzogiorno. E' da qui, da
questo impegno, da questa linea, da questa tensione che è fisica e spirituale, che potrà cominciare il conto alla rovescia per i giorni decisivi
dell'ultimatum al passato.
81
S. Petriccione Le prospettive dell'intervento straordinario, in Programmazione e
Mezzogiorno, cit., pagg. 19 e segg.
96
UNA POLITICA MANCATA
L'esperienza di ogni uomo ricomincia.
Solo le istituzioni diventano più sagge.
Amiel citato da Mannet
All cases are unique and very similar to others.
T.S. Eliot
E' accaduto che le origini della prosperità
di alcune regioni si sono volute vedere
non dove erano, nelle dogane, nella
finanza, nella politica, ma in una superiorità etnica
che non è mai esistita.
E ancora è accaduto che chi più ha dato,
è parso anche uno sfruttatore.
F. S. Nitti
97
In alcune sue preziosissime pagine, Rosario Romeo ha scritto che
la morte precoce di Cavour giocò un ruolo fatale per l'avvenire del
Mezzogiorno. La presenza di Garibaldi in queste terre, continua lo storico, suscitò reazioni inaspettate, mobilitò per la prima volta tutte le
forze intellettuali dei meridionali, pur avviliti da decenni di politica oscurantista. Certamente, la enorme complessità dei problemi e dei rapporti di cui si intreccia la questione meridionale era anche allora troppo
superiore alle possibilità di soluzione da parte di un singolo uomo di
Stato, sia pure di eccezionale statura. Ma quella soluzione «pure trovava qualche legittimazione nelle celebri proposizioni pronunciate da
Cavour sul letto di morte, dove, accanto a osservazioni che bene si legano con molte altre che ritroviamo nelle sue lettere di questi mesi a
cavallo del 1860-61, ("Questi napoletani bisogna lavarli"), si ha l'affermazione decisa che il Mezzogiorno andava governato con la libertà,
e educato alla libertà: e non già tenuto a freno con gli stati d'assedio,
come appunto era avviato a fare il governo unitario ...»82.
Accadde invece che, soffocati i molti contadini, fu bloccata la
spirale di risorgimento sociale che stava per caratterizzare la rivoluzione meridionale, e, senza dubbio, la fase più moderna del risorgimento
nazionale. Da qui, rapine, malcontenti, brigantaggi, e la successiva riconquista del Mezzogiorno con la spedizione armata di 120 mila uomini, la mezza guerra civile che costò più morti dellaguerra di liberazione
dai borboni, e la lunga, dolorosa pacificazione del Sud83.
82
R. Romeo L'annessione del Mezzogiorno, in Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale. Torino, Einaudi 1963. Pagg. 236 e segg.
83
A. Omodeo L'Italia nell'età del Risorgimento. Ediz. Scientifiche Napoli 1955.
99
Cavour voleva avviare un'elevata politica di educazione civile,
culturale, morale per 1'«area napoletana». Ma i «piemontesi» conoscevano ormai un solo Sud, non più quello potenzialmente ricco e dotato
ma depresso per colpa dei Franceschielli, bensì l'altro, quello della delusione, il Sud reale degli inviati governativi, dal marchese di Villamarina («Ici il n'y a que làcheté»), al Casalis («In mezzo all'apatia generale credo che in niun paese (...) si giuochi l'intrigo con maggior finezza»), a Luigi Carlo Farini («Altro che Italia. Questa è Affrica: i beduini
a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile»)84.
Da ciò, soprattutto, afferma Romeo, il persistente distacco tra la
vita dell'Italia ufficiale e le esigenze del Mezzogiorno; da ciò il peso
della questione meridionale non solo nella vita economica e sociale, ma
anche politica dell'Italia unita, e «la gran parte che le istanze meridionaliste hanno avuto nella critica e nella opposizione democratica allo
Stato liberale; cioè la gran parte che la battaglia meridionalista ha
svolto e svolge nella più larga battaglia per una integrale realizzazione
della democrazia in Italia».
2
In realtà, fino al 1945, poco o nulla era cambiato nel Mezzogiorno. C'era soltanto l'aggravante della guerra, che aveva causato la distruzione più terrificante mai conosciuta dai centri meridionali, e che nel
settore delle scuole aveva raggiunto l'ottanta per cento, in quello delle
comunicazioni ferroviarie il novanta per cento. Le scarse industrie preesistenti erano state cancellate. Scuole, comunicazioni, lavoro, erano i
tre fattori di fondo su cui contava Cavour per educare alla libertà i «napoletani». La guerra aveva divorato quel poco che il fascismo aveva
dato. Ma il Sud non aveva perduto gran che, se non sul piano materiale.
L'analfabetismo, che prima del fascismo aveva toccato nelle aree meridionali punte del 75 per cento, dopo la dittatura, alla fine della guerra,
84
Si veda la recente edizione nazionale dell'Epistolario di Cavour.
100
si trovò quasi sugli stessi livelli. Il mito del libro e del moschetto si era
tragicamente fermato sul secondo termine.
Si trattò pertanto di ricostruire la scuola dapprima materialmente,
poi moralmente, cominciando dalle basi, dal personale disperso e logorato nel corpo e nello spirito, sbandato ideologicamente, angustiato da
difficoltà economiche con ripercussioni psicologiche sulle famiglie e
sulla società; si proseguì col pubblico da interessare al libro, al nostro
patrimonio artistico, alla nostra grande, e più autentica, tradizione culturale, e, prima ancora che al sapere, alla fiducia in se stessi, negli altri,
nel Paese. Si trattava poi di «dare alla scuola italiana una fede, un ideale, di rinnovarla nella sua struttura, in modo che rispondesse adeguatamente alle nuove istanze»85. In effetti, come riconosce Ciasca, si cominciò con un discutibile empirismo. E' ben vero che si era in uno stato
di totale necessità. E' altrettanto vero che, di giorno in giorno, negli anni successivi, spuntò in tutta la penisola una selva di nuove scuole. Ma
è un fatto che accanto alle scuole elementari e medie, o subito dopo
questo tipo di scuole, sorsero altre a prevalente indirizzo umanistico,
mentre gli istituti scientifici, tecnici, professionali, anche perché il «Piano Gonella» rimase sempre sulla carta, tardarono tanto a venire, che
negli anni della «calata» delle prime, timide imprese industriali nel
Mezzogiorno, ci si trovò di fronte ad una totale mancanza di operai, di
tecnici, di specialisti e di contabili aggiornati.
3
Nei nostri incontri con alcuni esponenti industriali del Nord,
dell'Iri, della Montecatini, della Fiat, abbiamo avuto modo di appurare
85
R. Ciasca Scuola e cultura, pagg. 117-230 in Aspetti di vita italiana contemporanea, coautori G. Maranini, P. Gentile, R. Tremelloni e R. Mosca, Cappelli Bologna 1957. A cura del Servizio dell'Informazione e del Centro dì Documentazione della Presidenza dei Ministri. Si veda anche: Ministero della Pubblica Istruzione: La ricostruzione della scuola, a cura del Centro Didattico Nazionale,
Roma 1950.
101
che su cento uomini presentatisi per essere qualificati dalle «scuole di
preparazione» che gli industriali impiantano insieme con le loro aziende nel Mezzogiorno, spesso si «recuperano soltanto venti-venticinque
unità». Gli altri sono respinti perchè totalmente impreparati, analfabeti,
inadatti alle produzioni a catena, psicologicamente e spiritualmente
lontani dalla mentalità aziendale, che è nello stesso tempo razionale e
dinamica. La Montecatini di Brindisi, ad esempio, ha «studiato» ottanta mila unità, prima di poter selezionare quelle poche migliaia di elementi che ha poi immesso nelle scuole di qualificazione. Era gente venuta dalla Lucania, dalla Calabria, dall'Irpinia, dal Gargano, fin dalle
zone più impervie e arretrate. Uomini la cui vita si era fermata in un
tempo lontano, gente rimasta fuori da ogni moderna dimensione, che
firmava con la croce e cercava il posto del guardiano o dell'uomo di fatica, del facchino, del pulitore di pavimenti. Ci dicevano allo Iri che
spesso il meridionale manca di ambizione, e se una preoccupazione costante ha, è quella di non perdere posto e salario.
Le cifre erano incontrovertibili. Ma nessuno, risalendo alle cause, ha individuato nella «mancanza di ambizioni» (peraltro, è una osservazione inesatta) un complesso antico, che è quello del basso livello
di cultura delle masse operaie meridionali. Ciò è stato messo in evidenza soltanto da poco, nei congressi che socialisti, democristiani, comunisti, e via via gli altri partiti, hanno tenuto in varie riprese nel Sud.
4
Quella della scuola, dall'Unità, è stata per molto tempo una cattiva politica per il Mezzogiorno. Nessuno raccolse la «proposizione»
fondamentale di Cavour. Educare alla libertà significava penetrare le
coscienze con una scuola diuturna, scuola di democrazia, di libertà, di
responsabilità. Questa rivoluzione mancò. Affermava Gioberti: «Dico
che il negozio di maggior rilievo che gli Italiani si possano oggi proporre si è quello di migliorar gl'individui, accrescendo il valore e le
102
forze personali dell'uomo e cercando di ritrarlo dalla sua nativa grandezza ( ...) L'uomo, di cui parlo, essendo morale e civile, consta d'ingegno e d'animo (...), e la trasformazione non è impossibile, poichè la nostra natura non è "mutata. Che cosa dunque ci manca? Ci manca l'arte, cioè l'educazione...» 86. Questa mancanza di educazione, cioè di maturità civile, era ben nota anche ai borboni, ai quali il Galanti dal 1792
in poi aveva inviato quella «Relazione sull'Italia meridionale»87, esemplare per obiettività, realistica fino ad essere spietata, che si sarebbe
potuta ripetere senza mutar virgola venti o trent'anni fa. Lo stesso curatore di una sua recente edizione doveva riprendere più tardi il discorso 88, e affermare: «Compito della classe dirigente e dei partiti che ne
sono espressione è non soltanto di promuovere quelle riforme che oggi
sono le più necessarie (...) ma quanto avviare (il Paese) ad una elevata
educazione politica e morale, tali da rendere quelle riforme efficienti e
vivificatrici» 89
5
a scritto Ettore Massacesi 90 che gli imprenditori non si improvvisano da un giorno all'altro, nè si improvvisano gli imprenditori dell'in86
V. Gioberti Pagine religiose e nazionali, vol. II, Cap. XXII, pag. 12 Carabba
Lanciano 1934.
87
Con un pò di fortuna oggi è possibile trovarla nell'edizione della Universale Economica, a cura di T. Fiore.
88
V. Fiore Cultura e pianificazione, in Programmazione e Mezzogiorno, cito pag.
60.
89
Su queste linee si sviluppa il pensiero della Barnabei, in Politica e cultura del
Mezzogiorno, negli Aggiornamenti ecc., cito Anche Grarnsci Alcuni temi della
questione meridionale, in La questione meridionale Editori Riuniti, Roma 1966,
pagg. 131-160, aveva già impostato i termini 'del problema. Trent'anni dopo,
Scardaccione, al XXII Congresso delle Bonifiche di Bari, doveva affermare:
«Noi abbiamo ancora i nostri contadini con la terza elementare, che spesso, per
effetto dell'analfabetismo di ritorno, si e no. sanno. leggere: . con loro dobbiamo operare; dobbiamo fare la guerra con: soldati che abbiamo», In Bonifica,
Mezzoçiorno ed Europa, cit. pag. 215.
90
E. Massacesi Promuovere lo sviluppo della classe imprenditoriale La Discussione, 1 luglio 1967.
103
dustria meccanica ed elettronica, tipiche industrie manifatturiere dei
nostri giorni. L'ambiente, ha detto ancora, in questo come in tanti altri
fenomeni, è costituito dalle «tradizioni culturali e tecniche, ma anche
dall'humus di iniziative economiche già operanti, dentro o attorno alle
quali si esercitano o possono esercitarsi le doti latenti o in formazione»,
Imprenditorialità, dunque, vuol dire innanzi tutto disponibilità alle scelte, capacità di analisi, di sintesi e di decisione: sono disponibilità e capacità che non possono testimoniarsi in astratto, ma devono quotidianamente confrontarsi coi fatti, finchè non giungono ad una soglia, oltre
la quale l'imprenditorialità assume livelli di autonomia o di capacità dirigenziali in grado di dar vita a nuove iniziative economiche. Per sollecitare queste nuove disponibilità, per moltiplicarle, occorre che tutta la
società si atteggi in modo opportuno: dalla scuola alla azienda; dall'università alla cittadella nucleare. Si dice che la scuola - soprattutto
quella meridionale - ci deve dar tecnici. E' vero. Ma non è tutta la verità. Deve darci anche tecnici diversi. Cioè non chiusi nelle loro settorialità tecnicistiche, ma aperti alla visione d'insieme e globale dell'azienda
come fatto tecnico, economico e umano; aperti alla visione dell'azienda
integrata in un mondo esterno, altamente dinamico, che la condiziona e
la stimola.
Quando si impiantano nuove università nel Mezzogiorno di questo si deve tener conto: occorrono tecnici - e non solo tecnici formati ed
informati anche sulla natura in rapida evoluzione delle dottrine e delle
tecniche organizzative aziendali. Non si dà mai sufficiente importanza
ai problemi dell'organizzazione, ma ci si lascia più facilmente attrarre
dalla spettacolarità degli impianti e dei procedimenti produttivi. Non si
tiene in conto che nuovi impianti sottintendono sempre nuove tecniche
organizzative, e che poi queste possono «riabilitare» situazioni impiantistiche non immediatamente e altamente efficienti. Questo è stato il
segreto del progresso del Settentrione. Il Sud accusa ritardi gravi. E' indispensabile allora che scuola e università aiutino questo processo di
formazione. Anzi, che gli diano un principio. Non è che la scuola possa
104
risolvere tutto da sola, in un batter d'occhio. L'industria, cioè l'azienda,
o l'impegno congiunto di più aziende, dovranno colmare i vuoti che si
scopriranno ad ogni nuova situazione, assicurando l'aderenza degli uomini alle mutevoli condizioni dei tempi.
6
Una ricchissima pubblicistica ha messo in evidenza la nonconformità della scuola italiana a queste moderne esigenze. Noi, tra l'altro,
parliamo timidamente di certe riforme che nei paesi scandinavi sono
operanti da decenni, con ottimi risultati. In Italia, talora nel Mezzogiorno, ma qui più raramente, c'è qualche iniziativa sparsa. Ma un episodio,
un seminario di studi, anche se brillanti, non fanno primavera. Lo studio sistematico delle possibilità di aggredire il problema della imprenditorialità dal lato della formazione scolastica è ancora in gran parte da
fare. Non è detto che si debbano riprendere pedissequamente modelli
ed esperienze correnti in altri Paesi che ci hanno preceduti nel cammino
della costruzione di una società industriale. Ma iniziative come quella
delle Business School americane meriterebbero, con gli opportuni adattamenti, una certa diffusione.
7
Ettore Ciccotti, nome caro ai socialisti, parlando a Brindisi l'11
novembre 1900 sul tema «Il movimento socialista e il Mezzogiorno»,
tra l'altro ebbe a dire: «Da noi (. ..) manca spesso una chiara coscienza
politica, cioè una franca visione dei grandi interessi collettivi ed una
inclinazione negli individui a migliorare la propria condizione mediante un determinato indirizzo dato al governo degli interessi collettivi».
La tristezza, ha scritto Orlando, è che dopo tanti anni questo discorso
possa essere ripetuto senza cambiare virgola, ad un Mezzogiorno rimasto politicamente quello che era, con i suoi nuclei intellettuali vivaci,
105
con i suoi quadri medi trasformisti, con le sue masse «trasformizzabili».
Capacità di fare, creatività, volontà del fare: queste tappe intellettuali e pratiche potrebbero trasformare il volto del Sud, ove la scuola
aggredisse le forze vive e disponibili nel Mezzogiorno.
E' da questo stadio che ci si deve muovere per costruire condizioni, creare fattori, sfornare idee, che vincano poi, sulla scorta delle
storie degli altri, il nostro inguaribile immobilismo, la nostra remota
povertà, il pessimismo storico che ha caratterizzato la nostra condizione umana.
106
PARTITI E MEZZOGIORNO
Questo nuovo progresso ha illimitate possibilità
di bene e di male.
Norber Wiener
Nella maggior parte d'Europa il commercio e
l'industria manifatturiera delle città, invece di essere
l'effetto, sono state la causa del miglioramento
e della coltivazione delle campagne.
Adam Smith
Molti miti sconsacrati; molte illusioni perdute ...
Giovanni Spadolini
107
Nel 1905, con la «Fermo Proposito», Pio X apriva ai cattolici
l'adito alla vita politica. «L'odierno ordinamento degli Stati - osservava
il pontefice - offre indistintamente a tutti la facoltà di influire sulla cosa pubblica». Pertanto i cattolici, «salvo gli obblighi imposti dalla legge di Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene, per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al benessere materiale e civile del popolo, ed acquistarvi così quell'autorità, quel rispetto, che rendono loro possibile anche il difendere e promuovere i beni più alti, che sono quelli dell'anima».
L'enciclica segnava il confine tra due epoche. Tutta la politica
del «non expedit» andava a pezzi 91. Ai propositi agnostici di Don Margotti («Nè eletti - nè elettori»), seguiva un nuovo programma, «che si
fonde e diffonde in nove encicliche fra il 1879 e il 1901 per una costruzione della società cristiana, che sotto l'egida di quattro pontefici si
erge tra due secoli in cui matura la dottrina ed il sistema del reggimento popolare, e ne presenta al mondo l'interpretazione e l'ordinamento
cattolico» 92. Le nove encicliche volevano creare la scuola e la prassi
della sociologia cattolica. Esse trattavano del principato civile, dell'ordinamento della società, della costituzione cristiana degli Stati, delle libertà umane, dei rapporti tra Chiesa e Stato, delle forme di governo, del
socialismo e del materialismo, della condizione degli operai, della questione sociale. L'ultima, la «Graves de communi re», celebre per il suo
91
92
G. Volpe L'Italia in cammino Treves, Milano 1927. Pagg. 246 e segg.
G. Dalla Torre I cattolici e la vita pubblica italiana (1866-1920).Ediz. Civitas
Gentium. Città del Vaticano 1944. Pagg. 21-22.
109
principio di fondo, («Andiamo al popolo»), trattava della democrazia
cristiana. Nessuna, comunque, affrontava il problema delle regioni arretrate, forse perchè i cattolici italiani, a differenza dei francesi, «giunsero ultimi ( ...) nello studio del problema sociale»93; forse anche perchè l'intelaiatura del programma politico e di politica economica redatto dai cattolici era zeppo di spunti teorici e astratti, tanto che, sul piano
delle prime esperienze concrete, esso prospettava appena una «risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno», confusa con la risoluzione di altri problemi, tra cui quelli «delle terre riconquistate e delle
province redente» 94 . In altri termini, se l'ingresso dei cattolici nella vita politica italiana segnò una svolta decisiva della nostra storia nazionale, per quel che riguarda la questione meridionale mancò, almeno inizialmente, quella vigorosa spinta, e mancò quella forza di rottura, che
avrebbero dovuto caratterizzare il Partito Popolare, e differenziarlo dal
«moderatismo» della Destra e dalla «politica del pantano» della Sinistra 95.
2
Con Sturzo, per la prima volta, si prendeva coscienza di ciò, e i cattolici si convinsero che il problema politico del Mezzogiorno era, nelle sue
radici interne, anche un pantano etico: «Sta al Mezzogiorno - cioè a tutte le forze politiche meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa
della nostra terra e della nostra terra, tutti nell'interno dei propri partiti - perchè la questione meridionale venga conosciuta, sentita, valutata, e perchè si superino i vecchi e nuovi ostacoli a risolverla.
93
94
95
A. C. Jemolo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni. Einaudi 1949 pag.
437.
Appello e programma della Commissione Provvisoria del Partito Popolare Italiano. Paragrafo V. 18 gennaio 1919.
N. Valeri Destra e Sinistra, in La lotta politica in Italia dall'Unità al 1925 - Idee
e documenti. Le Monnier 1966. Pagg. 119-120. Ma anche: A. Labriola Storia
dei Dieci anni (1899-1909), Milano 1910, Cap. IV; e C. Morandi Partiti politici
nella storia d'Italia, Le Monnier 1945.
110
« La redenzione comincia da noi. Questo è canone fondamentale
che noi popolari del Mezzogiorno proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che deve conquisterci il dovuto posto nella vita italiana:
la redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! ...
« Questa visione non deve essere monopolio di partito, ma coscienza politica della nostra gente ...»96.
3
In realtà, allora come in tempi più recenti, e per molti gruppi politici, si trattò di varia e appassionata pubblicistica, destinata a restare
fine a se stessa sul piano dell'azione pratica. Erano lette, queste frasi,
nei giorni in cui il problema meridionale era affrontato dai pionieri, dai
grandi spiriti intellettuali che quasi riassumono e sintetizzano l'era romantica del meridionalismo. Giustino Fortunato, che dedicò la vita alla
questione meridionale, (e nel cui nome perciò essa sembra tuttora impersonarsi), fu il primo a dimostrare che il Sud, salvo le fiorenti riviere
di Napoli, Palermo e Catania, era una terra arida, ingrata, infeconda, e
«per lunghe prode» malarica. Questa povertà naturale era, a suo giudizio, l'origine prima di tutti i mali del Mezzogiorno. Anche il brigantaggio (come documentò l'inchiesta Massari) era una forma di «protesta
selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie»,
congiunta con «l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi della giustizia».
Ma in concreto, sul terreno politico, che fare? Le indagini degli
studiosi, (inchieste di Jacini, Franchetti, Sonnino, Fortunato, Villari),
aprirono la via a molteplici proposte: diminuzione della pressione tribu96
Dal discorso Il Mezzogiorno e la politica italiana, tenuto a Napoli il 18 gennaio
1923, edito nel Commento, Roma 1923, e ristampato nel vol. I discorsi politici,
Roma 1951, a cura dell'Istituto L. Sturzo, pag. 261.
111
taria allo scopo di favorire la formazione di capitali da impiegare; e
quindi bonifiche, acquedotti, rimboschimenti e sistemazione degli alti
bacini fluviali, applicazione di metodi moderni alla agricoltura e lotta
contro il latifondo, protezione dei contadini e della piccola proprietà
fondiaria, ovvero creazione della condizione necessaria alla loro libera
lotta; favore alle industrie locali e domestiche, travolte dalla prepotente
concorrenza del Nord; invio di impiegati scelti del Nord, non compromessi dalle camarille paesane, e rigore della magistratura; impulso
all'emigrazione, fondazione di scuole tecniche ed agrarie; decentramento amministrativo.
Nitti insisteva particolarmente sulla necessità di combattere la
sperequazione tributaria. Salvemini vedeva la fonte prima dei mali
nell'intervento delle classi dominanti del Nord a difesa della piccola
borghesia «delinquente e putrefatta» che spadroneggiava nel Mezzogiorno. Gramsci tentava di opporre alla santa alleanza dei padroni la
solidarietà degli operai settentrionali con i contadini meridionali. Dorso, riecheggiando Gobetti, parlava di «pregiudizi inveterati, residui
psicologici, inversioni dialettiche», derivanti dall'azione politica del liberalismo meridionale, che avevano «vietata l'esatta visione delle cose»; condannava - come Ciccotti - il trasformismo, definiva le «leggi
speciali» un «sussidio caritativo» destinato ad impoverire sempre più il
Mezzogiorno di fronte al «protezionismo industriale e al socialismo di
Stato » del Nord. De Viti De Marco svelava tutto il danno derivante dal
protezionismo doganale. L'«appello» sturziano, dunque, si inseriva in
tutto un filone storico, letterario e documentaristico che, almeno sul piano delle intenzioni, come insegnamento storico, appunto, è rimasto
forse insuperato, mentre sul terreno della risoluzione della questione
non riuscì che ad imporre relativamente il problema come fatto nazionale 97. A questo, più di tutti, tendeva Fortunato. E a questo, con cuore
di meridionale e mente di cittadino del mondo, tenderà poco dopo Croce, con le sue appassionate «parole ai savi» con cui chiude quella Sto97
G. Fortunato Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari 1911,voll. 2.
112
ria del Regno di Napoli che resta uno dei monumenti etico-storici più
gravi, composti e perfetti, del meridionalismo intellettuale.
4
I cattolici, dunque, con Sturzo prima, con Murri successivamente, entravano nel vasto giro di interessi meridionalistici in cui erano accampate figure primarie di liberali, socialisti, repubblicani, conservatori
e progressisti, trasformisti e legalisti, ai quali si ispirano in linea di
massima gli attuali partiti politici italiani. Con la differenza di fondo
che oggi i discorsi sul meridionalismo sembrano fatti, proprio per la natura e la struttura ideologica e organizzativo-strategica dei partiti, a
compartimenti stagni, che quasi mai comunicano tra loro, o trovano i
punti d'incontro che certamente ci sono e andrebbero confrontati. Mentre allora, pur nella disparità di vedute, anche se in non pochi casi la
politica meridionalistica si identificò nella critica di meridionalisti ad
altri meridionalisti, tuttavia il discorso fu più largo e aperto, e seppe
spesso conciliare posizioni e avvicinare prospettive e costruire premesse teoriche comuni. Oggi, tranne rarissime eccezioni, manca quel dialogo che caratterizzò l'impegno intellettuale d'un Gobetti, d'un Gramsci,
d'un Sturzo, d'un Salvemini, quella corrispondenza d'interessi, cioè, che
non fu un muro insormontabile tra socialisti moderati e riformisti, materialisti, popolari, liberali.
E' ben vero che, dalla fine della guerra, sono profondamente mutate le condizioni storiche del Paese, degli uomini, dei partiti.
Ma è un fatto che sopravvivono non pochi problemi d'un tempo,
e la questione meridionale d'oggi ha ancora in comune parecchi aspetti
di quella d'allora. E' mutato il livello delle «due Italie» ma il fossato,
resiste. Non c'è più la Magna Sila leggendaria dell'abate Gioachino,
dalle sterminate pinete vergini, ove trovavano rifugio i banditacci dal
cappello a pan di zucchero, come non si può più dire della Lucania tutto quel che raccontò Zanardelli. Non è più tutto questo. Ma in certe a113
ree calabresi e lucane nel cuore della Sicilia, all'interno della Sardegna,
e dall’Irpinia a nord, verso le terrazze abruzzesi e molisane, a tratti riecheggiano la solitudine, la miseria, l'abbandono di allora, raramente interrotti dallo scivolare dei nastri d'asfalto e dal ruggire dei camions.
Ma per questo, oggi, il problema politico e i problemi dei politici
per Il Mezzogiorno non sono affatto da considerarsi esauriti. Si propongono, anzi, con istanze più pressanti, perchè più chiare nella coscienza dei meridionali. Agli anni dell'«insegnamento» son succeduti
quelli dell'azione. Ma l'azione ha rischiato, e rischia tuttora, di essere
travolta dal meridionalismo letterario, parolaio, di maniera, contraddittorio «nella pratica», come diceva Vico, come ha riaffermato Croce,
come pochi sanno saggiamente ricordare, strategico e dunque falsato
dai partiti che lo strumentalizzano. Mentre per azione politica nella risoluzione della questione meridionale si deve intendere il processo rivoluzionario delle strutture fisiche morali sociali, umane, del Sud. E
questo soltanto.
5
«Grande è il merito del Pci per essere riuscito, sulla base delle
indicazioni di Antonio Gramsci, a far diventare la questione meridionale, per la prima volta nella storia d'Italia, non solo questione nazionale, ma anche tema di lotta e di avanzata democratica delle masse
popolari del Mezzogiorno e di tutto il Paese. Le conquiste di questa
battaglia sono acquisite per la rinascita del Mezzogiorno: il colpo inferto alla grande proprietà terriera, l'istituzione delle regioni a statuto
speciale in Sicilia e in Sardegna, i successi nel campo dell' industrializzazione, ma soprattutto la conquista, attraverso l'azione unitaria del
Movimento per la rinascita, di larghissime masse popolari, agli ideali
dell'emancipazione, della democrazia e del socialismo. Tutto questo
114
costituisce uno storico successo della classe operaia e del popolo italiano»98 .
Fin qui, i comunisti. La storia del Mezzogiorno nel primo dopoguerra
è stata tutta percorsa dal dinamismo che ha animato le campagne locali.
Questo dinamismo è stato riportato dai comunisti ad un univoco «movimento contadino». La «ideologia contadina», infatti, ha avuto una
parte preponderante nel pensiero meridionalistico, e tuttora informa l'azione di alcune delle più importanti istituzioni nell'ambito degli interventi di sviluppo del Mezzogiorno. A questo scopo, non è inopportuno
dare un quadro generale delle condizioni complessive in cui il mondo
contadino meridionale si è sviluppato, e dei caratteri di questo mondo.
La componente primaria tradizionale della mentalità rurale è quella cui
comunemente si dà la qualifica di individualismo e monadismo contadino 99. Nel Sud, tale fenomeno si è diffuso per condizioni ambientali
determinanti e imprescindibili: sul fondo di una sensibile nondisposizione alle forme associative, infatti, hanno poggiato forme disgregatrici diverse, che vanno dalla scarsità di terra in rapporto alla
pressione demografica, alle condizioni geopedologiche dei terreni,
dall'arretratezza e dalla inadeguatezza dei capitali finanziari e tecnici
all' assoluta carenza dei fattori promotori del processo di rinnovamento
educativo e culturale, dal verticalismo delle classi sociali all'isolamento
dai grandi avvenimenti nazionali della massima parte delle comunità
meridionali.
La stessa coesione delle comunità paesane nel Mezzogiorno è
stata per secoli compromessa dal sostrato psicologico, morale e culturale, del tipo di unioni vigente. Gran parte degli squilibri oggi riscontrabili nella Vita associativa del Mezzogiorno sono l'effetto di lunghi secoli
di rigidità delle classi sociali schematicamente chiuse in se stesse. La
98
99
Il Pci e la battaglia meridionalista. Documento per la discussione al X Congresso. Seti 1962. Pagg. 19 e segg.
Bamabei Moti contadini e comunismo, in Aggiornamenti ecc. cit., pag. 13.
115
sensazione che si riporta dall'osservazione della società meridionale è
che la vita vi si sia cristallizzata in forme che ancora oggi stentano di
trovare una vasta fluidità . Priva di sfoghi esteriori, la massima parte
delle comunità meridionali ha imposto la propria autorità ai suoi componenti secondo modelli di cultura e di relazioni civili, che hanno isterilito con la meccanica dei loro controlli qualsiasi processo di osmosi
interna.
6
Trasposte sul piano della vita pubblica, queste osservazioni
vengono confermate dal fatto che l'unità medesima, (di interessi, di
cultura, di abitudini), delle comunità contadine meridionali non è
mai riuscita a superare quello stadio di rassegnato pessimismo che si
concreta nella negazione della funzione rappresentativa delle istituzioni pubbliche. L'atto di sfiducia nello Stato e nella storia ha gravato quasi come una sorta di fatalità sul mondo contadino. Per secoli le
comunità meridionali non sono riuscite ad immettere nelle loro fondamenta il cemento dell'unità e della politicità dell'azione comune:
relegate alla loro funzione di entità autonome e qua si autosufficienti, esse hanno mantenuto poteri e caratteri assolutamente locali. La
contraddizione più clamorosa rilevabile nella storia della società rurale del Mezzogiorno sta appunto nel contrasto tra il fermento della
vita individuale e l'inconsistenza delle forme sociali.
Nei confronti di questa stratificazione di culture e comportamenti sociali tradizionali, il primissimo dopoguerra ha segnato un potente elemento di rottura. La cronaca di quegli anni, infatti, registrò
un notevole aumento di attività politica sulle piazze locali, e vide
l'acquisizione, da parte dei contadini più evoluti, di dati di coscienza modernamente validi e fecondi. In quel tempo, le ribellioni dei
singoli sembrarono essere mosse da un'unità e chiarezza di intenti,
che, propagandosi su larga scala, (dando luogo, cioè, ad una vera e
116
propria cultura politica), avrebbero potuto costituire col tempo la
piattaforma di un serio «movimento contadino». In altri termini, la
rivalutazione - da parte contadina – della statura politica dell'uomo,
e, quindi, dell'azione comune sul mondo esterno, doveva essere
considerata (secondo certe dinamiche che gli anni tra il 1945 e il
1950 andavano ponendo in luce) un evento di fondamentale portata
storica, in quanto sembrava determinata dalla riconciliazione del
contadino con il quadro istituzionale in cui era costretto ad agire, e la
cui trasformazione pareva porglisi finalmente come un problema
solubile mediante i mezzi a disposizione, ed anzi proprio mediante
quell'azione di tutta la comunità che fino a quel momento gli era
apparsa soprattutto come un limite imposto alla propria libertà
individuale.
7
E' ben noto l'indirizzo che questa dinamica ha assunto al suo
primo sorgere: nata come fenomeno autonomo, operò come tale solo
per il breve éspace d'un matin. Monopolizzata più tardi dai comunisti,
non divenne mai veramente comunista: a posteriori, sembra addirittura
possibile asserire che non fu mai, neppure sul piano del suo contenuto
effettivo - di fenomeno sociale, che esprime determinate forze o classi qualcosa di unitario, o comunque di univocamente indirizzato. Sotto
l'azione del Pci, le categorie contadine assunsero una formale unità politica, che era però destinata a venir meno una volta che il processo storico avesse riproposto come fatto dialettico e contrapposizione di termini gli interessi delle forze in gioco.
Per valutare in pieno gli elementi che intervenivano nel rapporto
tra il movimento contadino e i comunisti, occorre anzitutto valutare le
motivazioni più profonde dell'adesione dei contadini meridionali alla
politica dell'estrema sinistra. Il favore incontrato nel Mezzogiorno dal
comunismo, tra il 1944 e il 1948, si può giudicare, in buona parte; co117
me reazione al fascismo, e come atteggiamento di ansiosa attesa, nei
confronti di una forza di cui non si conosceva ancora bene il valore, ma
che per lo meno aveva il pregio della novità. Peraltro, in questo quadro,
il carattere rivoluzionario del comunismo si accordava da vicino con
quella che era, ed è, la vocazione più intima delle plebi rurali del Sud,
ansiose di trovare d'un tratto giustizia, attraverso un gesto di rivolta perentorio e definitivo, capace di modificare da un momento all'altro condizioni tradizionalmente inique, (su questo, tra l'altro, poggiarono la
fortuna e il mito di Garibaldi). L'apparizione del comunismo nelle
campagne meridionali tra il '43 e il '45, trovò, pertanto, popolazioni in
attesa - sebbene ideologicamente scettiche - e disposte ad imbarcarsi in
qualsiasi avventura, per disperata che fosse.
8
Un altro elemento che giocò a favore dei comunisti fu certamente
il fatto che la «marcia a sinistra» era connessa, nella coscienza popolare, ad un moto religioso di riforma: per molti contadini la rivolta politica ebbe valore di una protesta in ritardo di alcuni secoli, giustificata
dalla condizione e dall'azione del clero nel Sud, e da quella crisi dei
rapporti tra Chiesa e Stato che, ambiguamente risolta dal fascismo, appariva ora riaperta come una piaga viva, attraverso l'avvento della Dc e
la sua riassunzione, nell'ambiente meridionale, non solo degli uomini,
ma anche di certi atteggiamenti del passato regime. Nel Mezzogiorno,
in quegli anni, la figura del cattolico-comunista fu assai diffusa a testimoniare di un grave problema di coscienza. Un'identica esigenza morale veniva manifestata dalle discrete aliquote di popolazione che, contemporaneamente, andavano convertendosi al protestantesimo (conservando la loro adesione al comunismo): in costoro, anzi, l'inquietudine
sociale si manifestava con immediatezza anche più forte, e con maggiori capacità reattive. Tutto questo movimento, anche d'ordine ideale e
spirituale, era fatalmente destinato, a lungo andare, a contrastare con
118
l’ideologia e la tattica del Pci. E qui, il discorso si fa più direttamente
politico.
9
Il movimento contadino aveva forse in se stesso la potenzialità
per divenire veramente tale. Cioè, il movimento contadino meridionale
ha avuto dal 1945 al '50 la possibilità di trovare dal suo interno la via
per esprimersi come forza politica concreta di rottura degli schemi consuetamente depressi della vita pubblica del Sud. Questa tendenza, che
sfuggì - forse per cause ineluttabili - al socialismo, fu intuita dal Pci, e
fatta propria. Ma nel momento di essere egemonizzato dal comunismo,
il movimento contadino meridionale veniva a snaturarsi, finendo col
soggiacere a schemi ideologici e tattici, che ne tradivano l'essenza e ne
utilizzavano gli orientamenti verso finalità e obiettivi ben diversi da
quelli che ne avevano sollecitato la nascita.
Certamente, l'errore più cospicuo commesso dai comunisti nel
Mezzogiorno sembra essere consistito in una scelta dei tempi d'azione
tanto spregiudicata, quanto intempestiva. I moti contadini furono portati presto ad una tensione che nessun potere politico sarebbe stato poi
capace di soddisfare: al Pci, tra l'altro, mancò in seguito quel potere politico, che può provenire soltanto dalla partecipazione al governo della
cosa pubblica, e che gli avrebbe consentito di soddisfare almeno in parte le eccessive attese sollevate. Oltre tutto, questo potere confortava la.
parte politica che nelle campagne meridionali più apertamente si era
data a contrastare l'avanzata comunista, vale a dire i cattolici, i quali col
tempo - e spesso a svantaggio dei loro alleati laici - vennero a disporre
di quelle armi che al mondo contadino
riuscivano di più immediata utilità. La Dc operò infatti un gioco di
clientele all'antica, distribuendo anche quei beni maggiori e minori di
cui il contadino desiderava il possesso. E il contadino finì spesso col
vedere nella Dc il più potente degli uffici di collocamento a sua dispo119
sizione. Ciò spiega, in parte, la parziale flessione dell'elettorato comunista, e la contemporanea ascesa. di quello Dc, negli anni intorno al '50
nelle regioni meridionali. La perdita dell'iniziativa politica da parte
comunista trovò la propria espressione più rilevante nella riforma agraria. I contadini avvertirono la riforma come un avvenimento nuovo nelle campagne meridionali, e comunque come un fenomeno che apriva
loro nuove prospettive, e segnava una specie di linea di displuvio tra
ciò che era ancora da attendere dall'agricoltura locale, e ciò che era ormai da cercare fuori di essa. Di contro, il Pci continuava a indicare alle
masse la via di una protesta continua e indifferenziata secondo il vecchio metodo dell'agitazione perenne nelle campagne. Da una parte, cioè, si collocò un partito che, ponendo sotto accusa lo Stato per una riforma che pretendeva di essere stato il solo a volere e a determinare,
contestava alla Dc il diritto di utilizzare a sua volta, attese contadine
che esso aveva spesso irresponsabilmente sollevato; mentre, dall'altra
parte della barricata, si poneva una massa contadina che, sedata nel suo
primitivo slancio rivoluzionario, calcolava con maggior cautela le proprie mosse, e cercava anche in quella riforma punti di appoggio per
un'ascesa che ormai si sarebbe configurata soprattutto come un fatto
individualistico. Così, a partire dal 1953, il fronte comunista cominciò
a veder lacerata la sua unitarietà, che era poi l'unità medesima del movimento contadino. Da quel momento contadini cominciarono a perder
contatto con l'ideologia comunista, e riemersero i vecchi contrasti sociali ed economici tra le varie categorie della società rurale. Essi si sottrassero a poco a poco alle pretese di un'organizzazione politica che
non solo non aveva potere, ma stentava a comprenderli, e cercava di
sottovalutare tutti quegli slanci che non tornavano buoni alla propria affermazione e all'astratto schema ideologico in cui sembrava aver racchiuso il mondo contadino 100.
100
Oltre al prezioso volume della Barnabei, per il dibattito politico postbellico si
vedano: G. Are I cattolici e la questione sociale in Italia, Feltrinelli 1960; G.
Galasso Mezzogiorno medioevale e moderno, Einaudi 1962; G. Napolitano Il
120
10
La débacle ebbe notevoli ripercussioni anche nel Partito socialista
italiano, che solo molto più tardi doveva troncare il discorso frontista, e
che solo oggi - almeno con i non-massimalisti- si sottrae al fascino di una
«nuova unità». Si chiede Fiore: «Ora che cosa è accaduto? Semplicemente che, con l'esaurirsi di quel moto di cultura e con la mancata evoluzione
in senso più moderno dell'azione di massa, abbiamo dovuto registrare
che vecchi mali e vecchie insufficienze (trasformismo, clientelismo, accentramento) non sono scomparsi, e coinvolgono, ( ...), tutte le formazioni
politiche. Di qui, la necessità, se si vuole andare avanti a risolvere problemi di arretratezza, di crescita culturale e civile, di autonomia da modelli tecnocratici e neocapitalistici, di emancipazione a livello nazionale
ed europeo, di partecipazione delle masse alle decisioni e alle scelte della
programmazione, di vedere quanto è rimasto di vivo del pensiero filosofico crociano e marxista, di verificare la validità delle impostazioni
nittiane, sturziane, dorsiane; salveminiane e gramsciane, che comunque sono fra i momenti più alti del pensiero politico in questi ultimi settant'anni. (...) Certo, non si può invocare semplicemente il ritorno, sia
pure in termini critici, a Gramsci e ai meridionalisti rivoluzionari. La
dibattito meridionalista dopo la Liberazione, Società 1952; A. Molinari Le esperienze post-belliche per lo sviluppo economico e l'industrializzazione del
Mezzogiorno d'Italia, Relazione presentata al Convegno di Studi su « Esperienze e problemi di sviluppo delle Regioni arretrate li, Napoli settembre
1960; P. Sylos Labin Il dilemma del centauro, in Il Mezzogiorno davanti agli
anni '60, a cura di F. Compagna,Milano 1961; B. Trentin Gruppi capitalistici e
sindacati di fronte alla odierna realtà meridionale, in Economia e Sindacato
settembre 1961; G. Amendola La democrazia nel Mezzogiorno Editori Riuniti
1957; M. Rossi Doria La riforma Anno due - 8 giugno 1951 in Dieci anni di
politica agraria nel Mezzogiorno, Laterza 1958; E. Sereni Vecchio e nuovo
nelle campagne italiane Editori Riuniti 1956; A. Giolitti La questione meridionale e il socialismo in Italia, in Un dibattito. alla Camera sulla politica per
il Mezzogiorno. Mondo Economico 18 febbraio 1961; M. Caprara Mezzogiorno e Programmazione ed E. Peggio Industrializzazione e riforme nel Sud. Relazioni al Convegno sull'«Intervento democratico del Mezzogiorno per modificare gli indirizzi della programmazione», Napoli 11-12 novembre 1966. Bollettino del Centro Studi di Politica Economica del CC del Pci, cit. pagg. 7 e
segg., pagg. 23 e segg.
121
problematica meridionalista si è enormemente arricchita ed è stata adottata una nuova politica in (onore del Mezzogiorno (basta pensare
alla liberalizzazione degli scambi, e alla politica di intervento straordinario). E' mutato lo storico rapporto tra città e campagna. C'è il fatto, veramente nuovo, della programmazione nazionale, che i comunisti
non hanno saputo valutare nella sua sostanziale portata innovatrice
...) 101.
La revisione dei rapporti fra i comunisti e i socialisti si rese necessaria, nel 1955, con la « destalinizzazione» e il rilancio delle «vie
nazionali». Fu un atto imposto da uno stato di necessità che i dirigenti
comunisti speravano fosse provvisorio, ma che presto si rivelò più serio
del previsto. I socialisti cominciarono a sentire i primi stimoli di autonomismo e a sperimentare i benefici e i pericoli che ne derivavano. Da
qui, l'accusa togliattiana, secondo cui, sull'eco di Gramsci, «il movimento socialista italiano degli ultimi trent'anni è stato un apparecchio
per selezionare nuovi elementi dirigenti dello Stato borghese». E da qui
l'invito a «non spezzare l'unità della classe lavoratrice».
La sesta tesi del X Congresso comunista sul «Processo di formazione di una nuova unità» rilevava «le gravi difficoltà nello sviluppo
dell'azione comunista per l'unità del movimento operaio democratico»,
rappresentate dalla rottura del patto di unità d'azione e di quello di consultazione col Psi, dall'uscita dei socialisti dal movimento della pace,
dalla crisi del Movimento per la rinascita del Mezzogiorno; e poneva
nuovi obiettivi d'iniziativa interna nel campo sindacale e contadino, negli enti locali, nelle organizzazioni giovanili, soprattutto studentesche,
nel mondo della scuola e della cultura, nel movimento antifascista e
della Resistenza. «E' necessario intrecciare sempre, all'iniziativa unitaria positiva, la polemica ideale contro l'anticomunismo e contro tutte
le posizioni revisioniste trasformistiche e scissionistiche, ma lottare, al
tempo stesso, contro le posizioni puramente sentimentali di risentimen-
101
V. Fiore Il Mezzogiorno e l'unità, delle sinistre, cit.
122
to che possono sorgere nelle file del partito e che possono facilmente
degenerare nel settarismo».
Tanto per quel che riguardava i problemi dei contadini del Mezzogiorno, che per quel che investiva più largamente le «questioni del
Paese», l'ipotesi che i socialisti raggiungessero la loro piena autonomia
fu indicata dal Pci come la tappa di «un ulteriore inasprirsi della lotta
sociale e politica», e giudicata come «l'asservimento del Psi a forza
subalterna della Dc», la quale « si ritroverebbe di nuovo di fronte l'interlocutore vero, l'avanguardia politica proletaria, con cui le organizzazioni cattoliche sono chiamate a misurarsi e a cercare un terreno
d'incontro» 102.
Lo sganciamento dei socialisti ha determinato, in buona parte, il
tramonto definitivo dell' azione comunista volta a conquistare e dominare le masse operaie e contadine del Mezzogiorno. Da ciò, il rifiuto
totale della politica meridionalistica attuata dalla Dc e dai suoi alleati
laici dal '48 ad oggi, il rigetto degli strumenti straordinari e della programmazione, e l'insistenza per le regioni. E, anche sul piano del meridionalismo, la ricerca del «dialogo», come inizio d'inserimento in un
nuovo sistema di alleanze.
11
Nel dopoguerra, scrive Gentile 103 , singolari e immeritate furono
le sorti del Partito Liberale. Esso si era ricostituito intorno a Benedetto
Croce, la cui autorità era immensa, sia per la incontestata supremazia di
cui godeva nel mondo della cultura, sia per la sua tenace opposizione al
fascismo. Vicino a Croce si erano schierati uomini variamente eminenti,
102
103
Si veda: F. Piccoli Azione del Pci verso i partiti democratici, in L'incidenza del
comunismo sulla democrazia italiana. Relazione al convegno di Studi della Dc
a San Pellegrino, 15 settembre 1963. Documenti di Linea Democratica. Centro
Studi Politici «Via Piemonte». Pagg.18 e segg.
P. Gentile La vita dei partiti nel primo decennio repubblicano, in Autori Vari
Aspetti di vita italiana contemporanea, cit. pagg. 55 e segg.
123
come Einaudi, Soleri, Casati, De Caro, giovani sensibili alla tradizione
risorgimentale, e vecchi statisti, come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, o Enrico De Nicola, i quali, pur senza irreggimentarsi formalmente nell'organizzazione del partito, avevano riconfermato la
loro fedeltà all'idea e all'azione liberali. Fino alla Costituente, i liberali
avevano svolto un'ampia «opera moderatrice, per evitare che i partiti
dell'estrema sinistra anticipassero con dei colpi di mano clubisti, o con
movimenti di piazza, o con le intimidazioni delle forze partigiane, quelle
decisioni che il patto intercorso tra tutti i partiti antifascisti voleva fossero riservate alla libera volontà del popolo italiano». Tutta quest'opera
« avrebbe dovuto designare i liberali alla considerazione della parte più
moderata del Paese, che era contraria ai programmi eversivi dei partiti
di sinistra». Ma non fu così. Alla Costituente la rappresentanza liberale
fu di appena una ventina di deputati.
Continua Gentile: «Si sono indicate molte ragioni per spiegare
questo insuccesso. Vi è stato chi ha voluto attribuirlo a cause remote (...)
Altri ha voluto riferirlo a cause più prossime. Si sono indicate: la mancata presa di posizione sulla questione istituzionale, poiché l'agnosticismo liberale sul dilemma: Monarchia o Repubblica, avrebbe posto i liberali fuori delle passioni che allora ardevano nel Paese; oppure il contributo portato ai provvedimenti contro il fascismo ( ...); o ancora la lacuna di un seducente programma sociale: la dottrina liberale non aggiornata rischiava di passare come una dottrina di pura conservazione
ad uso dei capitalisti».
Certamente, tutte queste ragioni hanno in qualche maniera influito. Ma la ragione di maggior peso fu la concorrenza della Dc presso una
notevolissima parte delle clientele elettorali tradizionalmente liberali.
Quanto era superstite dell'Italia giolittiana, deviò i voti a favore della Dc,
per la paura del comunismo congiunta alla persuasione che la Democrazia Cristiana aveva le maggiori probabilità di vittoria. Il che fu tanto più
facile, quanto più sembrò in quel momento inattuale e scarsamente sentito il motivo del laicismo, vale a dire il motivo che avrebbe potuto su124
scitare le maggiori riluttanze o perplessità a favorire un partito confessionale. La Chiesa era uscita bene dalla lotta di liberazione. Pio XII,
pur mantenendo la Santa Sede estranea e superiore al conflitto mondiale e alla guerra civile, si era prodigato perchè la Chiesa svolgesse la sua
opera soccorritrice a favore di tutti i perseguitati. E poichè i perseguitati erano stati quasi sempre dalla parte, degli antifascisti, costoro alla fine si erano trovati ad avere contratto un grosso debito di gratitudine
con la Chiesa. Inoltre, De Gasperi aveva resistito ad ogni tentazione di
ambizioso guelfismo. Fin da principio aveva avvertito che in un Paese
come il nostro, nel quale la coscienza nazionale si era formata sotto la
guida di un pensiero laico e ghibellino, un partito cattolico doveva usare una certa discrezione, e sarebbe stato tanto più facilmente accettato,
quanto meno si fosse mostrato clericale o intollerante. Perciò De Gasperi apparve, anche ai meridionali, una figura di liberale cattolico. Dai
più, venne ritenuto come l'esponente di un nuovo giolittismo, cui la
qualifica cattolica non aggiungeva alcunchè di allarmante104.
104
Si vedano, fra gli altri, per una piu larga comprensione dei problemi della
politica italiana dal '44 in poi : M . Bendiscioli Antifascismo e Resistenza
Studium 1964, con un'informatissima bibliografia; F. Catalano L'Italia dalla
dittatura alla democrazia (1918-1948), Milano 1962; E. Passerin D'Entreves
G. Sofri Gli ultimi quarant'anni, Bologna 1961; R. Battaglia R. Ramat Un
popolo in lotta -Testimonianze di vita italiana dall'Unità al 1946, Firenze
1961; L. Valiani L'avvento di De Gasperi, Milano 1948; R. Bauer Alla ricerco. della libertà, Milano 1957; Autori Vari Il secondo Risorgrmento- Nel
Decennale della Resistenza e del ritorno alla Democrazia (1945-1955),
Roma 1955; G. Sala Profili e problemi d ella Democrazia Cristiana, Roma,
Ateneo , 1953 («La tradizione della Dc è anti -mistica, essa ha le radici nella confluenza della democrazia di origine liberale con lo spirito di solidarietà
sociale... "E per quel che riguarda la visione politica di De Gasperi, essa
«pur discutibile nel metodoe nei particolari risultati, si deve considerare la
più vicina alle tradizioni del Partito Popolare e (...) la più utile al nostro Paese per i suoi doveri interni e internazional».
125
12
In queste nuove condizioni, in questo inedito «equilibrio», i partiti nazionali avviarono nel Mezzogiorno la loro opera politica. Uno dei
risultati più notevoli di quest'azione, e uno dei fatti più significativi della recente storia italiana, fu l'ingresso delle masse contadine meridionali nella lotta politica. Ma diversamente da quel che avvenne nel 191822, i contadini non fecero sentire il peso della loro forza soltanto nelle
tradizionali forme del tumulto. Malgrado la strategia dell'estrema sinistra, si trattò anche dell'avvio ad una responsabile compartecipazione
preparata da tutti gli altri partiti democratici. In ogni caso, De, Pci e socialisti operarono, con fini e metodi opposti, fra gli strati anche poverissimi della popolazione. La sinistra, in particolare, attuò un processo
che modificava dalle fondamenta uno dei principali dati negativi della
situazione politica del Mezzogiorno, determinando una vasta frattura
nel «blocco» degli agrari.
Su questa stessa via, per imbrigliare la penetrazione comunista,
si mise la Dc. Tuttavia, le nuove impalcature politiche sorte sulle rovine dell'antico elettorato liberale non eliminarono nel Sud i difetti del
vecchio sistema trasformistico e clientelare. In alcune occasioni, anzi,
furono aggravati. La lezione di Ciccotti restava inascoltata. E lo è, in
buona parte, ancora oggi.
13
Su queste basi ebbe origine anche l'azione del governo per l'Italia
meridionale. Il problema di fondo fu quello dell'industrializzazione. La
prima legge meridionalista del dopoguerra, emanata nel dicembre del
1947 e basata su agevolazioni creditizie e fiscali, fu ritenuta una «pedissequa imitazione di provvedimenti che risalgono al 1904» 105. In realtà, era inadeguata e inefficace. Cominciò così a farsi strada il concetto
105
A. Molinari Le esperienze post-belliche etc., cit.
126
della « preindustrializzazione», cioè della creazione, attraverso un
complesso di investimenti pubblici e di incentivi, di un ambiente economico in cui le imprese industriali private potessero trovare stimolo e
convenienza a sorgere. Nacque così la Cassa per il Mezzogiorno. L'altro aspetto della politica meridionalista governativa fu la riforma fondiaria: gli enti di riforma espropriarono e distribuirono esattamente
417.154 ettari di terra. I contadini ne tentarono la trasformazione con
l'assistenza tecnica e creditizia degli stessi enti.
Questi provvedimenti, ed alcuni altri ispirati agli stessi criteri,
rappresentarono il punto d'arrivo della prima fase del dibattito meridionalista del dopoguerra. Ma più che da un esame critico della tradizione
meridionalista italiana, e da una valutazione dei tentativi fatti nel passato per affrontare la questione, l'ispirazione di queste iniziative veniva
dal modo in cui erano stati superati specialmente negli Stati Uniti ed in
Inghilterra (Tennessee-Columbia Basin-Scozia-area di Glasgow; ma
anche le aree olandesi dello Zuiderzee, e quelle polacche di Cracovia e
russe dell'Estonia), i problemi di particolari aree depresse.
L'esigenza dell'integrazione europea dell'economia italiana proponeva intanto il superamento delle antiche posizioni protezionistiche e
l'ammodernamento e lo sviluppo dell'apparato industriale del Nord. Le
conseguenze che dall'impostazione di più liberi rapporti economici tra
Italia ed Europa si prevedevano per il Mezzogiorno «erano soprattutto
la maggiore possibilità e larghezza di intervento della spesa pubblica
sulla linea tracciata dalla Cassa, un più forte stimolo alle trasformazioni colturali, e più ampie possibilità di immettere i prodotti agricoli
nel mercato internazionale»106.
La seconda fase di politica meridionalistica, dunque, era caratterizzata da due motivi: quello del boom italiano, e quello dell'Europa
senza frontiere. Cioè, dall'impetuoso trasferimento in massa di schiere
di meridionali nei centri industriali del Nord, e nelle fabbriche e nei ba106
R. Villari La nuova democrazia, in Il Sud nella storia d'Italia, cit., vol. II, pag.
627.
127
cini minerari d'oltralpe. Il Mezzogiorno è entrato così nella Cee. Questa
fase dell'esperienza meridionalista, che per varie ragioni ha suscitato un
largo interesse tra studiosi e uomini politici di tutto il mondo 107, si è
conclusa intorno agli anni '60.
14
In questo periodo, i meridionalisti affermavano che nel corso
dell'attività della Cassa si erano di volta in volta chiariti i limiti dell'impostazione che era stata data alla politica per il Mezzogiorno. Proprio
per i suggerimenti che derivavano dall'esperienza concreta, essi, proponendo metodi sostanzialmente diversi, delineavano gli obiettivi che era
necessario proporsi per affrontare efficacemente il problema. A queste
posizioni, corrispondevano un più largo impegno e un rinnovato interesse dei politici per lo studio della tradizione del pensiero meridionalista, e l'esigenza (che, particolarmente nel campo cattolico, era stata sentita prima da ristretti gruppi di giovani, e soprattutto da quello che, tra il
1948 e il 1953, si raccolse intorno alla rivista Per l'Azione, compiendo
un corroborante ripensamento dell' opera di Gramsci, Dorso e Gobetti)
di valutarne i risultati ed il significato.
La Relazione presentata al Parlamento da Pastore nell'aprile del
1960, e la notevolissima discussione che ne seguì, (e nel corso della
quale tutti i partiti presentarono mozioni «meridionaliste»), misero in
rilievo, insieme ai risultati raggiunti, il fatto che non era stato messo in
moto un «meccanismo di sviluppo» rapido. Era venuto meno, cioè, il
risultato di fondo, che era quello di creare incentivi come basi di soluzioni rinnovatrici e motrici, di formare un valido tessuto connettivo di
strutture in grado di determinare nel Sud un movimento di nascita e di
investimento del capitale privato. In altri termini, l'obiettivo dell'avvi107
Di notevole importanza, anche se non possiamo condividerei «pericolosi tentativi di forzare il processo di avvicinamento Il tra Nord e Sud, il saggio di V.
Lutz, cit.
128
cinamento del sistema produttivo delle due grandi ripartizioni territoriali italiane non era stato conseguito, e rischiava di non essere raggiunto in tempi ragionevoli. Da qui, due tendenze: quella «efficientista»,
con indeterminati e indeterminabili « tempi lunghi»; e quella del rilancio del problema meridionale, con la proroga della legge istitutiva della
Cassa, e l'adozione di una programmazione nazionale. A questo punto,
storia e cronaca politica diventano fatti dei nostri giorni.
15
Quali erano stati i presupposti storici di queste fasi? Nel primo
dopoguerra, i comunisti avevano rappresentato la voce più polemica
dello schieramento politico meridionale. In quegli anni tormentati essi
impostarono un serio lavoro di politicizzazione dei ceti contadini, accelerando, con l'azione sindacale, l'inserimento delle plebi del Sud nel
processo storico meridionale. Ciò va considerato, a tutti gli effetti, il
primo passo della rinascita del Mezzogiorno.
Più tardi, venuta meno la tensione rivoluzionaria che aveva animato i contadini fino agli anni '50, (e venuto meno soprattutto il risvolto sociale della questione col fallimento dell'alleanza operai del Nordcontadini del Sud unificati da una Weltanschauung proletaria proposta
da Gramsci), il Pci si trovò di fronte al problema di dover utilizzare
«dentro lo Stato» un movimento che avrebbe voluto utilizzare «contro
lo Stato». All'azione riformistica statale, i comunisti non seppero opporre una loro valida linea difensiva: non essendo capaci, o non volendo risolvere l'azione contadina in una forza politica democratica, essi
da una parte accentuarono il loro schematismo mentale, e dall'altra portarono alle estreme conseguenze il loro spregiudicato tatticismo, assumendo una politica di opposizione dogmatica. Sul mondo contadino,
poi, usarono del loro ascendente con accorta diplomazia. E questo denunciava apertamente l'antico pessimismo leninista nei confronti del
mondo rurale.
129
Confrontata con quella comunista, l'azione degli altri partiti ha
avuto caratteri meno spiccati, ed è risultata meno incisiva ai fini
dell'organizzazione politica delle masse meridionali. La stessa Dc, in
non pochi casi, ha dato l'impressione di procedere a freddo, spinta dagli
alleati più sensibili e sollecitata dagli avversari, più che da un intimo
impulso, e volta ad un riformismo eclettico spesso scarsamente producente. Si può dire, in linea generale, che più che affrontare il problema
meridionale con le proprie forze, il partito di maggioranza ha cercato di
risolverlo attraverso l'azione e i mezzi dello Stato, (Cassa per il Mezzogiorno, Enti vari). Solo più tardi l'iniziativa bonomiana ha richiamato
sotto le insegne delle mutue contadine certi settori dei ceti rurali meno
sensibili alle teorie marxiste. E ancora molto dopo si è avuto l'intervento della Cisl negli affari meridionali. Dopo: quando la Cgil fu costretta
a « tornare a settentrione», per arrestare le emorragie operaie del triangolo.
L'estrema destra, a sua volta, è rimasta ancorata ai fantasmi
di un sanfedismo contadino, cercando poi di contendere alla Dc il possesso di una parte della borghesia.
Fin dal tempo in cui Dc. Pli e Pri facevano proprie alcune notevoli istanze riformistiche, i partiti socialisti «sfuggivano alle proprie
responsabilità, incapaci di dare alle vecchie tesi salveminiane e dorsiane una interpretazione in chiave moderna, e di proporre una nuova
alternativa democratica alle masse contadine ed agli strati più colti
della borghesia locale»108.
Possiamo quindi affermare che, al di fuori di alcune lodevoli eccezioni, i partiti laici democratici sono entrati sulla scena politica del
Sud solo di scorcio, localmente, sconfitti dal tipo di vita politica e
dall'immaturità di gran parte dei meridionali. I quali, ancora una volta,
hanno continuato a muoversi più come immensi cori senza tema, che
come autentici protagonisti del loro stesso antico dramma. In questo
senso, fra l'altro, pare trovare una sua giustificazione il dubbio sulla
108
M. Barnabei Aggiornamenti, etc.
130
crisi del meridionalismo. La vita politica meridionale, rinata nei primi
anni del dopoguerra come teatro di forze vive, ha di volta in volta perduto slancio e vigore, ricadendo nel vuoto tradizionale, nei grandi silenzi sui temi di fondo, in cambio di motivi che sembravano ormai superati definitivamente, in cambio di una disputa, cioè, fondata su problemi e intenti contingenti. Se un'attenuante dev'essere avanzata, può
essere questa: l'involuzione della vita politica nel Mezzogiorno, a partire dal 1953, non è riportabile soltanto allo svuotamento di una parte
della carica ideologica che i vari partiti avevano portato nelle lotte politiche post-belliche, ma anche al tipo di intervento attuato dal potere statale, il quale, facendo proprio il contenuto delle rivendicazioni popolari, di cui i partiti si facevano portavoce, neutralizzava di fatto molta
parte della loro spinta innovatrice.
16
L'azione dello Stato, in effetti, veniva ad inserirsi in un quadro
politico che vedeva il Pci esiliato in una posizione di sterile massimalismo; il Psi imbrigliato nelle proprie interne contraddizioni, e impegnato
nella logica manichea imposta dall'alleanza frontista, nel cui ambito i
comunisti avevano una parte preponderante, sia ideologicamente che
tatticamente; le forze più valide della sinistra minate dalla presenza di
antichi azionisti, grandi distruttori, e tenaci assertori di politiche dogmatiche disgregatrici; i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali
quasi esautorati dal prepotere dei cattolici; la Dc dedita al predominio
dell'attività statale.
17
A chi guardi con obiettività i fatti più salienti, dunque, non può
sfuggire che il maggior protagonista della vita sociale ed economica del
Mezzogiorno, negli anni '50, è stato appunto lo Stato, il cui intervento
131
rispecchia profondi mutamenti nell'impostazione e nella risoluzione
della questione meridionale, e segna un evento di fondo non del tutto
positivo nella storia del Sud. Fra l'altro, vi è un aspetto sollevato dall'opera dello Stato in tema di politica dello sviluppo, che non ci pare sia
stato finora chiaramente valutato anche in sede politica. Il potere esecutivo svolge notoriamente, in Italia, un'attività che la tradizione voleva
un tempo in buona parte di competenza del potere legislativo: la svolge, quindi, con la protezione di strumenti normativi di tipo amministrativo, ormai largamente diffusi nella pratica. Questo stato di cose è in
parte riportabile al periodo fascista, quando l'invadenza dell'esecutivo
era l'impegno fondamentale del sistema. In effetti, esso sembra essere
uno degli aspetti peculiari della crisi che travaglia gli istituti parlamentari.
Ora, lo Stato è oggi investito di un certo margine di potere autonomo, (come nel caso del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno),
che lo può portare a risolvere alcune situazioni secondo una logica che,
in taluni casi, si potrebbe pensare rispondente ad una empirica politique
des choses. Tuttavia, anche in questi casi l'attività statale risponde necessariamente ad una qualche ideologia, che non può forse essere quella del riformismo tout court, ma che per conseguire una valida qualificazione deve ormai rispondere ad impostazioni politiche nuove, che si
svincolino dal solco tradizionale delle ideologie di partito, senza perdere per via la matrice liberale (nel significato universale, per la continuità dello Stato di diritto). In altri termini, è un pò tutta l'attività statale
che sembra richiedere un'analisi in chiave moderna da parte dei politici:
anche tenendo conto del fatto che in alcune occasioni l'organizzazione
statale ha già imbroccato da sè la via di una discreta funzionalità, adeguandosi autonomamente alle esigenze imposte dal processo di sviluppo in atto.
In realtà, specie di fronte alla politica di piano, il pensiero politico sembra non del tutto e non sempre preparato. Vecchi schemi frenano
l'aggiornamento ideologico dei partiti, i sindacati hanno colpe remote, e
132
persistono nella loro azione inattuale e innaturale di strumenti di partito, mentre la realtà delle cose cambia rapidamente e si lascia dietro i
ruderi del passato, e schiere di tecnocrati preparano nuovi programmi e
realizzano nuove riforme. Nell’immenso corpo dello Stato italiano vivono e si moltiplicano centri e gruppi dinamici di studio e progettazione esecutiva. Anche in questa prospettiva, ci sembra, dovrebbe operare
chi vuol dare alla azione di un partito quella matrice di moderna democrazia, cui dovrà essere necessariamente ispirata l'attività politica nel
futuro del Mezzogiorno.
133
TRA L'EUROPA E IL MEDITERRANEO
Se mai una rivoluzione politica fu intessuta
di illusioni o di speranze,
o eccessive o del tutto infondate,
quella fu certamente la nostra.
Giustino Fortunato
La maggior parte aveva poco da mostrare,
all'infuori di un angolo di terra,
ove cercava invano riparo dai colpi della sfortuna.
Mr. Stevenson
Una simile contrapposizione di continenti
era destinata ad aver breve vita.
Federico Chahod
Questa è la prima verità che l'opinione
pubblica deve conquistare, senza offuscarla con
sentimenti di falso patriottismo; poichè tra noi e
gl'industriali del Nord non esiste un antagonismo
regionale o politico, a cui si debba fare il
sacrificio dei nostri interessi economici, ma
esiste quel naturale contrasto che si ha
in ogni rapporto di scambio ...
De Viti De Marco
135
Il 21 ottobre 1966 si tenne il primo, e fino a questo momento,
con ogni probabilità, unico convegno che abbia interessato il Mezzogiorno come problema esclusivamente «mediterraneo». L'incontro, sul
tema «Italia, Europa ed Africa nella nuova dimensione del mondo», fu
organizzato presso la Fiera del Levante in collaborazione col Centro
Studi delle Comunità Europee. Il nostro Paese, si disse, non potrà considerare realmente concluso il suo ciclo di sviluppo globale fino a che
resteranno aperti i problemi del Mezzogiorno, che non possono essere
risolti soltanto con una serie di interventi straordinari, ma devono essere collocati nel quadro generale della politica economica nazionale.
«Grazie infatti alla programmazione economica la politica del Mezzogiorno cesserà di essere una politica di interventi straordinari, per diventare un obiettivo fondamentale per lo sviluppo del Paese. Ma la
programmazione economica non si esaurisce a livello regionale, nè a
quello nazionale. Oggi ci troviamo di fronte a tre cerchi concentrici: la
programmazione regionale all'interno, quella nazionale al centro,
quella europea all'esterno. Il caso del Mezzogiorno italiano è quello in
cui più agevolmente si possono individuare fin d'ora le linee lungo le
quali dovrà svolgersi tale triplice programma, anche perchè le regioni
meridionali costituiscono oggetto di particolare attenzione da parte
degli organismi comunitari, come dimostrano il polo di sviluppo pugliese e i massicci interventi del Fondo agricolo»109.
Dalla tendenza a realizzare una politica non limitata a considerare il Mezzogiorno in sè, ma volta a farne un ponte ideale dell'Europa
nel Mediterraneo, è nata l'idea-forza di una partnership Europa-Africa,
109
Intervento del sottosegretario agli Esteri, Zagari.
137
con apertura, alla Turchia e al Medio Oriente, da una parte, al mondo
iberico dall'altra. Partnership che, però, «non deve avere carattere esclusivo, ma rappresentare uno dei perni, anche se forse il più importante, di un'azione che va esercitata a tutti i livelli, anche se alla stregua dei principi sanciti dalla Convenzione di Yooundé»,
2
Il nostro tempo è testimone dello sviluppo di due grandi cicli di
trasformazione continentale che, mentre maturano, preparano realtà
storiche profondamente diverse da quelle del recente passato. Da un lato, in Europa, alcuni Paesi industrializzati abbandonano progressivamente le vecchie posizioni nazionalistiche e di protezionismo economico, per creare strutture sovranazionali e una economia dalle dimensioni
continentali, in attesa che si concretizzino le condizioni storiche necessarie a dar vita anche ad una comunità politica. Dall'altro, è in atto in
tutta l'Africa un crescente processo di affrancamento di popoli che, ottenuta l'autonomia, si affacciano alla ribalta della storia contemporanea.
In questa fase dell'evoluzione, la vocazione mediterranea e le tradizioni
africane ripropongono all'Italia un compito di particolare rilievo: quello
di concorrere allo sviluppo di una vasta collaborazione tra le due grandi
aree economiche, strettamente integrabili, data la diversità delle rispettive strutture.
Con le sue capacità tecniche, industriali, finanziarie, la Comunità
Europea è in grado di fornire beni strumentali, prodotti di consumo,
crediti, assistenza tecnica, indispensabili alle economie in via di sviluppo del continente nero. Per quanto ancora in gran parte sottosviluppate,
queste, a loro volta, sono in grado di fornire incambio alle industrie trasformatrici europee immense risorse di materie prime e di fonti energetiche.
L'Africa è un mercato dalle enormi possibilità di espansione, con
oltre 240 milioni di abitanti sparsi su trenta milioni di chilometri qua138
drati. L'Italia con la sua struttura geografica, e con la fiducia che riscuote in un mondo ancora profondamente turbato dalle esperienze colonialisti che e dalle vicende che hanno segnato e continuano a segnare
la fase di assestamento politico, sociale, geografico, può assolvere più
di qualsiasi altro Paese europeo alla funzione di mediazione e di collocamento fra i due sistemi, la cui collaborazione si prospetta molto interessante, non soltanto sul piano strettamente economico.
Ma anche indipendentemente da questa funzione euro-africana,
l'ulteriore sviluppo industriale del nostro Paese comporta sempre maggiore fabbisogno di materie prime, di cui l'Africa dispone in gran quantità: petrolio, gas naturali, fosfati, ferro, zinco, stagno, rame, piombo,
manganese, carbone, uranio, argento, oro; e nello stesso tempo consente di esportare in quantità crescenti e a condizioni competitive prodotti
industriali, ed in particolare - ciò che maggiormente interessa ai Paesi
in via di sviluppo - impianti e macchinari, con la necessaria assistenza
tecnica. Anche la partecipazione italiana alla costruzione delle opere
destinate a formare il «capitale sociale fisso» dei nuovi Stati - vie di
comunicazione, centrali elettriche, impianti irrigui, edilizia, ecc. - è suscettibile di ampi sviluppi, grazie anche al prestigio conquistato dalle
nostre aziende e dai nostri imprenditori in tutto il mondo.
3
Occorre tener presente un fatto: la nuova fase di penetrazione nel
continente nero rifiuta lo spirito neocolonialista, l'aggressione economica tout court, il controllo esclusivo delle risorse principali dei Paesi
africani. In Africa e nel Medio Oriente si combattono ancora guerre del
petrolio, degli, idrocarburi, dell'uranio. Tutto questo, ed altro ancora,
determinano la sfiducia degli africani verso i bianchi, gli europei, gli
occidentali. Nascono anche da questa logica i nazionalismi che hanno
determinato a più riprese, nel Nord-Africa e nel Medio Oriente, in que-
139
sto che è un «crocevia del mondo », squilibri insanabili, guerre sante,
costose rivoluzioni, palesi ambizioni di predominio.
4
Quando all'elemento politico si sovrappone quello più strettamente economico, al quale alla resa dei conti è legato lo sviluppo civile
e sociale delle popolazioni, i conti tornano diversamente. Prendiamo
l'esempio della Sicilia. Nel giro di un decennio, dal 1955 al 1964, secondo i dati elaborati dall'Osservatorio economico del Banco di Sicilia,
il volume globale degli scambi fra le due parti (Sicilia-Africa) è quasi
decuplicato, passando da 5,9 miliardi a 53,9 miliardi di lire, mentre si è
più che raddoppiato (dal 5,3 per cento nel 1955 al 13,8 per cento nel
1964) l'apporto fornito dagli scambi con l'Africa al commercio globale
della Sicilia con l'estero. L'interesse di questi dati è confermato dal fatto che in quello stesso decennio il numero dei Paesi africani con i quali
la Sicilia ha allacciato rapporti di scambio si è pressocchè triplicato. E
l'evoluzione della bilancia commerciale isolana ha registrato, di conseguenza, notevoli effetti positivi.
Il problema, quindi, sta nell'inserire il Mezzogiorno nel vasto circuito di affari che allo stato attuale delle cose interessa quasi esclusivamente la Sicilia. Pastore ha affermato che «l'ansia solidaristica che
anima oggi l'Europa ha ridotto al minimo le distanze; che in ogni caso
se il Nord aveva vicino l'Europa continentale, il Sud ha dalla sua l'Oriente. Che il Mezzogiorno è destinato esso stesso a divenire un grande
mercato»110. Anche da questo punto di focalizzazione, pertanto, lo sviluppo economico del Sud ha una sua particolare funzione, e si riflette
nel quadro dello sviluppo globale dell'Italia. Cioè, è anche un grosso
problema interno, che investe la questione dei finanziamenti.
110
G. Pastore Analisi e prospettive dello sviluppo del Mezzogiorno, cit. pag. 15.
140
5
Aveva scritto Orlando: «E' opinione che la flessione degli investimenti sia conseguenza della preoccupazione ( ...) delle nostre aziende, per l'avvicinarsi del 1 luglio 1968, giorno in cui cadranno le ultime
protezioni doganali e le economie dei sei Paesi entreranno nella pienezza della fase competitiva. Per questo fatto nuovo, le nostre imprese,
alle quali tutti chiedono massima efficienza, sono portate a identificare
l'efficienza con la concentrazione degli impianti e degli investimenti.
Cioè, con la concentrazione nel Nord, dove le economie esterne, assicurate dalla presenza di tutti i servizi intermedi ed ausiliari, si rivelerebbero più efficaci che non le incentivazioni a favore del Mezzogiorno»111.
Riecheggiando il ministro del Tesoro, Orlando affermava che
quattro
«ragioni», (il nuovo ciclo di espansione dell'economia, la caduta delle
dogane nel MEC, la flessione degli investimenti nel Sud, la diminuita
tensione meridionalista), sono sufficienti ad imporre la ripresa di un discorso più franco tra classe politica e classe economica per il Mezzogiorno. Ai fini di questo discorso, proseguiva, gioverà innanzitutto rifiutare la correlazione prospettata dai comunisti fra Mercato Comune e
crisi del Mezzogiorno. «Basterebbe, in proposito, ricordare l'autarchia
e i nefasti effetti che le economie chiuse hanno,in primo luogo sulle aree depresse... Quando l'iniziativa privata dal Nord andò nel Sud con
iniziative massicce, traendone le ovvie utilità economiche, nel Sud non
c'erano in misura adeguata quelle infrastrutture che il' ministro Colombo ( ...) ha raccomandato di sviluppare; nè c'erano quelle unità intermedie ed ausiliarie che sono il tessuto connettivo di un sistema industriale, e di cui ancora il ministro Colombo richiama l’indispensabilità
quando propone di «avviare contemporaneamente a realizzazione una
serie, diversificata per settori, ma integrata globalmente, di impianti in111
F. Orlando Appello per il Sud Il Globo 2 ottobre 1967.
141
dustriali, non solo di grandi dimensioni». E' questa, ci si permetta di ricordarlo, la «filosofia» che presiede al Piano Cee per la meccanica nel
polo Taranto-Bari-Brindisi. E' implicita naturalmente la preoccupazione di evitare iniziative o doppioni inutili. La complementarietà
dev'essere elemento del processo integrativo in modo da compensare le
carenze presenti e future».
6
Queste quattro «ragioni» sono effetto di molte cause, che Lenti
analizza acutamente 112, anche se poi risultano inficiate dai conti in percentuale. Per seguire la linea tracciata da Lenti, dividiamo il nostro sistema economico in due parti: al Nord le aree settentrionali, comprese
quelle centrali più sviluppate; e al Sud quelle meridionali, comprese le
insulari, meno sviluppate dal punto di vista economico. Partiamo dal
1951, anno in cui si cominciò ad operare a favore delle aree meridionali, per arrivare al 1966, che chiude perfettamente un ciclo quindicennale. Esprimendo il reddito nazionale per abitante in termini reali (lire
1963), Lenti constata che quello delle aree meridionali è passato da 219
mila a 407 mila lire, con un aumento dell'86,1 per cento; mentre quello
delle aree settentrionali è passato da 381 mila a 765 mila lire, con un
aumento del 101,0 per cento. In altri termini, riconosce Lenti, il reddito
nazionale per abitante nelle aree meridionali è aumentato con un saggio
inferiore a quello accertato nelle aree settentrionali. Il distacco quindi,
anzichè diminuire, è aumentato. «In questo caso, però, (...), i dati del
reddito nazionale per abitante forniscono un 'immagine distorta della
situazione, e questo proprio perchè dalle aree settentrionali sono via
via fluite verso quelle meridionali notevolissime quantità di risorse, il
che ha per l'appunto permesso un aumento dei consumi e degli investimenti».
112
L. Lenti Conti precisi per il Mezzogiorno Corriere della Sera 7 ottobre
142
Ecco le cifre di Lenti: nelle aree meridionali del 1951 al 1966 i
consumi sono passati da 200 mila a 392 mila lire, con un aumento del
96,5 per cento, mentre nelle aree settentrionali sono passati da 295 mila
a 539 mila lire, con un aumento dell'82,5 per cento. Gli investimenti
lordi, nello stesso tratto di tempo, sono passati da 36 a 93 mila lire nelle
aree meridionali, con un aumento del 155,5 per cento, e da 73 a 146
mila lire in quelle settentrionali, con un aumento del 98,7 per cento.
Come si vede, dice a questo punto Lenti, se si tien conto delle «esportazioni» nette di merci e servigi dalle aree settentrionali verso quelle
meridionali, il che «rappresenta un cospicuo apporto a fondo perduto a
favore di quest'ultime», la prospettiva cambia. «Nelle aree meridionali,
grazie per l'appunto a quest'apporto, i consumi e gl'investimenti sono
aumentati con saggi nettamente superiori a quelli accertati nelle aree
settentrionali. Ciò dovrebbe indurre a maggiore cautela coloro che negano validità a quanto s'è finora fatto a favore delle aree meno avanzate nel nostro sistema economico». Il che dimostra, una volta di più,
che gli economisti non finiranno mai di sbalordirci. Investimenti aumentati? Ma non è risultato neppure al Congresso partenopeo 113, ove
hanno parlato economisti e politici del maggiore partito al governo, che
non si sarebbero lasciata sfuggire l'occasione di mettere in evidenza
una cosa del genere. E, si può parlare di maggiore aumento dei consumi rispetto al Nord, su una base percentuale, capovolgendo i dati delle
cifre reali, che - sono quelle concretamente indicative del fenomeno?
L'aumento dei consumi (Gli italiani si dividono in nordici e sudici, aveva detto Prampolini; la crescita dei consumi è, appunto, una scelta di
civiltà, una liberazione della latitudine tragica e grottesca del Sudicio),
l'aumento dei consumi, dicevamo, non è aumento del potere economico, delle possibilità di autopropulsione, delle capacità di «autocomando». Il carattere necessariamente globale di una politica di sviluppo economico è aspramente contestata dalle tesi del1'«efficientismo». Lenti
113
Si vedano i numeri de Il Popolo 7-8-9 ottobre 1967, firme varie; ma anche: G.
Ghirardo Una politica nuova per il Mezzogiorno Il Mattino 10 ottobre 1967
143
non tiene conto, o non vuol tener conto, dei rischi anche politici
dell'impoverimento umano del Sud, che investono la classe dirigente e
gli orientamenti ideologici, cioè le scelte di civiltà che il nostro Paese
ha assunto, riproponendo i termini più reali della questione meridionale
nell'ormai lontano 1945.
Da ciò, il relativismo delle cifre in percentuale, la loro evidente
distorsione, che rovescia l'ottica del fenomeno, e l'invito alla «cautela»,
mentre riecheggiano le parole di Colombo al Convegno di Napoli:
«Quel che bisogna fare è usare con incisività il potere di contrattazione politica di cui il governo è investito: potere di contrattazione politica che, pur rispettando l'autonomia delle scelte dei centri imprenditoriali, ne può dirigere l'orientamento (. .. ). Ecco quindi che il discorso
sul Mezzogiorno travalica il campo economico e diventa un discorso
essenzialmente politico»; e quelle di Pastore: «Tocca al potere politico
contrastare le tendenze che portano ancora una volta gli investimenti
nelle zone già industrializzate»; e quelle di Rumor: «Il Mezzogiorno ha
dunque bisogno di un rinnovato impegno, di una strategia nuova ( ... ).
La soluzione del nodo meridionale è componente necessaria allo sviluppo globale del Paese». Tutte cose, queste, di cui non si sentirebbe
alcun bisogno, se, come afferma incautamente Lenti, «la prospettiva»
fosse realmente cambiata.
7
Lamentandosi della mancanza di raffronti tra quel che succede in
Italia, e quel che si è già verificato in altri Paesi, Rodanò fa il confronto
fra il Mezzogiorno e l'Irlanda, tra il Mezzogiorno e il Sud degli Stati
Uniti. E, tra I'altro, afferma: «Nel Nord si usava attribuire questa debolezza dello sviluppo industriale allo scarso rendimento della manodopera del Sud, e alla mancanza di spirito d'iniziativa dei meridionali.
L'esperienza ha dimostrato che la prima accusa era infondata. Quanto
alla seconda, è stato messo in rilievo, fra l'altro, che aziende sorte per
iniziativa esclusivamente meridionale sono passate sotto controllo del
144
Nord una volta diventate prospere. Questo è accaduto, per esempio,
nell'industria del tabacco... Le iniziative meridionali sono state ostacolate dalla povertà di capitali liquidi in cerca di investimenti industriali.
Ma, per pochi che siano questi capitali, è un fatto che parte di essi viene collocata nelle grandi piazze del Nord, le quali poi finanziano gli affari del Sud. Inoltre, raccolgono risparmi del Sud le maggiori compagnie di assicurazioni del Nord, le quali hanno grande importanza per il
collocamento dei titoli industriali»114.
Rodanò sta parlando del Sud degli Stati Uniti. Ma tutto ciò si può
dire anche del nostro Mezzogiorno. La coincidenza è straordinaria. Ma
l'identità si ferma alle cause, ai precedenti. Non può andare oltre, perchè al Mezzogiorno d'Italia è venuta a mancare una politica rooseveltiana. Ciò relega forse in termini lontani nel futuro la nascita di una California o di un Tennessee al di qua della linea Gotica. Sicchè, da questo punto di vista, restano remore pericolose all'orientamento euromediterraneo dell'economia meridionale. Tutto è ancora da fare, i conti
non tornano. E gli orizzonti si restringono ai confini archeologi ci della
Nazione.
114
C. Rodanò Il Sud negli Stati Uniti, in Mezzogiorno e sviluppo economico Cap.
X, pag. 229. Bari, Laterza 1954.
145
PER UN NUOVO MERIDIONALISMO
Quando si rievochi la magnificenza
di quelle singolari giornate ci domandiamo
qual delitto debbono aver commesso, i riformisti
italiani se hanno ridotto queste masse
all'ignavia e all'impotenza!
Arturo Labriola
C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo,
qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva
pure una disperata religiosità ...
Piero Gobetti
Ricercando la tradizione politica nell'Italia
meridionale, ho trovato che la sola di cui essa
possa trar vanto è appunto quella che mette
capo agli uomini di studio e di pensiero,
i quali compirono quanto di bene si fece in questo
paese, all'anima di questo paese, quanto
gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò
e dischiuse un migliore avvenire e l'unì all'Italia.
Benedetto Croce
147
Il vecchio meridionalismo - romantico, impetuoso, talora barricadiero - ormai va morendo. Ed è bene che sia così. Le nuove correnti
di pensiero, (relativismo dopo il primo conflitto mondiale, esistenzialismo dopo il secondo; poi, sul piano delle correnti politiche internazionali, quella condizione fumosa da cui di volta in volta hanno avuto origine le nuove alleanze come scelta di civiltà, la nascita dei blocchi, la
guerra fredda, il reciproco condizionamento ideologico, l'idea
d'un'Europa unita, la coesistenza difficile; infine, i movimenti libertari,
il dissolvimento del colonialismo occidentale, la rottura del monolitismo orientale, e, in questi ultimi giorni, una più diffusa ansia di libertà,
una più razionale aspirazione al rinnovamento e al progresso, un più
rapido processo di affrancamento dalle sacche del sottosviluppo, della
fame, della povertà), queste nuove correnti di pensiero, che ormai sono
in grado di condizionare e orientare i costumi e i sistemi di vita, le azioni politiche e i programmi economici di interi continenti, hanno certamente influito sull'evoluzione dell'ideologia meridionalista. Anche il
confronto con le problematiche proposte dai diversi Sud presenti in ogni Paese (fenomeno che Fortunato mise per primo a fuoco) e le soluzioni prospettate dagli esperti di sociologia e di economia politica hanno avuto un loro peso non trascurabile.
Sicchè si sente oggi la necessità della nascita di un meridionalismo nuovo, meno vendicativo e più spregiudicato, meno incriminatore,
più lucido e consapevole, che guardi alle cose, e vada più lontano degli
steccati angusti in cui si era chiuso venti-trent'anni fa. E' il meridionalismo che si sarebbe dovuto venire già formando dal '50 ad oggi, in due
decenni di lento e segreto ripensamento, se non fosse stato coartato dal
pericolo costante della sostituzione dell' antica cultura agraria con una
149
cultura industriale altrettanto chiusa, statica e incapace di sollecitare
forti movimenti, anche spirituali. Occorre un meridionalismo come
moderno umanesimo, che scopra una maniera di realizzarsi al di fuori
degli schemi tradizionali. Perciò il problema è anche politico: perchè
sarà necessario determinare questa maniera. Vi debbono concorrere tutti, a tutti i livelli, torcendo il collo alle remore storiche, fisiche, psicologiche, che vi si oppongono.
Il compito cui sono chiamate le forze meridionaliste – compito
non facile, ma nemmeno più disperato - è ancora quello della critica e
dell' opposizione, (il meridionalismo è sempre stato opposizione, cioè
stimolo e orientamento all'equilibrio politico, economico, amministrativo delle ripartizioni territoriali). Ma è soprattutto quello di creare matrici moderne di discussione, di prospettare soluzioni avanzate dei problemi umani, che dipendono intrinsecamente da quelli spirituali e culturali.
E' stato detto che l'industrializzazione del Mezzogiorno deve entrare nella storia dell'industrializzazione europea. Il Mezzogiorno, cioè,
dovrebbe configurarsi nel simbolo del pionierismo del ventunesimo secolo. La cultura economica italiana, in risposta a questa legittima aspirazione, (legittima e logica, di fronte ai problemi di sviluppo imposti
dall'Europa comunitaria, e di fronte al superamento del divario tecnologico euro-americano), sembra avere scoperto per il Sud l'industria
dell'Ottocento, con le cattedrali spettacolari e solitarie, alte e chiuse sulla vasta corte dei miracoli del Mezzogiorno. Ciò, sebbene ci siano
strumenti speciali che, bene o male, operano da tempo, svolgendo
compiti di collegamento fra Stato e governo da una parte, società e ambiente fisico dall'altra; sebbene esista una programmazione che dovrebbe avere compiti e orientamenti precisi, chiari, corretti, primo fra tutti
quello del riequilibrio fra le due Italie; sebbene siano in ballo organismi
europei che guardano con simpatia al Mezzogiorno e ne indicano lo
sviluppo come componente necessaria dell'avanzamento globale dell'area comunitaria; sebbene, infine, ci sia un'aria nuova nel Paese, anzi
150
negli italiani, ed è un'aria di più aperta fiducia, di più larga comprensione dei problemi che, affliggendo il Sud, non possono rendere allegro
il Nord. Questo è certo il fatto più incoraggiante, ricollegabile oltre tutto ai movimenti migratori, alla calata di operai e tecnici dal Nord, alle
escursioni turistiche, ai rapporti commerciali, a tutta la non trascurabile
cultura che in clima di democrazia si è formata negli strati medi italiani.
Tutto questo è importante. Una politica che non sapesse – o potesse, volesse - proiettarsi nelle nuove dimensioni spirituali e fisiche offerte dalla società postbellica sarebbe misoneista, screditata, inattuale.
Mentre in un mondo che tende a superare il concetto stesso delle strutture archeologiche della nazione, che si muove verso frontiere più ampie, e porta istanze e aspirazioni di portata continentale, ogni corrente
di pensiero, ogni fatto ideologico, ogni posizione politica ed economica, devono esprimere un'azione moderna, lungimirante, libera dalle
scorie preistoriche del passato, calata in un fuso orario che è quello degli uomini che passeggiano tra le stelle, che sfiorano pianeti sconosciuti, che frugano tra le vie lattee, e sognano cieli più lontani.
La crisi reale è qui, nella tensione per il difficile trapasso che deve pur verificarsi; nella tensione per un moderno impegno intellettuale
e politico che porti a compimento la trasformazione spirituale, oltre che
sociale, delle popolazioni meridionali; nella tensione per la ricerca di
un dover essere, cioè di un dinamismo aggressivo, bruciante, senza il
quale ci sarà solo la recessione e il condizionamento delle forze di contestazione, e il meridionalismo resterà vincolato all'astrazione delle sue
memorie e al culto delle sue speranze. E il Mezzogiorno, ascetico e sibarita, alla sua millenaria arretratezza.
151
MEZZOGIORNO A PASSO D'UOMO
Pazza estate del Sud che abbagli
nei paesi bianchi di calce...
E. Bonea
E' questo il Salento
bruciato dal sole
ove il cielo del Sud
avaro di piogge
ha sotto gli occhi
schiene curvate, some
dal cuore in pena :
ove sirene di cantieri 3000
antichi rumori di zappe.
L. Romano
Una terra
d'ingenuità e d'innocenza
(docili contorni
di bistro
gibbe del mare discinto
dal mite Gargano)
ove l'eco
che sa di rive umane
sosta al plenilunio delle greggi
e fa di rupe il canto
in gola ai bimbi
lunghe croci verdi
sull'argilla bianca
cocci d'ombra in tetti senza voli
d'attesa o di ritorno ...
A. Bello
153
LE DUE LUCANIE
155
«Distese di monti nudi e brulli, senza qualsiasi produzione, senza quasi un fil d'erba, e avvallamenti altrettanto improduttivi ... Al desolato silenzio dei monti e delle valli, succede il mortifero piano, dove i
fiumi sconfinati scacciano le colture...» Queste parole furono pronunciate da Giuseppe Zanardelli, primo presidente del Consiglio ad aver
visitato la Lucania, nel settembre del 1902. E la loro eco, a tratti, qui
sembra prolungarsi all'infinito, scolpirsi sulle pietre e sugli olivi, poi
rintanarsi fra i calanchi «alla calabrese », che tagliano trasversalmente
la montagna, cupi e incomunicanti, aggiungendo l'orrido al desolato. E'
la Lucania più vera, questa, sopravvissuta ad una storia che, tranne gli
splendori della Magna Grecia, non ha conosciuto che miseria economica e sociale. E infarti geologici. Perchè la geologia, che in tutto il Sud
gioca un ruolo importante, è stata alla base del «circuito di depressione» che ha caratterizzato la Lucania di sempre, tagliandone il carattere
e il temperamento umano. E ne ha giustificato la concezione pessimistica della storia. A parte alcune - pur notevoli, ma limitate - variazioni,
queste montagne potentine e materane sono restate in parte come nel
1902. Le valli, le «grandi vallate» che si snodano dall'interno al mare,
tranne che nelle aree costiere prossime al confine pugliese, son quasi
come ai primi del secolo, dorsali calve con paesi come necropoli, e
plaghe con campi senza reddito. Il male oscuro della Lucania è nell'essersi fermata nella storia. O nell'essere stata costretta a fermarvisi. Perchè?
2
Cominciamo dall' organizzazione economico-produttiva. Una recente inchiesta ha messo in rilievo che questa, in Lucania, ha costante157
mente sofferto dell'impoverimento delle migliori energie e dei redditi.
Da qui emigravano, e continuano ad emigrare, uomini e capitali. In generale, il reddito è costituito in massima parte dall'agricoltura, è quasi
esclusivamente fondiario. A questo fenomeno si accompagna l'altro, altrettanto fatale: è quello dell'immobilismo del risparmio realizzato sulla
quota del reddito percepito dai lavoratori dell'agricoltura. Costoro lavorano per tutta una vita, e accantonano a durissimo prezzo risparmi che
consentono loro di acquistare un pugno di terra. Si calcola che nel giro
di ogni generazione almeno il venticinque per cento della terra viene
venduta. Sicchè, la popolazione rurale lucana lavora per accumulare risparmi capaci di acquistare ogni quattro generazioni la terra, e la sua
contropartita, cioè il reddito prodotto e risparmiato per l'acquisto di essa, viene regolarmente trasferito fuori regione. Ci si rende conto, allora,
di come sia storicamente determinato un perpetuo circuito della povertà, con i caratteri tipici dell'area depressa: bassi livelli di produzione, di
reddito, di consumo, secondo un circolo consueto e diffusamente noto.
Per anni, per secoli, la crescita economica è rimasta statica. Inesistente,
o quasi, la crescita umana. Nel 1890, in Lucania, l'analfabetismo raggiungeva il novantadue per cento della popolazione. Tra le donne toccava il novantotto per cento. All'atto dell'unità politica, su 124 comuni
solo 62 avevano un cimitero. In tutta la regione, solo fino a vent'anni
fa, esistevano tre tipi di scuole secondarie, sicchè a Melfi i diplomati
erano tutti maestri elementari, a Matera periti agrari, a Potenza geometri.
3
Poi, la struttura geologica. Se le valli sono tormentate e sconnesse, le catene montuose, rotte dai calanchi, subiscono metamorfosi profonde. E' il paese abbagliante che d'estate ha il colore del deserto. Dopo
i grandi disboscamenti, il lieve strato di terra coltivabile è stato dilavato
dal tempo: l'argilla bianca si stende a perdita d'occhio, da un orizzonte
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all'altro, calando dai monti, configurandosi in coni stranissimi, coprendosi d'una repellente peluria d'erba. D'estate i fiumi sono fiumare di
pietrisco lunare con qualche stagno malarico. D'inverno si tramutano in
torrenti rovinosi, che dilagano nelle pianure e nelle depressioni, dove
gli argini naturali si interrompono, e dal novembre all'aprile fanno di
molti campi di grano putride risaie. La Cassa per il Mezzogiorno e
l'Ente Riforma hanno fatto cose inutili quando hanno costruito strade e
fattorie sui terreni più infidi. Da millenni la Lucania muore di mal di
frana. Il sessanta per cento della superficie è montano, il trenta per cento collinare. La pianura, all'interno, è sempre fondovalle, dissestata dalla violenza delle acque. Gli altopiani di Matera son Puglia depressa con
colture cerealicole a perdita d'occhio, e ortaggi da Taranto a Metaponto. Il potentino è in gran parte un'appendice irpina e campana. Dei cinque maggiori fiumi che affettano la regione, il Basento è quello che
meglio divide i lucani: nel linguaggio, nei pensieri, nelle opere, nelle
aspirazioni. Il Basento è l'immagine concreta della linea di demarcazione psicologica e intellettuale che spacca in due terra e genti lucane.
Perchè la Lucania non è una. Vi sono due Lucanie, di qua e di là del
Basento. E tutte e due hanno un muro nel cuore.
4
La Lucania, linguisticamente, come costume, come economia,
come mentalità è divisa in linea verticale. Vi è quella napoletana, nel
potentino, dove l'accento ha cadenze partenopee e la società, sia pure in
maniera meno vistosa e con caratteristiche più agresti, rispecchia il
modello cui si è ispirata. E vi è quella appula, del materano, con l'innesto del dialetto barese e tarantino, con l'influenza di quelle strutture sociali, con l'espansione dei fermenti pratici che sono di estrazione tutta
pugliese. Se i poli di attrazione sono per Potenza in Campania, le cittàpilota per Matera sono ad est. E la ragione non è soltanto nella geografia, ma nell'opera di penetrazione svolta da due tipi di civiltà, la cui de159
finizione, in un certo senso generica, ma in qualche modo illuminante,
può essere quella di una civiltà tradizionale, e tuttavia stanca ed usurata, come la napoletana; e di una civiltà, la pugliese, anch'essa tradizionale, ma arricchita dal fervore speculativo e d'iniziativa del triangolo
centrale della regione.
Due cordoni, dunque, uniscono la Lucania a Napoli e a Bari. Il
primo, più lungo e tormentato, passa attraverso le montagne il cui versante occidentale si affaccia sul Tirreno, a Maratea, sceiccato dal conte
Rivetti, calato dal Nord a farvi un centro estivo per miliardari il secondo è più breve ed agevole, poichè per scendere in pianura ha da scavalcare soltanto i modesti rilievi delle ultime Murge. Napoli e Bari sono le
case-madri, con le industrie, gli sbocchi commerciali, ferroviari e marittimi, i centri universitari. La Calabria, a dispetto della ferrovia che
collega le due regioni, celeberrima per la sua lentezza, l'inefficienza e i
passivi che accumula anno per anno, è un mondo lontano.
5
Forse come poche altre regioni meridionali, la Lucania ha registrato un movimento migratorio di tali proporzioni, da restare come
modello di studio tipico tra le regioni depresse dei bacini mediterranei.
Il motivo primo e fondamentale della fuga dalle terre, verificatosi dieci
o quindici anni fa, e tuttora agente, non è soltanto interno alla regione,
ma anche esterno ad essa: è rappresentato dal rapido sviluppo economico dell'intero paese e dell'Europa occidentale, ove si sono aperte alternative di lavoro e di guadagno per i contadini lucani. Il processo ha,
sotto alcuni aspetti, caratteristiche simili a quelle del grande flusso migratorio verificatosi tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del
nostro. Le differenze, tuttavia, sono profonde: All'emigrazione transoceanica di allora, si è sostituita quella prevalentemente diretta verso
l'interno e verso l'Europa; al profondo desiderio di ritorno ai paesi d'origine e all'agricoltura di molti emigrati d'una volta, si è sostituito un
160
desiderio di abbandono dell'agricoltura negli emigrati d'oggi, anche se
in questa prima fa e della ripresa dell'emigrazione non è ancora seguito
in misura rilevante l'esodo di interi nuclei familiari, e anche se sussiste
ancora una latente incertezza sul modo e il luogo definitivi di insediamento. Dice Rossi Doria: «Poichè sempre più chiaramente si accentua
e si definisce, specie tra i giovani, il ripudio dell'occupazione agricola
e l'aspirazione ai redditi e ai consumi delle società urbane a sviluppo
economico avanzato, è chiaro che il processo attuale non ha limiti in se
stesso, e si trova in questi anni nel bel mezzo di uno sviluppo destinato
inevitabilmente a continuare, anche se con qualche arresto e rallentamento per effetto di situazioni congiunturali particolari, o per le specifiche difficoltà di adattamento degli emigrati alle nuove condizioni».
Le previsioni nei riguardi dei futuri viluppi dell'esodo non possono ovviamente pretendere in queste condizioni alcuna sicurezza.
Troppe sono le incognite che possono influire su questo fenomeno. In
ogni caso, partendo dalla obiettiva valutazione di alcuni dati di fatto, e
in base ad alcune valide ipotesi, i limiti di questa incertezza possono
essere ragionevolmente ridotti. Il piano di sviluppo della regione, per
avere un senso, dev'essere realizzato in relazione non alla situazione
odierna, ma a quella che potrà raggiungere la sua piena maturità da qui
a vent'anni, verso il 1990. Per quanto tutto questo sia difficile, il piano
dovrà sforzarsi di formulare previsioni ragionate, riferite a quell'epoca
nei riguardi dei redditi pro-capite allora accettabili, dell'organizzazione
dell'economia regionale capace di assicurarli, delle forze di lavoro suscettibili di trovare occupazione in quell'economia a quel livello di redditi, e di conseguenza della popolazione complessiva della regione lucana in quell'epoca.
Per quel che riguarda i redditi, è sciocco e pericoloso tentare di
sfuggire al dilemma che gli economisti pongono da tempo in modo più
che esplicito: in una società caratterizzata dalla piena occupazione e da
un continuo accrescimento dei redditi personali non possono reggere a
lungo posizioni di reddito agricolo gravemente sperequate rispetto a
161
quelle prevalenti nella società circostante. La prospettiva di trattenere
nei paesi della Lucania popolazioni con redditi simili o di poco superiori a quelli fino a questo momento goduti è completamente errata. Chi
ancora si illude che questa possa essere una prospettiva reale, di fatto
presuppone un'ipotesi non valida e irreale se riferita a tempi lunghi,
chiusi in un cerchio di miseria, e quindi incapaci di aprirsi ad un sostanziale miglioramento delle condizioni economiche e civili. Poichè
non è su di una ipotesi di questo genere che il piano può essere realizzato, occorre da un lato ipotizzare redditi pro-capite di livello corrispondente a quello esistente in una società industriale sviluppata, e
dall'altro cercare un'organizzazione dell'economia in grado di assicurarli. Nella determinazione del livello dei redditi cui mirare, sarà certamente opportuno non «inseguire il miraggio dei redditi unitari molto
elevati, almeno a breve termine, raggiunti in altri paesi e certamente
raggiungibili anche nel nostro, allo stesso modo che può esser lecito
un certo posto all'ipotesi che, al di sopra di un certo livello, i redditi
agricoli possano reggere il confronto con redditi extragricoli più elevati, in considerazione del fatto che questi possano essere più incerti e
sprovvisti delle attrattive di una vita più indipendente e più vicina alla
natura».
Tenendo conto di queste considerazioni, come ipotesi di prima
approssimazione pare ragionevole mirare a redditi corrispondenti ad un
prodotto netto compreso tra 700 mila e un milione di lire 1967 per ogni
unità lavoratrice. Naturalmente, tale ipotesi corrisponde, per così dire,
ad uno stadio finale dell'evoluzione dell'economia della regione, da
raggiungersi entro venti-venticinque anni, e quindi lascia supporre livelli di reddito minori nel periodo intermedio. Malgrado questa limitazione, comunque, l'ipotesi è tale da dover essere presa a base del piano
fin dall'inizio, dal momento che da oggi è necessario creare i presupposti per un ordinamento dell'economia regionale in grado di assicurare
quei redditi al termine della fase evolutiva. Ciò non significa chiudere
la Lucania negli angusti limiti delle economie regionali, o nell'autarchi162
a. Tutt'altro. Occorre aprirla verso obiettivi che superino i confini storico-geografici, e portarla sul piano della più stretta collaborazione con le
altre regioni, esclusa la Calabria. In questo senso pare sia definitivamente orientata l'opera della Cassa. In questa direzione son volti gli interventi di tutte le istituzioni che si occupano del Sud.
6
Il professor Scardaccione ha avuto occasione di dire che la chiave di tutto, in Lucania, è l'acqua. Le infrastrutture fondamentali sono le
strade e le scuole, che stanno per essere di volta in volta realizzate. Ma
la chiave di volta resta l'acqua. C'è un progetto approvato dalla Cassa,
che interessa la Lucania, la Puglia e I'Irpinia. Pare che sfruttando le acque dei fiumi Fortore, Ofanto, Tara, Bradano, Basento, Cavone, Agri e
Sinni, si possano mettere insieme ben tre miliardi e trecento milioni di
metri cubi d'acqua all'anno, sufficienti per irrigare mezzo milione di ettari. Il progetto prevede, appunto, la costruzione di un grande canale
che, partendo dal Fortore, entri nella Capitanata, scenda lungo il mare
per la costa pugliese, arrivi nel Salento, quindi pieghi verso Metaponto,
risalga le valli lucane lungo i cinque fiumi che tagliano la regione, faccia perno sull'imponente diga del Pertusillo, e attraverso l'Irpinia si ricongiunga in Puglia sull'Ofanto. E' un quadrilatero di scorrimento che
dovrebbe trasformare anche la Lucania, tuttora sitibonda, in una regione irrigua e rigogliosa, in una fascia interamente metapontina. Ma,
com'è dato vedere, non è possibile continuare un'opera infrastrutturale
di grande respiro, se non la si imposta in funzione di almeno uno di
quei due cordoni di cui parlavamo. Acqua o industrie, commerci o università, strade e metanodotti , devono passare attraverso la terra delle
casemadri, in Puglia o in Campania. Per la Puglia il discorso è facile,
col triangolo che si è formato, e al quale la stessa Comunità Europea ha
finito con l'interessarsi. Per la Campania, oltre tutto, esiste anche una
ragione storica. Salerno e il Vallo, com'è noto, furono staccati durante,
163
il fascismo dalla regione lucana. Elevata a capoluogo di provincia, Salerno sostituì l'antifascista Caserta, ridotta a semplice comune. Con la
Repubblica, Caserta è tornata capoluogo, Salerno non è stata declassata, ma neanche ricongiunta alla regione d'origine. La Lucania, così, è
rimasta strozzata a nord-ovest, proprio nel punto in cui la Campania
vede originarsi i suoi grandi centri industriali, che attraverso Salerno,
Caserta, Napoli e la Valle del Sacco, sboccano nell'area della Capitale.
Le grandi macchine, qui, si sono fermate prima di Eboli. Per Eboli, sotto questa città arroccata su uno sperone incuneato nel cielo, passa per
ora il nastro dell'Autostrada. Forse è una promessa.
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L'altra Lucania è a sud, a ridosso delle colonne joniche che segnarono a Metaponto l'inizio della penetrazione greca. Metaponto è
l'immagine sintetica di quel che potrebbe essere questa regione se, in
pochi anni, si realizzasse una decisa volontà politica di riconquista e di
recupero civile ed economico del Sud. Per dare un nuovo volto al metapontino sono occorsi dieci anni di intenso lavoro, una forte ripresa
dell'iniziativa pubblica e privata, l'elettrificazione delle campagne e alcune dighe di sbarramento sui fiumi. Oggi, là dove erano le zone più
selvagge, aride e improduttive della Lucania, si susseguono lunghe file
di poderi coltivati a ulivi, viti, ortaggi. Le macchine agricole sono entrate in scena a recitare una parte di primo piano, insieme con la vasta
rete di canali irrigui che si estendono dalle terrazze alle pianure comprese tra Bernalda, Ginosa, Montescaglioso e Pisticci, prima di perdersi
sotto le terre argillose di Taranto salentina. A oriente del Basento, anche il Bradano offre le sue acque alla terra. Metaponto è al centro di
questo immenso bacino di bonifica, nel quale, per la prima volta nella
povera storia e nella poverissima economia della regione, si va realizzando un nuovo tipo di industrializzazione, quello dell'«agricoltura a
tre piani», come dicono i tecnici. E' l'agricoltura specializzata, quella
164
che rende di più. Dov'erano le stalle, ora ci sono i garages: quando vi
lasciano il trattore, i nuovi contadini tirano fuori l'utilitaria. Sulle terrazze bianche di calce svetta l'antenna televisiva. Un ettaro di questa
terra, allo stato attuale, cosa tre milioni di lire. Lavorando su cinque o
sei ettari, una famiglia-tipo di quattro persone può raggiungere un reddito annuo che sfiora i due milioni.
Questa splendida realtà ha già riflessi positivi. Si pensi che in
un'area di settanta chilometri quadrati, nella provincia di Matera, ove
vent'anni fa abitavano appena tremila persone, oggi ve ne sono ottomila. E vivono in grandissima parte dell'agricoltura. A Policoro l'antica
Eraclea: era poco meno di un vetusto borgo feudale, dominato da un
terribile castello - gli abitanti sono rapidamente saliti da cinquecento a
seimila. E già parlano un altro linguaggio: piano regolatore, turismo,
centri culturali, rilancio dell'artigianato e della piccola industria, sistemazione della zona costiera, richiamo di capitali. Di qui la gente non
scappa. L'industria ce l'ha in casa, a portata di mano. E' la terra. L'emigrazione non esiste come problema di fondo. Gli uomini non aspettano
il progresso, se lo fabbricano giorno per giorno. C'è lavoro, qui, per intere generazioni. Ed è lavoro da pionieri. Perchè il pionierismo è la
nuova frontiera della Lucania.
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A compiere il miracolo iniziale è stata la diga di San Giuliano.
Opera imponente, è costata dieci miliardi di lire. Irriga dodicimila ettari, cinquemila dei quali in terra pugliese. Ad ovest, la diga del Pertusillo segna l'altro caposaldo delle grandi infrastrutture irrigue. Quelle delle comunicazioni, oltre all'autostrada del Sole, hanno visto crescere la
bradanica e la basentana, che rompono l'isolamento della regione e la
inseriscono nei grandi circuiti del Mezzogiorno. Oltre Eboli, sia pure
timidamente, Cristo va spingendosi all'interno.
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La costituzione di un grande demanio silvo-pastorale (industrializzato) per le zone montane è obiettivo non nuovo, dal momento che
esso era già chiaro nei disegni dei nostri maggiori meridionalisti. Nitti
nel 1908 concludendo alla Camera uno dei suoi interventi in favore del
Mezzogiorno, ebbe a dire fra l'altro: «Per la Basilicata e la Calabria
sono all'incirca un milione di ettari da espropriare, e rimboschire (...) I
proprietari riceverebbero capitale circolante e potrebbero formare
l'industria armentizia; le sistemazioni idrauliche sarebbero possibili
(...) Noi dobbiamo preparare il grande demanio dello Stato, delle acque e dei boschi, che ci renderà più facile lo sviluppo industriale».
Rossi Doria, facendo sua l'idea, ha parlato di cento miliardi di lire per la montagna lucana, le attrezzature demaniali e le principali opere di difesa idraulica. Il vasto ranch dovrebbe comprendere sostanzialmente tutta la regione centro-settentrionale. Comunque, una superficie
minima di 450-500 mila ettari. Nessuno ignora, o può nascondersi, le
gravi difficoltà di ordine tecnico e finanziario che l'operazione presenta: ma se è vero, com'è vero, che non esiste altra razionale alternativa
per un organico processo di assestamento della economia montana regionale, quest'impegno va sostenuto, imposto se necessario, anche per
la particolare validità che i risultati assicurano. Tra gli altri, vanno messi in rilievo: la ricostituzione e gestione dei complessi boschivi a sicura
utilizzazione forestale, anche ai fini dello sviluppo turistico; il miglioramento dei pascoli e l'approntamento delle attrezzature al servizio degli allevamenti; l'organizzazione dei servizi di assistenza tecnica e sanitaria in favore degli allevatori, e dello sviluppo della cooperazione;
l'impegno per la conservazione del suolo e per la sistemazione dei bacini torrentizi e fluviali; l'assistenza agli emigranti, che dovrebbero esser posti nella condizione di liquidare al prezzo migliore le loro consistenze patrimoniali, per disporre dei mezzi indispensabili per il loro definitivo insediamento nei nuovi luoghi di lavoro.
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A questo punto occorre fare un discorso difficile. Decine di paesi, squallidi cimiteri di uomini, senza scuole, senza ospedali, senza servizi sanitari, senza uffici, stanno arrampicati su vette solitarie, lontani
dai grandi e piccoli centri vitali della regione. Furono costruiti, questi
covi di miseria, al tempo delle invasioni barbaresche, quando la costa e
la pianura erano infide, quando la malaria si annidò nell'anima dei lucani, e vi restò per intere generazioni, quando, fin dal 1865, si disboscarono le terre alte per cacciarvi i briganti borbonici e papalini. Lontani dalle campagne a buon reddito, dalle vie di comunicazione, dalle
strade ferrate, dai mercati, isolati in un grigio mondo di fantasmi remoti, questi villaggi racchiudono in tragici lager senza scampo migliaia di
uomini, destinati all'emigrazione, all'analfabetismo, al sottosviluppo. Vi
restano non solo perché la tradizione, il culto dei morti e delle memorie
del tempo ve li tengono legati. Ma soprattutto perchè non hanno alternative. Mancano le scelte più elementari. Qualcuno ha indicato una soluzione: facciamo emigrare dalla regione duecentomila uomini, sbattiamoli fuori dalla porta, l'Italia è grande, l'Europa lo è di più, poi cominciamo a guardarci intorno, e vediamo un pò quel che si può fare.
Avremmo così duecentomila nuovi negri bianchi sulle piazze italiane
ed europee, bassa forza da acquistare sottocosto per un nuovo boom illusorio.
La Lucania non è tra i primi posti nella graduatoria demografica.
Ma è quasi all'ultimo in quella di qualsiasi forma di sviluppo, di patrimonio infrastrutturale, di indice di progresso. Sulla altra parte della
barricata, i politici locali hanno paura di perdere una larga fetta di voti
con l'esilio di quattrocentomila braccia clientelari. Allora? Allora le cose stanno al punto di prima, la corda si tende, ma piano, nessuno ha interesse a spezzarla. E nessuno, soprattutto, avanza l'ipotesi, audace ma
non onirica, di trasferire questi uomini in pianura, o nelle colline, di
farli scendere dalle montagne, fermadovi solo le frane, di portarli nelle
grandi vallate, con scuole e ospedali e trattori e buone case e ambulatori e centri di addestramento. Prima che rovinino da se stessi, questi
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campi di concentramento vanno rasi al suolo. Qui entrerebbe in ballo
tutto un discorso sull'urbanistica sociale, che non è soltanto della Lucania, e forse non soltanto del Mezzogiorno. Ma è certo che non sarà possibile esprimersi in termini di futuro sviluppo a parità di redditi, nè sulla scorta della programmazione, nè su quella della politica regionale, nè
sull'altra, degli interventi speciali, fino a quando migliaia di giovani (età media: diciassette anni) saranno analfabeti di ritorno, coltiveranno la
terra come si gioca al lotto, pascoleranno le mandrie nel deserto delle
argille, oltre il quale sanno di non poter mai andare.
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Fu Pasquale Villari, se la memoria non mi tradisce, quand'era
ministro della Pubblica Istruzione nel primo gabinetto Rudinì, ad affidare a Renato Fucini l'incarico di scrivere una serie di articoli su terre
ed uomini del Napoletano e della Basilicata. Villari aveva capito che, a
sfatare la leggenda che aveva trasformato in una massa di banditi, di
sfaticati e di pezzenti due tra i popoli più destri, intelligenti e simpatici
della penisola, occorreva la penna agile e incisiva di uno scrittore insospettabile e spregiudicato, che «ad occhio nudo» guardasse aspetti, tradizioni, problemi, interessi antichi e nuovi delle due regioni, ricomponendone negli schemi più veritieri e significativi l'immagine integrale.
Questo vorremmo che si verificasse, ancora una volta, oggi, a distanza
di tanti anni, per la terra lucana. Che fosse quasi riscoperta, col cuore
schietto, da chi sa vedere e raccontare. Non è compito facile. La Lucania è terra varia e ricca, a modo suo. Ma profondamente sfiduciata. Nel
passato, l'aurea massima della «legge uguale per tutti» potè risvegliare
il senso critico dei lucani, che proprio nel diritto cercarono quella fiducia che, al fuoco delle passioni, pareva vacillare. Solo appoggiandosi al
diritto riuscirono - e talora riescono anche oggi - a mettere un pò d'ordine nell'intricatissima situazione che ha accompagnato sempre la loro
condizione umana. Occorrerebbe riscoprirla, questa terra di grandi giu168
risti,che correvano a Napoli ad ascoltare Settembrini e De Sanctis, e
che leggevano Petruccelli della Gattina, creatore del «colore» giornalistico il quale nel 1861, preso anche lui dalla « malattia del giudizio »,
che è tutta Lucana, ancor prima che partenopea, scriveva: «La Camera
italiana si compone di 443 deputati: ossia sopra una popolazione di
circa 23 milioni, un deputato ogni 60 mila abitanti. Sono già state convalidate 438 elezioni: presto saranno decise le altre. Di questi 438 deputati, a parte sette dimissionari e cinque morti che, beninteso, non
contano più, due sono principi, tre duchi, 29 conti; 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori o gran croci; 17 cavalieri, dei quali tre della
Legion d'Onore; un centinaio d'avvocati, 25 medici, 21 ingegneri; dieci
preti, fra cui Apollo Sanguinetti, uno dei più ostinati seccatori del Ministero ...; un prelato, quattro ammiragli, 23 generali, tredici magistrati; 52 professori o ex professori o che si danno come tali; tredici colonnelli, sei maggiori, cinque Consiglieri di Stato ...; un bey dell'Impero Ottomano, l'onorevole Paternostro; due ex dittatori, due ex prodittatori, nove ex ministri, sei o sette milionari, cinque banchieri, otto commercianti; 25 nobili senza titolo, altri senza professione; quattro soli
letterati, e Verdi, il maestro Verdi. Non si dirà, certo, che il nostro sia
un parlamento democratico. V'è tutto, meno il popolo».
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Si racconta che De Gasperi, al suo primo viaggio nel Meridione,
giunto a Matera, non riuscì a trattenere le lacrime quando fu fatto affacciare sulla squallida gora rocciosa, allora formicolante di povera
gente, che racchiudeva i «Sassi». Erano uomini e donne a nero, che parevano cacciati laggiù da una biblica maledizione, muti, inchiodati sotto un sole a picco, grottesche figure col tricolore issato sulle mani.
Niente di teatrale. Era una fetta di vita, come dicono i francesi. Un
grosso pezzo di storia, d'una civiltà alla rovescia, su cui erano passati
anni e regimi, dinastie e parlamenti e dittature, inchieste di scrittori e
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viaggi di ministri d'ogni ordine. Ma la Lucania restava là, come ora resta in tanti suoi paesi-cimitero dalle mura nere di tempo, a testimoniare,
senza più neanche indignazione, quanto fallace fu quella definizione
che, accomunandola alla Campania, la voleva felix.
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Ha scritto Sigfrido Ciccotti: «Bastano i brevi cenni che precedono per dare un'idea di quale potrebbe essere la ipotetica funzione
dell'Ente Regione in una ben ordinata politica di sviluppo delle aree
depresse. C'è da fare subito una considerazione: nel caso della Lucania, ed anche in altri casi, i confini della Regione amministrativa non
coincidono in nessun modo con i limiti naturali di aree omogenee per
le quali possa essere deciso un determinato tipo di intervento. ( ...) La
zona Maratea-Lagonegro ha caratteristiche tali che la avvicinano alle
contigue zone del Cilento, in provincia di Salerno; la zona di Baragliano versa le sue acque nel Tanagro, ed è naturalmente tributaria
della parte settentrionale della provincia di Salerno; il Melfese si affaccia a sua volta sulla valle dell'Ofanto, e qualsiasi sistemazione idraulica dovrà essere coordinata con le opere da realizzare nelle confinanti province di Foggia e di Bari. D'altra parte, il bacino del Bradano invade una parte della provincia di Bari e di Taranto, restando
compresi in questa zona alcuni centri importanti, come Gravina. In
conseguenza, un comprensorio delimitato secondo un piano razionale,
che tenesse in conto la necessità di una sistemazione integrale, lascerebbe fuori dai confini della Lucania, ad ovest a nord circa un quarto
della superficie totale, mentre annetterebbe all'est una larga striscia di
territorio pugliese. Per quanto si riferisce alla Lucania, la conclusione
è dunque che l'Ente Regione non avrebbe funzione alcuna in una politica coordinata di sviluppo, e che se una funzione si pretendesse assegnarle, essa risulterebbe artificiale, e quindi sorgente di interferenze,
di contrasti e di appesantimenti burocratici».
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Qui non c'entra una politica regionalista o antiregionalista. Qui si
guarda «alle cose». E le cose dicono che la Lucania non è regione omogenea che i lucani stessi stanno parte di qua, parte di là, parte nel
mezzo. Lucania e lucani restano col muro nel cuore. C’e anche da temere che l'antica, drammatica provvisorietà di questa condizione finisca col cristallizzarsi nel definitivo, compromettendo anche quelle basi
potenziali che gli ottimisti fanno coincidere con programmi futuribles,
ma che i pessimisti vedono sempre ancorate ad un passato di fame e di
abbandono. A toglierlo, quel muro, serve un miracolo. Un miracolo che
in queste terre si attende, con certosina pazienza, da secoli, e che in poesia è stato offerto, per tutti, da quel Rocco Scotellaro, poeta-contadino
di Tricarico, scoperto da Levi, sindaco del Fronte Popolare prima di
morire giovane e deluso per la mancanza di solidarietà dei suoi stessi
compagni di partito. Quel miracolo ha tanti nomi. O un nome solo:
progresso. Perché il progresso, in Lucania, per i lucani, ancor oggi, ha
la luminosa dimensione di un miraggio.
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LE " ISOLE" CALABRESI
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Narra splendidamente il faziosissimo Répaci: quando fu il giorno
della Calabria, Dio si trovò in pugno quindicimila chilometri quadrati
di argilla verde con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse
creare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un
maschio vigore creativo il Signore, e promise a se tesso di fare un capolavoro. Si mise all'opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella
della California e delle Hawai, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi ...
Volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie
contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati,
i mendicanti protetti, gl'infelici aiutati, le persone fiere leali socievoli e
ospitali, le bestie amate.
Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il
cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l'acqua abbondante, il
clima mite, il profumo delle erbe inebriante.
Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro, il Signore fu preso
da una dolce sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore
verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la
siccità, la mosca olearia, l'analfabetismo, il punto d'onore, la gelosia,
l'Onorata Società, la vendetta, l'omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l'emigrazione.
Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l'acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno della
giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza. Il bisogno
del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne
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soddisfatto del suo lavoro, e toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore.
Quando, aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la
rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di
collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente rasserenandosi, disse: - Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati, e
debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l'ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più
sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu, c'a notti è fatta.
Una notte che già contiene l'albore del giorno.
La Calabria, così, terra di violentissimi contrasti, prima ancora
che espressione geografica, significò fierezza, categoria morale.
2
Il diavolo diede alla Calabria, per i secoli, il primato dell'analfabetismo. Ma il Signore le assegnò Pitagora, Orfeo, Democede, Alemeone, Aristeo, Filolao, Zeleuco, Ibico, Clearco, Cassiodoro, San Nilo,
Gioachino da Fiore, Fra' Barlaam, un San Francesco, Telesio, il Parrasio, il Gravina, Campanella, Mattia Preti, Galluppi, Cilea, Corrado Alvaro e Lorenzo Calogero. Ebbe dalle forze dell'inferno le frane micidiali, le montagne calve, le lavine, i colli che smottano, i fiumi che straripano d'inverno e muoiono d'estate, i paesi che crollano, le valli che s'irrachitiscono. E su questa terra lunare crebbero la Cattolica, il Pathirion,
l'Evangeliario Purpureo, la Torre Normanna, i Pinakes, il santuario di
Persefone, il Battistero a Rotonda, i templi della Roccelletta e di Hera
Lacinia, le cattedrali, la zecca, la Basilica della Trinità, l'Abbaziale, i
duomi, la Badia Florense, il San Michele, i castelli, le mura, il tempio
di Artemide Facellide, le necropoli della prima età del ferro, i cimiteri
romani e la tomba di Alarico.
E la Calabria è la terra che ha dato più morti al Carso e a MarcinelIe, ad El Alamein e a Mattmark. Erano gli onesti calabresi della fe176
deltà coniugale, dell'amicizia per la pelle, dei patti mantenuti, del coraggio, dell'amore per il lavoro. E della delinquenza, della violenza,
della tracotanza provocatoria, dell'onore, del delitto per commissione,
della lupara da mafia e da camorra. Da 'ndranghete, come si dice quaggiù.
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Santino Fasano, cosentino, che si sente vecchio a trentaquattro
anni, (in Calabria i giovani invecchiano molto presto. E' un dato piscofisico non ancora esplorato. Sono oppressi dai pensieri, che premono
sulle energie spirituali, non per ucciderle, ma per dirozzarle), sta raccogliendo i suoi «racconti giovanili». In Morte di un cavallo dice di un'intera famiglia che precipita nella miseria, perchè, morto il cavallo, è venuto a mancare il lavoro, che qui è il miglior companatico del pane. Il
protagonista è un calabrese qualunque, d'un qualsiasi tempo. Un calabrese che cerca un altro cavallo. Chi lo ascolta? Chi lo aiuta? Nel suo
lamento è il rancore cupo, monotono, di un popolo. Infine, fasciato di
cenci grotteschi, si rivolge a un politico. Vorrebbe un prestito bancario
per un cavallo che è pane, lavoro, indipendenza. Un cavallo che è una
meta. Freddo, solenne, il politico lo ascolta. Poi lo fulmina: - Di che
partito sei? Terrorizzato, l'uomo non riesce a balbettare una risposta.
Ora sa che il suo cavallo è morto per sempre. E scompare, solo, con la
sua fame.
La fame che conosco meglio è quella che prospera in Calabria. E'
una fame immensa, entrata nell'aria che si respira e nel sangue che pulsa, nascosta come una sventura di famiglia, eterna e tenace nella sua
carica di febbre permanente. Scrisse Malaparte un anno prima di morire: «Sulla fame è fondata tutta la storia tutta la civiltà del popolo italiano, tutta l'arte italiana tutta la cultura italiana. Dalla fame, come
tutta la vita dal grembo di Cerere, come tutte le speranze dal grembo
di Maria, nascono tutte le nostre cose buone e tutte le nostre cose cat177
tive, tutte le nostre virtù e tutti i nostri vizi. Dalla fame son nate tutte le
miserie e tutte le grandezze della nostra storia nazionale. La fame è la
nostra mamma. La fame è la madre d'Italia. E non s'intende la storia
d'Italia se alla parola libertà, alla parola giustizia, non si sostituisce la
parola fame. Perché fame vuol dire speranza. In ogni altro paese del
mondo fame vuol dire disperazione».
In Calabria questa speranza si coltiva come un fiore di serra. Non
tanto a Reggio, a Cosenza, a Catanzaro, che viste da sole danno un'impressione falsa di questa regione. Quanto all'interno, ove la Calabria è
più grande e più vera.
5
Dice Rossi Doria che una regione è come un pezzo di carne: tanto d'osso e tanto di polpa. La Calabria ha più osso che polpa. E questa
terra non si può conoscere se non si va dalla parte dell'osso.
La penisola delle Calabrie, (una volta si usava il plurale, perchè
in effetti questa regione è composta di microcosmi diversi), ha il sessanta per cento del territorio al di sopra delle altitudini medie meridionali. Le grandi vette silane e aspromontine la spaccano tra Jonio e Tirreno, complicando i collegamenti interni. Queste lontananze fisiche
hanno determinato per secoli un distacco profondo tra i microcosmi calabresi. Il municipalismo è anche qui un male che sarà difficile abbattere. La Calahria, rotta da seicento fiumare – le maggiori - è frantumata
anche etnicamente. E divisa dal ghibellinismo di campanile. Lo spirito
di collaborazione è di là da venire. Perciò - anche - manca la crescita
economica. Tagliacarne ha scritto che oggi esistono due Sud: uno meno
povero, che comprende molta parte del Mezzogiorno; e l'altro più povero, che include Calabria e Lucania. Con qualche vantaggio a favore della seconda regione. Il reddito medio dei calabresi è ancora pari a circa
un terzo di quello dei milanesi. Allora qui siamo molto lontani dal
«nuovo Sud» riscontrabile altrove. Il conto alla rovescia è appena co178
minciato. Quindici o vent'anni fa si partiva letteralmente da zero. Ma
non si è andati lontano. A tratti si ha l'impressione che interi decenni di
politica meridionalistica, qui, siano passati invano, e che la Calabria sia
restata, come diceva Fortunato, «un vecchio carro merci abbandonato
su un binario morto», L'«osso» calabrese è ancora troppo grosso. Ed è
quest'osso che vieta il decollo. Sicchè lo scenario calabrese è ancora
antico. Per colpa dello Stato. E per colpa dei calabresi.
6
A nord di Cosenza la statale scende lungo la pianura del Crati. Ai
lati del «Vallo», sugli orli, come per miracolo, stanno i villaggi, arroccati sui colli o attaccati alle falde dei monti. I contadini - qui si chiamano ancora terrazzani - percorrono chilometri per raggiungere i campi
deserti e asciutti. Prima di Tarsia e Spezzano Albanese, si imbocca una
strada di bonifica, preferibile alla statale, che è stata « ammodernata»,
ma ha conservato lo stesso percorso, gli identici tornanti da capogiro,
per evitare una guerra civile fra i due paesi. Poi si scende nella valle
dell'Esaro: olivi, vigneti, distese di terre a maggese, nessun segno
dell'acqua per l'irrigazione. Il giro è largo, sullo fondo del Pollino. Verso lo Jonio, si apre la pianura di Sibari, la terra promessa della Calabria. Il panorama è tipico: macchie e greggi di pecore. Poi, gli oliveti e
gli agrumeti, piante giovani delle nuove coltivazioni, che vanno mutando la faccia di questa terra una volta malarica. Qui l'irrigazione è arrivata. Ma spesso l'acqua scorre invano. I proprietari preferiscono delittuosamente le vecchie colture e il pascolo.
Tuttavia, qui è un'altra Calabria. Le colture intensive hanno vinto
la palude. La colonizzazione ha scoperto le serre. Rombano alcune trattrici. Non è ancora Metaponto, ma solo per via delle logomachie. I calabresi hanno due vizi capitali d'estrazione tutta meridionale: la guerra
sulla bocca e il granchio nel cervello. Nel loro eden hanno realizzato
appena un caseificio, un conservificio e alcune industriole manifatturie179
re. I grandi progetti di industrializzazione di Sibari restano sulla carta.
Si pensa al grande porto petrolifero, ma continuano le violente polemiche sull'area industriale. Ogni villaggio, ogni frazione, ogni valle che
sfiori i cento metri quadrati, vorrebbe esser sede di una facoltà universitaria. Ci si trascina così da lustri nelle sabbie dell'immobilismo.
La terra di Sibari potrebbe diventare una nuova Ruhr. La piana,
perfettamente bonificata, è anche un punto di forza dell'agricoltura regionale. Ma c'è di più. Il turismo comincia a portare fin qui avanguardie di viaggiatori stranieri. Archeologia e poesia adagiano su questa
pianura dolce e un pò malinconica, rigata da lunghi cortei di salici e
pioppi, alte speranze. Sibari antica, Sibari di Diodoro e di Strabone, è
identificata. Si sa dov'è, se ne sono delimitate le mura. E' tra il Crati e il
Coscile, dove sta per sorgere il porto del petrolio, sui buoni fondali marini sottocosta. Le supertankers approderanno in queste acque, ove ancora domina, trasparente, l'aria del mito greco.
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Per raggiungere la ferrovia ionica sotto Rossano, città ducale, di
là dal Trionto, ci si deve arrampicare per la statale 106, segnata da stranissimi olivi secolari, nodosi e contorti, come le illustrazioni del Dorè.
Le fiumare scendono a dente di pettine, dilavando le campagne. E' la
terra delle vaste solitudini, dove coabitano i campieri e la brucellosi. A
picco sul mare, calanchi tra muraglie d'argilla. Reimur Kanter definì
questo paesaggio «di steppa marina». E' la montagna che, smottando,
scivola compatta nel mare. Cariati, Crùcoli, Cirò, Punta Alice, Melissa.
Paesi divorati a bocconi, un poco alla volta, mentre Cassa, Legge Speciale e Stato sprecano miliardi in inutili opere di rafforzamento. Anche
la montagna, in Calabria, ha la sua fame. E' una specie di moloch insaziabile, che ha spinto i calabresi a fuggire sulla costa, a creare doppioni
di paesi - le «marine» - accanto alla ferrovia, dove non giunge l'eco delle frane.
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Oltre Strongoli, è la valle del Neto, il fiume che scende dalla Sila, e sotto San Giovanni in Fiore cattura le acque dell'Arvo. Settemila
ettari sono irrigati a canali. Ma un'assurda mentalità contadina vuole
che vi pascolino pochi armenti. Sono ancora le bestie dei «patruni», epigoni baronali d'un millenario feudalesimo. Sul mare si è esiliata Crotone. Di qua sono le terre del Marchesato, l'ex latifondo. Le ciminiere
della Montecatini sono uno spettacolo sorprendente. Crotone è un'oasi
nel deserto calabrese. Certamente, l'unico centro industriale vero e proprio della regione. Su quarantamila abitanti, più di duemila lavorano
nelle fabbriche, e la città ha un ritmo che nessun'altra conosce quaggiù.
Tutt'intorno, se tira vento, è paesaggio da ghiblì, e i terrazzani insistono
a coltivare cereali. Silvicoltura e zootecnia son cose lontane, scienze da
marziani. La Cassa ha speso miliardi per la diga del Tacina, che ha fatto subito esplodere il verde. Ma qui vive ancora la generazione della
battaglia del grano. Fa parte dell'osso, ne è l'anima più tenace. La più
dura a morire.
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«Si ha l'impressione - scrisse nel '59 un gruppo di studiosi francesi della Fondazione Nazionale di Scienze Politiche di Parigi - che
questa punta estrema della penisola non sia stata raggiunta dalle correnti di pensiero e dai sistemi di vita moderni, e che non abbia assimilato la civiltà capitalistica e tecnica da cui altre regioni hanno saputo
trarre impulso al progresso».
Metà e metà, colpa italiana e calabrese. Alla classe dirigente locale è mancata la capacità di vedere i problemi nel loro insieme. Non
ha guardato lontano, e ha contribuito a disperdere in rivoli quello che
doveva essere un intervento d'urto. Allo Stato va la colpa dell'impegno
non mantenuto, delle leggi speciali applicate male, dello antico inganno
perpetrato a danno della regione. Così la Calabria è rimasta un'isola, o
un insieme di piccole isole, cui è difficile approdare. L'Italia moderna,
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quella dell'automazione, delle comunicazioni veloci, delle cattedrali
dell'industria, si è bloccata a Battipaglia. Di qua della Campania, dal
Pollino in giù, si è vent'anni indietro.
Per di più, oggi il sottosviluppo calabrese è anche di carattere
qualitativo, perchè continua quella massiccia emigrazione che ha già
profondamente impoverito la regione degli elementi più giovani, più
vivi e più preparati. La gente fugge verso il Nord, alla volta della Val
Padana e dell'Europa, e non vuole tornare indietro, perché non ha fiducia nel futuro della Calabria.
9
Si divide in due: Sila Greca e Sila Grande. La prima è più selvaggia, chiamata impropriamente greca per i paesi albanesi che si trovano nella sua area settentrionale. L'altra ha il cuore a Camigliatello. Al
di sopra dei milleduecento metri, il castagno cede al pino e al faggio.
Sono evidenti i risultati di secoli di disboscamento. Anni fa, su questa
montagna il terreno era brullo, la campagna in dilavamento. Oggi le ferite cominciano ad essere sanate. Esiste un programma di rimboschimenti per trecentomila ettari silani. Centomila son già in atto, con pino
laricio, particolarmente adatto quassù. A vederla com'è ora, la grande
Sila pare in convalescenza. L'altopiano si estende per circa settecentomila ettari, sui quali l'Opera Sila ha tentato l'insediamento. E' stato - mi
dicono - il primo tentativo al mondo di colonizzazione a milletrecento
metri di altitudine. I pareri in materia sono discordi. In generale, in Calabria, la riforma ha dato risultati poco positivi. E' stata più affrettata e
più disordinata, perchè nata sotto la spinta dei fatti di sangue di Caulonia, di Melissa, di Fragalà, di Crotone. Ad essa, comunque, si deve riconoscere l'azione di rottura sociale e psicologica in un ambiente chiuso e isolato da secoli. L'Opera Sila, però, è una gran macchina mangiasoldi che non dà risultati soddisfacenti, nè una contropartita adeguata.
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In Sila sono state insediate poco più di seicento famiglie. Non
sono molte, ma non era facile trasferire più gente in una terra così alta e
disabitata da sempre. L'insediamento è naturalmente accentrato: gruppi
di case da un minimo di sei fino a trenta, in modo da formare piccoli
villaggi. Vivono, queste famiglie, dell'agricoltura, e un poco anche del
turismo. Ma per ironia della sorte, mangiano burro alpino e formaggi
svizzeri.
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Per San Giovanni in Fiore si percorre la strada che Murat fece
tracciare dagli ingegneri francesi, e che fu l'unica arteria silana fino
all'unità d'Italia. I villaggi inchiodati sulle costole montane una volta
erano slegati tra loro, e ciascuno comunicava per proprio conto con le
vallate attraverso le trazzere familiari a Fra' Gioachino. In paese si arriva dopo grandi svolte. Il paesaggio muta bruscamente: nessun bosco;
uomini scuri in viso, con la berretta di traverso; monti d'un granito che
al sole e alla pioggia si disfano in uno squallore opprimente. Qui è la
Calabria più buia, la terra delle vedove di Mattmark, una grande comunità di ventimila disperati in un classico orizzonte da terra depressa. Le
donne, nel nero costume quasi monacale, esprimono, misti, dolore forza speranza. E' la gente che vive delle rimesse, del sistema previdenziale, dei piccoli lavori pubblici. E' quella che Alvaro chiamò la «Calabria
in fuga», senza forza motrice interna, senza un'economia locale, senza
impulsi. Le case sprofondano a cerchi concentrici in un paesaggio di
dossi pelati, frugati da un vento rabbioso che fa - grottescamente - l'aria
luminosa e chiari gli orizzonti. Qui, per poche lire, si può comprare un
tappeto da centoventimila nodi per metro quadrato, tagliati col corto
coltello a serramanico dalle mani esperte di giovani ragazze.
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Qualcuno ha detto che la Sila è una piccola Svizzera. In realtà, è
una terra romantica, che al tempo della riforma diciottomila contadini
si dichiararono disposti a raggiungere e possedere stabilmente. La Sila
si è aperta, gridavano allora da una valle all'altra. Ed erano bei giorni.
Ma dopo agosto, di colpo i boschi annerirono, la terra si trasformò in
una rossa fanghiglia, i torrenti ingrossarono, la montagna crepò come
una melagrana, e la Sila si chiuse su se stessa. Ci fu tanta neve, e vennero gli elicotteri a rifornire i contadini. Lassù, da allora, sono rimasti
in pochi, quei pochi che si sentono l'animo scuro dei traditori, perchè
hanno rotto col mondo e si sono serrati nel cuore troppo alto di una
montagna ingrata.
Otto secoli fa, l'abate Gioachino, il dantesco visionario profeta,
tentò qui una sua riforma, che in un certo modo riuscì, sopravanzando e
resistendo ancora oggi moltissimi aspetti della vita d'allora, non ultimo
il modo di vestire delle donne. Ma quelli erano uomini d'altro stampo,
d'una diversa matrice. Stare insieme sulla montagna, sentirsi uniti, forti,
liberi, mentre prima erano servi e divisi, era più naturale di quanto non
sia oggi. Oltre tutto, costoro non avevano una tradizione cui richiamarsi, eran loro a cominciare una nuova storia, la loro storia. Al contrario,
la gente salita oggi sull'altopiano ha dovuto rompere i rapporti d'amicizia e di parentado, si è allontanata dalla metropoli consumistica degli
assegnatari, si è calata in una buia dimensione di esilio che, col poco
vantaggio che ne viene, non ripaga nessuno di quanto ha lasciato.
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Sui 370 bacini in cui è divisa per ragioni di bonifica la Calabria,
quelli mediamente dissestati, e che reclamano decisi interventi sistemativi per evitare la minaccia che incombe a valle, interessano settecentomila ettari, cioè il 45 per cento della superficie regionale. Ci sono poi
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i bacini più sconvolti, quelli che costituiscono il «grande sfasciume»,
che si estendono per altri 140 mila ettari, pari a circa il dieci per cento
della superficie globale. Ci sono, poi, agli estremi, zone di vera e propria emergenza, e zone vulnerabili che richiedono in ogni caso l'intervento pubblico per la trasformazione in cespiti redditizi. Si va così verso il settanta per cento della superficie calabrese. Tempo fa, alcuni ottimisti avevano calcolato che duecento miliardi di lire avrebbero risanato questa tragica situazione. L'allora residente del Consiglio, Fanfani,
di ritorno da un viaggio in Calabria, aggiunse cinquanta miliardi «integrativi». Facciamo un pò di conti. In soli dieci anni - nei primi dieci
anni - la legge «pro Calabria» ha riscosso circa settecento miliardi di lire. Alla regione, nello stesso periodo, ne sono stati accreditati solo 268.
Nel dicembre '66 alla Camera fu dettagliatamente dimostrato che le opere realmente appaltate nel decennio superavano di poco gli 89 miliardi, mentre 1'«impegno» del governo sfiorava i 209 miliardi. In sintesi: malgrado due leggi speciali, lo Stato, la Cassa, qui si è operato fra
pianura e collina su circa 1'1,13 per cento del territorio dal '51 al '66,
bonificando soltanto 1'8,5 per cento di quanto era stato pianificato. La
Calabria ha il quattro per cento della popolazione italiana, produce il
due per cento del reddito nazionale e raggiunge l'1,74 per cento dei
consumi. Quando, nel '63, il reddito dell'italiano medio era di 534 mila
lire, quello del meridionale raggiungeva le 359 mila lire, quello calabrese appena le 268 mila lire. Ancora oggi l'agricoltura concorre a formare il reddito calabrese nella misura del 25,4 per cento, contro una
media del 22,1 del Mezzogiorno, del 13,4 dell'intero Paese e del 6,8 del
triangolo industriale. La pubblica amministrazione vi concorre col 22,6
per cento, con una quota quasi uguale a quella della Capitale!
Se dai dati economici si passa agli indici delle condizioni sociali
e delle produttività, le differenze sono ancora più evidenti. Ancora nel
'61-62 la popolazione contava il ventuno per cento di analfabeti, il ventitre per cento delle abitazioni erano sprovviste di acqua potabile e di
servizi igienici, i posti-letto negli istituti di cura erano notevolmente in185
feriori alla media nazionale. Tra il '51 e il '66, mentre la popolazione italiana è cresciuta dell'undici per cento e quella meridionale dell'otto
per cento, la popolazione residente in Calabria è aumentata solo
dell'1,49. Sotto questo profilo, la regione è superata soltanto dal Molise, che ha perduto non solo l'intero incremento naturale, ma anche una
grossa aliquota della popolazione residente nel '51. Infine, nel '66-67,
ogni persona occupata nel complesso delle varie attività ha prodotto
873 mila lire, contro una media nazionale di un milione e 519 mila lire,
e contro i due milioni e 304 mila della provincia di Milano. «Si ricava
da questi dati - ha scritto Tagliacarne - un insegnamento da non dimenticare: la piccola dimensione aziendale abbassa la produttività media
delle forze di lavoro occupate. Si deve quindi decisamente puntare su
maggiori dimensioni delle aziende: pure le piccole sono utili; ma si
può ripetere un proverbio orientale che dice: un milione di spilli non
fanno una spada».
13
«Fame, ossessione. Eppure, quando agli amministratori di Melissa, dopo i fatti di Fragalà, fu chiesto di c h e cosa avessero più
urgente bisogno, risposero che avrebbero gradito gli strumenti musicali per ricostituire la banda comunale.
Da allora, (...) trombe e tamburi a Melissa suonano da soli, e i
loro inni li ascoltano solo i morti della gran giornata contadina,
per i quali è stato ucciso il sonno della vita e il sonno della bara
n. (Da Calabria grande e amara , di Répaci ).
14
Ora ci sono l'autostrada, l'aeroporto di Sant'Eufemia, il porto
di Sibari, forse un ponte sullo Stretto. Si cerca di agganciare l'isola
calabrese, di cucirla alla Campania, alla Lucania, alla Sicilia, prima
186
che vada del tutto alla deriva, come un relitto roso dal tempo . I calabresi si aspettano miracoli, i loro giornali son pieni di grandi titoli, e ogni titolo accende un 'altra speranza, ogni speranza accende un
'altra polemica. ogni polemica rischia di far trascorrere altri anni
lunghi.
Si dovrebbe svestire l'arretratezza dell'antico costume della fierezza. Ma un profondo, radicato feudalesimo -borbonico, unitario,
fascista, repubblicano- ha ucciso l’umile lealtà di questi uomini, li ha
avvolti nel rancore, nella diffidenza, nella paura del futuro. Si stenta
ancora a riunificare «le Calabrie» in una Calabria. Tra Reggio e Catanzaro si vive una tolleranza sul filo del rasoio.
Bruzi, mamertini, itali, albanesi , greci, provano a diventar calabresi solo da qualche tempo. Si ricreano una matrice comune nella loro amara storia recente, di qualche anno o di qualche giorno fa.
E' una prova silenziosa ma tenace, una sfida all'individualismo, al mito tribale, alle chiusure patriarcali delle economie e dei rapporti umani e sociali. Ha inizio così l'anno uno della rivolta contro una storia e
una cronaca che si son fatte coro soltanto nei giorni della rabbia e del
lutto. Non è ancora una Calabria che si muove. E' una Calabria a
rimorchio, più trascinata dagli strattoni, dagli emboli, dagli infarti del
Mezzogiorno, che spinta da una forza interna cosciente e vivace.
Vivacità, creatività, sono di là da venire, anche se non ci si dovrà
sorprendere il giorno in cui le vedessimo apparire improvvisamente.
Calabria e calabresi hanno fantasia, passione, coraggio, e una buona
dose di spregiudicatezza. Quel che basta per tentare, dopo i secoli
dell'attesa, le fortunose vie del futuro.
187
SICILIA: UN ALTRO CONTINENTE
189
Nel 1967 l'esperimento autonomistico siciliano entrava nel suo
ventesimo anno. La prova non è stata confortante: vent'anni, venti crisi
di governo. Una crisi all'anno. Se si sottraggono i tempi tecnici per le
elezioni regionali, le convocazioni dell'assemblea, gli insediamenti, i
rimpasti, le vacanze, risulta che l'organo dell'autonomia siciliana ha superato il suo primo ventennio di attività quasi esclusivamente nel provocare, risolvere e riaprire crisi. In sintesi, non si dovrebbe parlare di
venti crisi, ma di un'unica, ininterrotta crisi, spezzata da qualche breve
intervallo di attività legislativa. E pensare che il campo di lavoro era
sterminato!
L'autonomia fu concessa all'isola in anticipo sulla Costituzione
della Repubblica, e in grandissima fretta, sotto la spinta di gravi avvenimenti: Giuliano scorazzava a pochi chilometri da Palermo; la mafia
ingigantiva; nei paesi e nelle città, sulla scorta del pensiero di Finocchiaro Aprile, si allargava il polipo separatista. Si volle una Sicilia con
pieni poteri, autorizzata a dettar legge in materia di agricoltura, bonifiche, industria, commercio, espropri, urbanistica, enti locali, opere pie,
scuole, turismo e mille altre cose. Al Presidente della Regione lo Statuto conferì il rango di ministro e perfino l'autorità di chiedere l'intervento delle forze armate dello Stato. Perchè non sorgesse l'idea della regione come istituto di fragile ossatura, si decretò che i suoi dipendenti
in nessun caso fossero pagati meno dei dipendenti dello Stato. Occorre
dire che, trascorsi vent'anni, in numerosi punti lo Statuto è rimasto inattuato. Solo su uno la Regione non ha avuto debolezze o incertezze, ed è
sul trattamento economico del personale. Per non sbagliare, il tratta-
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mento è superiore a quello degli statali e dei parastatali al di qua dello
Stretto.
Recentemente, un deputato ha rivolto al Parlamento nazionale
un’interrogazione per conoscere l'ammontare degli stipendi distribuiti
dalla regione siciliana, che risulta essere il più costoso tra gli organi
democratici d'Europa, L'interrogazione non ha avuto risposta. L'Assemblea è sovrana, hanno ribattuto a Palazzo dei Normanni. E i sovrani
non confermano nè smentiscono. Non son tenuti a mostrare rendiconti.
Anche sotto il Regno delle Due Sicilie i bilanci dei sovrani appartenevano all'inconoscibile.
2
Il trapasso delle «competenze» tra Regione e Stato non è ancora
finito. In particolare, sono sempre in viaggio fra Roma e Palermo le
contestazioni che riguardano la ripartizione dei tributi. La Sicilia reclama miliardi, lo Stato lesina la lira. Il più grave esempio di anarchia
delle competenze è dato dal problema dell'acqua. Scarseggia dappertutto, ma dappertutto c'è. Per dissetare i siciliani, le loro industrie e la loro
agricoltura, basterebbe concentrare tutti gli sforzi in questo settore per
un breve periodo di tempo. Invece si palleggiano la responsabilità i
comuni, la Regione, la Cassa per il Mezzogiorno, lo Stato, l'Ente per la
riforma agraria, i consorzi di bonifica. Risultato: nella maggior parte
dei casi, l'acqua c'è dove la gente se l'è tirata su col piccone. Molti acquedotti urbani e rurali sono del tempo di Francesco Crispi. Licata ha
fatto una mezza rivoluzione per ottenere dal Consiglio dei ministri un
pò di soldi per l'acquedotto. Canicattì ha visto finalmente accolto un
progetto per la cattura delle acque ad uso potabile. Progetto vecchissimo, inchiodato da un immobilismo durato un millennio: la fonte «Capo
d'Acqua», infatti, doveva essere imbrigliata intorno all'anno Mille,
quando fu scoperta dagli arabi.
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3
I cattivi rapporti tra isola e Stato divennero pessimi quando venne istituita a Roma la Corte Costituzionale. Una delle sue prime sentenze dichiarò «travolta» l'Alta Corte per la Sicilia, organo supremo che
avrebbe dovuto controllare garantire la legittimità degli atti delle autorità regionali. La Sicilia reagì con una bordata eccezionale. I suoi sottili
giuristi fecero osservare che la Corte Costituzionale aveva commesso
un abuso, e proprio sul terreno costituzionale non si poteva modificare
con una sentenza uno Statuto (quello siciliano) che la Costituzione aveva accolto e fatto proprio. Il ricorso fu respinto. L'Alta Corte si sciolse, ma la Sicilia non ha mai cessato di eccepire. A Roma, presso il Palazzo di Giustizia, ci sono ancora un tavolo e un cancelliere riservati alla « cara estinta». Ciò fa dire ai siciliani che l'Alta Corte non è morta,
ma «congelata».
E' nata così una questione che ci sembra delicata e straordinaria.
L'Alta Corte aveva il potere di porre in stato d'accusa il Presidente e gli
assessori regionali ove compissero reati nell’esercizi delle loro funzioni. Questo potere la Corte Costituzionale non ce l'ha. L'Alta Corte non
c'è più, o non dà segni di vita. Finisce che non esiste in tutto il territorio
della Repubblica italiana un organo che abbia l'autorità di elevare accuse e di sottoporre a giudizio Presidente e assessori siciliani. Essi sono i
soli cittadini italiani che possono commettere reati davanti agli occhi di
tutti, senza essere perseguiti.
4
Mi dicono: «Vuol sapere qual'è la causa prima di tante crisi siciliane? Facciamo il conto dei consiglieri regionali. Sono novanta. La
maggioranza è costituita da poco più della metà. Tolti i membri della
giunta, tolti i consiglieri che hanno qualche incarico nell’Assemblea,
con relativi vantaggi ed emolumenti, restano quattro o cinque consi193
glieri costretti a fare i portatori d'acqua. Sono questi che, di volta in
volta,nelle votazioni segrete, si uniscono alle opposizioni e provocano
le crisi. Alla base della loro azione di franchi tiratori ci sono astio personale, insoddisfazione, piccoli interessi. Ciò scatena una sorda reazione ... »,
La spiegazione è vicinissima al vero, ma non va al fondo delle
cose. C'è alla base il modo in cui sono stati intesi sia l'autonomia che
gli incarichi politici, e c'è soprattutto il sistema elettorale autonomistico, che è sbagliato. Il tutto fa sì che l'Assemblea regionale dimentichi i
problemi siciliani per alzare ben altri «polveroni». Si discute dell'atomica, del Vietnam, del razzismo, dei pensieri di Mao, della grandeur
nasseriana, e intanto i problemi reali dell'isola restano fermi. Nei corridoi, negli assessorati, negli uffici, nelle sedi dei partiti, nei collegi, ci si
accapiglia per i «posti» e per la fame delle clientele: si dibatte a fondo
il problema dei «tavolini», tra le cui gambe, diventate foresta, sono
seppellite le colonne di Selinunte e Agrigento. Mentre la fame, la sete,
l'arretratezza - prerogative della Sicilia reale - dilagano. E' un giro vizioso, dal quale non riesce a disimpegnarsi la classe politica espressa
dalla Sicilia: la più retrograda, insensibile, incapace, della storia italiana contemporanea. Non si metterà mai abbastanza in evidenza l'inettitudine di questa classe. La Sicilia parlò per prima di un piano per lo
sviluppo economico, fin dal governo Alessi. Dio sa a cos'è ridotto, oggi, quel piano.
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Il governo regionale è formato da un presidente e da quattordici
assessori. E' stato scritto che solo per questi ultimi sono a disposizione
seicento «segretari particolari» che costano alla regione oltre un miliardo e mezzo all'anno per gli stipendi, senza contare i contributi previdenziali, le spese di rappresentanza, le indennità di gabinetto, gli straordinari. Questi «seicento» sono il più agguerrito centro di potere
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dell'isola. Pratiche, concessioni, appalti, sovvenzioni, per giri di miliardi, passano dalle loro mani. Questa eccezionale burocrazia è il più inimmaginabile assurdo amministrativo del mondo, paragonabile soltanto a quello di certi Paesi dell'Africa o dell'America Latina. Per darne
un'immagine fisica, occorre pensarla come una piramide rovesciata,
che poggia sul vertice anzichè sulla base. Nelle alte cariche direttive ci
sono 1.342 funzionari, mentre i modesti impiegati di concetto sono
771. Un esercito di generali per comandare un plotone di soldati. Poi
c'è l'altra burocrazia, quella immensa, sterminata, degli enti pubblici,
semipubblici, quasi-privati, proliferata dalla prodigalità della regione,
che pochi sono riusciti a inquadrare nell'esattezza definitiva di una cifra. Parliamone un pò.
La burocrazia della Regione è composta - pare - da settemila dipendenti, che costano - pare - almeno trenta miliardi allo anno, su 160
di bilancio. La sua inefficienza, la sua lentezza, sono proverbiali. Per il
palazzo che ospita gli uffici della Regione, (un edificio a tre piani), ha
stilato 23 mila lettere, ha richiesto 150 mila visti, e un numero di fonogrammi che nessuno ha avuto il coraggio o la lealtà di precisare. Un
progetto di ridurre, perchè inutile, dello ottanta per cento il personale
direttivo e del trenta per cento quello subalterno è rimasto lettera morta.
Ci sono seicento uffici per un centinaio di «competenze». Che cos'è in
Sicilia una competenza? Quasi sempre, è l'avvio di una pratica per contributi. Ma è celebre l'esempio del contadino che, per comprare un mulo, fu costretto a ottenere settanta visti: ebbe quarantamila lire, pari al
costo di mezzo mulo, mentre l'intera operazione costò alla Regione 130
mila lire. Tutto ciò, in una regione ove - cosa mai accaduta altrove - si
era riusciti a far accettare ai sindacati il principio dello sfoltimento della burocrazia, per evitare i gravissimi errori commessi in campo nazionale.
Le spese per il personale amministrativo divorano le finanze di
380 comuni su 400. Nella sola Marsala gli stipendi dei «comunali» assorbono tre volte le entrate. Messina paga tre milioni l'ora per interessi
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passivi. A Marsala fu sequestrato anche il busto di Garibaldi, posto in
comune a ricordo del celebre sbarco. A Messina furono pegnorati tavolo e sedia del sindaco. Sono i risvolti grotteschi di vicende palesemente
drammatiche.
6
«May the judgement not be too heavy upon us», ha detto Eliot.
Verso di noi il giudizio non sia troppo severo. I termini sono stati riecheggiati a Palermo, nel parlamentino di serie B, con stipendi e indennità di serie A. Questo parlamento costa 3.550 milioni. Ventotto milioni vanno alle spese igieniche e di pulizia. Venti milioni al telefono,
quarantacinque per feste e spese di rappresentanza. Nel bilancio - semisegreto - non compare la voce delle tasse e delle trattenute. Sono i deputati che viaggiano di più. Ben 84 milioni l'anno vanno a « rimborsi
agli onorevoli deputati per viaggi aerei, via mare e in vagone letto »,
Una trentina di milioni prendono il via per spese ferroviarie per il personale in attività e in pensione, e 32 milioni per gli ex deputati. Tre milioni e mezzo l'anno si spendono in microfilms, per tramandare ai posteri l'attività legislativa degli amministratori; sette milioni e mezzo per
macchine calcolatrici e da scrivere. Il Senato nazionale, più tirchio,
spende solo quattro milioni. In beneficienza, l'Assemblea siciliana
spende venticinque milioni, contro i quattordici del nostro Parlamento.
Palazzo dei Normanni è un salotto di spreconi, che vorrebbero un giudizio non severo. Un deputato regionale ha il trattamento economico di
un senatore della Repubblica, ma è circondato da maggiore conforto,
ha più telefonate in franchigia, dispone di un bar più prodigo, non ha
tasse o trattenute, soprattutto ha, dall'amministrazione dell'Assemblea,
facoltà di contrarre un mutuo per metter su una casa: dodici milioni,
praticamente senza interessi, estinguibili in 105 (centocinque!) anni.
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I risultati di una politica amministrativa del genere sono fin troppo facilmente intuibili: la Regione non ha fondi per l'amministrazione
ordinaria, divorati dai deficit e dagli impegni correnti, che hanno già
assorbito le entrate siciliane fino al 1972, e bloccato fin da ora quelle
fino al 2006.
7
La Sicilia si era svegliata all'alba del '67 con una grande amarezza in corpo: i redditi fermi o in diminuzione, l'agricoltura in difficoltà,
l'industria a pezzi, e una bufera di scandali che scoperchiava case e
grattacieli, presidenze d'amministrazione (a Catania) e interi consigli
provinciali (a Palermo). L'isola era nell'occhio del tifone. Nel 1970
questi amministratori si troveranno in pieno maremoto, di fronte alla
scadenza di debiti favolosi. Se non si provvederà tempestivamente, sarà
la bancarotta. Alcuni parlano di un Vespro. Altri, più realisti, cercano
soluzioni interlocutorie. La Sicilia «zona franca» è l'ultima trovata, l'ultima idea «rivoluzionaria» nata in queste latitudini. Non è un'idea nuovissima. Già ai tempi di Cavour si pensava di concedere all'isola esenzioni fiscali e daziarie. Ma è nuova la concezione con cui si vorrebbe
realizzare questa iniziativa che potrebbe, da sola, risolvere di colpo tutti
i problemi della Sicilia, o provocarne il disfacimento totale.
La seconda ipotesi è più verosimile. Tuttavia gli ideatori l'hanno
tradotta in disegno di legge, rimasto per ora in un cassetto dell'Assemblea. I «franchisti» vedono la Sicilia in dimensione supernazionale,
come un'entità da integrare nel Mercato Comune Europeo, al di fuori
dei particolari interessi italiani. Negli ultimi dieci anni, essi dicono, l'Italia ha cercato i suoi sbocchi economici nell'Europa centrale; autostrade, trafori, oleodotti, son sorti in funzione dei più rapidi scambi commerciali fra l'Italia che produce, cioè il Centro-Nord, e l'Europa. Il Sud,
continuano, è rimasto estraneo al Mec, anzi ha subito gravi danni, e la
Sicilia è stata la più sacrificata. Per i commerci con l'Africa e il Medio
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Oriente sarebbe stato assai più razionale scegliere l'isola come base di
industrializzazione intensiva. Invece è stata preferita la Puglia, per le
pressioni della Francia e per motivi politici interni. Il quarto Centro siderurgico di Taranto ha favorito anche lo sviluppo industriale di Bari e
di altri comprensori, mentre la Sicilia decadeva sempre più: negli ultimi
otto anni è scesa dal quindicesimo al diciassettesimo posto nella graduatoria nazionale del reddito annuo pro-capite. Tutte le iniziative siciliane per industrializzare l'isola, proseguono, si sono risolte in un colossale fallimento per incapacità, disonestà, inconfessabili interessi politici. La zona franca, concludono, «è la nostra ultima spiaggia. Se non la
realizziamo, scenderemo ancor più rapidamente nella graduatoria dei
redditi».
Apparentemente, il ragionamento è logico. Sotto certi aspetti, la
Sicilia è sull'orlo del crepaccio. Roma dovrebbe fare qualcosa, ma è
sorda e lontana. Il giorno in cui le navi, gli aerei, i treni, potessero
giungere in Sicilia senza controlli doganali, si formerebbe il più formidabile mercato libero del mondo, più potente di Singapore e di Hong
Kong, perchè sarebbe al centro del Mediterraneo, cioè in una zona ad
alto livello economico. Per l'isola sarebbe il bengodi. Gli imprenditori
d'ogni categoria avrebbero interesse a installarvi industrie perchè non
pagherebbero dogane, i commerci avrebbero sviluppi inimmaginabili. I
porti di Messina, Palermo, Trapani e Augusta sbaraccherebbero quelli
di Genova, Napoli, Venezia, Bari, Trieste. Per l'economia nazionale sarebbe un cataclisma. I «monopoli» del Nord dovrebbero fare i conti con
questo terremoto.
Ma è stato obiettato, la mafia non l'hanno inventata i monopoli
settentrionali. E una zona franca sarebbe l'occasione d'oro per la mafia.
Hong Kong, Singapore, Tangeri, degli anni fra le due guerre, sarebbero
briciole in confronto a ciò che diventerebbe la Sicilia zona franca in
mano a coloro che l'hanno saccheggiata anche con i controlli doganali.
Dicono gli ideatori: per evitare che tutta l'isola diventi un focolaio mediterraneo, un centro del vizio e del contrabbando, si può ricorrere a
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due o tre zone franche, nei porti, per esempio, di Trapani, Messina,
Augusta, posti sotto il controllo delle autorità comunitarie. Ma ciò è intraducibile in termini reali. Occorrerebbe circondare le aree franche con
mura medioevali. E neppure basterebbe. Le donne di Messina rischiavano tranquillamente la pelle per contrabbandare un pò di sale a Reggio
Calabria. Ma - si obietta ancora - Malta si prepara ad essere zona franca, e soppianterà la Sicilia, che, insieme all'Italia, non farà più in tempo
a difendersi. E' probabile che Malta stia preparando il colpo, spinta da
problemi ben diversi da quelli siciliani. Ma ci difendiamo benissimo da
Tangeri e da Gibilterra. Perchè dovremmo temere Malta? Se qualcosa
c'è da temere, è la mafia siciliana, che sopravvive a tutto, ai mutamenti
di rotta politica, ai terremoti, alla fame e al benessere, alle Commissioni ministeriali e alle retate della polizia, al confino e alla galera. La zona franca non è concepibile neanche nella prospettiva di un'Europa unita. E le pressioni francesi - presunte o reali - non avrebbero avuto che
un peso minimo, se in Sicilia non si fossero alternati, in tante crisi, centinaia di custodi del disordine, migliaia di feroci termiti annidate nel
cuore dell'isola, e se i governi non fossero stati, (tranne poche, lodevoli
eccezioni), malgoverno, anarchia, neofeudalesimo. Il male della Sicilia
è dentro la Sicilia stessa. Il cataclisma non dev'essere provocato che
all'interno dell'isola. E non altrove.
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Le grandi terre della mafia sono quelle in cui, dal 1868 ad oggi,
si sono verificati i più terribili terremoti. Sono le aree della Sicilia occidentale, e hanno itinerari precisi: Mazzarino, Agrigento, Raffadali,
Mussomeli, Menfi, Corleone, Castelvetrano, Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Termini Imerese, Montelepre,
Misilmeri. Il cuore delle terre mafìose e della Sicilia occidentale è Corleone. Il cuore dell'organizzazione è Palermo. La commissione antimafia ha fatto molte cose buone. Ma troppe ancora restano da fare, almeno
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fino a che mille delinquenti - non sono di più - continueranno a tenere
in pugno la Sicilia. E fino a che l'ideale mafioso non sarà sradicato dalla mentalità siciliana. Sulla tomba di Don Calò Vizzini, temutissimo
capomafia per oltre mezzo secolo, una lapide nel cimitero di Villalba
così ne descrive le gesta: «Comm. Calogero Vizzini / precorse ed attuò
la riforma agraria / sollevò le sorti di tutte le ingiustizie / fu difensore
del diritto dei deboli / raggiungendo altezze mai toccate». Questa sublime figura di difensore del diritto dei deboli fu imputata, in vita, quale mandante di omicidio, e di un lungo rosario di reati dalla rapina
all'abigeato, dalla truffa aggravata all'estorsione, dalla corruzione di
pubblici funzionari alla bancarotta fraudolenta. Eppure, fu considerato
«uomo d'onore», Fu un magistrato a tesserne l'elogio funebre in un
commosso articolo.
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La mafia tradizionale, quella dei feudi, l'organizzazione che si
incentrava sui gabellotti e sui campieri, sopravvive in alcuni centri
dell'interno, in dimensioni ormai microscopiche. Il colpo mortale lo
ebbe nel 1950, con la legge di riforma agraria che limitò in Sicilia il diritto di proprietà terriera a soli duecento ettari, e con la legge GulloSegni, che vietò la subconcessione delle affittanze. Michele Pantaleone,
che da anni, come saggista, svolge il ruolo di pubblico accusatore della
mafia, così scriveva nel '61 nel suo volume «Mafia e Politica» : «Oggi,
in Sicilia, il latifondo, almeno nella sua estensione, va scomparendo; la
proprietà coltivatrice diretta è diventata prevalente; nell'isola sono
state costruite centinaia di case coloniche e chilometri di viabilità minore e capillare; dalla zona del latifondo sono scomparse le tipiche figure dei campieri, dei soprastanti e dei burdunari».
Dal '61 ad oggi altre cose sono accadute: l'arresto di numerosi
mafiosi, l'invio a domicilio coatto di centinaia di altri mafiosi, la stretta
sorveglianza dei sospetti. Le uccisioni a lupara nelle campagne sono
200
quasi del tutto scomparse. Nè si verificano più gli assassini a catena che
in altri tempi resero tristemente famose certe latitudini della Sicilia. Ma
si può parlare della fine totale della mafia? Virgilio Titone, dell'università di Palermo, afferma: «La mafia come vera organizzazione non esiste. Essa è un'espressione dell'anima siciliana. E' una mentalità ( ...)
Mafioso potrei essere anch'io. Perchè la mafia, appunto, è un fenomeno di costume e occorre molto tempo perché scompaia». Nella sua
«Storia della mafia e del costume», Titone espone la teoria dell'intrastoria: «Tutta la vita che un popolo ha vissuto dai tempi più remoti non
si è cancellata. Vive ancora e contribuisce al determinarsi dell'azione
nel presente. Siamo quelli che vogliamo essere, ma anche quelli che furono i nostri avi».
Il professor Titone è siciliano, ama la sua terra e il suo popolo,
ma è severissimo nei giudizi. Una sua definizione della mafia è illuminante: «La mafia è il governo o ne esercita alcune funzioni dove si respinge o non si riconosce un governo. E' una interclasse, e cioè esercita la funzione, talvolta utile, di mettere in comunicazione ciò che sarebbe altrimenti incomunicabile. Ma la causa comune del fenomeno è
l'inerzia morale di un popolo» .
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Se così è, non si può parlare di morte della mafia. Abbattuta, o
quasi, quella che era un'organizzazione senza leggi e senza riti, ma che
esercitava un potere effettivo, resta un modo di pensare e di agire. L'intrastoria, (vale a dire le stratificazioni inconsapevoli che determinano
un modo di pensare), non si liquida comminando qualche anno di confino, nè nello spazio di una o due generazioni. Sicchè si può dire che
oggi esistano due tipi di mafia: quel che è sopravvissuto della grande
mafia tradizionale; e la giovane mafia, che si è spostata in città, e a volte addirittura fuori dell'isola. La prima ha adeguato i propri metodi ai
tempi. «Infatti - dice Pantaleone - dallo sfruttamento organizzato
201
dell'agricoltura e della pastorizia si è passati agli appalti, agli uffici
dell'Ente Regione, agli istituti finanziari, al contrabbando internazionale, alla conquista del mercato della grande città, alla conquista del
potere politico». Com'è che i «vecchi» sono sopravvissuti? Perchè in
Sicilia famiglia e amico sono una religione. Dice Titone: «E da qui nasce la negazione dello Stato. Succede a volte che queste forme si esprimano addirittura in delinquenza»,
Del resto, già nell'inchiesta Sonnino - Franchetti si rilevava:
«Mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua
influenza personale, indipendentemente dall'azione dell'autorità e delle
leggi», E' esattamente quel che Loschiavo ha definito un « fenomeno
criminogeno ». Può essere, eroe, anche un fenomeno non criminoso,
ma esso genera comunque il delitto perchè evita la legge, la scavalca,
contravviene ad essa.
C'è poi l'altra mafia, quella giovane, sempre delinquente, spostata
nelle grandi città, ove funge da interclasse in determinati settori degli
affari, presente anche in alcune zone della penisola. In «A ciascuno il
suo», Sciascia afferma: «L'Italia è un così felice paese che, quando si
cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è
stabilita una in lingua ...» E' la mafia che ha sostituito la lupara col mitra e con gli attentati al plastico. E' quella degli spacci internazionali
sottobanco, dei rackets edilizi, delle avventure bancarie. Neanche la
scuola sfugge alla regola dello sfruttamento. Mussomeli, in provincia di
Caltanissetta, ha quindicimila abitanti. Il numero degli scolari vi legittimerebbe appena l'esistenza di tre doposcuola. Ne sono stati istituiti fino a ottantasette. Siamo fuori da ogni logica. Ma le autorità hanno approvato, apponendo timbri e firme. Le scuole elementari di Agrigento
non hanno il doposcuola, anzi devono fare turni doppi e tripli per mancanza di aule. Intanto, in altri centri attigui, imprenditori edili e mafiosi
riescono a metter su edifici scolastici forniti di tutto punto, gremiti di
insegnanti e di personale di servizio, con abbondanza superiore a quel202
la riscontrabile nei paesi più ricchi d'Europa o degli Stati Uniti. Il pubblico denaro si spreca in un modo assurdo. Mentre si costruiscono villaggi che nessuno abita, scuole che nessuno frequenta, strade che non
portano in alcun luogo, il viaggio tra Catania e Trapani resta tuttora
un’interminabile avventura. Neanche i santi vengono risparmiati dalla
mafia. Si continua a costruir chiese su chiese, in città ove già ce ne sono in ogni angolo di strada, a prezzi favolosi. E un'altissima percentuale di siciliani vivono ancora in grigi tuguri.
11
E veniamo agli affari giudiziari. Nell'estate del '65 gli onorevoli
Elkan (democristiano) e Assennato (comunista) vanno a vedere come
mai in Sicilia tanti mafiosi siano assolti per insufficienza di prove.
Esaminano i procedimenti giudiziari svoltisi dal gennaio '46 al dicembre 61 a Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta, e scoprono
cose strabilianti. Prima fra tutte, l'usanza, da parte del magistrato inquirente, di «svilire i risultati delle indagini di polizia giudiziaria e
di non dare rilievo alle dichiarazioni degli organi di polizia». Viceversa, i giudici istruttori, (non tutti, ma molti), danno il massimo
credito alle proteste di innocenza degli imputati, giudicando vera e
giusta la semplice ritrattazione delle confessioni già rese. Nella sentenza dell'11 luglio 1959 a carico di Luciano Liggio e altri tre mafiosi,
imputati dell'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, la confessione resa da costoro alla polizia viene definita «stragiudiziale», cioè estranea al procedimento giuridico. La loro ritrattazione, invece, è considerata «giudiziale», cioè elemento valido e decisivo per assolverli i verbali della polizia o dei carabinieri, in molti casi, sono considerati dal magistrato inquirente «propalazioni stragiudiziali», quasi si trattasse di chiacchiere, di voci, di insinuazioni fantastiche, anzichè di confessioni in piena regola.
Come mai queste procedure sbalorditive non hanno messo in al203
larme prima il ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della
Magistratura? Semplice: perchè nessuna indagine «ufficiale» era stata
fatta in Italia. E nel nostro Paese, finchè non si aprono indagini
ufficiali, nulla può accadere. Inchieste giornalistiche, interrogazioni
parlamentari, proteste di semplici cittadini, lasciano il tempo che
trovano. Era necessario giungere ad uno stato generale di
insopportabilità perchè il Parlamento si decidesse ad agire. E questo
stato l'hanno creato i mafiosi stessi, con le sparatorie degli « anni
ruggenti» di Palermo e con la strage di Ciaculli. E nel '65, finalmente,
l'operato di quei magistrati siciliani, doppiamente mafiosi, che
avevano bloccato la bilancia della giustizia sul segno tragico e
grottesco dell'insufficienza di prove, è stato messo a fuoco con
estrema precisione. Solo così il Consiglio Superiore della
Magistratura ha potuto prendere atto delle vicende fantagiuridiche su
cui si è fondata molta storia criminale della Sicilia per interi decenni.
12
Dunque, la Sicilia va tutta intera alla deriva? Certamente, sarebbe ingeneroso affermarlo. Scandali e corruzione da Palermo ad Agrigento; economia disastrata; assessori provinciali, sindaci, alti finanzieri, persino un magistrato, denunciati per peculato o per interesse privato: la Sicilia dei poveri assiste sgomenta alla forsennata dilapidazione
dei miliardi, fa il conto delle occasioni mancate, delle promesse non
mantenute, delle omertà mafiose e politiche, delle frane che hanno cancellato mezza Agrigento, o deturpato l'inimitabile scenario barocco di
Noto, o impedito la vista del mare a Palermo, dei fantasmi di avveniristiche città rurali in cui non circolano nè l'uomo nè il benessere, delle
città industriali ove si diceva di voler trasformare la vita, mentre è stata
lasciata identica a se stessa; dei paesi arroccati ancora in cima ai colli,
il mulo legato al letto del padrone; degli ospedali che attendono da anni
di essere inaugurati; dei nuclei industriali per modo di dire; dei nuclei
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rurali come Riesi, ove mille lire al giorno sono ancora un sogno da realizzare. Di questa Sicilia dolente si parla solo per i delitti clamorosi,
passionali o di mafia. Ma c'è un'altra Sicilia. C'è un gruppo di isole
nell'isola, alcune plaghe ove tutto va cambiando faccia, e a differenza
delle aree dell'interno e dell'ovest, ove spesso si ha l'impressione che
tutto debba crollare da un momento all'altro sulle pietre accartocciate
dalle vampe del sole, sorgono le cattedrali dell'industria, i castelli d'acciaio, le grandi torri di ghisa.
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Siracusa, anzi «le Siracuse», vanno guardate dall'alto del mastio
del Castello Eurialo, la fortezza più poderosa dell'antichità, costruita in
sei anni, dal 402 al 397, da Dionigi il Vecchio, l'astuto, invitto tiranno
che dominava su quei centri, (Epipoli, Neapoli, Tiche, Acradina, Ortigia), che oggi han dato il nome al capoluogo, e che allora avevano
sconfitto Atene, scuola del mondo, e non temevano Cartagine, terrore
di Roma. Il concetto della pluralità di Siracusa riecheggia ai nostri
tempi. A nord si prolunga lo sperone di Augusta, con quel settore di rada noto come porto megarese. Al tempo di Dionigi si chiamava Xifonia, e i siracusani l'avevano rasa al suolo. Ora è il vero porto di Siracusa, l'unico ad avere pontili metallici, senza moli. Attracco di grandi petroliere, nel '49 registrò 175 mila tonnellate di naviglio in transito, ora
ha largamente superato i trentun milioni scavalcando Genova nella graduatoria nazionale, e portandosi al livello dei più grandi empori petroliferi d'Europa. Questa è la prima Siracusa. La seconda è a sud, è la più
importante di tutte, quella che ha «miracolato» la città-madre. E' Priolo,
la più grossa concentrazione industriale dell'isola. Una storia dello sviluppo di Priolo, anche per sommi capi, sarebbe interessante ma prolissa. Basterà ricordare che nacque con l'installazione delle raffinerie Rasiom, ora controllate dalla Esso, e che quell'installazione avvenne per
caso e per avventura: il vetusto impianto fu acquistato a peso nel Texas,
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smontato, caricato su una Liberty, e rimontato qui, ove le agevolazioni
fiscali e la possibilità di utilizzare le attrezzature in disarmo della marina da guerra apparvero incoraggianti. Poi venne il resto. Una scuola
professionale continua a qualificare cinquecento unità all'anno. L'azienda ne ha assunte dodicimila, ha investito 500 miliardi, produce e
vende per duecento miliardi annui. Se ci fossero più infrastrutture, impiego e produzione dilagherebbero. Ci sono disegni programmatici per
cose del genere. Ma Siracusa ha due primati in contrasto fra loro: è la
città più evoluta del Sud, ed è anche quella cha ha ottenuto negli ultimi
vent'anni, per opere pubbliche, i più esigui stanziamenti. In «Processo
alla Sicilia», Giuseppe Fava scrive di Siracusa cose verissime. Tirando
le somme, rileva che questa città, che viveva dei proventi dell'agricoltura, del turismo, della pesca, della pastorizia, questa città derelitta e bellissima, si è trasformata con le sue forze e con i suoi soldi in una tecnopoli. La disoccupazione non esiste come problema di fondo. Per analfabetismo e criminalità è ultima nella graduatoria isolana; per livello di
vita, la prima. Forse la città non è più bella come una volta, per via
dell'impetuoso sviluppo edilizio. Ma molti ruderi, molti incanti, restano
ancora incontaminati. Il progresso, si sa, comporta molte stragi, puntuali perfidie. C'è una gran cittadella dello sport, ma non si restaura il bel
teatro comunale. Le officine sorgono sotto le mura che videro crescere
Gelone, Dionigi, Agatocle, Archimede, Teocrito. La domenica si svuotano. Il nuovo «tiranno» di Siracusa, vanto di una città in cui muore la
cultura, è l'arbitro Concetto Lo Bello.
14
Operosa, fervida, realistica, Catania è una città travolgente, unica
in Occidente per la voracità aggressiva del successo, in commercio o
nell'imbroglio, dotata di erompenti energie, instancabile nella corsa a
creare, a costruire, a inventarsi ogni giorno attività nuove, ad investire
in imprese sempre più imponenti per dimensioni e reddito. Alcuni di206
cono che Catania è la Milano del Sud. Il raffronto è restrittivo. Catania
è quel che è San Paolo per il Brasile, anche per il disordine edilizio e la
trasandatezza di certi suoi quartieri. E' una fungaia di mezzi grattacieli,
che a tratti conferiscono alla città un aspetto surrealistico. E questi
mezzi grattacieli vanno camminando prodigiosamente, divorandosi la
montagna più bella del mondo. Nonostante le polemiche spesso furibonde, i catanesi sono orgogliosi del loro spirito di grandeur. Avranno
la strada più grande d'Europa, Corso Sicilia, al centro dell'area ove una
volta sorgeva il quartiere di San Berillo. Per radere al suolo questo covo di miseria, e avere la loro «Fifth Avenue», i catanesi chiamarono architetti e urbanisti famosi, da Aalto a Nervi. Poi affidarono i lavori ad
un'impresa privata, che diede mano alle ruspe. Era il '57. Il verminaio
di San Berillo scomparve, tranne che in un angolo, salvato dal piccone,
ove oggi s'annida il più vasto bordello del mondo, maggiore anche di
quello che nella storia di Amburgo ha fornito il più colorito materiale ai
capitoli dedicati alla turpitudine.
Mentre i catanesi corrono e lavorano, la città cresce, si gonfia,
promette un cataclisma di problemi urbanistici, sociali, umani.
Vent'anni fa c'erano appena duecentomila abitanti. Oggi il cemento armato ne racchiude quasi mezzo milione. I disoccupati sono diecimila,
ma i catanesi dicono che lo sono per vocazione. Gaudenti, chiassosi,
volitivi, arruffoni, questi uomini sono in perpetua corsa verso nuovi
traguardi produttivistici.
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Ragusa passeggia sul petrolio, dorme sul petrolio, ma non mangia col petrolio. Ne sente l'acre odore proveniente dai pennelli di fuoco
delle ciminiere degli stabilimenti petrolchimici. L'oro nero scorre sotto
i piedi dei ragusani, convogliato nel pipeline, il grosso serpente che si
snoda dal territorio dipendente alla zona industriale di Siracusa. Lungo
quel serpente non fugge solo il petrolio, ma anche la grande speranza
207
sorta allorchè nel sottosuolo ragusano furono scoperte le prime falde.
Allora si scatenò una gran febbre collettiva e la città pensò di poter
cambiare volto in un batter d'occhio. La disillusione è stata grande. Il
risultato, una rassegnazione e una indifferenza maggiori di quelle riscontrabili nel passato. Anche nei pozzi, nelle mostruose torri d'acciaio,
pochi sono i ragusani che lavorano. Vi si parla molto veneto e molto
milanese. Ragusa si è così rifugiata nell'agricoltura. L'Ente di sviluppo
vi ha investito miliardi, i risultati non sono stati negativi. Se ci fosse un
pò d'acqua in più, il boom agricolo qui si potrebbe moltiplicare all'infinito. Un fatto non comune: qui non si ha ricordo del latifondo. I contadini sono coltivatori diretti in virtù di una distribuzione delle grandi terre effettuata nel Sei e nel Settecento.
16
«La vostra autonomia potrà costituire tanto un gran bene come
un gran male»: così ammonì De Gasperi, insediando a Palermo la Assemblea regionale. Ed è persuasione di tutti, ormai, che l'isola non se
ne sia giovata. In particolare, non se ne è giovata Palermo, capitale
propizia agli scandali, con un reddito di 320 miliardi all’ anno, metà dei
quali bloccati dalle spese per gli stipendi. La borsa palermitana è la più
floscia delle borse italiane. La sola cospicua speculazione è stata quella
edilizia, attività al novanta per cento mafiosa. Se si dovesse sintetizzare
in un simbolo tutta una storia di scempi, citeremmo la distruzione di
Villa Deliella, stupendamente liberty, perpetrata dalla notte di un sabato al mattino del successivo lunedì (un giorno e due notti, alla luce dei
riflettori). Distruzione ampia, fulminea e illegale.
La grande nobiltà palermitana è ormai una potenza finita. I nuovi
ricchi sono gli appaltatori. II fatto nuovo consiste nell'affermarsi di una
classe borghese e nello stabilizzarsi di una classe operaia sufficientemente organizzate e consapevoli. Gli operai palermitani sono 56 mila.
L'industria, (metalmeccanica, tessile, elettronica, alimentare), non è
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grama. Dei 502 miliardi di reddito industriale prodotti in Sicilia nel '65,
ben 156 sono palermitani. Si badi che il reddito unito delle province di
Siracusa e Catania ha raggiunto i 157 miliardi, uno in più rispetto a Palermo. Tranne che per l'industria chimica, questa città è in testa in ogni
settore.
La borghesia palermitana, però, cela il bubbone della burocrazia.
E il mondo operaio è alle prese col problema dei sindacati, sordi e indifferenti. La lentocrazia, l'anarchia, gli abusi, gli scandali, le colpe della classe politica, straordinariamente conservatrice, e quelle ancora più
lontane del clientelismo e del trasformismo, impediscono un grande
«decollo». Sicchè Palermo resta ancora una città sospesa a mezz'aria.
Come forse le maggiori città siciliane, o tutt'intera la Sicilia.
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A dimostrar ciò non è indispensabile descrivere il mondo del trapanese, che pure è molto interessante dal punto di vista politico, economico, sociologico. Qui si è ancora fermi ad un evo remoto. Mancano
strade e industrie moderne. Agricoltura e pastorizia sono l'asse intorno
a cui ruotano sistemi di vita che son restati patriarcali. Questa è una Sicilia senza prospettive. E' sufficiente restare nella «Sicilia di domani»,
in quella industrializzata, col petrolio e l'acciaio, i porti e gli scali aerei.
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Dalle alture precipiti di Caltagirone, l'orizzonte verso Gela si infittisce di ciminiere, comignoli, tubi verticali, serpentine, sfere di acciaio, e il cielo ha già il sapore d'Africa. Un panorama avveniristico, ove
la tecnologia ha raggiunto i vertici più alti. Il complesso petrolchimico
è un prodigio di tecnica in un mondo che ha conservato un'immobilità
medioevale. Ovunque arrivi, l'industria provoca rivoluzioni a catena. In
parte, ciò è accaduto a Siracusa. A Gela, no. Quando fu scoperto il pe209
trolio sotto le sabbiose lande gelesi una ventata di ottimismo traversò la
città. La mafia tentò di allungare le mani, ma fu subito fatta fuori. Ed
era un buon auspicio. L'Anic assunse tremila uomini (ma solo settecento gelesi), e mise su la cattedrale petrolchimica. Poi commise un «errore»: a pochi chilometri, realizzò un villaggio immerso nel verde, intersecato da strade nitide, con scuole, cliniche, campo di tiro a volo, supermercato con aria condizionata, piste da ballo, piscina, snack bar. Era
il più moderno complesso urbano della Sicilia, addossato al più antico
nucleo urbano dell'isola. Il trauma degli esclusi è stato tremendo. Le
conseguenze? Ecco un esempio. Percorrendo la strada verso Ragusa,
dopo dieci chilometri si entra nel territorio di Vittoria. Dieci
chilometri, e si cade in un altro mondo. Tutta la campagna intorno a
Vittoria, a Comiso, agli altri villaggi confinanti, è un'esplosione di serre
razionali in cui si coltivano i primaticci che prendono le vie dell'Europa. Sono duemila ettari di terra, contro i 780 della riviera ligure, su cui
trovano impiego settemila contadini e circa diecimila addetti alla conservazione, all'imballaggio, all'esportazione. Duemila ettari che producono una massa di salari di cinquanta miliardi l'anno.
Intorno a Gela - stessa terra, stesso sole - nulla. Nessuno degli
esperimenti tentati con successo dieci chilometri più in là. Gela non è
un piccolo villaggio. E' un centro urbano con quasi settanta mila abitanti, cioè con le dimensioni di una città come Alesandria. Ma ha l'aspetto
decadente, disfatto, putrido, d'un quartiere indiano. La Regione incassa
decine di miliardi per quanto vi si produce, oltre alle royalties che l'Anic versa direttamente a Palermo. I gelesi non hanno torto quando lamentano che poco o niente viene reinvestito nel loro territorio. Ma è
certo che la presenza della civiltà industriale non è servita a rompere la
crosta della loro civiltà contadina. Gela non riesce a liberarsi dal torpore che la immobilizza da sempre.
210
19
Terra di contraddizioni, la Sicilia. Terra che da sola basterebbe a
dar filo da torcere agli storici del costume. Terra dalle immense possibilità, compromesse da un'antica e nuova filibustering politica, economica, mafiosa, che fa di questa regione un grande esperimento mancato. Forse la più grave sventura dell'isola è la sua storia. Non meno
grande, tuttavia, è l'altra colpa, quella che ha visto la Sicilia darsi strutture politiche e amministrative del tutto simili a quelle centrali, capitoline. Ha seguito la via che avrebbe dovuto evitare ad ogni costo.
Di nuovo c'è qualche timido tentativo di autocritica, che va prendendo piede in questi tempi. Ed è l'unico raggio di luce in un grigio
mondo di intrighi, di bizantinismi, di false aspirazioni, che non hanno
riscontro nella storia di alcun'altra terra europea. Occorre liberarsi dai
disonesti, è stato scritto. Forse quest'isola deve liberarsi dalla disonestà
delle sue tradizioni e delle ideologie viste da una prospettiva sbagliata,
con un'ottica ingannatrice. Potenzialmente, la Sicilia è l'area più ricca
del Mezzogiorno. L'unica che possa contare da tempo su redditi minerari, agricoli e industriali di rilievo. Ma la sua è stata, finora, una ricchezza passiva, che ha lasciato paesi senza acqua, senza scuole, senza
lavoro, senza giovani, senza pane, senza speranza. Una ricchezza che
ha tramandato il centro della regione col colore del deserto, gli uomini
con le braccia appese al sole, le donne imprigionate nello scialle nero.
Fino a che questa ricchezza non sarà moltiplicata da una nuova coscienza civica ed etica, la Sicilia resterà un'isola, un mondo a parte, una
terra bruciata. Un altro continente, che vecchi ingranaggi culturali e ideologici disancorano dal futuro, e tengono legato ad una terribile storia quotidiana.
211
NAPOLI SENZA IL REGNO
213
Il 27 gennaio 1962 lo Stato, con una legge speciale, assegnò a
Napoli un prestito di cento miliardi di lire per aiutarla a risolvere i suoi
problemi. Era l'ultima di una serie di leggi speciali, (la «Risorgimento
Economico », del 1904, mi pare che sia stata la prima; certo, fu la più
lunga, con ben quaranta articoli), nessuna delle quali è riuscita, come
dicono i partenopei, a risolvere « il resto di niente ». Si è sempre ripetuta la storia delle magniloquenti e inutili leggi speciali italiane. Perchè?
Forse per ottusità mentale. La legge per Napoli parte affermando che il
comune conta un milione e 200 mila abitanti. Poi si scopre che la metropoli comincia a Cuma e finisce a Castellammare. A far piano, son
due milioni e mezzo di uomini. La legge parla di un centro e di una periferia. Niente del genere. Si passa da un marciapiede all'altro, in qualsiasi via della città, ed è come trasferirsi di colpo da un agglomerato
urbano ad un altro. Da una società, da un tipo di economia, da una civiltà, ad un'altra. Sono isole che si alternano all'interno del tessuto urbano.
2
Almeno trecentomila persone al mattino, a Napoli, si svegliano
ed escono per andare «a vedè addò schiara juorno». E io ho il sospetto
che siano sempre i trecentomila che al censimento del Tanucci, due secoli fa, risultarono senza definitiva attività. Sono una gran fetta degli
abitanti dei vicoli, i sottocittadini della sottocittà. Si riforniscono ai loro
sottomercati: per i vestiti a Ponte di Casanova, per le scarpe alla Duchesca e alla Maddalena, per i viveri ai Vergini o a Pignasecca, per le
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sigarette, il sapone e gli elettrodomestici a Forcella. L'itinerario
dell'«economia da vicolo» è lungo e tortuoso, ma non conduce in alcun
luogo. I problemi di Napoli sono, in parte, queste isole chiuse, che sono
inespugnabili. Vi abitano, vivono e muoiono decine di migliaia di famiglie, cui l'insediamento di vasti e moderni complessi industriali, oggi, non direbbe quasi niente. Le nuove industrie chiamerebbero, com'è
accaduto, personale da altri luoghi. I partenopei restano venditori di
fumo, di canzoni, di taralli, di pelle, di figli, di serpenti, di sole, di vulve, di mare, di catuozzi, di miraggi, di nacchere, di gobbi, di talismani,
di bocche da fame, di camorristi e di iellatori.
Sono società fisse. La situazione non muta se dai quartieri del
cuore di Napoli si passa agli agglomerati periferici: i comuni, che da
una trentina d'anni in qua sono entrati a far parte della città, non hanno
mutato se non in peggio la loro condizione. Alcuni erano comuni agricoli: l'insediamento urbano ha lasciato senza lavoro gli agricoltori, ha
tolto loro la terra. E ne son venuti fuori altri venditori di cianfrusaglie.
Tutto questo vuol dire che nella provincia lo spostamento verso l'esterno del sottoproletariato napoletano non ha modificato affatto la situazione. Nè è servito ad eliminare le «isole» che congestionano la città.
Perchè si dovrebbe spostare quando centro e periferia sono la stessa cosa? Anche le industrie, rispetto alle dimensioni della metropoli, sono
trascurabili: eccezion fatta per l'Italsider, che occupa meno di seimila
unità, e di un manipolo di altri impianti che non ne totalizzano tutti insieme più di quattromila, le altre sono attività che servono la città. Il
porto, anch'esso, tolti i carichi per gli stabilimenti di Bagnoli e le raffinerie, fornisce merci che nella massima parte restano a Napoli. Ma allora, di che vive Napoli? Facciamo un calcolo sommario. Tolte diecimila o poco più famiglie che attingono le risorse agli impianti industriali citati, ci sono tra dipendenti dell'amministrazione comunale, impiegati ai trasporti, alle comunicazioni, e alle aziende di luce, acqua e
gas, circa 85 mila persone. E costituiscono il grosso dei produttori di
reddito. Aggiungiamo 6.500 funzionari degli istituti di credito e per le
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assicurazioni; ci sono circa trentamila edili; pochi altri sono produttori
di un reddito la cui fonte è fuori della città: turisti, peripatetiche, strozzini, magliari, contrabbandieri. Il resto -commercianti, avvocati, ambulanti, medici, maghi, professori, invasati, geometri, liberatori di malocchio, sognatori, giocatori del lotto, fino ai trecentomila che dalle statistiche risultano senza reddito fisso- vivono dei primi. Ossia, in buona
parte, Napoli campa attingendo ai fondi che usa per amministrarsi:
Quando aveva un Regno la cosa era fattibile. Ma il Regno non c'e più.
E' rimasto solo il meccanismo. Anzi, in qualche modo cresciuto e si è
perfezionato. Mentre si divora, Napoli si moltiplica. E' la sua specialità.
Ed è il suo dramma più remoto, che può avere un giorno o l'altro ripercussioni da cataclisma. Sicchè, scegliere il modo di spendere quei cento
miliardi, ancora una volta; può aver dato i brividi, come decidere da
che parte dovesse calare la lava che ribolliva in un cratere perchè facesse meno danno.
3
Qualche anno fa, in un bel saggio di Giuseppe Galasso sulla storia del Mezzogiorno, è stata ricordata la sostanziale dipendenza di alcuni principali aspetti progressivi di questa storia da un «aiuto esterno
»: la monarchia spagnola nella lotta contro i particolarismi baronali alla
fine del secolo XV; la potenza francese durante la Repubblica del 1799
e nel periodo murattiano; l'intervento garibaldino-piemontese nel 1860.
Sulla necessità assoluta di interventi «nordici» per la soluzione dei problemi meridionali era giunto a concordare nel secondo dopoguerra, in
contrasto con le sue speranze del periodo fascista, anche Salvemini,
(«L'Italia meridionale non può fare da sè»). Poi è venuto il tempo degli
interventi ordinari e straordinari nel Sud. Ha beneficiato Napoli in misura adeguata alla politica meridionalistica svolta? Rispondere a questa
domanda richiederebbe un esame accurato. Si potrebbe osservare, innanzitutto che la posizione economica relativa di Napoli nel Mezzo217
giorno forse peggiorata fra il '51 ed oggi. In quell'anno il reddito medio
nella provincia napoletana superava del 39,2 per cento quello medio del
Mezzogiorno, mentre nel '63 questo dislivello si era ridotto al 26,7, e
oggi è ulteriormente calato. Il fatto non è di per sè negativo : esso rientra in un salutare processo di redistribuzione delle parti fra l'antica capitale e il resto del regno meridionale. Questo processo è stato favorito da
fattori geografici o da deliberati indirizzi di politica delle nuove localizzazioni industriali, che spiegano largamente gli sviluppi di alcune aree meridionali. Tuttavia, dove il ritmo di progresso dell'area napoletana diventa un sintomo negativo è quando lo si valuta non come « decadenza relativa» di Napoli rispetto al Sud nel suo insieme, ma come insoddisfacente sviluppo della economia napoletana in rapporto all'enorme addensamento demografico che questa città rappresenta. Al censimento del '61 la densità provinciale per chilometro quadrato di Napoli
(2.067 abitanti) era pari a circa quattro volte la densità provinciale di
Roma (519), quasi due volte quella di Milano (1.145 ), sette-otto-nove
volte le densità provinciali di Torino (267), Bari (246), Palermo (222).
In questo gran calderone ribolle e si agita un'umanità promiscua, irrazionale, ottimistica e depressa, fatalistica e affamata, chiusa nel circolo
vizioso delle camarille e delle cosche di quartiere di vicolo di caseggiato, di famiglia, inesauribile per le sue risorse di vita, quotidiana, ma negata ad ogni forma di apertura economico-sociale moderna e futurible.
4
Il partenopeo è legato al suo quartiere, alla sua città, ai suoi espedienti e alla sua fame, come ad una matrice inalienabile. Dalla esperienza dell'ultimo ventennio si ricava che a Napoli non immigrano nuove braccia, ma nemmeno ne emigrano quelle esistenti, per disoccupate
o sottoccupate che siano. Fra l'altro, il tasso d'incremento della popolazione resta ancora enorme. La natalità registra un tasso 26-27 per mille
annuo, contro il 15-16 della provincia di Milano, Questo dell'addensa218
mento demografico e del suo continuo accentuarsi rappresenta un «dato» economico di base della situazione partenopea: la circostanza che la
distingue nettamente dalla situazione, pur particolare, delle aree agricole povere del Sud, per le quali l'emigrazione ha rappresentato, in bene e
in male, uno strumento di decompressione demografica. Gli studi del
Comitato per la programmazione dicono che la Campania avrà nel
1991 sei milioni di abitanti. Come frenare l'esplosione demografica? E'
grottesca la affermazione secondo cui la tendenza ad una redistribuzione demografica interna alla regione verrà rafforzata dalla politica di
programmazione. Questa è la programmazione come mito, come magia. Come pillola. Al contrario, è un problema di educazione (come
chiamare diversamente un processo di maturazione civile e sociale dei
partenopei e dei meridionali?)
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Napoli ha sempre sintetizzato tutte le contraddizioni del Sud.
Ebbe, in Italia, la prima ferrovia e la prima metropolitana: ha oggi le linee più lente e le reti urbane coi bilanci più dissestati. Ha un Istituto per
gli Studi Storici, fondato da Croce, e due fra le Accademie più rinomate dal lontano '700; un Istituto di Fisica Nucleare; la migliore scuola
italiana di specializzazione in Economia e Agraria, a Portici; il più celebre centro di lingue straniere. E su Napoli pesa un. pauroso indice di
analfabetismo. Si diserta la scuola d'obbligo, che altrove segna il limite
del nuovo analfabetismo. Ha una delle migliori università del CentroSud, ma vi si continua ad «andare a legge», a prendere l'avvocatura,
perchè Napoli è la terra del subcavillo e del gesto ciceroniano, la terra
di Porzio e De Nicola. La metropoli ha un'area agricola unica in Europa
(con una produzione media per ettaro che sfiora il milione e trecentomila lire), seguita in Italia solo dall'hinterland di Imperia (con un valore medio per ettaro inferiore della metà rispetto a quello partenopeo),
ma registra la maggiore frantumazione terriera del vecchio continente,
219
con mezzo ettaro per abitante. Ha risorse umane di primo piano, ma le
spreca nel circuito dell'individualismo, o, al massimo, della casta tribale e familiare. Napoli ha fantasia, inventiva, capacità intellettuali singolarissime, destrezza, ma se le gioca col sole e col mare, le colora col
bianco di Pulcinella, vestendole a deserto, e col nero di Pulcinella, figurandole a lutto. I mille colori che esplodono nei giorni di «pazziate» al
Pallonetto, di «struscio» a Foria, di «pariolismo» al Vomero, son falsi
scopi, inganni ottici. Napoli è bianca e nera. La sua immensa miseria,
la condizione umana, la guerriglia per la sopravvivenza, non hanno,
non possono avere colore che non sia bianco o nero. Chi dice il contrario è un poeta. Sono bianchi e neri le strade, i giardini. i vicoli, le salite,
i bassi, gli ammezzati, i quartieri, i circondari, tutta Napoli. E' tutto un
bianco sertao, su cui gli uomini disegnano trame intricate e inimitabili
di vicende quotidiane, bizzarri scorci di vita, avventure umane fuori
d'ogni logica, d'ogni razionalità, cioè fuori d'ogni comune principio
scientifico, sociologico, applicabile di regola a qualsiasi altro insediamento umano. E' un mondo che fa impazzire l'ago della bussola degli
urbanisti, dei sociologhi, degli economisti, dei politici, degli assistenti
sociali. Questa città ha una dimensione che sfugge ad ogni controllo.
Mi divertono tutti quelli che dicono che questi uomini hanno assorbito
la mentalità spagnolesca, che sono stati condizionati dal costume delle
dominazioni francesi. Occorrerebbe scoprire meglio l'anima partenopea, scavarle dentro, arrivare all’osso, e tirar fuori tutto quello che ha di
levantino, di ellenistico, di bizantino, di orientale. Perchè Napoli è orientale negli uomini e nelle donne, nelle case e nelle piazze, nelle seduzioni che offre, nelle poesie che canta, nella fame che soffre, nei lutti
che piange, nell'aria che respira, nei pensieri che esprime, nei sogni in
cui muore nel sole in cui brucia. Spesso, camminando per queste vie,
mi son chiesto perchè mai Napoli è una città senza grandi eroi, senza
grandi pazzi, senza grandi martiri. Poi ho scoperto che qui è tanto radicato l'individualismo, sono tanto impastati con la fibra partenopea l'eroismo, la follia, il martirio, che non poteva uscir fuori che una gran razza
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uguale, tutta arruffapopolo, a mezza strada tra Cola di Rienzo e Savonarola. Sicchè vien fuori anche qui un fatto corale, un coro di voci
bianche che ha cantato per secoli le sue nere sventure, le dominazioni,
il servilismo, le rivolte, il sangue e l'amore, la forca e l'alcova.
6
Napoli era città ricca. Sotto i borboni e dopo, sotto i piemontesi.
Si diceva, allora, che a sud di Napoli c'era il Sud. Poi venne il protezionismo, e vennero l'aggressione economica, l'aggressione sociale, l'aggressione militare, pacificatrice.
Napoli diventò profondo Sud. E vi è rimasta anche dopo la ultima guerra, quando avrebbe potuto fare grandi cose, mentre ha visto
passare a nord Salerno e Caserta, Bagnoli e Pomigliano. In queste aree
si chiamano i grandi ingegneri, i Tocchetti, i Beguinot, i Mazzuolo, li si
fa lavorare giorno e notte, devono tirar fuori piani di industrializzazione
che guardino lontano, che vadano oltre il '70, che respirino aria di futuro, ma che comincino ad essere realizzati immediatamente. A Napoli ci
si muove con la palla al piede, si fanno piani per un domani che è già
oggi, mentre il porto invecchia, la città si sfascia e sprofonda, la demografia prorompe, i servizi si intasano, il settore terziario, anche illegale,
ha cifre da vertigine. Napoli arretra, mentre la Campania avanza. Napoli incancrenisce, mentre intorno si decolla. Napoli muore impazzendo
di gioia, con un veicolo ogni otto abitanti (indice d'incremento superiore alla media nazionale), con decine di miliardi di cambiali protestate
(indice superiore a quelli di Milano e Torino insieme), con Piedigrotta,
con un paio di inutili fiere, con le case dello scugnizzo, con i santoni e
gli ispirati, con le processioni e i miracoli. Napoli va morendo un poco
alla volta, dopo essersi illusa di poter sopravvivere col meccanismo del
suo Regno. E' restata una città sempre più sola, con i suoi sogni traditi,
con i suoi fantasmi esiliati, con i suoi canti spenti.
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E' il silenzioso, triste epilogo d'una capitale che ha covato per
troppo tempo, nel suo seno, la speranza del privilegio politico, geografico, storico, con le sue classi verticalizzate, i suoi padroni intoccabili,
le sue cosche inattaccabili, i suoi vizi capitali inalienabili. Neapolis, la
nuova città, è un vecchio groviglio di cimiteri, su cui scende, a volte, di
notte, un lamento di luna.
7
Una volta, a batter moneta, in Italia, erano tre banche, due delle
quali nel Mezzogiorno: il Banco di Sicilia, e il Banco di Napoli. Entrambe perdettero il privilegio a favore del terzo istituto, la Banca Nazionale, oggi d'Italia. Il Banco di Sicilia si votò ad una storia non sempre limpida. Quello di Napoli alla politica meridionalistica. Parlò di
tempi lunghi. E credo che se fossimo stati ad ascoltarlo, ci saremmo
trovati di fronte a tempi remoti.
8
Quando il programma operativo del Consorzio industriale partenopeo dice che nei prossimi dieci anni saranno creati a Napoli centomila nuovi posti di lavoro, o parla per enigmi, o invita a credere nelle pratiche magiche. Antonio Raho dice che Napoli è una casbah, cui è finora
mancato il recupero alla vita moderna, e senza la promozione dei comuni periferici alla dimensione di città medie. E' un mondo che ancora
attende la rottura dei condizionamenti culturali ed ecologici che costituiscono una remora di fondo allo sviluppo economico e civile. Ora,
Napoli ha tirato a campare fino ad oggi con le leggi speciali e con gli
aiuti ordinari e straordinari statali collaterali. Ha dimostrato, cioè, di
non essere in grado di crearsi un regime di autosufficienza economicoproduttiva. Manca di propulsione interna, perchè povera, disastrata, urbanisticamente disordinata, indebitata fino al collo, sovrappopolata, an222
timprenditoriale, con commerci che si fermano ai consumi interni. Per
creare centomila posti di lavoro che non siano passivi in partenza, è necessario eliminare prima questi mali antichi. Per far ciò, occorreranno
anni di lavoro duro, tenace, che non conosca soste. Nè lo Stato, nè i
privati sono in vena di scialare, ed è dimostrato che realizzano impianti
solo là dove ci sono infrastrutture, personale preparato o idoneo ad essere preparato, e convenienza economica a produrre. In una parola, dove c'è ordine in tutti i settori. Altrove farebbero bancarotta. Così si ha
l'impressione che certe cose le dicano a Napoli per farla morire felice, o
meno infelice. Gliele dicono i figli di Napoli, i figli dell'improvvisazione, che non consultano parametri reali, ma il libro dei sogni, e dalla
nuova Smorfia estraggono cifre fantapolitiche o fantaeconomiche. Con
le quali si può costruire soltanto un futuro di delusioni.
223
L'ALTRA CAMPANIA
225
La vera Campania, quella che non ha forse il fascino leggendario
di Napoli, ma che in compenso «va passando a nord», registrando notevoli insediamenti industriali, commerci attivi, comincia a San Leucio,
e ha una storia che vale la pena di riassumere. Al tempo del secondo
Ferdinando, in questo che era poco più di un villaggio vennero riuniti
in un'unica sede tutti i tessitori di seta. Sotto la guida lungimirante e paternalistica del monarca, la comunità produceva tele famose nel mondo.
Poco alla volta, produzione ed esportazione aumentarono. I tessitori,
uomini e donne, indossavano una divisa comune, consumavano gli
stessi pasti, erano sottoposti ad una disciplina più dura d'una regola benedettina, si sposavano tra loro. Sotto certi aspetti: San Leucio anticipava l'organizzazione produttiva comunistica. Certo, fu il primo esempio di una comunità di lavoratori gestita dall'alto, dallo Stato, in una
maniera clamorosamente efficiente, al punto che furono conquistati
molti mercati tradizionalmente importatori di sete orientali, fiamminghe, francesi, lombarde. Oggi, a San Leucio, ci sono gli stessi telai borbonici, che non possono essere sostituiti perchè nessun telaio meccanico è in grado di produrre quel tipo di tele. Non c'è più la comunità dei
tessitori, ma la produzione è ancora alta e ricercata. Sono di San Leucio
le tele da parato che ornano gli interni del nostro Senato, della Casa
Bianca, e le case di industriali e attori famosi. Un metro di quelle tele
costa da cinquanta a centomila lire. E' un'attività artigianale per antonomasia, con un suo mercato ben definito, e un futuro senza ombre.
2
Oltre San Leucio, i telai di legno cedono il passo ai moderni
complessi industriali. Il piano regionale ha diviso la Campania in un
227
gruppo di aree. Quella reputata più attiva, in grado cioè di ricevere il
più alto indice di industrializzazione, comprende tutta la piana, dal Garigliano a Castellammare di Stabia, con la ricca Valle del Sarno e i comuni di Battipaglia, Capaccio, Eboli, Pontecagnano, con Salerno e la
Valle del Sele; inoltre, vi sono comprese la penisola sorrentina, Ischia,
Procida e Capri, inadatte all'industria manifatturiera, ma economicamente attive in quella turistica. Tutta quest'area costituisce il 21,2 per
cento della regione, e ha solo qualche tratto corrugato nelle zone interne. Tutte le altre aree sono collinari o montane.
3
Vi è un altro vantaggio connesso alla posizione geografica della
Campania. Essa è la prima zona economicamente attiva che s'incontra
nei confini fissati per l'attività della Cassa per il Mezzogiorno, ed è la
più vicina ai mercati del Nord. Inoltre, ha i porti che fronteggiano la
penisola iberica e la costa africana. La regione, infine, comprende l'inesauribile mercato della sua capitale. Pertanto, portare le aree individuate al massimo di funzionalità economico-produttiva è di enorme importanza, perchè solo con strutture che sfruttino ad alto grado le economie
si può creare la competitività sul mercato interno e su quello dei Paesi
del Mec. Lo strumento per perseguire questo risultato è stato predisposto nel '57 con la legge 634, che prevede la creazione di consorzi industriali, i quali (com'è precisato nel primo comma dell'art. 21) hanno il
compito di «eseguire, sviluppare e gestire le opere di attrezzatura delle
zone, quali gli allacciamenti stradali e ferroviari, gli impianti di approvvigionamento di acque e di energia per uso industriale, e di illuminazione e fognatura. Il consorzio può assumere ogni altra iniziativa
ritenuta utile per lo sviluppo industriale della zona». Purtroppo, questo
strumento si sta dimostrando, per la Campania, più dannoso che utile.
Infatti, la disposizione dell'art. 11 e la successiva regolamentazione del
Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, che definiscono le condizioni
228
.minime per l'istituzione di aree di sviluppo industriale, non hanno previsto il caso che in una stessa regione, e, in particolare, in un'area limitata di essa, potessero sorgere ben tre consorzi industriali.
4
Dopo l'area di Napoli, che presenta tutte le contraddizioni, i pregi
e i difetti della città cui è annessa, quella di Caserta è la maggiore per
l'importanza e la vastità delle iniziative che vi si sono intraprese. Il piano regolatore di Caserta è dovuto alla Tekne, che ha predisposto una
struttura che goda in pieno dei vantaggi di posizione geografica, e che
sia, nello stesso tempo, più funzionale possibile. Questa impostazione
iniziale ha avuto la sua materializzazione in un complesso che si stacca
completamente dal precedente sviluppo urbano. La struttura principale
prevede la realizzazione di una fascia di sviluppo in zone non urbanizzate, con l'impianto di agglomerati industriali che ruotino intorno ad un
gruppo di infrastrutture «portanti» fisse. Caserta in altri termini, si va
industrializzando secondo i modelli di insediamento facilmente riscontrabili nel triangolo del Nord.
5
Il consorzio di Salerno ha posto alla base della sua politica di localizzazione l'assorbimento delle eccedenze di manodopera. Ne è derivato che, invece di impostare un piano di insediamenti industriali ad alto reddito, si è fatto ricorso a tecniche che normalmente vengono adoperate per indicazioni di base per i piani sociali ed urbanistici. Si è divisa l'area in quadranti, si è calcolata la popolazione al 1973, e quindi,
eliminando dai valori dei singoli scacchieri gli indici degli occupati e
della parte di popolazione attiva nei servizi, si è rilevato il numero degli
addetti assorbibili nelle nuove aziende.
229
Ricavati questi valori, si sono stabiliti intorno ai centri principali
dei quattro quadranti i nuclei di sviluppo, calcolando da quaranta a cinquanta addetti per ettaro. Il consorzio dà all'industria l'autorizzazione a
localizzarsi in uno dei quadranti, e fissa le norme sulla creazione degli
impianti. In altre parole, qui siamo in pieno clima dirigistico. Le industrie dell'area salernitana nascono non secondo obiettivi criteri di economicità, di produzione, di reddito, ma secondo le indicazioni prefissate dalla tecnica verbosa e astratta dei quadranti, e secondo il paternalistico indirizzo dello staff dirigente. Tutto questo ritarda notevolmente
lo sviluppo industriale dell'area, sebbene la Cassa vi profonda, come a
Caserta, somme ingenti.
6
Napoli è la palla al piede della Campania. Questa regione continua a crescere: in dieci anni la popolazione è aumentata di mezzo milione di unità, compensando i vuoti crescenti del Sannio, della Irpinia,
di tutta l'area del Cilento. Anche dal punto di vista statistico, è stato notato da Orlando, lo squilibrio demografico, in rapporto al territorio, è
evidente: la Campania conta il dieci per cento della popolazione italiana, su una superficie pari soltanto al 1,51 per cento di quella nazionale.
Ben più grave diventa lo squilibrio se si tien conto che i tre quarti della
popolazione campana si addensano sulla fascia costiera da Salerno a
Pozzuoli, e nell'immediato entroterra.
E' questa Campania a scala ridotta che ha assorbito, negli ultimi
anni, la maggior parte dei fondi erogati dagli istituti meridionali di credito. Nel 1960, l'Isveimer operò prestiti per 44 miliardi: venticinque
andarono alla Campania, (quattordici li divorò Napoli con la sua provincia). Nel '61, su 91 miliardi, la Campania ne assorbì dieci, e Napoli
quindici. Dei prestiti effettuati dal Banco di Napoli nel '67, il novanta
per cento è restato in Campania. Di questa cifra, Napoli ha ingoiato il
novantacinque per cento. E' una storia che si ripete da sempre. La pio230
vra partenopea non dà scampo. Benevento non ha visto riconosciuta dal
Comitato dei ministri per il Mezzogiorno la sua area di sviluppo industriale perchè mancano fondi per effettuarvi concreti finanziamenti.
Sono i quattrini che finiscono nella voragine senza fondo di Napoli.
Cioè in quella delle due Campanie, che è la più caotica, dissociata e antiproduttiva.
7
Si potrebbe scrivere la storia di Napoli attraverso i monumenti
alla scaramanzia. Il terrore della jattura, della sfortuna, è radicato
nell'anima partenopea. E' il sentimento più antico, profondo, verace, dei
napoletani. E c'entra dappertutto, nei rapporti umani più semplici ed elementari come nelle espressioni più complesse della vita comunitaria.
E' per scaramanzia che osano appena sussurrarlo: forse Napoli diventerà un nido di teste d'uovo. Le trattative per la nascita dell'«area della ricerca» sarebbero a buon punto, gli esperti starebbero per passare dalle
linee generali ai dettagli. Napoli sarebbe destinata a diventare il cervello scientifico, tecnologico, del Mezzogiorno, alla scoperta di un prestigio che aveva perduto per via da secoli. Si sa che i partenopei sono sibaritici e geniali. Alcuni sono eroici. Pochissimi tra questi ultimi sono
restati nella loro città natale. Si chiamano Caianello, Nicolaus, BuzzatiTraverso, Liquori, Magrassi, Ballio. Sono cervelli che valgono miliardi,
ma che questa nostra Italia aveva sbattuto in un gruppo di baracche
sconnesse e cadenti ai margini della Fiera Mediterranea. In questi padiglioni, nel '58, Caianello aveva installato il suo istituto di fisica. Poi vi
sono sorti due centri di cibernetica e il laboratorio di genetica e biofisica.
Il progetto che, timidamente proposto, era rimasto - facciamo per
dire - nel cassetto dei notabili, diventò di dominio pubblico quando improvvisamente si venne a sapere che il professor Caianello era stato
sfrattato dalla mostra. Si era trattato di un malinteso, presto chiarito.
231
Ma l'opinione pubblica fu scossa. Se anche questi uomini avessero
scelto la via dell'emigrazione, a Napoli sarebbero restati i sorci verdi.
La capitale del Sud si sarebbe giocati al lotto, sprecandoli, gli ultimi
cervelli.
Il dibattito fu acceso. Si proponeva la concentrazione dei laboratori e dei ricercatori in una zona definita e circoscritta. Si aggiungeva
che, se si fosse riusciti a realizzare il progetto, sull'area sarebbero venute ad operare anche una grande società di apparecchiature elettroniche e
una scuola di perfezionamento dell'università di Berkeley. Ovviamente,
niente di spettacolare, nè di originale: così com'è concepita, l'area è di
proporzioni modeste rispetto a quelle che sorgono altrove. Il criterio di
raggruppare in zone appartate ricercatori di diversi settori della scienza,
di agevolare i loro contatti e i loro scambi, è da tempo acquisito nei Paesi progrediti. Le loro «città della scienza» hanno dimensioni ben diverse da quelle che si prospettano per Napoli. Ma anche là si cominciò
in piccolo e con poco. C'era appena un albero a Stamford (a quattro
passi da San Francisco), quando una decina di anni fa vi si installò un
centro di ricerche che si chiamò, da quell'albero, Palo Alto. Oggi, a parte le dimensioni che la zona ha acquistato, l'area formicola di industrie
elettroniche. Qualcosa di analogo è accaduto in Francia, a Tolosa, e soprattutto a Grenoble.
Quale area utilizzare? Quella della Fiera d'Oltremare. Nata prima
della guerra, questa mostra è costata miliardi, senza che alcuna logica
ne giustificasse l'esistenza. Classificata dalla Corte dei Conti tra gli enti
inutili, si vide tagliati i fondi. Ma non diminuirono le sue capacità di resistenza. Autorità, partiti, governo, ne reclamavano la testa, ma la mostra era dura a morire, e per un momento parve anche che riuscisse a silurare il progetto dell'area tecnologica. Nel nostro Paese le cose più
semplici sanno complicarsi in un momento. La mostra e il terreno su
cui sorge sono dello Stato; i fondi del Consiglio delle Ricerche sono
anch'essi dello Stato. Dunque, non riesce molto limpido perchè un'attività dello Stato debba tanto laboriosamente contrattare, per acquistarsi
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il diritto di operare su un terreno dello Stato, e versare un canone d'affitto che lo Stato si potrebbe risparmiare se la consistenza dell'Ente
Mostra venisse ridotta o, meglio, eliminata.
L'area di ricerca comincerà a funzionare su quattro ettari. L'università di Napoli, sempre in cerca di una sistemazione, forse potrà trovare interessante installare da quelle parti qualche suo istituto. Anche
perchè si tratta di un'università che è circondata - caso unico nel Mezzogiorno - da tre nuclei di sviluppo industriale.
8
L'interno della Campania è profondo Sud. Il Sannio e l'Irpinia,
fragili terre antiche, sono sconvolte dai terremoti e dalle frane. I paesi
hanno bisogni elementari, alle spalle non hanno vicini più fortunati, e
devono guardare avanti, verso la pianura e verso il mare. Sono contrade
così povere, che la camorra vi si estinse spontaneamente. Qui è la
Campania senza prospettive. L'agricoltura tiene legati gli uomini alla
terra, l'emigrazione si porta via stormi di giovani e il risultato di quindici anni di fughe è che l'Irpinia ha la popolazione agricola più anziana
della penisola. L'industria non vi arriverà mai. L'area è destinata a restare quella che è sempre stata, una zona di transito per le grandi correnti commerciali verso Napoli e Roma. Quando l'Autostrada del sole
sarà completata nel suo tratto Bari-Napoli, l'Irpinia sarà scavalcata in
un batter d'occhio, e perderà anche il privilegio dei piccoli commerci su
cui si è fondata finora la sua minieconomia. Neanche il turismo qui è
pensabile come moderna forma di incentivo a industrializzare. L'Irpinia
è bella, suggestiva, ma compressa tra i centri montani del Molise e
quelli rivieraschi della fascia partenopea.
E' inutile cercare alberghi degni di questo nome in una terra in
cui ancora oggi sono ammucchiate le baracche dell'esercito per il terremoto del 1962. Non vi può essere determinata alcuna spinta, se prima
non si saneranno antichissimi mali geologici e spirituali. La Cassa
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spende alcuni miliardi, a grandi distanze. Ma la Cassa non è lo Stato. E
lo Stato lascia fare solo alla Cassa, e pensa d'avere la coscienza a posto.
Una lenta, costante degradazione corrode uomini e terre irpine e
sannite. Benevento è un'oasi su un campo minato. Il resto è Epiro, regno di capre e bufali, su cui svetta l'area di sviluppo avellinese, tipico
esempio delle contraddizioni del mito e della cultura industriale meridionale.
9
Ancora fino a qualche tempo fa, la Campania produceva il quaranta per cento del reddito industriale meridionale, restando in cima alla graduatoria delle regioni a sud della linea Gotica. Gli slanci presi da
altre regioni, (Puglia-Sicilia-Basso Lazio), hanno sensibilmente ridotto
le distanze, e la Campania rischia ora di perdere troppo terreno. Quando è stato dato l'allarme, si è parlato di due Campanie, una delle quali
estremamente depressa, l'altra non povera, ma senza grandi impulsi decisivi. Cioè si ripete, a livello regionale, quello che si può constatare in
tutto il Mezzogiorno. Sicchè il discorso sulla Campania coincide con
quello sull'intero Sud. Cambiano le dimensioni, ma restano i problemi
di fondo. Campania, Sicilia, Puglia, sono le tre regioni-pilota del Mezzogiorno. Lo sono da sempre, cioè dal momento in cui è stata varata
una moderna politica meridionalistica. Se uno dei tre vertici del triangolo cede, crollano le altre impalcature collaterali. Qui si corre questo
rischio. E non è cosa da poco.
234
LA QUESTIONE SARDA
235
Nel 1821 fu varata in Sardegna la legge delle «chiudende»: per
diventare proprietari della terra bastava recingerla. Ne beneficiarono
coloro che sapevano leggere, cioè i ricchi, e coloro che avevano il denaro per le recinzioni, cioè gli stessi ricchi. Sempre più povero, il popolo cantò: «Tancas serradias a muru / fattas a s'afferra afferra / si su
chelu esser'e terra / si l'hain serradu puru», (Terreni chiusi con muri /
fatti all'arraffa arraffa / se il cielo fosse stato terra / avrebbero cintato
anche lui). Da allora, i pascoli sono diventati una ricca rendita, mentre
le condizioni dei pastori sono continuamente peggiorate. Fu definita
una legge «savissima». Che risultati ha dato a distanza questa saggezza? Sono cresciuti la diffidenza, l'odio, il disagio economico. Si è perpetuata la guerra dei recinti, che divampa da oltre un secolo. Ci ha tramandato, intatta, la figura medioevale del servo-pastore. I servi-pastori
sono 40 mila, e producono un reddito annuo di sessantacinque miliardi,
che intascano i padroni. Una volta i pastori erano al vertice della scala
sociale, e precedevano - per numero - anche gli impiegati e i contadini.
Oggi è l'inverso, con tutte le conseguenze psicologiche immaginabili.
La pastorizia era un'antica ricchezza della Sardegna. Ora riesce a condizionare negativamente lo sviluppo dell'isola. Quello dei pastori in sè
è un mondo omogeneo. Di fronte agli altri è come se si frantumasse.
Nessun sindacato è mai riuscito a fare un contratto-tipo per i pastori. Il
pastore sardo è una sintesi perfetta di fierezza e arretratezza. Se ha un
complesso, è quello della «mastruca». La mastruca è un giubbotto di
pelle di montone che i pastori della Barbagia indossano rovesciato, col
pelo fuori, a differenza di quanto fanno tutti gli altri. Perchè? Ci dico-
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no: è un tentativo di reazione, di differenziazione. E' l'eterna fuga
dall'integrazione.
Nel '61, con una legge regionale, si annullarono i debiti dei pastori e degli agricoltori verso i consorzi e le banche. Ammontavano a
circa trenta miliardi. Con un'altra legge si concedevano contributi fino
all'ottanta per cento per la costituzione di aziende silvo-pastorali. Ma ne
approfittarono solo i grandi proprietari. In realtà, la Regione non è riuscita a far costruire le nuove aziende, nè a regolare in qualche modo la
pastorizia. Oggi si assiste ancora allo sfruttamento di rapina dei pascoli,
degli erbai, dei boschi. La Sardegna è praticamente una terra senza
grandi imprenditori, e con troppi affittuari. Vi manca una solida borghesia media, e i partiti hanno colpe remote. I sindacati, colpe remotissime.
2
A metà del secolo scorso, corse voce che Cavour si disponeva a
cedere l'isola alla Francia. Vera o falsa che fosse la notizia, ne rimase
anche dopo un senso di sospetto e di reciproco imbarazzo. Da una parte, l'Italia di terraferma si interessava pochissimo della Sardegna,
dall'altra Cagliari rimproverava al « continente» sgarbi e trascuratezze
di tipo coloniale. In realtà, gli stranieri ben più che gli italiani hanno
tentato di afferrare il senso riposto della storia, della lingua, delle tradizioni e della cultura sarda. E l'isola, il più antico lembo di terra emersa
nel nostro emisfero, ha aperto il cifrario oscuro della sua civiltà agli
stranieri prima che agli italiani. Tra l'altro, nell'isola sono maturate esperienze che nulla hanno in comune con quelle italiane. Ad esempio,
nell'isola vigeva, fino ai primi decenni del secolo scorso, la comunità
dei beni rurali. Ogni paese, ogni villaggio, era concepito come l'epicentro di un mondo a sè: la terra era affidata per un terzo ai contadini, e per
due terzi ai pastori. D'anno in anno avveniva la rotazione. Tutto ciò du-
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rava da millenni, fino a che Vittorio Emanuele I, con la legge delle
«chiudende », stabilì la fine del sistema comunitario.
Può apparire strano, ma il trauma causato da quell'editto è ancora
oggi molto vivo. E proprio dal senso di umiliazione e di frustrazione
del pastore, da quel suo sentirsi tagliato fuori dalla società, dannato a
ramingare con le sue greggi, nascono e si acutizzano gli stimoli alla rivolta e alla vendetta sociale, che sono alla base dell'odierna inquietudine pastorale.
3
Non è la prima volta che la situazione criminale della Sardegna
consiglia l'invio di rinforzi speciali di polizia. I primi «baschi blu» vi
sbarcarono 1950 anni fa, verso il 19 dopo Cristo. Siccome le liti fra israeliti e greco-egiziani tenevano in subbuglio l'Egitto, il Senato romano (imperatore Tiberio) deliberò di spedire nell'isola ebrei ed egiziani
di bassa estrazione che si ostinassero nei loro culti «superstiziosi», Il
Senato (dice Tacito) riflettè che, violenti contro violenti, se la sarebbero vista tra loro. E inviò ben quattromila «poliziotti». Egitto, Sicilia e
Sardegna erano i granai di Roma. I soldati dovevano difendere il grano.
E far questo soltanto.
Ci si può chiedere come mai, in un paese ben coltivato, in fondo
più ricco di oggi, potesse fin da allora svilupparsi un brigantaggio tale
da esigere misure speciali. La risposta è che era ormai luogo comune
per i geografi e gli storici dell' epoca, (Diodoro Siculo, Strabone), attribuire tutti i fatti di violenza alla barbarie della popolazione del centro
dell'isola. Scrive Strabone: avevano anche loro terre fertili, ma alla coltivazione preferivano il ladrocinio, che a volte esplodeva e si espandeva
a largo raggio, nè era facile reprimerlo. Come si fosse formato «questo
nucleo duro», si spiegava col fatto che i tanti conquistatori della Sardegna, greci e romani, cartaginesi e fenici, avevano fondato colonie sulle
coste, occupando i pianori più redditizi e cacciandovi gli aborigeni.
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Non avevano travalicato le montagne che coprivano in tre punti cardinali, tranne che ad est, la regione di Nuoro. Dopo i romani, i bizantini
lasciarono alla deriva la Sardegna, che si divise in quattro giudicati,
(Arborea e Cagliari a sud, Logudoro a nord-ovest, Gallura a nord-est),
che confinavano tra loro esattamente nella regione nuorese, che finì per
diventare eccentrica e poco «governabile», Poi l'isola cominciò a cambiar mano: prima, rivalità tra Pisa e Genova, poi la Spagna, infine i Savoia. Il centro nuorese restò sempre eslege. Col Risorgimento si cercò
di far qualcosa, e dai primi dell'Ottocento Sardegna e Nuorese cominciarono ad essere oggetto di studi etnologici, quasi cavie per gli esperimenti nel laboratorio della scuola positivista dei Lombroso, dei Sergi,
degli Enrico Ferri, degli Alfredo Niceforo, e via dicendo.
Fin da allora l'isola risultò prima nella graduatoria criminale italiana per i numerosissimi delitti consumati nell'area di Nuoro. La scuola positivista diede una spiegazione tipica delle cause: chiuso fra le
montagne, il Nuorese non aveva seguito l'evoluzione del resto del
mondo, e si trovava in uno stadio ancora molto primitivo di moralità
per il quale era suprema virtù «l'aggressività». A questa causa fondamentale andavano aggiunte quelle concomitanti: scarsa viabilità, piccola proprietà rovinata dal fiscalismo, malgoverno. Ma restava come fatto
determinante il «temperamento regionale», che Niceforo accostava (secondo i dettami della sua scuola) al temperamento caratteristico del
selvaggio e del criminale. Perchè i poveri selvaggi, in clima di evoluzionismo, se la passavano male: poiché erano meno evoluti, erano esseri inferiori in ogni senso. Forse - continua Niceforo - il Settecento, con
la sua ammirazione per la onestà e la moralità che supponeva nei primitivi, era più vicino al vero. La guerra non fu certo abitudine dei primitivi. Fu invenzione della civiltà. Tanto è vero che, a discarico dei nuoresi, dev'essere sottolineata la non-frequenza dei delitti d'onore. Solo la
morale sessuale era elastica. Se ne occupò anche un uomo di chiesa,
San Gregorio, che delimitò la zona calda tra la Barbagia, il Nuorese e le
propaggini meridionali del Gennargentu: «Regione montuosa – scrive240
va - in cui abita gente che vive nei boschi, senza leggi né vera religione, che si dice sia rimasta là quando l'isola venne ricuperata dalle mani dei barbari d'Africa. Le sue donne sono eccessivamente sensuali e
impudiche, e gli uomini lo permettono. Infatti, dato il caldo e le cattive
abitudini, girano vestite di lino bianco, e così scollate da mostrare il
petto e le mammelle ...» In queste terre, ancora oggi, si usano le corse
di cani scuoiati.
4
Si importano le arance dalla Sicilia e le marmellate dal Veneto,
sebbene in tanta parte della Sardegna il clima sia californiano. L’ idea
della California, ricorrente in tutto il Sud, suggerisce anche in quest'isola il tema della necessaria fusione di due mondi, quello agricolopastorale e quello industriale. Distratti dal miraggio degli stabilimenti,
visti come rimedio universale ai mali trascinati per secoli, i sardi hanno
compiuto uno sforzo modestissimo per trarre ricchezza dall'agricoltura.
Da dodici anni si son sentiti ripetere: «Non una goccia d'acqua al mare, se prima non ha fecondato la terra». Ma su 120 mila ettari irrigabili
grazie alle dighe costruite, solo tredicimila hanno acqua sufficiente.
Dopo interminabili - e spesso acute - dissertazioni, l'isola si trova
negli ultimi posti delle graduatorie nazionali per le produzioni più favorite dal suo clima. Arance: 200 mila quintali contro i sei milioni della
Sicilia e i due milioni e mezzo della Calabria. Olio d'oliva: ventimila
quintali contro i 130 mila della Liguria, che ha oliveti molto meno estesi. Vino: un milione e mezzo di ettolitri contro i dieci milioni della Puglia.
«Sono così da poco li sardi che, quantunque il Regno abbondi di
piante, per spirito di trascurataggine si provvedono di legname dalla
Corsica», scriveva il Bogino, ministro di Carlo Emanuele III, rimasto
nella memoria dei sardi per la sua durezza. Giudizio ingiusto, perchè
fondato sulla scarsa conoscenza dell'isola, (in grandissima parte disbo241
scata nella convinzione di eliminare il banditismo con le foreste), e sulla totale incomprensione dei problemi di una società non cementata,
fatta di isolati e divisi, che negava ogni possibilità d'iniziativa. Su quel
tessuto arcaico si innestarono poi le riforme fondiarie che spinsero la
polverizzazione dei fondi agricoli a limiti esasperati.
Mancando lo spirito associativo, che potrebbe correggere le storture ereditate, è difficile assecondare quello imprenditoriale, esiguo anche nelle piane raggiunte dall'acqua, dalle bonifiche e dalle industrie
continentali. Il solo grande esempio di specializzazione agricola è reperibile nel Campidano. Il reddito sardo resta perciò sulla media di duecentomila lire, contro il mezzo milione del resto del Mezzogiorno. E'
una media troppo bassa, e i traumi che ne conseguono sono alla radice
dei rancori, anche antiunitari e separatisti, che serpeggiano in questi
tempi. Le proteste, per ora, sono limitate. Ma nel luglio '67 la Sardegna
intera scese in sciopero contro Roma. Era il primo precedente, nella nostra storia, di una regione che si tagliava fuori dal Paese. Resta una lezione da non dimenticare.
5
Il Piano di Rinascita ha rappresentato il grande tema della politica autonomistica per molti anni. Le speranze più ambiziose vi avevano
trovato spazio ed esaltazione. Si discuteva in termini di efficacia taumaturgica. Sembrava lo strumento ideale per rompere l’assedio di situazioni economiche e sociali antiche quanto lo stato di arretratezza,
ma ancora tanto robuste e radicate da soffocare la volontà di ripresa.
Ora, la critica ragionata si è sostituita all'aspettativa miracolistica, e un
senso di delusione ha preso il posto delle illusioni irrazionali. Ciò non
significa che la Sardegna non crede più nel Piano, o che l'ha ripudiato,
o che il Piano stesso si è dimostrato una finzione retorica, un errore politico. Più realisticamente, l'isola guarda ad esso come ad un mezzo che
ha bisogno di sostanziali rettifiche e di continue verifiche, perchè il pa242
norama economico ha subito cambiamenti, e perchè sono mutate le
stesse condizioni d'avvio.
L'esperienza ha proposto un problema notevole, la cui soluzione
è definita «d'aggancio». II problema è quello delle differenze fra le
province, o fra le varie aree, fra zona e zona, quale effetto necessariamente negativo della concentrazione per poli. Dove esistevano, le differenze sono diventate più accentuate. Ora, la politica regionale si è posta
la questione di agganciare le zone immobili a quelle in movimento e in
sviluppo. E non è fatica lieve.
C'è da aggiungere che ai problemi d'impostazione tecnica, di rettifica e di verifica, si sommano gli altri, di natura squisitamente politica. Tra questi, il principale è rappresentato dai rapporti Stato-Regione
in materia di programmazione. E' un problema di collegamento fra programmazione regionale e programmazione nazionale. Rientriamo nel
quadro generale delle recriminazioni isolane. La regione è chiamata ad
esprimere le sue opinioni, ma, in definitiva, ha l'obbligo di attenersi alle
direttive dell'ufficio del programma. Alle coscienze regionalistiche
questo sembra un tradimento dell'idea di autonomia, accettata dalla Costituzione e consacrata nello Statuto istitutivo. Vi sono vie d'uscita decorose, ma non pienamente soddisfacenti. Ciò - dicono a Cagliari - dimostra quanto sia faticoso per la regione conquistarsi giorno per giorno
il diritto all'autonomia, combattendo la naturale diffidenza del potere
centrale verso gli organi periferici: lo Stato ha fatto la regione sarda
prima di darsi una consapevolezza regionalistica e una mentalità rispettosa dell'ideale autonomistico. Da qui, oltre il resto, l'eterna protesta
sarda contro la capitale italiana.
6
Due volte - nel 1796 e nel 1847 - la borghesia sarda rinunciò
all’autonomia. Nel suo «Alle origini della questione sarda – Note di
storia sarda del Risorgimento», Girolamo Sotgiu, illustrata la spinta
243
evolutiva dei movimenti modernisti che la classe media e dirigente
dell'isola annullò con la sua incapacità di guardar lontano, conclude affermando che la questione sarda, postasi solo con la Resistenza e la Costituzione repubblicana, non può essere considerata isolatamente, ma
nel contesto di quella, più vasta, di tutto il Mezzogiorno. «Si potrà così
evitare di impegnare la ricerca culturale e storiografica in uno sterile
ritaglio delle vicende sarde, avulse dalle vicende nazionali, che non favorisce la comprensione più piena delle travagliate vicende che ci
hanno condotto all'Italia e alla Sardegna d'oggi; ma soprattutto si potrà ottenere il risultato di non restare isolati in una battaglia che è culturale, ideale e politica insieme, per quell'arricchimento della vita democratica del Paese, che è la condizione per il rinnovamento economico, sociale e culturale della Sardegna e del Mezzogiorno».
A tutti gli effetti, la Sardegna è profondo Sud, e i suoi problemi
confluiscono in blocco nel gran padellone del problema meridionale. E
vi confluiscono di diritto, con tutte intere le eredità lasciatevi dalla dominazione spagnola: università di Cagliari e Sassari, difesa costiera, ulivo, agricoltura di rapina, malaria, disboscamenti, paralisi economica,
banditismo, mancanza di fermenti illuministici, feudalità arcaiche, abulia civica, logomachie barocche, sogni separatisti sulla scorta del pensiero di Aproni, trasformismo del terzo stato. Grandi ricchezze potenziali, luttuosa povertà contemporanea. Tutto questo è Mezzogiorno. E'
problema meridionale e italiano ed europeo, che non si supera risolvendo il solo fenomeno del banditismo.
7
E' stato detto che la mitizzazione letteraria e scenica del delitto è
un vecchio male, non soltanto italiano. Perciò in Sardegna i equestri di
persona, le uccisioni, le rapine aggravate, le evasioni, spesso costituiscono la materia prima di una sinistra epopea. Nuorese e Barbagia sono
un nostro piccolo Vietnam pastorale, che nei momenti di maggior ten244
sione costa allo Stato e all'esercito che lo rappresenta in queste latitudini duecento milioni al giorno.
8
La criminalità tradizionale, figlia della società pastorale, sopravvive in quasi tutte le sue manifestazioni tipiche. Essa prorompe dalla
economia d'ovile. Si fonda sui reati collegati al possesso e alla difesa
del bestiame: abigeato, sconfinamento, sgarrettamento, sfruttamento
abusivo dei pascoli, macellazione clandestina, vendetta. Ha una fisionomia precisa, origini storiche e psicologia caratteristiche. La pastorizia rappresenta ancora uno dei cardini dell'economia sarda. Se le statistiche registrano una diminuzione di quei reati tipici, ciò dipende da
circostanze legate alla crisi generale dell'agricoltura e della pastorizia,
allo spopolamento delle campagne e delle montagne, allo inurbamento,
all'emigrazione. Ma finchè esisterà una pecora si rinnoverà il tentativo
di appropriazione: l'isolamento dell'uomo dal mondo delle comunicazioni civili incoraggerà l'arretratezza del costume in un gioco tragicamente anacronistico.
E' una verità relativa che il pastore tende ad abbandonare definitivamente l'ovile per trasferirsi in città, e che il processo d'integrazione
nella civiltà delle macchine e dei consumi non proponga alternative sociali e psicologiche alle condizioni di pastore inurbato. Questo accade.
Solo non spiega la diffusione dei reati caratteristici della criminalità
moderna. E' vero che il pastore trasferisce nella città tutto il suo bagaglio di mentalità, di tabù, di costumi e di bisogni, che stanno alla base
della criminalità tradizionale. Tuttavia sarebbe un grave errore supporre
che l'attuale ondata criminale da cui sono investite le città sia conseguenza diretta di questa tendenza ad abbandonare i pascoli e gli ovili. Il
pastore è abituato a farsi giustizia con i mezzi a sua disposizione: non
scrive lettere, non usa telefono, non guida auto veloci, non sa destreggiarsi fra le insidie della psicologia urbana. E' un solitario che agisce
245
nella consapevolezza di trovare protezione e aiuto nel meccanismo delle complicità, proprio del suo mondo.
Sono le nuove fonti di reddito - industrializzazione, commercio,
turismo, speculazione sui terreni - ad aver prodotto una nuova criminalità, in parte o del tutto estranea all'antica vena maligna. A nuove risorse corrispondono nuovi bisogni. Come la società pastorale ha generato
e tiene in vita una delinquenza primitiva e rudimentale, così la civiltà
delle macchine esprime e determina la formazione di una delinquenza
in grado di approfittarne in schemi moderni. La speculazione sull'uomo
ha sostituito la speculazione sull'animale. Spesso accade che la criminalità di città si serva della criminalità di campagna. Ma sono alleanze
occasionali.
A differenza del pastore-bandito, il ricattatore o il sequestratario
opera su un terreno che esige organizzazione e calcolo, procede con
scrupolosa preparazione tecnica, agisce con mentalità da gangster. Non
è un solitario. Ha possibilità di mimetizzazione nel tessuto stesso delle
città, poichè viene anche da ceti insospettabili. Si adegua alle situazioni
ambientali. E' tenace, spregiudicato. E' giovane. Ha scoperto, attraverso
i mezzi di comunicazione di massa, gli idoli e i vizi della civiltà contemporanea: tutto un campionario suggestivo di equivoci e illusioni,
senza l'aiuto della morale e della cultura. E' disponibile al rischio come
alternativa alla mancanza di valori e di prospettive, come evasione,
come protesta irrazionale. Si converte al crimine con estrema superficialità. Solo le sue tecniche non sono superficiali. Ciò che lo accomuna
al pastore-bandito è la ferocia. Per il resto sono personaggi inconfondibili.
9
Nella relazione che accompagnava il disegno di legge per una inchiesta parlamentare sul banditismo sardo era richiamata un'altra inda-
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gine, quella sulle condizioni economiche e della Pubblica Sicurezza
promossa alla fine del secolo scorso dal ministero Crispi.
Sta per chiudersi il 1894. Da un settennio l'economia isolana è in
fase di allarmante prostrazione. Sono in molti a individuarne il motivo
di fondo nella disdetta dei trattati commerciali con la Francia in seguito
all'inasprimento delle tariffe doganali. Fino all'87, anno della denuncia
dei trattati, l'avvio verso i mercati francesi di alcuni prodotti dell'agricoltura sarda aveva per lo meno contribuito a impedire il collasso. Ora,
privata dal suo sbocco tradizionale e più redditizio, quell'agricoltura
tocca il fondo della crisi. In corrispondenza, si abbatte sull'isola una
tempesta di violenze. L'opinione pubblica è scossa da fatti clamorosi.
Rapine, ricatti, omicidi. Un intero paese, Tortolì, è cinto d'assedio da
una banda d'un centinaio di fuorilegge, che giungono ad occupare la
caserma dei carabinieri prima di abbandonarsi al saccheggio. Il '94 si
chiude con un bilancio terrificante: 211 omicidi, quattro in media alla
settimana, su una popolazione che non supera le settecento mila unità, e
222 rapine aggravate. Sono esplosioni di violenza irriducibili dentro
uno schema unico di comportamento. La pastorizia è in lotta con l'agricoltura, e dalla contesa dei terreni, dal gesto del proprietario che scaccia l’occupante abusivo del suo campo, nascono situazioni di conflitto,
odii tenaci, che si propagano dentro i gruppi familiari fino a contrapporre gruppo a gruppo in una drammatica competizione tribale. C'è poi
un deposito senza fondo di rancori lentamente accumulati contro il
«piemontese» che rastrella i magri frutti di una immensa fatica, e confisca il ritaglio di terra, la casaccia, il giaciglio. C'è avversione profonda
contro il padrone del pascolo che si limita a riscuotere il canone d'affitto senza migliorare la terra, e lascia alle spalle del pastore tutto il peso
delle annate cattive. Il banditismo dilaga.
Preoccupato della gravità del fenomeno, Crispi ordina l'inchiesta
parlamentare. L'incarico di condurla non è affidato ad una commissione, ma ad un solo deputato, il sardo Francesco Pais Serra, eletto nel
collegio di Ozieri. Dirà Gramsci anni dopo: «L'inchiesta dell'on. Pais
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sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio di infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero ».
La si può rileggere: vi si trova uno spaccato impressionante della realtà
sarda di quegli anni. E molte cose sono simili a quelle odierne. Pais rilevava il nesso tra banditismo e tessuto economico-sociale. Negli anni
di floridezza dei traffici con la Francia, dall'80 all'87, si era registrata
una progressione decrescente dei delitti. Subito dopo, la catastrofe. «
Anche oggi – affermava - il leggendario bandito sardo, forse più favoloso che vero, attrae da quel misto di romantica forza, di brutali vendette ed insieme di cavalleresca generosità, le menti ingenue del popolo; e un'aureola di simpatia incosciente ma tenace circonda il capo di
colui che, solo e debole, si crede combatta non contro il diritto della
società ma contro la pretesa violenza e la prepotenza personale o dell'
autorità. Donde spesso si verifica una ospitalità larga, una premura
generosa e una cooperazione nel nascondere il delitto e il delinquente
anche fra le persone non diffamate; la qual protezione inconsciamente
criminosa è il più grave ostacolo per ristabilire l'ordine e la giustizia
sociale».
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La vedova che si risposa diventa una donna di malaffare e i parenti del morto hanno diritto di risentirsene. L'uomo che rifiuta di vendicarsi per saldare il conto di un'offesa ricevuta è un vigliacco, indegno
di vivere. Chi può esprimersi è soltanto l'uomo che abbia dato infinite
prove di coraggio e virilità, per cui non sarà mai sfiorato dal sospetto di
viltà o debolezza. Il furto di bestiame è considerato offesa solo se il responsabile è un compagno o un vicino d'ovile.
Il rapporto offesa-vendetta è il tema fondamentale dell'ordinamento giuridico che la «società dei ladroni» si è dato attraverso i secoli,
in contrapposizione all'ordinamento giuridico statale. Questo ha origine
riflessa, quello è di formazione spontanea. La pratica della vendetta
248
non promana da una codificazione scritta. Si identifica in un concetto
genericamente perseguito di giustizia locale, privata, alla quale però si
attengono intere comunità. E' la giustizia barbaricina, ereditata come
regolamentazione di un sistema di vita associata e come risultato di una
mentalità in ritardo. Essa si origina da un complesso di usi, costumi,
condizioni psicologiche e ambientali che sopravvivono in aree sociali
tipiche dell'interno, in una società rurale che ha il suo più folto insediamento in questa Barbagia, terra aspra, indocile, che ha difeso i suoi
caratteri originari, resistendo al progresso della storia.
«La vendetta barbaricina come ordinamento» è il titolo di uno
studio interessantissimo condotto da Antonio Pigliaru, docente universitario a Sassari, uomo di punta della cultura sarda e intellettuale di serio impegno politico. La sua tesi - come ipotesi sociologica - è tuttora
al centro di discussioni e polemiche. Ciò testimonia del suo valore obiettivo. Pigliaru sviluppa l'idea che le genti barbaricine si sono imposte un codice che può essere inteso come ordinamento giuridico sia nella sua attuazione pratica che nel suo senso etico. L'enunciazione delle
norme scaturisce dall'osservazione del costume, dal cumulo delle testimonianze, dalla realtà dei rapporti all'interno delle comunità pastorali. Il concetto ispiratore è identificabile nella vendetta come metro di
giustizia. Di conseguenza, non deve stupire la constatazione che anche
la vendetta è condizionata dal rispetto della verità. Le responsabilità
meritevoli di vendetta debbono risultare chiare e indiscutibili perchè la
punizione sia approvata, legalizzata dalla complicità della comunità o
del gruppo o della famiglia. Altrimenti non ha motivazione morale. E'
vendetta mascherata, pretesto per il sopruso. Ecco, quindi, scattare il
rozzo meccanismo di un processo istruttorio per l'accertamento delle
colpe reali e l'individuazione del responsabile. In questo campo la verità della giustizia legale non fa testo.
Scrive Pigliaru, sulla scorta delle testimonianze: «La vendetta è
proporzionata, prudente, progressiva». Ha l'elasticità delle pene previste dal codice penale. E' proporzionata alla gravità dell'offesa ricevuta,
249
prudente nell'esecuzione e nell'accertamento preliminare delle responsabilità, progressiva nel tempo e nelle modalità. Dal quadro generale si
deduce che la vendetta ha scadenza: alla stregua di una sentenza, può
cadere in prescrizione. Quella che non cade è la vendetta diretta a lavare le offese di sangue. Poichè all'impegno vendicativo è legato tutto il
gruppo di chi ha ricevuto l'offesa, la punizione può essere realizzata da
un qualsiasi componente. Inoltre, questa vendetta è un impegno ereditario. Questa è una delle principali difficoltà che incontrano le indagini
per i casi di delitto in Barbagia: non si sa quasi mai a quando risalgano
i moventi. L'evoluzione dei tempi ha insegnato l'utilità della vendetta
trasversale, o su commissione: sono modi per ingarbugliare le carte e
sviare le indagini. In un tessuto mentale di tal genere è facile immaginare quante deformazioni a tinta criminale possono fiorire, e quante
forme può assumere l'attività criminale.
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Se l'evoluzione economica e sociale della Sardegna avesse raggiunto rapidamente e concretamente i grandi risultati che si speravano
qualche anno fa, forse oggi non esisterebbe un banditismo urbano protagonista di fatti così clamorosi. Le cose sono andate diversamente. Tra
l'altro, i non cospicui interventi dello Stato a favore dell'isola hanno
trovato in risposta da parte dei dirigenti locali non una vera pianificazione, ma programmi frammentari e indecisi, abbozzi d'iniziative o
troppo timidi o insensatamente grandiosi. Si è auspicato con frenesia
uno sviluppo economico realizzato solo dai sardi. Ma i tentativi hanno
avuto il respiro corto. Quando si è visto che non servivano a mutare la
situazione, si è chiusa l'esperienza e ci si è consegnati agli imprenditori
del Nord, senza aver nemmeno predisposto i piani per convogliare le
iniziative in un programma organico. Per risolvere la crisi delle zone
carbonifere e scongiurare la chiusura delle miniere, è stata ideata e costruita la grandiosa centrale elettrica di Portovesme, costata settanta mi250
liardi, che avrebbe dovuto utilizzare il minerale. Solo dopo ci si è resi
conto che il carbone costava molto rispetto alla nafta, e si è finito col
vendere tutto, miniere comprese, all'Enel, che in Sardegna perde adesso
da tre a cinque miliardi all'anno. E il costo dell'energia nell'isola è
maggiore che in qualsiasi altra zona d'Italia.
Ancora: tra i vari flagelli dell' agricoltura sarda è il cosiddetto
«male della pietra». Cos'è? Siccome il contributo dello Stato e della
Regione per la costruzione di impianti è proporzionato al loro costo,
per ragioni di prestigio sono stati realizzati in Sardegna i silos più
grandi della penisola, d'un tipo che prevede una serie di utilizzazioni
impossibili allo stato attuale dell'economia isolana. E inoltre: Stato e
Regione costruiscono uno stabilimento per trasformare i concentrati di
piombo e zinco, costosissimo, ma di dimensioni adatte a sfruttare solo i
minerali del posto, che sono limitati. Così lo stabilimento è superato
prima ancora che se ne sia ultimata la costruzione, e il suo prodotto ha
un prezzo che gli impedisce di affermarsi nel mercato europeo: mentre,
se fosse stato concepito con mire più ampie, cioè per lavorare anche
minerali importati - soprattutto dall'Algeria, dal Marocco e dalla Tunisia – avrebbe avuto un avvenire più sicuro.
Sono esempi, questi, di tutto quel che non si sarebbe dovuto fare
per tentare di limitare e vincere, con un'azione incisiva di recupero economico e civile, il banditismo sardo. I risultati odierni sono invece la
cristallizzazione dell'ambiente in un'economia fondata, nelle aree del
banditismo, su una sola attività, quella agricolopastorale. La cristallizzazione economica ha portato a quella psicologica. Inoltre, tranne pochi
casi, il pastore è rimasto pastore. Non è stato trasformato in operaio. Ha
figli che sono pastori inurbati, manovali, ambulanti, mercenari del lavoro, che continuano a non amare la società e il potere costituito.
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L'accordo sulla diagnosi del fenomeno è generale: il banditismo
affonda le radici in una società che continua ad essere un reliquato et251
nico, con rapporti di produzione e sistemi di vita che sono il terreno di
coltura della violenza. Finchè le strutture di questo mondo non saranno
modificate, ogni soluzione di forza avrà effetti temporanei.
Si deve cominciare dal basso, dal crogiolo dei servi-pastori: essi
non sanno che c'è una guerra nel Vietnam; molti ignorano il nome del
Presidente della Repubblica; ricordano che Garibaldi «è quello della
guerra» e Dante «quello della scuola»; non leggono giornali, non ascoltano la radio, non conoscono il titolo d'un qualsiasi libro; di tanto in
tanto pregano «qualche santo»; votano indifferentemente «comunista o
democristiano»; si sentono soli, isolati, disprezzati, perseguitati dallo
stato e dai carabinieri. Con Tonino Ledda, poeta di Ozieri, cantano cupi: «Odoriamo di capra, di denso concime / pensiamo solo all'erba, al
cacio, alla lana / sogniamo acquavite, balli sui sagrati / l'amore cantiamo, e imprese di banditi ...»
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Il banditismo nasce in Sardegna duemila anni fa e si evolve in
banditismo rurale. Dalle razzie armate per procurarsi frumento e indumenti il pastore passa al furto di bestiame. Il bestiame è lo unico bene,
la sola risorsa che possa essere rubata. L'abigeato è il primo anello della
catena. Quando la pratica si diffonde su larga scala nasce la codificazione delle regole criminali. Germinano le vendette e si ricorre al delitto. Il banditismo si trasforma in tre tempi. Nella prima fase si commettono quattro tipici reati: pascolo abusivo (inizio della lotta fra pastori e
contadini), furto di bestiame, ricettazione, rapina. La seconda fase è caratterizzata dalla vendetta, cioè dalla reazione ai soprusi. E' significativo che contemporaneamente si manifestino atti di violenza legati al
concetto di difesa dell'onore familiare: vuol dire che le relazioni all'interno della società rurale si sono fatte più complesse, nel senso che le
saldature fra consanguinei determinano una ramificazione delle vendette. La terza fase di trasformazione è quella attuale. Se ne può fissare l'i252
nizio nella metà del secolo scorso. Manifestazioni criminali tipiche sono l'estorsione, la minaccia, il sequestro di persona, l'uccisione a freddo. E' la fase che rivela tendenze inquietanti e che delinea l'assimilazione di una mentalità mafiosa. Un docente di antropologia criminale di
Cagliari ha dedicato un'attenzione particolare allo studio della psicologia del giovane malvivente sardo, esprimendo la convinzione che la sua
disponibilità al crimine nasce spesso da una carenza affettiva, da varie
forme di disadattamento, dall'inesistenza di una moderna cultura. Allargando l'indagine su questi filoni, l'antropologo ha scoperto che le
zone a più alta incidenza schizofrenica o psiconevrotica forniscono il
più cospicuo tasso di criminalità.
Quali proposte si formulano per la soluzione del problema? Alcune sembrano persino ovvie: bonifica sociale, lotta all'analfabetismo,
elevazione del tenore di vita nelle aree più povere, rottura dell'isolamento attraverso nuovi insediamenti umani, rimedio alla carenza dei
poteri legali, trasformazione dello stato di arretratezza. Ma ve ne sono
anche di più complesse. Dicono i sardi: è necessario che queste popolazioni siano aiutate a lasciare il mondo silvo-pastorale e a darsi una società agricolo-pastorale. Gli interventi dello Stato devono disancorarsi
dai principi strettamente economistici, oppure dalle intenzioni teoriche
e velleitarie. E' stato inutile spendere ottocento milioni per costruire un
villaggio a Pratobello, fra Nuoro e Fonni, rimasto disabitato. Gli insediamenti umani devono seguire esigenze naturali, corrispondere a bisogni reali e spontanei. Non possono attuarsi sotto spinte coercitive. Le
costrizioni acuiscono i rancori del pastore, e lo portano automaticamente a dissociarsi, perché così crede di difendersi. Nascono così i recinti
umani che caratterizzano le «isole» all'interno dell'isola. E i problemi si
aggravano.
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Ad Orgosolo, antica capitale del banditismo sardo, il vecchio
fuorilegge si modella sul giovane gangster. Vi durano tutte le forme di
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delinquenza tradizionale, le faide tra «dinastie» di pastori, le sanguinose lotte fra latitanti. Vi si rispecchia la Sardegna immobile degli uomini
dal viso duro, che indossano stivali e giacche di velluto immersa in una
delinquenza apparentemente statica, che ha traversato i secoli senza
consumarsi.
Il cimitero di Orgosolo sorge su un alto sperone, bieco e freddo.
E le tombe, le nicchie, i sacelli, i monumenti funebri, sono rivolti in
giù. I morti guardano in faccia il palazzo di città, ove ha sede l'autorità
costituita. A leggere certe lapidi par di trovarsi di fronte a monumenti
dedicati a martiri del Risorgimento. E si tratta dei più sanguinari fuorilegge, braccati per anni dietro ai loro delitti, e uccisi in conflitto con le
forze dell'ordine.
Circonda Orgosolo una natura ferma, pietrificata. Il sole è nemico degli uomini e delle colture. I monti, spopolati, sono montagne crepate, sventrate dalle forre, butterate dalle bocche di mille cunicoli che
pare debbano portare all'anticamera dell'inferno. L'unica forza dirompente, in questa terra, sono il delitto, l'omertà, la latitanza. La scuola è
il simbolo di uno Stato lontano anni-luce.
Tra le montagne più tenebrose ora biancheggia un collegio per
ragazzi. E' il primo del Nuorese, e persegue lo scopo di sottrarre
all'ambiente le nuove generazioni. Ma non lo gestisce lo Stato: sono i
camaldolesi di Arezzo, mandati qui da Fanfani all'epoca in cui era ministro dell'Interno. Questo Stato, giunto in Barbagia travestito da frate,
riassume definitivamente le condizioni che consentono alla criminalità
sarda d'avere nuove morfologie.
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Orune è nel cuore della più vasta e intatta «repubblica di pastori»
italiana. Appare tra i monti scheggiati, tra i grandi spazi della Barbagia,
tra le solitudini immense. E' più tristemente famosa della stessa Orgosolo come roccaforte del sardismo immobile. Vi sono seimila pastori e
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novecento studenti universitari. II paese è tra i meno poveri della provincia di Nuoro. Ma il mondo pastorale non ha rinunciato al suo codice
d'onore. Corrompendosi al contatto con le suggestioni moderne, ha assimilato nuove tecniche criminali. Vi sono un proletariato e una borghesia meno arcaici, più spregiudicati, che se non saranno calati in una
compagine economica più dinamica non esiteranno a generare altra
criminalità.
Orune è il paese dei muttos, le lunghe, dolcissime lamentazioni
funebri che si cantano accanto al corpo del bandito ucciso e tessono le
lodi del caduto. E' un canto che ha origini remote e misteriose. Esso dice: «Ciò cantiamo di te, a vergogna dei vili». Vile, a Orune, è chi non
si fa bandito.
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Oliena, Mamoiada, Fonni. A tratti sembrano paesi senza tempo.
Tutta la Barbagia è una terra verticale, alza al cielo colline e picchi. Ma
dentro c'è il vuoto, e più che terra di banditi l'antica Barbaria sembra
terra di asceti. Bitti è un villaggio che dà fuorilegge come Firenze dà
dicitori. Sono terre stupende, dominate dal massiccio azzurro del Gennargentu, sui cui contrafforti si stendono l'Ogliastra e le tre Barbage,
Ollolai, Belvi e Seulo, boscose e selvagge oggi, una volta culla della
civiltà protosarda e cuore della più autentica Sardegna. Striano i monti
forre paurose, precipizi micidiali. Lungo la costa, da Orosei in là, non
c'è banditismo. Ma dicono che gli uomini migliori non sono qui. Sono
nelle terre orientali, quelle che hanno dato il novanta per cento della
«Sassari», la più celebre brigata dell'esercito italiano. Quella che aveva
cancellato dal suo linguaggio, per sè e per gli altri, la parola pietà. Ollolai, Orotelli. E' scritto sui muri: «Pro che rughere in manos de sa zustiscia, mezus mortus». Piuttosto che avere a che fare con la giustizia,
meglio morire. Gavoi, Sa Caletta. Vi si parla l'antico latino, quello di
Quintiliano e dei trobadori, E' la lingua del codice non scritto: «Furat
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chie furat in domo o chie uenit dae su mare». Ruba chi ruba in casa, o
chi viene dal mare. Ollolai ha milleseicento abitanti, quasi tutti imparentati fra loro e divisi in cinque o sei cognomi fondamentali. L'uccisione di un uomo o un furto, qui, scatenano sorde vendette che possono
portare allo sterminio di decine di persone.
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Nuoro è un paese di ventisettemila uomini promosso città, alcuni
decenni fa, soprattutto per motivi di ordine pubblico, perché ci fossero
la prefettura, la questura, il tribunale, il carcere; perché i briganti, che
anche allora popolavano i suoi monti, sentissero più vicina la mano dello Stato, che non temettero in quei tempi come non temono oggi. La
costa marina ha un aspetto molto vario. Rocce a picco sulle acque e
spiagge aperte mutano quasi ad ogni passo i merletti costieri, vigilati
dalle «torri di guardia» erette da Filippo II. All'interno restano belle
ombre della civiltà protosarda, con gli splendidi villaggi nuragici e le
«domus de janas», le tombe dei giganti.
Da Nuoro a Macomer e da Nuoro ad Abbasanta le strade sono
due, entrambe scorrevoli. Per la concorrenza dell'Anas e della Cassa,
sono state concepite senza reciproche consultazioni, sicchè corrono parallele per un buon tratto. Le dighe costruite nel Nuorese dalla Cassa
sono gioielli di tecnica, ma potranno essere utilizzate solo il giorno in
cui si troveranno i quattrini per portare l'acqua dai bacini alle campagne
riarse. Per quest'area la Regione compilò bilanci come un gran sudario,
steso a confortare i torti subiti. Poichè i torti erano parecchi, il sudario
fu spezzato in mille brandelli, e la Regione, volendo aiutare molti,
scontentò tutti. Ci furono proteste e minacce. Nuoro ricordò che due
leggi speciali in sessant'anni non avevano cambiato niente. Orgosolo
fece notare che la sua prima scuola elementare era stata aperta solo nel
1902, e che il primo orgolese laureato risaliva al non lontano 1922.
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Paese di pescatori, Cabras sciaborda sull'orlo settentrionale del
golfo di Oristano e vive nel terrore di calamità medioevali. Ottomila
uomini, nessuna fognatura. E' il paese in cui i bambini muoiono di gastroenterite virale. L'assurdità del dramma di questa gente è ingigantita
dalla vicinanza dei centri più evoluti dell'isola. Nella piana oristanese le
comunicazioni sono ottime, l'agricoltura fiorente, l'acqua abbondante.
La costa è aperta al turismo, la Cassa ha investito miliardi in bonifiche.
Qui comincia la Sardegna del futuro. Ma è grottescamente simbolico
che sulla testa di questa Sardegna pesi l'incubo della « peste di Cabras».
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La misura del cammino che la Sardegna deve ancora compiere si
ha dall'aereo a bassa quota sulla piana del Campidano: dalle rughe
sconvolte della Barbagia e dell'Inglesiente scende al mare una distesa
secca e nuda, avvolta di riverberi rossi e viola, rotta improvvisamente
da scacchieri verdi. Sono le aree, fertilissime ma ancora scarse, raggiunte dai canali dei nuovi acquedotti. Sui bordi dello stagno a levante
di Cagliari, fumi grigi e ciminiere anticipano le attese dell'industrializzazione.
Cagliari, capitale che non ha rimpianti di antiche grandezze (ed è
serena, libera da ricordi), può offrire immagini più convincenti delle
statistiche, che tuttavia davano all'isola una serie di primati negativi. La
Sardegna è divisa in cinque nuclei: uno a Porto Torres (petrolchimica
attiva, industrie minori); uno a Olbia (iniziative poco fortunate); uno a
Oristano (esiste sulla carta, come il porto progettato sul golfo); uno a
Tortolì-Arbatax (cartiere e impianti minori); l'ultimo nel SulcisIglesiente (è il rebus dell'isola, con alcune industrie che sarebbero andate bene un secolo fa, e altre che andrebbero bene oggi se potenziate e
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ammodernate). Cagliari, dunque, resta il punto di forza dell'industrializzazione isolana. Come tale, dovrebbe assorbire 498 miliardi sui
1.517 previsti dal Piano Quinquennale, (Piano di Rinascita più gli interventi dello Stato). La città ha grandi raffinerie, stabilimenti di trasformazione dei prodotti agricoli, su una rete di 840 ettari regolata da
un Consorzio. Villacidro è sede di un colossale stabilimento per la produzione di fiocco e filati sintetici. L'area industriale avrà un portocanale esteso sui terreni piatti, con acquedotti e strade di servizio. Il costo delle prime opere sfiora i ventiquattro miliardi. Sono previsti investimenti privati per altri centoventi. Una società francese prepara un
centro per la produzione di nichel. Un gruppo scandinavo progetta bacini di carenaggio per navi da duecentomila tonnellate (Cagliari è a
meno di sessanta miglia dalla rotta Gibilterra-Suez). Se le previsioni si
avvereranno, l'area cagliaritana dovrebbe impiegare nel 1975 oltre
41mila operai nell'industria, mentre gli addetti all'agricoltura dovrebbero scendere a quindicimila.
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Logudoro, Anglona, Gallura. Povere terre occidentali dell'alta
Sardegna, attendono da decenni vasti interventi di bonifica. Vi è
tant'acqua che vi si potrebbero creare le più ricche risaie d'Italia. Ma i
fiumi hanno letti dissestati. La Cassa interviene in pianura e crea reti di
collegamento, ma non ha soldi per le sistemazioni montane. Così d'inverno i fiumi gonfiano, vengono giù furiosi, si trasformano in micidiali
valanghe d'acqua che sconvolgono le opere ultimate in estate.
Il turismo potrebbe essere una notevole fonte di ricchezza. Ma i
còrsi hanno dichiarato guerra ai sardi. La loro pubblicità dice: «In Sardegna si spara, venite a godervi il nostro sole nel letto in cui ha dormito Napoleone», In tutta la Corsica pare non ci sia un solo letto in cui
l'imperatore dei francesi non abbia trascorso almeno una notte. Miracoli dell'ubiquità. Ma il turismo delle coste sarde nord-occidentali ne sof258
fre. Per controbattere la sleale concorrenza dei vicini di casa qualcuno
ha proposto di lanciare lo slogan: «Venite nel paese dei seimila nuraghi, ove Napoleone non riuscì a metter mai piede».
259
LE REGIONI SIAMESI
261
Quando scende verso Sud, l'Abruzzo s'addolcisce, le montagne si
spezzano a mezz'aria, le valli s'allargano, e la terra si fa Molise. Una
lunga storia ha unito due regioni profondamente diverse. Di qua e di là
del Sangro tutto è diverso: il colore dell'aria, il temperamento degli
uomini, l'impasto delle campagne. Anche ora che si son fatte regioni
autonome, Abruzzo e Molise hanno in comune soltanto la loro condizione di cerniera tra Nord e Sud. Sono le porte d'ingresso verso la povertà del Mezzogiorno. L'area di Ascoli Piceno, (l'unica zona marchigiana servita dalla Cassa per il Mezzogiorno), è l'anticamera di questa
linea di displuvio che s'allarga fra il Tronto e i comprensori di bonifica
del Vomano. Da qui in giù è la sfera del sottosviluppo.
Una strana sorte ha accomunato le due regioni. Sono quelle che
fino a poco fa hanno preoccupato di meno Stato e governi, quelle che
hanno avuto gli aiuti minori. La stessa letteratura meridionalista ha
guardato poco e male a queste latitudini, ove pure si sono verificate
frane demografiche che hanno superato in intensità quelle della Calabria, e lavine economiche che sono rimaste esempi insuperati di superficialità e di confusione nella storia dei programmi d'intervento nelle
aree depresse italiane.
2
Dell'Abruzzo ci si è accorti solo da poco. La lunga dominazione
pontificia aveva lasciato in eredità al Regno una regione arretrata per
antonomasia. Si viaggiava sui tratturi, i paesi si raggiungevano a dorso
di mulo. Oggi alcune autostrade aggirano le montagne e accorciano le
263
distanze. Un viaggio da Roma all'Aquila non è più un'interminabile avventura. Ma molti villaggi sono isolati sugli omeri delle montagne. I
tratturi non sono stati cancellati. Sugli altopiani son difficili le riconversioni colturali e l'irrigazione. E' molto diffusa la pastorizia, attività
tipica delle aree depresse.
Anche il Molise è stato scoperto da qualche anno. Vi nascono ora
alcune autostrade, una delle quali sbudellerà il Gran Sasso. Ma va ricordato che l'azione di recupero intrapresa dallo Stato in queste due regioni accusa un ritardo di almeno dieci anni. Sono tanti, anche rispetto
al Mezzogiorno più buio che s'incontra più giù.
A occidente, il Basso Lazio è un prolungamento geopedologico
del Molise e della Campania. Di queste regioni ha le caratteristiche di
fondo: aree montane e altocollinari, paesi decrepiti cui è difficile approdare, e i primi grandi nastri d'asfalto che tentano di rompere un lungo isolamento. Anche in queste terre, per un'intera epoca, si è trattato di
un feudo pontificio. Lo stato papale era difeso da pochi mercenari e da
moltissime paludi. Le più vaste erano nell'area pontina e lungo le fasce
adriatiche che delimitano l'Abruzzo fino alle propaggini marchigiane.
Racchiudevano un mondo di estrema miseria, di sgradevole servilismo
e di terribili paternalismi inquisitori.
3
In molti massicci abruzzesi, dopo aver risalito faticosamente il
fianco vallivo ci si trova di fronte a un'insellatura, tra due monti. Di là,
circondata da altre montagne, una conca boscosa e brulla. La dicono
«piano», perchè nel fondo si stende una breve pianura coltivata a patate
o a cereali. Se c'è un fiumiciattolo, è stallo di greggi. Un gruppo di
«piani» si incastra in quel groviglio di monti che formano il massiccio
del Velino e del Sirente, con alcuni villaggi. Ai piedi, la conca del Fucino, con l'antica terra dei Marsi. Lunga trenta chilometri, a settecento
metri sul mare, è solcata da una rete di canali con pioppi e salici. Un
264
secolo fa era il lago di Celano, e superava per estensione il Trasimeno.
L'idea di prosciugarlo fu prima romana. L'imperatore Claudio costruì
un canale emissario di dieci chilometri, e mezzo lago sparì. Poi l'idea fu
abbandonata fino al Settecento. Si ricominciò a metà secolo diciannovesimo. O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me: la scommessa
era fatta da Alessandro Torlonia. Fu il Fucino a perdere. Le acque furono portate sottoterra verso il Liri, e gli abruzzesi ebbero la loro conca
più vasta, due volte più grande di quella di Sulmona, quattro volte quella dell'Aquila. Avezzano riprese vita, e l'agricoltura vi divenne una cosa
seria.
4
Quel che è rimasto del più vecchio Abruzzo è fissato in paesi che
hanno l'aspetto di antichi borghi feudali. Il passato resiste soprattutto in
montagna e sugli altopiani, ove gli armenti cantati da D'Annunzio fanno sempre folla e colore, e i pastori cantano nenie d'altre generazioni.
La Cassa per il Mezzogiorno investe miliardi nei comprensori di bonifica che quasi sempre coincidono con le aree solcate dai fiumi: TrignoSinello, Tronto, Vomano, Aterno-Pescara, Volturno Superiore, Sangro,
Biferno e un pò anche Fortore. All'interno, si opera sulle pendici del
Velino, della Laga, del Gran Sasso, della Maiella. Si cerca di recuperare una terra aspra, durissima, imbrigliata di rovi e macche di quercioli,
di carpini, di lecci nani. E' la terra dei botri, con brevi poderi contornati
da un muro a secco, nei quali non entrano le macchine agricole. E' la
terra che scopre sotto leggeri strati di humus un'ossatura fragile, una
faccia bianca, desertica. I contadini fanno miracoli per tirar su le colture. E vanno a tirarle più su che in qualsiasi altra zona d'Italia, fino a
millecinquecento metri d'altitudine. Anche più in alto che i contadini
della Sila.
265
5
Sulla carta esistono vari nuclei industriali. L'Aquila, però, più
che delle industrie vive del turismo. La città è molto bella, bianca e rossa in un gran paesaggio di steppa montana. D'inverno si chiude nella
neve. Si animano le piste, i pianori, le sciovie. Ma la città resta silenziosa, quasi ascetica.
In quindici anni, Pescara, città epicurea e godereccia, ha visto
triplicare il numero dei suoi abitanti, che in buona parte vivono delle
industrie del nucleo e dell'industria - più redditizia - del mare. Chieti e
Teramo hanno le loro aree di sviluppo, ma il fumo delle ciminiere non
supera il livello delle nebbie montane. Come per Avellino, il balzo è
difficile, sono terre con molto osso, e l'osso le allontana dai grandi centri di propulsione.
Pescara ha spazzato via il passato a suon di capitali, si è votata ai
traffici e alla produzione industriale, ha corso temerariamente il piacere
del rischio, ha saputo sfruttare abilmente la sua posizione di saldatura
tra Nord e Sud, ha galvanizzato l'intera regione, proponendo un discorso spregiudicato e moderno. Il Pescarese è l'unica terra d'Abruzzo che
abbia cambiato completamente fisionomia. L'ossatura industriale partì
ai primi del '900 con l'impianto delle officine metalmeccaniche e della
fonderia di ghisa, che furono per Pescara, fatte le debite proporzioni,
quel che la Fiat è stata per Torino. Poi son venute la Montecatini di
Bussi e di Piano d'Orta, le aziende petrolifere e quelle del cemento. Da
Pescara partono per tutto il mondo prodotti alimentari, farmaceutici e
dolciari, confezioni tessili, macchine olearie, compensati, macchine per
la lavorazione del legno. Le imprese industriali sono in grado di assorbire ventimila unità. La borsa merci del lunedì ha quotazioni che costituiscono indici ufficiali a carattere nazionale. La città ha bisogno di
tecnici. Dovrebbero provvedervi le libere università. Ve ne sono due, a
L'Aquila e a Pescara, con facoltà anche a Chieti e a Teramo. Ma quella
266
degli ampliamenti delle sedi e della loro definitiva dislocazione è una
dura polemica ancora in corso. Come per la Calabria.
Tra Pescara e le città vicine si contano una settantina di alberghi
degni di questo nome. La densità territoriale è tra le più alte del Mezzogiorno. Il turismo marino ha un forte reddito. Anche quello montano,
interno. Si dice che le maggiori prospettive abruzzesi siano aperte proprio dal settore turistico. E la Cassa ha finanziato i nuclei di sviluppo
turistico, ma i soldi non sono sufficienti, lo Stato quasi se ne disinteressa, i privati temono i rischi troppo scoperti. Il giro è vizioso, e rallenta
il ritmo dello sviluppo.
6
L'unica vera industria di Chieti produce camicie che esporta al
novanta per cento in Germania. Una grande speranza è il centro per la
produzione dei radiatori di ghisa, nato con capitali italo-francesi che
dovrebbe avere , una notevole espansione. Per il resto, si è in attesa di
capitali pubblici e privati.
Teramo, l'antica Interamnia, è una città tipicamente pedemontana, inchiodata su una valle sconnessa e scarsamente produttiva, con un
mediocre sviluppo industriale. Chieti, attaccata a Pescara da un breve
cordone d'asfalto, vive di riflesso la vita economica e sociale della città
dannunziana. L'area di sviluppo, la « Valle del Pescara» ha saldato i
vincoli fra le due città. I recenti ritrovamenti di metano nei territori di
San Salvo e Cupello e la disponibilità della rilevante produzione di energia elettrica costituiscono un ulteriore incentivo ai fini dell'intervento di nuovi finanziamenti industriali.
Tutto l'apparato industriale dell'Abruzzo-Molise, (dovremmo dire: dell'Abruzzo soltanto), finisce qui. All'interno c'è il metano, non si
sa quanto, perchè mai sono state condotte indagini e rilevazioni specifiche. Per un certo tempo s'era pensato all'intervento dell'Eni, ma non se
n'è fatto nulla, e sui pozzi abruzzesi è calata una cortina di silenzio.
267
7
Dovrebbero redimere una gran parte del Molise una diga alta
sessanta metri e un lago artificiale. Inizialmente, la capacità sarebbe
stata di otto milioni di metri cubi, in una fossa larga in media un chilometro, lunga otto. Le prime previsioni irrigue del progetto parlavano di
circa quattromila ettari nella valle del Basso Biferno e di un migliaio di
ettari nella piana di Boiano. Aggiornato, il progetto ha dimensioni mastodontiche: la costruzione della diga di Ponte Liscione permetterà l'accumulo di circa centosessanta milioni di metri cubi d'acqua, destinati
ad usi irrigui e potabili, e alla produzione di energia elettrica. Lo schema riguarda circa diciannovemila ettari lordi. La superficie netta irrigabile supera i quindicimila ettari. La spesa - dieci miliardi di lire - è tra
le più rilevanti tra quelle sostenute dall'intero programma di coordinamento della Cassa. L'investimento complessivo sarà pari a trentasei miliardi, e prevede un canale portante e un'ampia rete di distribuzione che
comprenderà anche il Territorio del Larino. I paesi del Biferno stanno
per vivere gli ultimi anni della civiltà contadina. La grande diga romperà la crosta del sottosviluppo, e il 1980 sarà il primo anno della rinascita molisana,
La Cassa ha investito dodici miliardi per i primi tronchi delle arterie di fondovalle, simili a quelle lucane, che evitano i monti, o li superano con gallerie e viadotti. Campobasso si cuce a Foggia, a Napoli e
a Roma, che sono gli sbocchi di maggiore interesse per le produzioni
agricole regionali, e le vie obbligate per l'inserimento nei giri industriali del futuro. Qualcosa, infatti, anche nel settore dell'industria, comincia
a muoversi. Molti albanesi e dalmati che vivono arrampicati sui paesi a
nido d'aquila si salutano ancora dicendo «ghiaku sprishur», sangue
sparso, e molti molisani disseminati in tutta Italia e in mezza Europa
potrebbero ripetere questa voce senza cadere in contraddizione, tanto
violenta è stata la spinta migratoria che ha portato il Molise in cima alla
graduatoria nazionale. Malgrado ciò, le infrastrutture di base che si
268
vanno predisponendo lasciano pensare che si stia preparando un avvicinamento del Molise all'attività industriale pugliese. Molise e Lucania
svolgeranno così i ruoli di regioni-satelliti della Puglia. Non è dato sapere se la regione autonoma saprà porsi su questa strada, che è la più
conveniente almeno fine a questo momento, nè se le sarà possibile assumere le fisique du rôle superando le tremende pressioni che le altre
regioni opereranno in concorrenza. Ma i molisani - una sola provincia
in tutta la regione, e per di più con un terzo degli abitanti rispetto al milione di unità previsto dalla Costituzione - si son battuti a fondo per separarsi dall'Abruzzo, convinti di ottenere risultati più confortanti rispetto al passato. Saranno gli artefici del loro rilancio o della loro disfatta.
8
L'area di Termoli è l'antitesi del Molise interno, di quella parte di
regione rimasta tagliata fuori dalle prospettive create dalla diga di Ponte Liscione. Vi si giunge dopo ottantatre chilometri di strada difficile e
una ferrovia di cartone che, fra Casacalenda e Campolieto, (si sfiorano i
mille metri d'altitudine), resta spesso bloccata. Strada e ferrovia non uniscono, ma dividono questo Molise da Campobasso. Questo è montagnoso, gelido, isolato. Termoli ha il mare. Niente, neanche il dialetto, li
accomuna. La mentalità mercantile dei termolesi contrasta violentemente con quella impiegatizia, «ministeriale», dei campobassani.
Gran parte del Molise guarda ancora a Napoli e alla Valle del
Sacco. Termoli sparte gli occhi tra Pescara e Bari. Il Molise insegue
una grande agricoltura e un moderato sviluppo industriale. Termoli si è
buttata nel turismo, ha speso fino all'ultima lira le rimesse dei suoi emigrati, ha rischiato grosso, e oggi è l'anticamera di Brindisi per le correnti dirette in Grecia. Il Molise spera, Termoli è stata impaziente e si è
costruita il futuro con le sue mani. Non ha mai avuto una lira dalla Cassa, ma si è costruito un porto moderno, ha realizzato i collegamenti più
comodi per le Tremiti, affascina e trattiene i turisti di passaggio, accu269
mula nuovi capitali che poi reinveste in attrezzature alberghiere e in
grosse imprese artigianali.
L'aeroporto di Pescara non è lontano. Foggia è a due passi, con i
suoi grandi paesi popolosi come città. Essi costituiscono il serbatoio turistico del piccolo centro adriatico. Nell'immediato dopo guerra Termoli era poco meno d'un villaggio. Oggi ha le prime raffinerie molisane.
Perciò questa città si sente estranea al Molise. Sa di esserne l'antitesi.
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Si entra nel Basso Lazio da Avezzano. Il cordone corre tra le due
abbazie più famose del Centro-Italia. Sono a Subiaco e a Cassino. Due
piccole repubbliche teocratiche che ancora oggi influiscono profondamente sulla vita politica ed economica dei comprensori. Dal corso del
Liri si scende nella Valle del Sacco, infossata tra bige montagne che
videro scorrere fiumi di sangue nell'ultima guerra. La Valle del Sacco è
un feudo che fa capo ad Andreotti. In tempi non remoti era sconvolta
dalle acque che precipitavano dagli Ernici e dai Lepini. Oggi quelle acque sono totalmente regimate. L'agricoltura è fiorente, l'industria fiorentissima. Gli squilibri non mancano. Intere aree montane sono isolate, con paesi collegati da antiche mulattiere care a San Benedetto nel
Cassinate, e a Lucrezia Borgia nel Sublacense. Ma è la sorte di tutti i
borghi montani. Gli uomini scesi a valle non hanno grandi rimpianti.
Sono zone, queste, destinate a più intensi sviluppi. Soprattutto quella di
Cassino, che salda i gruppi di industrie campane con quelle della Capitale. Qui il Liri si è trasformato nel Reno della Ciociaria. Malgrado ciò,
l'esodo è stato imponente. Su novantuno comuni, ottanta hanno subito
un forte decremento demografico. I paesi montani sono stati dimezzati
dalle fughe. Casalattico, Filettino, Pescosolido, Settefrati, Gallinaro,
Acquafondata, Picinisco, sono paesi-ombra. Per l'agricoltura vi si utilizza oltre il novantacinque per cento di una terra che non è fertile.
Montagne e colline ovunque. Ovunque, un'economia agricola di auto270
consumo. Solo più su, verso l'area Pontina, in trent'anni la terra ha
cambiato faccia. Ove una volta imperversava la malaria oggi sorgono
250 complessi che occupano venticinque mila operai, tecnici e impiegati. Per Cassinate e Sublacense, resta da toglier di mezzo il serioso paternalismo degli abati, figure anacronisticamente legate a concetti di
temporalismo che oggi offenderebbero un Borbone. Ma anche questa è
storia che si va consumando.
Le nuove strade interrompono le muraglie che dividevano i paesi
vallivi. L'Autostrada del Sole ha portato Napoli alle soglie della Capitale. Ho visto scuole arrampicate a millecento metri, e ragazzi alle prese
con tornii e fresatrici, strumenti da marziani fino a qualche anno fa. I
monasteri, come repubbliche teocratiche, restano sempre più isolati.
Pare salgano sempre più in alto, fino a restare microscopiche immagini,
quasi trasparenti, ricordi che vanno diventando un pò alla volta più remoti, riferimenti metafisici sconfitti dall'ansia illuministica degli uomini stanchi del mito delle speranze.
271
LE CINQUE PUGLIE
273
I nuclei industriali attivi della Puglia sono tre, Bari, Brindisi e
Taranto. Sulla carta salgono a cinque, con la Capitanata e il Salento. La
regione, teoricamente, è tutta zona di industrializzazione. Ma in realtà
lo sviluppo, tranne poche eccezioni, si è fermato sui gradini delle cattedrali industriali, spettacolari e solitarie, senza i tessuti intermedi che determinano la diffusione del benessere. I nuclei sono stati determinati
dalla Cassa per il Mezzogiorno che, scelte le aree, vi ha eseguito alcune
importanti opere infrastrutturali. Il nucleo barese è a ridosso della città
e segue le indicazioni del piano regolatore della preesistente zona industriale, approvato nel '63 come stralcio generale del piano regolatore
dell'area. Indica la sistemazione urbanistica dell'intero comprensorio
territoriale di competenza del Consorzio, con le scelte operate per l'insediamento di altri agglomerati industriali, e gli obiettivi di occupazione. Per l'area di Brindisi il piano prevede l'attrezzatura di un agglomerato principale di 1.720 ettari, con tre satelliti a Fasano, Ostuni e Francavilla, per altri duecento ettari. Con una densità variabile da quindici a
sessanta addetti per ettaro, secondo la tipologia industriale prevista, vi è
la possibilità di impiegare da venticinquemila a trenta mila operai e impiegati. Il costo presunto delle attrezzature sfiora i sessanta miliardi di
lire 1963. Negli agglomerati satelliti si prevede la creazione di setteundicimila posti di lavoro, per un costo complessivo di un miliardo
1963.
Nello studio economico si è tentata una stima degli investimenti
socio-culturali necessari a garantire la realizzazione del piano e degli
obiettivi previsti, eliminando le strozzature riscontrate nell'ambito del
comprensorio e dell'area. Tale stima indica investimenti per circa due275
cento miliardi in tre fasi, destinati alla costruzione di scuole a vari livelli, alloggi, attrezzature turistiche e sportive, centri di qualificazione
professionale, potenziamento dei servizi. Per l'area tarantina le infrastrutture, una volta ultimate, dovrebbero avere assorbito ventidue miliardi. E' prevista con eccessivo ottimismo la creazione di 83 mila nuovi posti di lavoro. Il piano di Foggia prevede l'utilizzazione di quattrocento ettari per l'insediamento di industrie leggere e di trasformazione
dei prodotti agricoli. L'occupazione dovrebbe interessare a chiusura del
primo ciclo cinquemila unità. Il Salento dovrebbe essere tutta area di
sviluppo, dal momento che è considerato polo turistico. Ma i poli turistici sono delle cose vaghe. Sicchè si può dire che l'estrema terra pugliese sia l'unica in tutta la regione a non avere alcuna prospettiva di
sviluppo industriale con capitali pubblici.
2
La Puglia non ha, a differenza della Calabria, abbondanza di energia motrice, e vi mancano in grandissima parte le materie prime. Vi
sono alcuni tipi di minerale, (mica, cromo, bauxiti), e alcuni notevoli
centri di produzione di salgemma. In certi tratti dell'alta costa adriatica,
da Bari al limite del Fortore, potrebbero essere localizzate industrie per
la distillazione dei combustibili fossili, ginestrifici per la produzione di
fibre tessili, gessifici, cementifici, linifici, industrie del legno. Più a
sud, da Brindisi a Lecce, potrebbero avere grandi possibilità di sviluppo tutti i tipi di produzione a valle della chimica.
Il discorso sull'agricoltura resta ancora complesso. Su un milione
e seicentomila ettari disponibili, 670 mila (secondo una stima ottimistica), oppure 150 mila (secondo i pessimisti), potrebbero essere riservati
esclusivamente alle colture specializzate. Gli altri dovrebbero essere
rimboschiti e destinati ai pascoli. Gli emigrati sono un esercito, anche
se le fughe, almeno dal '66 in poi, stagnano. E' stato scritto che insieme
e seriamente sfruttati turismo e agricoltura potrebbero fornire un buon
276
tenore di vita a 380 mila famiglie. Attualmente ve ne sono circa 450
mila. Quali sono le prospettive per le altre? Quelle dell'industria. Ma
l'industria pugliese ha una storia strana. I nuclei, anche i principali,
quelli del «triangolo» centrale della regione, restano Puglie lontane tra
loro. Bari ha industrie prevalentemente meccaniche, leggere, quelle che
rendono di più. Taranto, con la cattedrale del siderurgico, è un mondo
chiuso. Brindisi poteva essere un polo di collegamento, soprattutto un
polo di proliferazione. Ma è tipico il caso del taglio dei viveri verificatosi per questa città. Il piano Cee, che prevedeva investimenti complessivi per cento miliardi di lire nelle tre aree, ha visto ridursi il triangolo
in un asse che va da Bari a Taranto, con una diramazione minore verso
Foggia (ove la Fiat impiegherà un migliaio di unità), e la possibilità di
una «girata» di minori proporzioni verso Matera. Brindisi è rimasta
fuori, e al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno nessuno ha saputo
dirci perchè.
3
Il siderurgico sorge a cinque chilometri da Taranto, tra il mare e
gli ulivi, e si stende per seicento ettari, occupando una superficie più
vasta della stessa città. Visto dall'alto, pare la concretizzazione delle
immagini dickensiane di «Tempi difficili», una Coketown dei nostri
giorni. Questo regno dell'acciaio ha richiesto investimenti per centinaia
di miliardi. E' un'oasi di ferro nel deserto dei tufi. Lo hanno chiamato «
l'elefante bianco», un elefante che non fa razza, non prolifica. Colossale, ma fine a se stesso. Non è riuscito nemmeno a risolvere i problemi
dell'occupazione tarantina. Alla sua costruzione lavorarono quindicimila operai. Ora ne occupa meno della metà. Si noti che Taranto, molto
cresciuta in questi ultimi tempi, aveva un arsenale che dava lavoro a
dodicimila operai.
4
277
Il discorso sull'industrializzazione della Puglia può cominciare
qui. E' un discorso difficile e delicato, che a farlo in termini. puramente
economici conduce spesso a conclusioni deludenti. Fermiamoci al caso
della città bimare. La necessità di realizzare il siderurgico c'era. Il problema si poneva in questi termini: accertato che la domanda d'acciaio
avrebbe ricevuto uno sviluppo nei prossimi anni, occorreva prepararsi
ad incrementarne la produzione. Le soluzioni erano due: ampliare gli
impianti attivi, (Bagnoli, Piombino, Cornigliano), oppure crearne di
nuovi. Si scelse la seconda via, perché l’Iri sapeva che l'incremento della produzione non sarebbe stato possibile con l'ampliamento degli impianti preesistenti.
A questo punto restava da risolvere il problema dell'ubicazione
del nuovo siderurgico. Le valutazioni erano diverse. Ragionando in
termini strettamente economici, il « gigante» andava costruito là dove
era più densa la domanda, cioè in una zona costiera del Centro-Nord,
tenendo conto appunto delle spese di trasporto che avrebbero inciso sui
costi e quindi sui prezzi ai fini della concorrenza interna ed esterna. Ma
si volle inquadrare il problema nella gran questione dell'industrializzazione del Sud. In sostanza, al discorso economico si sostituì quello politico e sociale. Se il siderurgico fosse sorto al Nord, l'industria di Stato
avrebbe contribuito a perpetuare gli squilibri nella struttura economica
generale del Paese. Dice l'Iri, e con esso il governo: tutte le imprese utilizzatrici di prodotti siderurgici avrebbero trovato un nuovo motivo di
attrazione nell'area centro-settentrionale. Così, però, si sarebbero ancora di più allungati i tempi dello sviluppo industriale del Sud. Perciò fu
scelta la zona a nord di Taranto, che è sulla costa, fa da confluenza a
strade e ferrovie, ha alle spalle una zona pianeggiante che può permettere la nascita di eventuali industrie sussidiarie, e per di più rappresenta
una testa di ponte verso il Medio Oriente e l'Africa, mercati ai quali mira la siderurgia italiana.
278
Almeno apparentemente, il ragionamento fila. Sta di fatto, però,
che il siderurgico è rimasto un ciclope solitario, isolato. Ovviamente,
anche a questa constatazione c'è una risposta. Si obietta, infatti, che è
troppo presto per giudicare se il gigante rimarrà solo nel deserto, se insomma sia da considerarsi veramente un elefante bianco.
La controrisposta, in questo caso, è che un siderurgico non è più
un'industria motrice. Si citano in proposito gli esempi di Terni e Piombino, ove nonostante tutto non sono sorte unità industriali consistenti
negli ultimi cinquant'anni. I criteri cui ci si è attenuti per il siderurgico
tarantino, si dice, andavano bene nelle condizioni tecnico-economiche
della fine del secolo scorso o dei primi anni del '900. Allora la siderurgia nasceva obbligatoriamente, a causa dei costi di trasporto delle materie prime, nelle zone ricche di carbon fossile o di minerali di ferro.
Sempre per le stesse ragioni, in prossimità della siderurgia si collocava
l'industria meccanica. Ma c'è di più: l'industria meccanica presentava
una volta caratteristiche diverse da quella moderna. Bastava acquistare
acciaio e carbone. E nello stesso stabilimento potevano essere effettuate tutte le operazioni necessarie fino al prodotto finito.
Oggi il processo produttivo ha subito una rivoluzione. L'industria
di base e quella dei prodotti finiti, che sono l'alfa e l'omega dell'intero
ciclo industriale, non occupano più una posizione predominante. Al
contrario, predominanti sono le attività produttrici di beni e di servizi
intermedi. Nell'economia moderna un'azienda industriale, se vuole sostenere la concorrenza, deve specializzarsi, deve cioè concentrare gli
sforzi sulla sua attività principale, e ricorrere invece ad altre aziende
specializzate per le attività connesse, (ottomila aziende minori e private
lavorano prodotti utilizzati dalla Fiat). Di qui la necessità delle grandi
concentrazioni territoriali: vale a dire che un'industria ha bisogno di avere intorno a sè nuclei di aziende che formino beni e servizi connessi
con la propria attività per una produzione costantemente competitiva.
La mancata realizzazione
279
di queste attività. complementari nelle aree brindisina e salentina ha
creato intorno al siderurgico di Taranto un circolo vizioso. Da esso sono nate le illusioni prima, e successivamente le reali difficoltà dell'industrializzazione su vasta scala delle aree meridionali pugliesi.
5
Il successo dello sviluppo industriale pugliese e meridionale è
strettamente collegato alla possibilità di creare in ampie aree poligoni
di unità industriali principali che abbiano tecniche simili, e che siano
completati da unità ausiliarie intermedie. Come dire: si fanno sorgere di
forza i «poli di sviluppo», attuando così un compromesso di criteri economici e di criteri sociali. I poli, poi, agiscono da motori per lo sviluppo industriale delle zone non toccate dal «miracolo». E' la teoria degli assi di sviluppo: tra un polo e l'altro va sollecitata e attuata la nascita
dei collegamenti connettivi. Si crea così la rete industriale attiva.
Forse questo era nella mente di coloro che vollero il siderurgico.
Poi le cose sono restate a mezz'aria. Si indicarono per la chiusura del
grande ciclo gli anni sessanta. Fu un errore dovuto all'entusiasmo. Si
indicarono poi gli anni ottanta. Ma anche questa data sembra troppo vicina. Malgrado tutto, la Puglia accusa il pericolo dei tempi troppo lunghi. Solo Bari fa eccezione a questa regola.
6
I convegni sui traffici marittimi con i Paesi africani e medioorientali
hanno cercato di puntualizzare attraverso gli studi degli esperti i precipui interessi della nostra economia e di quella del bacino mediterraneo,
sollecitando l'allargamento dell'area commerciale e indicando nuove e
più importanti vie di sbocco per la produzione pugliese e meridionale.
L'Africa soprattutto, interessata com'è al processi di rinnovamento e di
280
trasformazione, va a mano a mano abbandonando i vecchi costumi di
vita per avviarsi a più moderne forme di organizzazione.
Questo continente, però, non è ancora in grado di risolvere i problemi della propria espansione economica. Ha bisogno di collaborazioni intense, specialmente di nuovi scambi. Dovrà essere compito delle
nazioni europee - e delle regioni mediterranee - tendere una mano al
continente nero. E se poche altre nazioni sembrano più idonee di quella
italiana ad assecondare gli slanci di progresso che si verificano sulla
«quarta sponda», pochissimi centri industriali sono più adatti di quelli
pugliesi ad assumere un ruolo ed una funzione di prim'ordine per queste nuove possibilità.
Lo sviluppo dei traffici con i Paesi mediterranei centro-orientali
ha come presupposto indispensabile la soluzione del problema dei porti
meridionali, per i quali si impone un complesso piano di nuove strutture. Brindisi è, in questa visione mediterranea dell'espansione economica, in prima linea. Proprio da questa città è partito l'appello a non disperdere i fondi e a non distrarre gli sforzi in ampliamenti e attrezzature
portuali di secondaria importanza. Il movimento di merci e prodotti finiti verso i Paesi della sola Africa ha interessato in questi ultimi tempi
l'Italia per una media annua di sei milioni di tonnellate. Il trenta per
cento delle merci in partenza ha preso il via da Brindisi, che è così risultato tra i primi porti attivi del Mezzogiorno, e la maggiore porta italiana per gli empori mediterranei.
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Mario Dilio ha scritto che la Puglia è fra le regioni del Mezzogiorno nella più idonea condizione per porre in essere la realizzazione
di un'area di sviluppo globale con un ruolo preciso che essa deve avere
nella strategia di avanzamento dell'intero Sud. Tra l'altro, l'area pugliese è stata individuata in stretta connessione con i problemi e i fenomeni
di sviluppo della Lucania. Essa integra da un lato la concentrazione di
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Bari, Brindisi e Taranto con il processo industriale e agricolo in atto
nella Daunia e con quello turistico della penisola salentina, e dall'altro
con quello in corso nel versante ionico del materano. Se così sarà, per
la prima volta nel Mezzogiorno si cominceranno a impostare globalmente i problemi dello sviluppo, evitando di cadere nella frammentarietà e nella dispersione.
Quali sono le linee dello sviluppo economico dei prossimi anni?
La legge di rilancio dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno poggia le sue fondamenta sul concetto della concentrazione degli sforzi nei
tre settori dell'industria, dell'agricoltura, del turismo. L’ approvvigionamento idrico in generale, e quello per uso irriguo e industriale in particolare, assumono per unanime riconoscimento un aspetto realisticamente prioritario in una regione come questa: esso ben si coordina con
l'obiettivo dell'intervento pubblico in agricoltura, inteso a sviluppare
quei comparti produttivi più rispondenti all'agricoltura meridionale e
all'evoluzione della domanda interna e internazionale. Di qui l'intenzione di favorire l'irrigazione, la trasformazione delle colture tradizionali, la realizzazione di infrastrutture industriali di conservazione dei
prodotti, la loro trasformazione e commercializzazione, onde consentire
alle imprese agricole di acquisire, attraverso adeguati rapporti con il
settore industriale e quello distributivo, una maggiore quota del valore
aggiunto della produzione agricolo-industriale.
Per la Puglia sono stati delimitati nove complessi irrigui: Fortore,
Sinistra Ofanto, Destra Ofanto. Schemi minori del Tavoliere, Tara, Sinistra Bradano, Schemi minori del Salento, Zone litorali del Gargano,
Fascia costiera del Barese. Si tratta di zone irrigabili. Alla data 1970,
per circa 65 mila ettari, che investono aree di valorizzazioni connesse
per circa 730 mila ettari.
Per quel che riguarda lo sviluppo del turismo, i tre comprensori
individuati sono quelli dei «Trulli e Grotte», del «Gargano e delle Tremiti», del «Salento», per una superficie globale di poco superiore ai
cinquemila chilometri e una popolazione che sfiora le seicentomila
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unità. Lo scacchiere è evidentemente troppo vasto per le iniziative prese e per quelle in programma. Il futuro non è chiaro.
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In Capitanata, in una zona che al 47 per cento è coperta da seminativo - il vecchio granaio d'Italia dell'epoca in cui si seminavano cereali anche nei vasi di fiori - sarà finalmente possibile insediare orti, vigneti a tendoni per i vini pregiati, giovani uliveti. Il reddito attuale dei
terreni è così basso da documentare drammaticamente ciò che da mezzo secolo si dice quando si parla di crisi, di grave crisi per l'economia
agricola del Tavoliere. Il piano di trasformazione predisposto parallelamente alla costruzione del complesso di Occhito, che una volta ultimato costerà centocinquanta miliardi di lire, prevede la realizzazione di
programmi che erano considerati un'utopia. La diga è la prima opera
destinata a segnare una svolta decisiva nella storia dell'economia dauna. Ne sono allo studio altre per la valorizzazione di tutte le risorse idriche del Tavoliere. Complessivamente, circa la metà del comprensorio, di oltre duecentomila ettari, è compresa nell'area irrigabile.
La Puglia ha poche acque superficiali. E' bagnata da due soli
fiumi, il Fortore e l'Ofanto, e da qualche torrente quasi sempre in secca.
Per di più, è difficile, essendo una regione priva di montagne, reperire
invasi naturali. Quelli artificiali, inoltre, come si è visto per l'Occhito,
sono di complicata realizzazione per la natura carsica dei terreni. Onde
lo sforzo colossale che si va compiendo da anni con i fondi stanziati
dalla Cassa per sfruttare ogni risorsa. Il piano irriguo del Tavoliere riguarda altri due complessi, quello dell'Ofanto e del torrente Carapelle,
oltre allo sfruttamento delle sorgenti carsiche e delle acque di scarico
industriale e urbano. Quattro invasi artificiali saranno realizzati sugli
affluenti dell'Ofanto, (il Rendina, l'Atella, l'Osemo e il Marana Capacciotti), per una capacità complessiva di centodieci milioni di metri cubi
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per l'irrigazione di altri trentamila ettari. Il, complesso del Carapelle e
quelli minori porteranno l'acqua su ventitremila ettari.
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Il Salento è bello ma povero, d'un'antica povertà greca. Vive di
poche industriole, dei commerci, dell'agricoltura. Le strutture agricole,
su cui poggia fondamentalmente l'economia locale, sono antiquate. La
fuga dai campi è determinata dai redditi bassi e aleatori. Il frazionamento delle campagne impedisce le trasformazioni delle colture e l'ingresso della meccanizzazione. Circondata da cinque consorzi di bonifica, (Arneo, Ugento, Li Foggi, Alimini-Fontanelle, San Cataldo). Lecce,
città colta, isolata, statica, è al centro di una terra che vive in una dimensione temporale che non ha gli strumenti per una marcia di trasferimento in una sfera moderna e dinamica. Più u'ogni altra area pugliese,
il Salento, questa antica quinta Puglia, è l'immagine d'una regione in
crisi. Una crisi cristallizzata, che non è riportabile ad alcun altro esempio dell'esperienza italiana, e pertanto più preoccupante, perchè taglia
fuori uomini e terre che sono stati all'origine delle correnti intellettuali
e culturali della regione. Non è un vanto retorico, nè un luogo comune.
E' la constatazione della decadenza del fenomeno culturale provinciale
come base per uno sviluppo anche economico, civile, sociale. Le constatazione, cioè, delle differenze di fondo che sono puntualmente riscontrabili tra gli impegni ideali e le correlazioni pratiche nell'Italia e
nel Mezzogiorno, e nei Paesi più avanzati dell'Europa occidentale.
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INDICE
Meridionalismo in crisi?
Vecchi miti e nuove frontiere
L'aggressione del Mezzogiorno
Politica agraria: tallone d'Achille
Il Sud col cuore d'acciaio
Dieci milioni di braccia
Gli anni dell'ultimatum
Una politica mancata
Partiti e Mezzogiorno
Tra l'Europa ed il Mediterraneo
Per un nuovo meridionalismo
Mezzogiorno a passo d'uomo
Le due Lucanie
Le « isole» calabresi
Sicilia un altro continente
Napoli senza il regno
L'altra Campania
La questione sarda
Le regioni siamesi
Le cinque Puglie
Pag.
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Tipografia di Matino - Matino (Lecce)
finito di stampare il 30 agosto 1968
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Terzo Sud, Matino, E.B.I., 1968