TERZO SUD ALDO BELLO TERZO SUD TIPOGRAFIA DI MATINO A Niny e a Sergio. Affrontare oggi i problemi del Mezzogiorno, riproporli in chiave moderna, significa correre diversi rischi: cadere nelle vecchie tematiche, con gravi distorsioni ottiche nella fisica, nella geografia, nell'economia, nello sviluppo civile del Sud degli anni settanta; lasciarsi corrompere dalla tentazione di formulazioni astratte, quasi fosse, questo Sud, una bella preda, una gran cavia per gli esperimenti nel laboratorio dei tecnocrati e dei futuribles; subire il pestaggio morale dei conservatori ad oltranza e dei progressisti: per posizione o per strategia, apparentemente agli antipodi, ugualmente incontentabili. Sono rischi reali. Vale la pena di correrli? Per intere epoche tutti i problemi che confluivano nel limbo incandescente della questione meridionale hanno fatto moda. I politici se ne son serviti per le loro esercitazioni oratorie; le opposizioni ne hanno tratto buon gioco per le requisitorie morali; i trotters, da Gladstone ad Alvaro, dalla Lutz a Répaci, per le loro cronache paternalistiche o giacobine. Gli echi di cinquant'anni di incontri e di scontri sui problemi del Mezzogiorno, (nell'età d'oro del meridionalismo, dai giorni della Unità ai primi trent'anni del nostro secolo), son serviti a riproporre in termini concreti la necessità di un massiccio intervento dello Stato. Era il secondo dopoguerra. Sulle macerie d'un popolo e d'un Paese germinava la speran- za d'una nuova vita. Una ventata di ottimismo, nel clima della libertà riconquistata, scuoteva uomini del Nord e del Sud. All'irrazionalismo tragico e grottesco del ventennio succedeva un'ansia illuministica, con la quale soltanto era possibile affrontare situazioni gravissime e problemi immensi. Ci si mise al lavoro guidati dalla necessità, e per qualche anno si trattò, per il Mezzogiorno, di una politica quasi giolillitiana, empirica, occasionale. Poi vennero i tempi della nueva ola, i tempi della Cassa e della pacifica "aggressione" degli antichi problemi delle aree meridionali. Cominciò a morire, così, il vecchio Sud, il primo Sud della grande sete oraziana, del latifondo, delle rivolte contadine, delle pacificazioni armate, del fiscalismo alla rovescia, delle rapine coloniali, delle collusioni mafiose, del sottosviluppo da paese equatoriale. Vent'anni dopo, oggi. Resta ancora molto del passato, ma c'è anche un "nuovo Sud". Accanto ai paesi-ombra, ai villaggi-cimitero, svuotati dalle migrazioni, fulminati da un'impossibile agricoltura montana, accartocciati da climi torridi o corrosi da valanghe d'acqua torrentizia, sorgono nuovi quartieri in aree sistemate, rimboschite, con acquedotti, irrigazioni, strade, scuole, ospedali. Con le industrie. Migliaia di giovani hanno sostituito il mulo col trattore, la roncola con il tornio e la fresatrice. In vaste aree del Mezzogiorno si è verificato un cataclisma di trasformazioni, di sovvertimenti. Scuola e qualificazione professionale stanno per sconfiggere l'analfabetismo e il bracciantato generico. Chilometri di inutili muscoli caratterizzavano il primo Sud. La tuta blu e l'abitudine al salario cominciano a caratterizzare il secondo. Ma tutto questo non basta. Le contraddizioni non sono teoriche. Esistono. E sono ancora troppo gravi. Accanto al Mezzogiorno tramandato dalla cultura agraria ha preso posto il Mezzogiorno della cultura industriale. Un mito del passato accostato a un mito del presente, che rischia anch'esso di trasformarsi, per ogni giorno che se ne va, in un monumento protostorico. Il secondo Sud sta per morire nello stesso momento in cui nasce. Il gap, il nuovo gap, è ancora una volta umano e tecnologico. Economico e civile. Questo divario può ricondurre la questione ai punti originari, annullando un'intera epoca di politica meridionalistica. Sicchè i termini in cui si ripropone la questione, oggi, sono nuovamente drammatici. O il Sud diventa una frontiera dello sviluppo tecnologico italiano ed europeo, o fra dieci anni, forse anche molto meno, potremo rileggere, con lievi aggiornamenti, i classici del meridionalismo, e trovarvi, incontaminata, una realtà bruciante, in perfette proiezioni euclidee, con parametri immutati se non apparentemente. E' una assioma. Come tutte le verità fondamentali, non ammette aggettivi. Non ha limiti di verifica, perchè non lascia spazio al dubbio. Da ciò, la necessità di un terzo Sud, il Sud del secolo ventunesimo, che, superati tutti i gaps che formano il suo gap maggiore, si trasformi, come si dice, nel Tennessee o nella California italiana. Un Sud aggressivo, spregiudicato, dinamico, libero dai ruderi della sua preistoria e della sua protostoria, che entri nel futuro non riflettendolo, ma determinandolo. Esistono le basi per il take off? Rispondere a questa domanda significa percorrere il cammino alla rovescia: più che mettere in evidenza ciò che spinge al decollo, occorre circoscrivere quel che vi si oppone. Ciò vieta le facili illusioni, e cala in una realtà senza scorie. Questo è l'obiettivo che ci si propone. Sulla scorta delle recenti esperienze, che sono state cronaca e storia del Sud postbellico, è stato impressionato uno scarno giornale di bordo. Slegato, caleidoscopico, antipoetico (ha troppo nociuto, al Sud, una lunga stagione poetica putrida mente decadente). Si è guardato alle cose. Le risposte ai quesiti di fondo, come vuole chi è cresciuto nella patria e sulla memoria di Vico, sono spontanee, intrinsecamente conseguenti. Se, a tratti, inconsapevolmente, il cronista ha tradito le sue intenzioni, la ragione va cercata in un "interno", oscuro e affascinante, indecifrabile, in cui resta, malgrado l’evasione e l'avventura in altre latitudini, un segreto amore per una terra che si ha nella pelle. MERIDIONALlSMO IN CRISI? Il desiderio di una interpretazione della storia ha radici così profonde che se non possediamo una visione costruttiva del passato, finiamo per cadere nel misticismo o nel cinismo. Frederick Maurice Powicke Quando un'età è in declino tutte le tendenze sono soggettive. Goethe citato da Huizinga La nostra nuova frontiera non è una serie di promesse ma una serie di problemi. Al di là di questa frontiera si aprono le terre inesplorate della scienza e dello spazio, dei problemi irrisolti della pace, dell'ignoranza, del pregiudizio, della povertà. John Fitzgerald Kennedy 1 Il 30 marzo 1967 si inaugura presso l'Università di Torino un Seminario di Studi su Nord e Sud nella società e nell'economia d'oggi. L'incontro, patrocinato dalla Fondazione Einaudi, dura nove giorni, e registra un cospicuo numero di relazioni, tra cui quelle fondamentali di Francesco Compagna, Augusto Graziani, Giuseppe Galasso e Manlio Rossi Doria. In sintesi, il Convegno vuol chiarire i termini in cui si pone la questione meridionale alle soglie degli anni settanta, e sottolineare quel che va fatto per attuare in concreto l'unificazione economicosociale del Paese e porre fine al dualismo della società italiana. Coerenti. con le premesse, i relatori parlano del dramma dello spopolamento rurale, dell'emigrazione, degli eterni squilibri territoriali, del caotico urbanesimo del Nord, delle aspirazioni del Sud. E fin qui, nihil sub sole novi. Son temi antichi, motivi che riecheggiano tutto il tradizionale arco del pensiero meridionalista. La doccia fredda si ha nel momento in cui intervengono gli economisti puri. Uno di essi, tra i più autorevoli, è Francesco Forte, dell'Ateneo torinese, elaboratore della «tesi efficientista», secondo cui lo sviluppo del Mezzogiorno può essere automaticamente determinato dal dilatarsi dello sviluppo dell'intero sistema economico italiano. In altri termini, secondo Forte, più che preoccuparsi degli interventi straordinari nel Sud, occorre garantire la massima efficienza al sistema economico, e in particolare al sistema industriale di tutto il Paese, (ma è noto che i pilastri sono al Nord, tra Milano, Torino e Genova). Avviato sul binario dell'efficienza, il sistema industriale autoalimenterebbe la propria rapida espansione, «trascinando» nella scia dello sviluppo economico anche le regioni meno prospere, geograficamente periferiche1 . 1 E. Mazzetti Impegnarsi per il Sud Il Mattino 11 aprile 1967. 3 Questa tesi, cara ad alcuni politici, ma soprattutto agli industriali del Nord, suscita taciti consensi e vivaci reazioni. La Stampa non va oltre una fredda elencazione di alcuni temi, con una evidente preferenza per quelli di ordine sociologico ed umano 2. Il Sole – 24 - Ore liquida i fatti in poche righe distratte. Il Corriere della Sera è perplesso,: «Il meridionalismo, nel dopoguerra, aveva coagulato intorno a sè grandi forze politiche e morali, determinando la politica diretta a rovesciare le condizioni di secolare miseria del Mezzogiorno. Oggi, sembra invece incapace di esercitare la stessa influenza sui poteri pubblici e privat» 3. Interviene il ministro Pastore: «Esistono ormai tutte le condizioni per eliminare l'inferiorità storica del Sud rispetto al Nord. Sia sul piano culturale (...) che sul piano della geografia economica (...) II Mezzogiorno non è più quello di vent'anni fa». E' il discorso che avrebbero dovuto fare gli economisti, gli industriali. Lo ha fatto un politico, un ministro della maggioranza governativa. 2 In. quegli stessi giorni, a Roma, nella sede della Cassa per il Mezzogiorno si svolge un seminario di studi sull'agricoltura nelle aree depresse e soggette ad emigrazione, organizzato in collaborazione con il Mediterranean Social Sciences Research Council. Vi partecipano docenti ed esperti di otto Paesi del bacino mediterraneo. Le relazioni sono tenute da Vassilios Filias per la Grecia, Peter Serracino Inglott per Malta, Corrado Barberis per l'Italia, Mubeccel Belik Kiray per la Turchia, Zvinimir Baletic per la Jugoslavia, De Oteyza per la Spagna, B. Kayser e P. Maine per la Francia. Si rileva che non è soltanto l'Italia ad avere un suo problema di aree depresse. E' un fenomeno comune a tutta l'Europa e pertanto è una questione nazionale ed europea. E si confrontano 2 R. Lugli Meridionali al Nord La stampa 7 aprile 1967. G. Russo Industrializzare il Sud e frenare l'incontrollata migrazione Corriere della Sera 8 aprile 1967. 3 4 esperienze e metodi per portare a soluzione questo problema. Si sottolinea un fatto: i grandi mutamenti avvenuti in Europa hanno avuto un loro effetto sulle aree in via di sviluppo. Queste aree si avviano a trasformarsi da civiltà agricole a civiltà urbane. Ma sono centri ancora insufficienti a dar lavoro alla maggioranza degli abitanti. Potranno farlo in futuro, potenziando la loro spinta evolutiva. Altrimenti, saranno condannati a restare mali europei, nuclei di espulsione demografica. Per l'Italia, in particolare, «oltre tre milioni di meridionali hanno abbandonato il Sud, negli ultimi quindici anni, lasciando paesi dove avevano un reddito individuale che si aggirava dalle 180 alle 250 mila lire all'anno». Di conseguenza, «è da prevedere che altrettanti meridionali seguiranno la stessa strada, nei prossimi anni, se non si provvederà a industrializzare il Sud»4. Da quale parte sta la verità? La tesi di Forte, cui si è associato un altro economista, Siro Lombardini, sostiene che creando una « società di consumo » in Italia anche il problema del Mezzogiorno sarà automaticamente risolto. I meridionalisti invece affermano di conoscere bene questo ed altri soliti motivi con cui dall'Unità ad oggi non s'è fatto altro che mantenere, anzi accrescere, il dislivello delle due grandi ripartizioni territoriali. Ma i meridionalisti sembrano essere considerati delle Cassandre. «Con loro sono venuti a colloquiare solo i comunisti, i sindacalisti torinesi della Cisl e della Cgil, gli esponenti cioé dell'estrema sinistra, offrendo al solito l'alternativa di una «modifica» del sistema, alternativa irreale, il cui costo sarebbe incalcolabile per tutto il Paese. Non c'è stato un uomo politico responsabile dei partiti di Torino (eccezion fatta per il ministro Pastore che rappresentava però il governo), il quale abbia sentito il bisogno di seguire il Convegno, almeno per documentarsi sui dati scientifici che esso offriva. Ecco perchè il convegno è stato il ritorno ad una situazione che può diventare grave. A chi può convenire una 4 Id. Esistono tutte le condizioni per dare prosperità al Sud Ib. 9 aprile 1967. 5 politica di cosiddetta «efficienza», che in realtà non è affatto conveniente per tutto il Paese, in quanto incrementerà il dislivello dell'Italia del Sud rispetto a quella del Nord? Ciò può essere desiderato solo dai comunisti. A chi può convenire il favorire un'emigrazione massiccia dal Sud, creando tensione sociale e masse di disagiati nel Nord. e «desertificando» il Sud? A nessuno, tranne che ai comunist» 5. 3 Chi tenta di otturare l'ampia falla apertasi nella barca meridionalista tra le acque di Torino è Francesco Compagna, direttore di Nord e Sud, il quale, come informa Sassano 6, interviene (con il consueto linguaggio pittoresco», (le città giacimenti di materia grigia; l'industrializzazione meridionale telecomandata dal Nord; oppure la individuazione di un morbo che potremmo chiamare anemia di concentramento decisionale a Roma e a Milano, ecc.). Cosa dice Compagna? Che è stata una bella partita giocata «fuori casa»7. E dalla partita in trasferta estrae due impressioni. La prima: «... che nel Nord molte persone, troppe, abbiano del Sud un'idea anacronistica: come se in questi anni non si fosse fatto tutto quello che si è fatto per promuovere la pre-industrializzazione; come se nel Mezzogiorno fosse ancora e tutto «oltre Eboli»; come se il discorso sull’industrializzazione fosse un discorso per domani, e non per oggi, e come se, invece, oggi si dovesse fare soltanto quel discorso sulle infrastrutture che è stato già fatto ieri e che la Cassa ha avuto il merito di portare avanti con una serie di realizzazioni che hanno cambiato la faccia di certe zone del Mezzogiorno (...) e che hanno sensibilmente ridotto quella che Giustino Fortunato chiamava la «segregazione topografica» del Mezzogiorno (non solo le autostrade che si stanno completando, come la Salerno-Reggio Calabria e la Napoli-Bari, ma anche e soprattutto (...) 5 Id. Ib. F. Sassano Industrializzare il Sud per unificare il Paese Avanti! 8 aprile 1967. 7 F. Compagna Una bella partita « fuori casa» Il Giorno 11 aprile 1967. 6 6 le moderne strade a scorrimento veloce di fondovalle» E la seconda: quando i comunisti, facendo leva su alcuni « innegabili lati negativi e su alcune deficienze organiche» della politica meridionalista parlano di fallimento di quella politica, «possono fornire in definitiva un alibi a quegli ambienti della destra economica che non vogliono impegnarsi nella industrializzazione del Mezzogiorno», perchè ritengono che i problemi dell'efficienza sono alternativi rispetto ai problemi e agli squilibri regionali, « anche rispetto al grande problema delle due Italie». A Compagna. pertanto, « non sembra lecito affermare che la politica meridionalista è fallita». Ma essa potrebbe fallire se venissero meno la continuità e la coerenza dell'impegno meridionalista. e, ancor più, «se i contenuti della programmazione non fossero adeguatamente meridionalistici»: in questo caso, l'Italia farà del Sud una zona depressa come l'Irlanda al principio del secolo. Ciò significa che anche l'Italia avrà condannato un terzo del suo territorio e della sua popolazione alla decadenza. Allora? Allora resta stabilito che «la politica meridionalista è una politica in corso, dura e difficile, e deve essere seguita con un coscienzioso e vigilante spirito di autocritica, onde si possa di volta in volta apportarvi i necessari correttivi ed aggiustamenti, e soprattutto onde si possano mettere subito a frutto, in termini di vera e propria industrializzazione, i risultati conseguiti con la pre-industrializzazione. E a questo proposito ci sembra di estremo interesse l'indicazione emersa dal seminario di Torino. Non si tratta soltanto di impiantare nel Mezzogiorno fabbriche di prodotti tradizionali, filiali di grandi imprese del Nord: tali fabbriche devono essere localizzate nel Mezzogiorno perchè è sempre meglio collocare le fabbriche vicino alle riserve di manodopera che non richiamare la manodopera in zone di urbanizzazione già molto dense e di consolidata piena occupazione. Ma si tratta anche e soprattutto di impiantare nel Mezzogiorno fabbriche di prodotti nuovi che devono entrare in questi anni nella storia dell'industria italiana e che sono in gran parte del tipo cosiddetto «ubiquitario»: dall'aeronau7 tica all'elettronica, tanto per fare esempi. La industrializzazione del Mezzogiorno è, dunque, necessaria, ed è possibile. Il discorso che siamo andati a fare a Torino è stato appunto questo: non un discorso regionalista, querimonioso, da postulante. Il nostro meridionalismo, che attinge alla tradizione di Fortunato e di Salvemini, è un modo di interpretare gli interessi generali del Paese. Che cosa è allora più conforme a questi interessi generali? Che più di un terzo del Paese nei prossimi anni sia destinato a subire un processo di degradazione (...), oppure che il Mezzogiorno e le Isole si trasformino e diventino una California dell'Europa, e sia pure una California meno strepitosa, più domestica, di quella americana? Il seminario di Torino, se non avesse avuto altri meriti, ha avuto certamente quello di porre in termini chiari - alla coscienza nazionale, vorremmo sperare - questo interrogativo». Il seminario di Torino, in realtà, ha avuto un altro merito: quello di aver chiarito i termini reali della situazione che può riassumersi nella generale tiepidezza e nella scarsa convinzione meridionalista dei partiti e dei sindacati, che nel Sud «sono legati a forme organizzative d'altri tempi»8 ; nel respiro asfittico dei quaranta nuclei di industrializzazione meridionali; nella ritrosia degli industriali settentrionali a investire nel Sud, costringendo le altre imprese che operano al di qua della linea Gotica a restare chiuse nel loro guscio aziendalistico; nella stagnazione coatta dei comitati regionali per la programmazione; nell'elefantiasi del sottogoverno; nella sopravvivenza di strutture remote, non più rispondenti alle esigenze del nuovo Mezzogiorno. Tutto questo, ed altro ancora, determinano il prolungamento della fase di pre-industrializzazione; la continuità della «protesta»; la fuga dal Sud verso il Nord, con la conseguente «meridionalizzazione della popolazione italiana» 9. E' la crisi del meridionalismo? 8 9 F. Sassano Non si gioca col Sud Avanti! 12 aprile 1967. L'emigrazione meridionale nel Nord sta provocando profondi mutamenti Il Popolo 12 aprile 1967. 8 4 E' stato scritto che in questi ultimi tempi la caduta d'interesse per i problemi impliciti nella questione meridionale «sembra avere assunto un significato (...) più profondo» 10. Cioè, il filone d'impegno e di verifica culturale che il meridionalismo fu per molti, sembra essersi tramutato in un discorso definitivamente chiuso, in un elemento della storia politica italiana valido assai più come memoria del passato, che come prospettiva per l'avvenire. Leggiamo ancora che se le tensioni che avevano preceduto la proroga degli strumenti meridionalistici messi in opera nel quindicennio 1950-64 si sono sostanzialmente allentate con l'approvazione della nuova legge che definisce la «disciplina degli interventi per lo sviluppo del Mezzogiorno», l'adozione della Programmazione economica nazionale, che pone generalmente tra i suoi fondamentali obiettivi lo sviluppo delle regioni meridionali, induce molti a ritenere che il passo decisivo verso la soluzione della questione sia stato compiuto. Dal momento che «non si può dire, in realtà, che l'inserimento del Mezzogiorno nell'assetto socio-economico e istituzionale, realizzato con questi provvedimenti, abbia corrisposto pienamente alle istanze e alle condizioni che i gruppi impegnati nella politica meridionalista avevano sottolineato e sollecitato», a torto la problematica meridionalista «ha smarrito rispetto ad essi un suo senso univoco, e si è spesso perduta o in vane auto commiserazioni o in proteste ed invettive di scarsa incidenza» 11. A queste più scientifiche cause, vanno poi aggiunte le motivazioni di quanti ritengono che le condizioni affermatesi nel periodo recente sul mercato nazionale ed internazionale non giustifichino un rafforzamento della politica meridionalista, ma al contrario, ne condizionino fortemente il significato e la validità. 10 11 De Rita - Collidà - Carabba Meridionalismo in crisi? F. Angeli Ed collana Isvet N. 3, pag. II. Ib. Pag. 12. 9 Non è facile verificare perchè e come ciò sia potuto accadere. Certo, si possono registrare momenti di stanchezza - o smarrimento in qualsiasi filone politico o culturale. Ma che stanchezza o smarrimento dei meridionalisti abbiano trovato il loro momento più critico proprio quando l'evoluzione delle strutture istituzionali del Paese cominciava a muoversi con maggiore o minore decisione, ma senza dubbio con più fermezza di quanto non fosse mai avvenuto in passato, alla realizzazione degli strumenti da essi a lungo invocati, può comunque suscitare legittime perplessità. Quali sono, pertanto, le ipotesi possibili a proposito di questa presunta o reale crisi del meridionalismo? Che essa discenda da una mancanza o insufficienza di impegno, di attenzione, di analisi tecnica e scientifica, delle nuove condizioni poste dalla più recente evoluzione del sistema alla questione, e che quindi sia risolvibile a breve o medio termine; che in effetti essa si richiami più profondamente alla sostanza dei fatti, che - col venir meno delle condizioni che costituivano il tradizionale quadro interpretativo della questione - la questione stessa sia venuta meno nei suoi contenuti reali, e che, di conseguenza, ogni tentativo di risollevare il problema e di tenere aperto il discorso sia destinato solo a rievocare spoglie prive di significato; che essa non sia più sentita come fatto nazionale, italiano, ma soltanto europeo, e quindi rischi di disperdersi nella problematica più vasta delle aree depresse continentali, (Epiro greco, area jugoslava, nord-est e fascia pirenaica spagnola, sud-ovest Schlewigh-Hollstein tedesco, Borinage belga, ecc.); che essa sia vista dai grandi imprenditori associati del Nord, e in genere dalla più retriva destra economica, come preliminare ad un "piano futuro di sviluppo globale capace di sostituire il Sud al Nord a certi livelli concorrenziali politico-economici, (assorbimento di capitali italiani e stranieri, autosufficienza, conquista di mercati mediterranei e 10 medio-orientali, sbocchi nei Paesi dell'Africa e della penisola Iberica, ecc.). Con l'intento di trovare una giustificazione o una smentita efficaci a queste ipotesi o tendenze che sembrano avere più concrete conferme nei fatti, l'Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progresso Tecnico (Isvet) promosse nel giugno 1965 una tavola rotonda sul tema «Mezzogiorno e Programmazione». I contributi portati in quell'occasione da esperti ed operatori, sebbene di grande rilievo non valsero a chiarire i dubbi, nè a concretizzare le ipotesi di partenza. Dal dibattito si riuscì soltanto a desumere che i punti fondamentali da approfondire per una meno incerta collocazione della questione meridionale nel contesto economico e sociale e nell'assetto istituzionale che si andavano delineando erano ricollegabili al sussistere di una unitarietà della questione, e alle caratteristiche che l'inserimento della politica meridionalista avrebbe assunto nel quadro istituzionale generale. Così il circolo si chiudeva viziosamente. E si era al punto di partenza . 5 Dal 1950 ad oggi, ha preso corpo l'esigenza di sbloccare la questione meridionale dai suoi involucri tradizionali. Va rilevato che il meridionalismo ha avuto le sue origini ed anche le sue interpretazioni più salienti nelle affermazioni di coloro che vedevano, in una certa evoluzione storica che andava sempre più distanziando le regioni italiane, la conferma ad impostazioni volte a mettere in causa le strutture politiche: dalla visione rivoluzionaria di Gramsci, alle strategie riformiste di Salvemini e Dorso. Oggi, pertanto, può senz'altro accadere che anche il Mezzogiorno in sè abbia perduto buona parte del suo potere di contestazione, e che la maggiore articolazione dei vari elementi che fanno parte del sistema consenta di identificare in fatti e fenomeni più precisi i presupposti di una strategia di revisione e rinnovamento delle strutture. In questo senso, e soprattutto in questa misura, le tesi di Gramsci, 11 Salvemini e Dorso non hanno più - o sembrano non avere - il valore di fatti su cui sia possibile basare concreti disegni operativi, ma soltanto di un insegnamento storicamente valido come lezione di comportamento, cioè di pensiero politico. La questione, così come Gramsci l'aveva interpretata, e cioè come ponte che garantiva una sostanziale unità politica al Paese nei suoi effettivi contenuti (blocco industriali-agrari) e sulle prospettive rivoluzionarie (alleanza operai del Nord - contadini del Sud), non può trovare oggi un confronto puntuale con la realtà 12. Un eventuale tentativo di reimpostare una strategia rivoluzionaria facendo riferimento alla questione meridionale, «richiederebbe innanzitutto che la questione stessa venga reimpostata e rielaborata nei suoi termini essenziali» 13. E questo non è che un esempio del diverso ruolo che il Mezzogiorno deve assumere all'interno di un sistema che ha provveduto a sollecitare la nascita di meccanismi di integrazione, anche se incompleti, e a mutare quindi il significato connesso al sussistere di situazioni conflittuali. D'altro canto, se per le ragioni accennate il Sud non può rivestire oggi lo stesso ruolo politico che gli era stato riservato nel passato, esso non realizza più neppure a livello economico e sociale le condizioni che consentano di mantenere quelle interpretazioni, propugnate nel decennio 1950-60, che costituivano le basi degli interventi successivi. Ciò conferma, a nostro avviso, che la «decadenza» della questione meridionale propone innanzitutto un problema di ripensamento. Ripensare al Mezzogiorno vuol dire ritrovare all'arretratezza meridionale e alle sue manifestazioni a tutti i livelli un ruolo e un significato precisi; rivedere le linee dello sviluppo economico e sociale del Sud, e riproporle in termini più efficaci, in modo che possano costituire un perno, un punto di riferimento organico e chiaro per l'azione politica e di politica economica. Oppure chiudere definitivamente un discorso che non presenta prospettive legittime e valide. In questo caso 1'«era meridiona12 13 V. Fiore Il Mezzogiorno e l'unità delle sinistre Avanti! 29 marzo 1967. (13) De Rita-Collidà-Carabba Op. cit., pag. 18. 12 lista» sarà finita. Per inerzia, per abbandono dell'impegno intellettuale, culturale e politico. Per una spirale di nebbia che avrà offuscato le voci di un revival che affonda le sue radici nella più fertile e robusta tradizione del problema meridionale. 13 VECCHI MITI E NUOVE FRONTIERE Non si può mai produrre una rivoluzione ... seguendo idee troppo generali, nè seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad ogni passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni d'interessi che, non potendosi distruggere, è necessario conciliare. Vincenzo Cuoco Può darsi che in un mondo statico vi troviate costretti a sanzionare un divorzio tra fatti e valori. Edward Hallett Carr Se una causa particolare, come l'esito accidentale di una battaglia, ha condotto uno Stato alla rovina, esisteva una causa di carattere generale, che provocò la caduta di quello Stato per colpa di un'unica battaglia. Montesquieu 15 Fortuna e sfortuna sono termini che non si addicono soltanto alle cose umane. Anche le idee del mondo morale, anche i principi scientifici, per aprirsi una strada e imporsi, hanno bisogno di una parte almeno di quella eterna opportunità che, affermava Machiavelli, regge per una buona metà il destino dell'uomo. Non è allora possibile negare che in questo dopoguerra la questione meridionale abbia incontrato un lungo momento di fortuna. E la causa prima del rinato successo è nell'aver potuto assumere, subito dopo la caduta del fascismo, una certa aria da perseguitata che chiedeva riabilitazione e giustizia. Il fascismo aveva vietato che si parlasse di questione meridionale, o meglio, aveva consentito che se ne parlasse, ma in un certo senso soltanto, per rivendicare verso di essa benemerenze che proprio non aveva. Dice Caizzi14: la questione meridionale aveva angustiato per molti decenni la vita dell'Italia unita, aveva rappresentato il problema di fondo che l'Italia liberale non era riuscita a risolvere; ma - a sentire certi esaltatori del regime - il fascismo l'aveva debellata. Si veda, per esempio, la voce «Mezzogiorno (Questione del)» nel volume 23 dell'Enciclopedia Italiana. L'autore vi sostiene alla fine che ormai, grazie all'opera del fascismo, di una questione meridionale non sia più il caso di parlare. Nei manuali scolastici e nei libri di propaganda, il tema della questione si confondeva con l'altro della bonifica integrale, e con quelli delle migrazioni interne, della difesa della razza, dell'Opera Maternità e Infanzia, di Quota 90, della trasvolata atlantica, di tutto l'armamentario apologetico redatto nell'ombra di Palazzo Venezia. 14 B. Caizzi La questione meridionale negli anni 60 Sapere marzo 1965. 17 In realtà, l'argomento del Mezzogiorno non poteva venire affrontato esplicitamente e criticamente. Il che non toglie che la situazione fosse quella che era, che nelle squallide campagne pugliesi e lucane i cafoni continuassero la loro esistenza di miseria, che la Calabria andasse fisicamente e spiritualmente in frantumi, che in Sicilia regnasse e governasse la mafia, che in Sardegna si radicasse la più primordiale civiltà pastorale, che Napoli si presentasse sempre più come un agglomerato urbano così strutturato socialmente da far pensare all'Oriente assai prima che all'Europa. 2 Bandita per decreto governativo, appena il fascismo cadde, la questione mostrò di non essere affatto morta, e cominciò a far sentire la sua voce, sollecitando la presenza in prima linea, tra i problemi capitali che dovevano di nuovo essere affrontati. Fra gli imputati maggiori della decadenza, venne citata subito l'altra Italia, il Nord ricco di industrie e di traffici, sede di grandi complessi finanziari e bancari, vero manipolatore della politica nazionale, che aveva mantenuto il Sud in grige condizioni di primitivismo, e poco meno che allo stato di colonia di sfruttamento. E' un'accusa, questa, che poi si è venuta via via modificando e allargando, fino a porre in una luce nuova l'intera questione. Scrive Rosario Villari: «L'idea di un efficace sfruttamento finanziario ed economico del Mezzogiorno e delle Isole a vantaggio della trasformazione industriale del Nord, non è facilmente conciliabile, almeno nei termini tradizionali, con la constatazione dell'arretratezza, dell'immobilismo semifeudale e dell'estrema povertà del mercato nelle regioni meridionali. La pressione dello Stato e dell'industria protetta si è esercitata in generale su tutte le campagne, creando gravi difficoltà nei rapporti tra agricoltura e industria; ma queste difficoltà non hanno sempre la stessa natura delle contraddizioni e dei problemi che indichiamo col ter- 18 mine « questione meridionale», non si identificano con essa» 15. Concetto, questo, in buona parte condiviso da Vittore Fiore16, che in un dibattito alla Società Umanitaria di Milano, dopo aver rilevato che « la lezione gramsciana è andata disattesa» e che il problema del Mezzogiorno oggi dev'essere affrontato diversamente da come era concepito quaranta o cinquanta anni fa, ha affermato che il moderno meridionalismo non parla più in termini di giustizia storica, «ma di efficienza, di convenienza per tutto il Paese e per l'Europa». Pertanto, «un meridionalismo territoriale non giova alla causa comune: di qui, la necessità di riprendere e mantenere vivo il dibattito tra le forze democratiche del Nord e del Sud (...) Tale esigenza, che va calata nella realtà e spogliata di tutti gli elementi schematici e astratti, impone profonde revisioni politiche e ideologiche, a cominciar: da una maggiore consapevolezza della politicità della questione meridionale. Un nuovo meridionalismo può trovare spazio e vigore nella misura in cui riesca a differenziarsi dalle posizioni attualmente operanti sul piano culturale e politico. Non basta rinnovare l'appello ad industrializzare il Mezzogiorno, come non è sufficiente l'analisi che da sinistra viene condotta sul potere delle masse popolari e sulla forza contestativa e democratica dei partiti e dei sindacati». 3 Alla base dell'accusa al Nord, erano anche alcuni temi antichi, cari a Colajanni e a Nitti. Primi tra gli altri, le imposte mal distribuite fra le varie regioni, i capitali pompati nelle campagne meridionali, e attraverso il sistema bancario e delle casse postali, passati a disposizione dell'economia piemontese e lombarda, l'industria settentrionale che si era fatta le ossa a forza di protezionismo e di premi statali, e il carissimo prezzo del ferro, dei tessuti, degli attrezzi di lavoro, sopportato dal15 16 R. Villari Il Sud nella storia d'Italia. Vol. I pag. V. Bari, Laterza 1966. La questione meridionale non è tecnica ma politica Avanti! 19 maggio1967. 19 la parte più povera d'Italia, insieme con quella barbara catena di imposte a rovescio che colpivano i beni di consumo popolare, dal frumento al sale, allo zucchero. Sicchè si affacciarono minacciosi propositi separatisti, come in Sicilia, o presero piede acuti rancori antiunitari, in un pò tutte le contrade meridionali. La questione minacciava di rinascere tal quale era stata un tempo, di trascinarsi ancora nei vecchi termini, di far rivivere antichi miti, di ritornare ai gridi di dolore, agli allarmi, ai disperati appelli, mentre su c'era passato il diluvio della guerra. e c'erano passati anni e letterature, invasioni e liberazioni, esperienze storiche, politiche, sociali, e speranze d'un rinnovamento e d'una rinascita dignitosa e liberatrice, Tra l'altro, in passato, la polemica intorno alle condizioni economiche e sociali in cui versava il Mezzogiorno raramente era sfociata nello studio scientifico dei grandi problemi d'intervento. Se uomini quali De Viti De Marco, Fortunato e Salvemini avevano collegato la questione alla politica generale, (libero scambio, protezionismo, sistema tributario e magari anche espansione coloniale), sul terreno dei provvedimenti da attuare aveva dominato costantemente una tematica spicciola. Gli stessi deputati meridionali s'erano accontentati quasi sempre di chiedere opere pubbliche di qualsiasi genere, da eseguire nelle loro province per offrire occasioni di lavoro a imprenditori e manovalanze locali, e per tener vive le clientele personali. Nel dopoguerra, quando si cominciò a guardar lontano, si comprese la scarsa utilità generale di una politica impostata sui sussidi e la carità statale. Dappertutto i movimenti di rivendicazione regionale tendevano ormai ad altro: a mutare radicalmente le strutture amministrative e sociali, a dotare le latitudini meridionali di adeguati complessi industriali, a farle uscire dal loro isolamento geografico, inserendole nei grandi circuiti di comunicazione nazionali ed internazionali. Anche la questione meridionale si è così risollevata di tono. Certamente, dal basso e dalla periferia son giunte ancora vecchie istanze. Rimane tuttavia innegabile che la legislazione in favore del Mezzogiorno almeno in teoria si è ispirata a cri20 teri più aperti e maggiormente validi di quelli di un tempo. E soprattutto è certo che l'attuale letteratura economica, liberatasi dagli spettri della preistoria del meridionalismo, si è portata ad un livello di conoscenza e di maturità che non ha confronti nell'antico. 4 Nel primissimo dopoguerra parve per un istante che le masse contadine dovessero assurgere a protagoniste e beneficiarie della nuova fase della questione meridionale. Per quanti si rifiutavano ancora di considerare l'arretratezza del Sud come un problema di mancato sviluppo, contavano soprattutto le decine di migliaia di contadini poveri, di coloni, di piccoli affittuari, di braccianti. dei negri bianchi della campagna, che non avevano abbastanza terra da coltivare, vivevano ai margini dei grandi possedimenti signorili e dei latifondi, e aspiravano da secoli a diventare proprietari, o per lo meno a venir finalmente liberati da una catena di patti esosi e di servitù feudali. Molti, che s'erano fatta del Mezzogiorno un'idea quasi mitologica. e quindi ingannevole, come d'un paese fertile e d'inesauribili risorse agricole, mostravano di credere che vi fosse abbastanza buona terra da distribuire ai contadini affamati attraverso un processo legale ed equo di requisizioni e acquisti. Credevano inoltre che la riforma agraria avrebbe avuto importanti riflessi d'ordine sociale e generale; intorno ad un nuovo centro di piccoli proprietari indipendenti si sarebbe rafforzata una democrazia egualitaria di tipo scandinavo; la piccola proprietà contadina avrebbe compiuto miracoli anche in fatto di produttività, profondendo tesori di lavoro sulla terra finalmente raggiunta; e dal cresciuto reddito agricolo sarebbe partita la spinta di un risollevamento più profondo dell'intera vita meridionale. Quante illusioni e quanti errori di valutazione e di prospettiva si nascondessero in quei calcoli si sarebbe visto fin troppo presto. La riforma agraria non seppe nè poté incidere profondamente nella 21 realtà economica e sociale del Mezzogiorno. Essa suscitò solo debolmente quelle forze collaterali che i più ottimisti avevano sperato di vedere sprigionate . Grifone ha scritto 17 che quel tipo di riforma fu determinato da «uno stato di necessità». Pertanto, essa fallì. Ma fallì due volte, perchè «lo stralcio non fu portato fino in fondo». Continua Grifone: «Iniziata la riforma, con l'esproprio di una parte della grande proprietà, bisognava portarla avanti, sul piano del graduale superamento di tutti i contratti agrari, per far coincidere dovunque, come giustamente postula, in sede teorica, Manlio Rossi Doria, l'impresa con la proprietà, per consentire poi alle singole proprietà coltivatrici di dar vita, autonomamente e liberamente, con le forme associative, a imprese di appropriate dimensioni, tali da evitare i danni economici del parcellamento. Invece, attuato lo stralcio di riforma, si lasciarono in piedi tutte le altre arretrate strutture, e in primo luogo i vecchi, assurdi contratti agrari ...» E questa è un'analisi in buona parte vera, anche se incompleta. Ma soprattutto a posteriori. Una critica del mito di quella riforma agraria, infatti, non potrà esimersi dal chiamare in causa la classe politica che la volle, che la ideò e realizzò, e non potrà ignorare le scoperte contaminazioni di ordine particolaristico che ne compromisero i risultati. Se un'attenuante potrà essere concessa ai promotori, sarà probabilmente questa: che quando essi si misero al lavoro e progettarono le grandi linee d'intervento, il dato preminente della situazione nelle campagne meridionali era costituito da una paurosa pressione demografica . 5 Chiariamo meglio i termini. Le masse chiedevano terra, anche soltanto un boccone, e gli autori della riforma si sforzarono di allargare i quadri dei possidenti e dei beneficiari, finendo con l'anteporre criteri 17 P. Grilone Meridionalismo sotto la Mole Rinascita 21 aprile 1967. 22 di socialità ed emergenza ad autentici criteri economici. Un buon nucleo di famiglie ebbero un tetto e trovarono una sistemazione, ma certamente su basi precarie, che si sarebbero rivelate catastrofiche appena fossero mutate le circostanze esterne. Allorchè, qualche tempo dopo, l'Italia settentrionale e l'Europa cominciarono ad esercitare un forte richiamo sui contadini del Mezzogiorno, e la fabbrica lontana offrì retribuzioni più elevate e meno incerte dei redditi ritraibili dai miseri poderi della riforma, caddero i presupposti psicologici sui quali la riforma stessa era stata pensata. E crollarono anche quelli politico-economici. Di qui, in altro senso, la necessità di tener presente il rapporto che intercorre tra riforma agraria e migrazioni dal Mezzogiorno. Perchè i primi a fuggire dal Sud sono stati gli assegnatari della riforma. Gli altri sono partiti dopo. I «treni della speranza», di cui parla in un'acuta inchiesta Rampino 18, convogliavano al Nord e all'estero un carico umano che, nel suo vasto campionario, registrava molti esemplari di nuovi proprietari di case coloniche fragilissime, di campi senza reddito, senza acqua, senza macchine, senza pascoli, senza vita, ove, sempre più grande tra le rocce e le aride sabbie meridionali, dominava terrificante lo spettro della fame. 6 Il Mezzogiorno, da allora, ha fatto molti passi. E' diventato adulto. Ma anche se la sua tenuta di marcia è stata elevata, non ha potuto tener dietro al progresso dell'economia italiana globalmente considerata. Il solco si approfondisce ancora. E diventerà incolmabile se non saranno aperte nuove, imponenti prospettive. E' stato scritto che dobbiamo «impegnare ed ottenere da tutta intera la maggioranza democratica un rinnovellato impegno nella vivificazione soprattutto nell'opinione pubblica, della politica per il Mezzogiorno, che deve essere sempre più 18 G, Rampino Il treno della speranza Tribuna del Salento 22 dicembre 1961 e segg. 23 vista non come politica regionale, ma, come in effetti è, politica interessante tutto il Paese» 19. Da qui, le prospettive maggiormente valide per il futuro del Sud, quelle che svincoleranno gli «schiavi della miseria» e opereranno una radicale trasformazione della società italiana, quale è stata auspicata, a livello esecutivo, da Pastore 20, e sul piano della pubblicistica da numerosi esponenti della cultura e del giornalismo militante. Ci sono, ovviamente, remore di ordine geografico, fisico e naturale, umano e psicologico. Questi pesanti fardelli non possono essere buttati in mare da un giorno all'altro. Nell'economia, nella tecnologia, nello stesso ritmo della società, il Mezzogiorno è stato prigioniero d'un suo fuso orario, d'una macchina del tempo speciale che domina sempre la sfera del sottosviluppo. Spesso, ancora oggi, il Sud stenta a infrangere i confini della sua dimensione temporale. Dov'è la forza della spinta? Anzitutto nello Stato. Ma questo motore, lo Stato, che interviene dove sono i vuoti della società sottosviluppata, segue tempi propri, assai diversi dai tempi dell'industria moderna: arrivano le infrastrutture, gli incentivi, gli interventi diretti, arrivano molte altre cose, ma sempre tardi. L'altra spinta del Sud è nella sua stessa società, che esiste, ma per tanto tempo ha seguito anch'essa tempi ritardati, poichè si trattava d'una società ancora abituata al ritmo del mondo rurale più che industriale, degli uomini legati al passato, che non era quello delle catene automatiche di produzione, e sfuggiva al controllo, non si dominava , non si accelerava a volontà. «Ora, solo da poco, si sente che muore un poco alla volta il vecchio Sud: quell'antico Mezzogiorno intelligente, enfatico, salace e pettegolo, colto e pettinato. prepotente e individualista, quel vec19 20 F. Ventriglia Riparliamo del Mezzogiorno Il Mattino 12 aprile 1967. G. Pastore Linee di una nuova legislazione meridionalistica. Discorso al Convegno promosso dalla Giunta Consultiva del Senato per il Mezzogiorno, Bari, Fiera del Levante, 18 settembre 1963; Id. Una moderna politica per il Mezzogiorno. Discorso all'Istituto di Economia. Agraria della Università di Portici, 30 novembre 1964; Id. Politica nuova per il Mezzogiorno. Discorso alla Camera dei Deputati, 18 maggio 1965. 24 chio Sud mai disposto a far riposare la propria età nei circoli cittadini, nei caffè provinciali o tra le carte gialle del proprio tempo, ma al contrario, che si propone ai giovani quasi con rabbia, con l'accanimento di chi sente sopra di sè il peso d'una nuova pagina di storia. Va spegnendosi poco a poco il vecchio Sud degli uomini dal cuore viola, dalle forti passioni, dalle impetuose personalità; va spegnendosi lasciando il passo ad un mondo nuovo, diverso, che tra le vigne e gli olivi va piantando tralicci e di fronte alle morbide pieghe d'un barocco glorioso erige la propria architettura, ardita e snella, spesso sconcertante. Vanno perdendosi a poco a poco gli ultimi grandi uomini soli, i grandi vecchi ...»21. Questo è un Sud ch e va racchiudendo sempre di più nel muro di cinta di un solido lager una tradizione -e non chiamiamola ancora civiltà- di romantici idoli, di feticci, di sibaritici immobilismi. Un nuovo mondo pare voglia nascere non dalle rovine del passato, ma su di esse. Questa è la sua dimensione più valida in prospettiva. 21 G Rampino Vecchio Sud Tribuna del Salento 14 aprile 1967 25 L'AGGRESSIONE DEL MEZZOGIORNO Più forte è la mente del popolo, più ostinato è l'eretico. Bemard Shaw La storia è la rottura con la natura, provocata dal risveglio della consapevolezza. Jacob Burckhardt l filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in varie maniere: ma il problema è di cambiarlo. Karl Marx Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. Tomasi di Lampedusa 27 Si verifica in questi tempi un fenomeno interessante: parlano tutti del Mezzogiorno. Non soltanto coloro che ne sono direttamente interessati, perchè questo rientra nella più rigorosa normalità. Se ne occupano anche organismi non investiti esclusivamente del problema; uomini e fogli d'informazione che col Sud non hanno voluto avere mai gran che da spartire; politici, tecnici, economisti, che hanno sempre guardato con sospetto alla questione; scrittori e giornalisti italiani e stranieri che il Sud d'Italia avevano appena sfiorato nelle loro scorribande letterarie e gazzettiere. E non è male. Va registrato poi un altro aspetto degno di rilievo: c'è una certa insistenza nel tirare le somme, cioè nell'operare una sintesi della geografia delle cifre che interessano il Mezzogiorno 22. Scorriamole brevemente. Il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno informa che dal 1950 al '61 gli investimenti industriali nel Sud sono stati pari a 6.126 miliardi di lire, di cui 4.108 per nuovi impianti; 1.656 miliardi, pari al ventisette per cento, sono stati spesi per le industrie chimiche; 1.217, pari al 19,8 per cento, per le metalmeccaniche; 771, pari all'11,6 per cento, per le alimentari. La Campania ha assorbito il 25,8 per cento degli investimenti complessivi; la Sicilia il 22,1; la Puglia il 12,8; il Basso Lazio l'11 per cento. Il ministero dell'Industria si esprime con i termini della legge 623 del 1959, poi prorogata fino al 1970. Cos'è stata in questi anni la legge 623? Per comprendere anche i motivi ispiratori, è necessario premettere che essa fu preparata dal governo nell'inverno del '58, quando da un lato si avvertivano ancora i segni della stagnazione che colpì il sistema 22 F. Ventriglia I conti del Sud, cit.; Id. Una scelta per il Mezzogiorno Il Mattino 25 maggio 1967; dati ISTAT Sull'evoluzione e la struttura delle forze di lavoro in Italia, maggio 1967. 29 economico italiano nella seconda parte di quell'anno, e dall'altro, essendo entrato in attuazione il Mercato Comune Europeo, tutta l'industria italiana veniva ad essere sottoposta ad un notevole sforzo di ammodernamento produttivo per poter reggere alla concorrenza internazionale. Il ministero dell'Industria ritenne necessario facilitare, attraverso lo strumento del credito, gli investimenti delle aziende piccole e medie, e di conseguenza predispose quella legge, la quale consentiva alle imprese che realizzavano nuovi impianti o ammodernavano quelli esistenti di ottenere gran parte dei capitali necessari dagli istituti di credito a medio termine, non al tasso di mercato, (che si aggirava sull'8-8,25 per cento), ma ad un tasso di favore e per un lungo periodo di tempo. Misura del tasso, durata dei mutui, importo dei finanziamenti, furono stabiliti in misura differenziata per il Centro-Nord e per il Mezzogiorno. Quanto ai tassi: cinque per cento per le imprese localizzate nel CentroNord, e tre per cento per quelle localizzate nel Centro-Sud; quanto alla durata: dieci anni per i mutui del Centro-Nord, quindici anni per quelli al Mezzogiorno; quanto all'importo dei mutui: nel caso di nuovi impianti, un miliardo nel Centro-Nord, e un miliardo e mezzo nel Sud; nel caso di ampliamento, 500 milioni nel Centro- Nord, e un miliardo nel Sud. Nonostante tali misure differenziate, l'applicazione della legge fece chiaramente intendere che le domande del Centro-Nord avrebbero sopravanzato quelle del Mezzogiorno, e, all'interno del Centro-Nord, le domande delle tre regioni più avanzate - quelle del triangolo - avrebbero costituito una schiacciante maggioranza. Nel 1961-62 si provvide perciò a limitare l'applicazione della legge alle regioni del triangolo, essenzialmente escludendo dai benefici le domande di finanziamento relative a nuovi impianti quando superavano certi limiti. Si introdusse, inoltre, con una legge aggiuntiva, l'obbligo di riservare al Mezzogiorno almeno il cinquanta per cento dei contributi che lo Stato avrebbe eroga- 30 to per abbassare ai livelli stabiliti nella legge il tasso corrente di mercato. Quali sono stati i risultati dell'applicazione della legge fino allo scadere del 1966? Sono stati concessi 14.600 finanziamenti per circa 1.200 miliardi, che hanno comportato investimenti (alla quota di credito occorre aggiungere quella investita dai promotori dell'iniziativa) per circa 2.700 miliardi, ed un'occupazione che ha sfiorato il mezzo milione di unità. I finanziamenti riguardanti imprese localizzate nel Mezzogiorno sono stati 6.600 (pari al 46 per cento del totale), per un ammontare di 700 miliardi (quasi il sessanta per cento del totale); gli investimenti che ne sono conseguiti sono ascesi a 1.700 miliardi (oltre il sessanta per cento del totale), e l'occupazione a 201 mila unità (48 per cento del totale). L'applicazione passata della legge è stata dunque favorevole al Mezzogiorno. 2 A questo punto siamo obbligati a chiederci: è bastato tutto questo? Si è trattato , indubbiamente, dei primi passi, che son sempre i più difficili. Purtroppo , allo stato delle cose, le circostanze sembrano giocare contro il Sud , scoraggiandovi nuovi investimenti industriali privati. Non solo. Sta crescendo una polemica, ancora non del tutto scoperta, ma già carica di spunti vivaci, rancorosi, che ci richiamano alla memoria antiche controversie sulle due Italie. Ha scritto Ernesto d'Albergo 23: «Già, in sede di pura teoria finanziaria, ho dimostrato che il solo concedere, "positivamente", incentivi a certe zone, anche come settori di "Mezzogiorno" ed Isole o Centro-Italia e, in vista del superamento di date condizioni, o a causa di esse, come vincoli determinanti, significa discriminare "contro" 23 E. D'Albergo Disincentivi contraddittori Il Sole - 24 ore 27 maggio 1967. 31 altre zone, settori territoriali e produttivi, se proprio vogliamo concedere posto alla visione indiretta dei "disincentivi". E' vero che della legislazione, ad esempio, per le "aree depresse", si è fatto, talora, abuso come estensione a zone che, in media, fatto uno studio approfondito ed oggettivo di mercato, non meritavano detta classificazione. Questo rilievo, che vale anche per le agevolazioni varie alla "piccola industria", estese a tutte le zone territoriali italiane contribuisce a far comprendere che la contrapposizione tra "incentivi" e "disincentivi", se proprio vi si vuole insistere, pur essendo contraddittoria e controproducente, si attua con l'accordare agevolazioni agli uni e negarle agli altri, in senso territoriale e settoriale, variamente classificato». Questo discorso, a nostro avviso, sarebbe in parte valido solo nel caso che l'economia italiana non fosse « dualistica», che non vi fossero squilibri territoriali, e che «disincentivo» fosse sinonimo di «taglio dei viveri» in senso assoluto. Il che non è. Nel Sud, infatti, l'aumento tra il 1963 e il '66, delle risorse è stato del 13,2 per cento, contro il 14,7 dell'Italia globalmente considerata, e il 16,9 per cento del Centro-Nord. La minore espansione delle risorse a disposizione del Mezzogiorno rispetto alla media nazionale e a quella del Centro-Nord è da collegarsi anche al fatto che le «importazioni nette» sono aumentate nel 1964 sul 1963 (l901 contro 1779,4 miliardi), ma sono diminuite dal 1965 al 1967. 3 Secondo D'Albergo, coloro che hanno « lamentato il fatto che i mezzi finanziari, inseriti nel ciclo economico localizzato, come nel caso della Cassa per il Mezzogiorno, che li eroga da oltre tre lustri, "finiscono per riversarsi verso il Nord" e verso il "triangolo Milano - Torino - Genova", dimenticano che ciò risponde ad una inesorabile logica. Invero, "creare" industrie nel Mezzogiorno, "poli di sviluppo", "nuclei 32 industriali", ecc., significa fare richiesta di impianti e beni strumentali vari, per " mettere in piedi "stabilimenti, fabbriche, uffici, ecc.». Uno dei chiodi della vexata quaestio è proprio questa inesorabile logica che, finchè esisterà di fatto, avrà forza e valore di assoluta illogicità. Il Nord, che ha affermato a più riprese di non vedere di buon occhio la Cassa e gli altri istituti di intervento straordinario nel Mezzogiorno, il Nord che si lamenta, e dice di spendere troppo per il Sud, che afferma di aver creato un nuovo Sud, poi si rimangia tutto, come Saturno divorava le sue stesse creature . Il controsenso è qui, nella chiusura esclusivista e dogmatica del discorso dell'equilibrio nello sviluppo. Stimolare e agevolare gli incentivi nel Sud non significa «disincentivare» nel Nord. Soprattutto, non significa «ritardare (...) l'equilibrato progresso», perchè non esiste l'equilibrio, ma proprio il campanilismo regionalistico che l'Autore dice di condannare. In realtà, son parecchi a cadere sempre negli stessi errori . Crediamo, in buona fede. Ma è un fatto: al di là di un discorso generalmente basato su una politica delle infrastrutture, in alcuni ambienti italiani riesce ancora difficile accettare «in termini di rivoluzione» l'impostazione «della problematica meridionale»24. Sicchè pare cadere desolatamente nel vuoto, al di fuori degli interessi intellettuali dei meridionalisti, qualsiasi tentativo di spinta al progresso. «La Puglia - è stato scritto dovrà trovare le linee di livello paritarie nell'affrontare i problemi della crescita forzata, con Lucania, Molise, Abruzzo, Campania e Calabria, perchè la conseguente crescita spontanea non accentui le distanze fra regione e regione, e quella ancor più sensibile tra Nord e Sud»25. Qui ci si duole perchè la discussione meridionale avviene a compartimenti stagni. Poi, quando si riesce a rompere il grande muro discriminatorio che si innalza tra le due ripartizioni territoriali, e si supera un pò lo steccato, e non si rovesciano, ma si inclinano appena certe vec24 25 Dibattito E. Bonea- V. Fiore in Sempre Avanti! –Tribuna del Salento dicembre 1966 e segg. E. Bonea Discorsi meridionalisti Tribuna del Salento 23 dicembre 1966. 33 chie posizioni, e si tenta di allentare le remote tendenze coercitive che per lunghe epoche hanno relegato le genti meridionali in una sacca di povertà, ecco che dalle trincee conservatrici son tiri di reazione e di sbarramento. Sul piano storico, la verifica di questo fenomeno è più che puntuale. In termini di progresso economico e sociale, quale Italia si unificherà così? Dopo un lungo viaggio attraverso il Mezzogiorno, Ronchey si chiede: «Quanto tempo occorre perchè sia ridotto e poi cancellato questo divario fra le "due Italie?" Può il Sud correre più del Nord? E anzitutto : il ritardo è misurabile? Se dovessi indicare una stima prudente del ritardo, direi circa trent'anni (...). Finora, in quindici anni, si è avuto non solo un divario crescente fra quantità di reddito in valori assoluti (che sarebbe stato ovvio), ma pure un divario fra i tassi medi di sviluppo a favore del Nord. Si può invertire almeno questo rapporto?Il Sud corre, ma perde terrreno rispetto al resto dell'Italia (...). Quale "doppia Italia" preparano le proiezioni statistiche?»26. 4 Il problema delle dotazioni di base, cioè dei servizi elementari, è ancora in via di soluzione. Certamente, strade, telefoni, scuole professionali, nuclei industriali, avviamento dell' attività turistica, vanno realizzando una nuova geografia infrastrutturale. In un certo senso, dunque, il Mezzogiorno è stato «aggredito». Ma non con la mano di ferro, con la volontà ferma e decisa che inquadra il problema, ne esamina i punti di fondo, lo seziona e lo risolve rapidamente. E' stata, ed è, una mano in guanto giallo. Si è trattato di un'aggressione morbida, che ha maturato alcuni frutti , lentamente, che continua tuttora la sua lunga marcia di trasferimento verso un nuovo assetto fisico e sociale. 26 A . Ronchey Bilancio di un lungo viaggio nel Sud La Stampa 26.6.1966. 34 Il problema cardinale del Sud, ora, si chiama industrializzazione. O arrivano le industrie organiche ed autonome, avvertiva qualche tempo fa Sterpa,27 o il Sud non riuscirà a colmare la frattura che lo separa dal Nord. Un primo passo è stato fatto 28. Lo si avverte anche nel costume, nelle aspirazioni dei giovani, e poi nella stessa struttura urbanistica delle città, persino nella idrografia, che era la vera piaga del Mezzogiorno, e ne faceva, come disse Fortunato, una «terra che vale assai poco». Molto di meno si è fatto per la bonifica del suolo. Si pensi che in Calabria, ove tali opere pubbliche sono favorite da due leggi speciali, «si è operato fra pianura e collina su circa l'1,13 per cento del territorio dal 1951 al '66, realizzando soltanto l'8,5 per cento di quanto pianificato» 29. Ancora di meno nel settore ferroviario. Sebbene l'Enel vincoli al Sud il sessanta per cento dei propri investimenti, circa un milione di meridionali non usufruiscono dell'energia elettrica. Inoltre, 873 centri abitati del Sud sono senza acquedotti, e 1.989 dispongono di portate d'acqua del tutto insufficienti 30. Mettersi in linea coi tempi, significa svincolare le aree meridionali da questi gravissimi mali. Ma significa soprattutto non rinviare per essi il processo di escalation industriale, anche se le circostanze possono sembrare avverse31. Le Relazioni sulla situazione economica del Paese mettono in luce che gli investimenti industriali in Italia aumentano costantemente. Ma nel '65 e nel '66, per il Mezzogiorno, sono passati da 370 a 300 miliardi, con una riduzione del 19 per cento. E' un. fatto di congiuntura negativa, o una tendenza, cioè un fenomeno non transito27 28 29 30 31 E. Sterpa punteggiato di interrogativi il futuro industriale del Sud Corriere della sera 23 giugno 1966. G. Ceralli Il Mezzogiorno vent'anni dopo Tribuna del Salento 7.4.1967. La conservazione del suolo selle pendici coltivate. Comunicazione di L.A- Carrieri al XIII Congresso Nazionale delle Bonifiche. Nello stesso Convegno il Ministro Pieraccini ha confermato che lo stato ha predisposto nel Piano quinquennale una spesa di 900 miliardi di lire 1963 (mille miliardi attuali) «per interventi in tutta la penisola» Istat Rilevazione statistica sull'approvvigionamento idrico in Italia Roma, 1967. S. Petriccione I consorzi industriali nel Sud Avanti! 25 maggio 1967. 35 rio, destinato a confermarsi e aggravarsi in prospettiva? Difficile rispondere. Il fatto stesso che sia lo Stato attraverso l'IRI, a dover sostituire nel Sud i privati, che alla resa dei conti si sono trovati scoperti e impreparati nei confronti di un «programma meridionale», è abbastanza indicativo, e non fa che accrescere certe perplessità e certi rancori dei meridionali. Dall'Europa si guarda all'Italia e al suo Sud con occhi diversi da quelli di otto o dieci anni fa 32. Dunque, è anche nella dimensione europea che va focalizzato il complesso dei problemi del Mezzogiorno. In questa visione, quali sono le «politiche» da attuare? Come «aggredire» il vecchio Sud? Come allungare l'Europa al centro del Mediterraneo ? 5 Ce lo indica, in sintesi, una rivista specializzata33. Si deve partire da una politica di localizzazione industriale, volta a facilitare l'espansione verso il Sud delle nuove capacità creatrici del sistema produttivo, e che abbia come punti fermi: il ricondurre gli incentivi esistenti nelle varie regioni del Paese ad un sistema unitario a carattere nazionale, da manovrare secondo le esigenze della politica di riequilibrio territoriale, con la totale eliminazione degli incentivi oggi esistenti nelle zone già sviluppate, e con una concentrazione di essi nelle aree meridionali; il condizionamento delle localizzazioni degli investimenti che sono finanziati con il ricorso diretto al mercato finanziario; la localizzazione nel Mezzogiorno di nuovi investimenti delle partecipazioni statali, fer- 32 33 R. Guillain Au secours d'un monae oubtié Le Monde 13 agosto 1960; Id. L'écart Nord-Sud n'a pas diminué, Ib. 14 settembre 1960. Per contro il londines Economist, in un saggio dedicato il 17 marzo 1967 all'Italia, (Italy' catches up, L Italia çuatiaçna terreno), afferma che in una sola generazione «un Paese povero, sovrappopolato, in preminenza agricolo, si è trasformato in una società industriale e urbana a rapido sviluppo». Vi sono ancora «sacche di povertà», ma qui «l'immobilismo sta cedendo a un desiderio di riforme». Le politiche per il Mezzogiorno II Nuovo Osservatore, maggio 1964. 36 me restando le integrazioni degli impianti già esistenti nelle altre regioni. Poi l'attuazione di politiche nel campo fiscale, della legislazione delle società, delle concentrazioni finanziarie ed economiche, ecc., destinate a favorire processi di diffusione delle iniziative industriali e finanziarie. Una politica agricola che, attraverso il superamento. della politica di sostegno cerealicolo, orienti gli indirizzi produttivi in senso più corrispondente alle vocazioni ambientali e alla domanda dei mercati di consumo, con la realizzazione delle strutture sotto l’aspetto delle dimensioni aziendali e della meccanizzazione. Una politica agricola che, attraverso il superamento della politica di sostegno cerealicolo, orienti gli indirizzi produttivi in senso più corrispondente alle vocazioni ambientali e alla domanda dei mercati di consumo, con la realizzazione delle strutture sotto l'aspetto delle dimensioni aziendali e della meccanizzazione. Una politica dei trasporti intesa a tener conto, sia in termini di disponibilità di strutture che di prezzi, della necessità di un pieno e rapido inserimento delle regioni meridionali nel mercato nazionale ed internazionale. Una politica commerciale ispirata a principi di maggiore facilitazione, nei rapporti con l'estero, alle imprese di minore dimensione ed ai settori di nuovo sviluppo. Una politica della spesa pubblica che tenga conto della necessità di favorire l'accrescimento dell'efficienza del sistema economico meridionale attraverso l'adeguamento delle infrastrutture e dei servizi pubblici statali e locali: ciò dovrebbe comportare, in termini quantitativi, la destinazione al Mezzogiorno di un'aliquota pari al 45 per cento della spesa pubblica complessiva. La definizione di una politica dell'energia elettrica; una revisione dei criteri di compartecipazione degli enti locali alle entrate tributarie pubbliche, sulla base di una maggiore aderenza ai bisogni dei 37 singoli enti e all'entità della popolazione; una decisiva politica delle bonifiche e degli acquedotti; una politica urbanistica non strumentalizzata; una politica scolastica adeguata alle molteplici esigenze che si pongono nel Sud, non solo sotto l'aspetto generico della preparazione di base o professionale, ma anche della riqualificazione e della specializzazione universitaria di una quota rilevante di unità, per la nascita nell'ambiente meridionale di migliori condizioni di vita sociale, civile e culturale. Una politica delle remunerazioni, che tenga conto dell'esigenza di mantenere nell'economia un'accumulazione di capitale adeguata alle necessità di finanziamento dello sviluppo del Mezzogiorno, dando luogo a forme di risparmio dei lavoratori, che possano svolgere anche una funzione utile ai fini del controllo comunitario dei processi di investimento. Una politica di programmazione nazionale che sia l'elemento condizionante del successo di un'azione di sviluppo nel Mezzogiorno, basato su una rapida efficienza del sistema economico e un più vasto impiego delle forze di lavoro. In sintesi, una politica globale per il Mezzogiorno, senza che ciò significhi disancorarsi dalla politica generale del Paese, e da quella, ancor più ampia, dell'Europa comunitaria. Qualcuno obietterà che non si tratta di proposte nuove. Non è la novità che qui conta. Nuovo, cioè vivace, moderno, creativo, deve essere lo spirito, e nuovi, in questo senso, devono essere l'intelligenza, il coraggio, l'audacia, con cui quelle proposte devon prender corpo e farsi realtà. Diversamente, resteremo ancora legati alla montagna verso cui nessun profeta va a realizzare il segno di un rinnovamento radicale. O rischieremo l'assimilazione fossile. E saremo noi stessi una catena di grandi pietre ferme nel tempo. Senza vita. 38 POLITICA AGRARIA: TALLONE D'ACHILLE Gli uomini pratici,che si credono perfettamente indipendenti da ogni influenza intellettuale, sono spesso schiavi di alcuni economisti defunti. J.M. Keynes Venne la libertà: ma misurata, omeopatica, soggetta a sospensioni e ad eccezioni che non potevano renderla benefica. Napoleone Colajanni Cercate la realtà in ogni cosa, e fuggite l'ostentazione. Vincenzo Gioberti 39 Statistiche alla mano, un ettaro di buona terra meridionale irrigata e meccanizzata rende quanto uno e mezzo di terra francese o australiana, quanto due ettari di terra statunitense o canadese. Il Sud ha dodici milioni di ettari di terra, ma il quaranta per cento non è realmente coltivabile. Poca pianura, molta collina, troppa montagna. Su questo scacchiere sorgono due milioni e duecentomila aziende agricole. Ma dire aziende è ricorrere ad un palese eufemismo. Tranne poche eccezioni, sono manciate di terra. La superficie media censita per azienda in Italia è pari a 1,82 ettari. Ma la media di Napoli è di mezzo ettaro; quella di Frosinone, Benevento, Avellino, Lecce e Messina, non raggiunge l'ettaro; a Latina, L'Aquila, Campobasso, Pescara, Salerno, Caserta, Brindisi, Taranto, Bari, Reggio Calabria e in tutte le province siciliane tranne Messina, i valori medi si aggirano sull'ettaro e mezzo; a Cosenza, Catanzaro, Matera e Potenza, superano di poco i due ettari; a Foggia e Cagliari, i tre ettari; a Sassari e Nuoro, i sei ettari. In tutto il territorio nazionale, cinque milioni di italiani operano in quattro milioni e mezzo di aziende, su una superficie realmente coltivabile di diciassette milioni di ettari. In media, la produzione lorda vendibile è di cinquemila miliardi. Se togliamo i 1.200 miliardi per le spese di produzione, i capitali tecnici e gli oneri degli ammortamenti, vien fuori un prodotto netto di 3.700 miliardi. Da cui, ovviamente, vanno sottratte le remunerazioni del lavoro e le tasse: Risultato: settecentomila lire per azienda (58 mila lire al mese), e mezzo milione per lavoratore (41 mila lire al mese). aziende degne di questo nome sono al Nord, e il Nord ha un reddito agricolo doppio rispetto al Sud. Facciamo il raffronto con un'economia agricola industrializzata. Su 160 milioni di ettari realmente coltivabili negli Stati Uniti, operano so41 lo tre milioni e mezzo di aziende, che occupano poco più di dodici milioni di uomini. In media, la produzione lorda vendibile è pari a 28.200 miliardi, e il prodotto netto pari a 23 miliardi. Sette milioni buoni per azienda, più di due milioni netti per lavoratore. Si spiega così perchè gli agricoltori statunitensi possiedono il quindici per cento dei titoli di Stato. E si spiegano anche imotivi storici che hanno spinto i contadini e i rurali generici italiani, al novanta per cento meridionali, a fare « spedizioni stagionali all'estero per contribuire alla costruzione del Canale di Suez, dei ponti della Scozia, delle ferrovie americane, delle gallerie attraverso le Alpi, dei porti di Calais e di Marsiglia. E ogni progresso permanente in Patria sarebbe rimasto (...) quanto mai improbabile finchè l'agricoltura nazionale non avesse guadagnato in razionalità e spirito d'iniziativa, e non fosse stata in grado di provvedere in misura maggiore ai bisogni di una popolazione industriale»34. 2 Insieme ad altri miti ugualmente pericolosi, da un pezzo dovrebbe essere tramontato anche quello virgiliano dell'Italia alma parens frugum. Ed è almeno dalla grande inchiesta Jacini, e dalle spietate radiografie di Nitti e Fortunato, che la povertà agricola del Mezzogiorno è assurta a dato incontrastato di giudizio. Povertà naturale, aggravata in genere dagli ordinamenti economici e sociali, quasi sempre inadeguati, a volte addirittura arcaici: dapprima latifondo e coltivazioni estensive in zone affollate di uomini; subito dopo il secondo conflitto mondiale, eccessiva frantumazione della terra; sempre, agricoltura di rapina, imprese contadine ancorate al principio della sussistenza domestica, degradazione del paesaggio agrario, scarsa produttività ad ogni livello. E quasi dappertutto miseria, bracciantato, ignoranza tecnica e immaturità civile, rurali affamati di pane e agitati da un confuso 34 D.Mack Smith Storia d’Italia 1861-1958 vol.I pag. 74 Bari, Laterza 1965 42 desiderio di giustizia. Pane e giustizia tante volte negati, se è vero che l'Italia meridionale si è mostrata «nella storia, nelle cronache, nei documenti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e prepotenze baronali, povero, con agricoltura primitiva, con scarsissima ricchezza mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia, e, insomma, in condizioni tutt'altro che prospere, eque e benigne» 35. Si dice che non sempre e non tutto è così, nel Sud. Ma quanto si ammira in certe zone agricole della Campania, della Piana di Catania, della Conca d'Oro, del Metapontino, assai più che la regola, costituisce l'eccezione 36. Il fatto è che l'agricoltura italiana è in una sfera, in una dimensione di tempi non ancora moderni. Da anni ormai cresce il deficit della nostra bilancia commerciale: l'agricoltura, cioè, non sa tenere il passo con il ritmo dei consumi, sicchè siamo costretti ad aumentare gli acquisti di derrate alimentari sui mercati esteri. Circa la metà della carne consumata in Italia è importata, con una spesa di oltre trecento miliardi all'anno. Il passivo medio per anno supera i 1.200 miliardi per importazioni agricolo-alimentari. La cifra non comprende i tabacchi, i prodotti forestali, lo scatolame, che insieme accrescono quel passivo di un buon terzo. 3 Si dovrebbe affrontare il problema alla radice. Cosa si fa? Nell'ambito della riforma fondiaria si vogliono espropriare un milione di ettari 37. Cioè, si spezzetteranno ulteriormente le ultime terre di me- 35 36 37 B. Croce storia del Regno di Napoli, Bari Laterza 1966.Pag. 26. B. Caizzi La riforma agraria nel Mezzogiorno Sapere giugno 1965. Strutture e servizi per lo sviluppo produttivistico delle campagne. Quaderno di studio e d'informazione N. 9, a cura della Direzione Generale della Bonifica e della Colonizzazione del ministero dell'Agricoltura e Foreste, senza data (ma 1966). Un quadro più completo dell'attività degli organismi di riforma si ha confrontando anche il Quaderno N. 8, estratto dalla rivista Agricoltura, edita dall'Istituto di Tecnica e Propaganda Agraria, e dedicato a Noti43 dia e grande pezzatura, per integrare «microaziende che non potranno "mai" ingrossare al punto di diventare una cosa seria (...), non potranno mai risolvere il problema della terra polverizzata, già troppa da noi, e alla quale si deve in gran parte la inefficienza globale della nostra agricoltura e il deficit alimentare...» 38. Il panorama si completa con i colossali debiti contratti dagli operatori agricoli. Gran parte di questo indebitamento è dovuto ai mutui accesi per la formazione di nuove proprietà coltivatrici, all’ acquisto di macchine, ai processi di ammodernamento, alle riorganizzazioni aziendali. Ma può la nostra agricoltura continuare a sostenere pesi così grandi, compressa com'è tra costi e ricavi, e con un equilibrio di mercato che non ha alle spalle nè organizzazioni per la produzione, nè una chiaroveggente impostazione commerciale? Quel che si verifica nei campi meridionali è indicativo. Nel momento in cui l'affacciarsi del settore industriale pone il problema di una qualificazione che dovrà tentare di tradurre in termini produttivi gli sviluppi della ricerca scientifica e tecnologica, l'arretratezza generale dell'agricoltura pesa sempre più negativamente. Le componenti sono molte, ma tutte collegate: preesistono strutture arretrate sia nella fase produttiva che in quella di mercato; manca una politica di sistemazione definitiva del suolo, dei corsi d'acqua, della montagna e della collina; è scarsa l'irrigazione; difettano i trasporti; fa fatica ad imporsi l'idea della cooperazione; soprattutto, mancano i capitali. 4 Sono stati perduti anni preziosi in un settore che è decisivo , quello della ricerca scientifica e tecnologica. La soluzione di questo pro- 38 zie, dati e documenti sulle strutture fondiarie di pubblico interesse, senza data (ma 1963). M . Pompei Lo sbilancio alimentare Giornale d'Italia 16 marzo 1966. 44 blema propone una serie di altri problemi che interessano i più diversi campi della scienza e della tecnologia: la genetica per la selezione di sementi più produttive e la sperimentazione per il loro ambientamento in aree agronomiche diverse (problema particolarmente acuto per l'Italia, per la diversità di condizioni naturali); l'uso dei prodotti chimici nelle varie fasi della coltivazione, che comporta uno studio specialistico per la fabbricazione dei preparati; una indagine sulla loro funzionalità ed efficacia verso le colture; l'invenzione di nuove macchine per la lavorazione del suolo, la loro progettazione è messa in prova; la creazione di vasti ranchs nelle aree più idonee delle dorsali appenniniche meridiona1i. E così via. Dalla soluzione di questi problemi dipende la « resa» del prodotto, il risultato finale. E così per ogni questione che alla ricerca si pone. Le discipline interessate alla sperimentazione agraria sono almeno quaranta. Chi si incarica della ricerca scientifica? Il professor Haussmann, nel suo opuscolo significativamente intitolato «Le stazioni tragicamente indietro con i tempi», scrive che il nostro Paese annovera un numero sorprendente di organi di ricerca per l'agricoltura fra statali, parastatali e privati (questi ultimi pochissimi), per un totale di 377 unità, superiore perfino a quello della Francia e della Germania Federale. Quanto ai risultati, afferma Haussmann, il quadro «è sconsolante». Non siamo riusciti a registrare, nella nostra rapida ricognizione in questo settore, un solo giudizio diverso. Lo stesso professor Cavazza, della Cassa per il Mezzogiorno, ha scritto: «Grave è nel suo insieme lo stato della organizzazione della sperimentazione agraria, specie nel Mezzogiorno; per quanto si riferisce di quadri, del tutto inadeguato è il loro numero. E' ben strano che una nazione come l'Italia non trovi modo di organizzare seriamente una ricerca applicata, capace di aiutarla a risolvere i suoi problemi agricoli». Un recente decreto-legge ha «ristrutturato» i centri statali di sperimentazione. Ne ha soppresso alcuni, ha fuso altri, molti li ha trasferiti nella Capitale, alimentando il sospetto di una loro «politicizzazione». 45 A nostro avviso, si ritrovano in questo settore alcune anomalie tipiche della pubblica amministrazione. Esaminando, ad esempio, l'elenco delle stazioni sperimentali dipendenti dal ministero della Agricoltura, si trova che tutta la zona dei grandi oliveti meridionali è sprovvista di stazioni autonome di ricerca specializzata. Roma avrà sei centri di ricerca, ma non ne esistono dove oggi c'è la più gran parte di prodotti agricoli italiani. Il terzo articolo della seconda edizione del Piano Verde delegava il governo a procedere ad una riorganizzazione generale, al potenziamento della sperimentazione agraria e alla sua specializzazione, collegando gli istituti per la ricerca a quelle zone ove i risultati di essa sono realmente importanti per lo sviluppo della agricoltura. E' stato stabilito anche un ampliamento dei ruoli del personale scientifico e tecnico, e sono state accolte importanti richieste degli sperimentatori. Tra l'altro, d'ora in avanti - a differenza del passato - sarà anche possibile impiegare in Italia, con contratti a termine, tecnici di altri Paesi per la soluzione di determinati problemi. In altri termini: noi, primi al mondo per produzione di vino, importiamo vino; primi per produzione di olio, importiamo olio; primi in Europa per numero e spesso per qualità di periti e specialisti e tecnici agrari, che fuggono all'estero in cerca di lavoro, o ripiegano all'insegnamento nelle scuole secondarie, rischiamo di offrire lavoro ad esperti stranieri. E' mai possibile -si chiede Dominione-39 che tutte le volte che un settore dell'agricoltura raggiunge un certo equilibrio, lo si debba nuovamente deprimer e con le importazioni? 5 Passiamo al suolo. Nella prima metà del '65, in Parlamento si insisteva specificatamente sulla «necessità di armonizzare l'economia delle zone montane con l'economia della pianura». A proposito del se39 C. Dominione L'agricoltura è gravata da un forte indebitamento. Corriere della Sera, 15 gennaio 1967. 46 condo paragrafo del XV Capitolo del Piano quinquennale, si rilevavano alcune disarmonie e certe pericolose lacune della politica d'intervento nel Mezzogiorno. In sostanza si precisava che «gli investimenti (...) pioveranno là dove esiste già una concentrazione e dove sussistono le premesse di uno sviluppo ulteriore» mentre « le altre zone non individuate nel disegno di legge dovranno sperare che gli incentivi, le agevolazioni fiscali (...), possano convincere gli imprenditori, per lo più quelli del Nord, in quanto nel Sud è lenta la trasformazione dell'abitudine secolare dell'investimento agricolo in quello industriale, a realizzare impianti, sia pure con limitazione fissata dall'art. 12 (penultimo comma) in merito alla localizzazione...». Il grido d'allarme non era ingiustificato. Infatti – si temeva- l a politica dell'identikit, cioè della scelta a tavolino delle cosiddette «zone omogenee», lungi dal ridurre lo squilibrio globale tra Mezzogiorno e resto d'Italia, avrebbe aggravato gli stessi squilibri esistenti tra le varie zone del Sud 40. In questo caso ha ragion e Sterpa41, quando sottoscrive «in buona parte» l'osservazione fondamentale di Giorgio Baglieri in «Cronache dei tempi lunghi», edito da Lacaita. Dice Baglieri: «Quando si farà il bilancio finale d ella Cassa per il Mezzogiorno e della riforma agraria, si troverà che in luogo di due Italie se ne sono create tre, che il Mezzogiorno è stato scisso in due parti. La prima, di stampo padano, con orti, frutteti, stabilimenti industriali e migliaia di casette ai bordi di comode e larghe strade di comunicazione, servirà per nascondere la seconda, quella dei tratturi e delle trazzere, dell'asino e dell'aratro di legno, del grano coltivato come si gioca al lotto, e dei paesaggi lunari». 6 Quattro milioni di ettari di montagna e sette milioni di ettari di 40 41 A. Bello La montagna in disarmo Il Globo 22 luglio 1965. E. Sterpa Il mondo contadino si evolve ma il cammino è ancora lungo Corriere della Sera 21 settembre 1966. 47 collina pesano da sempre sulla volontà di sviluppo delle popolazioni meridionali. L'ottanta per cento del suolo nazionale è montano e alto collinare. E se un terzo del Veneto e tutta la fascia orientale del Polesine che si allarga lungo la via Romea sono indifendibili perchè al di sotto del livello del mare, la Calabria ha più di seicento fiumare, che tagliano trasversalmente la regione, riottose e incomunicanti; la Lucania smotta paurosamente; il Gargano va a carte quarantanove ogni volta che piove; circa due milioni di ettari dell'Appennino meridionale superano la pendenza del 20-25 per cento; solo un milione di ettari sono rimboschiti, ma più della metà son cedui, cioè degradati, inefficienti ai fini idrogeologici; un milione e 800 mila ettari montani sono incolti e abbandonati. Ebbene, dei 1700 miliardi di lire a disposizione della Cassa per il Mezzogiorno per il quinquennio 1966-70, 450 mili ardi, pari al 27 per cento, andranno all'agricoltura. Di questi, appena settanta per opere di sistemazione montana a difesa degli impianti idrici. Soltanto dodici miliardi all'anno, che tuttavia non interessano la viabilità montana, le opere antifrana, l'elettrificazione dei terreni alti, la ricostituzione delle aree destinate ai boschi e ai pascoli, e tutti gli altri problemi che riguardano i moderni insediamenti agricoli. Si può sperare soltanto nella «discrezione» del ministro per il Mezzogiorno. Una discrezione che la limitazione di capitali disponibili esilia spesso in un vicolo senza uscite. 7 Ancora nell'immediato dopoguerra, l'Italia era un Paese precapitalistico, col quarantuno per cento di popolazione agricola. Oggi, il Piano prevede l'impiego in agricoltura del diciotto per cento delle forze di lavoro. Forse, nella realtà di domani, questo indice scenderà ancora, fino al sedici-quindici per cento. Avremo cioè tremilioni di lavoratori agricoli. Qui, secondo l'opinione degli esperti, converrà fermarsi. L'esodo agricolo, che è stato un fatto positivo, oltre un certo limite potrebbe 48 ottenere risultati estremamente negativi. Creare le condizioni perchè una parte della popolazione possa continuare a vivere in zone di campagna, trovandovi la propria convenienza, rappresenta dunque un obiettivo. Nei primi anni della sua presidenza, Roosevelt dovette affrontare problemi che, in fondo, non erano dissimili dai nostri. Lo fece lasciandosi guidare dal principio dell'utilità pubblica. Non solo costruì dighe, ma piantò foreste, strutturò il suolo, regolò i fiumi, apri strade e ferrovie, rilanciò l'agricoltura. Poi, come nella vallata del Tennessee, sorsero le grandi industrie. Noi abbiamo seguito il cammino opposto. Abbiamo creato aziende agricole e impiantato imprese industriali sullo sfasciume d'un terreno minato da secoli di abbandono, senza difese, senza strutture, o con infrastrutture incomplete e fragili. Prende piede così l'aria di scetticismo, si raffredda l'entusiasmo di partenza, si minaccia la smobilitazione, diventa cronico il logoramento del settore economico. Ora, lo Stato calcola che il solo costo dell'opera di rimboschimento si aggiri sul mezzo milione all'ettaro. C'è però chi dice che questa è una valutazione ottimistica. Comunque, il programma dovrebbe essere questo: sessantamila ettari rimboschiti ogni anno, per una spesa di trenta miliardi, più venti per le strade. Con questo ritmo arriveremmo in cinquant'anni al traguardo di tre milioni di ettari. E' il meno che si possa fare. La meta non è vicina, lo sforzo che richiede è grandioso. Per misurarne le dimensioni, basta dire che attualmente il bilancio destina alla difesa del suolo dieci miliardi annui, cinque dei quali sono assorbiti dalle opere stradali. Il prezzo da pagare per la sicurezza è alto. Ma lo pagano tranquillamente Paesi che, come la Spagna e la Jugoslavia, non sono più ricchi di noi. 8 Una delle manifestazioni più interessanti del processo di sviluppo economico è senza dubbio quella dell'esodo rurale. Essa consegue 49 ad una redistribuzione delle forze di lavoro, e si concreta nel loro trasferimento dal settore agricolo verso altri settori, soprattutto verso quello industriale. Più accelerato è il ritmo di crescita della economia, più accentuato è l'esodo dai campi. Nel nostro Paese, soprattutto nel Mezzogiorno, poi nel Veneto, il fenomeno ha preso consistenza verso il '55, raggiungendo l'intensità massima negli anni '60-64, in corrispondenza di quella forte espansione economica che è passata alle cronache contemporanee col nome di miracolo economico. Con la fase di recessione, l'esodo si è rapidamente contratto, fino a stagnare nel '65. Qualche dato può essere interessante. La popolazione agricola ammontava nel '51 a 8,3 milioni di unità (oltre il 41 per cento della popolazione attiva italiana). Nel '64, secondo le indagini campionare Istat, si scese a cinque milioni di unità (25 per cento). Grosso modo, a questo livello sono rimaste nel corso di questi anni. Si può ritenere quindi che in via approssimata, poichè i dati non sono esattamente comparabili, circa tre milioni di unità lavorative si siano trasferite dall'agricoltura verso l'industria e gli altri settori, in quindici anni, durante i quali la popolazione agricola è complessivamente diminuita di circa il quaranta per cento. Nel periodo di punta (1963), l'esodo ha avuto luogo con la frequenza media di una unità ogni minuto primo. La « fuga» ha interessato le classi giovani, soprattutto quelle tra i quindici e i vent'anni; gli uomini rispetto alle donne; i lavoratori indipendenti rispetto a quelli dipendenti. Fin qui, niente di eccezionale. E' la storia che, molto prima che da noi, si è verificata puntualmente in tutte le altre agricolture. Ma quelle nell'esodo hanno trovato il più forte incentivo a non invecchiare, a non femminilizzarsi, e a industrializzarsi, cioè a darsi schemi aziendali più consoni alle esigenze della moderna economia. Quella che si chiamò la « rivoluzione agraria» dell'Inghilterra intervenne quando le industrie urbane richiamarono e assorbirono i lavoratori dei campi. In pochi decenni, la superficie media delle aziende agricole inglesi raddoppiò e triplicò, si incrementarono gli allevamenti, e la Gran Bretagna 50 per un certo periodo fu persino esportatrice di cereali. Niente di tutto questo da noi. Il fatto è che in Italia l'agricoltura si giudica ancora con criteri più sentimentali che economici. Proprio in recenti documenti legislativi si elogia « l'artigianato rurale» dei coltivatori diretti. Si favorisce in ogni modo - malgrado qualche contraria dichiarazione teorica - la sopravvivenza di strutture arcaiche, sentimentalmente apprezzabili, ma economicamente negative. Dice Bignardi: «Anche noi apprezziamo l'artigianato, e lo riteniamo - in molti casi - insostituibile. Ma se l'economia manifatturiera pretendesse basarsi sull'artigianato, farebbe bancarotta. E' lo stesso caso nell'agricoltura: colture cerealicole, bieticole, frutteti per produzione di massa, allevamenti razionalizzati, esigono dimensioni aziendali che puntino su produzioni tipiche, scelte, e a costi decrescenti. Accanto a questi settori c'è naturalmente spazio per produzioni specializzate, che si avvalgano delle insostituibili premure artigianali di piccoli e medi coltivatori». Il fondatore dell'agricoltura moderna, Arthur Young, diceva che l'agricoltura dipende da due fattori: dal buon Dio e dalla politica. Niente di irriverente in questa proposizione che veniva da uno spirito cristianissimo, anzi torturato da scrupoli religiosi. Egli voleva dire che I'agricoltura dipende dall'imperscrutabile andamento delle vicende stagionali e dalla politica che al settore si applica. Diciamo allora che, essendo impossibile programmare il primo termine del binomio younghiano, sarà necessario proporsi un severo esame di coscienza, sempre, applicando il secondo, 9 Abbiamo detto dei problemi della montagna e dell'esodo rurale. Potremmo parlare di quelli corollari dei fiumi, delle irrigazioni, della zootecnica, delle bonifiche costiere, dell'elettrificazione rurale, dei trasporti rapidi, degli sbocchi di mercato, dell'istruzione professionale. Li 51 sfioreremo in seguito. Del resto, c'è una folta pubblicistica che affronta dettagliatamente e con obiettività tutti questi aspetti di un problema che riteniamo globale42. Rimane un fatto importante: su novemila miliardi di spesa statale (conto medio dei Bilanci italiani) soltanto 250 vanno all'agricoltura. Con gli stanziamenti straordinari previsti dal Piano Verde numero due, la spesa pubblica raddoppia. Dunque, è in particolar modo un problema di capitali. Lo aveva affermato, con la consueta brillante logica, Augusto Guerriero43. Invece, nel momento in cui l'Europa Verde vuol crescere, l'agricoltura italiana, questo nostro fragilissimo tallone d'Achille, si presenta in tali condizioni di precarietà e di depressione, da compromettere perfino i settori che notoriamente sono stati una nostra antica esclusività, come l'olivicoltura, o in cui abbiamo sempre primeggiato con pochi altri Paesi, come l'ortofrutticoltura e la viticoltura. 10 Pare, ora, che il «divorzio» tra agricoltura e politica voglia comporsi. Certamente, il coraggio imprenditoriale, se assistito dalla capacità e impiegato in corrispondenza delle scelte indicate per il Sud e l'Ita42 43 Degni di nota, fra gli altri: N. Lupori Politica Agraria Europea Edizioni ISE: Roma 1966; Bonifica. Mezzogiorno - Europa, Atti del XXII Congresso Nazionale della Bonifica, Bari 26·30 maggio 1965, Laterza. G. Medici La protezione del suolo e. la regolazione delle acque, Relazione al XXIII Congresso Nazionale delle Bonifiche, Roma 20 maggio 1967. Interessanti anche gli estratti dal bollettino La Bonifica Integrale. Citiamo per tutti: G. Fiori Della contribuenza privata per le opere pubbliche di bonifica nei comprensori dell'Italia meridionale, Fasc: V 1960; G. Compagno-AM.Martuscellì La disciplina giuridica della bonifica nel paesi della Comunità Europea, Fase. IV 1961; E. Anzillotti Tendenza delle esportazioni agricole italiane, Fase. III del 1959. Infine si vedano: S. Bertani. La ricomposizione Fondaria fattore di alta produttività. Esso. Agricola 1 febbraìo 1967; A. Calzecchi-Onestì Bonifica agraria e difesa del suolo Il Globo 3 giugno 1967. Infine, le pagine dedicate dall'Avanti! alla Conferenza Agraria, date varie per tutto il 1967. Ricciardetto I problemi del Sud Epoca 26 marzo 1961; ma anche: Le industrie del Sud, Ib. 4 giugno 1961, e Il problema del Mezzogiorno, Ib. 31 marzo1963 52 lia, va aiutato e protetto con una politica coerente e appropriata. Gli agricoltori meridionali ritengono di essere eterni vasi d'argilla. Ora qualcuno, portando il paragone in campo internazionale, ha pensato che tutta l'agricoltura italiana possa essere il vaso d'argilla fra tanti vasi di ferro. 11 In realtà, Italia e Mezzogiorno hanno buone chances. Se è vero che per l'agricoltura son difficili da raggiungere gli obiettivi del Piano44, è altrettanto vero che la ricomposizione fondiaria, la cooperazione, la partecipazione diretta dei contadini agli utili societari, in aree globalmente strutturate, con l'aiuto del credito, con i capitali dello Stato, con gli investimenti privati dei meridionali, con le facilitazioni fiscali, con l'alleggerimento della pressione demografica, e poi con l'energia elettrica, l'acqua, le macchine, e via dicendo, possono operare il miracolo di un grande rilancio. Tutto ciò, tenendo presenti le reali vocazioni territoriali, e col più scrupoloso rispetto dei fattori latitudinali, altimetrici e di mercato. Ci sono, quindi, varie politiche tecniche che vanno realizzate al momento giusto, seriamente e incisivamente. Noi siamo cuciti con l'Europa su quattro frontiere. Eppure, nei quattro Paesi confinanti, per non andar più lontano, siamo battuti spesso dalla concorrenza della Spagna e della Grecia, dell'Algeria, della Tunisia, di Israele e del Libano. Anche della Bulgaria, da qualche anno in qua. E proprio con quei beni vendibili che hanno tradizionalmente caratterizzato la produzione agricola italiana. E' che siamo quasi rassegnati all'inferiorità internazionale. Anzi, essa è spesso pretesto per le nostre baruffe intestine, per il sopravvento delle fazioni, per la difesa a oltranza dell'economia di campanile. Un esempio per tutti: il rapporto presentato al Cnel per conto dell'Inea, parla di alimenti che «non sarebbe conveniente produrre 44 C. Bonato in corriere della Sera, 11 marzo 1967. 53 da noi», come se si trattasse di nuove iniziative di incerto esito economico. La realtà è del tutto diversa. Si tratta «di investimenti già effettuati e di iniziative in corso, dalle quali occorre semplicemente ottenere non il poco che oggi si ricava, bensì il molto che si può ricavare applicando i necessari perfezionamenti»45. Il sospetto nasce dal fatto che la diagnosi di «non-convenienza» coincide con la terapia di risanamento del deficit che è stata proposta, e che consiste nel compensare l'importazione alimentare con l'esportazione di manufatti del triangolo Milano-Torino-Genova. E' un correttivo alla rovescia. Un intervento indicativo di certi timori degli agricoltori, che temono la sopraffazione e la costrizione in mercati limitati con prodotti limitati. E' anche qui il dramma dell'agricoltura meridionale. 45 A. Pagani Deleterio rassegnarsi all'inferiorità in agricoltura Il Giorno 27 maggio 1967. 54 IL SUD COL CUORE D'ACCIAIO Ogni nazione ha i suoi fenomeni, secondo le cause remote e prossime dei quali sono effetti, e quindi in ogni nazione ci sarà diversità di caratteristiche, di fasi e di sviluppo. Luigi Sturzo Non lamento, ma azione ... Pio XII Questa democrazia può esistere soltanto se si estende anche al campo economico, può essere prospera e fruttuosa soltanto se la nazione è in grado di far rispettare la sua autorità e la sua legge in ogni settore, e particolarmente in quello economico, che una volta le era interdetto. Mendès France 55 In uno dei non rari momenti m cui si fermava a far quattro chiacchere nel «transatlantico» della facoltà di Lettere dell'università di Roma, Federico Chabod ebbe a dire che il difetto tradizionale della classe dirigente italiana dall'Unità ad oggi è stato quello di aver quasi sempre sacrificato le esigenze della realpolitik sull'altare di un vago plaisir de paraitre 46. Il ricordo ci è tornato più vivo che mai nei giorni di disordine e morte nel Medio Oriente, ove si è maggiormente concretizzato il nostro impegno mediterraneo. In Egitto, ad esempio, abbiamo investito milioni di dollari in opere di bonifica. Abbiamo trasformato il deserto in uno scacchiere di fattorie tra le più moderne e redditizie del Nord Africa. Abbiamo imbrigliato terreni, scavato pozzi, regolato fiumi e torrenti, costruito strade e case, silos, ponti, officine. Abbiamo speso in quelle latitudini, sotto forma di prestito agevolato, (ormai irrecuperabile), le stesse cifre che il bilancio dello Stato destina in almeno quindici anni alla viabilità montana e alla sistemazione del suolo, ai rimboschimenti e alle bonifiche costiere. Li abbiamo spesi soprattutto nell'area del Cairo, che ha un reddito medio superiore a quelli di Bari e Palermo, o di Taranto e Siracusa, o di Cagliari, Reggio e Matera. Ora, un progetto di legge prevede la destinazione di mille miliardi ai Paesi sottosviluppati. I meridionali affermano che «sottosviluppo» può essere un termine generico e non discriminatorio, e si chiedono se, scavalcando il Sud e aggirando alcuni suoi antichi problemi, si potrà mai svolgere una autentica politica mediatrice e d'equilibrio nel bacino mediterraneo. Osservano infine che i cattolici intransigenti, attraverso la loro rivista 46 F. Chabod Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Bari, Laterza 1951 57 ufficiale47, al tempo delle imprese di Crispi in Africa, non esitarono a gridare: «Milioni in Africa e fame in Italia!»48. Oggi, dicono ancora, i cattolici non sono più all'opposizione, ma al potere. E lo «spreco» resta. I capitali continuano a trasmigrare, mentre il Sud sta a guardare. I Paesi poveri, è stato scritto, sono quelli che spendono di più. Noi abbiamo un’agricoltura povera, un'industria che è l'unica speranza del Paese, commerci internazionali passivi, risorse minerarie scadenti. Ma spendiamo troppo e male, in Egitto, in Argentina, in Iraq, in Corea anche, perchè ci rifiutiamo di ammettere di non essere ricchi, cioè di essere ancora poveri. I più poveri della piccola Europa. Tra i meno ricchi delle due Europe. 2 Le cause profonde di questa povertà coincidono in qualche maniera con la palla al piede del Mezzogiorno. Anche del Mezzogiorno in via di sviluppo. Quel Mezzogiorno che vedrà altri miliardi partire per esili lontani, e che ha visto negarsi pochi quattrini per alcuni indispensabili raddoppi ferroviari, per il prolungamento di certe autostrade, per la sistemazione rapida dello sfasciume montano, e via dicendo. Sicchè, a volte, pare trovare conferma quel complesso della rassegnazione fatalistica, che ha le sue radici nel pessimismo geografico di Giustino Fortunato, secondo cui dalla Balcania alla Spagna, «e perfino negli opulenti Stati Uniti, il "profondo Sud'' sembra condannato da fattori climatici determinanti a una inferiorità ineluttabile». 3 Polemiche e rancori «storici» a parte, le nuove frontiere del Sud non devono consistere più nel sostituire la civiltà del mulo con quella 47 48 La Civiltà Cattolica, Serie XVI. vol. V, 1896. G. Spadolini Le due Italie, in L'opposizione cattolica, pagg. 373 e segg. 58 della vaporiera, ma nell'impiegare le smisurate potenze della elettronica e della fissione nucleare, nel condizionare il clima, nel desalinizzare le acque marine, nel redimere la terra, nel promuovere alla ordinata civiltà urbana e industriale le masse rurali ancora chiuse, in vastissime aree, in un isolamento feudale. Problemi di immensa portata si aprono di fronte a questo coraggioso realismo. Ha scritto La Stampa: «A un Mezzogiorno che depone le querele per immaginarie spoliazioni nordiste, i retorici vanti delle proprie supremazie intellettuali, il vagheggiamento idillico dello status quo, il velleitario radicalismo estremista - a questo Mezzogiorno smagato, lucido e risoluto, il Nord deve una risposta fraterna». La risposta a quale domanda? Il Sud ha chiesto un cuore d'acciaio. Un cuore a più vertici: Bari-Brindisi-Taranto, Potenza -Napoli - Salerno -Caserta,- Palermo - Siracusa - Reggio, Pescara - L'Aquila- Campobasso, Matera - Lecce attraverso Taranto, Foggia - Benevento - Avellino. Poi, le aorte delle università, dei centri tecnologici altamente specializzati, delle aree elettronucleari. Parecchio è stato fatto, in vari settori e per diverse aree. Le chiamano direttrici di sviluppo, o ipotesi di direzione, sulle quali ci si è incamminati, anche se fin dall'inizio si sono registrati «errori, ritardi, dispersioni, tortuosità» 49, col pericolo di una integrazione impossibile, «dal momento che differiscono nella impostazione e nei metodi, si riferiscono a periodi di tempo di diversa lunghezza, e si prefiggono obiettivi non sempre confrontabili»50. Qualche tempo fa, il ministro Pastore affermò: «E' tempo (... ) di respingere definitivamente tutte le tesi economiche, le posizioni politiche e anche gli orientamenti imprenditoriali, che ritengono che la linea prioritaria dell'economia italiana consista nello sviluppare il Nord e riservare al Sud alcuni, pur importanti, sottoprodotti dell'espansione generale dell'economia del Paese. All'epoca in cui queste idee sembra49 E. Sterpa Ancora troppe strozzature allontanano il Nord dal Sud. Corriere della Sera 21 aprile 1967. 50 A. Bello L'industrializzazione del nostro Mezzogiorno Mondo Agricolo, 22 maggio 1966. 59 vano dominanti, avemmo ben chiari gli effetti negativi di uno sviluppo che continuasse a concentrarsi in limitate zone del Paese nelle quali, malgrado una elevata mobilità dei fattori produttivi, le condizioni di costo andavano ad aggravarsi notevolmente. Io non voglio entrare a discutere se la situazione di certe aree del Nord presenti caratteri di "congestione" analoghi a quelli che si riscontrano nei grandi distretti metropolitani dei Paesi dell'Europa occidentale o dell'America: posso anche ammettere che i nostri fenomeni di congestione abbiano assunto una entità minore; ma nessuno può disconoscere che con il procedere dello sviluppo si sono moltiplicati fenomeni di disordine tali da rendere sempre più difficoltoso l'ulteriore svolgersi dello sviluppo stesso. Le esigenze di infrastrutture generali e di servizi civili sono andate paurosamente crescendo, e la spesa pubblica - statale e degli enti locali - è stata sollecitata ad interventi sempre maggiori ; gli effetti di reddito determinati da tale spesa, dal consolidarsi dell'apparato produttivo e dalla crescita della domanda locale, hanno provocato una domanda addizionale, un nuovo afflusso di popolazione e il richiamo di nuove forze di lavoro. Tutto ciò ha sollecitato nuova spesa pubblica nelle regioni già favorite, sottraendo automaticamente risorse agli investimenti nel Mezzogiorno» 51. 4 Nelle intenzioni del ministro per gli interventi nel Mezzogiorno, il problema di fondo resta quello della creazione di un sistema armonioso di sviluppo che impegni al suo rispetto i singoli e lo Stato: un sistema che esalti quanto di buono si è fatto finora attraverso l'intervento meridionalistico, e che abbia, come ultimo fine, l'unità economicosociale e geografica della nazione. A questo scopo unitario, tutti gli in51 G. Pastore Nord e Sud in una nuova politica di sviluppo, conferenza tenuta alla Camera di Commercio di Milano. Quaderno N. 14 a cura del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, 29 gennaio 1966. 60 terventi, e quindi non solo quelli di natura strettamente economica, debbono essere conformi. I due grandi piani che maggiormente ci interessano - il piano economico nazionale, e quello di rilancio della Cassa - sono da considerarsi capaci, nella loro formulazione, di assumere quella unità come fine e come permanente parametro di verifica della conformità o meno al fine dei singoli provvedimenti? Risponde Orlando: «Il Cnel, nel suo parere sul piano di sviluppo, ha rilevato che squilibri non trascurabili esistono anche fuori della tradizionale contrapposizione Nord-Sud e che la programmazione deve approfondire tale problema in una più ampia visione della politica del territorio (...) Da troppi anni (...) il Paese è alle prese col problema del Mezzogiorno per non capire che lo sviluppo generale altro non è che sintesi di una politica di mobilitazione delle risorse , secondo criteri di massimo rendimento economico»52. E risponde l'efficacia delle cifre, che indicano chiaramente il diverso grado di industrializzazione delle ripartizioni geografiche, e mettono in evidenza - anche tenendo in debito conto la popolazione residente - che l'occupazione nell'industria a Sud è quasi esattamente la metà di quella del Nord. Ecco il confronto tra popolazione residente e il numero degli occupati d'ambo i sessi nell'industria, quale risulta da una recentissima pubblicazione dell'Istat, che tratta dell'argomento per un intero quindicennio 53: Abitanti Occ. Industria Nord 45% 58% Centro 19% 17% Sud 36% 25% Il contrasto più stridente si nota fra le due ripartizioni estreme: nell'Italia settentrionale, dove risiede il 45 per cento della popolazione, 52 53 F. Orlando Saturno nel Sud. La Tribuna 20 aprile 1965. Supplemento straordinario al Bollettino mensile di statistica, dedicato all'«Occupa-zione in Italia negli anni 1951-65, Industria». Roma 1968. 61 vi è il 58 per cento di tutti gli occupati nell'industria. E' la percentuale più elevata, che in cifre reali raggiunge tre milioni di unità. Per il Mezzogiorno, il 25 per cento del 1966-67 supera di poco quel 22 per cento che era stato registrato dieci anni prima, alla fine del 1956-57. Quanto si è investito nel Sud nel quindicennio 1951-65? Oltre seimila miliardi di lire54. E' stabilito che il 67 per cento dei capitali investiti hanno interessato nuovi impianti. E' anche stabilito che un nuovo impianto industriale realizzato nel Mezzogiorno costa fino a un terzo in meno rispetto ad un impianto simile localizzato nel Nord. Malgrado ciò, e sebbene il Sud abbia «tenuto» nel periodo della congiuntura assai meglio che il Nord, la politica di industrializzazione segna il passo. Non fosse stato per l'Iri, avrebbe dovuto registrare un disastroso regresso rispetto all'indice di incremento del Nord. 5 Luchino Manfredino, nel suo libro «Il Mezzogiorno», sostiene l'impossibilità di un avviamento autonomo del Sud, (e della Calabria in particolare), ad un processo di industrializzazione, e per difetto di capitali, e per lo scarso senso associativo e imprenditoriale dei meridionali. Manfredino trova come unico rimedio possibile al «malanno» l'emigrazione nel Mezzogiorno degli industriali del Nord. Alle stesse conclusioni approda Mario Mesuca55, dopo un ampio esame dei consuntivi relativi all'attività dell'ultimo quindicennio dell'Isveimer, dai quali evince che gli interventi extra-settori tradizionali nel Meridione si riducono a ben poca cosa, anche per la estrema cautela - o diffidenza - dell'Istituto a concederli. In realtà, questo pionerismo settentrionale non avrebbe alcuna ragione d'essere invocato, se soltanto si apportassero opportune modifiche ad alcuni strumenti d'intervento nel Mezzogiorno; se la vo54 55 G. Ceralli Investimenti industriali per 6.126 miliardi in quindici anni». Il Globo 11 agosto 1966. M. Mesuca Prospettive di industrializzazione. Cronache Economiche N. 2, febbraio 1966. 62 lontà politica del meridionalismo si trasferisse da certe sfere astratte, ancora vive nel gioco delle parti, al piano concreto, aggressivo, risolutivo, delle realizzazioni su vasta scala; se infine si operasse nello stesso Mezzogiorno una vasta trasformazione del costume, delle coscienze, dell'ambiente anche intellettuale, con azioni e rapporti moderni, non formali, con l'attuazione di quella che Croce chiamò «chiarezza di coscienza e di definizione» della questione meridionale e dei meridionali impostata in termini etici, politici e storici, e riconosciuta, di conseguenza, come questione massima dello Stato unitario italiano. 6 L'attuale complessa procedura creditizia di favore per l’industrializzazione del Sud si fonda su due leggi: quella del 29 luglio 1957, numero 634; quella del 18 luglio 1959, numero 555. La prima stabilisce l'erogazione di contributi a fondo perduto nella misura del venti per cento della spesa per l'impianto di piccole e medie industrie in comuni con meno di 75 mila abitanti e scarsamente industrializzati, e il contributo per l'acquisto di attrezzature e di macchinari pari al dieci per cento della spesa totale. La seconda, con la quale il limite degli abitanti è spostato da 75 a 200 mila abitanti, estende il contributo anche agli ampliamenti, ed eleva quello per i macchinari al venti per cento, purchè siano prodotti da industrie meridionali. Prescindendo dai ritardi della loro applicazione, «le leggi suddette non hanno apportato beneficio di rilievo per la complicata procedura creditizia, che è valsa a scoraggiare ogni iniziativa, e che non è stata sanata dalla successiva concessione della garanzia sussidiaria dello Stato sino a 50 milioni» 56 . Del resto, a proposito dell'azione negativa svolta dagli istituti di credito per il Mezzogiorno, il Torquato, sul numero due di «Pianificazione» del 1966, scriveva: «Le manchevolezze che si possono rilevare 56 S. Calvano L'industrializzazione del Sud ostacolata dalla politica creditizia. Giornale del Mezzogiorno, 2 febbraio 1966. 63 nell'azione svolta da questi istituti sono inerenti, più che al loro operare, alla mancanza di direttive politiche e di azioni di supporto a quelle che essi istituzionalmente e nell'ambito del nostro sistema creditizio potevano svolgere. Pertanto, i rilievi da fare vanno ricercati: in una mancanza di precise indicazioni circa il tipo di impresa da agevolare preferenzialmente e, di conseguenza, di una azione di indirizzo degli imprenditori verso certi tipi di investimento piuttosto che altri; nella carenza di una politica coordinata di insediamenti industriali, tale che potesse portare ad utilizzare questi istituti per convogliare gli investimenti in zone di maggiore suscettibilità, carenza che ha portato dispersioni di mezzi a fronte dei risultati che si potevano conseguire; nello scarso appoggio che gli istituti speciali hanno potuto dare per creare una classe imprenditoriale, e aiutare quella esistente, cosa da attribuirsi al loro carattere istituzionale». Occorre dunque modificare profondamente la politica finanziaria per l'industria meridionale. A tal proposito, un recente studio della Svimez suggerisce la creazione di «una grossa società finanziaria alla quale faccia capo tutta l'attività creditizia pubblica per il Mezzogiorno e le isole, che curi l'esecuzione degli indirizzi di politica industriale che derivano dalla politica di programmazione (...) con un capitale di dotazione fornito dalla Cassa per il Mezzogiorno». La società potrebbe «emettere azioni ed obbligazioni con garanzia statale» . La creazione di una società finanziaria «riferita precisamente al settore agricolo», del resto, era stata prospettata dal ministro Pastore in più occasioni57, con «l'assicurazione ( ...) che tale società non è destinata a restare uno dei molti enti improduttivi». Molti capitali investiti bene possono evitare che al mulo si sostituisca solo la civiltà della vaporiera. Citiamo ancora Pastore: «La storia di miserie e dolori del Mezzogiorno non è soltanto il risultato di una gravissima 57 Discorso all'Assemblea dell'Isveimer, Napoli 30 aprile 1966; Discorso all'Assemblea dell'Irfis, Palermo 5 aprile 1966. Raccolti nel Quaderno N. 15 dedicato alle «Linee di una nuova politica industriale per il Mezzogiorno». Roma, Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, 1966. 64 depressione economica; è anche e soprattutto storia materiata da profonde fratture volute e create da chi sedeva in alto, vuoi per motivi di comando politico, vuoi per motivi di censo o d'altro. Sono queste fratture che portano il popolo meridionale al più grave isolamento, e quindi ad un profondo deperimento spirituale»58. Come si è reagito a queste fratture? La risposta è data in un pregevole studio dell'Italconsult, i cui esperti hanno rilevato che la industrializzazione del Sud non si può raggiungere se non saranno installate una volta per tutte in queste regioni quelle «industrie motrici» che, sole, hanno la capacità di suscitare altre unità industriali. Finora, è detto, nel Mezzogiorno si son visti nascere complessi siderurgici e petrolchimici. Ma nessuno di essi costituisce una unità motrice. «Anche dal punto di vista storico dell'origine dei poli nelle regioni del blocco centrale (dai Paesi Bassi alla Val Padana) non si può considerare in senso stretto la siderurgia come industria motrice; in verità fu il carbone il fattore di localizzazione primario, poi il mercato formato dagli agglomerati di popolazione sorti intorno alle industrie minerarie, siderurgiche ed altre grandi consumatrici di combustibile; infine, modernamente, con l'affermarsi d'intense interrelazioni industriali, le economie della concentrazione». Ma quali sono queste industrie motrici? Nell’ordine: quelle meccaniche, quelle tessili, e quelle a valle della chimica. Dice Sterpa59 «Ebbene, proprio questo tipo di industrie non ha avuto sviluppo nel Sud, pur disponendo (...) potenzialmente di ampi mercati». Qualcosa si muove soltanto per il settore meccanico, ma si è trattato finora di pochi complessi, che hanno assorbito un centinaio di miliardi di lire. E' tuttavia indicativo che il loro incremento lordo «si è manifestato decisamente superiore a quello rilevato nelle altre circoscrizioni italiane (...), al punto 58 59 «Analisi e prospettive dello sviluppo del Mezzogiorno». Discorso al Senato 10 maggio 1961. E. Sterpa «Nel Sud mancano ancora le grandi « industrie motrici» Corriere della sera, 5 luglio 1966; ed anche P. Ottone Il Mezzogiorno «nuova frontiera» dello sviluppo industriale italiano. Ib. 11 giugno 1967. 65 che la loro incidenza sul prodotto lordo nazionale del settore, per quanto ancora limitata, è andata gradualmente accentuandosi» 60. 7 Se l'industria normale può realmente dare al Mezzogiorno un volto nuovo, e può annullare, o limitare al minimo, distanze e lacune, quella «speciale», prima fra tutte quella elettronucleare, può portarlo all'avanguardia della civiltà europea. E' l'industria del balzo in avanti, dei precursori, dei pionieri, di frontiere che soltanto la fantasia più accesa può tradurre in immagini. Esiste il pericolo del balzo? Scesi in Italia a scovare un territorio adatto all'installazione di un ciclosincrotrone, gli specialisti del Centro Europeo di Ricerche Nucleari misero gli occhi su tre comprensori: quello di Brindisi, quello di Doberdò, fra Trieste e Gorizia, e quello di Nardò al centro della penisola salentina. Scartato il primo (perché troppo vicino a un'area di industrializzazione in pieno sviluppo, con terreni non sufficientemente carsici, quindi poco adatti ad assorbire le radiazioni), sono restati gli altri due, simili per caratteristiche fisiche e geologiche, ma diversi per dotazione di infrastrutture. A questo punto, dunque, la scelta comportava la valutazione di fattori non solo materiali, ma politici, sociali, spirituali anche, con tutte le componenti interne ed esterne che li determinano. L'impianto sarà tra i maggiori del mondo, misurerà due chilometri e mezzo di diametro, racchiuderà centri di ricerca teorica e applicata, campi di sperimentazione, laboratori, settori di studio e progettazione. Lo frequenteranno quindicimila unità: cinque mila scienziati adibiti alle ricerche, altrettanti specialisti e tecnici, altrettanti studenti dell'Europa comunitaria61. Il problema più immediato nel rapporto Italia-CernSincrotrone, era quello dell'inserimento di un discorso molto chiaro del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno per il possesso della cittadella 60 61 L. De Rosa Industria meccanica e Mezzogiorno L'Avanti! 1.2.1967. A. Bello Un sincrotrone per il Salento Il Globo 11 giugno 1965. 66 nucleare. In proposito, un ordine del giorno di parte liberale affermava: «Considerato che lo sviluppo del Mezzogiorno non si esaurisce nel favorire le capacità e le possibilità di realizzazione produttiva e di espansione della occupazione, ma che si effettua con una profonda modificazione dell'ambiente umano e culturale; tenuto conto della qualificazione altamente scientifica delle quindicimila unità che si dovrebbero accompagnare all'insediamento del nuovo impianto nucleare e del notevole contributo che questa presenza apporterebbe alla crescita civile del Mezzogiorno; impegna il governo ad esprimere la definitiva determinazione nella scelta della zona di Nardò, valutando, più che le eventuali deficienze in confronto dell'altra area del Nord, forse più favorita dalla posizione geografica e più favorevole per situazioni contingenti che possono tuttavia pareggiarsi in breve tempo, nel meridione, l'apporto insostituibile sul piano spirituale e scientifico, e il concreto completamento della politica meridionilistica ...». All'ordine del giorno aderirono favorevolmente molti gruppi parlamentari. E il ministro Pastore lo accettò come raccomandazione al governo. Si era a metà 1965. In seguito non un passo fu fatto per l'aggiudicazione del protosincrotrone. La posizione italiana e meridionale, anzi, fu aggravata, nel momento in cui Francia, Germania e Paesi Bassi avanzarono formale richiesta di possesso della cittadella nucleare. Il Cern è organo esecutivo dell'Euratom. E dall'Euratom, Francia e Germania in particolare hanno avuto parecchio: insieme, hanno assorbito il sessanta per cento degli impianti, pari al settantadue per cento degli investimenti comunitari. Motivo di più, questo, per avanzare un'efficace domanda di aggiudicazione, puntando anche sul movimento d'opinione pubblica che, a livello eurupeo, parla e discute del nostro Mezzogiorno come di una frontiera non più soltanto italiana, ma, appunto, comunitaria62. Per il Mezzogiorno, l'Europa chiede all'Italia una trasformazione radicale dell'ambiente umano, sollecitatrice del mutamento di un ordine 62 B. Cialdea Sviluppo storico-politico della cooperazione europea. Ediz. Ise Roma 1965. 67 economico, sociale, intellettuale. Scelta ideologica, pertanto, doveva essere quella del governo, su indicazione del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. Si cadde invece nell'attendismo, nella politica del perditempo, che intiepidì la disponibilità e le simpatie del Cern. E per il Sud restò anche questa un'occasione mancata. Parlando alla Camera sulla «Politica nuova per il Mezzogiorno», Pastore ebbe a dire che «il nostro obiettivo di fondo è quello di fare della società meridionale la grande protagonista di questa nuova questione nazionale». Soltanto lo sviluppo delle coscienze, aggiunse il ministro, il loro pieno dispiegarsi, la possibilità di esprimersi responsabilmente e di comprendersi reciprocamente, possono dar nuova possibilità di soluzione alla questione nazionale; possono conferire nuove spinte al riavvicinamento fra i cittadini e il potere; fra le speranze della società e le esigenze dello Stato. Forse, ebbe a dire ancora, «se dovessi fare un bilancio di sette anni di attività di governo, un elemento positivo, credo, emergerebbe, e tale elemento è costituito dall'aver sempre creduto nelle virtù civili del Mezzogiorno; nella capacità, vorrei dire storica, dei meridionali, di porsi, risolta la loro secolare questione, alla testa della società nazionale per dare un decisivo contributo alla soluzione di questa nuova questione: saldare, cioè, in una grande prospettiva unitaria, l'autorità dello Stato e la libertà della persona, attraverso le articolazioni sociali; giungere con una nuova sintesi a costruire più solide basi alla democrazia del nostro Paese». E questo è un modo esemplare di interpretare in chiave moderna il pensiero nittiano. Ma quanti, al di là della linea del Sud, oltre il muro e il deserto del sottosviluppo, potranno accettare senza scetticismo, senza immense riserve e senza un sorriso smagato queste parole? Al Nono Convegno azionale per la Civiltà del Lavoro, tenutosi a Roma il 27 ottobre 1966, Emanuele Dubini affermò: «Talune agevolazioni esistenti per favorire nuove iniziative e l'industrializzazione del Mezzogiorno possono essere considerate negative: mi riferisco in particolare a talune forme di incentivi che, limitando il rischio dell'attività impren68 ditoriale, possono snaturare le imprese che vanno nascendo, al punto da limitarne la validità sia sul piano economico, sia sul piano sociale. La capacità di assumere rischi economici infatti è da considerarsi una caratteristica tipica dell'attività imprenditoriale. D'altra parte, occorre tener presente che il nostro sistema economico si va ormai definitivamente inserendo nel quadro del più vasto mercato europeo, nel quale dovremo affrontare nuove, impegnative concorrenze, anche se lo stesso ci offrirà nuove, importanti possibilità». E questo è un modo sleale di guardare al Sud. E' il discorso tipico di chi vede nella sconfitta graduale del sottosviluppo un pericolo crescente per la propria espansione economica. E' considerato dannoso anche il fatto che in un «nuovo Sud» si possa realizzare il pericolo teorico dell'apertura di un mercato globale di lavoro in grado di trattenere la maggior parte dei lavoratori63. 8 Un nuovo Mezzogiorno non ci sarà mai, se oltre alle politiche delle infrastrutture, del suolo, dell'agricoltura, delle industrie tradizionali, non si attuerà la politica più nuova del cuore atomico e delle astronavi della tecnologia. Come è accaduto alle foci del Garigliano. Perchè il futuro si è fermato qui, tra Roma e Napoli, quasi sul ponte di Teano. E' stato scritto: «Gli industriali, nella loro recente assemblea, hanno guardato di traverso al Mezzogiorno, quando nella relazione generale hanno testualmente dichiarato: "Si deve rilevare l'insufficienza dello stanziamento di quattrocento miliardi per la concessione di contributi in conto capitale e in conto interessi sui finanziamenti a tasso agevolato nei confronti delle previsioni di sviluppo industriale nel Mezzogiorno formulate dal programma 1966-70. Il programma, al fine di creare nel Mezzogiorno 590 mila 63 A. Bello Perché i meridionali non vanno più al Nord? Il Globo13 agosto 1965. 69 nuovi posti di lavoro nelle attività industriali, prevede che alla fine del 1970 debbano essere realizzati investimenti lordi per complessivi 4.500 miliardi, con una media di circa 900 miliardi all'anno, notevolmente superiore alla più alta punta raggiunta in questi ultimi anni (548 miliardi nel 1963) e alle previsioni di sviluppo per il quadriennio 1966-69 elaborate dalla Confederazione dell'Industria (una media annua di 550 miliardi di lire) ...» «Vorrei dire che, invertite le parti, gli industriali hanno impostato anch’essi il loro discorso «nel sistema». E' logico che essi tacciano un ragionamento poggiato sui «contributi», perchè la loro mentalità è «partitica», di quel partito che ha per simbolo l'investimento «alla rovescia», quello cioè che a differenza di quanto avviene nel Nord, deve essere « garantito contro le perdite», sol perchè fatto nel Sud, buono peraltro come mercato di consumo e come miniera di braccia da lavoro. Ma è inaccettabile per noi meridionalisti, perchè è un ragionamento che non poggia su basi « anagrafiche» e non si propone obiettivi complementari a quello comune a tutti i meridionali, dello sviluppo quantitativo e qualitativo del Mezzogiorno... » 64 . Da questi concetti, che illuminano la proiezione dell'antica condizione economica delle « due Italie », si estrae la necessità di fondo di una politica generale che sia unitariamente indirizzata, senza coercizioni ma anche senza debolezze. Una politica che vada «oltre Eboli», con la volontà di impiantarvi massicci polmoni industriali, capaci di vitalizzare i corpi produttivi asfittici, deboli, condizionati, del Meridione; e in grado di svincolarli dal complesso del telecomando settentrionale, per proiettarli sul livello della concorrenza europea. E oltre l'Europa, in Africa, nel Medio Oriente, anche più in là. Che guardi al Mediterraneo come a un ponte, non come ad un muro. 64 E. Bonea Un'anagrafe del Mezzogiorno. (Dibattito con V. Fiore), Tribuna del Salento 10 marzo 1967. 70 DIECI MILIONI DI BRACCIA Comme le monde physique ne subsiste que parce que chaque partie de la matière tend a s'éloigner du centre, aussi le monde politique se soutient-il par ce désir interieur et inquiet que chacun a de sortir du lieu où il est placé. Montesquieu Sono le istituzioni a modellare e condizionare la vita degli uomini, il loro comportamento, i loro costumi, la loro psicologia. Gaetano Martino Questi progressi erano generali in ogni parte del paese, ma, di necessità, comparativamente diseguali e talora compiuti a spese di una parte sull' altra. Donde contrasti d'interessi, che, svaniti gli ultimi strascichi delle resistenze antiunitarie, si determinarono come economici. Benedetto Croce 71 Ogni domenica la Germania Federale sorride. A tratti, ride rumorosamente. Se non altro, perchè è tutta im Ferien von Crich, nella lingua di Goethe che, resa in quella di Dante, suona fuori di sè. Divertita e divertente, questa Germania, nella sua ricca veste festiva, costruitale su misura dagli statisti-economisti del dopoguerra, è presente dappertutto, in ogni forma che implichi la testimonianza, visibile o invisibile, eloquente o muta, del suo benessere economico e sociale. Il lunedì, quella stessa Germania s'incupisce e si rimette in tuta. Casacche di tela blu, guanti di pelle, berretti calati sul viso, scarpe con grosse tomaie, anche questi sfornati dai soliti statisti-economisti stravaganti e miracolosi, che nel '50 importavano fino a sette piroscafi al giorno carichi di derrate alimentari, da pagare con una macchinetta contenuta in una valigia, e che oggi riuscirebbero a vendere anche il sol levante al Giappone. Nel giro di pochi anni, questa terra bruciata dalla guerra più rovinosa della storia ha aumentato del trecento per cento la produzione di tutti settori, e del quattrocento per cento quella delle quattordici sezioni della chimica. E intende superare l'attuale bassa congiuntura con un'ardita politica di espansione delle fabbriche, delle officine, delle aziende agricole, concentrandone la produzione e rovesciandola sui mercati mondiali. Per realizzare queste nuove dimensioni economiche e produttive, la Repubblica Federale ha impegnato tutti i suoi tecnici, dal primo all'ultimo. Ha trasformato il lavoro nel più cospicuo bene di consumo. Ha chiesto in prestito tecnici e specialisti all'Europa. E ne ha chiesti, paradossalmente, anche all'Italia. Paradossalmente, perchè di tecnici, di operai specializzati - e di scuole di qualificazione - di ingegneri, di 73 chimici, di fisici - e di università e scuole scientifiche modernamente attrezzate - l'Italia e il Sud han fin troppo più bisogno della Germania, e non da oggi soltanto. Tutto quel che ancora oggi noi possediamo in più larga misura è sintetizzato nella manodopera più numerosa e meno qualificata dell'Europa dei Sei. Tutto quel che abbiamo potuto e potremo prestare agli altri, tedeschi o no, sono milioni di braccia, miriametri di fasci muscolari, e nulla più. La nostra emigrazione è fatta di forze specializzate solo in misura minima. Gli esodi biblici hanno visto muoversi masse disparate, caotiche, non omogenee. Sempre. In Europa sono sparsi due milioni di italiani: 200 mila in Belgio e in Olanda, 800 mila in Francia, più di mezzo milione in Svizzera, 400 mila in Germania. Nel resto del mondo ve ne sono altri tre milioni. Il conto fa dieci milioni buoni di braccia. L'ottanta per cento sono meridionali. 2 L'emigrante meridionale è ancora un esule solitario della fame. Fugge dal Sud, pur sapendo che le condizioni giuridiche, economiche, sociali, della nostra emigrazione, sono spesso tutt'altro che incoraggianti. Interi villaggi della Puglia, della Lucania, della Calabria, delle isole, sono ormai deserti senza vita, squallide necropoli incartapecorite dalle piogge e dal sole, con campi senza reddito. Un malinconico destino ha spinto per anni gli ex contadini a fuggire. Cos'hanno lasciato dietro, oltre alle donne, ai vecchi, ai bambini? Terre argillose, che d'estate hanno il colore della savana, borghi che franano, redditi di fame, speranze inappagate, i desideri poveri degli uomini umili, e il rancore, mai sopito, verso chi li ha respinti, e costretti alla condizione di negri bianchi. Si rimproverano al meridionale la mancanza del senso dello Stato, il clientelismo come sistema di vita, lo scetticismo nei confronti delle istituzioni democratiche, altre cose del genere. Ma non sempre è stato tenuto presente che tali effetti si superano solo con quei «miglioramenti indiscutibili» che sono «l’attenzione ai problemi concreti» e soprattutto 74 «l'elaborazione di piattaforme programmatiche uguali in tutto il Paese e non sottoposte alle più svariate correzioni»65, a tutto vantaggio di una ripartizione territoriale rispetto all'altra. 3 Da sempre, le condizioni dell'emigrazione meridionale in qualsiasi Paese corrispondono al trinomio «SSS» col quale in Germania vengono definiti gli svevi: schaften-sparen-sterben, risparmiare-lavoraremorire. Per gli emigrati il risparmio costituisce una specie di incubo. Spesso si tratta del primo salario, al quale sacrificano tutto, anche il vitto. Si calcola che dal 1946 ad oggi le loro rimesse abbiano superato i diecimila miliardi. I tedeschi, spaventati, chiedono agli italiani di aprire le loro pagnotte: vogliono controllare se dentro c'è la carne. Lo fanno anche i francesi, i belgi, gli svizzeri. L'italiano tollera. e tira a campare 66. Il «Garstarbeiter» italiano, 1'«ospite lavoratore», secondo un'efemistica traduzione, è occupato nella metallurgia, nell'edilizia, nell'industria automobilistica, o in quella manifatturiera, nei trasporti, nelle miniere. Oppure è un imprenditore libero, gelataio, fruttivendolo, venditore ambulante, incantatore di serpenti, magliaro. Qualche tempo fa il Bild Zeitung pubblicò un'inchiesta che distruggeva, sulla base di rigorosi accertamenti operati attraverso interviste ai dirigenti dell'industria, una infinità di pregiudizi sugli emigrati italiani. Risultò falso che fossero pigri, disordinati, litigiosi, dediti al vino, pronti ad ammalarsi e facili al coltello. «La verità è - scriveva - che i lavoratori italiani sarebbero disposti a lavorare fino a dodici ore al giorno e anche più, e invece i nostri nicchiano per quaranta ore a settimana, e gli straordinari pagati con fior di quattrini. Senza gli immigrati, la nostra economia andrebbe a rotoli». 65 V. De Caprariis Le garanzie della libertà. Il Saggiatore, Milano 1966. Pagg. 52 e segg. 66 A. Bello Il «boom» dell'emigrazione. Tribuna 20 settembre 1963 75 Lo stesso discorso vale per gli altri Paesi europei che ospitano gli italiani. La nostra manodopera è acquistata dagli imprenditori europei a buon mercato. Ma è un fatto che oggi i movimenti migratori siano profondamente diversi da quelli di ieri: propongono un ripensamento sul nuovi valori che scaturiscono dai contatti con modelli di vita e di civiltà diverse; alimentano una osmosi conoscitiva che diversamente non potrebbe verificarsi; annullano, col tempo, pregiudizi e visioni parziali; infine, si risolvono in concreti benefici per le regioni invase e per quelle abbandonate. 4 Un discorso del genere, come è stato notato nel Primo Convegno Provinciale di Studi su «Il Meridione e l'Europa», organizzato a Lecce, era stato già fatto da Nitti, tra la diffidenza e l'incredulità generale, nel 1919. E in realtà, a parte le lacerazioni psicologiche dei primi tempi dell'esodo, a parte soprattutto certe espulsioni demografiche di massa operate dalla fine del secondo conflitto mondiale a tutto il 1960 dallo spettro della fame e della disoccupazione, oggi si può realmente parlare anche dell'emigrazione come industria, che produce un reddito fluttuante, comunque mai inferiore ai trecento miliardi annui di rimesse. Certo, gli effetti non sono sempre felici, se si pensa al depauperamento indiscriminato delle zone senza braccia, dove il flusso e l'organizzazione migratoria non sono regolati. Ma è altrettanto certo che la condizione etica dell'emigrato migliorerà sensibilmente se ai «garstarbeiter», si impartirà un'educazione politica e sociale che permetta un più rapido inserimento, anche spirituale, nel Paese ospitante. In questo senso, e alla luce di quell'ideale che non è più un'utopia, l'Europa unita, l'emigrazione può essere concepita non come un «salto nel buio», ma come un movimento interno, in cui l'uomo non deve assolutamente sentirsi un 76 derelitto, uno straniero, ma appunto un turista del lavoro, che si trasferisce nella stessa patria spirituale e politica67. Intendiamoci. Non si tratta di risolvere i problemi del Mezzogiorno facendo affidamento soltanto sui movimenti migratori interni ed internazionali. Si tratta di vedere nell'emigrazione, qual'essa si presenta allo stato attuale, cioè un esodo ormai controllato, una fase necessaria dell'assestamento dell'economia del Sud e, poi, della penisola. In questo senso l'emigrazione è respiro, dilazione dei tempi, ammorbidimento della pressione demografica. Tutte cose, queste, che permettono di organizzare strutture operative e funzionali per l'assorbimento delle nuove forze di lavoro, e l'assimilazione delle correnti migratorie di ritorno, se si avvierà un'accorta ed efficace politica di ristrutturazione agricola, industriale e terziaria nel Mezzogiorno. Altrimenti, se muteranno le condizioni di congiuntura europea, se cioè dovremo assistere ad una generale recessione nel vecchio continente, ci ritroveremo in casa uno stock di lavoratori qualificati all'estero abituati alla fabbrica e al salario, che non accetteranno semplicisticamente un ritorno alle origini, alla depressione, alla fame, alla sottoccupazione e al bracciantato generico. I centri europei e italiani non sono più quelli di una volta. Molte cose sono cambiate anche in Italia. Per passare dal Sud a Milano o a Torino non si deve più «varcare l'oceano». Grazie ai meridionali in giacchetta, città chiuse si sono rivitalizzate. Oggi Torino è una metropoli: in dieci anni è passata da 700 mila a un milione e 200 mila abitanti. Su centomila edili della provincia di Milano, i lombardi non sono più di trentamila. Qualcosa di nuovo occorre a questo punto creare nel Mezzogiorno. Col '65 i saldi migratori sono diventati passivi. L'emigrazione stagna, in parte per la saturazione dell'Italia del Nord e dei mercati europei di tradizionale assorbimento, in parte perchè nello stesso Mezzogiorno si sono create alcune favorevoli condizioni di lavoro. Il problema di 67 Intervento di E. Bonea al cit. Convegno su «Meridione ed Europa». 77 fondo, pertanto, è quello di accrescere le prospettive di impiego. Noi non saremo mai d'accordo con coloro che reclamano una politica di totale arresto dell'esodo rurale del Mezzogiorno. Quell'esodo, al contrario, va incoraggiato, e sostenuto con la creazione di moderne aziende extra-agricole, sicchè sarà possibile creare successivamente imprese agricole di appropriate dimensioni, ove si realizzi un'agricoltura industrializzata a tutti i livelli, dal produttivo al commerciale. 5 Piero Ottone, in una recente inchiesta sulla «Nuova frontiera dello sviluppo italiano» 68, riassume alcuni principi fondamentali per l'attuazione di una politica del genere. Tra questi: il rilancio nel Mezzogiorno di «industrie nuove, quali l'elettronica e l'aeronautica, invece di prolungare l'apparato produttivo del Nord con il pericolo di creare doppioni ; l'industrializzazione della "via delle arance" per reggere alla concorrenza dei Paesi mediterranei con forti produzioni ortofrutticole; l'inserimento dei coltivatori in un mercato unitario europeo». Niente di nuovo, in tutto questo, se non si trattasse di schemi di studio e di indagine svolti e proposti dalla Fiat, dall'Alfa, da Giacomo Costa, da Diego Guicciardi. Ottone prospetta non soltanto gli aspetti positivi di queste iniziative, ma anche le obiezioni e le diffidenze dei meridionalisti, i quali presentono il pericolo di un controllo pressocchè assoluto degli imprenditori del Nord, per esempio, sulle produzioni specializzate del Sud. E' un pericolo reale, non teorico. Ma è un fatto che ci siano in ballo grossi nomi dell'industria associata settentrionale, e che si vada riaprendo un altro capitolo sulla questione, in un momento in cui si profila la minaccia della difficoltà di investire nel Sud, «soprattutto per la carenza del risparmio»69. Si tratta, in altri termini, di trovare soluzioni originali per : l'industrializzazione, anche agricola, del Meridione, sic68 69 P. Ottone, in Corriere della sera 14, 16, 17, 19 giugno 1967. E. Corbino Un momento difficile per nuovi investimenti Ib. 17.6.1967. 78 chè non debba verificarsi un temporaneo «miracolo economico appannato», come dice Vera Lutz, che poi crolli in una defaillance tout court, e ci restituisca altri profughi del lavoro, in ritorni tumultuosi e incontrollabili. «Ora o mai più», dice Ottone a proposito dell'industrializzazione del Sud. Bene, il Mezzogiorno ha una popolazione più giovane di quella settentrionale. Su cento abitanti, il Sud ha trenta ragazzi, contro i ventuno del Centro-Nord. Ora, dunque, o mai più, forse, saranno create le premesse per la valorizzazione di queste future forze di lavoro, per le quali non dovranno ripetersi quelle condizioni che il ministro Pastore ha sintetizzato nel venir meno di «tutta una struttura di sostegno e di garanzia di cui i soggetti fruivano all'interno degli assetti istituzionali dei vecchi insediamenti», che hanno «messo l'individuo in una condizione di estrema solitudine psicologica nell'ambito di una nuova trama di rapporti e di reazioni» 70. Ora o mai più, per spezzare definitivamente quella realtà che Amendola71 indicava in centomila posti di lavoro contro due milioni di emigranti. 6 E' stato notato (dal prof. Saraceno, in «L'unificazione economica italiana»), che il processo di unificazione economica del nostro Paese potrà dirsi sicuramente avviato, allorchè il sistema produttivo italiano sarà stato posto in una condizione di mercato nella quale la componente più dinamica della domanda effettiva sia costituita non già dai consumi, ma dalla domanda di beni di investimento occorrenti per superare le de70 71 G. Pastore Le migrazioni interne. Discorsi pronunciati al centro di Formazione e Addestramento professionale per i Lavoratori Immigrati di Torino, 29 ottobre 1961, e al Convegno della Cisl, 12 novembre 1961. G. Amendola Il «vecchio» e il «nuovo Il nel Mezzogiorno. e nel Nord. Centro Studi di Politica Economica del Comitato Centrale del PCI Atti dei Convegni di Napoli e Milano, marzo-aprile 1967, pag. 43. 79 ficienze che la situazione del Sud tuttora presenta. Facciamo nostre queste parole. Non vogliamo parlare di una limitazione dei consumi attuali dell’Italia e del Sud, poichè da questo non potrebbe avere origine un altro tipo di domanda. Ma è evidente che solo con una robusta politica di piano è possibile sostituire l'effetto propulsivo oggi esercitato dalla domanda per consumi con un'altra che scaturisca da una più intensa formazione di capitali nelle zone arretrate. Questo devono tener presente innanzitutto coloro che, intervenendo nel Mezzogiorno per investire capitali, impiantare industrie, o «determinare lo sviluppo» per il freno dell'emigrazione, non intendano fare soltanto politica paternalistica. E in questo soprattutto il loro intervento si differenzierà concretamente dalle «invasioni», peraltro mai massicce, ma sempre opportunisticamente giovevoli per il Nord, del passato. Pastore ebbe ad affermare che «non è pensabile di annullare, sia pure in dieci anni, movimenti di popolazione all'interno di un Paese interessato, come il nostro, da una così profonda trasformazione delle proprie strutture». Ma, sulla scorta dei dati previsionali offerti dal Piano, indicava la possibilità di intervenire autorevolmente e fermare le fughe al Nord e all'estero con la creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro nei settori extra-agricoli, e una temporanea emigrazione di appena mezzo milione di unità al Centro e al Nord. Ora, secondo le rilevazioni dell'Istat, si va registrando una riduzione dell'occupazione. Pertanto, da una parte continua l'esodo dalle campagne, dall'altra l'emigrazione stagna; in prospettiva, non crescono i nuovi posti di lavoro nei settori extra-agricoli, cioè industriali, se non per l'intervento pubblico. Il settore terziario, dopo avere assorbito e «nascosto» un elevato numero di disoccupati negli anni cruciali della crisi produttiva, (più di quattrocentomila unità dall'ottobre 1963 all'ottobre 1965), tende anch'esso a riportarsi su livelli di occupazione più normali. 80 7 Ora si parla molto della ripresa delle industrie leggere. E' certamente un fatto positivo, ma soltanto se preliminare anche alla ripresa delle altre aziende, di quelle che occupano su vasta scala tecnici e specialisti, progettisti ed esperti di indagini dei mercati interni ed internazionali, studiosi e costruttori e brevettatori, che insieme formano l'aristocrazia del mondo del lavoro, e che possono essere presenti soltanto nei complessi di livello europeo, autonomi, nel Sud, ove, come ha recentemente ribadito Carli, troppe volte si creano industrie come controfigure delle consorelle del Nord, che in definitiva sono le uniche a decidere, e le sole a non rischiare la morte per asfissia. Scriveva Einaudi: «L'industriale oggi non può limitarsi a guardare quel che succede entro le mura dello stabilimento. Deve guardare oltre; ed essere, oltrechè il creatore della macchina produttrice, l'organizzatore della vita per i suoi collaboratori...». E aggiungeva: «Dobbiamo inquadrare la visione del nostro cammino in quella del cammino che percorrono tutte le società moderne (...) Sarebbe stolto non comprendere l'imponenza del fenomeno sociale al quale assistiamo e credere di averne ragione con la più furiosa resistenza». Commentando queste parole, Ottone afferma che soltanto una borghesia forte, sicura di sè, avrebbe potuto accogliere questi consigli72. Vi fu, invece, un irrigidimento. Era il '20, e le cose andarono come tutti sappiamo. Il problema dei rapporti con le masse fu rimandato. E ci regalammo la dittatura. Oggi, la borghesia economica è abbastanza forte per affrontare queste prove. Sull'altro fronte, sindacati sono deboli, politicizzati, non sempre seguiti dalle masse, e ben lontani dalla autentica forza contrattuale che hanno, ad esempio, i sindacati americani o quelli scandinavi. Ma si tratta di un'impasse dalla quale non è preclusa una ragionevole via d'uscita. 72 P. Ottone La ripresa economica deve stabilire nuovi e più armoniosi rapporti di classe Corriere della sera, 26 settembre 1966 81 Per di più, fra gli imprenditori giovani cominciano a diffondersi idee più chiare e moderne. Esiste, dunque, nella società italiana, una base, una formazione in nuce per nuovi rapporti di classe, cioè per una più autentica democrazia, per una responsabilità civile, economica, sociale, maggiore e più corroborante. Il problema sta nell'accelerarne il processo di maturazione. A cento e più anni di unificazione territoriale, vi è nell'aria qualcosa che pare tendere alla riunificazione umana. Forse, senza che ce ne accorgiamo immediatamente, stiamo per avviarci verso un clima che non è più quello della tollerante convivenza, ma della osmosi, della compenetrazione delle componenti razziali della penisola. Si guarda all'emigrazione dei meridionali, al banditismo sardo, alla povertà lucana, ai disastri geologici siciliani e calabresi, all'industrializzazione della Puglia, non più come a fatti di un altro pianeta, ma con la coscienza che si tratti di cose nazionali, italiane. Forse, perchè al di là dell'Italia c'è la prospettiva europea, e un certo pudore nostrano ci fa sentire il ritardo che portiamo nei confronti degli altri Paesi della Comunità. Forse ancora perchè una maturazione, lenta ma costante, c'è stata, e alla distanza se ne debbono pur raccogliere i frutti. Certo, anche la pressione comunitaria per il recupero delle aree depresse, e una più attenta politica interna, e una più costante e costruttiva critica, diremmo una più determinante sollecitazione delle forze parlamentari, hanno avuto il loro peso, almeno in questi ultimi anni. Ma indiscutibilmente, al di là delle proposizioni della classe politica che si è venuta esprimendo dal '46 ad oggi, anche al di là di certe impostazioni espresse dopo la «ricostruzione» 73, rimane viva ed operante l'esperienza meridionali sta, unica al mondo per condizione, intelligenza, complessità; diversa per le forze intellettuali che vi hanno partecipato; irripetibile per i drammi che l'hanno accesa, sostenuta, resa adulta. 73 Autori vari Problemi dell'Unità d'Italia. Atti del Secondo Convegno di Studi Grarnsciani. Editori Riuniti. 19-21 marzo 1960. 82 8 Nel suo ambito - almeno dal 1896 ai nostri giorni - l'emigrazione ha avuto una voce ben definita, e, in termini di analisi culturale, è stata quasi il philum conduttore che non si è mai estinto. Anzi, è stata proprio questa a tener vivo l'impegno, e ad acuire l’interesse politico alla questione, facendola riemergere più urgente che mai, in varie riprese, come aspetto fondamentale del più vasto problema del rinnovamento delle strutture della società meridionale e italiana. Ed è a questo dibattito che risale il merito, se non altro, delle proposizioni volte a far riconquistare al Mezzogiorno una concreta valenza economica nello sviluppo futuro dell'economia italiana ed europea, cioè la capacità, la possibilità di individuare una strategia di avanzamento tale da comportare un'efficace utilizzazione delle risorse meridionali per il riequilibrio territoriale. Ancora oggi, mentre si apre uno spiraglio di questa grande frontiera, c'è chi profetizza sventure. Sono lamenti goffi. In un immortale libro sulla democrazia, è stato scritto press'a poco: questa terra vi è stata data in mano per qualche ragione; cercate di far sì, che poi, nei fatti, non abbiano il sopravvento le altre ragioni per cui ve la siete presa. 83 GLI ANNI DELL'ULTIMATUM Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri contadini: anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non produce. Giovanni Giolitti Molti restano sospesi nel giudizio di quello che convenga meglio ... Silvio Spaventa Si considera il Mezzogiorno come una Vandea legittimista, come il baluardo delle istituzioni: e invece non è nè fedele, nè infedele, è indifferente. F. S. Nitti 85 Una delle maggiori difficoltà che incontra chi si interessa dei problemi delle infrastrutture meridionali e degli interventi speciali nel Mezzogiorno è quello di distinguere ciò che si deve alla Cassa da ciò che si deve alla riforma agraria e alla politica generale degli investimenti statali. E' una difficoltà che, obiettivamente, non siamo riusciti a superare. Nè crediamo che altri, prima di noi, siano venuti a capo di qualcosa di chiaro e concreto. La Cassa per il Mezzogiorno nacque in mezzo all'infuriare del problema agrario meridionale, quando la terra tremava per le sollevazioni dei contadini che se ne impossessavano con la forza. E fu inizialmente concepita come perfezionamento e coronamento della riforma. La logica che guidò i legislatori fu press'a poco questa: redistribuire le terre per far calare la febbre; dopo di che, impostare un piano di sviluppo per curare la malattia. Ma era sottinteso che questo sviluppo doveva avere per base l'agricoltura. 2 Quali siano stati i difetti della riforma agraria lo sanno tutti, compresi coloro che la fecero, e che li videro benissimo anche nel momento in cui la decisero. Pertanto, essa va collocata nelle prospettive di quella emergenza. Erano le giornate buie e tragiche di Fragalà, Crotone e Melissa, quando torme di braccianti affamati si contendevano a randellate le radici di liquerizia che la zappa disseppelliva. La fame di terra, questo dato permanente dell'economia meridionale, era giunta allo stato acuto nel momento in cui crollavano tutti i pilastri dell'ordine costituito. Non c'erano le prospettive del decongestionamento delle cam87 pagne. Il miracolo economico era di là da venire. I comunisti avevano impiantato una speculazione facile e micidiale su quella jacquerie, e prima o poi sarebbero riusciti a darle il suo Pugacev. I legislatori agirono anche sotto la pressione di queste forze scatenate. Occorreva far qualcosa, e alla svelta. Essi sapevano che il metodo era demagogico, perchè quella che si ripartiva non era ricchezza, ma miseria, la grande miseria di un ettaro di pietre e deserto. Non è possibile, dunque, che non abbiano misurato l'irrazionalità della sistemazione fondiaria che ne sarebbe derivata. E non potevano che fare una cosa: predisporre un piano di strade, acquedotti, bonifiche, irrigazioni, elettrificazioni, che dessero alle terre riformate e ai loro nuovi padroni una prospettiva, meno nebulosa e incerta possibile, di sviluppo economico. E fu questo appunto il compito affidato alla Cassa per il Mezzogiorno. Dieci anni dopo, 1960. Uno spettacolo fra i tanti, nel «nuovo Mezzogiorno»: paesi semivuoti, nelle cui strade ciondolano donne, vecchi, bambini, il prete e il carabiniere, il proprietario terriero e il suo fattore. Gli uomini non ci sono più, le braccia sono tutte emigrate, non raccolgono più olive a quattrocento lire al giorno, sono al Nord, o fuori, oltrefrontiera, e valgono ciascuna tre o quattromila lire per sette ore lavorative. Sui «minifundi» abbandonati pascolano le capre. «Come si chiama questo paesino? Non ha importanza. Battendo le strade del Mezzogiorno, se ne incontrano a dozzine, a centinaia. L'epicentro di questa frana demografica è, si capisce, la Calabria. Ma si ripercuote in Lucania e nelle zone più inospitali delle Puglie. Il fenomeno ha preso di contropiede i partiti, specialmente quello comunista, i cui pochi funzionari disposti a dire (qualche volta) la verità, riconoscono di esserne stati scavalcati. Ma ha preso di contropiede anche la Cassa per il Mezzogiorno, nata per parare il fenomeno opposto: il fuperaffollamento, l'alta pressione, la fame di terra»74. 74 I. Montanelli Buio alla Cassa per il Mezzogiorno Corriere della Sera 13 marzo 1963; Id. Un'isola separata dallo Stato è il Sud per la burocrazia Ib. 10 marzo; 88 3 A cose fatte, ora, è facile capire come sia stata provocata questa lavina. Il primo motivo, certamente, è stato determinato dallo affascinante richiamo della tuta blu delle fabbriche del Nord. Ma anche la Cassa ha dato una spinta decisiva, strappando gli uomini alla rassegnazione e abituandoli al guadagno. Citiamo un esempio. Nel '54 fu scelto, in provincia di Matera, Grassano, per un esperimento in alambicco. Per dodici mesi furono versati i salari ai disoccupati come se lavorassero a pieno impiego. In realtà, lavoravano soltanto - non tutti, e per poche settimane - alla costruzione di una strada, perchè per qualsiasi altra impresa mancavano attrezzi e materiali. Ma allo scadere del dodicesimo mese, i disoccupati si rifiutarono di diventar tali, e partirono in massa, alla ricerca di un salario vero. Con certe sue iniziative sostanziali, la Cassa ha moltiplicato all'infinito questi casi. Ha costruito dighe, bacini, acquedotti, porti; ma soprattutto, ha dato a volte alle popolazioni del Sud uno scossone i cui effetti per lungo tempo non si è stati in grado di controllare e frenare. Il Sud, per una lunga stagione, ha subito una vastissima frana demografica. Era una terra che si risvegliava come da un remoto letargo, da un sonno che aveva covato energie inaspettate. Quel Sud voleva muoversi. E si è spostato compattamente. Scriveva Montanelli: «C'è un comune che non ha più donne, perchè ne sono partite trecento per la Svizzera, a far le cameriere. Ce n'è un altro che è emigrato interamente nel Brasile, col sindaco e tutto». 4 La Cassa doveva trionfare su settecentomila ettari di terra. Oltre quattrocentomila dovevano essere bonificati entro il '60. A questa data, però, si era intervenuto soltanto su centomila ettari. Ma non è stata tutta Id. Un successo e un fallimento concludono il quindicennio della Cassa per il Mezzogiorno Ib. 15 marzo. 89 colpa della Cassa. Ci sono stati dei Consorzi di bonifica che non hanno saputo, o potuto, o voluto fare quel minimo cui eran tenuti per approfittare delle dighe, delle strade, dei canali, delle acque che la Cassa aveva portato fino alle loro soglie. Forse era da prevedersi. Il problema meridionale è anche qui, in questa mancanza di iniziativa dei meridionali. Col passar dei secoli ci si abitua alla depressione. Essa crea una mentalità con cui è d'obbligo fare i conti. Proprio per questo, quando nel '50 fu varata la Cassa, solo il piccolo gruppo dei tecnocrati riuniti nella Svimez intorno a Saraceno credeva ad una vera e propria industrializzazione del Mezzogiorno, e vi puntava tutte le sue carte. Tutti gli altri pensavano ad un «graduale sviluppo», fumoso e indistinto, e lo concepivano, secondo i vecchi principi conservatori, come una naturale espansione di iniziative private in un clima reso favorevole da certe previdenze, che in generale non avrebbero dovuto superare i limiti delle opere pubbliche alla maniera giolittiana, dell'alleggerimento fiscale, delle agevolazioni creditizie. Su questo erano tutti d'accordo. Gli industriali del Nord, che sentivano odor di commesse che avrebbero riconvogliato alle industrie settentrionali il denaro speso dalla Cassa; gli imprenditori borbonici del Sud, che vedevano aprirsi insperate prospettive di appalti e forniture di vario ordine, per i quali, comunque, nemmeno erano tecnicamente preparati. I meridionalisti più consapevoli, e questi soltanto, previdero che il collasso demografico avrebbe costretto un pò tutti a rivedere le cose. Quel che è successo è noto: lo spopolamento del Mezzogiorno, le nuove frontiere della Piccola Europa, la meridionalizzazione della popolazione italiana, la congestione, cioè, del Nord, hanno portato ai piani di industrializzazione accelerata del Sud. Cassa, industriali, governo, Stato, privati, hanno dovuto cambiar rotta. C'è stato un momento in cui la Cassa, che è lo strumento che più ha contribuito a trasformare dalle fondamenta le condizioni del Mezzogiorno, ha operato come se nessuna «rivoluzione» si fosse verificata, come se niente fosse cambiato, rischiando di disperdere i frutti del primo slancio, che poi è rimasto insuperato. Poi si è ripresa. Ma sub conditione. Ci spie90 ghiamo: la Cassa opera nel Sud, ed è fatale che un poco ne subisca il costume. Sebbene sia un ente autonomo, dipende da un ministro per il Mezzogiorno, che a sua volta dipende da un governo, espressione di un partito, o di una coalizione di partiti, i quali ultimi dipendono da certi interessi settoriali. Accade così, ad esempio, che Avellino abbia una sua zona industriale voluta da un gruppo politico: sarà, questa, l'area industriale destinata a registrare opere pubbliche che non incideranno realmente sullo sviluppo economico del territorio, di imprese difficilmente non deficitarie, di rapporti commerciali difficili, se non eternamente passivi. Accade anche che alcuni cospicui stanziamenti effettuati dal Comitato dei ministri per il Mezzogiorno in favore della regione siciliana siano spesi da Palermo più secondo una strategia politica che economica o di sviluppo, se è vero che Licata ha avuto l'acquedotto per intervento del Consiglio dei ministri, e se è vero che le atee occidentali dell'isola sono rimaste immobili nel loro bianco, allucinante sertao di argille levigate, con sparsi villaggi chiusi, senz'acque, senza scuole, senza ospedali, senza luce di notte. E senza uomini di giorno. 5 Questi esempi, tuttavia, poco tolgono al merito della Cassa. E' già tanto se essa ha saputo resistere e reagire alle richieste interessate degli ultimi notabili meridionali. Ha scritto Leo Solari che un tempo i baroni meridionali erano perpetuamente mobilitati per ottenere dal governo l'insediamento di una prefettura nel proprio paese. Oggi lo sono per ottenere la «zona di sviluppo industriale». Queste interferenze erano scontate in partenza, e c'erano fondati timori che mandassero tutto a carte quarantanove. In realtà hanno scombinato ben poco. Meno, comunque di quanto i pessimisti potevano pensare. Si può discutere all'infinito soltanto sul programma della Cassa nel primo quindicennio, e sui tempi e i metodi impostati con la legge di proroga. Si potrà anche discutere, con maggiore concretezza, sulla 91 lentezza degli interventi nella fase di preindustrializzazione, e sul prolungamento di questa nell'attuale ciclo di attività. Si possono avanzare riserve e appunti. Ma è innegabile che, con il decollo della Cassa, il «Mezzogiorno in frantumi» ha cominciato a contare i giorni dell'ultimatum al suo passato. Saranno i giorni più lunghi. Ma non più quelli di un'età che poteva offrire al primo Presidente del Consiglio venuto a visitare il Sud uno char-à-bancs trainato da una coppia di buoi sulle strade lucane che erano state progettate dai tecnici di Murat; o di un'età più recente, che copriva agli occhi del Duce le miserie del Sud sotto immense muraglie di coperte di seta. Ha scritto Rumor: «Fu proprio la spinta alla liberalizzazione che, superando il vecchio protezionismo, dette al Paese sempre più nitida coscienza del dualismo della struttura economica italiana, dell'esistenza cioè del grave problema della mancata unificazione economica del Paese, risalente nelle sue cause storiche alla diversa formazione della struttura sociale ed economica delle diverse regioni italiane, e al modo in cui si è formata la nostra unità politica»75. Questa liberalizzazione ha consentito la più clamorosa smentita delle teorie della statunitense Vera Lutz 76, la quale individuava, come soluzione ottimale, la formazione di una «migrazione assistita» dal Sud verso il Nord, tale da «permettere lo sfruttamento dei vantaggi che l'ubicazione dell'area settentrionale presenta e probabilmente continuerà a presentare in un futuro indefinito». Secondo la Lutz, la politica attuata con la Cassa, in quanto destinata a sviluppo industriale nelle regioni meridionali, avrebbe soltanto contribuito a «rendere l'Italia un Paese più povero del necessario». 75 M. Rumor La programmazione come metodo di libertà e di progresso, in La Democrazia Cristiana e il Piano. Ediz. Cinque Lune. Roma 1965, pag. 17. 76 V. Lutz Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno d'Italia. Mondo Economico 29 ottobre 1960, n. 44. Id. Il processo di sviluppo in un sistema economico dualistico. Moneta e Credito N. 44 1959, pagg. 459 e segg. 92 6 Lo stesso Einaudi affermò che se lo Stato italiano avesse adempiuto nel Mezzogiorno alla sua fondamentale funzione, che era quella di «creare le premesse di una vita civile», la questione meridionale sarebbe risolta non con un interevento immediato, fonte di sprechi e di disfunzioni, ma con un'azione che si protraesse nel «tempo lungo» necessario perchè lo Stato, promuovendo l'iniziativa privata ed opponendosi al predominio dei monopoli, potesse veramente garantire al Mezzogiorno «mete che oggi paiono fuori da ogni speranza». Occorreva in sostanza attendere che le opere infrastrutturali intraprese dessero i loro frutti, senza lanciarsi nella pericolosa avventura dell'industrializzazione, diretta a provocare risultati che l'autore considerava incerti e a sfondo soprattutto demogogico. L'interpretazione di Einaudi, appena un poco ammorbidita dalle successive elaborazioni e revisioni dello Schema Vanoni e dalla traduzione della legge 634 del 1957 in provvedimento a carattere operativo, era determinata soprattutto dalla scarsa efficacia della spesa pubblica addizionale sostenuta nel Sud; dall'inefficacia generale delle leggi speciali (Napoli, Calabria) ; dal tramonto della tesi che aveva visto nell'agricoltura la piattaforma di lancio di una grande economia meridionale. A tutto questo, crediamo che debba essere aggiunta la diffidenza che lo statista liberale usava nei riguardi di quegli economisti (RosensteinRodan. Nurske, Hirschman, Rostow, ecc.) che si erano occupati, in varie fasi, delle politiche di sviluppo a favore delle aree depresse, ai quali si ispirava constantemente l'azione intellettuale e pratica della Svimes, e che hanno influito profondamente sui principi e i metodi d'intervento dello Stato nelle aree meridionali. 7 E' a questo livello, riteniamo, che deve inserirsi la critica costruttiva dei meridionalisti. Questi economisti, per la prima volta, hanno 93 considerato le aree depresse europee come fatto, appunto, europeo. L'errore da evitare, e questo punto, sta proprio nel non far coincidere i termini della soluzione dello sviluppo delle aree italiane con quelli delle altre e del tutto diverse aree europee. In proporzioni minori, ciò si è verificato in Nigeria, ove peraltro le aree depresse non solo sono rimaste tali, ma accusano di giorno in giorno un distacco crescente dalle aree sviluppate. Se tale politica fosse adottata dall'Italia, noi consegneremmo all'Europa tre quinti di territorio «irlandese» o «nigeriano», contro due quinti di territorio «californiano». Da ciò, la necessità di interventi d'urto, contro le dispersioni e le strategie che in non pochi casi hanno caratterizzato, e continuano a caratterizzare, l'intervento pubblico e quello privato nel Mezzogiorno. Ha scritto Margherita Barnabei: «Il nocciolo della faccenda meridionale resta pur sempre quello istituzionale. Oggi più che mai, dopo aver fatto il primo bilancio dell'azione di questi anni, i meridionalisti devono guardare ai problemi di coordinamento amministrativo e di funzionalità degli Enti interessati, come alla premessa prima di una seria impostazione degli interventi dei prossimi anni. Il nodo della questione sta proprio in questo: se si vuole fare una politica di sviluppo, occorre darsi degli strumenti operativi idonei e moderni»77. Del resto, Vittore Fiore aveva lanciato uno dei primi sassi nello stagno della questione meridionale quando aveva affermato: «Discutere oggi del Mezzogiorno in termini di schemi, in termini di formule che possono essere applicate ad uno dei paesi sottosviluppati, vuol dire ignorare la tipicità storico-politica della questione meridionale. (...) Che cosa accade realmente nel Mezzogiorno? (...) Ci troviamo di fronte ad una realtà profondamente diversa, ed in continua trasformazione, che non è stata per nulla analizzata, e che deve invece costituire il punto di partenza serio e indispensabile per una analisi spregiudicata, che comporta dei rischi, comporta il rischio di subire quel pestaggio mora77 M. Barnabei Piano nazionale e azione meridionalista, in Aggiornamenti sulla questione meridionale. Ediz. Opere Nuove. Roma 1962, pagg. 90-91. 94 le al quale chi senza conformismi creda in una battaglia democratica, è tuttora sottoposto»78. 8 Un Paese indugia nel proprio processo di crescita fino a quando ha raggiunto un punto di maturità. Dopo di che, scatta e procede più rapidamente. Gli anglosassoni in questo caso dicono che l'economia ha raggiunto il take off. E' un'economia che si muove, che decolla, per la quale si predispongono un'industria sempre più aggiornata, un ceto imprenditoriale dinamico, l'istruzione tecnica su vasta scala, torcendo il collo al settore terziario, ove sia pletorico e parassitario. Così il reddito cresce più della popolazione, e si creano condizioni di benessere generale e settoriale. Ben poco di tutto questo si è verificato per il Mezzogiorno. Lo stesso Stato ha troppo spesso creduto opportuno applicare la politica del laisser faire, puntando sull'azione della Cassa, e contribuendo così, a tratti in misura notevole, ad allentare quella tensione che soltanto la presenza e l'opera di tutti gli organi istituzionali, dal maggiore al più piccolo e periferico, potevano render sempre viva ed operante. Si è' venuta così in un certo senso a ricreare la tendenza a considerare il Nord una locomotiva che ha a rimorchio un Sud incapace di svincolarsi dal suo passato, nonostante gli strumenti speciali predisposti. E' questa tendenza che occorre modificare79, per operare il miracolo della «organicità dell'agire, della validità delle metodologie adottate, dell'efficacia perseguita con coerenza» 80. In questo senso, ha scritto Petriccione 81, 78 V. Fiore Verso un nuovo meridionalismo, in Programmazione e Mezzogiorno, di Autori Vari, Quaderni di Mondo Operaio N. 2. Atti del Convegno di Napoli, 5-6 giugno 1965. 79 M. Barnabei Il Mezzogiorno e gli anni '70. Avanti! 21 giugno 1967. 80 M. D'Erme Pianificazione tecnica e Mezzogiorno d'Italia. Tecnica e Mezzogiorno N. 1, gennaio 1967. 95 occorre che la Cassa divenga non soltanto l'ente che finanzia e coordina i singoli intero venti, ma un centro capace di prospettare i problemi del Mezzogiorno in tutti i settori, e di puntualizzare le situazioni poco note che possono costituire delle remore allo sviluppo. Sarà necessario, per questo, l'autonomia della Cassa. E l'autonomia dipenderà quasi esclusivamente dall'impegno meridionalista dei suoi organi direttivi, dalla capacità di mobilitare le energie intellettuali ancora latenti e di avventarle nel Sud, a costituire nuclei strategici, gruppi in grado di proiettare in termini moderni i problemi vivi e veri del Mezzogiorno. E' da qui, da questo impegno, da questa linea, da questa tensione che è fisica e spirituale, che potrà cominciare il conto alla rovescia per i giorni decisivi dell'ultimatum al passato. 81 S. Petriccione Le prospettive dell'intervento straordinario, in Programmazione e Mezzogiorno, cit., pagg. 19 e segg. 96 UNA POLITICA MANCATA L'esperienza di ogni uomo ricomincia. Solo le istituzioni diventano più sagge. Amiel citato da Mannet All cases are unique and very similar to others. T.S. Eliot E' accaduto che le origini della prosperità di alcune regioni si sono volute vedere non dove erano, nelle dogane, nella finanza, nella politica, ma in una superiorità etnica che non è mai esistita. E ancora è accaduto che chi più ha dato, è parso anche uno sfruttatore. F. S. Nitti 97 In alcune sue preziosissime pagine, Rosario Romeo ha scritto che la morte precoce di Cavour giocò un ruolo fatale per l'avvenire del Mezzogiorno. La presenza di Garibaldi in queste terre, continua lo storico, suscitò reazioni inaspettate, mobilitò per la prima volta tutte le forze intellettuali dei meridionali, pur avviliti da decenni di politica oscurantista. Certamente, la enorme complessità dei problemi e dei rapporti di cui si intreccia la questione meridionale era anche allora troppo superiore alle possibilità di soluzione da parte di un singolo uomo di Stato, sia pure di eccezionale statura. Ma quella soluzione «pure trovava qualche legittimazione nelle celebri proposizioni pronunciate da Cavour sul letto di morte, dove, accanto a osservazioni che bene si legano con molte altre che ritroviamo nelle sue lettere di questi mesi a cavallo del 1860-61, ("Questi napoletani bisogna lavarli"), si ha l'affermazione decisa che il Mezzogiorno andava governato con la libertà, e educato alla libertà: e non già tenuto a freno con gli stati d'assedio, come appunto era avviato a fare il governo unitario ...»82. Accadde invece che, soffocati i molti contadini, fu bloccata la spirale di risorgimento sociale che stava per caratterizzare la rivoluzione meridionale, e, senza dubbio, la fase più moderna del risorgimento nazionale. Da qui, rapine, malcontenti, brigantaggi, e la successiva riconquista del Mezzogiorno con la spedizione armata di 120 mila uomini, la mezza guerra civile che costò più morti dellaguerra di liberazione dai borboni, e la lunga, dolorosa pacificazione del Sud83. 82 R. Romeo L'annessione del Mezzogiorno, in Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale. Torino, Einaudi 1963. Pagg. 236 e segg. 83 A. Omodeo L'Italia nell'età del Risorgimento. Ediz. Scientifiche Napoli 1955. 99 Cavour voleva avviare un'elevata politica di educazione civile, culturale, morale per 1'«area napoletana». Ma i «piemontesi» conoscevano ormai un solo Sud, non più quello potenzialmente ricco e dotato ma depresso per colpa dei Franceschielli, bensì l'altro, quello della delusione, il Sud reale degli inviati governativi, dal marchese di Villamarina («Ici il n'y a que làcheté»), al Casalis («In mezzo all'apatia generale credo che in niun paese (...) si giuochi l'intrigo con maggior finezza»), a Luigi Carlo Farini («Altro che Italia. Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile»)84. Da ciò, soprattutto, afferma Romeo, il persistente distacco tra la vita dell'Italia ufficiale e le esigenze del Mezzogiorno; da ciò il peso della questione meridionale non solo nella vita economica e sociale, ma anche politica dell'Italia unita, e «la gran parte che le istanze meridionaliste hanno avuto nella critica e nella opposizione democratica allo Stato liberale; cioè la gran parte che la battaglia meridionalista ha svolto e svolge nella più larga battaglia per una integrale realizzazione della democrazia in Italia». 2 In realtà, fino al 1945, poco o nulla era cambiato nel Mezzogiorno. C'era soltanto l'aggravante della guerra, che aveva causato la distruzione più terrificante mai conosciuta dai centri meridionali, e che nel settore delle scuole aveva raggiunto l'ottanta per cento, in quello delle comunicazioni ferroviarie il novanta per cento. Le scarse industrie preesistenti erano state cancellate. Scuole, comunicazioni, lavoro, erano i tre fattori di fondo su cui contava Cavour per educare alla libertà i «napoletani». La guerra aveva divorato quel poco che il fascismo aveva dato. Ma il Sud non aveva perduto gran che, se non sul piano materiale. L'analfabetismo, che prima del fascismo aveva toccato nelle aree meridionali punte del 75 per cento, dopo la dittatura, alla fine della guerra, 84 Si veda la recente edizione nazionale dell'Epistolario di Cavour. 100 si trovò quasi sugli stessi livelli. Il mito del libro e del moschetto si era tragicamente fermato sul secondo termine. Si trattò pertanto di ricostruire la scuola dapprima materialmente, poi moralmente, cominciando dalle basi, dal personale disperso e logorato nel corpo e nello spirito, sbandato ideologicamente, angustiato da difficoltà economiche con ripercussioni psicologiche sulle famiglie e sulla società; si proseguì col pubblico da interessare al libro, al nostro patrimonio artistico, alla nostra grande, e più autentica, tradizione culturale, e, prima ancora che al sapere, alla fiducia in se stessi, negli altri, nel Paese. Si trattava poi di «dare alla scuola italiana una fede, un ideale, di rinnovarla nella sua struttura, in modo che rispondesse adeguatamente alle nuove istanze»85. In effetti, come riconosce Ciasca, si cominciò con un discutibile empirismo. E' ben vero che si era in uno stato di totale necessità. E' altrettanto vero che, di giorno in giorno, negli anni successivi, spuntò in tutta la penisola una selva di nuove scuole. Ma è un fatto che accanto alle scuole elementari e medie, o subito dopo questo tipo di scuole, sorsero altre a prevalente indirizzo umanistico, mentre gli istituti scientifici, tecnici, professionali, anche perché il «Piano Gonella» rimase sempre sulla carta, tardarono tanto a venire, che negli anni della «calata» delle prime, timide imprese industriali nel Mezzogiorno, ci si trovò di fronte ad una totale mancanza di operai, di tecnici, di specialisti e di contabili aggiornati. 3 Nei nostri incontri con alcuni esponenti industriali del Nord, dell'Iri, della Montecatini, della Fiat, abbiamo avuto modo di appurare 85 R. Ciasca Scuola e cultura, pagg. 117-230 in Aspetti di vita italiana contemporanea, coautori G. Maranini, P. Gentile, R. Tremelloni e R. Mosca, Cappelli Bologna 1957. A cura del Servizio dell'Informazione e del Centro dì Documentazione della Presidenza dei Ministri. Si veda anche: Ministero della Pubblica Istruzione: La ricostruzione della scuola, a cura del Centro Didattico Nazionale, Roma 1950. 101 che su cento uomini presentatisi per essere qualificati dalle «scuole di preparazione» che gli industriali impiantano insieme con le loro aziende nel Mezzogiorno, spesso si «recuperano soltanto venti-venticinque unità». Gli altri sono respinti perchè totalmente impreparati, analfabeti, inadatti alle produzioni a catena, psicologicamente e spiritualmente lontani dalla mentalità aziendale, che è nello stesso tempo razionale e dinamica. La Montecatini di Brindisi, ad esempio, ha «studiato» ottanta mila unità, prima di poter selezionare quelle poche migliaia di elementi che ha poi immesso nelle scuole di qualificazione. Era gente venuta dalla Lucania, dalla Calabria, dall'Irpinia, dal Gargano, fin dalle zone più impervie e arretrate. Uomini la cui vita si era fermata in un tempo lontano, gente rimasta fuori da ogni moderna dimensione, che firmava con la croce e cercava il posto del guardiano o dell'uomo di fatica, del facchino, del pulitore di pavimenti. Ci dicevano allo Iri che spesso il meridionale manca di ambizione, e se una preoccupazione costante ha, è quella di non perdere posto e salario. Le cifre erano incontrovertibili. Ma nessuno, risalendo alle cause, ha individuato nella «mancanza di ambizioni» (peraltro, è una osservazione inesatta) un complesso antico, che è quello del basso livello di cultura delle masse operaie meridionali. Ciò è stato messo in evidenza soltanto da poco, nei congressi che socialisti, democristiani, comunisti, e via via gli altri partiti, hanno tenuto in varie riprese nel Sud. 4 Quella della scuola, dall'Unità, è stata per molto tempo una cattiva politica per il Mezzogiorno. Nessuno raccolse la «proposizione» fondamentale di Cavour. Educare alla libertà significava penetrare le coscienze con una scuola diuturna, scuola di democrazia, di libertà, di responsabilità. Questa rivoluzione mancò. Affermava Gioberti: «Dico che il negozio di maggior rilievo che gli Italiani si possano oggi proporre si è quello di migliorar gl'individui, accrescendo il valore e le 102 forze personali dell'uomo e cercando di ritrarlo dalla sua nativa grandezza ( ...) L'uomo, di cui parlo, essendo morale e civile, consta d'ingegno e d'animo (...), e la trasformazione non è impossibile, poichè la nostra natura non è "mutata. Che cosa dunque ci manca? Ci manca l'arte, cioè l'educazione...» 86. Questa mancanza di educazione, cioè di maturità civile, era ben nota anche ai borboni, ai quali il Galanti dal 1792 in poi aveva inviato quella «Relazione sull'Italia meridionale»87, esemplare per obiettività, realistica fino ad essere spietata, che si sarebbe potuta ripetere senza mutar virgola venti o trent'anni fa. Lo stesso curatore di una sua recente edizione doveva riprendere più tardi il discorso 88, e affermare: «Compito della classe dirigente e dei partiti che ne sono espressione è non soltanto di promuovere quelle riforme che oggi sono le più necessarie (...) ma quanto avviare (il Paese) ad una elevata educazione politica e morale, tali da rendere quelle riforme efficienti e vivificatrici» 89 5 a scritto Ettore Massacesi 90 che gli imprenditori non si improvvisano da un giorno all'altro, nè si improvvisano gli imprenditori dell'in86 V. Gioberti Pagine religiose e nazionali, vol. II, Cap. XXII, pag. 12 Carabba Lanciano 1934. 87 Con un pò di fortuna oggi è possibile trovarla nell'edizione della Universale Economica, a cura di T. Fiore. 88 V. Fiore Cultura e pianificazione, in Programmazione e Mezzogiorno, cito pag. 60. 89 Su queste linee si sviluppa il pensiero della Barnabei, in Politica e cultura del Mezzogiorno, negli Aggiornamenti ecc., cito Anche Grarnsci Alcuni temi della questione meridionale, in La questione meridionale Editori Riuniti, Roma 1966, pagg. 131-160, aveva già impostato i termini 'del problema. Trent'anni dopo, Scardaccione, al XXII Congresso delle Bonifiche di Bari, doveva affermare: «Noi abbiamo ancora i nostri contadini con la terza elementare, che spesso, per effetto dell'analfabetismo di ritorno, si e no. sanno. leggere: . con loro dobbiamo operare; dobbiamo fare la guerra con: soldati che abbiamo», In Bonifica, Mezzoçiorno ed Europa, cit. pag. 215. 90 E. Massacesi Promuovere lo sviluppo della classe imprenditoriale La Discussione, 1 luglio 1967. 103 dustria meccanica ed elettronica, tipiche industrie manifatturiere dei nostri giorni. L'ambiente, ha detto ancora, in questo come in tanti altri fenomeni, è costituito dalle «tradizioni culturali e tecniche, ma anche dall'humus di iniziative economiche già operanti, dentro o attorno alle quali si esercitano o possono esercitarsi le doti latenti o in formazione», Imprenditorialità, dunque, vuol dire innanzi tutto disponibilità alle scelte, capacità di analisi, di sintesi e di decisione: sono disponibilità e capacità che non possono testimoniarsi in astratto, ma devono quotidianamente confrontarsi coi fatti, finchè non giungono ad una soglia, oltre la quale l'imprenditorialità assume livelli di autonomia o di capacità dirigenziali in grado di dar vita a nuove iniziative economiche. Per sollecitare queste nuove disponibilità, per moltiplicarle, occorre che tutta la società si atteggi in modo opportuno: dalla scuola alla azienda; dall'università alla cittadella nucleare. Si dice che la scuola - soprattutto quella meridionale - ci deve dar tecnici. E' vero. Ma non è tutta la verità. Deve darci anche tecnici diversi. Cioè non chiusi nelle loro settorialità tecnicistiche, ma aperti alla visione d'insieme e globale dell'azienda come fatto tecnico, economico e umano; aperti alla visione dell'azienda integrata in un mondo esterno, altamente dinamico, che la condiziona e la stimola. Quando si impiantano nuove università nel Mezzogiorno di questo si deve tener conto: occorrono tecnici - e non solo tecnici formati ed informati anche sulla natura in rapida evoluzione delle dottrine e delle tecniche organizzative aziendali. Non si dà mai sufficiente importanza ai problemi dell'organizzazione, ma ci si lascia più facilmente attrarre dalla spettacolarità degli impianti e dei procedimenti produttivi. Non si tiene in conto che nuovi impianti sottintendono sempre nuove tecniche organizzative, e che poi queste possono «riabilitare» situazioni impiantistiche non immediatamente e altamente efficienti. Questo è stato il segreto del progresso del Settentrione. Il Sud accusa ritardi gravi. E' indispensabile allora che scuola e università aiutino questo processo di formazione. Anzi, che gli diano un principio. Non è che la scuola possa 104 risolvere tutto da sola, in un batter d'occhio. L'industria, cioè l'azienda, o l'impegno congiunto di più aziende, dovranno colmare i vuoti che si scopriranno ad ogni nuova situazione, assicurando l'aderenza degli uomini alle mutevoli condizioni dei tempi. 6 Una ricchissima pubblicistica ha messo in evidenza la nonconformità della scuola italiana a queste moderne esigenze. Noi, tra l'altro, parliamo timidamente di certe riforme che nei paesi scandinavi sono operanti da decenni, con ottimi risultati. In Italia, talora nel Mezzogiorno, ma qui più raramente, c'è qualche iniziativa sparsa. Ma un episodio, un seminario di studi, anche se brillanti, non fanno primavera. Lo studio sistematico delle possibilità di aggredire il problema della imprenditorialità dal lato della formazione scolastica è ancora in gran parte da fare. Non è detto che si debbano riprendere pedissequamente modelli ed esperienze correnti in altri Paesi che ci hanno preceduti nel cammino della costruzione di una società industriale. Ma iniziative come quella delle Business School americane meriterebbero, con gli opportuni adattamenti, una certa diffusione. 7 Ettore Ciccotti, nome caro ai socialisti, parlando a Brindisi l'11 novembre 1900 sul tema «Il movimento socialista e il Mezzogiorno», tra l'altro ebbe a dire: «Da noi (. ..) manca spesso una chiara coscienza politica, cioè una franca visione dei grandi interessi collettivi ed una inclinazione negli individui a migliorare la propria condizione mediante un determinato indirizzo dato al governo degli interessi collettivi». La tristezza, ha scritto Orlando, è che dopo tanti anni questo discorso possa essere ripetuto senza cambiare virgola, ad un Mezzogiorno rimasto politicamente quello che era, con i suoi nuclei intellettuali vivaci, 105 con i suoi quadri medi trasformisti, con le sue masse «trasformizzabili». Capacità di fare, creatività, volontà del fare: queste tappe intellettuali e pratiche potrebbero trasformare il volto del Sud, ove la scuola aggredisse le forze vive e disponibili nel Mezzogiorno. E' da questo stadio che ci si deve muovere per costruire condizioni, creare fattori, sfornare idee, che vincano poi, sulla scorta delle storie degli altri, il nostro inguaribile immobilismo, la nostra remota povertà, il pessimismo storico che ha caratterizzato la nostra condizione umana. 106 PARTITI E MEZZOGIORNO Questo nuovo progresso ha illimitate possibilità di bene e di male. Norber Wiener Nella maggior parte d'Europa il commercio e l'industria manifatturiera delle città, invece di essere l'effetto, sono state la causa del miglioramento e della coltivazione delle campagne. Adam Smith Molti miti sconsacrati; molte illusioni perdute ... Giovanni Spadolini 107 Nel 1905, con la «Fermo Proposito», Pio X apriva ai cattolici l'adito alla vita politica. «L'odierno ordinamento degli Stati - osservava il pontefice - offre indistintamente a tutti la facoltà di influire sulla cosa pubblica». Pertanto i cattolici, «salvo gli obblighi imposti dalla legge di Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene, per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al benessere materiale e civile del popolo, ed acquistarvi così quell'autorità, quel rispetto, che rendono loro possibile anche il difendere e promuovere i beni più alti, che sono quelli dell'anima». L'enciclica segnava il confine tra due epoche. Tutta la politica del «non expedit» andava a pezzi 91. Ai propositi agnostici di Don Margotti («Nè eletti - nè elettori»), seguiva un nuovo programma, «che si fonde e diffonde in nove encicliche fra il 1879 e il 1901 per una costruzione della società cristiana, che sotto l'egida di quattro pontefici si erge tra due secoli in cui matura la dottrina ed il sistema del reggimento popolare, e ne presenta al mondo l'interpretazione e l'ordinamento cattolico» 92. Le nove encicliche volevano creare la scuola e la prassi della sociologia cattolica. Esse trattavano del principato civile, dell'ordinamento della società, della costituzione cristiana degli Stati, delle libertà umane, dei rapporti tra Chiesa e Stato, delle forme di governo, del socialismo e del materialismo, della condizione degli operai, della questione sociale. L'ultima, la «Graves de communi re», celebre per il suo 91 92 G. Volpe L'Italia in cammino Treves, Milano 1927. Pagg. 246 e segg. G. Dalla Torre I cattolici e la vita pubblica italiana (1866-1920).Ediz. Civitas Gentium. Città del Vaticano 1944. Pagg. 21-22. 109 principio di fondo, («Andiamo al popolo»), trattava della democrazia cristiana. Nessuna, comunque, affrontava il problema delle regioni arretrate, forse perchè i cattolici italiani, a differenza dei francesi, «giunsero ultimi ( ...) nello studio del problema sociale»93; forse anche perchè l'intelaiatura del programma politico e di politica economica redatto dai cattolici era zeppo di spunti teorici e astratti, tanto che, sul piano delle prime esperienze concrete, esso prospettava appena una «risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno», confusa con la risoluzione di altri problemi, tra cui quelli «delle terre riconquistate e delle province redente» 94 . In altri termini, se l'ingresso dei cattolici nella vita politica italiana segnò una svolta decisiva della nostra storia nazionale, per quel che riguarda la questione meridionale mancò, almeno inizialmente, quella vigorosa spinta, e mancò quella forza di rottura, che avrebbero dovuto caratterizzare il Partito Popolare, e differenziarlo dal «moderatismo» della Destra e dalla «politica del pantano» della Sinistra 95. 2 Con Sturzo, per la prima volta, si prendeva coscienza di ciò, e i cattolici si convinsero che il problema politico del Mezzogiorno era, nelle sue radici interne, anche un pantano etico: «Sta al Mezzogiorno - cioè a tutte le forze politiche meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa della nostra terra e della nostra terra, tutti nell'interno dei propri partiti - perchè la questione meridionale venga conosciuta, sentita, valutata, e perchè si superino i vecchi e nuovi ostacoli a risolverla. 93 94 95 A. C. Jemolo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni. Einaudi 1949 pag. 437. Appello e programma della Commissione Provvisoria del Partito Popolare Italiano. Paragrafo V. 18 gennaio 1919. N. Valeri Destra e Sinistra, in La lotta politica in Italia dall'Unità al 1925 - Idee e documenti. Le Monnier 1966. Pagg. 119-120. Ma anche: A. Labriola Storia dei Dieci anni (1899-1909), Milano 1910, Cap. IV; e C. Morandi Partiti politici nella storia d'Italia, Le Monnier 1945. 110 « La redenzione comincia da noi. Questo è canone fondamentale che noi popolari del Mezzogiorno proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che deve conquisterci il dovuto posto nella vita italiana: la redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! ... « Questa visione non deve essere monopolio di partito, ma coscienza politica della nostra gente ...»96. 3 In realtà, allora come in tempi più recenti, e per molti gruppi politici, si trattò di varia e appassionata pubblicistica, destinata a restare fine a se stessa sul piano dell'azione pratica. Erano lette, queste frasi, nei giorni in cui il problema meridionale era affrontato dai pionieri, dai grandi spiriti intellettuali che quasi riassumono e sintetizzano l'era romantica del meridionalismo. Giustino Fortunato, che dedicò la vita alla questione meridionale, (e nel cui nome perciò essa sembra tuttora impersonarsi), fu il primo a dimostrare che il Sud, salvo le fiorenti riviere di Napoli, Palermo e Catania, era una terra arida, ingrata, infeconda, e «per lunghe prode» malarica. Questa povertà naturale era, a suo giudizio, l'origine prima di tutti i mali del Mezzogiorno. Anche il brigantaggio (come documentò l'inchiesta Massari) era una forma di «protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie», congiunta con «l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi della giustizia». Ma in concreto, sul terreno politico, che fare? Le indagini degli studiosi, (inchieste di Jacini, Franchetti, Sonnino, Fortunato, Villari), aprirono la via a molteplici proposte: diminuzione della pressione tribu96 Dal discorso Il Mezzogiorno e la politica italiana, tenuto a Napoli il 18 gennaio 1923, edito nel Commento, Roma 1923, e ristampato nel vol. I discorsi politici, Roma 1951, a cura dell'Istituto L. Sturzo, pag. 261. 111 taria allo scopo di favorire la formazione di capitali da impiegare; e quindi bonifiche, acquedotti, rimboschimenti e sistemazione degli alti bacini fluviali, applicazione di metodi moderni alla agricoltura e lotta contro il latifondo, protezione dei contadini e della piccola proprietà fondiaria, ovvero creazione della condizione necessaria alla loro libera lotta; favore alle industrie locali e domestiche, travolte dalla prepotente concorrenza del Nord; invio di impiegati scelti del Nord, non compromessi dalle camarille paesane, e rigore della magistratura; impulso all'emigrazione, fondazione di scuole tecniche ed agrarie; decentramento amministrativo. Nitti insisteva particolarmente sulla necessità di combattere la sperequazione tributaria. Salvemini vedeva la fonte prima dei mali nell'intervento delle classi dominanti del Nord a difesa della piccola borghesia «delinquente e putrefatta» che spadroneggiava nel Mezzogiorno. Gramsci tentava di opporre alla santa alleanza dei padroni la solidarietà degli operai settentrionali con i contadini meridionali. Dorso, riecheggiando Gobetti, parlava di «pregiudizi inveterati, residui psicologici, inversioni dialettiche», derivanti dall'azione politica del liberalismo meridionale, che avevano «vietata l'esatta visione delle cose»; condannava - come Ciccotti - il trasformismo, definiva le «leggi speciali» un «sussidio caritativo» destinato ad impoverire sempre più il Mezzogiorno di fronte al «protezionismo industriale e al socialismo di Stato » del Nord. De Viti De Marco svelava tutto il danno derivante dal protezionismo doganale. L'«appello» sturziano, dunque, si inseriva in tutto un filone storico, letterario e documentaristico che, almeno sul piano delle intenzioni, come insegnamento storico, appunto, è rimasto forse insuperato, mentre sul terreno della risoluzione della questione non riuscì che ad imporre relativamente il problema come fatto nazionale 97. A questo, più di tutti, tendeva Fortunato. E a questo, con cuore di meridionale e mente di cittadino del mondo, tenderà poco dopo Croce, con le sue appassionate «parole ai savi» con cui chiude quella Sto97 G. Fortunato Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari 1911,voll. 2. 112 ria del Regno di Napoli che resta uno dei monumenti etico-storici più gravi, composti e perfetti, del meridionalismo intellettuale. 4 I cattolici, dunque, con Sturzo prima, con Murri successivamente, entravano nel vasto giro di interessi meridionalistici in cui erano accampate figure primarie di liberali, socialisti, repubblicani, conservatori e progressisti, trasformisti e legalisti, ai quali si ispirano in linea di massima gli attuali partiti politici italiani. Con la differenza di fondo che oggi i discorsi sul meridionalismo sembrano fatti, proprio per la natura e la struttura ideologica e organizzativo-strategica dei partiti, a compartimenti stagni, che quasi mai comunicano tra loro, o trovano i punti d'incontro che certamente ci sono e andrebbero confrontati. Mentre allora, pur nella disparità di vedute, anche se in non pochi casi la politica meridionalistica si identificò nella critica di meridionalisti ad altri meridionalisti, tuttavia il discorso fu più largo e aperto, e seppe spesso conciliare posizioni e avvicinare prospettive e costruire premesse teoriche comuni. Oggi, tranne rarissime eccezioni, manca quel dialogo che caratterizzò l'impegno intellettuale d'un Gobetti, d'un Gramsci, d'un Sturzo, d'un Salvemini, quella corrispondenza d'interessi, cioè, che non fu un muro insormontabile tra socialisti moderati e riformisti, materialisti, popolari, liberali. E' ben vero che, dalla fine della guerra, sono profondamente mutate le condizioni storiche del Paese, degli uomini, dei partiti. Ma è un fatto che sopravvivono non pochi problemi d'un tempo, e la questione meridionale d'oggi ha ancora in comune parecchi aspetti di quella d'allora. E' mutato il livello delle «due Italie» ma il fossato, resiste. Non c'è più la Magna Sila leggendaria dell'abate Gioachino, dalle sterminate pinete vergini, ove trovavano rifugio i banditacci dal cappello a pan di zucchero, come non si può più dire della Lucania tutto quel che raccontò Zanardelli. Non è più tutto questo. Ma in certe a113 ree calabresi e lucane nel cuore della Sicilia, all'interno della Sardegna, e dall’Irpinia a nord, verso le terrazze abruzzesi e molisane, a tratti riecheggiano la solitudine, la miseria, l'abbandono di allora, raramente interrotti dallo scivolare dei nastri d'asfalto e dal ruggire dei camions. Ma per questo, oggi, il problema politico e i problemi dei politici per Il Mezzogiorno non sono affatto da considerarsi esauriti. Si propongono, anzi, con istanze più pressanti, perchè più chiare nella coscienza dei meridionali. Agli anni dell'«insegnamento» son succeduti quelli dell'azione. Ma l'azione ha rischiato, e rischia tuttora, di essere travolta dal meridionalismo letterario, parolaio, di maniera, contraddittorio «nella pratica», come diceva Vico, come ha riaffermato Croce, come pochi sanno saggiamente ricordare, strategico e dunque falsato dai partiti che lo strumentalizzano. Mentre per azione politica nella risoluzione della questione meridionale si deve intendere il processo rivoluzionario delle strutture fisiche morali sociali, umane, del Sud. E questo soltanto. 5 «Grande è il merito del Pci per essere riuscito, sulla base delle indicazioni di Antonio Gramsci, a far diventare la questione meridionale, per la prima volta nella storia d'Italia, non solo questione nazionale, ma anche tema di lotta e di avanzata democratica delle masse popolari del Mezzogiorno e di tutto il Paese. Le conquiste di questa battaglia sono acquisite per la rinascita del Mezzogiorno: il colpo inferto alla grande proprietà terriera, l'istituzione delle regioni a statuto speciale in Sicilia e in Sardegna, i successi nel campo dell' industrializzazione, ma soprattutto la conquista, attraverso l'azione unitaria del Movimento per la rinascita, di larghissime masse popolari, agli ideali dell'emancipazione, della democrazia e del socialismo. Tutto questo 114 costituisce uno storico successo della classe operaia e del popolo italiano»98 . Fin qui, i comunisti. La storia del Mezzogiorno nel primo dopoguerra è stata tutta percorsa dal dinamismo che ha animato le campagne locali. Questo dinamismo è stato riportato dai comunisti ad un univoco «movimento contadino». La «ideologia contadina», infatti, ha avuto una parte preponderante nel pensiero meridionalistico, e tuttora informa l'azione di alcune delle più importanti istituzioni nell'ambito degli interventi di sviluppo del Mezzogiorno. A questo scopo, non è inopportuno dare un quadro generale delle condizioni complessive in cui il mondo contadino meridionale si è sviluppato, e dei caratteri di questo mondo. La componente primaria tradizionale della mentalità rurale è quella cui comunemente si dà la qualifica di individualismo e monadismo contadino 99. Nel Sud, tale fenomeno si è diffuso per condizioni ambientali determinanti e imprescindibili: sul fondo di una sensibile nondisposizione alle forme associative, infatti, hanno poggiato forme disgregatrici diverse, che vanno dalla scarsità di terra in rapporto alla pressione demografica, alle condizioni geopedologiche dei terreni, dall'arretratezza e dalla inadeguatezza dei capitali finanziari e tecnici all' assoluta carenza dei fattori promotori del processo di rinnovamento educativo e culturale, dal verticalismo delle classi sociali all'isolamento dai grandi avvenimenti nazionali della massima parte delle comunità meridionali. La stessa coesione delle comunità paesane nel Mezzogiorno è stata per secoli compromessa dal sostrato psicologico, morale e culturale, del tipo di unioni vigente. Gran parte degli squilibri oggi riscontrabili nella Vita associativa del Mezzogiorno sono l'effetto di lunghi secoli di rigidità delle classi sociali schematicamente chiuse in se stesse. La 98 99 Il Pci e la battaglia meridionalista. Documento per la discussione al X Congresso. Seti 1962. Pagg. 19 e segg. Bamabei Moti contadini e comunismo, in Aggiornamenti ecc. cit., pag. 13. 115 sensazione che si riporta dall'osservazione della società meridionale è che la vita vi si sia cristallizzata in forme che ancora oggi stentano di trovare una vasta fluidità . Priva di sfoghi esteriori, la massima parte delle comunità meridionali ha imposto la propria autorità ai suoi componenti secondo modelli di cultura e di relazioni civili, che hanno isterilito con la meccanica dei loro controlli qualsiasi processo di osmosi interna. 6 Trasposte sul piano della vita pubblica, queste osservazioni vengono confermate dal fatto che l'unità medesima, (di interessi, di cultura, di abitudini), delle comunità contadine meridionali non è mai riuscita a superare quello stadio di rassegnato pessimismo che si concreta nella negazione della funzione rappresentativa delle istituzioni pubbliche. L'atto di sfiducia nello Stato e nella storia ha gravato quasi come una sorta di fatalità sul mondo contadino. Per secoli le comunità meridionali non sono riuscite ad immettere nelle loro fondamenta il cemento dell'unità e della politicità dell'azione comune: relegate alla loro funzione di entità autonome e qua si autosufficienti, esse hanno mantenuto poteri e caratteri assolutamente locali. La contraddizione più clamorosa rilevabile nella storia della società rurale del Mezzogiorno sta appunto nel contrasto tra il fermento della vita individuale e l'inconsistenza delle forme sociali. Nei confronti di questa stratificazione di culture e comportamenti sociali tradizionali, il primissimo dopoguerra ha segnato un potente elemento di rottura. La cronaca di quegli anni, infatti, registrò un notevole aumento di attività politica sulle piazze locali, e vide l'acquisizione, da parte dei contadini più evoluti, di dati di coscienza modernamente validi e fecondi. In quel tempo, le ribellioni dei singoli sembrarono essere mosse da un'unità e chiarezza di intenti, che, propagandosi su larga scala, (dando luogo, cioè, ad una vera e 116 propria cultura politica), avrebbero potuto costituire col tempo la piattaforma di un serio «movimento contadino». In altri termini, la rivalutazione - da parte contadina – della statura politica dell'uomo, e, quindi, dell'azione comune sul mondo esterno, doveva essere considerata (secondo certe dinamiche che gli anni tra il 1945 e il 1950 andavano ponendo in luce) un evento di fondamentale portata storica, in quanto sembrava determinata dalla riconciliazione del contadino con il quadro istituzionale in cui era costretto ad agire, e la cui trasformazione pareva porglisi finalmente come un problema solubile mediante i mezzi a disposizione, ed anzi proprio mediante quell'azione di tutta la comunità che fino a quel momento gli era apparsa soprattutto come un limite imposto alla propria libertà individuale. 7 E' ben noto l'indirizzo che questa dinamica ha assunto al suo primo sorgere: nata come fenomeno autonomo, operò come tale solo per il breve éspace d'un matin. Monopolizzata più tardi dai comunisti, non divenne mai veramente comunista: a posteriori, sembra addirittura possibile asserire che non fu mai, neppure sul piano del suo contenuto effettivo - di fenomeno sociale, che esprime determinate forze o classi qualcosa di unitario, o comunque di univocamente indirizzato. Sotto l'azione del Pci, le categorie contadine assunsero una formale unità politica, che era però destinata a venir meno una volta che il processo storico avesse riproposto come fatto dialettico e contrapposizione di termini gli interessi delle forze in gioco. Per valutare in pieno gli elementi che intervenivano nel rapporto tra il movimento contadino e i comunisti, occorre anzitutto valutare le motivazioni più profonde dell'adesione dei contadini meridionali alla politica dell'estrema sinistra. Il favore incontrato nel Mezzogiorno dal comunismo, tra il 1944 e il 1948, si può giudicare, in buona parte; co117 me reazione al fascismo, e come atteggiamento di ansiosa attesa, nei confronti di una forza di cui non si conosceva ancora bene il valore, ma che per lo meno aveva il pregio della novità. Peraltro, in questo quadro, il carattere rivoluzionario del comunismo si accordava da vicino con quella che era, ed è, la vocazione più intima delle plebi rurali del Sud, ansiose di trovare d'un tratto giustizia, attraverso un gesto di rivolta perentorio e definitivo, capace di modificare da un momento all'altro condizioni tradizionalmente inique, (su questo, tra l'altro, poggiarono la fortuna e il mito di Garibaldi). L'apparizione del comunismo nelle campagne meridionali tra il '43 e il '45, trovò, pertanto, popolazioni in attesa - sebbene ideologicamente scettiche - e disposte ad imbarcarsi in qualsiasi avventura, per disperata che fosse. 8 Un altro elemento che giocò a favore dei comunisti fu certamente il fatto che la «marcia a sinistra» era connessa, nella coscienza popolare, ad un moto religioso di riforma: per molti contadini la rivolta politica ebbe valore di una protesta in ritardo di alcuni secoli, giustificata dalla condizione e dall'azione del clero nel Sud, e da quella crisi dei rapporti tra Chiesa e Stato che, ambiguamente risolta dal fascismo, appariva ora riaperta come una piaga viva, attraverso l'avvento della Dc e la sua riassunzione, nell'ambiente meridionale, non solo degli uomini, ma anche di certi atteggiamenti del passato regime. Nel Mezzogiorno, in quegli anni, la figura del cattolico-comunista fu assai diffusa a testimoniare di un grave problema di coscienza. Un'identica esigenza morale veniva manifestata dalle discrete aliquote di popolazione che, contemporaneamente, andavano convertendosi al protestantesimo (conservando la loro adesione al comunismo): in costoro, anzi, l'inquietudine sociale si manifestava con immediatezza anche più forte, e con maggiori capacità reattive. Tutto questo movimento, anche d'ordine ideale e spirituale, era fatalmente destinato, a lungo andare, a contrastare con 118 l’ideologia e la tattica del Pci. E qui, il discorso si fa più direttamente politico. 9 Il movimento contadino aveva forse in se stesso la potenzialità per divenire veramente tale. Cioè, il movimento contadino meridionale ha avuto dal 1945 al '50 la possibilità di trovare dal suo interno la via per esprimersi come forza politica concreta di rottura degli schemi consuetamente depressi della vita pubblica del Sud. Questa tendenza, che sfuggì - forse per cause ineluttabili - al socialismo, fu intuita dal Pci, e fatta propria. Ma nel momento di essere egemonizzato dal comunismo, il movimento contadino meridionale veniva a snaturarsi, finendo col soggiacere a schemi ideologici e tattici, che ne tradivano l'essenza e ne utilizzavano gli orientamenti verso finalità e obiettivi ben diversi da quelli che ne avevano sollecitato la nascita. Certamente, l'errore più cospicuo commesso dai comunisti nel Mezzogiorno sembra essere consistito in una scelta dei tempi d'azione tanto spregiudicata, quanto intempestiva. I moti contadini furono portati presto ad una tensione che nessun potere politico sarebbe stato poi capace di soddisfare: al Pci, tra l'altro, mancò in seguito quel potere politico, che può provenire soltanto dalla partecipazione al governo della cosa pubblica, e che gli avrebbe consentito di soddisfare almeno in parte le eccessive attese sollevate. Oltre tutto, questo potere confortava la. parte politica che nelle campagne meridionali più apertamente si era data a contrastare l'avanzata comunista, vale a dire i cattolici, i quali col tempo - e spesso a svantaggio dei loro alleati laici - vennero a disporre di quelle armi che al mondo contadino riuscivano di più immediata utilità. La Dc operò infatti un gioco di clientele all'antica, distribuendo anche quei beni maggiori e minori di cui il contadino desiderava il possesso. E il contadino finì spesso col vedere nella Dc il più potente degli uffici di collocamento a sua dispo119 sizione. Ciò spiega, in parte, la parziale flessione dell'elettorato comunista, e la contemporanea ascesa. di quello Dc, negli anni intorno al '50 nelle regioni meridionali. La perdita dell'iniziativa politica da parte comunista trovò la propria espressione più rilevante nella riforma agraria. I contadini avvertirono la riforma come un avvenimento nuovo nelle campagne meridionali, e comunque come un fenomeno che apriva loro nuove prospettive, e segnava una specie di linea di displuvio tra ciò che era ancora da attendere dall'agricoltura locale, e ciò che era ormai da cercare fuori di essa. Di contro, il Pci continuava a indicare alle masse la via di una protesta continua e indifferenziata secondo il vecchio metodo dell'agitazione perenne nelle campagne. Da una parte, cioè, si collocò un partito che, ponendo sotto accusa lo Stato per una riforma che pretendeva di essere stato il solo a volere e a determinare, contestava alla Dc il diritto di utilizzare a sua volta, attese contadine che esso aveva spesso irresponsabilmente sollevato; mentre, dall'altra parte della barricata, si poneva una massa contadina che, sedata nel suo primitivo slancio rivoluzionario, calcolava con maggior cautela le proprie mosse, e cercava anche in quella riforma punti di appoggio per un'ascesa che ormai si sarebbe configurata soprattutto come un fatto individualistico. Così, a partire dal 1953, il fronte comunista cominciò a veder lacerata la sua unitarietà, che era poi l'unità medesima del movimento contadino. Da quel momento contadini cominciarono a perder contatto con l'ideologia comunista, e riemersero i vecchi contrasti sociali ed economici tra le varie categorie della società rurale. Essi si sottrassero a poco a poco alle pretese di un'organizzazione politica che non solo non aveva potere, ma stentava a comprenderli, e cercava di sottovalutare tutti quegli slanci che non tornavano buoni alla propria affermazione e all'astratto schema ideologico in cui sembrava aver racchiuso il mondo contadino 100. 100 Oltre al prezioso volume della Barnabei, per il dibattito politico postbellico si vedano: G. Are I cattolici e la questione sociale in Italia, Feltrinelli 1960; G. Galasso Mezzogiorno medioevale e moderno, Einaudi 1962; G. Napolitano Il 120 10 La débacle ebbe notevoli ripercussioni anche nel Partito socialista italiano, che solo molto più tardi doveva troncare il discorso frontista, e che solo oggi - almeno con i non-massimalisti- si sottrae al fascino di una «nuova unità». Si chiede Fiore: «Ora che cosa è accaduto? Semplicemente che, con l'esaurirsi di quel moto di cultura e con la mancata evoluzione in senso più moderno dell'azione di massa, abbiamo dovuto registrare che vecchi mali e vecchie insufficienze (trasformismo, clientelismo, accentramento) non sono scomparsi, e coinvolgono, ( ...), tutte le formazioni politiche. Di qui, la necessità, se si vuole andare avanti a risolvere problemi di arretratezza, di crescita culturale e civile, di autonomia da modelli tecnocratici e neocapitalistici, di emancipazione a livello nazionale ed europeo, di partecipazione delle masse alle decisioni e alle scelte della programmazione, di vedere quanto è rimasto di vivo del pensiero filosofico crociano e marxista, di verificare la validità delle impostazioni nittiane, sturziane, dorsiane; salveminiane e gramsciane, che comunque sono fra i momenti più alti del pensiero politico in questi ultimi settant'anni. (...) Certo, non si può invocare semplicemente il ritorno, sia pure in termini critici, a Gramsci e ai meridionalisti rivoluzionari. La dibattito meridionalista dopo la Liberazione, Società 1952; A. Molinari Le esperienze post-belliche per lo sviluppo economico e l'industrializzazione del Mezzogiorno d'Italia, Relazione presentata al Convegno di Studi su « Esperienze e problemi di sviluppo delle Regioni arretrate li, Napoli settembre 1960; P. Sylos Labin Il dilemma del centauro, in Il Mezzogiorno davanti agli anni '60, a cura di F. Compagna,Milano 1961; B. Trentin Gruppi capitalistici e sindacati di fronte alla odierna realtà meridionale, in Economia e Sindacato settembre 1961; G. Amendola La democrazia nel Mezzogiorno Editori Riuniti 1957; M. Rossi Doria La riforma Anno due - 8 giugno 1951 in Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Laterza 1958; E. Sereni Vecchio e nuovo nelle campagne italiane Editori Riuniti 1956; A. Giolitti La questione meridionale e il socialismo in Italia, in Un dibattito. alla Camera sulla politica per il Mezzogiorno. Mondo Economico 18 febbraio 1961; M. Caprara Mezzogiorno e Programmazione ed E. Peggio Industrializzazione e riforme nel Sud. Relazioni al Convegno sull'«Intervento democratico del Mezzogiorno per modificare gli indirizzi della programmazione», Napoli 11-12 novembre 1966. Bollettino del Centro Studi di Politica Economica del CC del Pci, cit. pagg. 7 e segg., pagg. 23 e segg. 121 problematica meridionalista si è enormemente arricchita ed è stata adottata una nuova politica in (onore del Mezzogiorno (basta pensare alla liberalizzazione degli scambi, e alla politica di intervento straordinario). E' mutato lo storico rapporto tra città e campagna. C'è il fatto, veramente nuovo, della programmazione nazionale, che i comunisti non hanno saputo valutare nella sua sostanziale portata innovatrice ...) 101. La revisione dei rapporti fra i comunisti e i socialisti si rese necessaria, nel 1955, con la « destalinizzazione» e il rilancio delle «vie nazionali». Fu un atto imposto da uno stato di necessità che i dirigenti comunisti speravano fosse provvisorio, ma che presto si rivelò più serio del previsto. I socialisti cominciarono a sentire i primi stimoli di autonomismo e a sperimentare i benefici e i pericoli che ne derivavano. Da qui, l'accusa togliattiana, secondo cui, sull'eco di Gramsci, «il movimento socialista italiano degli ultimi trent'anni è stato un apparecchio per selezionare nuovi elementi dirigenti dello Stato borghese». E da qui l'invito a «non spezzare l'unità della classe lavoratrice». La sesta tesi del X Congresso comunista sul «Processo di formazione di una nuova unità» rilevava «le gravi difficoltà nello sviluppo dell'azione comunista per l'unità del movimento operaio democratico», rappresentate dalla rottura del patto di unità d'azione e di quello di consultazione col Psi, dall'uscita dei socialisti dal movimento della pace, dalla crisi del Movimento per la rinascita del Mezzogiorno; e poneva nuovi obiettivi d'iniziativa interna nel campo sindacale e contadino, negli enti locali, nelle organizzazioni giovanili, soprattutto studentesche, nel mondo della scuola e della cultura, nel movimento antifascista e della Resistenza. «E' necessario intrecciare sempre, all'iniziativa unitaria positiva, la polemica ideale contro l'anticomunismo e contro tutte le posizioni revisioniste trasformistiche e scissionistiche, ma lottare, al tempo stesso, contro le posizioni puramente sentimentali di risentimen- 101 V. Fiore Il Mezzogiorno e l'unità, delle sinistre, cit. 122 to che possono sorgere nelle file del partito e che possono facilmente degenerare nel settarismo». Tanto per quel che riguardava i problemi dei contadini del Mezzogiorno, che per quel che investiva più largamente le «questioni del Paese», l'ipotesi che i socialisti raggiungessero la loro piena autonomia fu indicata dal Pci come la tappa di «un ulteriore inasprirsi della lotta sociale e politica», e giudicata come «l'asservimento del Psi a forza subalterna della Dc», la quale « si ritroverebbe di nuovo di fronte l'interlocutore vero, l'avanguardia politica proletaria, con cui le organizzazioni cattoliche sono chiamate a misurarsi e a cercare un terreno d'incontro» 102. Lo sganciamento dei socialisti ha determinato, in buona parte, il tramonto definitivo dell' azione comunista volta a conquistare e dominare le masse operaie e contadine del Mezzogiorno. Da ciò, il rifiuto totale della politica meridionalistica attuata dalla Dc e dai suoi alleati laici dal '48 ad oggi, il rigetto degli strumenti straordinari e della programmazione, e l'insistenza per le regioni. E, anche sul piano del meridionalismo, la ricerca del «dialogo», come inizio d'inserimento in un nuovo sistema di alleanze. 11 Nel dopoguerra, scrive Gentile 103 , singolari e immeritate furono le sorti del Partito Liberale. Esso si era ricostituito intorno a Benedetto Croce, la cui autorità era immensa, sia per la incontestata supremazia di cui godeva nel mondo della cultura, sia per la sua tenace opposizione al fascismo. Vicino a Croce si erano schierati uomini variamente eminenti, 102 103 Si veda: F. Piccoli Azione del Pci verso i partiti democratici, in L'incidenza del comunismo sulla democrazia italiana. Relazione al convegno di Studi della Dc a San Pellegrino, 15 settembre 1963. Documenti di Linea Democratica. Centro Studi Politici «Via Piemonte». Pagg.18 e segg. P. Gentile La vita dei partiti nel primo decennio repubblicano, in Autori Vari Aspetti di vita italiana contemporanea, cit. pagg. 55 e segg. 123 come Einaudi, Soleri, Casati, De Caro, giovani sensibili alla tradizione risorgimentale, e vecchi statisti, come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, o Enrico De Nicola, i quali, pur senza irreggimentarsi formalmente nell'organizzazione del partito, avevano riconfermato la loro fedeltà all'idea e all'azione liberali. Fino alla Costituente, i liberali avevano svolto un'ampia «opera moderatrice, per evitare che i partiti dell'estrema sinistra anticipassero con dei colpi di mano clubisti, o con movimenti di piazza, o con le intimidazioni delle forze partigiane, quelle decisioni che il patto intercorso tra tutti i partiti antifascisti voleva fossero riservate alla libera volontà del popolo italiano». Tutta quest'opera « avrebbe dovuto designare i liberali alla considerazione della parte più moderata del Paese, che era contraria ai programmi eversivi dei partiti di sinistra». Ma non fu così. Alla Costituente la rappresentanza liberale fu di appena una ventina di deputati. Continua Gentile: «Si sono indicate molte ragioni per spiegare questo insuccesso. Vi è stato chi ha voluto attribuirlo a cause remote (...) Altri ha voluto riferirlo a cause più prossime. Si sono indicate: la mancata presa di posizione sulla questione istituzionale, poiché l'agnosticismo liberale sul dilemma: Monarchia o Repubblica, avrebbe posto i liberali fuori delle passioni che allora ardevano nel Paese; oppure il contributo portato ai provvedimenti contro il fascismo ( ...); o ancora la lacuna di un seducente programma sociale: la dottrina liberale non aggiornata rischiava di passare come una dottrina di pura conservazione ad uso dei capitalisti». Certamente, tutte queste ragioni hanno in qualche maniera influito. Ma la ragione di maggior peso fu la concorrenza della Dc presso una notevolissima parte delle clientele elettorali tradizionalmente liberali. Quanto era superstite dell'Italia giolittiana, deviò i voti a favore della Dc, per la paura del comunismo congiunta alla persuasione che la Democrazia Cristiana aveva le maggiori probabilità di vittoria. Il che fu tanto più facile, quanto più sembrò in quel momento inattuale e scarsamente sentito il motivo del laicismo, vale a dire il motivo che avrebbe potuto su124 scitare le maggiori riluttanze o perplessità a favorire un partito confessionale. La Chiesa era uscita bene dalla lotta di liberazione. Pio XII, pur mantenendo la Santa Sede estranea e superiore al conflitto mondiale e alla guerra civile, si era prodigato perchè la Chiesa svolgesse la sua opera soccorritrice a favore di tutti i perseguitati. E poichè i perseguitati erano stati quasi sempre dalla parte, degli antifascisti, costoro alla fine si erano trovati ad avere contratto un grosso debito di gratitudine con la Chiesa. Inoltre, De Gasperi aveva resistito ad ogni tentazione di ambizioso guelfismo. Fin da principio aveva avvertito che in un Paese come il nostro, nel quale la coscienza nazionale si era formata sotto la guida di un pensiero laico e ghibellino, un partito cattolico doveva usare una certa discrezione, e sarebbe stato tanto più facilmente accettato, quanto meno si fosse mostrato clericale o intollerante. Perciò De Gasperi apparve, anche ai meridionali, una figura di liberale cattolico. Dai più, venne ritenuto come l'esponente di un nuovo giolittismo, cui la qualifica cattolica non aggiungeva alcunchè di allarmante104. 104 Si vedano, fra gli altri, per una piu larga comprensione dei problemi della politica italiana dal '44 in poi : M . Bendiscioli Antifascismo e Resistenza Studium 1964, con un'informatissima bibliografia; F. Catalano L'Italia dalla dittatura alla democrazia (1918-1948), Milano 1962; E. Passerin D'Entreves G. Sofri Gli ultimi quarant'anni, Bologna 1961; R. Battaglia R. Ramat Un popolo in lotta -Testimonianze di vita italiana dall'Unità al 1946, Firenze 1961; L. Valiani L'avvento di De Gasperi, Milano 1948; R. Bauer Alla ricerco. della libertà, Milano 1957; Autori Vari Il secondo Risorgrmento- Nel Decennale della Resistenza e del ritorno alla Democrazia (1945-1955), Roma 1955; G. Sala Profili e problemi d ella Democrazia Cristiana, Roma, Ateneo , 1953 («La tradizione della Dc è anti -mistica, essa ha le radici nella confluenza della democrazia di origine liberale con lo spirito di solidarietà sociale... "E per quel che riguarda la visione politica di De Gasperi, essa «pur discutibile nel metodoe nei particolari risultati, si deve considerare la più vicina alle tradizioni del Partito Popolare e (...) la più utile al nostro Paese per i suoi doveri interni e internazional». 125 12 In queste nuove condizioni, in questo inedito «equilibrio», i partiti nazionali avviarono nel Mezzogiorno la loro opera politica. Uno dei risultati più notevoli di quest'azione, e uno dei fatti più significativi della recente storia italiana, fu l'ingresso delle masse contadine meridionali nella lotta politica. Ma diversamente da quel che avvenne nel 191822, i contadini non fecero sentire il peso della loro forza soltanto nelle tradizionali forme del tumulto. Malgrado la strategia dell'estrema sinistra, si trattò anche dell'avvio ad una responsabile compartecipazione preparata da tutti gli altri partiti democratici. In ogni caso, De, Pci e socialisti operarono, con fini e metodi opposti, fra gli strati anche poverissimi della popolazione. La sinistra, in particolare, attuò un processo che modificava dalle fondamenta uno dei principali dati negativi della situazione politica del Mezzogiorno, determinando una vasta frattura nel «blocco» degli agrari. Su questa stessa via, per imbrigliare la penetrazione comunista, si mise la Dc. Tuttavia, le nuove impalcature politiche sorte sulle rovine dell'antico elettorato liberale non eliminarono nel Sud i difetti del vecchio sistema trasformistico e clientelare. In alcune occasioni, anzi, furono aggravati. La lezione di Ciccotti restava inascoltata. E lo è, in buona parte, ancora oggi. 13 Su queste basi ebbe origine anche l'azione del governo per l'Italia meridionale. Il problema di fondo fu quello dell'industrializzazione. La prima legge meridionalista del dopoguerra, emanata nel dicembre del 1947 e basata su agevolazioni creditizie e fiscali, fu ritenuta una «pedissequa imitazione di provvedimenti che risalgono al 1904» 105. In realtà, era inadeguata e inefficace. Cominciò così a farsi strada il concetto 105 A. Molinari Le esperienze post-belliche etc., cit. 126 della « preindustrializzazione», cioè della creazione, attraverso un complesso di investimenti pubblici e di incentivi, di un ambiente economico in cui le imprese industriali private potessero trovare stimolo e convenienza a sorgere. Nacque così la Cassa per il Mezzogiorno. L'altro aspetto della politica meridionalista governativa fu la riforma fondiaria: gli enti di riforma espropriarono e distribuirono esattamente 417.154 ettari di terra. I contadini ne tentarono la trasformazione con l'assistenza tecnica e creditizia degli stessi enti. Questi provvedimenti, ed alcuni altri ispirati agli stessi criteri, rappresentarono il punto d'arrivo della prima fase del dibattito meridionalista del dopoguerra. Ma più che da un esame critico della tradizione meridionalista italiana, e da una valutazione dei tentativi fatti nel passato per affrontare la questione, l'ispirazione di queste iniziative veniva dal modo in cui erano stati superati specialmente negli Stati Uniti ed in Inghilterra (Tennessee-Columbia Basin-Scozia-area di Glasgow; ma anche le aree olandesi dello Zuiderzee, e quelle polacche di Cracovia e russe dell'Estonia), i problemi di particolari aree depresse. L'esigenza dell'integrazione europea dell'economia italiana proponeva intanto il superamento delle antiche posizioni protezionistiche e l'ammodernamento e lo sviluppo dell'apparato industriale del Nord. Le conseguenze che dall'impostazione di più liberi rapporti economici tra Italia ed Europa si prevedevano per il Mezzogiorno «erano soprattutto la maggiore possibilità e larghezza di intervento della spesa pubblica sulla linea tracciata dalla Cassa, un più forte stimolo alle trasformazioni colturali, e più ampie possibilità di immettere i prodotti agricoli nel mercato internazionale»106. La seconda fase di politica meridionalistica, dunque, era caratterizzata da due motivi: quello del boom italiano, e quello dell'Europa senza frontiere. Cioè, dall'impetuoso trasferimento in massa di schiere di meridionali nei centri industriali del Nord, e nelle fabbriche e nei ba106 R. Villari La nuova democrazia, in Il Sud nella storia d'Italia, cit., vol. II, pag. 627. 127 cini minerari d'oltralpe. Il Mezzogiorno è entrato così nella Cee. Questa fase dell'esperienza meridionalista, che per varie ragioni ha suscitato un largo interesse tra studiosi e uomini politici di tutto il mondo 107, si è conclusa intorno agli anni '60. 14 In questo periodo, i meridionalisti affermavano che nel corso dell'attività della Cassa si erano di volta in volta chiariti i limiti dell'impostazione che era stata data alla politica per il Mezzogiorno. Proprio per i suggerimenti che derivavano dall'esperienza concreta, essi, proponendo metodi sostanzialmente diversi, delineavano gli obiettivi che era necessario proporsi per affrontare efficacemente il problema. A queste posizioni, corrispondevano un più largo impegno e un rinnovato interesse dei politici per lo studio della tradizione del pensiero meridionalista, e l'esigenza (che, particolarmente nel campo cattolico, era stata sentita prima da ristretti gruppi di giovani, e soprattutto da quello che, tra il 1948 e il 1953, si raccolse intorno alla rivista Per l'Azione, compiendo un corroborante ripensamento dell' opera di Gramsci, Dorso e Gobetti) di valutarne i risultati ed il significato. La Relazione presentata al Parlamento da Pastore nell'aprile del 1960, e la notevolissima discussione che ne seguì, (e nel corso della quale tutti i partiti presentarono mozioni «meridionaliste»), misero in rilievo, insieme ai risultati raggiunti, il fatto che non era stato messo in moto un «meccanismo di sviluppo» rapido. Era venuto meno, cioè, il risultato di fondo, che era quello di creare incentivi come basi di soluzioni rinnovatrici e motrici, di formare un valido tessuto connettivo di strutture in grado di determinare nel Sud un movimento di nascita e di investimento del capitale privato. In altri termini, l'obiettivo dell'avvi107 Di notevole importanza, anche se non possiamo condividerei «pericolosi tentativi di forzare il processo di avvicinamento Il tra Nord e Sud, il saggio di V. Lutz, cit. 128 cinamento del sistema produttivo delle due grandi ripartizioni territoriali italiane non era stato conseguito, e rischiava di non essere raggiunto in tempi ragionevoli. Da qui, due tendenze: quella «efficientista», con indeterminati e indeterminabili « tempi lunghi»; e quella del rilancio del problema meridionale, con la proroga della legge istitutiva della Cassa, e l'adozione di una programmazione nazionale. A questo punto, storia e cronaca politica diventano fatti dei nostri giorni. 15 Quali erano stati i presupposti storici di queste fasi? Nel primo dopoguerra, i comunisti avevano rappresentato la voce più polemica dello schieramento politico meridionale. In quegli anni tormentati essi impostarono un serio lavoro di politicizzazione dei ceti contadini, accelerando, con l'azione sindacale, l'inserimento delle plebi del Sud nel processo storico meridionale. Ciò va considerato, a tutti gli effetti, il primo passo della rinascita del Mezzogiorno. Più tardi, venuta meno la tensione rivoluzionaria che aveva animato i contadini fino agli anni '50, (e venuto meno soprattutto il risvolto sociale della questione col fallimento dell'alleanza operai del Nordcontadini del Sud unificati da una Weltanschauung proletaria proposta da Gramsci), il Pci si trovò di fronte al problema di dover utilizzare «dentro lo Stato» un movimento che avrebbe voluto utilizzare «contro lo Stato». All'azione riformistica statale, i comunisti non seppero opporre una loro valida linea difensiva: non essendo capaci, o non volendo risolvere l'azione contadina in una forza politica democratica, essi da una parte accentuarono il loro schematismo mentale, e dall'altra portarono alle estreme conseguenze il loro spregiudicato tatticismo, assumendo una politica di opposizione dogmatica. Sul mondo contadino, poi, usarono del loro ascendente con accorta diplomazia. E questo denunciava apertamente l'antico pessimismo leninista nei confronti del mondo rurale. 129 Confrontata con quella comunista, l'azione degli altri partiti ha avuto caratteri meno spiccati, ed è risultata meno incisiva ai fini dell'organizzazione politica delle masse meridionali. La stessa Dc, in non pochi casi, ha dato l'impressione di procedere a freddo, spinta dagli alleati più sensibili e sollecitata dagli avversari, più che da un intimo impulso, e volta ad un riformismo eclettico spesso scarsamente producente. Si può dire, in linea generale, che più che affrontare il problema meridionale con le proprie forze, il partito di maggioranza ha cercato di risolverlo attraverso l'azione e i mezzi dello Stato, (Cassa per il Mezzogiorno, Enti vari). Solo più tardi l'iniziativa bonomiana ha richiamato sotto le insegne delle mutue contadine certi settori dei ceti rurali meno sensibili alle teorie marxiste. E ancora molto dopo si è avuto l'intervento della Cisl negli affari meridionali. Dopo: quando la Cgil fu costretta a « tornare a settentrione», per arrestare le emorragie operaie del triangolo. L'estrema destra, a sua volta, è rimasta ancorata ai fantasmi di un sanfedismo contadino, cercando poi di contendere alla Dc il possesso di una parte della borghesia. Fin dal tempo in cui Dc. Pli e Pri facevano proprie alcune notevoli istanze riformistiche, i partiti socialisti «sfuggivano alle proprie responsabilità, incapaci di dare alle vecchie tesi salveminiane e dorsiane una interpretazione in chiave moderna, e di proporre una nuova alternativa democratica alle masse contadine ed agli strati più colti della borghesia locale»108. Possiamo quindi affermare che, al di fuori di alcune lodevoli eccezioni, i partiti laici democratici sono entrati sulla scena politica del Sud solo di scorcio, localmente, sconfitti dal tipo di vita politica e dall'immaturità di gran parte dei meridionali. I quali, ancora una volta, hanno continuato a muoversi più come immensi cori senza tema, che come autentici protagonisti del loro stesso antico dramma. In questo senso, fra l'altro, pare trovare una sua giustificazione il dubbio sulla 108 M. Barnabei Aggiornamenti, etc. 130 crisi del meridionalismo. La vita politica meridionale, rinata nei primi anni del dopoguerra come teatro di forze vive, ha di volta in volta perduto slancio e vigore, ricadendo nel vuoto tradizionale, nei grandi silenzi sui temi di fondo, in cambio di motivi che sembravano ormai superati definitivamente, in cambio di una disputa, cioè, fondata su problemi e intenti contingenti. Se un'attenuante dev'essere avanzata, può essere questa: l'involuzione della vita politica nel Mezzogiorno, a partire dal 1953, non è riportabile soltanto allo svuotamento di una parte della carica ideologica che i vari partiti avevano portato nelle lotte politiche post-belliche, ma anche al tipo di intervento attuato dal potere statale, il quale, facendo proprio il contenuto delle rivendicazioni popolari, di cui i partiti si facevano portavoce, neutralizzava di fatto molta parte della loro spinta innovatrice. 16 L'azione dello Stato, in effetti, veniva ad inserirsi in un quadro politico che vedeva il Pci esiliato in una posizione di sterile massimalismo; il Psi imbrigliato nelle proprie interne contraddizioni, e impegnato nella logica manichea imposta dall'alleanza frontista, nel cui ambito i comunisti avevano una parte preponderante, sia ideologicamente che tatticamente; le forze più valide della sinistra minate dalla presenza di antichi azionisti, grandi distruttori, e tenaci assertori di politiche dogmatiche disgregatrici; i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali quasi esautorati dal prepotere dei cattolici; la Dc dedita al predominio dell'attività statale. 17 A chi guardi con obiettività i fatti più salienti, dunque, non può sfuggire che il maggior protagonista della vita sociale ed economica del Mezzogiorno, negli anni '50, è stato appunto lo Stato, il cui intervento 131 rispecchia profondi mutamenti nell'impostazione e nella risoluzione della questione meridionale, e segna un evento di fondo non del tutto positivo nella storia del Sud. Fra l'altro, vi è un aspetto sollevato dall'opera dello Stato in tema di politica dello sviluppo, che non ci pare sia stato finora chiaramente valutato anche in sede politica. Il potere esecutivo svolge notoriamente, in Italia, un'attività che la tradizione voleva un tempo in buona parte di competenza del potere legislativo: la svolge, quindi, con la protezione di strumenti normativi di tipo amministrativo, ormai largamente diffusi nella pratica. Questo stato di cose è in parte riportabile al periodo fascista, quando l'invadenza dell'esecutivo era l'impegno fondamentale del sistema. In effetti, esso sembra essere uno degli aspetti peculiari della crisi che travaglia gli istituti parlamentari. Ora, lo Stato è oggi investito di un certo margine di potere autonomo, (come nel caso del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno), che lo può portare a risolvere alcune situazioni secondo una logica che, in taluni casi, si potrebbe pensare rispondente ad una empirica politique des choses. Tuttavia, anche in questi casi l'attività statale risponde necessariamente ad una qualche ideologia, che non può forse essere quella del riformismo tout court, ma che per conseguire una valida qualificazione deve ormai rispondere ad impostazioni politiche nuove, che si svincolino dal solco tradizionale delle ideologie di partito, senza perdere per via la matrice liberale (nel significato universale, per la continuità dello Stato di diritto). In altri termini, è un pò tutta l'attività statale che sembra richiedere un'analisi in chiave moderna da parte dei politici: anche tenendo conto del fatto che in alcune occasioni l'organizzazione statale ha già imbroccato da sè la via di una discreta funzionalità, adeguandosi autonomamente alle esigenze imposte dal processo di sviluppo in atto. In realtà, specie di fronte alla politica di piano, il pensiero politico sembra non del tutto e non sempre preparato. Vecchi schemi frenano l'aggiornamento ideologico dei partiti, i sindacati hanno colpe remote, e 132 persistono nella loro azione inattuale e innaturale di strumenti di partito, mentre la realtà delle cose cambia rapidamente e si lascia dietro i ruderi del passato, e schiere di tecnocrati preparano nuovi programmi e realizzano nuove riforme. Nell’immenso corpo dello Stato italiano vivono e si moltiplicano centri e gruppi dinamici di studio e progettazione esecutiva. Anche in questa prospettiva, ci sembra, dovrebbe operare chi vuol dare alla azione di un partito quella matrice di moderna democrazia, cui dovrà essere necessariamente ispirata l'attività politica nel futuro del Mezzogiorno. 133 TRA L'EUROPA E IL MEDITERRANEO Se mai una rivoluzione politica fu intessuta di illusioni o di speranze, o eccessive o del tutto infondate, quella fu certamente la nostra. Giustino Fortunato La maggior parte aveva poco da mostrare, all'infuori di un angolo di terra, ove cercava invano riparo dai colpi della sfortuna. Mr. Stevenson Una simile contrapposizione di continenti era destinata ad aver breve vita. Federico Chahod Questa è la prima verità che l'opinione pubblica deve conquistare, senza offuscarla con sentimenti di falso patriottismo; poichè tra noi e gl'industriali del Nord non esiste un antagonismo regionale o politico, a cui si debba fare il sacrificio dei nostri interessi economici, ma esiste quel naturale contrasto che si ha in ogni rapporto di scambio ... De Viti De Marco 135 Il 21 ottobre 1966 si tenne il primo, e fino a questo momento, con ogni probabilità, unico convegno che abbia interessato il Mezzogiorno come problema esclusivamente «mediterraneo». L'incontro, sul tema «Italia, Europa ed Africa nella nuova dimensione del mondo», fu organizzato presso la Fiera del Levante in collaborazione col Centro Studi delle Comunità Europee. Il nostro Paese, si disse, non potrà considerare realmente concluso il suo ciclo di sviluppo globale fino a che resteranno aperti i problemi del Mezzogiorno, che non possono essere risolti soltanto con una serie di interventi straordinari, ma devono essere collocati nel quadro generale della politica economica nazionale. «Grazie infatti alla programmazione economica la politica del Mezzogiorno cesserà di essere una politica di interventi straordinari, per diventare un obiettivo fondamentale per lo sviluppo del Paese. Ma la programmazione economica non si esaurisce a livello regionale, nè a quello nazionale. Oggi ci troviamo di fronte a tre cerchi concentrici: la programmazione regionale all'interno, quella nazionale al centro, quella europea all'esterno. Il caso del Mezzogiorno italiano è quello in cui più agevolmente si possono individuare fin d'ora le linee lungo le quali dovrà svolgersi tale triplice programma, anche perchè le regioni meridionali costituiscono oggetto di particolare attenzione da parte degli organismi comunitari, come dimostrano il polo di sviluppo pugliese e i massicci interventi del Fondo agricolo»109. Dalla tendenza a realizzare una politica non limitata a considerare il Mezzogiorno in sè, ma volta a farne un ponte ideale dell'Europa nel Mediterraneo, è nata l'idea-forza di una partnership Europa-Africa, 109 Intervento del sottosegretario agli Esteri, Zagari. 137 con apertura, alla Turchia e al Medio Oriente, da una parte, al mondo iberico dall'altra. Partnership che, però, «non deve avere carattere esclusivo, ma rappresentare uno dei perni, anche se forse il più importante, di un'azione che va esercitata a tutti i livelli, anche se alla stregua dei principi sanciti dalla Convenzione di Yooundé», 2 Il nostro tempo è testimone dello sviluppo di due grandi cicli di trasformazione continentale che, mentre maturano, preparano realtà storiche profondamente diverse da quelle del recente passato. Da un lato, in Europa, alcuni Paesi industrializzati abbandonano progressivamente le vecchie posizioni nazionalistiche e di protezionismo economico, per creare strutture sovranazionali e una economia dalle dimensioni continentali, in attesa che si concretizzino le condizioni storiche necessarie a dar vita anche ad una comunità politica. Dall'altro, è in atto in tutta l'Africa un crescente processo di affrancamento di popoli che, ottenuta l'autonomia, si affacciano alla ribalta della storia contemporanea. In questa fase dell'evoluzione, la vocazione mediterranea e le tradizioni africane ripropongono all'Italia un compito di particolare rilievo: quello di concorrere allo sviluppo di una vasta collaborazione tra le due grandi aree economiche, strettamente integrabili, data la diversità delle rispettive strutture. Con le sue capacità tecniche, industriali, finanziarie, la Comunità Europea è in grado di fornire beni strumentali, prodotti di consumo, crediti, assistenza tecnica, indispensabili alle economie in via di sviluppo del continente nero. Per quanto ancora in gran parte sottosviluppate, queste, a loro volta, sono in grado di fornire incambio alle industrie trasformatrici europee immense risorse di materie prime e di fonti energetiche. L'Africa è un mercato dalle enormi possibilità di espansione, con oltre 240 milioni di abitanti sparsi su trenta milioni di chilometri qua138 drati. L'Italia con la sua struttura geografica, e con la fiducia che riscuote in un mondo ancora profondamente turbato dalle esperienze colonialisti che e dalle vicende che hanno segnato e continuano a segnare la fase di assestamento politico, sociale, geografico, può assolvere più di qualsiasi altro Paese europeo alla funzione di mediazione e di collocamento fra i due sistemi, la cui collaborazione si prospetta molto interessante, non soltanto sul piano strettamente economico. Ma anche indipendentemente da questa funzione euro-africana, l'ulteriore sviluppo industriale del nostro Paese comporta sempre maggiore fabbisogno di materie prime, di cui l'Africa dispone in gran quantità: petrolio, gas naturali, fosfati, ferro, zinco, stagno, rame, piombo, manganese, carbone, uranio, argento, oro; e nello stesso tempo consente di esportare in quantità crescenti e a condizioni competitive prodotti industriali, ed in particolare - ciò che maggiormente interessa ai Paesi in via di sviluppo - impianti e macchinari, con la necessaria assistenza tecnica. Anche la partecipazione italiana alla costruzione delle opere destinate a formare il «capitale sociale fisso» dei nuovi Stati - vie di comunicazione, centrali elettriche, impianti irrigui, edilizia, ecc. - è suscettibile di ampi sviluppi, grazie anche al prestigio conquistato dalle nostre aziende e dai nostri imprenditori in tutto il mondo. 3 Occorre tener presente un fatto: la nuova fase di penetrazione nel continente nero rifiuta lo spirito neocolonialista, l'aggressione economica tout court, il controllo esclusivo delle risorse principali dei Paesi africani. In Africa e nel Medio Oriente si combattono ancora guerre del petrolio, degli, idrocarburi, dell'uranio. Tutto questo, ed altro ancora, determinano la sfiducia degli africani verso i bianchi, gli europei, gli occidentali. Nascono anche da questa logica i nazionalismi che hanno determinato a più riprese, nel Nord-Africa e nel Medio Oriente, in que- 139 sto che è un «crocevia del mondo », squilibri insanabili, guerre sante, costose rivoluzioni, palesi ambizioni di predominio. 4 Quando all'elemento politico si sovrappone quello più strettamente economico, al quale alla resa dei conti è legato lo sviluppo civile e sociale delle popolazioni, i conti tornano diversamente. Prendiamo l'esempio della Sicilia. Nel giro di un decennio, dal 1955 al 1964, secondo i dati elaborati dall'Osservatorio economico del Banco di Sicilia, il volume globale degli scambi fra le due parti (Sicilia-Africa) è quasi decuplicato, passando da 5,9 miliardi a 53,9 miliardi di lire, mentre si è più che raddoppiato (dal 5,3 per cento nel 1955 al 13,8 per cento nel 1964) l'apporto fornito dagli scambi con l'Africa al commercio globale della Sicilia con l'estero. L'interesse di questi dati è confermato dal fatto che in quello stesso decennio il numero dei Paesi africani con i quali la Sicilia ha allacciato rapporti di scambio si è pressocchè triplicato. E l'evoluzione della bilancia commerciale isolana ha registrato, di conseguenza, notevoli effetti positivi. Il problema, quindi, sta nell'inserire il Mezzogiorno nel vasto circuito di affari che allo stato attuale delle cose interessa quasi esclusivamente la Sicilia. Pastore ha affermato che «l'ansia solidaristica che anima oggi l'Europa ha ridotto al minimo le distanze; che in ogni caso se il Nord aveva vicino l'Europa continentale, il Sud ha dalla sua l'Oriente. Che il Mezzogiorno è destinato esso stesso a divenire un grande mercato»110. Anche da questo punto di focalizzazione, pertanto, lo sviluppo economico del Sud ha una sua particolare funzione, e si riflette nel quadro dello sviluppo globale dell'Italia. Cioè, è anche un grosso problema interno, che investe la questione dei finanziamenti. 110 G. Pastore Analisi e prospettive dello sviluppo del Mezzogiorno, cit. pag. 15. 140 5 Aveva scritto Orlando: «E' opinione che la flessione degli investimenti sia conseguenza della preoccupazione ( ...) delle nostre aziende, per l'avvicinarsi del 1 luglio 1968, giorno in cui cadranno le ultime protezioni doganali e le economie dei sei Paesi entreranno nella pienezza della fase competitiva. Per questo fatto nuovo, le nostre imprese, alle quali tutti chiedono massima efficienza, sono portate a identificare l'efficienza con la concentrazione degli impianti e degli investimenti. Cioè, con la concentrazione nel Nord, dove le economie esterne, assicurate dalla presenza di tutti i servizi intermedi ed ausiliari, si rivelerebbero più efficaci che non le incentivazioni a favore del Mezzogiorno»111. Riecheggiando il ministro del Tesoro, Orlando affermava che quattro «ragioni», (il nuovo ciclo di espansione dell'economia, la caduta delle dogane nel MEC, la flessione degli investimenti nel Sud, la diminuita tensione meridionalista), sono sufficienti ad imporre la ripresa di un discorso più franco tra classe politica e classe economica per il Mezzogiorno. Ai fini di questo discorso, proseguiva, gioverà innanzitutto rifiutare la correlazione prospettata dai comunisti fra Mercato Comune e crisi del Mezzogiorno. «Basterebbe, in proposito, ricordare l'autarchia e i nefasti effetti che le economie chiuse hanno,in primo luogo sulle aree depresse... Quando l'iniziativa privata dal Nord andò nel Sud con iniziative massicce, traendone le ovvie utilità economiche, nel Sud non c'erano in misura adeguata quelle infrastrutture che il' ministro Colombo ( ...) ha raccomandato di sviluppare; nè c'erano quelle unità intermedie ed ausiliarie che sono il tessuto connettivo di un sistema industriale, e di cui ancora il ministro Colombo richiama l’indispensabilità quando propone di «avviare contemporaneamente a realizzazione una serie, diversificata per settori, ma integrata globalmente, di impianti in111 F. Orlando Appello per il Sud Il Globo 2 ottobre 1967. 141 dustriali, non solo di grandi dimensioni». E' questa, ci si permetta di ricordarlo, la «filosofia» che presiede al Piano Cee per la meccanica nel polo Taranto-Bari-Brindisi. E' implicita naturalmente la preoccupazione di evitare iniziative o doppioni inutili. La complementarietà dev'essere elemento del processo integrativo in modo da compensare le carenze presenti e future». 6 Queste quattro «ragioni» sono effetto di molte cause, che Lenti analizza acutamente 112, anche se poi risultano inficiate dai conti in percentuale. Per seguire la linea tracciata da Lenti, dividiamo il nostro sistema economico in due parti: al Nord le aree settentrionali, comprese quelle centrali più sviluppate; e al Sud quelle meridionali, comprese le insulari, meno sviluppate dal punto di vista economico. Partiamo dal 1951, anno in cui si cominciò ad operare a favore delle aree meridionali, per arrivare al 1966, che chiude perfettamente un ciclo quindicennale. Esprimendo il reddito nazionale per abitante in termini reali (lire 1963), Lenti constata che quello delle aree meridionali è passato da 219 mila a 407 mila lire, con un aumento dell'86,1 per cento; mentre quello delle aree settentrionali è passato da 381 mila a 765 mila lire, con un aumento del 101,0 per cento. In altri termini, riconosce Lenti, il reddito nazionale per abitante nelle aree meridionali è aumentato con un saggio inferiore a quello accertato nelle aree settentrionali. Il distacco quindi, anzichè diminuire, è aumentato. «In questo caso, però, (...), i dati del reddito nazionale per abitante forniscono un 'immagine distorta della situazione, e questo proprio perchè dalle aree settentrionali sono via via fluite verso quelle meridionali notevolissime quantità di risorse, il che ha per l'appunto permesso un aumento dei consumi e degli investimenti». 112 L. Lenti Conti precisi per il Mezzogiorno Corriere della Sera 7 ottobre 142 Ecco le cifre di Lenti: nelle aree meridionali del 1951 al 1966 i consumi sono passati da 200 mila a 392 mila lire, con un aumento del 96,5 per cento, mentre nelle aree settentrionali sono passati da 295 mila a 539 mila lire, con un aumento dell'82,5 per cento. Gli investimenti lordi, nello stesso tratto di tempo, sono passati da 36 a 93 mila lire nelle aree meridionali, con un aumento del 155,5 per cento, e da 73 a 146 mila lire in quelle settentrionali, con un aumento del 98,7 per cento. Come si vede, dice a questo punto Lenti, se si tien conto delle «esportazioni» nette di merci e servigi dalle aree settentrionali verso quelle meridionali, il che «rappresenta un cospicuo apporto a fondo perduto a favore di quest'ultime», la prospettiva cambia. «Nelle aree meridionali, grazie per l'appunto a quest'apporto, i consumi e gl'investimenti sono aumentati con saggi nettamente superiori a quelli accertati nelle aree settentrionali. Ciò dovrebbe indurre a maggiore cautela coloro che negano validità a quanto s'è finora fatto a favore delle aree meno avanzate nel nostro sistema economico». Il che dimostra, una volta di più, che gli economisti non finiranno mai di sbalordirci. Investimenti aumentati? Ma non è risultato neppure al Congresso partenopeo 113, ove hanno parlato economisti e politici del maggiore partito al governo, che non si sarebbero lasciata sfuggire l'occasione di mettere in evidenza una cosa del genere. E, si può parlare di maggiore aumento dei consumi rispetto al Nord, su una base percentuale, capovolgendo i dati delle cifre reali, che - sono quelle concretamente indicative del fenomeno? L'aumento dei consumi (Gli italiani si dividono in nordici e sudici, aveva detto Prampolini; la crescita dei consumi è, appunto, una scelta di civiltà, una liberazione della latitudine tragica e grottesca del Sudicio), l'aumento dei consumi, dicevamo, non è aumento del potere economico, delle possibilità di autopropulsione, delle capacità di «autocomando». Il carattere necessariamente globale di una politica di sviluppo economico è aspramente contestata dalle tesi del1'«efficientismo». Lenti 113 Si vedano i numeri de Il Popolo 7-8-9 ottobre 1967, firme varie; ma anche: G. Ghirardo Una politica nuova per il Mezzogiorno Il Mattino 10 ottobre 1967 143 non tiene conto, o non vuol tener conto, dei rischi anche politici dell'impoverimento umano del Sud, che investono la classe dirigente e gli orientamenti ideologici, cioè le scelte di civiltà che il nostro Paese ha assunto, riproponendo i termini più reali della questione meridionale nell'ormai lontano 1945. Da ciò, il relativismo delle cifre in percentuale, la loro evidente distorsione, che rovescia l'ottica del fenomeno, e l'invito alla «cautela», mentre riecheggiano le parole di Colombo al Convegno di Napoli: «Quel che bisogna fare è usare con incisività il potere di contrattazione politica di cui il governo è investito: potere di contrattazione politica che, pur rispettando l'autonomia delle scelte dei centri imprenditoriali, ne può dirigere l'orientamento (. .. ). Ecco quindi che il discorso sul Mezzogiorno travalica il campo economico e diventa un discorso essenzialmente politico»; e quelle di Pastore: «Tocca al potere politico contrastare le tendenze che portano ancora una volta gli investimenti nelle zone già industrializzate»; e quelle di Rumor: «Il Mezzogiorno ha dunque bisogno di un rinnovato impegno, di una strategia nuova ( ... ). La soluzione del nodo meridionale è componente necessaria allo sviluppo globale del Paese». Tutte cose, queste, di cui non si sentirebbe alcun bisogno, se, come afferma incautamente Lenti, «la prospettiva» fosse realmente cambiata. 7 Lamentandosi della mancanza di raffronti tra quel che succede in Italia, e quel che si è già verificato in altri Paesi, Rodanò fa il confronto fra il Mezzogiorno e l'Irlanda, tra il Mezzogiorno e il Sud degli Stati Uniti. E, tra I'altro, afferma: «Nel Nord si usava attribuire questa debolezza dello sviluppo industriale allo scarso rendimento della manodopera del Sud, e alla mancanza di spirito d'iniziativa dei meridionali. L'esperienza ha dimostrato che la prima accusa era infondata. Quanto alla seconda, è stato messo in rilievo, fra l'altro, che aziende sorte per iniziativa esclusivamente meridionale sono passate sotto controllo del 144 Nord una volta diventate prospere. Questo è accaduto, per esempio, nell'industria del tabacco... Le iniziative meridionali sono state ostacolate dalla povertà di capitali liquidi in cerca di investimenti industriali. Ma, per pochi che siano questi capitali, è un fatto che parte di essi viene collocata nelle grandi piazze del Nord, le quali poi finanziano gli affari del Sud. Inoltre, raccolgono risparmi del Sud le maggiori compagnie di assicurazioni del Nord, le quali hanno grande importanza per il collocamento dei titoli industriali»114. Rodanò sta parlando del Sud degli Stati Uniti. Ma tutto ciò si può dire anche del nostro Mezzogiorno. La coincidenza è straordinaria. Ma l'identità si ferma alle cause, ai precedenti. Non può andare oltre, perchè al Mezzogiorno d'Italia è venuta a mancare una politica rooseveltiana. Ciò relega forse in termini lontani nel futuro la nascita di una California o di un Tennessee al di qua della linea Gotica. Sicchè, da questo punto di vista, restano remore pericolose all'orientamento euromediterraneo dell'economia meridionale. Tutto è ancora da fare, i conti non tornano. E gli orizzonti si restringono ai confini archeologi ci della Nazione. 114 C. Rodanò Il Sud negli Stati Uniti, in Mezzogiorno e sviluppo economico Cap. X, pag. 229. Bari, Laterza 1954. 145 PER UN NUOVO MERIDIONALISMO Quando si rievochi la magnificenza di quelle singolari giornate ci domandiamo qual delitto debbono aver commesso, i riformisti italiani se hanno ridotto queste masse all'ignavia e all'impotenza! Arturo Labriola C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità ... Piero Gobetti Ricercando la tradizione politica nell'Italia meridionale, ho trovato che la sola di cui essa possa trar vanto è appunto quella che mette capo agli uomini di studio e di pensiero, i quali compirono quanto di bene si fece in questo paese, all'anima di questo paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e dischiuse un migliore avvenire e l'unì all'Italia. Benedetto Croce 147 Il vecchio meridionalismo - romantico, impetuoso, talora barricadiero - ormai va morendo. Ed è bene che sia così. Le nuove correnti di pensiero, (relativismo dopo il primo conflitto mondiale, esistenzialismo dopo il secondo; poi, sul piano delle correnti politiche internazionali, quella condizione fumosa da cui di volta in volta hanno avuto origine le nuove alleanze come scelta di civiltà, la nascita dei blocchi, la guerra fredda, il reciproco condizionamento ideologico, l'idea d'un'Europa unita, la coesistenza difficile; infine, i movimenti libertari, il dissolvimento del colonialismo occidentale, la rottura del monolitismo orientale, e, in questi ultimi giorni, una più diffusa ansia di libertà, una più razionale aspirazione al rinnovamento e al progresso, un più rapido processo di affrancamento dalle sacche del sottosviluppo, della fame, della povertà), queste nuove correnti di pensiero, che ormai sono in grado di condizionare e orientare i costumi e i sistemi di vita, le azioni politiche e i programmi economici di interi continenti, hanno certamente influito sull'evoluzione dell'ideologia meridionalista. Anche il confronto con le problematiche proposte dai diversi Sud presenti in ogni Paese (fenomeno che Fortunato mise per primo a fuoco) e le soluzioni prospettate dagli esperti di sociologia e di economia politica hanno avuto un loro peso non trascurabile. Sicchè si sente oggi la necessità della nascita di un meridionalismo nuovo, meno vendicativo e più spregiudicato, meno incriminatore, più lucido e consapevole, che guardi alle cose, e vada più lontano degli steccati angusti in cui si era chiuso venti-trent'anni fa. E' il meridionalismo che si sarebbe dovuto venire già formando dal '50 ad oggi, in due decenni di lento e segreto ripensamento, se non fosse stato coartato dal pericolo costante della sostituzione dell' antica cultura agraria con una 149 cultura industriale altrettanto chiusa, statica e incapace di sollecitare forti movimenti, anche spirituali. Occorre un meridionalismo come moderno umanesimo, che scopra una maniera di realizzarsi al di fuori degli schemi tradizionali. Perciò il problema è anche politico: perchè sarà necessario determinare questa maniera. Vi debbono concorrere tutti, a tutti i livelli, torcendo il collo alle remore storiche, fisiche, psicologiche, che vi si oppongono. Il compito cui sono chiamate le forze meridionaliste – compito non facile, ma nemmeno più disperato - è ancora quello della critica e dell' opposizione, (il meridionalismo è sempre stato opposizione, cioè stimolo e orientamento all'equilibrio politico, economico, amministrativo delle ripartizioni territoriali). Ma è soprattutto quello di creare matrici moderne di discussione, di prospettare soluzioni avanzate dei problemi umani, che dipendono intrinsecamente da quelli spirituali e culturali. E' stato detto che l'industrializzazione del Mezzogiorno deve entrare nella storia dell'industrializzazione europea. Il Mezzogiorno, cioè, dovrebbe configurarsi nel simbolo del pionierismo del ventunesimo secolo. La cultura economica italiana, in risposta a questa legittima aspirazione, (legittima e logica, di fronte ai problemi di sviluppo imposti dall'Europa comunitaria, e di fronte al superamento del divario tecnologico euro-americano), sembra avere scoperto per il Sud l'industria dell'Ottocento, con le cattedrali spettacolari e solitarie, alte e chiuse sulla vasta corte dei miracoli del Mezzogiorno. Ciò, sebbene ci siano strumenti speciali che, bene o male, operano da tempo, svolgendo compiti di collegamento fra Stato e governo da una parte, società e ambiente fisico dall'altra; sebbene esista una programmazione che dovrebbe avere compiti e orientamenti precisi, chiari, corretti, primo fra tutti quello del riequilibrio fra le due Italie; sebbene siano in ballo organismi europei che guardano con simpatia al Mezzogiorno e ne indicano lo sviluppo come componente necessaria dell'avanzamento globale dell'area comunitaria; sebbene, infine, ci sia un'aria nuova nel Paese, anzi 150 negli italiani, ed è un'aria di più aperta fiducia, di più larga comprensione dei problemi che, affliggendo il Sud, non possono rendere allegro il Nord. Questo è certo il fatto più incoraggiante, ricollegabile oltre tutto ai movimenti migratori, alla calata di operai e tecnici dal Nord, alle escursioni turistiche, ai rapporti commerciali, a tutta la non trascurabile cultura che in clima di democrazia si è formata negli strati medi italiani. Tutto questo è importante. Una politica che non sapesse – o potesse, volesse - proiettarsi nelle nuove dimensioni spirituali e fisiche offerte dalla società postbellica sarebbe misoneista, screditata, inattuale. Mentre in un mondo che tende a superare il concetto stesso delle strutture archeologiche della nazione, che si muove verso frontiere più ampie, e porta istanze e aspirazioni di portata continentale, ogni corrente di pensiero, ogni fatto ideologico, ogni posizione politica ed economica, devono esprimere un'azione moderna, lungimirante, libera dalle scorie preistoriche del passato, calata in un fuso orario che è quello degli uomini che passeggiano tra le stelle, che sfiorano pianeti sconosciuti, che frugano tra le vie lattee, e sognano cieli più lontani. La crisi reale è qui, nella tensione per il difficile trapasso che deve pur verificarsi; nella tensione per un moderno impegno intellettuale e politico che porti a compimento la trasformazione spirituale, oltre che sociale, delle popolazioni meridionali; nella tensione per la ricerca di un dover essere, cioè di un dinamismo aggressivo, bruciante, senza il quale ci sarà solo la recessione e il condizionamento delle forze di contestazione, e il meridionalismo resterà vincolato all'astrazione delle sue memorie e al culto delle sue speranze. E il Mezzogiorno, ascetico e sibarita, alla sua millenaria arretratezza. 151 MEZZOGIORNO A PASSO D'UOMO Pazza estate del Sud che abbagli nei paesi bianchi di calce... E. Bonea E' questo il Salento bruciato dal sole ove il cielo del Sud avaro di piogge ha sotto gli occhi schiene curvate, some dal cuore in pena : ove sirene di cantieri 3000 antichi rumori di zappe. L. Romano Una terra d'ingenuità e d'innocenza (docili contorni di bistro gibbe del mare discinto dal mite Gargano) ove l'eco che sa di rive umane sosta al plenilunio delle greggi e fa di rupe il canto in gola ai bimbi lunghe croci verdi sull'argilla bianca cocci d'ombra in tetti senza voli d'attesa o di ritorno ... A. Bello 153 LE DUE LUCANIE 155 «Distese di monti nudi e brulli, senza qualsiasi produzione, senza quasi un fil d'erba, e avvallamenti altrettanto improduttivi ... Al desolato silenzio dei monti e delle valli, succede il mortifero piano, dove i fiumi sconfinati scacciano le colture...» Queste parole furono pronunciate da Giuseppe Zanardelli, primo presidente del Consiglio ad aver visitato la Lucania, nel settembre del 1902. E la loro eco, a tratti, qui sembra prolungarsi all'infinito, scolpirsi sulle pietre e sugli olivi, poi rintanarsi fra i calanchi «alla calabrese », che tagliano trasversalmente la montagna, cupi e incomunicanti, aggiungendo l'orrido al desolato. E' la Lucania più vera, questa, sopravvissuta ad una storia che, tranne gli splendori della Magna Grecia, non ha conosciuto che miseria economica e sociale. E infarti geologici. Perchè la geologia, che in tutto il Sud gioca un ruolo importante, è stata alla base del «circuito di depressione» che ha caratterizzato la Lucania di sempre, tagliandone il carattere e il temperamento umano. E ne ha giustificato la concezione pessimistica della storia. A parte alcune - pur notevoli, ma limitate - variazioni, queste montagne potentine e materane sono restate in parte come nel 1902. Le valli, le «grandi vallate» che si snodano dall'interno al mare, tranne che nelle aree costiere prossime al confine pugliese, son quasi come ai primi del secolo, dorsali calve con paesi come necropoli, e plaghe con campi senza reddito. Il male oscuro della Lucania è nell'essersi fermata nella storia. O nell'essere stata costretta a fermarvisi. Perchè? 2 Cominciamo dall' organizzazione economico-produttiva. Una recente inchiesta ha messo in rilievo che questa, in Lucania, ha costante157 mente sofferto dell'impoverimento delle migliori energie e dei redditi. Da qui emigravano, e continuano ad emigrare, uomini e capitali. In generale, il reddito è costituito in massima parte dall'agricoltura, è quasi esclusivamente fondiario. A questo fenomeno si accompagna l'altro, altrettanto fatale: è quello dell'immobilismo del risparmio realizzato sulla quota del reddito percepito dai lavoratori dell'agricoltura. Costoro lavorano per tutta una vita, e accantonano a durissimo prezzo risparmi che consentono loro di acquistare un pugno di terra. Si calcola che nel giro di ogni generazione almeno il venticinque per cento della terra viene venduta. Sicchè, la popolazione rurale lucana lavora per accumulare risparmi capaci di acquistare ogni quattro generazioni la terra, e la sua contropartita, cioè il reddito prodotto e risparmiato per l'acquisto di essa, viene regolarmente trasferito fuori regione. Ci si rende conto, allora, di come sia storicamente determinato un perpetuo circuito della povertà, con i caratteri tipici dell'area depressa: bassi livelli di produzione, di reddito, di consumo, secondo un circolo consueto e diffusamente noto. Per anni, per secoli, la crescita economica è rimasta statica. Inesistente, o quasi, la crescita umana. Nel 1890, in Lucania, l'analfabetismo raggiungeva il novantadue per cento della popolazione. Tra le donne toccava il novantotto per cento. All'atto dell'unità politica, su 124 comuni solo 62 avevano un cimitero. In tutta la regione, solo fino a vent'anni fa, esistevano tre tipi di scuole secondarie, sicchè a Melfi i diplomati erano tutti maestri elementari, a Matera periti agrari, a Potenza geometri. 3 Poi, la struttura geologica. Se le valli sono tormentate e sconnesse, le catene montuose, rotte dai calanchi, subiscono metamorfosi profonde. E' il paese abbagliante che d'estate ha il colore del deserto. Dopo i grandi disboscamenti, il lieve strato di terra coltivabile è stato dilavato dal tempo: l'argilla bianca si stende a perdita d'occhio, da un orizzonte 158 all'altro, calando dai monti, configurandosi in coni stranissimi, coprendosi d'una repellente peluria d'erba. D'estate i fiumi sono fiumare di pietrisco lunare con qualche stagno malarico. D'inverno si tramutano in torrenti rovinosi, che dilagano nelle pianure e nelle depressioni, dove gli argini naturali si interrompono, e dal novembre all'aprile fanno di molti campi di grano putride risaie. La Cassa per il Mezzogiorno e l'Ente Riforma hanno fatto cose inutili quando hanno costruito strade e fattorie sui terreni più infidi. Da millenni la Lucania muore di mal di frana. Il sessanta per cento della superficie è montano, il trenta per cento collinare. La pianura, all'interno, è sempre fondovalle, dissestata dalla violenza delle acque. Gli altopiani di Matera son Puglia depressa con colture cerealicole a perdita d'occhio, e ortaggi da Taranto a Metaponto. Il potentino è in gran parte un'appendice irpina e campana. Dei cinque maggiori fiumi che affettano la regione, il Basento è quello che meglio divide i lucani: nel linguaggio, nei pensieri, nelle opere, nelle aspirazioni. Il Basento è l'immagine concreta della linea di demarcazione psicologica e intellettuale che spacca in due terra e genti lucane. Perchè la Lucania non è una. Vi sono due Lucanie, di qua e di là del Basento. E tutte e due hanno un muro nel cuore. 4 La Lucania, linguisticamente, come costume, come economia, come mentalità è divisa in linea verticale. Vi è quella napoletana, nel potentino, dove l'accento ha cadenze partenopee e la società, sia pure in maniera meno vistosa e con caratteristiche più agresti, rispecchia il modello cui si è ispirata. E vi è quella appula, del materano, con l'innesto del dialetto barese e tarantino, con l'influenza di quelle strutture sociali, con l'espansione dei fermenti pratici che sono di estrazione tutta pugliese. Se i poli di attrazione sono per Potenza in Campania, le cittàpilota per Matera sono ad est. E la ragione non è soltanto nella geografia, ma nell'opera di penetrazione svolta da due tipi di civiltà, la cui de159 finizione, in un certo senso generica, ma in qualche modo illuminante, può essere quella di una civiltà tradizionale, e tuttavia stanca ed usurata, come la napoletana; e di una civiltà, la pugliese, anch'essa tradizionale, ma arricchita dal fervore speculativo e d'iniziativa del triangolo centrale della regione. Due cordoni, dunque, uniscono la Lucania a Napoli e a Bari. Il primo, più lungo e tormentato, passa attraverso le montagne il cui versante occidentale si affaccia sul Tirreno, a Maratea, sceiccato dal conte Rivetti, calato dal Nord a farvi un centro estivo per miliardari il secondo è più breve ed agevole, poichè per scendere in pianura ha da scavalcare soltanto i modesti rilievi delle ultime Murge. Napoli e Bari sono le case-madri, con le industrie, gli sbocchi commerciali, ferroviari e marittimi, i centri universitari. La Calabria, a dispetto della ferrovia che collega le due regioni, celeberrima per la sua lentezza, l'inefficienza e i passivi che accumula anno per anno, è un mondo lontano. 5 Forse come poche altre regioni meridionali, la Lucania ha registrato un movimento migratorio di tali proporzioni, da restare come modello di studio tipico tra le regioni depresse dei bacini mediterranei. Il motivo primo e fondamentale della fuga dalle terre, verificatosi dieci o quindici anni fa, e tuttora agente, non è soltanto interno alla regione, ma anche esterno ad essa: è rappresentato dal rapido sviluppo economico dell'intero paese e dell'Europa occidentale, ove si sono aperte alternative di lavoro e di guadagno per i contadini lucani. Il processo ha, sotto alcuni aspetti, caratteristiche simili a quelle del grande flusso migratorio verificatosi tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro. Le differenze, tuttavia, sono profonde: All'emigrazione transoceanica di allora, si è sostituita quella prevalentemente diretta verso l'interno e verso l'Europa; al profondo desiderio di ritorno ai paesi d'origine e all'agricoltura di molti emigrati d'una volta, si è sostituito un 160 desiderio di abbandono dell'agricoltura negli emigrati d'oggi, anche se in questa prima fa e della ripresa dell'emigrazione non è ancora seguito in misura rilevante l'esodo di interi nuclei familiari, e anche se sussiste ancora una latente incertezza sul modo e il luogo definitivi di insediamento. Dice Rossi Doria: «Poichè sempre più chiaramente si accentua e si definisce, specie tra i giovani, il ripudio dell'occupazione agricola e l'aspirazione ai redditi e ai consumi delle società urbane a sviluppo economico avanzato, è chiaro che il processo attuale non ha limiti in se stesso, e si trova in questi anni nel bel mezzo di uno sviluppo destinato inevitabilmente a continuare, anche se con qualche arresto e rallentamento per effetto di situazioni congiunturali particolari, o per le specifiche difficoltà di adattamento degli emigrati alle nuove condizioni». Le previsioni nei riguardi dei futuri viluppi dell'esodo non possono ovviamente pretendere in queste condizioni alcuna sicurezza. Troppe sono le incognite che possono influire su questo fenomeno. In ogni caso, partendo dalla obiettiva valutazione di alcuni dati di fatto, e in base ad alcune valide ipotesi, i limiti di questa incertezza possono essere ragionevolmente ridotti. Il piano di sviluppo della regione, per avere un senso, dev'essere realizzato in relazione non alla situazione odierna, ma a quella che potrà raggiungere la sua piena maturità da qui a vent'anni, verso il 1990. Per quanto tutto questo sia difficile, il piano dovrà sforzarsi di formulare previsioni ragionate, riferite a quell'epoca nei riguardi dei redditi pro-capite allora accettabili, dell'organizzazione dell'economia regionale capace di assicurarli, delle forze di lavoro suscettibili di trovare occupazione in quell'economia a quel livello di redditi, e di conseguenza della popolazione complessiva della regione lucana in quell'epoca. Per quel che riguarda i redditi, è sciocco e pericoloso tentare di sfuggire al dilemma che gli economisti pongono da tempo in modo più che esplicito: in una società caratterizzata dalla piena occupazione e da un continuo accrescimento dei redditi personali non possono reggere a lungo posizioni di reddito agricolo gravemente sperequate rispetto a 161 quelle prevalenti nella società circostante. La prospettiva di trattenere nei paesi della Lucania popolazioni con redditi simili o di poco superiori a quelli fino a questo momento goduti è completamente errata. Chi ancora si illude che questa possa essere una prospettiva reale, di fatto presuppone un'ipotesi non valida e irreale se riferita a tempi lunghi, chiusi in un cerchio di miseria, e quindi incapaci di aprirsi ad un sostanziale miglioramento delle condizioni economiche e civili. Poichè non è su di una ipotesi di questo genere che il piano può essere realizzato, occorre da un lato ipotizzare redditi pro-capite di livello corrispondente a quello esistente in una società industriale sviluppata, e dall'altro cercare un'organizzazione dell'economia in grado di assicurarli. Nella determinazione del livello dei redditi cui mirare, sarà certamente opportuno non «inseguire il miraggio dei redditi unitari molto elevati, almeno a breve termine, raggiunti in altri paesi e certamente raggiungibili anche nel nostro, allo stesso modo che può esser lecito un certo posto all'ipotesi che, al di sopra di un certo livello, i redditi agricoli possano reggere il confronto con redditi extragricoli più elevati, in considerazione del fatto che questi possano essere più incerti e sprovvisti delle attrattive di una vita più indipendente e più vicina alla natura». Tenendo conto di queste considerazioni, come ipotesi di prima approssimazione pare ragionevole mirare a redditi corrispondenti ad un prodotto netto compreso tra 700 mila e un milione di lire 1967 per ogni unità lavoratrice. Naturalmente, tale ipotesi corrisponde, per così dire, ad uno stadio finale dell'evoluzione dell'economia della regione, da raggiungersi entro venti-venticinque anni, e quindi lascia supporre livelli di reddito minori nel periodo intermedio. Malgrado questa limitazione, comunque, l'ipotesi è tale da dover essere presa a base del piano fin dall'inizio, dal momento che da oggi è necessario creare i presupposti per un ordinamento dell'economia regionale in grado di assicurare quei redditi al termine della fase evolutiva. Ciò non significa chiudere la Lucania negli angusti limiti delle economie regionali, o nell'autarchi162 a. Tutt'altro. Occorre aprirla verso obiettivi che superino i confini storico-geografici, e portarla sul piano della più stretta collaborazione con le altre regioni, esclusa la Calabria. In questo senso pare sia definitivamente orientata l'opera della Cassa. In questa direzione son volti gli interventi di tutte le istituzioni che si occupano del Sud. 6 Il professor Scardaccione ha avuto occasione di dire che la chiave di tutto, in Lucania, è l'acqua. Le infrastrutture fondamentali sono le strade e le scuole, che stanno per essere di volta in volta realizzate. Ma la chiave di volta resta l'acqua. C'è un progetto approvato dalla Cassa, che interessa la Lucania, la Puglia e I'Irpinia. Pare che sfruttando le acque dei fiumi Fortore, Ofanto, Tara, Bradano, Basento, Cavone, Agri e Sinni, si possano mettere insieme ben tre miliardi e trecento milioni di metri cubi d'acqua all'anno, sufficienti per irrigare mezzo milione di ettari. Il progetto prevede, appunto, la costruzione di un grande canale che, partendo dal Fortore, entri nella Capitanata, scenda lungo il mare per la costa pugliese, arrivi nel Salento, quindi pieghi verso Metaponto, risalga le valli lucane lungo i cinque fiumi che tagliano la regione, faccia perno sull'imponente diga del Pertusillo, e attraverso l'Irpinia si ricongiunga in Puglia sull'Ofanto. E' un quadrilatero di scorrimento che dovrebbe trasformare anche la Lucania, tuttora sitibonda, in una regione irrigua e rigogliosa, in una fascia interamente metapontina. Ma, com'è dato vedere, non è possibile continuare un'opera infrastrutturale di grande respiro, se non la si imposta in funzione di almeno uno di quei due cordoni di cui parlavamo. Acqua o industrie, commerci o università, strade e metanodotti , devono passare attraverso la terra delle casemadri, in Puglia o in Campania. Per la Puglia il discorso è facile, col triangolo che si è formato, e al quale la stessa Comunità Europea ha finito con l'interessarsi. Per la Campania, oltre tutto, esiste anche una ragione storica. Salerno e il Vallo, com'è noto, furono staccati durante, 163 il fascismo dalla regione lucana. Elevata a capoluogo di provincia, Salerno sostituì l'antifascista Caserta, ridotta a semplice comune. Con la Repubblica, Caserta è tornata capoluogo, Salerno non è stata declassata, ma neanche ricongiunta alla regione d'origine. La Lucania, così, è rimasta strozzata a nord-ovest, proprio nel punto in cui la Campania vede originarsi i suoi grandi centri industriali, che attraverso Salerno, Caserta, Napoli e la Valle del Sacco, sboccano nell'area della Capitale. Le grandi macchine, qui, si sono fermate prima di Eboli. Per Eboli, sotto questa città arroccata su uno sperone incuneato nel cielo, passa per ora il nastro dell'Autostrada. Forse è una promessa. 7 L'altra Lucania è a sud, a ridosso delle colonne joniche che segnarono a Metaponto l'inizio della penetrazione greca. Metaponto è l'immagine sintetica di quel che potrebbe essere questa regione se, in pochi anni, si realizzasse una decisa volontà politica di riconquista e di recupero civile ed economico del Sud. Per dare un nuovo volto al metapontino sono occorsi dieci anni di intenso lavoro, una forte ripresa dell'iniziativa pubblica e privata, l'elettrificazione delle campagne e alcune dighe di sbarramento sui fiumi. Oggi, là dove erano le zone più selvagge, aride e improduttive della Lucania, si susseguono lunghe file di poderi coltivati a ulivi, viti, ortaggi. Le macchine agricole sono entrate in scena a recitare una parte di primo piano, insieme con la vasta rete di canali irrigui che si estendono dalle terrazze alle pianure comprese tra Bernalda, Ginosa, Montescaglioso e Pisticci, prima di perdersi sotto le terre argillose di Taranto salentina. A oriente del Basento, anche il Bradano offre le sue acque alla terra. Metaponto è al centro di questo immenso bacino di bonifica, nel quale, per la prima volta nella povera storia e nella poverissima economia della regione, si va realizzando un nuovo tipo di industrializzazione, quello dell'«agricoltura a tre piani», come dicono i tecnici. E' l'agricoltura specializzata, quella 164 che rende di più. Dov'erano le stalle, ora ci sono i garages: quando vi lasciano il trattore, i nuovi contadini tirano fuori l'utilitaria. Sulle terrazze bianche di calce svetta l'antenna televisiva. Un ettaro di questa terra, allo stato attuale, cosa tre milioni di lire. Lavorando su cinque o sei ettari, una famiglia-tipo di quattro persone può raggiungere un reddito annuo che sfiora i due milioni. Questa splendida realtà ha già riflessi positivi. Si pensi che in un'area di settanta chilometri quadrati, nella provincia di Matera, ove vent'anni fa abitavano appena tremila persone, oggi ve ne sono ottomila. E vivono in grandissima parte dell'agricoltura. A Policoro l'antica Eraclea: era poco meno di un vetusto borgo feudale, dominato da un terribile castello - gli abitanti sono rapidamente saliti da cinquecento a seimila. E già parlano un altro linguaggio: piano regolatore, turismo, centri culturali, rilancio dell'artigianato e della piccola industria, sistemazione della zona costiera, richiamo di capitali. Di qui la gente non scappa. L'industria ce l'ha in casa, a portata di mano. E' la terra. L'emigrazione non esiste come problema di fondo. Gli uomini non aspettano il progresso, se lo fabbricano giorno per giorno. C'è lavoro, qui, per intere generazioni. Ed è lavoro da pionieri. Perchè il pionierismo è la nuova frontiera della Lucania. 8 A compiere il miracolo iniziale è stata la diga di San Giuliano. Opera imponente, è costata dieci miliardi di lire. Irriga dodicimila ettari, cinquemila dei quali in terra pugliese. Ad ovest, la diga del Pertusillo segna l'altro caposaldo delle grandi infrastrutture irrigue. Quelle delle comunicazioni, oltre all'autostrada del Sole, hanno visto crescere la bradanica e la basentana, che rompono l'isolamento della regione e la inseriscono nei grandi circuiti del Mezzogiorno. Oltre Eboli, sia pure timidamente, Cristo va spingendosi all'interno. 165 9 La costituzione di un grande demanio silvo-pastorale (industrializzato) per le zone montane è obiettivo non nuovo, dal momento che esso era già chiaro nei disegni dei nostri maggiori meridionalisti. Nitti nel 1908 concludendo alla Camera uno dei suoi interventi in favore del Mezzogiorno, ebbe a dire fra l'altro: «Per la Basilicata e la Calabria sono all'incirca un milione di ettari da espropriare, e rimboschire (...) I proprietari riceverebbero capitale circolante e potrebbero formare l'industria armentizia; le sistemazioni idrauliche sarebbero possibili (...) Noi dobbiamo preparare il grande demanio dello Stato, delle acque e dei boschi, che ci renderà più facile lo sviluppo industriale». Rossi Doria, facendo sua l'idea, ha parlato di cento miliardi di lire per la montagna lucana, le attrezzature demaniali e le principali opere di difesa idraulica. Il vasto ranch dovrebbe comprendere sostanzialmente tutta la regione centro-settentrionale. Comunque, una superficie minima di 450-500 mila ettari. Nessuno ignora, o può nascondersi, le gravi difficoltà di ordine tecnico e finanziario che l'operazione presenta: ma se è vero, com'è vero, che non esiste altra razionale alternativa per un organico processo di assestamento della economia montana regionale, quest'impegno va sostenuto, imposto se necessario, anche per la particolare validità che i risultati assicurano. Tra gli altri, vanno messi in rilievo: la ricostituzione e gestione dei complessi boschivi a sicura utilizzazione forestale, anche ai fini dello sviluppo turistico; il miglioramento dei pascoli e l'approntamento delle attrezzature al servizio degli allevamenti; l'organizzazione dei servizi di assistenza tecnica e sanitaria in favore degli allevatori, e dello sviluppo della cooperazione; l'impegno per la conservazione del suolo e per la sistemazione dei bacini torrentizi e fluviali; l'assistenza agli emigranti, che dovrebbero esser posti nella condizione di liquidare al prezzo migliore le loro consistenze patrimoniali, per disporre dei mezzi indispensabili per il loro definitivo insediamento nei nuovi luoghi di lavoro. 166 A questo punto occorre fare un discorso difficile. Decine di paesi, squallidi cimiteri di uomini, senza scuole, senza ospedali, senza servizi sanitari, senza uffici, stanno arrampicati su vette solitarie, lontani dai grandi e piccoli centri vitali della regione. Furono costruiti, questi covi di miseria, al tempo delle invasioni barbaresche, quando la costa e la pianura erano infide, quando la malaria si annidò nell'anima dei lucani, e vi restò per intere generazioni, quando, fin dal 1865, si disboscarono le terre alte per cacciarvi i briganti borbonici e papalini. Lontani dalle campagne a buon reddito, dalle vie di comunicazione, dalle strade ferrate, dai mercati, isolati in un grigio mondo di fantasmi remoti, questi villaggi racchiudono in tragici lager senza scampo migliaia di uomini, destinati all'emigrazione, all'analfabetismo, al sottosviluppo. Vi restano non solo perché la tradizione, il culto dei morti e delle memorie del tempo ve li tengono legati. Ma soprattutto perchè non hanno alternative. Mancano le scelte più elementari. Qualcuno ha indicato una soluzione: facciamo emigrare dalla regione duecentomila uomini, sbattiamoli fuori dalla porta, l'Italia è grande, l'Europa lo è di più, poi cominciamo a guardarci intorno, e vediamo un pò quel che si può fare. Avremmo così duecentomila nuovi negri bianchi sulle piazze italiane ed europee, bassa forza da acquistare sottocosto per un nuovo boom illusorio. La Lucania non è tra i primi posti nella graduatoria demografica. Ma è quasi all'ultimo in quella di qualsiasi forma di sviluppo, di patrimonio infrastrutturale, di indice di progresso. Sulla altra parte della barricata, i politici locali hanno paura di perdere una larga fetta di voti con l'esilio di quattrocentomila braccia clientelari. Allora? Allora le cose stanno al punto di prima, la corda si tende, ma piano, nessuno ha interesse a spezzarla. E nessuno, soprattutto, avanza l'ipotesi, audace ma non onirica, di trasferire questi uomini in pianura, o nelle colline, di farli scendere dalle montagne, fermadovi solo le frane, di portarli nelle grandi vallate, con scuole e ospedali e trattori e buone case e ambulatori e centri di addestramento. Prima che rovinino da se stessi, questi 167 campi di concentramento vanno rasi al suolo. Qui entrerebbe in ballo tutto un discorso sull'urbanistica sociale, che non è soltanto della Lucania, e forse non soltanto del Mezzogiorno. Ma è certo che non sarà possibile esprimersi in termini di futuro sviluppo a parità di redditi, nè sulla scorta della programmazione, nè su quella della politica regionale, nè sull'altra, degli interventi speciali, fino a quando migliaia di giovani (età media: diciassette anni) saranno analfabeti di ritorno, coltiveranno la terra come si gioca al lotto, pascoleranno le mandrie nel deserto delle argille, oltre il quale sanno di non poter mai andare. 10 Fu Pasquale Villari, se la memoria non mi tradisce, quand'era ministro della Pubblica Istruzione nel primo gabinetto Rudinì, ad affidare a Renato Fucini l'incarico di scrivere una serie di articoli su terre ed uomini del Napoletano e della Basilicata. Villari aveva capito che, a sfatare la leggenda che aveva trasformato in una massa di banditi, di sfaticati e di pezzenti due tra i popoli più destri, intelligenti e simpatici della penisola, occorreva la penna agile e incisiva di uno scrittore insospettabile e spregiudicato, che «ad occhio nudo» guardasse aspetti, tradizioni, problemi, interessi antichi e nuovi delle due regioni, ricomponendone negli schemi più veritieri e significativi l'immagine integrale. Questo vorremmo che si verificasse, ancora una volta, oggi, a distanza di tanti anni, per la terra lucana. Che fosse quasi riscoperta, col cuore schietto, da chi sa vedere e raccontare. Non è compito facile. La Lucania è terra varia e ricca, a modo suo. Ma profondamente sfiduciata. Nel passato, l'aurea massima della «legge uguale per tutti» potè risvegliare il senso critico dei lucani, che proprio nel diritto cercarono quella fiducia che, al fuoco delle passioni, pareva vacillare. Solo appoggiandosi al diritto riuscirono - e talora riescono anche oggi - a mettere un pò d'ordine nell'intricatissima situazione che ha accompagnato sempre la loro condizione umana. Occorrerebbe riscoprirla, questa terra di grandi giu168 risti,che correvano a Napoli ad ascoltare Settembrini e De Sanctis, e che leggevano Petruccelli della Gattina, creatore del «colore» giornalistico il quale nel 1861, preso anche lui dalla « malattia del giudizio », che è tutta Lucana, ancor prima che partenopea, scriveva: «La Camera italiana si compone di 443 deputati: ossia sopra una popolazione di circa 23 milioni, un deputato ogni 60 mila abitanti. Sono già state convalidate 438 elezioni: presto saranno decise le altre. Di questi 438 deputati, a parte sette dimissionari e cinque morti che, beninteso, non contano più, due sono principi, tre duchi, 29 conti; 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori o gran croci; 17 cavalieri, dei quali tre della Legion d'Onore; un centinaio d'avvocati, 25 medici, 21 ingegneri; dieci preti, fra cui Apollo Sanguinetti, uno dei più ostinati seccatori del Ministero ...; un prelato, quattro ammiragli, 23 generali, tredici magistrati; 52 professori o ex professori o che si danno come tali; tredici colonnelli, sei maggiori, cinque Consiglieri di Stato ...; un bey dell'Impero Ottomano, l'onorevole Paternostro; due ex dittatori, due ex prodittatori, nove ex ministri, sei o sette milionari, cinque banchieri, otto commercianti; 25 nobili senza titolo, altri senza professione; quattro soli letterati, e Verdi, il maestro Verdi. Non si dirà, certo, che il nostro sia un parlamento democratico. V'è tutto, meno il popolo». 11 Si racconta che De Gasperi, al suo primo viaggio nel Meridione, giunto a Matera, non riuscì a trattenere le lacrime quando fu fatto affacciare sulla squallida gora rocciosa, allora formicolante di povera gente, che racchiudeva i «Sassi». Erano uomini e donne a nero, che parevano cacciati laggiù da una biblica maledizione, muti, inchiodati sotto un sole a picco, grottesche figure col tricolore issato sulle mani. Niente di teatrale. Era una fetta di vita, come dicono i francesi. Un grosso pezzo di storia, d'una civiltà alla rovescia, su cui erano passati anni e regimi, dinastie e parlamenti e dittature, inchieste di scrittori e 169 viaggi di ministri d'ogni ordine. Ma la Lucania restava là, come ora resta in tanti suoi paesi-cimitero dalle mura nere di tempo, a testimoniare, senza più neanche indignazione, quanto fallace fu quella definizione che, accomunandola alla Campania, la voleva felix. 12 Ha scritto Sigfrido Ciccotti: «Bastano i brevi cenni che precedono per dare un'idea di quale potrebbe essere la ipotetica funzione dell'Ente Regione in una ben ordinata politica di sviluppo delle aree depresse. C'è da fare subito una considerazione: nel caso della Lucania, ed anche in altri casi, i confini della Regione amministrativa non coincidono in nessun modo con i limiti naturali di aree omogenee per le quali possa essere deciso un determinato tipo di intervento. ( ...) La zona Maratea-Lagonegro ha caratteristiche tali che la avvicinano alle contigue zone del Cilento, in provincia di Salerno; la zona di Baragliano versa le sue acque nel Tanagro, ed è naturalmente tributaria della parte settentrionale della provincia di Salerno; il Melfese si affaccia a sua volta sulla valle dell'Ofanto, e qualsiasi sistemazione idraulica dovrà essere coordinata con le opere da realizzare nelle confinanti province di Foggia e di Bari. D'altra parte, il bacino del Bradano invade una parte della provincia di Bari e di Taranto, restando compresi in questa zona alcuni centri importanti, come Gravina. In conseguenza, un comprensorio delimitato secondo un piano razionale, che tenesse in conto la necessità di una sistemazione integrale, lascerebbe fuori dai confini della Lucania, ad ovest a nord circa un quarto della superficie totale, mentre annetterebbe all'est una larga striscia di territorio pugliese. Per quanto si riferisce alla Lucania, la conclusione è dunque che l'Ente Regione non avrebbe funzione alcuna in una politica coordinata di sviluppo, e che se una funzione si pretendesse assegnarle, essa risulterebbe artificiale, e quindi sorgente di interferenze, di contrasti e di appesantimenti burocratici». 170 Qui non c'entra una politica regionalista o antiregionalista. Qui si guarda «alle cose». E le cose dicono che la Lucania non è regione omogenea che i lucani stessi stanno parte di qua, parte di là, parte nel mezzo. Lucania e lucani restano col muro nel cuore. C’e anche da temere che l'antica, drammatica provvisorietà di questa condizione finisca col cristallizzarsi nel definitivo, compromettendo anche quelle basi potenziali che gli ottimisti fanno coincidere con programmi futuribles, ma che i pessimisti vedono sempre ancorate ad un passato di fame e di abbandono. A toglierlo, quel muro, serve un miracolo. Un miracolo che in queste terre si attende, con certosina pazienza, da secoli, e che in poesia è stato offerto, per tutti, da quel Rocco Scotellaro, poeta-contadino di Tricarico, scoperto da Levi, sindaco del Fronte Popolare prima di morire giovane e deluso per la mancanza di solidarietà dei suoi stessi compagni di partito. Quel miracolo ha tanti nomi. O un nome solo: progresso. Perché il progresso, in Lucania, per i lucani, ancor oggi, ha la luminosa dimensione di un miraggio. 171 LE " ISOLE" CALABRESI 173 Narra splendidamente il faziosissimo Répaci: quando fu il giorno della Calabria, Dio si trovò in pugno quindicimila chilometri quadrati di argilla verde con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse creare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un maschio vigore creativo il Signore, e promise a se tesso di fare un capolavoro. Si mise all'opera, e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawai, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi ... Volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl'infelici aiutati, le persone fiere leali socievoli e ospitali, le bestie amate. Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l'acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante. Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro, il Signore fu preso da una dolce sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l'analfabetismo, il punto d'onore, la gelosia, l'Onorata Società, la vendetta, l'omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l'emigrazione. Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l'acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno della giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza. Il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne 175 soddisfatto del suo lavoro, e toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore. Quando, aperti gli occhi, potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente rasserenandosi, disse: - Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati, e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l'ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu, c'a notti è fatta. Una notte che già contiene l'albore del giorno. La Calabria, così, terra di violentissimi contrasti, prima ancora che espressione geografica, significò fierezza, categoria morale. 2 Il diavolo diede alla Calabria, per i secoli, il primato dell'analfabetismo. Ma il Signore le assegnò Pitagora, Orfeo, Democede, Alemeone, Aristeo, Filolao, Zeleuco, Ibico, Clearco, Cassiodoro, San Nilo, Gioachino da Fiore, Fra' Barlaam, un San Francesco, Telesio, il Parrasio, il Gravina, Campanella, Mattia Preti, Galluppi, Cilea, Corrado Alvaro e Lorenzo Calogero. Ebbe dalle forze dell'inferno le frane micidiali, le montagne calve, le lavine, i colli che smottano, i fiumi che straripano d'inverno e muoiono d'estate, i paesi che crollano, le valli che s'irrachitiscono. E su questa terra lunare crebbero la Cattolica, il Pathirion, l'Evangeliario Purpureo, la Torre Normanna, i Pinakes, il santuario di Persefone, il Battistero a Rotonda, i templi della Roccelletta e di Hera Lacinia, le cattedrali, la zecca, la Basilica della Trinità, l'Abbaziale, i duomi, la Badia Florense, il San Michele, i castelli, le mura, il tempio di Artemide Facellide, le necropoli della prima età del ferro, i cimiteri romani e la tomba di Alarico. E la Calabria è la terra che ha dato più morti al Carso e a MarcinelIe, ad El Alamein e a Mattmark. Erano gli onesti calabresi della fe176 deltà coniugale, dell'amicizia per la pelle, dei patti mantenuti, del coraggio, dell'amore per il lavoro. E della delinquenza, della violenza, della tracotanza provocatoria, dell'onore, del delitto per commissione, della lupara da mafia e da camorra. Da 'ndranghete, come si dice quaggiù. 3 Santino Fasano, cosentino, che si sente vecchio a trentaquattro anni, (in Calabria i giovani invecchiano molto presto. E' un dato piscofisico non ancora esplorato. Sono oppressi dai pensieri, che premono sulle energie spirituali, non per ucciderle, ma per dirozzarle), sta raccogliendo i suoi «racconti giovanili». In Morte di un cavallo dice di un'intera famiglia che precipita nella miseria, perchè, morto il cavallo, è venuto a mancare il lavoro, che qui è il miglior companatico del pane. Il protagonista è un calabrese qualunque, d'un qualsiasi tempo. Un calabrese che cerca un altro cavallo. Chi lo ascolta? Chi lo aiuta? Nel suo lamento è il rancore cupo, monotono, di un popolo. Infine, fasciato di cenci grotteschi, si rivolge a un politico. Vorrebbe un prestito bancario per un cavallo che è pane, lavoro, indipendenza. Un cavallo che è una meta. Freddo, solenne, il politico lo ascolta. Poi lo fulmina: - Di che partito sei? Terrorizzato, l'uomo non riesce a balbettare una risposta. Ora sa che il suo cavallo è morto per sempre. E scompare, solo, con la sua fame. La fame che conosco meglio è quella che prospera in Calabria. E' una fame immensa, entrata nell'aria che si respira e nel sangue che pulsa, nascosta come una sventura di famiglia, eterna e tenace nella sua carica di febbre permanente. Scrisse Malaparte un anno prima di morire: «Sulla fame è fondata tutta la storia tutta la civiltà del popolo italiano, tutta l'arte italiana tutta la cultura italiana. Dalla fame, come tutta la vita dal grembo di Cerere, come tutte le speranze dal grembo di Maria, nascono tutte le nostre cose buone e tutte le nostre cose cat177 tive, tutte le nostre virtù e tutti i nostri vizi. Dalla fame son nate tutte le miserie e tutte le grandezze della nostra storia nazionale. La fame è la nostra mamma. La fame è la madre d'Italia. E non s'intende la storia d'Italia se alla parola libertà, alla parola giustizia, non si sostituisce la parola fame. Perché fame vuol dire speranza. In ogni altro paese del mondo fame vuol dire disperazione». In Calabria questa speranza si coltiva come un fiore di serra. Non tanto a Reggio, a Cosenza, a Catanzaro, che viste da sole danno un'impressione falsa di questa regione. Quanto all'interno, ove la Calabria è più grande e più vera. 5 Dice Rossi Doria che una regione è come un pezzo di carne: tanto d'osso e tanto di polpa. La Calabria ha più osso che polpa. E questa terra non si può conoscere se non si va dalla parte dell'osso. La penisola delle Calabrie, (una volta si usava il plurale, perchè in effetti questa regione è composta di microcosmi diversi), ha il sessanta per cento del territorio al di sopra delle altitudini medie meridionali. Le grandi vette silane e aspromontine la spaccano tra Jonio e Tirreno, complicando i collegamenti interni. Queste lontananze fisiche hanno determinato per secoli un distacco profondo tra i microcosmi calabresi. Il municipalismo è anche qui un male che sarà difficile abbattere. La Calahria, rotta da seicento fiumare – le maggiori - è frantumata anche etnicamente. E divisa dal ghibellinismo di campanile. Lo spirito di collaborazione è di là da venire. Perciò - anche - manca la crescita economica. Tagliacarne ha scritto che oggi esistono due Sud: uno meno povero, che comprende molta parte del Mezzogiorno; e l'altro più povero, che include Calabria e Lucania. Con qualche vantaggio a favore della seconda regione. Il reddito medio dei calabresi è ancora pari a circa un terzo di quello dei milanesi. Allora qui siamo molto lontani dal «nuovo Sud» riscontrabile altrove. Il conto alla rovescia è appena co178 minciato. Quindici o vent'anni fa si partiva letteralmente da zero. Ma non si è andati lontano. A tratti si ha l'impressione che interi decenni di politica meridionalistica, qui, siano passati invano, e che la Calabria sia restata, come diceva Fortunato, «un vecchio carro merci abbandonato su un binario morto», L'«osso» calabrese è ancora troppo grosso. Ed è quest'osso che vieta il decollo. Sicchè lo scenario calabrese è ancora antico. Per colpa dello Stato. E per colpa dei calabresi. 6 A nord di Cosenza la statale scende lungo la pianura del Crati. Ai lati del «Vallo», sugli orli, come per miracolo, stanno i villaggi, arroccati sui colli o attaccati alle falde dei monti. I contadini - qui si chiamano ancora terrazzani - percorrono chilometri per raggiungere i campi deserti e asciutti. Prima di Tarsia e Spezzano Albanese, si imbocca una strada di bonifica, preferibile alla statale, che è stata « ammodernata», ma ha conservato lo stesso percorso, gli identici tornanti da capogiro, per evitare una guerra civile fra i due paesi. Poi si scende nella valle dell'Esaro: olivi, vigneti, distese di terre a maggese, nessun segno dell'acqua per l'irrigazione. Il giro è largo, sullo fondo del Pollino. Verso lo Jonio, si apre la pianura di Sibari, la terra promessa della Calabria. Il panorama è tipico: macchie e greggi di pecore. Poi, gli oliveti e gli agrumeti, piante giovani delle nuove coltivazioni, che vanno mutando la faccia di questa terra una volta malarica. Qui l'irrigazione è arrivata. Ma spesso l'acqua scorre invano. I proprietari preferiscono delittuosamente le vecchie colture e il pascolo. Tuttavia, qui è un'altra Calabria. Le colture intensive hanno vinto la palude. La colonizzazione ha scoperto le serre. Rombano alcune trattrici. Non è ancora Metaponto, ma solo per via delle logomachie. I calabresi hanno due vizi capitali d'estrazione tutta meridionale: la guerra sulla bocca e il granchio nel cervello. Nel loro eden hanno realizzato appena un caseificio, un conservificio e alcune industriole manifatturie179 re. I grandi progetti di industrializzazione di Sibari restano sulla carta. Si pensa al grande porto petrolifero, ma continuano le violente polemiche sull'area industriale. Ogni villaggio, ogni frazione, ogni valle che sfiori i cento metri quadrati, vorrebbe esser sede di una facoltà universitaria. Ci si trascina così da lustri nelle sabbie dell'immobilismo. La terra di Sibari potrebbe diventare una nuova Ruhr. La piana, perfettamente bonificata, è anche un punto di forza dell'agricoltura regionale. Ma c'è di più. Il turismo comincia a portare fin qui avanguardie di viaggiatori stranieri. Archeologia e poesia adagiano su questa pianura dolce e un pò malinconica, rigata da lunghi cortei di salici e pioppi, alte speranze. Sibari antica, Sibari di Diodoro e di Strabone, è identificata. Si sa dov'è, se ne sono delimitate le mura. E' tra il Crati e il Coscile, dove sta per sorgere il porto del petrolio, sui buoni fondali marini sottocosta. Le supertankers approderanno in queste acque, ove ancora domina, trasparente, l'aria del mito greco. 7 Per raggiungere la ferrovia ionica sotto Rossano, città ducale, di là dal Trionto, ci si deve arrampicare per la statale 106, segnata da stranissimi olivi secolari, nodosi e contorti, come le illustrazioni del Dorè. Le fiumare scendono a dente di pettine, dilavando le campagne. E' la terra delle vaste solitudini, dove coabitano i campieri e la brucellosi. A picco sul mare, calanchi tra muraglie d'argilla. Reimur Kanter definì questo paesaggio «di steppa marina». E' la montagna che, smottando, scivola compatta nel mare. Cariati, Crùcoli, Cirò, Punta Alice, Melissa. Paesi divorati a bocconi, un poco alla volta, mentre Cassa, Legge Speciale e Stato sprecano miliardi in inutili opere di rafforzamento. Anche la montagna, in Calabria, ha la sua fame. E' una specie di moloch insaziabile, che ha spinto i calabresi a fuggire sulla costa, a creare doppioni di paesi - le «marine» - accanto alla ferrovia, dove non giunge l'eco delle frane. 180 Oltre Strongoli, è la valle del Neto, il fiume che scende dalla Sila, e sotto San Giovanni in Fiore cattura le acque dell'Arvo. Settemila ettari sono irrigati a canali. Ma un'assurda mentalità contadina vuole che vi pascolino pochi armenti. Sono ancora le bestie dei «patruni», epigoni baronali d'un millenario feudalesimo. Sul mare si è esiliata Crotone. Di qua sono le terre del Marchesato, l'ex latifondo. Le ciminiere della Montecatini sono uno spettacolo sorprendente. Crotone è un'oasi nel deserto calabrese. Certamente, l'unico centro industriale vero e proprio della regione. Su quarantamila abitanti, più di duemila lavorano nelle fabbriche, e la città ha un ritmo che nessun'altra conosce quaggiù. Tutt'intorno, se tira vento, è paesaggio da ghiblì, e i terrazzani insistono a coltivare cereali. Silvicoltura e zootecnia son cose lontane, scienze da marziani. La Cassa ha speso miliardi per la diga del Tacina, che ha fatto subito esplodere il verde. Ma qui vive ancora la generazione della battaglia del grano. Fa parte dell'osso, ne è l'anima più tenace. La più dura a morire. 8 «Si ha l'impressione - scrisse nel '59 un gruppo di studiosi francesi della Fondazione Nazionale di Scienze Politiche di Parigi - che questa punta estrema della penisola non sia stata raggiunta dalle correnti di pensiero e dai sistemi di vita moderni, e che non abbia assimilato la civiltà capitalistica e tecnica da cui altre regioni hanno saputo trarre impulso al progresso». Metà e metà, colpa italiana e calabrese. Alla classe dirigente locale è mancata la capacità di vedere i problemi nel loro insieme. Non ha guardato lontano, e ha contribuito a disperdere in rivoli quello che doveva essere un intervento d'urto. Allo Stato va la colpa dell'impegno non mantenuto, delle leggi speciali applicate male, dello antico inganno perpetrato a danno della regione. Così la Calabria è rimasta un'isola, o un insieme di piccole isole, cui è difficile approdare. L'Italia moderna, 181 quella dell'automazione, delle comunicazioni veloci, delle cattedrali dell'industria, si è bloccata a Battipaglia. Di qua della Campania, dal Pollino in giù, si è vent'anni indietro. Per di più, oggi il sottosviluppo calabrese è anche di carattere qualitativo, perchè continua quella massiccia emigrazione che ha già profondamente impoverito la regione degli elementi più giovani, più vivi e più preparati. La gente fugge verso il Nord, alla volta della Val Padana e dell'Europa, e non vuole tornare indietro, perché non ha fiducia nel futuro della Calabria. 9 Si divide in due: Sila Greca e Sila Grande. La prima è più selvaggia, chiamata impropriamente greca per i paesi albanesi che si trovano nella sua area settentrionale. L'altra ha il cuore a Camigliatello. Al di sopra dei milleduecento metri, il castagno cede al pino e al faggio. Sono evidenti i risultati di secoli di disboscamento. Anni fa, su questa montagna il terreno era brullo, la campagna in dilavamento. Oggi le ferite cominciano ad essere sanate. Esiste un programma di rimboschimenti per trecentomila ettari silani. Centomila son già in atto, con pino laricio, particolarmente adatto quassù. A vederla com'è ora, la grande Sila pare in convalescenza. L'altopiano si estende per circa settecentomila ettari, sui quali l'Opera Sila ha tentato l'insediamento. E' stato - mi dicono - il primo tentativo al mondo di colonizzazione a milletrecento metri di altitudine. I pareri in materia sono discordi. In generale, in Calabria, la riforma ha dato risultati poco positivi. E' stata più affrettata e più disordinata, perchè nata sotto la spinta dei fatti di sangue di Caulonia, di Melissa, di Fragalà, di Crotone. Ad essa, comunque, si deve riconoscere l'azione di rottura sociale e psicologica in un ambiente chiuso e isolato da secoli. L'Opera Sila, però, è una gran macchina mangiasoldi che non dà risultati soddisfacenti, nè una contropartita adeguata. 182 In Sila sono state insediate poco più di seicento famiglie. Non sono molte, ma non era facile trasferire più gente in una terra così alta e disabitata da sempre. L'insediamento è naturalmente accentrato: gruppi di case da un minimo di sei fino a trenta, in modo da formare piccoli villaggi. Vivono, queste famiglie, dell'agricoltura, e un poco anche del turismo. Ma per ironia della sorte, mangiano burro alpino e formaggi svizzeri. 10 Per San Giovanni in Fiore si percorre la strada che Murat fece tracciare dagli ingegneri francesi, e che fu l'unica arteria silana fino all'unità d'Italia. I villaggi inchiodati sulle costole montane una volta erano slegati tra loro, e ciascuno comunicava per proprio conto con le vallate attraverso le trazzere familiari a Fra' Gioachino. In paese si arriva dopo grandi svolte. Il paesaggio muta bruscamente: nessun bosco; uomini scuri in viso, con la berretta di traverso; monti d'un granito che al sole e alla pioggia si disfano in uno squallore opprimente. Qui è la Calabria più buia, la terra delle vedove di Mattmark, una grande comunità di ventimila disperati in un classico orizzonte da terra depressa. Le donne, nel nero costume quasi monacale, esprimono, misti, dolore forza speranza. E' la gente che vive delle rimesse, del sistema previdenziale, dei piccoli lavori pubblici. E' quella che Alvaro chiamò la «Calabria in fuga», senza forza motrice interna, senza un'economia locale, senza impulsi. Le case sprofondano a cerchi concentrici in un paesaggio di dossi pelati, frugati da un vento rabbioso che fa - grottescamente - l'aria luminosa e chiari gli orizzonti. Qui, per poche lire, si può comprare un tappeto da centoventimila nodi per metro quadrato, tagliati col corto coltello a serramanico dalle mani esperte di giovani ragazze. 183 11 Qualcuno ha detto che la Sila è una piccola Svizzera. In realtà, è una terra romantica, che al tempo della riforma diciottomila contadini si dichiararono disposti a raggiungere e possedere stabilmente. La Sila si è aperta, gridavano allora da una valle all'altra. Ed erano bei giorni. Ma dopo agosto, di colpo i boschi annerirono, la terra si trasformò in una rossa fanghiglia, i torrenti ingrossarono, la montagna crepò come una melagrana, e la Sila si chiuse su se stessa. Ci fu tanta neve, e vennero gli elicotteri a rifornire i contadini. Lassù, da allora, sono rimasti in pochi, quei pochi che si sentono l'animo scuro dei traditori, perchè hanno rotto col mondo e si sono serrati nel cuore troppo alto di una montagna ingrata. Otto secoli fa, l'abate Gioachino, il dantesco visionario profeta, tentò qui una sua riforma, che in un certo modo riuscì, sopravanzando e resistendo ancora oggi moltissimi aspetti della vita d'allora, non ultimo il modo di vestire delle donne. Ma quelli erano uomini d'altro stampo, d'una diversa matrice. Stare insieme sulla montagna, sentirsi uniti, forti, liberi, mentre prima erano servi e divisi, era più naturale di quanto non sia oggi. Oltre tutto, costoro non avevano una tradizione cui richiamarsi, eran loro a cominciare una nuova storia, la loro storia. Al contrario, la gente salita oggi sull'altopiano ha dovuto rompere i rapporti d'amicizia e di parentado, si è allontanata dalla metropoli consumistica degli assegnatari, si è calata in una buia dimensione di esilio che, col poco vantaggio che ne viene, non ripaga nessuno di quanto ha lasciato. 12 Sui 370 bacini in cui è divisa per ragioni di bonifica la Calabria, quelli mediamente dissestati, e che reclamano decisi interventi sistemativi per evitare la minaccia che incombe a valle, interessano settecentomila ettari, cioè il 45 per cento della superficie regionale. Ci sono poi 184 i bacini più sconvolti, quelli che costituiscono il «grande sfasciume», che si estendono per altri 140 mila ettari, pari a circa il dieci per cento della superficie globale. Ci sono, poi, agli estremi, zone di vera e propria emergenza, e zone vulnerabili che richiedono in ogni caso l'intervento pubblico per la trasformazione in cespiti redditizi. Si va così verso il settanta per cento della superficie calabrese. Tempo fa, alcuni ottimisti avevano calcolato che duecento miliardi di lire avrebbero risanato questa tragica situazione. L'allora residente del Consiglio, Fanfani, di ritorno da un viaggio in Calabria, aggiunse cinquanta miliardi «integrativi». Facciamo un pò di conti. In soli dieci anni - nei primi dieci anni - la legge «pro Calabria» ha riscosso circa settecento miliardi di lire. Alla regione, nello stesso periodo, ne sono stati accreditati solo 268. Nel dicembre '66 alla Camera fu dettagliatamente dimostrato che le opere realmente appaltate nel decennio superavano di poco gli 89 miliardi, mentre 1'«impegno» del governo sfiorava i 209 miliardi. In sintesi: malgrado due leggi speciali, lo Stato, la Cassa, qui si è operato fra pianura e collina su circa 1'1,13 per cento del territorio dal '51 al '66, bonificando soltanto 1'8,5 per cento di quanto era stato pianificato. La Calabria ha il quattro per cento della popolazione italiana, produce il due per cento del reddito nazionale e raggiunge l'1,74 per cento dei consumi. Quando, nel '63, il reddito dell'italiano medio era di 534 mila lire, quello del meridionale raggiungeva le 359 mila lire, quello calabrese appena le 268 mila lire. Ancora oggi l'agricoltura concorre a formare il reddito calabrese nella misura del 25,4 per cento, contro una media del 22,1 del Mezzogiorno, del 13,4 dell'intero Paese e del 6,8 del triangolo industriale. La pubblica amministrazione vi concorre col 22,6 per cento, con una quota quasi uguale a quella della Capitale! Se dai dati economici si passa agli indici delle condizioni sociali e delle produttività, le differenze sono ancora più evidenti. Ancora nel '61-62 la popolazione contava il ventuno per cento di analfabeti, il ventitre per cento delle abitazioni erano sprovviste di acqua potabile e di servizi igienici, i posti-letto negli istituti di cura erano notevolmente in185 feriori alla media nazionale. Tra il '51 e il '66, mentre la popolazione italiana è cresciuta dell'undici per cento e quella meridionale dell'otto per cento, la popolazione residente in Calabria è aumentata solo dell'1,49. Sotto questo profilo, la regione è superata soltanto dal Molise, che ha perduto non solo l'intero incremento naturale, ma anche una grossa aliquota della popolazione residente nel '51. Infine, nel '66-67, ogni persona occupata nel complesso delle varie attività ha prodotto 873 mila lire, contro una media nazionale di un milione e 519 mila lire, e contro i due milioni e 304 mila della provincia di Milano. «Si ricava da questi dati - ha scritto Tagliacarne - un insegnamento da non dimenticare: la piccola dimensione aziendale abbassa la produttività media delle forze di lavoro occupate. Si deve quindi decisamente puntare su maggiori dimensioni delle aziende: pure le piccole sono utili; ma si può ripetere un proverbio orientale che dice: un milione di spilli non fanno una spada». 13 «Fame, ossessione. Eppure, quando agli amministratori di Melissa, dopo i fatti di Fragalà, fu chiesto di c h e cosa avessero più urgente bisogno, risposero che avrebbero gradito gli strumenti musicali per ricostituire la banda comunale. Da allora, (...) trombe e tamburi a Melissa suonano da soli, e i loro inni li ascoltano solo i morti della gran giornata contadina, per i quali è stato ucciso il sonno della vita e il sonno della bara n. (Da Calabria grande e amara , di Répaci ). 14 Ora ci sono l'autostrada, l'aeroporto di Sant'Eufemia, il porto di Sibari, forse un ponte sullo Stretto. Si cerca di agganciare l'isola calabrese, di cucirla alla Campania, alla Lucania, alla Sicilia, prima 186 che vada del tutto alla deriva, come un relitto roso dal tempo . I calabresi si aspettano miracoli, i loro giornali son pieni di grandi titoli, e ogni titolo accende un 'altra speranza, ogni speranza accende un 'altra polemica. ogni polemica rischia di far trascorrere altri anni lunghi. Si dovrebbe svestire l'arretratezza dell'antico costume della fierezza. Ma un profondo, radicato feudalesimo -borbonico, unitario, fascista, repubblicano- ha ucciso l’umile lealtà di questi uomini, li ha avvolti nel rancore, nella diffidenza, nella paura del futuro. Si stenta ancora a riunificare «le Calabrie» in una Calabria. Tra Reggio e Catanzaro si vive una tolleranza sul filo del rasoio. Bruzi, mamertini, itali, albanesi , greci, provano a diventar calabresi solo da qualche tempo. Si ricreano una matrice comune nella loro amara storia recente, di qualche anno o di qualche giorno fa. E' una prova silenziosa ma tenace, una sfida all'individualismo, al mito tribale, alle chiusure patriarcali delle economie e dei rapporti umani e sociali. Ha inizio così l'anno uno della rivolta contro una storia e una cronaca che si son fatte coro soltanto nei giorni della rabbia e del lutto. Non è ancora una Calabria che si muove. E' una Calabria a rimorchio, più trascinata dagli strattoni, dagli emboli, dagli infarti del Mezzogiorno, che spinta da una forza interna cosciente e vivace. Vivacità, creatività, sono di là da venire, anche se non ci si dovrà sorprendere il giorno in cui le vedessimo apparire improvvisamente. Calabria e calabresi hanno fantasia, passione, coraggio, e una buona dose di spregiudicatezza. Quel che basta per tentare, dopo i secoli dell'attesa, le fortunose vie del futuro. 187 SICILIA: UN ALTRO CONTINENTE 189 Nel 1967 l'esperimento autonomistico siciliano entrava nel suo ventesimo anno. La prova non è stata confortante: vent'anni, venti crisi di governo. Una crisi all'anno. Se si sottraggono i tempi tecnici per le elezioni regionali, le convocazioni dell'assemblea, gli insediamenti, i rimpasti, le vacanze, risulta che l'organo dell'autonomia siciliana ha superato il suo primo ventennio di attività quasi esclusivamente nel provocare, risolvere e riaprire crisi. In sintesi, non si dovrebbe parlare di venti crisi, ma di un'unica, ininterrotta crisi, spezzata da qualche breve intervallo di attività legislativa. E pensare che il campo di lavoro era sterminato! L'autonomia fu concessa all'isola in anticipo sulla Costituzione della Repubblica, e in grandissima fretta, sotto la spinta di gravi avvenimenti: Giuliano scorazzava a pochi chilometri da Palermo; la mafia ingigantiva; nei paesi e nelle città, sulla scorta del pensiero di Finocchiaro Aprile, si allargava il polipo separatista. Si volle una Sicilia con pieni poteri, autorizzata a dettar legge in materia di agricoltura, bonifiche, industria, commercio, espropri, urbanistica, enti locali, opere pie, scuole, turismo e mille altre cose. Al Presidente della Regione lo Statuto conferì il rango di ministro e perfino l'autorità di chiedere l'intervento delle forze armate dello Stato. Perchè non sorgesse l'idea della regione come istituto di fragile ossatura, si decretò che i suoi dipendenti in nessun caso fossero pagati meno dei dipendenti dello Stato. Occorre dire che, trascorsi vent'anni, in numerosi punti lo Statuto è rimasto inattuato. Solo su uno la Regione non ha avuto debolezze o incertezze, ed è sul trattamento economico del personale. Per non sbagliare, il tratta- 191 mento è superiore a quello degli statali e dei parastatali al di qua dello Stretto. Recentemente, un deputato ha rivolto al Parlamento nazionale un’interrogazione per conoscere l'ammontare degli stipendi distribuiti dalla regione siciliana, che risulta essere il più costoso tra gli organi democratici d'Europa, L'interrogazione non ha avuto risposta. L'Assemblea è sovrana, hanno ribattuto a Palazzo dei Normanni. E i sovrani non confermano nè smentiscono. Non son tenuti a mostrare rendiconti. Anche sotto il Regno delle Due Sicilie i bilanci dei sovrani appartenevano all'inconoscibile. 2 Il trapasso delle «competenze» tra Regione e Stato non è ancora finito. In particolare, sono sempre in viaggio fra Roma e Palermo le contestazioni che riguardano la ripartizione dei tributi. La Sicilia reclama miliardi, lo Stato lesina la lira. Il più grave esempio di anarchia delle competenze è dato dal problema dell'acqua. Scarseggia dappertutto, ma dappertutto c'è. Per dissetare i siciliani, le loro industrie e la loro agricoltura, basterebbe concentrare tutti gli sforzi in questo settore per un breve periodo di tempo. Invece si palleggiano la responsabilità i comuni, la Regione, la Cassa per il Mezzogiorno, lo Stato, l'Ente per la riforma agraria, i consorzi di bonifica. Risultato: nella maggior parte dei casi, l'acqua c'è dove la gente se l'è tirata su col piccone. Molti acquedotti urbani e rurali sono del tempo di Francesco Crispi. Licata ha fatto una mezza rivoluzione per ottenere dal Consiglio dei ministri un pò di soldi per l'acquedotto. Canicattì ha visto finalmente accolto un progetto per la cattura delle acque ad uso potabile. Progetto vecchissimo, inchiodato da un immobilismo durato un millennio: la fonte «Capo d'Acqua», infatti, doveva essere imbrigliata intorno all'anno Mille, quando fu scoperta dagli arabi. 192 3 I cattivi rapporti tra isola e Stato divennero pessimi quando venne istituita a Roma la Corte Costituzionale. Una delle sue prime sentenze dichiarò «travolta» l'Alta Corte per la Sicilia, organo supremo che avrebbe dovuto controllare garantire la legittimità degli atti delle autorità regionali. La Sicilia reagì con una bordata eccezionale. I suoi sottili giuristi fecero osservare che la Corte Costituzionale aveva commesso un abuso, e proprio sul terreno costituzionale non si poteva modificare con una sentenza uno Statuto (quello siciliano) che la Costituzione aveva accolto e fatto proprio. Il ricorso fu respinto. L'Alta Corte si sciolse, ma la Sicilia non ha mai cessato di eccepire. A Roma, presso il Palazzo di Giustizia, ci sono ancora un tavolo e un cancelliere riservati alla « cara estinta». Ciò fa dire ai siciliani che l'Alta Corte non è morta, ma «congelata». E' nata così una questione che ci sembra delicata e straordinaria. L'Alta Corte aveva il potere di porre in stato d'accusa il Presidente e gli assessori regionali ove compissero reati nell’esercizi delle loro funzioni. Questo potere la Corte Costituzionale non ce l'ha. L'Alta Corte non c'è più, o non dà segni di vita. Finisce che non esiste in tutto il territorio della Repubblica italiana un organo che abbia l'autorità di elevare accuse e di sottoporre a giudizio Presidente e assessori siciliani. Essi sono i soli cittadini italiani che possono commettere reati davanti agli occhi di tutti, senza essere perseguiti. 4 Mi dicono: «Vuol sapere qual'è la causa prima di tante crisi siciliane? Facciamo il conto dei consiglieri regionali. Sono novanta. La maggioranza è costituita da poco più della metà. Tolti i membri della giunta, tolti i consiglieri che hanno qualche incarico nell’Assemblea, con relativi vantaggi ed emolumenti, restano quattro o cinque consi193 glieri costretti a fare i portatori d'acqua. Sono questi che, di volta in volta,nelle votazioni segrete, si uniscono alle opposizioni e provocano le crisi. Alla base della loro azione di franchi tiratori ci sono astio personale, insoddisfazione, piccoli interessi. Ciò scatena una sorda reazione ... », La spiegazione è vicinissima al vero, ma non va al fondo delle cose. C'è alla base il modo in cui sono stati intesi sia l'autonomia che gli incarichi politici, e c'è soprattutto il sistema elettorale autonomistico, che è sbagliato. Il tutto fa sì che l'Assemblea regionale dimentichi i problemi siciliani per alzare ben altri «polveroni». Si discute dell'atomica, del Vietnam, del razzismo, dei pensieri di Mao, della grandeur nasseriana, e intanto i problemi reali dell'isola restano fermi. Nei corridoi, negli assessorati, negli uffici, nelle sedi dei partiti, nei collegi, ci si accapiglia per i «posti» e per la fame delle clientele: si dibatte a fondo il problema dei «tavolini», tra le cui gambe, diventate foresta, sono seppellite le colonne di Selinunte e Agrigento. Mentre la fame, la sete, l'arretratezza - prerogative della Sicilia reale - dilagano. E' un giro vizioso, dal quale non riesce a disimpegnarsi la classe politica espressa dalla Sicilia: la più retrograda, insensibile, incapace, della storia italiana contemporanea. Non si metterà mai abbastanza in evidenza l'inettitudine di questa classe. La Sicilia parlò per prima di un piano per lo sviluppo economico, fin dal governo Alessi. Dio sa a cos'è ridotto, oggi, quel piano. 5 Il governo regionale è formato da un presidente e da quattordici assessori. E' stato scritto che solo per questi ultimi sono a disposizione seicento «segretari particolari» che costano alla regione oltre un miliardo e mezzo all'anno per gli stipendi, senza contare i contributi previdenziali, le spese di rappresentanza, le indennità di gabinetto, gli straordinari. Questi «seicento» sono il più agguerrito centro di potere 194 dell'isola. Pratiche, concessioni, appalti, sovvenzioni, per giri di miliardi, passano dalle loro mani. Questa eccezionale burocrazia è il più inimmaginabile assurdo amministrativo del mondo, paragonabile soltanto a quello di certi Paesi dell'Africa o dell'America Latina. Per darne un'immagine fisica, occorre pensarla come una piramide rovesciata, che poggia sul vertice anzichè sulla base. Nelle alte cariche direttive ci sono 1.342 funzionari, mentre i modesti impiegati di concetto sono 771. Un esercito di generali per comandare un plotone di soldati. Poi c'è l'altra burocrazia, quella immensa, sterminata, degli enti pubblici, semipubblici, quasi-privati, proliferata dalla prodigalità della regione, che pochi sono riusciti a inquadrare nell'esattezza definitiva di una cifra. Parliamone un pò. La burocrazia della Regione è composta - pare - da settemila dipendenti, che costano - pare - almeno trenta miliardi allo anno, su 160 di bilancio. La sua inefficienza, la sua lentezza, sono proverbiali. Per il palazzo che ospita gli uffici della Regione, (un edificio a tre piani), ha stilato 23 mila lettere, ha richiesto 150 mila visti, e un numero di fonogrammi che nessuno ha avuto il coraggio o la lealtà di precisare. Un progetto di ridurre, perchè inutile, dello ottanta per cento il personale direttivo e del trenta per cento quello subalterno è rimasto lettera morta. Ci sono seicento uffici per un centinaio di «competenze». Che cos'è in Sicilia una competenza? Quasi sempre, è l'avvio di una pratica per contributi. Ma è celebre l'esempio del contadino che, per comprare un mulo, fu costretto a ottenere settanta visti: ebbe quarantamila lire, pari al costo di mezzo mulo, mentre l'intera operazione costò alla Regione 130 mila lire. Tutto ciò, in una regione ove - cosa mai accaduta altrove - si era riusciti a far accettare ai sindacati il principio dello sfoltimento della burocrazia, per evitare i gravissimi errori commessi in campo nazionale. Le spese per il personale amministrativo divorano le finanze di 380 comuni su 400. Nella sola Marsala gli stipendi dei «comunali» assorbono tre volte le entrate. Messina paga tre milioni l'ora per interessi 195 passivi. A Marsala fu sequestrato anche il busto di Garibaldi, posto in comune a ricordo del celebre sbarco. A Messina furono pegnorati tavolo e sedia del sindaco. Sono i risvolti grotteschi di vicende palesemente drammatiche. 6 «May the judgement not be too heavy upon us», ha detto Eliot. Verso di noi il giudizio non sia troppo severo. I termini sono stati riecheggiati a Palermo, nel parlamentino di serie B, con stipendi e indennità di serie A. Questo parlamento costa 3.550 milioni. Ventotto milioni vanno alle spese igieniche e di pulizia. Venti milioni al telefono, quarantacinque per feste e spese di rappresentanza. Nel bilancio - semisegreto - non compare la voce delle tasse e delle trattenute. Sono i deputati che viaggiano di più. Ben 84 milioni l'anno vanno a « rimborsi agli onorevoli deputati per viaggi aerei, via mare e in vagone letto », Una trentina di milioni prendono il via per spese ferroviarie per il personale in attività e in pensione, e 32 milioni per gli ex deputati. Tre milioni e mezzo l'anno si spendono in microfilms, per tramandare ai posteri l'attività legislativa degli amministratori; sette milioni e mezzo per macchine calcolatrici e da scrivere. Il Senato nazionale, più tirchio, spende solo quattro milioni. In beneficienza, l'Assemblea siciliana spende venticinque milioni, contro i quattordici del nostro Parlamento. Palazzo dei Normanni è un salotto di spreconi, che vorrebbero un giudizio non severo. Un deputato regionale ha il trattamento economico di un senatore della Repubblica, ma è circondato da maggiore conforto, ha più telefonate in franchigia, dispone di un bar più prodigo, non ha tasse o trattenute, soprattutto ha, dall'amministrazione dell'Assemblea, facoltà di contrarre un mutuo per metter su una casa: dodici milioni, praticamente senza interessi, estinguibili in 105 (centocinque!) anni. 196 I risultati di una politica amministrativa del genere sono fin troppo facilmente intuibili: la Regione non ha fondi per l'amministrazione ordinaria, divorati dai deficit e dagli impegni correnti, che hanno già assorbito le entrate siciliane fino al 1972, e bloccato fin da ora quelle fino al 2006. 7 La Sicilia si era svegliata all'alba del '67 con una grande amarezza in corpo: i redditi fermi o in diminuzione, l'agricoltura in difficoltà, l'industria a pezzi, e una bufera di scandali che scoperchiava case e grattacieli, presidenze d'amministrazione (a Catania) e interi consigli provinciali (a Palermo). L'isola era nell'occhio del tifone. Nel 1970 questi amministratori si troveranno in pieno maremoto, di fronte alla scadenza di debiti favolosi. Se non si provvederà tempestivamente, sarà la bancarotta. Alcuni parlano di un Vespro. Altri, più realisti, cercano soluzioni interlocutorie. La Sicilia «zona franca» è l'ultima trovata, l'ultima idea «rivoluzionaria» nata in queste latitudini. Non è un'idea nuovissima. Già ai tempi di Cavour si pensava di concedere all'isola esenzioni fiscali e daziarie. Ma è nuova la concezione con cui si vorrebbe realizzare questa iniziativa che potrebbe, da sola, risolvere di colpo tutti i problemi della Sicilia, o provocarne il disfacimento totale. La seconda ipotesi è più verosimile. Tuttavia gli ideatori l'hanno tradotta in disegno di legge, rimasto per ora in un cassetto dell'Assemblea. I «franchisti» vedono la Sicilia in dimensione supernazionale, come un'entità da integrare nel Mercato Comune Europeo, al di fuori dei particolari interessi italiani. Negli ultimi dieci anni, essi dicono, l'Italia ha cercato i suoi sbocchi economici nell'Europa centrale; autostrade, trafori, oleodotti, son sorti in funzione dei più rapidi scambi commerciali fra l'Italia che produce, cioè il Centro-Nord, e l'Europa. Il Sud, continuano, è rimasto estraneo al Mec, anzi ha subito gravi danni, e la Sicilia è stata la più sacrificata. Per i commerci con l'Africa e il Medio 197 Oriente sarebbe stato assai più razionale scegliere l'isola come base di industrializzazione intensiva. Invece è stata preferita la Puglia, per le pressioni della Francia e per motivi politici interni. Il quarto Centro siderurgico di Taranto ha favorito anche lo sviluppo industriale di Bari e di altri comprensori, mentre la Sicilia decadeva sempre più: negli ultimi otto anni è scesa dal quindicesimo al diciassettesimo posto nella graduatoria nazionale del reddito annuo pro-capite. Tutte le iniziative siciliane per industrializzare l'isola, proseguono, si sono risolte in un colossale fallimento per incapacità, disonestà, inconfessabili interessi politici. La zona franca, concludono, «è la nostra ultima spiaggia. Se non la realizziamo, scenderemo ancor più rapidamente nella graduatoria dei redditi». Apparentemente, il ragionamento è logico. Sotto certi aspetti, la Sicilia è sull'orlo del crepaccio. Roma dovrebbe fare qualcosa, ma è sorda e lontana. Il giorno in cui le navi, gli aerei, i treni, potessero giungere in Sicilia senza controlli doganali, si formerebbe il più formidabile mercato libero del mondo, più potente di Singapore e di Hong Kong, perchè sarebbe al centro del Mediterraneo, cioè in una zona ad alto livello economico. Per l'isola sarebbe il bengodi. Gli imprenditori d'ogni categoria avrebbero interesse a installarvi industrie perchè non pagherebbero dogane, i commerci avrebbero sviluppi inimmaginabili. I porti di Messina, Palermo, Trapani e Augusta sbaraccherebbero quelli di Genova, Napoli, Venezia, Bari, Trieste. Per l'economia nazionale sarebbe un cataclisma. I «monopoli» del Nord dovrebbero fare i conti con questo terremoto. Ma è stato obiettato, la mafia non l'hanno inventata i monopoli settentrionali. E una zona franca sarebbe l'occasione d'oro per la mafia. Hong Kong, Singapore, Tangeri, degli anni fra le due guerre, sarebbero briciole in confronto a ciò che diventerebbe la Sicilia zona franca in mano a coloro che l'hanno saccheggiata anche con i controlli doganali. Dicono gli ideatori: per evitare che tutta l'isola diventi un focolaio mediterraneo, un centro del vizio e del contrabbando, si può ricorrere a 198 due o tre zone franche, nei porti, per esempio, di Trapani, Messina, Augusta, posti sotto il controllo delle autorità comunitarie. Ma ciò è intraducibile in termini reali. Occorrerebbe circondare le aree franche con mura medioevali. E neppure basterebbe. Le donne di Messina rischiavano tranquillamente la pelle per contrabbandare un pò di sale a Reggio Calabria. Ma - si obietta ancora - Malta si prepara ad essere zona franca, e soppianterà la Sicilia, che, insieme all'Italia, non farà più in tempo a difendersi. E' probabile che Malta stia preparando il colpo, spinta da problemi ben diversi da quelli siciliani. Ma ci difendiamo benissimo da Tangeri e da Gibilterra. Perchè dovremmo temere Malta? Se qualcosa c'è da temere, è la mafia siciliana, che sopravvive a tutto, ai mutamenti di rotta politica, ai terremoti, alla fame e al benessere, alle Commissioni ministeriali e alle retate della polizia, al confino e alla galera. La zona franca non è concepibile neanche nella prospettiva di un'Europa unita. E le pressioni francesi - presunte o reali - non avrebbero avuto che un peso minimo, se in Sicilia non si fossero alternati, in tante crisi, centinaia di custodi del disordine, migliaia di feroci termiti annidate nel cuore dell'isola, e se i governi non fossero stati, (tranne poche, lodevoli eccezioni), malgoverno, anarchia, neofeudalesimo. Il male della Sicilia è dentro la Sicilia stessa. Il cataclisma non dev'essere provocato che all'interno dell'isola. E non altrove. 8 Le grandi terre della mafia sono quelle in cui, dal 1868 ad oggi, si sono verificati i più terribili terremoti. Sono le aree della Sicilia occidentale, e hanno itinerari precisi: Mazzarino, Agrigento, Raffadali, Mussomeli, Menfi, Corleone, Castelvetrano, Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Termini Imerese, Montelepre, Misilmeri. Il cuore delle terre mafìose e della Sicilia occidentale è Corleone. Il cuore dell'organizzazione è Palermo. La commissione antimafia ha fatto molte cose buone. Ma troppe ancora restano da fare, almeno 199 fino a che mille delinquenti - non sono di più - continueranno a tenere in pugno la Sicilia. E fino a che l'ideale mafioso non sarà sradicato dalla mentalità siciliana. Sulla tomba di Don Calò Vizzini, temutissimo capomafia per oltre mezzo secolo, una lapide nel cimitero di Villalba così ne descrive le gesta: «Comm. Calogero Vizzini / precorse ed attuò la riforma agraria / sollevò le sorti di tutte le ingiustizie / fu difensore del diritto dei deboli / raggiungendo altezze mai toccate». Questa sublime figura di difensore del diritto dei deboli fu imputata, in vita, quale mandante di omicidio, e di un lungo rosario di reati dalla rapina all'abigeato, dalla truffa aggravata all'estorsione, dalla corruzione di pubblici funzionari alla bancarotta fraudolenta. Eppure, fu considerato «uomo d'onore», Fu un magistrato a tesserne l'elogio funebre in un commosso articolo. 9 La mafia tradizionale, quella dei feudi, l'organizzazione che si incentrava sui gabellotti e sui campieri, sopravvive in alcuni centri dell'interno, in dimensioni ormai microscopiche. Il colpo mortale lo ebbe nel 1950, con la legge di riforma agraria che limitò in Sicilia il diritto di proprietà terriera a soli duecento ettari, e con la legge GulloSegni, che vietò la subconcessione delle affittanze. Michele Pantaleone, che da anni, come saggista, svolge il ruolo di pubblico accusatore della mafia, così scriveva nel '61 nel suo volume «Mafia e Politica» : «Oggi, in Sicilia, il latifondo, almeno nella sua estensione, va scomparendo; la proprietà coltivatrice diretta è diventata prevalente; nell'isola sono state costruite centinaia di case coloniche e chilometri di viabilità minore e capillare; dalla zona del latifondo sono scomparse le tipiche figure dei campieri, dei soprastanti e dei burdunari». Dal '61 ad oggi altre cose sono accadute: l'arresto di numerosi mafiosi, l'invio a domicilio coatto di centinaia di altri mafiosi, la stretta sorveglianza dei sospetti. Le uccisioni a lupara nelle campagne sono 200 quasi del tutto scomparse. Nè si verificano più gli assassini a catena che in altri tempi resero tristemente famose certe latitudini della Sicilia. Ma si può parlare della fine totale della mafia? Virgilio Titone, dell'università di Palermo, afferma: «La mafia come vera organizzazione non esiste. Essa è un'espressione dell'anima siciliana. E' una mentalità ( ...) Mafioso potrei essere anch'io. Perchè la mafia, appunto, è un fenomeno di costume e occorre molto tempo perché scompaia». Nella sua «Storia della mafia e del costume», Titone espone la teoria dell'intrastoria: «Tutta la vita che un popolo ha vissuto dai tempi più remoti non si è cancellata. Vive ancora e contribuisce al determinarsi dell'azione nel presente. Siamo quelli che vogliamo essere, ma anche quelli che furono i nostri avi». Il professor Titone è siciliano, ama la sua terra e il suo popolo, ma è severissimo nei giudizi. Una sua definizione della mafia è illuminante: «La mafia è il governo o ne esercita alcune funzioni dove si respinge o non si riconosce un governo. E' una interclasse, e cioè esercita la funzione, talvolta utile, di mettere in comunicazione ciò che sarebbe altrimenti incomunicabile. Ma la causa comune del fenomeno è l'inerzia morale di un popolo» . 10 Se così è, non si può parlare di morte della mafia. Abbattuta, o quasi, quella che era un'organizzazione senza leggi e senza riti, ma che esercitava un potere effettivo, resta un modo di pensare e di agire. L'intrastoria, (vale a dire le stratificazioni inconsapevoli che determinano un modo di pensare), non si liquida comminando qualche anno di confino, nè nello spazio di una o due generazioni. Sicchè si può dire che oggi esistano due tipi di mafia: quel che è sopravvissuto della grande mafia tradizionale; e la giovane mafia, che si è spostata in città, e a volte addirittura fuori dell'isola. La prima ha adeguato i propri metodi ai tempi. «Infatti - dice Pantaleone - dallo sfruttamento organizzato 201 dell'agricoltura e della pastorizia si è passati agli appalti, agli uffici dell'Ente Regione, agli istituti finanziari, al contrabbando internazionale, alla conquista del mercato della grande città, alla conquista del potere politico». Com'è che i «vecchi» sono sopravvissuti? Perchè in Sicilia famiglia e amico sono una religione. Dice Titone: «E da qui nasce la negazione dello Stato. Succede a volte che queste forme si esprimano addirittura in delinquenza», Del resto, già nell'inchiesta Sonnino - Franchetti si rilevava: «Mafioso è colui che crede di poter provvedere alla tutela e alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall'azione dell'autorità e delle leggi», E' esattamente quel che Loschiavo ha definito un « fenomeno criminogeno ». Può essere, eroe, anche un fenomeno non criminoso, ma esso genera comunque il delitto perchè evita la legge, la scavalca, contravviene ad essa. C'è poi l'altra mafia, quella giovane, sempre delinquente, spostata nelle grandi città, ove funge da interclasse in determinati settori degli affari, presente anche in alcune zone della penisola. In «A ciascuno il suo», Sciascia afferma: «L'Italia è un così felice paese che, quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua ...» E' la mafia che ha sostituito la lupara col mitra e con gli attentati al plastico. E' quella degli spacci internazionali sottobanco, dei rackets edilizi, delle avventure bancarie. Neanche la scuola sfugge alla regola dello sfruttamento. Mussomeli, in provincia di Caltanissetta, ha quindicimila abitanti. Il numero degli scolari vi legittimerebbe appena l'esistenza di tre doposcuola. Ne sono stati istituiti fino a ottantasette. Siamo fuori da ogni logica. Ma le autorità hanno approvato, apponendo timbri e firme. Le scuole elementari di Agrigento non hanno il doposcuola, anzi devono fare turni doppi e tripli per mancanza di aule. Intanto, in altri centri attigui, imprenditori edili e mafiosi riescono a metter su edifici scolastici forniti di tutto punto, gremiti di insegnanti e di personale di servizio, con abbondanza superiore a quel202 la riscontrabile nei paesi più ricchi d'Europa o degli Stati Uniti. Il pubblico denaro si spreca in un modo assurdo. Mentre si costruiscono villaggi che nessuno abita, scuole che nessuno frequenta, strade che non portano in alcun luogo, il viaggio tra Catania e Trapani resta tuttora un’interminabile avventura. Neanche i santi vengono risparmiati dalla mafia. Si continua a costruir chiese su chiese, in città ove già ce ne sono in ogni angolo di strada, a prezzi favolosi. E un'altissima percentuale di siciliani vivono ancora in grigi tuguri. 11 E veniamo agli affari giudiziari. Nell'estate del '65 gli onorevoli Elkan (democristiano) e Assennato (comunista) vanno a vedere come mai in Sicilia tanti mafiosi siano assolti per insufficienza di prove. Esaminano i procedimenti giudiziari svoltisi dal gennaio '46 al dicembre 61 a Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta, e scoprono cose strabilianti. Prima fra tutte, l'usanza, da parte del magistrato inquirente, di «svilire i risultati delle indagini di polizia giudiziaria e di non dare rilievo alle dichiarazioni degli organi di polizia». Viceversa, i giudici istruttori, (non tutti, ma molti), danno il massimo credito alle proteste di innocenza degli imputati, giudicando vera e giusta la semplice ritrattazione delle confessioni già rese. Nella sentenza dell'11 luglio 1959 a carico di Luciano Liggio e altri tre mafiosi, imputati dell'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, la confessione resa da costoro alla polizia viene definita «stragiudiziale», cioè estranea al procedimento giuridico. La loro ritrattazione, invece, è considerata «giudiziale», cioè elemento valido e decisivo per assolverli i verbali della polizia o dei carabinieri, in molti casi, sono considerati dal magistrato inquirente «propalazioni stragiudiziali», quasi si trattasse di chiacchiere, di voci, di insinuazioni fantastiche, anzichè di confessioni in piena regola. Come mai queste procedure sbalorditive non hanno messo in al203 larme prima il ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura? Semplice: perchè nessuna indagine «ufficiale» era stata fatta in Italia. E nel nostro Paese, finchè non si aprono indagini ufficiali, nulla può accadere. Inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari, proteste di semplici cittadini, lasciano il tempo che trovano. Era necessario giungere ad uno stato generale di insopportabilità perchè il Parlamento si decidesse ad agire. E questo stato l'hanno creato i mafiosi stessi, con le sparatorie degli « anni ruggenti» di Palermo e con la strage di Ciaculli. E nel '65, finalmente, l'operato di quei magistrati siciliani, doppiamente mafiosi, che avevano bloccato la bilancia della giustizia sul segno tragico e grottesco dell'insufficienza di prove, è stato messo a fuoco con estrema precisione. Solo così il Consiglio Superiore della Magistratura ha potuto prendere atto delle vicende fantagiuridiche su cui si è fondata molta storia criminale della Sicilia per interi decenni. 12 Dunque, la Sicilia va tutta intera alla deriva? Certamente, sarebbe ingeneroso affermarlo. Scandali e corruzione da Palermo ad Agrigento; economia disastrata; assessori provinciali, sindaci, alti finanzieri, persino un magistrato, denunciati per peculato o per interesse privato: la Sicilia dei poveri assiste sgomenta alla forsennata dilapidazione dei miliardi, fa il conto delle occasioni mancate, delle promesse non mantenute, delle omertà mafiose e politiche, delle frane che hanno cancellato mezza Agrigento, o deturpato l'inimitabile scenario barocco di Noto, o impedito la vista del mare a Palermo, dei fantasmi di avveniristiche città rurali in cui non circolano nè l'uomo nè il benessere, delle città industriali ove si diceva di voler trasformare la vita, mentre è stata lasciata identica a se stessa; dei paesi arroccati ancora in cima ai colli, il mulo legato al letto del padrone; degli ospedali che attendono da anni di essere inaugurati; dei nuclei industriali per modo di dire; dei nuclei 204 rurali come Riesi, ove mille lire al giorno sono ancora un sogno da realizzare. Di questa Sicilia dolente si parla solo per i delitti clamorosi, passionali o di mafia. Ma c'è un'altra Sicilia. C'è un gruppo di isole nell'isola, alcune plaghe ove tutto va cambiando faccia, e a differenza delle aree dell'interno e dell'ovest, ove spesso si ha l'impressione che tutto debba crollare da un momento all'altro sulle pietre accartocciate dalle vampe del sole, sorgono le cattedrali dell'industria, i castelli d'acciaio, le grandi torri di ghisa. 13 Siracusa, anzi «le Siracuse», vanno guardate dall'alto del mastio del Castello Eurialo, la fortezza più poderosa dell'antichità, costruita in sei anni, dal 402 al 397, da Dionigi il Vecchio, l'astuto, invitto tiranno che dominava su quei centri, (Epipoli, Neapoli, Tiche, Acradina, Ortigia), che oggi han dato il nome al capoluogo, e che allora avevano sconfitto Atene, scuola del mondo, e non temevano Cartagine, terrore di Roma. Il concetto della pluralità di Siracusa riecheggia ai nostri tempi. A nord si prolunga lo sperone di Augusta, con quel settore di rada noto come porto megarese. Al tempo di Dionigi si chiamava Xifonia, e i siracusani l'avevano rasa al suolo. Ora è il vero porto di Siracusa, l'unico ad avere pontili metallici, senza moli. Attracco di grandi petroliere, nel '49 registrò 175 mila tonnellate di naviglio in transito, ora ha largamente superato i trentun milioni scavalcando Genova nella graduatoria nazionale, e portandosi al livello dei più grandi empori petroliferi d'Europa. Questa è la prima Siracusa. La seconda è a sud, è la più importante di tutte, quella che ha «miracolato» la città-madre. E' Priolo, la più grossa concentrazione industriale dell'isola. Una storia dello sviluppo di Priolo, anche per sommi capi, sarebbe interessante ma prolissa. Basterà ricordare che nacque con l'installazione delle raffinerie Rasiom, ora controllate dalla Esso, e che quell'installazione avvenne per caso e per avventura: il vetusto impianto fu acquistato a peso nel Texas, 205 smontato, caricato su una Liberty, e rimontato qui, ove le agevolazioni fiscali e la possibilità di utilizzare le attrezzature in disarmo della marina da guerra apparvero incoraggianti. Poi venne il resto. Una scuola professionale continua a qualificare cinquecento unità all'anno. L'azienda ne ha assunte dodicimila, ha investito 500 miliardi, produce e vende per duecento miliardi annui. Se ci fossero più infrastrutture, impiego e produzione dilagherebbero. Ci sono disegni programmatici per cose del genere. Ma Siracusa ha due primati in contrasto fra loro: è la città più evoluta del Sud, ed è anche quella cha ha ottenuto negli ultimi vent'anni, per opere pubbliche, i più esigui stanziamenti. In «Processo alla Sicilia», Giuseppe Fava scrive di Siracusa cose verissime. Tirando le somme, rileva che questa città, che viveva dei proventi dell'agricoltura, del turismo, della pesca, della pastorizia, questa città derelitta e bellissima, si è trasformata con le sue forze e con i suoi soldi in una tecnopoli. La disoccupazione non esiste come problema di fondo. Per analfabetismo e criminalità è ultima nella graduatoria isolana; per livello di vita, la prima. Forse la città non è più bella come una volta, per via dell'impetuoso sviluppo edilizio. Ma molti ruderi, molti incanti, restano ancora incontaminati. Il progresso, si sa, comporta molte stragi, puntuali perfidie. C'è una gran cittadella dello sport, ma non si restaura il bel teatro comunale. Le officine sorgono sotto le mura che videro crescere Gelone, Dionigi, Agatocle, Archimede, Teocrito. La domenica si svuotano. Il nuovo «tiranno» di Siracusa, vanto di una città in cui muore la cultura, è l'arbitro Concetto Lo Bello. 14 Operosa, fervida, realistica, Catania è una città travolgente, unica in Occidente per la voracità aggressiva del successo, in commercio o nell'imbroglio, dotata di erompenti energie, instancabile nella corsa a creare, a costruire, a inventarsi ogni giorno attività nuove, ad investire in imprese sempre più imponenti per dimensioni e reddito. Alcuni di206 cono che Catania è la Milano del Sud. Il raffronto è restrittivo. Catania è quel che è San Paolo per il Brasile, anche per il disordine edilizio e la trasandatezza di certi suoi quartieri. E' una fungaia di mezzi grattacieli, che a tratti conferiscono alla città un aspetto surrealistico. E questi mezzi grattacieli vanno camminando prodigiosamente, divorandosi la montagna più bella del mondo. Nonostante le polemiche spesso furibonde, i catanesi sono orgogliosi del loro spirito di grandeur. Avranno la strada più grande d'Europa, Corso Sicilia, al centro dell'area ove una volta sorgeva il quartiere di San Berillo. Per radere al suolo questo covo di miseria, e avere la loro «Fifth Avenue», i catanesi chiamarono architetti e urbanisti famosi, da Aalto a Nervi. Poi affidarono i lavori ad un'impresa privata, che diede mano alle ruspe. Era il '57. Il verminaio di San Berillo scomparve, tranne che in un angolo, salvato dal piccone, ove oggi s'annida il più vasto bordello del mondo, maggiore anche di quello che nella storia di Amburgo ha fornito il più colorito materiale ai capitoli dedicati alla turpitudine. Mentre i catanesi corrono e lavorano, la città cresce, si gonfia, promette un cataclisma di problemi urbanistici, sociali, umani. Vent'anni fa c'erano appena duecentomila abitanti. Oggi il cemento armato ne racchiude quasi mezzo milione. I disoccupati sono diecimila, ma i catanesi dicono che lo sono per vocazione. Gaudenti, chiassosi, volitivi, arruffoni, questi uomini sono in perpetua corsa verso nuovi traguardi produttivistici. 15 Ragusa passeggia sul petrolio, dorme sul petrolio, ma non mangia col petrolio. Ne sente l'acre odore proveniente dai pennelli di fuoco delle ciminiere degli stabilimenti petrolchimici. L'oro nero scorre sotto i piedi dei ragusani, convogliato nel pipeline, il grosso serpente che si snoda dal territorio dipendente alla zona industriale di Siracusa. Lungo quel serpente non fugge solo il petrolio, ma anche la grande speranza 207 sorta allorchè nel sottosuolo ragusano furono scoperte le prime falde. Allora si scatenò una gran febbre collettiva e la città pensò di poter cambiare volto in un batter d'occhio. La disillusione è stata grande. Il risultato, una rassegnazione e una indifferenza maggiori di quelle riscontrabili nel passato. Anche nei pozzi, nelle mostruose torri d'acciaio, pochi sono i ragusani che lavorano. Vi si parla molto veneto e molto milanese. Ragusa si è così rifugiata nell'agricoltura. L'Ente di sviluppo vi ha investito miliardi, i risultati non sono stati negativi. Se ci fosse un pò d'acqua in più, il boom agricolo qui si potrebbe moltiplicare all'infinito. Un fatto non comune: qui non si ha ricordo del latifondo. I contadini sono coltivatori diretti in virtù di una distribuzione delle grandi terre effettuata nel Sei e nel Settecento. 16 «La vostra autonomia potrà costituire tanto un gran bene come un gran male»: così ammonì De Gasperi, insediando a Palermo la Assemblea regionale. Ed è persuasione di tutti, ormai, che l'isola non se ne sia giovata. In particolare, non se ne è giovata Palermo, capitale propizia agli scandali, con un reddito di 320 miliardi all’ anno, metà dei quali bloccati dalle spese per gli stipendi. La borsa palermitana è la più floscia delle borse italiane. La sola cospicua speculazione è stata quella edilizia, attività al novanta per cento mafiosa. Se si dovesse sintetizzare in un simbolo tutta una storia di scempi, citeremmo la distruzione di Villa Deliella, stupendamente liberty, perpetrata dalla notte di un sabato al mattino del successivo lunedì (un giorno e due notti, alla luce dei riflettori). Distruzione ampia, fulminea e illegale. La grande nobiltà palermitana è ormai una potenza finita. I nuovi ricchi sono gli appaltatori. II fatto nuovo consiste nell'affermarsi di una classe borghese e nello stabilizzarsi di una classe operaia sufficientemente organizzate e consapevoli. Gli operai palermitani sono 56 mila. L'industria, (metalmeccanica, tessile, elettronica, alimentare), non è 208 grama. Dei 502 miliardi di reddito industriale prodotti in Sicilia nel '65, ben 156 sono palermitani. Si badi che il reddito unito delle province di Siracusa e Catania ha raggiunto i 157 miliardi, uno in più rispetto a Palermo. Tranne che per l'industria chimica, questa città è in testa in ogni settore. La borghesia palermitana, però, cela il bubbone della burocrazia. E il mondo operaio è alle prese col problema dei sindacati, sordi e indifferenti. La lentocrazia, l'anarchia, gli abusi, gli scandali, le colpe della classe politica, straordinariamente conservatrice, e quelle ancora più lontane del clientelismo e del trasformismo, impediscono un grande «decollo». Sicchè Palermo resta ancora una città sospesa a mezz'aria. Come forse le maggiori città siciliane, o tutt'intera la Sicilia. 17 A dimostrar ciò non è indispensabile descrivere il mondo del trapanese, che pure è molto interessante dal punto di vista politico, economico, sociologico. Qui si è ancora fermi ad un evo remoto. Mancano strade e industrie moderne. Agricoltura e pastorizia sono l'asse intorno a cui ruotano sistemi di vita che son restati patriarcali. Questa è una Sicilia senza prospettive. E' sufficiente restare nella «Sicilia di domani», in quella industrializzata, col petrolio e l'acciaio, i porti e gli scali aerei. 18 Dalle alture precipiti di Caltagirone, l'orizzonte verso Gela si infittisce di ciminiere, comignoli, tubi verticali, serpentine, sfere di acciaio, e il cielo ha già il sapore d'Africa. Un panorama avveniristico, ove la tecnologia ha raggiunto i vertici più alti. Il complesso petrolchimico è un prodigio di tecnica in un mondo che ha conservato un'immobilità medioevale. Ovunque arrivi, l'industria provoca rivoluzioni a catena. In parte, ciò è accaduto a Siracusa. A Gela, no. Quando fu scoperto il pe209 trolio sotto le sabbiose lande gelesi una ventata di ottimismo traversò la città. La mafia tentò di allungare le mani, ma fu subito fatta fuori. Ed era un buon auspicio. L'Anic assunse tremila uomini (ma solo settecento gelesi), e mise su la cattedrale petrolchimica. Poi commise un «errore»: a pochi chilometri, realizzò un villaggio immerso nel verde, intersecato da strade nitide, con scuole, cliniche, campo di tiro a volo, supermercato con aria condizionata, piste da ballo, piscina, snack bar. Era il più moderno complesso urbano della Sicilia, addossato al più antico nucleo urbano dell'isola. Il trauma degli esclusi è stato tremendo. Le conseguenze? Ecco un esempio. Percorrendo la strada verso Ragusa, dopo dieci chilometri si entra nel territorio di Vittoria. Dieci chilometri, e si cade in un altro mondo. Tutta la campagna intorno a Vittoria, a Comiso, agli altri villaggi confinanti, è un'esplosione di serre razionali in cui si coltivano i primaticci che prendono le vie dell'Europa. Sono duemila ettari di terra, contro i 780 della riviera ligure, su cui trovano impiego settemila contadini e circa diecimila addetti alla conservazione, all'imballaggio, all'esportazione. Duemila ettari che producono una massa di salari di cinquanta miliardi l'anno. Intorno a Gela - stessa terra, stesso sole - nulla. Nessuno degli esperimenti tentati con successo dieci chilometri più in là. Gela non è un piccolo villaggio. E' un centro urbano con quasi settanta mila abitanti, cioè con le dimensioni di una città come Alesandria. Ma ha l'aspetto decadente, disfatto, putrido, d'un quartiere indiano. La Regione incassa decine di miliardi per quanto vi si produce, oltre alle royalties che l'Anic versa direttamente a Palermo. I gelesi non hanno torto quando lamentano che poco o niente viene reinvestito nel loro territorio. Ma è certo che la presenza della civiltà industriale non è servita a rompere la crosta della loro civiltà contadina. Gela non riesce a liberarsi dal torpore che la immobilizza da sempre. 210 19 Terra di contraddizioni, la Sicilia. Terra che da sola basterebbe a dar filo da torcere agli storici del costume. Terra dalle immense possibilità, compromesse da un'antica e nuova filibustering politica, economica, mafiosa, che fa di questa regione un grande esperimento mancato. Forse la più grave sventura dell'isola è la sua storia. Non meno grande, tuttavia, è l'altra colpa, quella che ha visto la Sicilia darsi strutture politiche e amministrative del tutto simili a quelle centrali, capitoline. Ha seguito la via che avrebbe dovuto evitare ad ogni costo. Di nuovo c'è qualche timido tentativo di autocritica, che va prendendo piede in questi tempi. Ed è l'unico raggio di luce in un grigio mondo di intrighi, di bizantinismi, di false aspirazioni, che non hanno riscontro nella storia di alcun'altra terra europea. Occorre liberarsi dai disonesti, è stato scritto. Forse quest'isola deve liberarsi dalla disonestà delle sue tradizioni e delle ideologie viste da una prospettiva sbagliata, con un'ottica ingannatrice. Potenzialmente, la Sicilia è l'area più ricca del Mezzogiorno. L'unica che possa contare da tempo su redditi minerari, agricoli e industriali di rilievo. Ma la sua è stata, finora, una ricchezza passiva, che ha lasciato paesi senza acqua, senza scuole, senza lavoro, senza giovani, senza pane, senza speranza. Una ricchezza che ha tramandato il centro della regione col colore del deserto, gli uomini con le braccia appese al sole, le donne imprigionate nello scialle nero. Fino a che questa ricchezza non sarà moltiplicata da una nuova coscienza civica ed etica, la Sicilia resterà un'isola, un mondo a parte, una terra bruciata. Un altro continente, che vecchi ingranaggi culturali e ideologici disancorano dal futuro, e tengono legato ad una terribile storia quotidiana. 211 NAPOLI SENZA IL REGNO 213 Il 27 gennaio 1962 lo Stato, con una legge speciale, assegnò a Napoli un prestito di cento miliardi di lire per aiutarla a risolvere i suoi problemi. Era l'ultima di una serie di leggi speciali, (la «Risorgimento Economico », del 1904, mi pare che sia stata la prima; certo, fu la più lunga, con ben quaranta articoli), nessuna delle quali è riuscita, come dicono i partenopei, a risolvere « il resto di niente ». Si è sempre ripetuta la storia delle magniloquenti e inutili leggi speciali italiane. Perchè? Forse per ottusità mentale. La legge per Napoli parte affermando che il comune conta un milione e 200 mila abitanti. Poi si scopre che la metropoli comincia a Cuma e finisce a Castellammare. A far piano, son due milioni e mezzo di uomini. La legge parla di un centro e di una periferia. Niente del genere. Si passa da un marciapiede all'altro, in qualsiasi via della città, ed è come trasferirsi di colpo da un agglomerato urbano ad un altro. Da una società, da un tipo di economia, da una civiltà, ad un'altra. Sono isole che si alternano all'interno del tessuto urbano. 2 Almeno trecentomila persone al mattino, a Napoli, si svegliano ed escono per andare «a vedè addò schiara juorno». E io ho il sospetto che siano sempre i trecentomila che al censimento del Tanucci, due secoli fa, risultarono senza definitiva attività. Sono una gran fetta degli abitanti dei vicoli, i sottocittadini della sottocittà. Si riforniscono ai loro sottomercati: per i vestiti a Ponte di Casanova, per le scarpe alla Duchesca e alla Maddalena, per i viveri ai Vergini o a Pignasecca, per le 215 sigarette, il sapone e gli elettrodomestici a Forcella. L'itinerario dell'«economia da vicolo» è lungo e tortuoso, ma non conduce in alcun luogo. I problemi di Napoli sono, in parte, queste isole chiuse, che sono inespugnabili. Vi abitano, vivono e muoiono decine di migliaia di famiglie, cui l'insediamento di vasti e moderni complessi industriali, oggi, non direbbe quasi niente. Le nuove industrie chiamerebbero, com'è accaduto, personale da altri luoghi. I partenopei restano venditori di fumo, di canzoni, di taralli, di pelle, di figli, di serpenti, di sole, di vulve, di mare, di catuozzi, di miraggi, di nacchere, di gobbi, di talismani, di bocche da fame, di camorristi e di iellatori. Sono società fisse. La situazione non muta se dai quartieri del cuore di Napoli si passa agli agglomerati periferici: i comuni, che da una trentina d'anni in qua sono entrati a far parte della città, non hanno mutato se non in peggio la loro condizione. Alcuni erano comuni agricoli: l'insediamento urbano ha lasciato senza lavoro gli agricoltori, ha tolto loro la terra. E ne son venuti fuori altri venditori di cianfrusaglie. Tutto questo vuol dire che nella provincia lo spostamento verso l'esterno del sottoproletariato napoletano non ha modificato affatto la situazione. Nè è servito ad eliminare le «isole» che congestionano la città. Perchè si dovrebbe spostare quando centro e periferia sono la stessa cosa? Anche le industrie, rispetto alle dimensioni della metropoli, sono trascurabili: eccezion fatta per l'Italsider, che occupa meno di seimila unità, e di un manipolo di altri impianti che non ne totalizzano tutti insieme più di quattromila, le altre sono attività che servono la città. Il porto, anch'esso, tolti i carichi per gli stabilimenti di Bagnoli e le raffinerie, fornisce merci che nella massima parte restano a Napoli. Ma allora, di che vive Napoli? Facciamo un calcolo sommario. Tolte diecimila o poco più famiglie che attingono le risorse agli impianti industriali citati, ci sono tra dipendenti dell'amministrazione comunale, impiegati ai trasporti, alle comunicazioni, e alle aziende di luce, acqua e gas, circa 85 mila persone. E costituiscono il grosso dei produttori di reddito. Aggiungiamo 6.500 funzionari degli istituti di credito e per le 216 assicurazioni; ci sono circa trentamila edili; pochi altri sono produttori di un reddito la cui fonte è fuori della città: turisti, peripatetiche, strozzini, magliari, contrabbandieri. Il resto -commercianti, avvocati, ambulanti, medici, maghi, professori, invasati, geometri, liberatori di malocchio, sognatori, giocatori del lotto, fino ai trecentomila che dalle statistiche risultano senza reddito fisso- vivono dei primi. Ossia, in buona parte, Napoli campa attingendo ai fondi che usa per amministrarsi: Quando aveva un Regno la cosa era fattibile. Ma il Regno non c'e più. E' rimasto solo il meccanismo. Anzi, in qualche modo cresciuto e si è perfezionato. Mentre si divora, Napoli si moltiplica. E' la sua specialità. Ed è il suo dramma più remoto, che può avere un giorno o l'altro ripercussioni da cataclisma. Sicchè, scegliere il modo di spendere quei cento miliardi, ancora una volta; può aver dato i brividi, come decidere da che parte dovesse calare la lava che ribolliva in un cratere perchè facesse meno danno. 3 Qualche anno fa, in un bel saggio di Giuseppe Galasso sulla storia del Mezzogiorno, è stata ricordata la sostanziale dipendenza di alcuni principali aspetti progressivi di questa storia da un «aiuto esterno »: la monarchia spagnola nella lotta contro i particolarismi baronali alla fine del secolo XV; la potenza francese durante la Repubblica del 1799 e nel periodo murattiano; l'intervento garibaldino-piemontese nel 1860. Sulla necessità assoluta di interventi «nordici» per la soluzione dei problemi meridionali era giunto a concordare nel secondo dopoguerra, in contrasto con le sue speranze del periodo fascista, anche Salvemini, («L'Italia meridionale non può fare da sè»). Poi è venuto il tempo degli interventi ordinari e straordinari nel Sud. Ha beneficiato Napoli in misura adeguata alla politica meridionalistica svolta? Rispondere a questa domanda richiederebbe un esame accurato. Si potrebbe osservare, innanzitutto che la posizione economica relativa di Napoli nel Mezzo217 giorno forse peggiorata fra il '51 ed oggi. In quell'anno il reddito medio nella provincia napoletana superava del 39,2 per cento quello medio del Mezzogiorno, mentre nel '63 questo dislivello si era ridotto al 26,7, e oggi è ulteriormente calato. Il fatto non è di per sè negativo : esso rientra in un salutare processo di redistribuzione delle parti fra l'antica capitale e il resto del regno meridionale. Questo processo è stato favorito da fattori geografici o da deliberati indirizzi di politica delle nuove localizzazioni industriali, che spiegano largamente gli sviluppi di alcune aree meridionali. Tuttavia, dove il ritmo di progresso dell'area napoletana diventa un sintomo negativo è quando lo si valuta non come « decadenza relativa» di Napoli rispetto al Sud nel suo insieme, ma come insoddisfacente sviluppo della economia napoletana in rapporto all'enorme addensamento demografico che questa città rappresenta. Al censimento del '61 la densità provinciale per chilometro quadrato di Napoli (2.067 abitanti) era pari a circa quattro volte la densità provinciale di Roma (519), quasi due volte quella di Milano (1.145 ), sette-otto-nove volte le densità provinciali di Torino (267), Bari (246), Palermo (222). In questo gran calderone ribolle e si agita un'umanità promiscua, irrazionale, ottimistica e depressa, fatalistica e affamata, chiusa nel circolo vizioso delle camarille e delle cosche di quartiere di vicolo di caseggiato, di famiglia, inesauribile per le sue risorse di vita, quotidiana, ma negata ad ogni forma di apertura economico-sociale moderna e futurible. 4 Il partenopeo è legato al suo quartiere, alla sua città, ai suoi espedienti e alla sua fame, come ad una matrice inalienabile. Dalla esperienza dell'ultimo ventennio si ricava che a Napoli non immigrano nuove braccia, ma nemmeno ne emigrano quelle esistenti, per disoccupate o sottoccupate che siano. Fra l'altro, il tasso d'incremento della popolazione resta ancora enorme. La natalità registra un tasso 26-27 per mille annuo, contro il 15-16 della provincia di Milano, Questo dell'addensa218 mento demografico e del suo continuo accentuarsi rappresenta un «dato» economico di base della situazione partenopea: la circostanza che la distingue nettamente dalla situazione, pur particolare, delle aree agricole povere del Sud, per le quali l'emigrazione ha rappresentato, in bene e in male, uno strumento di decompressione demografica. Gli studi del Comitato per la programmazione dicono che la Campania avrà nel 1991 sei milioni di abitanti. Come frenare l'esplosione demografica? E' grottesca la affermazione secondo cui la tendenza ad una redistribuzione demografica interna alla regione verrà rafforzata dalla politica di programmazione. Questa è la programmazione come mito, come magia. Come pillola. Al contrario, è un problema di educazione (come chiamare diversamente un processo di maturazione civile e sociale dei partenopei e dei meridionali?) 5 Napoli ha sempre sintetizzato tutte le contraddizioni del Sud. Ebbe, in Italia, la prima ferrovia e la prima metropolitana: ha oggi le linee più lente e le reti urbane coi bilanci più dissestati. Ha un Istituto per gli Studi Storici, fondato da Croce, e due fra le Accademie più rinomate dal lontano '700; un Istituto di Fisica Nucleare; la migliore scuola italiana di specializzazione in Economia e Agraria, a Portici; il più celebre centro di lingue straniere. E su Napoli pesa un. pauroso indice di analfabetismo. Si diserta la scuola d'obbligo, che altrove segna il limite del nuovo analfabetismo. Ha una delle migliori università del CentroSud, ma vi si continua ad «andare a legge», a prendere l'avvocatura, perchè Napoli è la terra del subcavillo e del gesto ciceroniano, la terra di Porzio e De Nicola. La metropoli ha un'area agricola unica in Europa (con una produzione media per ettaro che sfiora il milione e trecentomila lire), seguita in Italia solo dall'hinterland di Imperia (con un valore medio per ettaro inferiore della metà rispetto a quello partenopeo), ma registra la maggiore frantumazione terriera del vecchio continente, 219 con mezzo ettaro per abitante. Ha risorse umane di primo piano, ma le spreca nel circuito dell'individualismo, o, al massimo, della casta tribale e familiare. Napoli ha fantasia, inventiva, capacità intellettuali singolarissime, destrezza, ma se le gioca col sole e col mare, le colora col bianco di Pulcinella, vestendole a deserto, e col nero di Pulcinella, figurandole a lutto. I mille colori che esplodono nei giorni di «pazziate» al Pallonetto, di «struscio» a Foria, di «pariolismo» al Vomero, son falsi scopi, inganni ottici. Napoli è bianca e nera. La sua immensa miseria, la condizione umana, la guerriglia per la sopravvivenza, non hanno, non possono avere colore che non sia bianco o nero. Chi dice il contrario è un poeta. Sono bianchi e neri le strade, i giardini. i vicoli, le salite, i bassi, gli ammezzati, i quartieri, i circondari, tutta Napoli. E' tutto un bianco sertao, su cui gli uomini disegnano trame intricate e inimitabili di vicende quotidiane, bizzarri scorci di vita, avventure umane fuori d'ogni logica, d'ogni razionalità, cioè fuori d'ogni comune principio scientifico, sociologico, applicabile di regola a qualsiasi altro insediamento umano. E' un mondo che fa impazzire l'ago della bussola degli urbanisti, dei sociologhi, degli economisti, dei politici, degli assistenti sociali. Questa città ha una dimensione che sfugge ad ogni controllo. Mi divertono tutti quelli che dicono che questi uomini hanno assorbito la mentalità spagnolesca, che sono stati condizionati dal costume delle dominazioni francesi. Occorrerebbe scoprire meglio l'anima partenopea, scavarle dentro, arrivare all’osso, e tirar fuori tutto quello che ha di levantino, di ellenistico, di bizantino, di orientale. Perchè Napoli è orientale negli uomini e nelle donne, nelle case e nelle piazze, nelle seduzioni che offre, nelle poesie che canta, nella fame che soffre, nei lutti che piange, nell'aria che respira, nei pensieri che esprime, nei sogni in cui muore nel sole in cui brucia. Spesso, camminando per queste vie, mi son chiesto perchè mai Napoli è una città senza grandi eroi, senza grandi pazzi, senza grandi martiri. Poi ho scoperto che qui è tanto radicato l'individualismo, sono tanto impastati con la fibra partenopea l'eroismo, la follia, il martirio, che non poteva uscir fuori che una gran razza 220 uguale, tutta arruffapopolo, a mezza strada tra Cola di Rienzo e Savonarola. Sicchè vien fuori anche qui un fatto corale, un coro di voci bianche che ha cantato per secoli le sue nere sventure, le dominazioni, il servilismo, le rivolte, il sangue e l'amore, la forca e l'alcova. 6 Napoli era città ricca. Sotto i borboni e dopo, sotto i piemontesi. Si diceva, allora, che a sud di Napoli c'era il Sud. Poi venne il protezionismo, e vennero l'aggressione economica, l'aggressione sociale, l'aggressione militare, pacificatrice. Napoli diventò profondo Sud. E vi è rimasta anche dopo la ultima guerra, quando avrebbe potuto fare grandi cose, mentre ha visto passare a nord Salerno e Caserta, Bagnoli e Pomigliano. In queste aree si chiamano i grandi ingegneri, i Tocchetti, i Beguinot, i Mazzuolo, li si fa lavorare giorno e notte, devono tirar fuori piani di industrializzazione che guardino lontano, che vadano oltre il '70, che respirino aria di futuro, ma che comincino ad essere realizzati immediatamente. A Napoli ci si muove con la palla al piede, si fanno piani per un domani che è già oggi, mentre il porto invecchia, la città si sfascia e sprofonda, la demografia prorompe, i servizi si intasano, il settore terziario, anche illegale, ha cifre da vertigine. Napoli arretra, mentre la Campania avanza. Napoli incancrenisce, mentre intorno si decolla. Napoli muore impazzendo di gioia, con un veicolo ogni otto abitanti (indice d'incremento superiore alla media nazionale), con decine di miliardi di cambiali protestate (indice superiore a quelli di Milano e Torino insieme), con Piedigrotta, con un paio di inutili fiere, con le case dello scugnizzo, con i santoni e gli ispirati, con le processioni e i miracoli. Napoli va morendo un poco alla volta, dopo essersi illusa di poter sopravvivere col meccanismo del suo Regno. E' restata una città sempre più sola, con i suoi sogni traditi, con i suoi fantasmi esiliati, con i suoi canti spenti. 221 E' il silenzioso, triste epilogo d'una capitale che ha covato per troppo tempo, nel suo seno, la speranza del privilegio politico, geografico, storico, con le sue classi verticalizzate, i suoi padroni intoccabili, le sue cosche inattaccabili, i suoi vizi capitali inalienabili. Neapolis, la nuova città, è un vecchio groviglio di cimiteri, su cui scende, a volte, di notte, un lamento di luna. 7 Una volta, a batter moneta, in Italia, erano tre banche, due delle quali nel Mezzogiorno: il Banco di Sicilia, e il Banco di Napoli. Entrambe perdettero il privilegio a favore del terzo istituto, la Banca Nazionale, oggi d'Italia. Il Banco di Sicilia si votò ad una storia non sempre limpida. Quello di Napoli alla politica meridionalistica. Parlò di tempi lunghi. E credo che se fossimo stati ad ascoltarlo, ci saremmo trovati di fronte a tempi remoti. 8 Quando il programma operativo del Consorzio industriale partenopeo dice che nei prossimi dieci anni saranno creati a Napoli centomila nuovi posti di lavoro, o parla per enigmi, o invita a credere nelle pratiche magiche. Antonio Raho dice che Napoli è una casbah, cui è finora mancato il recupero alla vita moderna, e senza la promozione dei comuni periferici alla dimensione di città medie. E' un mondo che ancora attende la rottura dei condizionamenti culturali ed ecologici che costituiscono una remora di fondo allo sviluppo economico e civile. Ora, Napoli ha tirato a campare fino ad oggi con le leggi speciali e con gli aiuti ordinari e straordinari statali collaterali. Ha dimostrato, cioè, di non essere in grado di crearsi un regime di autosufficienza economicoproduttiva. Manca di propulsione interna, perchè povera, disastrata, urbanisticamente disordinata, indebitata fino al collo, sovrappopolata, an222 timprenditoriale, con commerci che si fermano ai consumi interni. Per creare centomila posti di lavoro che non siano passivi in partenza, è necessario eliminare prima questi mali antichi. Per far ciò, occorreranno anni di lavoro duro, tenace, che non conosca soste. Nè lo Stato, nè i privati sono in vena di scialare, ed è dimostrato che realizzano impianti solo là dove ci sono infrastrutture, personale preparato o idoneo ad essere preparato, e convenienza economica a produrre. In una parola, dove c'è ordine in tutti i settori. Altrove farebbero bancarotta. Così si ha l'impressione che certe cose le dicano a Napoli per farla morire felice, o meno infelice. Gliele dicono i figli di Napoli, i figli dell'improvvisazione, che non consultano parametri reali, ma il libro dei sogni, e dalla nuova Smorfia estraggono cifre fantapolitiche o fantaeconomiche. Con le quali si può costruire soltanto un futuro di delusioni. 223 L'ALTRA CAMPANIA 225 La vera Campania, quella che non ha forse il fascino leggendario di Napoli, ma che in compenso «va passando a nord», registrando notevoli insediamenti industriali, commerci attivi, comincia a San Leucio, e ha una storia che vale la pena di riassumere. Al tempo del secondo Ferdinando, in questo che era poco più di un villaggio vennero riuniti in un'unica sede tutti i tessitori di seta. Sotto la guida lungimirante e paternalistica del monarca, la comunità produceva tele famose nel mondo. Poco alla volta, produzione ed esportazione aumentarono. I tessitori, uomini e donne, indossavano una divisa comune, consumavano gli stessi pasti, erano sottoposti ad una disciplina più dura d'una regola benedettina, si sposavano tra loro. Sotto certi aspetti: San Leucio anticipava l'organizzazione produttiva comunistica. Certo, fu il primo esempio di una comunità di lavoratori gestita dall'alto, dallo Stato, in una maniera clamorosamente efficiente, al punto che furono conquistati molti mercati tradizionalmente importatori di sete orientali, fiamminghe, francesi, lombarde. Oggi, a San Leucio, ci sono gli stessi telai borbonici, che non possono essere sostituiti perchè nessun telaio meccanico è in grado di produrre quel tipo di tele. Non c'è più la comunità dei tessitori, ma la produzione è ancora alta e ricercata. Sono di San Leucio le tele da parato che ornano gli interni del nostro Senato, della Casa Bianca, e le case di industriali e attori famosi. Un metro di quelle tele costa da cinquanta a centomila lire. E' un'attività artigianale per antonomasia, con un suo mercato ben definito, e un futuro senza ombre. 2 Oltre San Leucio, i telai di legno cedono il passo ai moderni complessi industriali. Il piano regionale ha diviso la Campania in un 227 gruppo di aree. Quella reputata più attiva, in grado cioè di ricevere il più alto indice di industrializzazione, comprende tutta la piana, dal Garigliano a Castellammare di Stabia, con la ricca Valle del Sarno e i comuni di Battipaglia, Capaccio, Eboli, Pontecagnano, con Salerno e la Valle del Sele; inoltre, vi sono comprese la penisola sorrentina, Ischia, Procida e Capri, inadatte all'industria manifatturiera, ma economicamente attive in quella turistica. Tutta quest'area costituisce il 21,2 per cento della regione, e ha solo qualche tratto corrugato nelle zone interne. Tutte le altre aree sono collinari o montane. 3 Vi è un altro vantaggio connesso alla posizione geografica della Campania. Essa è la prima zona economicamente attiva che s'incontra nei confini fissati per l'attività della Cassa per il Mezzogiorno, ed è la più vicina ai mercati del Nord. Inoltre, ha i porti che fronteggiano la penisola iberica e la costa africana. La regione, infine, comprende l'inesauribile mercato della sua capitale. Pertanto, portare le aree individuate al massimo di funzionalità economico-produttiva è di enorme importanza, perchè solo con strutture che sfruttino ad alto grado le economie si può creare la competitività sul mercato interno e su quello dei Paesi del Mec. Lo strumento per perseguire questo risultato è stato predisposto nel '57 con la legge 634, che prevede la creazione di consorzi industriali, i quali (com'è precisato nel primo comma dell'art. 21) hanno il compito di «eseguire, sviluppare e gestire le opere di attrezzatura delle zone, quali gli allacciamenti stradali e ferroviari, gli impianti di approvvigionamento di acque e di energia per uso industriale, e di illuminazione e fognatura. Il consorzio può assumere ogni altra iniziativa ritenuta utile per lo sviluppo industriale della zona». Purtroppo, questo strumento si sta dimostrando, per la Campania, più dannoso che utile. Infatti, la disposizione dell'art. 11 e la successiva regolamentazione del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, che definiscono le condizioni 228 .minime per l'istituzione di aree di sviluppo industriale, non hanno previsto il caso che in una stessa regione, e, in particolare, in un'area limitata di essa, potessero sorgere ben tre consorzi industriali. 4 Dopo l'area di Napoli, che presenta tutte le contraddizioni, i pregi e i difetti della città cui è annessa, quella di Caserta è la maggiore per l'importanza e la vastità delle iniziative che vi si sono intraprese. Il piano regolatore di Caserta è dovuto alla Tekne, che ha predisposto una struttura che goda in pieno dei vantaggi di posizione geografica, e che sia, nello stesso tempo, più funzionale possibile. Questa impostazione iniziale ha avuto la sua materializzazione in un complesso che si stacca completamente dal precedente sviluppo urbano. La struttura principale prevede la realizzazione di una fascia di sviluppo in zone non urbanizzate, con l'impianto di agglomerati industriali che ruotino intorno ad un gruppo di infrastrutture «portanti» fisse. Caserta in altri termini, si va industrializzando secondo i modelli di insediamento facilmente riscontrabili nel triangolo del Nord. 5 Il consorzio di Salerno ha posto alla base della sua politica di localizzazione l'assorbimento delle eccedenze di manodopera. Ne è derivato che, invece di impostare un piano di insediamenti industriali ad alto reddito, si è fatto ricorso a tecniche che normalmente vengono adoperate per indicazioni di base per i piani sociali ed urbanistici. Si è divisa l'area in quadranti, si è calcolata la popolazione al 1973, e quindi, eliminando dai valori dei singoli scacchieri gli indici degli occupati e della parte di popolazione attiva nei servizi, si è rilevato il numero degli addetti assorbibili nelle nuove aziende. 229 Ricavati questi valori, si sono stabiliti intorno ai centri principali dei quattro quadranti i nuclei di sviluppo, calcolando da quaranta a cinquanta addetti per ettaro. Il consorzio dà all'industria l'autorizzazione a localizzarsi in uno dei quadranti, e fissa le norme sulla creazione degli impianti. In altre parole, qui siamo in pieno clima dirigistico. Le industrie dell'area salernitana nascono non secondo obiettivi criteri di economicità, di produzione, di reddito, ma secondo le indicazioni prefissate dalla tecnica verbosa e astratta dei quadranti, e secondo il paternalistico indirizzo dello staff dirigente. Tutto questo ritarda notevolmente lo sviluppo industriale dell'area, sebbene la Cassa vi profonda, come a Caserta, somme ingenti. 6 Napoli è la palla al piede della Campania. Questa regione continua a crescere: in dieci anni la popolazione è aumentata di mezzo milione di unità, compensando i vuoti crescenti del Sannio, della Irpinia, di tutta l'area del Cilento. Anche dal punto di vista statistico, è stato notato da Orlando, lo squilibrio demografico, in rapporto al territorio, è evidente: la Campania conta il dieci per cento della popolazione italiana, su una superficie pari soltanto al 1,51 per cento di quella nazionale. Ben più grave diventa lo squilibrio se si tien conto che i tre quarti della popolazione campana si addensano sulla fascia costiera da Salerno a Pozzuoli, e nell'immediato entroterra. E' questa Campania a scala ridotta che ha assorbito, negli ultimi anni, la maggior parte dei fondi erogati dagli istituti meridionali di credito. Nel 1960, l'Isveimer operò prestiti per 44 miliardi: venticinque andarono alla Campania, (quattordici li divorò Napoli con la sua provincia). Nel '61, su 91 miliardi, la Campania ne assorbì dieci, e Napoli quindici. Dei prestiti effettuati dal Banco di Napoli nel '67, il novanta per cento è restato in Campania. Di questa cifra, Napoli ha ingoiato il novantacinque per cento. E' una storia che si ripete da sempre. La pio230 vra partenopea non dà scampo. Benevento non ha visto riconosciuta dal Comitato dei ministri per il Mezzogiorno la sua area di sviluppo industriale perchè mancano fondi per effettuarvi concreti finanziamenti. Sono i quattrini che finiscono nella voragine senza fondo di Napoli. Cioè in quella delle due Campanie, che è la più caotica, dissociata e antiproduttiva. 7 Si potrebbe scrivere la storia di Napoli attraverso i monumenti alla scaramanzia. Il terrore della jattura, della sfortuna, è radicato nell'anima partenopea. E' il sentimento più antico, profondo, verace, dei napoletani. E c'entra dappertutto, nei rapporti umani più semplici ed elementari come nelle espressioni più complesse della vita comunitaria. E' per scaramanzia che osano appena sussurrarlo: forse Napoli diventerà un nido di teste d'uovo. Le trattative per la nascita dell'«area della ricerca» sarebbero a buon punto, gli esperti starebbero per passare dalle linee generali ai dettagli. Napoli sarebbe destinata a diventare il cervello scientifico, tecnologico, del Mezzogiorno, alla scoperta di un prestigio che aveva perduto per via da secoli. Si sa che i partenopei sono sibaritici e geniali. Alcuni sono eroici. Pochissimi tra questi ultimi sono restati nella loro città natale. Si chiamano Caianello, Nicolaus, BuzzatiTraverso, Liquori, Magrassi, Ballio. Sono cervelli che valgono miliardi, ma che questa nostra Italia aveva sbattuto in un gruppo di baracche sconnesse e cadenti ai margini della Fiera Mediterranea. In questi padiglioni, nel '58, Caianello aveva installato il suo istituto di fisica. Poi vi sono sorti due centri di cibernetica e il laboratorio di genetica e biofisica. Il progetto che, timidamente proposto, era rimasto - facciamo per dire - nel cassetto dei notabili, diventò di dominio pubblico quando improvvisamente si venne a sapere che il professor Caianello era stato sfrattato dalla mostra. Si era trattato di un malinteso, presto chiarito. 231 Ma l'opinione pubblica fu scossa. Se anche questi uomini avessero scelto la via dell'emigrazione, a Napoli sarebbero restati i sorci verdi. La capitale del Sud si sarebbe giocati al lotto, sprecandoli, gli ultimi cervelli. Il dibattito fu acceso. Si proponeva la concentrazione dei laboratori e dei ricercatori in una zona definita e circoscritta. Si aggiungeva che, se si fosse riusciti a realizzare il progetto, sull'area sarebbero venute ad operare anche una grande società di apparecchiature elettroniche e una scuola di perfezionamento dell'università di Berkeley. Ovviamente, niente di spettacolare, nè di originale: così com'è concepita, l'area è di proporzioni modeste rispetto a quelle che sorgono altrove. Il criterio di raggruppare in zone appartate ricercatori di diversi settori della scienza, di agevolare i loro contatti e i loro scambi, è da tempo acquisito nei Paesi progrediti. Le loro «città della scienza» hanno dimensioni ben diverse da quelle che si prospettano per Napoli. Ma anche là si cominciò in piccolo e con poco. C'era appena un albero a Stamford (a quattro passi da San Francisco), quando una decina di anni fa vi si installò un centro di ricerche che si chiamò, da quell'albero, Palo Alto. Oggi, a parte le dimensioni che la zona ha acquistato, l'area formicola di industrie elettroniche. Qualcosa di analogo è accaduto in Francia, a Tolosa, e soprattutto a Grenoble. Quale area utilizzare? Quella della Fiera d'Oltremare. Nata prima della guerra, questa mostra è costata miliardi, senza che alcuna logica ne giustificasse l'esistenza. Classificata dalla Corte dei Conti tra gli enti inutili, si vide tagliati i fondi. Ma non diminuirono le sue capacità di resistenza. Autorità, partiti, governo, ne reclamavano la testa, ma la mostra era dura a morire, e per un momento parve anche che riuscisse a silurare il progetto dell'area tecnologica. Nel nostro Paese le cose più semplici sanno complicarsi in un momento. La mostra e il terreno su cui sorge sono dello Stato; i fondi del Consiglio delle Ricerche sono anch'essi dello Stato. Dunque, non riesce molto limpido perchè un'attività dello Stato debba tanto laboriosamente contrattare, per acquistarsi 232 il diritto di operare su un terreno dello Stato, e versare un canone d'affitto che lo Stato si potrebbe risparmiare se la consistenza dell'Ente Mostra venisse ridotta o, meglio, eliminata. L'area di ricerca comincerà a funzionare su quattro ettari. L'università di Napoli, sempre in cerca di una sistemazione, forse potrà trovare interessante installare da quelle parti qualche suo istituto. Anche perchè si tratta di un'università che è circondata - caso unico nel Mezzogiorno - da tre nuclei di sviluppo industriale. 8 L'interno della Campania è profondo Sud. Il Sannio e l'Irpinia, fragili terre antiche, sono sconvolte dai terremoti e dalle frane. I paesi hanno bisogni elementari, alle spalle non hanno vicini più fortunati, e devono guardare avanti, verso la pianura e verso il mare. Sono contrade così povere, che la camorra vi si estinse spontaneamente. Qui è la Campania senza prospettive. L'agricoltura tiene legati gli uomini alla terra, l'emigrazione si porta via stormi di giovani e il risultato di quindici anni di fughe è che l'Irpinia ha la popolazione agricola più anziana della penisola. L'industria non vi arriverà mai. L'area è destinata a restare quella che è sempre stata, una zona di transito per le grandi correnti commerciali verso Napoli e Roma. Quando l'Autostrada del sole sarà completata nel suo tratto Bari-Napoli, l'Irpinia sarà scavalcata in un batter d'occhio, e perderà anche il privilegio dei piccoli commerci su cui si è fondata finora la sua minieconomia. Neanche il turismo qui è pensabile come moderna forma di incentivo a industrializzare. L'Irpinia è bella, suggestiva, ma compressa tra i centri montani del Molise e quelli rivieraschi della fascia partenopea. E' inutile cercare alberghi degni di questo nome in una terra in cui ancora oggi sono ammucchiate le baracche dell'esercito per il terremoto del 1962. Non vi può essere determinata alcuna spinta, se prima non si saneranno antichissimi mali geologici e spirituali. La Cassa 233 spende alcuni miliardi, a grandi distanze. Ma la Cassa non è lo Stato. E lo Stato lascia fare solo alla Cassa, e pensa d'avere la coscienza a posto. Una lenta, costante degradazione corrode uomini e terre irpine e sannite. Benevento è un'oasi su un campo minato. Il resto è Epiro, regno di capre e bufali, su cui svetta l'area di sviluppo avellinese, tipico esempio delle contraddizioni del mito e della cultura industriale meridionale. 9 Ancora fino a qualche tempo fa, la Campania produceva il quaranta per cento del reddito industriale meridionale, restando in cima alla graduatoria delle regioni a sud della linea Gotica. Gli slanci presi da altre regioni, (Puglia-Sicilia-Basso Lazio), hanno sensibilmente ridotto le distanze, e la Campania rischia ora di perdere troppo terreno. Quando è stato dato l'allarme, si è parlato di due Campanie, una delle quali estremamente depressa, l'altra non povera, ma senza grandi impulsi decisivi. Cioè si ripete, a livello regionale, quello che si può constatare in tutto il Mezzogiorno. Sicchè il discorso sulla Campania coincide con quello sull'intero Sud. Cambiano le dimensioni, ma restano i problemi di fondo. Campania, Sicilia, Puglia, sono le tre regioni-pilota del Mezzogiorno. Lo sono da sempre, cioè dal momento in cui è stata varata una moderna politica meridionalistica. Se uno dei tre vertici del triangolo cede, crollano le altre impalcature collaterali. Qui si corre questo rischio. E non è cosa da poco. 234 LA QUESTIONE SARDA 235 Nel 1821 fu varata in Sardegna la legge delle «chiudende»: per diventare proprietari della terra bastava recingerla. Ne beneficiarono coloro che sapevano leggere, cioè i ricchi, e coloro che avevano il denaro per le recinzioni, cioè gli stessi ricchi. Sempre più povero, il popolo cantò: «Tancas serradias a muru / fattas a s'afferra afferra / si su chelu esser'e terra / si l'hain serradu puru», (Terreni chiusi con muri / fatti all'arraffa arraffa / se il cielo fosse stato terra / avrebbero cintato anche lui). Da allora, i pascoli sono diventati una ricca rendita, mentre le condizioni dei pastori sono continuamente peggiorate. Fu definita una legge «savissima». Che risultati ha dato a distanza questa saggezza? Sono cresciuti la diffidenza, l'odio, il disagio economico. Si è perpetuata la guerra dei recinti, che divampa da oltre un secolo. Ci ha tramandato, intatta, la figura medioevale del servo-pastore. I servi-pastori sono 40 mila, e producono un reddito annuo di sessantacinque miliardi, che intascano i padroni. Una volta i pastori erano al vertice della scala sociale, e precedevano - per numero - anche gli impiegati e i contadini. Oggi è l'inverso, con tutte le conseguenze psicologiche immaginabili. La pastorizia era un'antica ricchezza della Sardegna. Ora riesce a condizionare negativamente lo sviluppo dell'isola. Quello dei pastori in sè è un mondo omogeneo. Di fronte agli altri è come se si frantumasse. Nessun sindacato è mai riuscito a fare un contratto-tipo per i pastori. Il pastore sardo è una sintesi perfetta di fierezza e arretratezza. Se ha un complesso, è quello della «mastruca». La mastruca è un giubbotto di pelle di montone che i pastori della Barbagia indossano rovesciato, col pelo fuori, a differenza di quanto fanno tutti gli altri. Perchè? Ci dico- 237 no: è un tentativo di reazione, di differenziazione. E' l'eterna fuga dall'integrazione. Nel '61, con una legge regionale, si annullarono i debiti dei pastori e degli agricoltori verso i consorzi e le banche. Ammontavano a circa trenta miliardi. Con un'altra legge si concedevano contributi fino all'ottanta per cento per la costituzione di aziende silvo-pastorali. Ma ne approfittarono solo i grandi proprietari. In realtà, la Regione non è riuscita a far costruire le nuove aziende, nè a regolare in qualche modo la pastorizia. Oggi si assiste ancora allo sfruttamento di rapina dei pascoli, degli erbai, dei boschi. La Sardegna è praticamente una terra senza grandi imprenditori, e con troppi affittuari. Vi manca una solida borghesia media, e i partiti hanno colpe remote. I sindacati, colpe remotissime. 2 A metà del secolo scorso, corse voce che Cavour si disponeva a cedere l'isola alla Francia. Vera o falsa che fosse la notizia, ne rimase anche dopo un senso di sospetto e di reciproco imbarazzo. Da una parte, l'Italia di terraferma si interessava pochissimo della Sardegna, dall'altra Cagliari rimproverava al « continente» sgarbi e trascuratezze di tipo coloniale. In realtà, gli stranieri ben più che gli italiani hanno tentato di afferrare il senso riposto della storia, della lingua, delle tradizioni e della cultura sarda. E l'isola, il più antico lembo di terra emersa nel nostro emisfero, ha aperto il cifrario oscuro della sua civiltà agli stranieri prima che agli italiani. Tra l'altro, nell'isola sono maturate esperienze che nulla hanno in comune con quelle italiane. Ad esempio, nell'isola vigeva, fino ai primi decenni del secolo scorso, la comunità dei beni rurali. Ogni paese, ogni villaggio, era concepito come l'epicentro di un mondo a sè: la terra era affidata per un terzo ai contadini, e per due terzi ai pastori. D'anno in anno avveniva la rotazione. Tutto ciò du- 238 rava da millenni, fino a che Vittorio Emanuele I, con la legge delle «chiudende », stabilì la fine del sistema comunitario. Può apparire strano, ma il trauma causato da quell'editto è ancora oggi molto vivo. E proprio dal senso di umiliazione e di frustrazione del pastore, da quel suo sentirsi tagliato fuori dalla società, dannato a ramingare con le sue greggi, nascono e si acutizzano gli stimoli alla rivolta e alla vendetta sociale, che sono alla base dell'odierna inquietudine pastorale. 3 Non è la prima volta che la situazione criminale della Sardegna consiglia l'invio di rinforzi speciali di polizia. I primi «baschi blu» vi sbarcarono 1950 anni fa, verso il 19 dopo Cristo. Siccome le liti fra israeliti e greco-egiziani tenevano in subbuglio l'Egitto, il Senato romano (imperatore Tiberio) deliberò di spedire nell'isola ebrei ed egiziani di bassa estrazione che si ostinassero nei loro culti «superstiziosi», Il Senato (dice Tacito) riflettè che, violenti contro violenti, se la sarebbero vista tra loro. E inviò ben quattromila «poliziotti». Egitto, Sicilia e Sardegna erano i granai di Roma. I soldati dovevano difendere il grano. E far questo soltanto. Ci si può chiedere come mai, in un paese ben coltivato, in fondo più ricco di oggi, potesse fin da allora svilupparsi un brigantaggio tale da esigere misure speciali. La risposta è che era ormai luogo comune per i geografi e gli storici dell' epoca, (Diodoro Siculo, Strabone), attribuire tutti i fatti di violenza alla barbarie della popolazione del centro dell'isola. Scrive Strabone: avevano anche loro terre fertili, ma alla coltivazione preferivano il ladrocinio, che a volte esplodeva e si espandeva a largo raggio, nè era facile reprimerlo. Come si fosse formato «questo nucleo duro», si spiegava col fatto che i tanti conquistatori della Sardegna, greci e romani, cartaginesi e fenici, avevano fondato colonie sulle coste, occupando i pianori più redditizi e cacciandovi gli aborigeni. 239 Non avevano travalicato le montagne che coprivano in tre punti cardinali, tranne che ad est, la regione di Nuoro. Dopo i romani, i bizantini lasciarono alla deriva la Sardegna, che si divise in quattro giudicati, (Arborea e Cagliari a sud, Logudoro a nord-ovest, Gallura a nord-est), che confinavano tra loro esattamente nella regione nuorese, che finì per diventare eccentrica e poco «governabile», Poi l'isola cominciò a cambiar mano: prima, rivalità tra Pisa e Genova, poi la Spagna, infine i Savoia. Il centro nuorese restò sempre eslege. Col Risorgimento si cercò di far qualcosa, e dai primi dell'Ottocento Sardegna e Nuorese cominciarono ad essere oggetto di studi etnologici, quasi cavie per gli esperimenti nel laboratorio della scuola positivista dei Lombroso, dei Sergi, degli Enrico Ferri, degli Alfredo Niceforo, e via dicendo. Fin da allora l'isola risultò prima nella graduatoria criminale italiana per i numerosissimi delitti consumati nell'area di Nuoro. La scuola positivista diede una spiegazione tipica delle cause: chiuso fra le montagne, il Nuorese non aveva seguito l'evoluzione del resto del mondo, e si trovava in uno stadio ancora molto primitivo di moralità per il quale era suprema virtù «l'aggressività». A questa causa fondamentale andavano aggiunte quelle concomitanti: scarsa viabilità, piccola proprietà rovinata dal fiscalismo, malgoverno. Ma restava come fatto determinante il «temperamento regionale», che Niceforo accostava (secondo i dettami della sua scuola) al temperamento caratteristico del selvaggio e del criminale. Perchè i poveri selvaggi, in clima di evoluzionismo, se la passavano male: poiché erano meno evoluti, erano esseri inferiori in ogni senso. Forse - continua Niceforo - il Settecento, con la sua ammirazione per la onestà e la moralità che supponeva nei primitivi, era più vicino al vero. La guerra non fu certo abitudine dei primitivi. Fu invenzione della civiltà. Tanto è vero che, a discarico dei nuoresi, dev'essere sottolineata la non-frequenza dei delitti d'onore. Solo la morale sessuale era elastica. Se ne occupò anche un uomo di chiesa, San Gregorio, che delimitò la zona calda tra la Barbagia, il Nuorese e le propaggini meridionali del Gennargentu: «Regione montuosa – scrive240 va - in cui abita gente che vive nei boschi, senza leggi né vera religione, che si dice sia rimasta là quando l'isola venne ricuperata dalle mani dei barbari d'Africa. Le sue donne sono eccessivamente sensuali e impudiche, e gli uomini lo permettono. Infatti, dato il caldo e le cattive abitudini, girano vestite di lino bianco, e così scollate da mostrare il petto e le mammelle ...» In queste terre, ancora oggi, si usano le corse di cani scuoiati. 4 Si importano le arance dalla Sicilia e le marmellate dal Veneto, sebbene in tanta parte della Sardegna il clima sia californiano. L’ idea della California, ricorrente in tutto il Sud, suggerisce anche in quest'isola il tema della necessaria fusione di due mondi, quello agricolopastorale e quello industriale. Distratti dal miraggio degli stabilimenti, visti come rimedio universale ai mali trascinati per secoli, i sardi hanno compiuto uno sforzo modestissimo per trarre ricchezza dall'agricoltura. Da dodici anni si son sentiti ripetere: «Non una goccia d'acqua al mare, se prima non ha fecondato la terra». Ma su 120 mila ettari irrigabili grazie alle dighe costruite, solo tredicimila hanno acqua sufficiente. Dopo interminabili - e spesso acute - dissertazioni, l'isola si trova negli ultimi posti delle graduatorie nazionali per le produzioni più favorite dal suo clima. Arance: 200 mila quintali contro i sei milioni della Sicilia e i due milioni e mezzo della Calabria. Olio d'oliva: ventimila quintali contro i 130 mila della Liguria, che ha oliveti molto meno estesi. Vino: un milione e mezzo di ettolitri contro i dieci milioni della Puglia. «Sono così da poco li sardi che, quantunque il Regno abbondi di piante, per spirito di trascurataggine si provvedono di legname dalla Corsica», scriveva il Bogino, ministro di Carlo Emanuele III, rimasto nella memoria dei sardi per la sua durezza. Giudizio ingiusto, perchè fondato sulla scarsa conoscenza dell'isola, (in grandissima parte disbo241 scata nella convinzione di eliminare il banditismo con le foreste), e sulla totale incomprensione dei problemi di una società non cementata, fatta di isolati e divisi, che negava ogni possibilità d'iniziativa. Su quel tessuto arcaico si innestarono poi le riforme fondiarie che spinsero la polverizzazione dei fondi agricoli a limiti esasperati. Mancando lo spirito associativo, che potrebbe correggere le storture ereditate, è difficile assecondare quello imprenditoriale, esiguo anche nelle piane raggiunte dall'acqua, dalle bonifiche e dalle industrie continentali. Il solo grande esempio di specializzazione agricola è reperibile nel Campidano. Il reddito sardo resta perciò sulla media di duecentomila lire, contro il mezzo milione del resto del Mezzogiorno. E' una media troppo bassa, e i traumi che ne conseguono sono alla radice dei rancori, anche antiunitari e separatisti, che serpeggiano in questi tempi. Le proteste, per ora, sono limitate. Ma nel luglio '67 la Sardegna intera scese in sciopero contro Roma. Era il primo precedente, nella nostra storia, di una regione che si tagliava fuori dal Paese. Resta una lezione da non dimenticare. 5 Il Piano di Rinascita ha rappresentato il grande tema della politica autonomistica per molti anni. Le speranze più ambiziose vi avevano trovato spazio ed esaltazione. Si discuteva in termini di efficacia taumaturgica. Sembrava lo strumento ideale per rompere l’assedio di situazioni economiche e sociali antiche quanto lo stato di arretratezza, ma ancora tanto robuste e radicate da soffocare la volontà di ripresa. Ora, la critica ragionata si è sostituita all'aspettativa miracolistica, e un senso di delusione ha preso il posto delle illusioni irrazionali. Ciò non significa che la Sardegna non crede più nel Piano, o che l'ha ripudiato, o che il Piano stesso si è dimostrato una finzione retorica, un errore politico. Più realisticamente, l'isola guarda ad esso come ad un mezzo che ha bisogno di sostanziali rettifiche e di continue verifiche, perchè il pa242 norama economico ha subito cambiamenti, e perchè sono mutate le stesse condizioni d'avvio. L'esperienza ha proposto un problema notevole, la cui soluzione è definita «d'aggancio». II problema è quello delle differenze fra le province, o fra le varie aree, fra zona e zona, quale effetto necessariamente negativo della concentrazione per poli. Dove esistevano, le differenze sono diventate più accentuate. Ora, la politica regionale si è posta la questione di agganciare le zone immobili a quelle in movimento e in sviluppo. E non è fatica lieve. C'è da aggiungere che ai problemi d'impostazione tecnica, di rettifica e di verifica, si sommano gli altri, di natura squisitamente politica. Tra questi, il principale è rappresentato dai rapporti Stato-Regione in materia di programmazione. E' un problema di collegamento fra programmazione regionale e programmazione nazionale. Rientriamo nel quadro generale delle recriminazioni isolane. La regione è chiamata ad esprimere le sue opinioni, ma, in definitiva, ha l'obbligo di attenersi alle direttive dell'ufficio del programma. Alle coscienze regionalistiche questo sembra un tradimento dell'idea di autonomia, accettata dalla Costituzione e consacrata nello Statuto istitutivo. Vi sono vie d'uscita decorose, ma non pienamente soddisfacenti. Ciò - dicono a Cagliari - dimostra quanto sia faticoso per la regione conquistarsi giorno per giorno il diritto all'autonomia, combattendo la naturale diffidenza del potere centrale verso gli organi periferici: lo Stato ha fatto la regione sarda prima di darsi una consapevolezza regionalistica e una mentalità rispettosa dell'ideale autonomistico. Da qui, oltre il resto, l'eterna protesta sarda contro la capitale italiana. 6 Due volte - nel 1796 e nel 1847 - la borghesia sarda rinunciò all’autonomia. Nel suo «Alle origini della questione sarda – Note di storia sarda del Risorgimento», Girolamo Sotgiu, illustrata la spinta 243 evolutiva dei movimenti modernisti che la classe media e dirigente dell'isola annullò con la sua incapacità di guardar lontano, conclude affermando che la questione sarda, postasi solo con la Resistenza e la Costituzione repubblicana, non può essere considerata isolatamente, ma nel contesto di quella, più vasta, di tutto il Mezzogiorno. «Si potrà così evitare di impegnare la ricerca culturale e storiografica in uno sterile ritaglio delle vicende sarde, avulse dalle vicende nazionali, che non favorisce la comprensione più piena delle travagliate vicende che ci hanno condotto all'Italia e alla Sardegna d'oggi; ma soprattutto si potrà ottenere il risultato di non restare isolati in una battaglia che è culturale, ideale e politica insieme, per quell'arricchimento della vita democratica del Paese, che è la condizione per il rinnovamento economico, sociale e culturale della Sardegna e del Mezzogiorno». A tutti gli effetti, la Sardegna è profondo Sud, e i suoi problemi confluiscono in blocco nel gran padellone del problema meridionale. E vi confluiscono di diritto, con tutte intere le eredità lasciatevi dalla dominazione spagnola: università di Cagliari e Sassari, difesa costiera, ulivo, agricoltura di rapina, malaria, disboscamenti, paralisi economica, banditismo, mancanza di fermenti illuministici, feudalità arcaiche, abulia civica, logomachie barocche, sogni separatisti sulla scorta del pensiero di Aproni, trasformismo del terzo stato. Grandi ricchezze potenziali, luttuosa povertà contemporanea. Tutto questo è Mezzogiorno. E' problema meridionale e italiano ed europeo, che non si supera risolvendo il solo fenomeno del banditismo. 7 E' stato detto che la mitizzazione letteraria e scenica del delitto è un vecchio male, non soltanto italiano. Perciò in Sardegna i equestri di persona, le uccisioni, le rapine aggravate, le evasioni, spesso costituiscono la materia prima di una sinistra epopea. Nuorese e Barbagia sono un nostro piccolo Vietnam pastorale, che nei momenti di maggior ten244 sione costa allo Stato e all'esercito che lo rappresenta in queste latitudini duecento milioni al giorno. 8 La criminalità tradizionale, figlia della società pastorale, sopravvive in quasi tutte le sue manifestazioni tipiche. Essa prorompe dalla economia d'ovile. Si fonda sui reati collegati al possesso e alla difesa del bestiame: abigeato, sconfinamento, sgarrettamento, sfruttamento abusivo dei pascoli, macellazione clandestina, vendetta. Ha una fisionomia precisa, origini storiche e psicologia caratteristiche. La pastorizia rappresenta ancora uno dei cardini dell'economia sarda. Se le statistiche registrano una diminuzione di quei reati tipici, ciò dipende da circostanze legate alla crisi generale dell'agricoltura e della pastorizia, allo spopolamento delle campagne e delle montagne, allo inurbamento, all'emigrazione. Ma finchè esisterà una pecora si rinnoverà il tentativo di appropriazione: l'isolamento dell'uomo dal mondo delle comunicazioni civili incoraggerà l'arretratezza del costume in un gioco tragicamente anacronistico. E' una verità relativa che il pastore tende ad abbandonare definitivamente l'ovile per trasferirsi in città, e che il processo d'integrazione nella civiltà delle macchine e dei consumi non proponga alternative sociali e psicologiche alle condizioni di pastore inurbato. Questo accade. Solo non spiega la diffusione dei reati caratteristici della criminalità moderna. E' vero che il pastore trasferisce nella città tutto il suo bagaglio di mentalità, di tabù, di costumi e di bisogni, che stanno alla base della criminalità tradizionale. Tuttavia sarebbe un grave errore supporre che l'attuale ondata criminale da cui sono investite le città sia conseguenza diretta di questa tendenza ad abbandonare i pascoli e gli ovili. Il pastore è abituato a farsi giustizia con i mezzi a sua disposizione: non scrive lettere, non usa telefono, non guida auto veloci, non sa destreggiarsi fra le insidie della psicologia urbana. E' un solitario che agisce 245 nella consapevolezza di trovare protezione e aiuto nel meccanismo delle complicità, proprio del suo mondo. Sono le nuove fonti di reddito - industrializzazione, commercio, turismo, speculazione sui terreni - ad aver prodotto una nuova criminalità, in parte o del tutto estranea all'antica vena maligna. A nuove risorse corrispondono nuovi bisogni. Come la società pastorale ha generato e tiene in vita una delinquenza primitiva e rudimentale, così la civiltà delle macchine esprime e determina la formazione di una delinquenza in grado di approfittarne in schemi moderni. La speculazione sull'uomo ha sostituito la speculazione sull'animale. Spesso accade che la criminalità di città si serva della criminalità di campagna. Ma sono alleanze occasionali. A differenza del pastore-bandito, il ricattatore o il sequestratario opera su un terreno che esige organizzazione e calcolo, procede con scrupolosa preparazione tecnica, agisce con mentalità da gangster. Non è un solitario. Ha possibilità di mimetizzazione nel tessuto stesso delle città, poichè viene anche da ceti insospettabili. Si adegua alle situazioni ambientali. E' tenace, spregiudicato. E' giovane. Ha scoperto, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, gli idoli e i vizi della civiltà contemporanea: tutto un campionario suggestivo di equivoci e illusioni, senza l'aiuto della morale e della cultura. E' disponibile al rischio come alternativa alla mancanza di valori e di prospettive, come evasione, come protesta irrazionale. Si converte al crimine con estrema superficialità. Solo le sue tecniche non sono superficiali. Ciò che lo accomuna al pastore-bandito è la ferocia. Per il resto sono personaggi inconfondibili. 9 Nella relazione che accompagnava il disegno di legge per una inchiesta parlamentare sul banditismo sardo era richiamata un'altra inda- 246 gine, quella sulle condizioni economiche e della Pubblica Sicurezza promossa alla fine del secolo scorso dal ministero Crispi. Sta per chiudersi il 1894. Da un settennio l'economia isolana è in fase di allarmante prostrazione. Sono in molti a individuarne il motivo di fondo nella disdetta dei trattati commerciali con la Francia in seguito all'inasprimento delle tariffe doganali. Fino all'87, anno della denuncia dei trattati, l'avvio verso i mercati francesi di alcuni prodotti dell'agricoltura sarda aveva per lo meno contribuito a impedire il collasso. Ora, privata dal suo sbocco tradizionale e più redditizio, quell'agricoltura tocca il fondo della crisi. In corrispondenza, si abbatte sull'isola una tempesta di violenze. L'opinione pubblica è scossa da fatti clamorosi. Rapine, ricatti, omicidi. Un intero paese, Tortolì, è cinto d'assedio da una banda d'un centinaio di fuorilegge, che giungono ad occupare la caserma dei carabinieri prima di abbandonarsi al saccheggio. Il '94 si chiude con un bilancio terrificante: 211 omicidi, quattro in media alla settimana, su una popolazione che non supera le settecento mila unità, e 222 rapine aggravate. Sono esplosioni di violenza irriducibili dentro uno schema unico di comportamento. La pastorizia è in lotta con l'agricoltura, e dalla contesa dei terreni, dal gesto del proprietario che scaccia l’occupante abusivo del suo campo, nascono situazioni di conflitto, odii tenaci, che si propagano dentro i gruppi familiari fino a contrapporre gruppo a gruppo in una drammatica competizione tribale. C'è poi un deposito senza fondo di rancori lentamente accumulati contro il «piemontese» che rastrella i magri frutti di una immensa fatica, e confisca il ritaglio di terra, la casaccia, il giaciglio. C'è avversione profonda contro il padrone del pascolo che si limita a riscuotere il canone d'affitto senza migliorare la terra, e lascia alle spalle del pastore tutto il peso delle annate cattive. Il banditismo dilaga. Preoccupato della gravità del fenomeno, Crispi ordina l'inchiesta parlamentare. L'incarico di condurla non è affidato ad una commissione, ma ad un solo deputato, il sardo Francesco Pais Serra, eletto nel collegio di Ozieri. Dirà Gramsci anni dopo: «L'inchiesta dell'on. Pais 247 sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio di infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero ». La si può rileggere: vi si trova uno spaccato impressionante della realtà sarda di quegli anni. E molte cose sono simili a quelle odierne. Pais rilevava il nesso tra banditismo e tessuto economico-sociale. Negli anni di floridezza dei traffici con la Francia, dall'80 all'87, si era registrata una progressione decrescente dei delitti. Subito dopo, la catastrofe. « Anche oggi – affermava - il leggendario bandito sardo, forse più favoloso che vero, attrae da quel misto di romantica forza, di brutali vendette ed insieme di cavalleresca generosità, le menti ingenue del popolo; e un'aureola di simpatia incosciente ma tenace circonda il capo di colui che, solo e debole, si crede combatta non contro il diritto della società ma contro la pretesa violenza e la prepotenza personale o dell' autorità. Donde spesso si verifica una ospitalità larga, una premura generosa e una cooperazione nel nascondere il delitto e il delinquente anche fra le persone non diffamate; la qual protezione inconsciamente criminosa è il più grave ostacolo per ristabilire l'ordine e la giustizia sociale». 10 La vedova che si risposa diventa una donna di malaffare e i parenti del morto hanno diritto di risentirsene. L'uomo che rifiuta di vendicarsi per saldare il conto di un'offesa ricevuta è un vigliacco, indegno di vivere. Chi può esprimersi è soltanto l'uomo che abbia dato infinite prove di coraggio e virilità, per cui non sarà mai sfiorato dal sospetto di viltà o debolezza. Il furto di bestiame è considerato offesa solo se il responsabile è un compagno o un vicino d'ovile. Il rapporto offesa-vendetta è il tema fondamentale dell'ordinamento giuridico che la «società dei ladroni» si è dato attraverso i secoli, in contrapposizione all'ordinamento giuridico statale. Questo ha origine riflessa, quello è di formazione spontanea. La pratica della vendetta 248 non promana da una codificazione scritta. Si identifica in un concetto genericamente perseguito di giustizia locale, privata, alla quale però si attengono intere comunità. E' la giustizia barbaricina, ereditata come regolamentazione di un sistema di vita associata e come risultato di una mentalità in ritardo. Essa si origina da un complesso di usi, costumi, condizioni psicologiche e ambientali che sopravvivono in aree sociali tipiche dell'interno, in una società rurale che ha il suo più folto insediamento in questa Barbagia, terra aspra, indocile, che ha difeso i suoi caratteri originari, resistendo al progresso della storia. «La vendetta barbaricina come ordinamento» è il titolo di uno studio interessantissimo condotto da Antonio Pigliaru, docente universitario a Sassari, uomo di punta della cultura sarda e intellettuale di serio impegno politico. La sua tesi - come ipotesi sociologica - è tuttora al centro di discussioni e polemiche. Ciò testimonia del suo valore obiettivo. Pigliaru sviluppa l'idea che le genti barbaricine si sono imposte un codice che può essere inteso come ordinamento giuridico sia nella sua attuazione pratica che nel suo senso etico. L'enunciazione delle norme scaturisce dall'osservazione del costume, dal cumulo delle testimonianze, dalla realtà dei rapporti all'interno delle comunità pastorali. Il concetto ispiratore è identificabile nella vendetta come metro di giustizia. Di conseguenza, non deve stupire la constatazione che anche la vendetta è condizionata dal rispetto della verità. Le responsabilità meritevoli di vendetta debbono risultare chiare e indiscutibili perchè la punizione sia approvata, legalizzata dalla complicità della comunità o del gruppo o della famiglia. Altrimenti non ha motivazione morale. E' vendetta mascherata, pretesto per il sopruso. Ecco, quindi, scattare il rozzo meccanismo di un processo istruttorio per l'accertamento delle colpe reali e l'individuazione del responsabile. In questo campo la verità della giustizia legale non fa testo. Scrive Pigliaru, sulla scorta delle testimonianze: «La vendetta è proporzionata, prudente, progressiva». Ha l'elasticità delle pene previste dal codice penale. E' proporzionata alla gravità dell'offesa ricevuta, 249 prudente nell'esecuzione e nell'accertamento preliminare delle responsabilità, progressiva nel tempo e nelle modalità. Dal quadro generale si deduce che la vendetta ha scadenza: alla stregua di una sentenza, può cadere in prescrizione. Quella che non cade è la vendetta diretta a lavare le offese di sangue. Poichè all'impegno vendicativo è legato tutto il gruppo di chi ha ricevuto l'offesa, la punizione può essere realizzata da un qualsiasi componente. Inoltre, questa vendetta è un impegno ereditario. Questa è una delle principali difficoltà che incontrano le indagini per i casi di delitto in Barbagia: non si sa quasi mai a quando risalgano i moventi. L'evoluzione dei tempi ha insegnato l'utilità della vendetta trasversale, o su commissione: sono modi per ingarbugliare le carte e sviare le indagini. In un tessuto mentale di tal genere è facile immaginare quante deformazioni a tinta criminale possono fiorire, e quante forme può assumere l'attività criminale. 11 Se l'evoluzione economica e sociale della Sardegna avesse raggiunto rapidamente e concretamente i grandi risultati che si speravano qualche anno fa, forse oggi non esisterebbe un banditismo urbano protagonista di fatti così clamorosi. Le cose sono andate diversamente. Tra l'altro, i non cospicui interventi dello Stato a favore dell'isola hanno trovato in risposta da parte dei dirigenti locali non una vera pianificazione, ma programmi frammentari e indecisi, abbozzi d'iniziative o troppo timidi o insensatamente grandiosi. Si è auspicato con frenesia uno sviluppo economico realizzato solo dai sardi. Ma i tentativi hanno avuto il respiro corto. Quando si è visto che non servivano a mutare la situazione, si è chiusa l'esperienza e ci si è consegnati agli imprenditori del Nord, senza aver nemmeno predisposto i piani per convogliare le iniziative in un programma organico. Per risolvere la crisi delle zone carbonifere e scongiurare la chiusura delle miniere, è stata ideata e costruita la grandiosa centrale elettrica di Portovesme, costata settanta mi250 liardi, che avrebbe dovuto utilizzare il minerale. Solo dopo ci si è resi conto che il carbone costava molto rispetto alla nafta, e si è finito col vendere tutto, miniere comprese, all'Enel, che in Sardegna perde adesso da tre a cinque miliardi all'anno. E il costo dell'energia nell'isola è maggiore che in qualsiasi altra zona d'Italia. Ancora: tra i vari flagelli dell' agricoltura sarda è il cosiddetto «male della pietra». Cos'è? Siccome il contributo dello Stato e della Regione per la costruzione di impianti è proporzionato al loro costo, per ragioni di prestigio sono stati realizzati in Sardegna i silos più grandi della penisola, d'un tipo che prevede una serie di utilizzazioni impossibili allo stato attuale dell'economia isolana. E inoltre: Stato e Regione costruiscono uno stabilimento per trasformare i concentrati di piombo e zinco, costosissimo, ma di dimensioni adatte a sfruttare solo i minerali del posto, che sono limitati. Così lo stabilimento è superato prima ancora che se ne sia ultimata la costruzione, e il suo prodotto ha un prezzo che gli impedisce di affermarsi nel mercato europeo: mentre, se fosse stato concepito con mire più ampie, cioè per lavorare anche minerali importati - soprattutto dall'Algeria, dal Marocco e dalla Tunisia – avrebbe avuto un avvenire più sicuro. Sono esempi, questi, di tutto quel che non si sarebbe dovuto fare per tentare di limitare e vincere, con un'azione incisiva di recupero economico e civile, il banditismo sardo. I risultati odierni sono invece la cristallizzazione dell'ambiente in un'economia fondata, nelle aree del banditismo, su una sola attività, quella agricolopastorale. La cristallizzazione economica ha portato a quella psicologica. Inoltre, tranne pochi casi, il pastore è rimasto pastore. Non è stato trasformato in operaio. Ha figli che sono pastori inurbati, manovali, ambulanti, mercenari del lavoro, che continuano a non amare la società e il potere costituito. 12 L'accordo sulla diagnosi del fenomeno è generale: il banditismo affonda le radici in una società che continua ad essere un reliquato et251 nico, con rapporti di produzione e sistemi di vita che sono il terreno di coltura della violenza. Finchè le strutture di questo mondo non saranno modificate, ogni soluzione di forza avrà effetti temporanei. Si deve cominciare dal basso, dal crogiolo dei servi-pastori: essi non sanno che c'è una guerra nel Vietnam; molti ignorano il nome del Presidente della Repubblica; ricordano che Garibaldi «è quello della guerra» e Dante «quello della scuola»; non leggono giornali, non ascoltano la radio, non conoscono il titolo d'un qualsiasi libro; di tanto in tanto pregano «qualche santo»; votano indifferentemente «comunista o democristiano»; si sentono soli, isolati, disprezzati, perseguitati dallo stato e dai carabinieri. Con Tonino Ledda, poeta di Ozieri, cantano cupi: «Odoriamo di capra, di denso concime / pensiamo solo all'erba, al cacio, alla lana / sogniamo acquavite, balli sui sagrati / l'amore cantiamo, e imprese di banditi ...» 13 Il banditismo nasce in Sardegna duemila anni fa e si evolve in banditismo rurale. Dalle razzie armate per procurarsi frumento e indumenti il pastore passa al furto di bestiame. Il bestiame è lo unico bene, la sola risorsa che possa essere rubata. L'abigeato è il primo anello della catena. Quando la pratica si diffonde su larga scala nasce la codificazione delle regole criminali. Germinano le vendette e si ricorre al delitto. Il banditismo si trasforma in tre tempi. Nella prima fase si commettono quattro tipici reati: pascolo abusivo (inizio della lotta fra pastori e contadini), furto di bestiame, ricettazione, rapina. La seconda fase è caratterizzata dalla vendetta, cioè dalla reazione ai soprusi. E' significativo che contemporaneamente si manifestino atti di violenza legati al concetto di difesa dell'onore familiare: vuol dire che le relazioni all'interno della società rurale si sono fatte più complesse, nel senso che le saldature fra consanguinei determinano una ramificazione delle vendette. La terza fase di trasformazione è quella attuale. Se ne può fissare l'i252 nizio nella metà del secolo scorso. Manifestazioni criminali tipiche sono l'estorsione, la minaccia, il sequestro di persona, l'uccisione a freddo. E' la fase che rivela tendenze inquietanti e che delinea l'assimilazione di una mentalità mafiosa. Un docente di antropologia criminale di Cagliari ha dedicato un'attenzione particolare allo studio della psicologia del giovane malvivente sardo, esprimendo la convinzione che la sua disponibilità al crimine nasce spesso da una carenza affettiva, da varie forme di disadattamento, dall'inesistenza di una moderna cultura. Allargando l'indagine su questi filoni, l'antropologo ha scoperto che le zone a più alta incidenza schizofrenica o psiconevrotica forniscono il più cospicuo tasso di criminalità. Quali proposte si formulano per la soluzione del problema? Alcune sembrano persino ovvie: bonifica sociale, lotta all'analfabetismo, elevazione del tenore di vita nelle aree più povere, rottura dell'isolamento attraverso nuovi insediamenti umani, rimedio alla carenza dei poteri legali, trasformazione dello stato di arretratezza. Ma ve ne sono anche di più complesse. Dicono i sardi: è necessario che queste popolazioni siano aiutate a lasciare il mondo silvo-pastorale e a darsi una società agricolo-pastorale. Gli interventi dello Stato devono disancorarsi dai principi strettamente economistici, oppure dalle intenzioni teoriche e velleitarie. E' stato inutile spendere ottocento milioni per costruire un villaggio a Pratobello, fra Nuoro e Fonni, rimasto disabitato. Gli insediamenti umani devono seguire esigenze naturali, corrispondere a bisogni reali e spontanei. Non possono attuarsi sotto spinte coercitive. Le costrizioni acuiscono i rancori del pastore, e lo portano automaticamente a dissociarsi, perché così crede di difendersi. Nascono così i recinti umani che caratterizzano le «isole» all'interno dell'isola. E i problemi si aggravano. 14 Ad Orgosolo, antica capitale del banditismo sardo, il vecchio fuorilegge si modella sul giovane gangster. Vi durano tutte le forme di 253 delinquenza tradizionale, le faide tra «dinastie» di pastori, le sanguinose lotte fra latitanti. Vi si rispecchia la Sardegna immobile degli uomini dal viso duro, che indossano stivali e giacche di velluto immersa in una delinquenza apparentemente statica, che ha traversato i secoli senza consumarsi. Il cimitero di Orgosolo sorge su un alto sperone, bieco e freddo. E le tombe, le nicchie, i sacelli, i monumenti funebri, sono rivolti in giù. I morti guardano in faccia il palazzo di città, ove ha sede l'autorità costituita. A leggere certe lapidi par di trovarsi di fronte a monumenti dedicati a martiri del Risorgimento. E si tratta dei più sanguinari fuorilegge, braccati per anni dietro ai loro delitti, e uccisi in conflitto con le forze dell'ordine. Circonda Orgosolo una natura ferma, pietrificata. Il sole è nemico degli uomini e delle colture. I monti, spopolati, sono montagne crepate, sventrate dalle forre, butterate dalle bocche di mille cunicoli che pare debbano portare all'anticamera dell'inferno. L'unica forza dirompente, in questa terra, sono il delitto, l'omertà, la latitanza. La scuola è il simbolo di uno Stato lontano anni-luce. Tra le montagne più tenebrose ora biancheggia un collegio per ragazzi. E' il primo del Nuorese, e persegue lo scopo di sottrarre all'ambiente le nuove generazioni. Ma non lo gestisce lo Stato: sono i camaldolesi di Arezzo, mandati qui da Fanfani all'epoca in cui era ministro dell'Interno. Questo Stato, giunto in Barbagia travestito da frate, riassume definitivamente le condizioni che consentono alla criminalità sarda d'avere nuove morfologie. 15 Orune è nel cuore della più vasta e intatta «repubblica di pastori» italiana. Appare tra i monti scheggiati, tra i grandi spazi della Barbagia, tra le solitudini immense. E' più tristemente famosa della stessa Orgosolo come roccaforte del sardismo immobile. Vi sono seimila pastori e 254 novecento studenti universitari. II paese è tra i meno poveri della provincia di Nuoro. Ma il mondo pastorale non ha rinunciato al suo codice d'onore. Corrompendosi al contatto con le suggestioni moderne, ha assimilato nuove tecniche criminali. Vi sono un proletariato e una borghesia meno arcaici, più spregiudicati, che se non saranno calati in una compagine economica più dinamica non esiteranno a generare altra criminalità. Orune è il paese dei muttos, le lunghe, dolcissime lamentazioni funebri che si cantano accanto al corpo del bandito ucciso e tessono le lodi del caduto. E' un canto che ha origini remote e misteriose. Esso dice: «Ciò cantiamo di te, a vergogna dei vili». Vile, a Orune, è chi non si fa bandito. 16 Oliena, Mamoiada, Fonni. A tratti sembrano paesi senza tempo. Tutta la Barbagia è una terra verticale, alza al cielo colline e picchi. Ma dentro c'è il vuoto, e più che terra di banditi l'antica Barbaria sembra terra di asceti. Bitti è un villaggio che dà fuorilegge come Firenze dà dicitori. Sono terre stupende, dominate dal massiccio azzurro del Gennargentu, sui cui contrafforti si stendono l'Ogliastra e le tre Barbage, Ollolai, Belvi e Seulo, boscose e selvagge oggi, una volta culla della civiltà protosarda e cuore della più autentica Sardegna. Striano i monti forre paurose, precipizi micidiali. Lungo la costa, da Orosei in là, non c'è banditismo. Ma dicono che gli uomini migliori non sono qui. Sono nelle terre orientali, quelle che hanno dato il novanta per cento della «Sassari», la più celebre brigata dell'esercito italiano. Quella che aveva cancellato dal suo linguaggio, per sè e per gli altri, la parola pietà. Ollolai, Orotelli. E' scritto sui muri: «Pro che rughere in manos de sa zustiscia, mezus mortus». Piuttosto che avere a che fare con la giustizia, meglio morire. Gavoi, Sa Caletta. Vi si parla l'antico latino, quello di Quintiliano e dei trobadori, E' la lingua del codice non scritto: «Furat 255 chie furat in domo o chie uenit dae su mare». Ruba chi ruba in casa, o chi viene dal mare. Ollolai ha milleseicento abitanti, quasi tutti imparentati fra loro e divisi in cinque o sei cognomi fondamentali. L'uccisione di un uomo o un furto, qui, scatenano sorde vendette che possono portare allo sterminio di decine di persone. 17 Nuoro è un paese di ventisettemila uomini promosso città, alcuni decenni fa, soprattutto per motivi di ordine pubblico, perché ci fossero la prefettura, la questura, il tribunale, il carcere; perché i briganti, che anche allora popolavano i suoi monti, sentissero più vicina la mano dello Stato, che non temettero in quei tempi come non temono oggi. La costa marina ha un aspetto molto vario. Rocce a picco sulle acque e spiagge aperte mutano quasi ad ogni passo i merletti costieri, vigilati dalle «torri di guardia» erette da Filippo II. All'interno restano belle ombre della civiltà protosarda, con gli splendidi villaggi nuragici e le «domus de janas», le tombe dei giganti. Da Nuoro a Macomer e da Nuoro ad Abbasanta le strade sono due, entrambe scorrevoli. Per la concorrenza dell'Anas e della Cassa, sono state concepite senza reciproche consultazioni, sicchè corrono parallele per un buon tratto. Le dighe costruite nel Nuorese dalla Cassa sono gioielli di tecnica, ma potranno essere utilizzate solo il giorno in cui si troveranno i quattrini per portare l'acqua dai bacini alle campagne riarse. Per quest'area la Regione compilò bilanci come un gran sudario, steso a confortare i torti subiti. Poichè i torti erano parecchi, il sudario fu spezzato in mille brandelli, e la Regione, volendo aiutare molti, scontentò tutti. Ci furono proteste e minacce. Nuoro ricordò che due leggi speciali in sessant'anni non avevano cambiato niente. Orgosolo fece notare che la sua prima scuola elementare era stata aperta solo nel 1902, e che il primo orgolese laureato risaliva al non lontano 1922. 256 18 Paese di pescatori, Cabras sciaborda sull'orlo settentrionale del golfo di Oristano e vive nel terrore di calamità medioevali. Ottomila uomini, nessuna fognatura. E' il paese in cui i bambini muoiono di gastroenterite virale. L'assurdità del dramma di questa gente è ingigantita dalla vicinanza dei centri più evoluti dell'isola. Nella piana oristanese le comunicazioni sono ottime, l'agricoltura fiorente, l'acqua abbondante. La costa è aperta al turismo, la Cassa ha investito miliardi in bonifiche. Qui comincia la Sardegna del futuro. Ma è grottescamente simbolico che sulla testa di questa Sardegna pesi l'incubo della « peste di Cabras». 19 La misura del cammino che la Sardegna deve ancora compiere si ha dall'aereo a bassa quota sulla piana del Campidano: dalle rughe sconvolte della Barbagia e dell'Inglesiente scende al mare una distesa secca e nuda, avvolta di riverberi rossi e viola, rotta improvvisamente da scacchieri verdi. Sono le aree, fertilissime ma ancora scarse, raggiunte dai canali dei nuovi acquedotti. Sui bordi dello stagno a levante di Cagliari, fumi grigi e ciminiere anticipano le attese dell'industrializzazione. Cagliari, capitale che non ha rimpianti di antiche grandezze (ed è serena, libera da ricordi), può offrire immagini più convincenti delle statistiche, che tuttavia davano all'isola una serie di primati negativi. La Sardegna è divisa in cinque nuclei: uno a Porto Torres (petrolchimica attiva, industrie minori); uno a Olbia (iniziative poco fortunate); uno a Oristano (esiste sulla carta, come il porto progettato sul golfo); uno a Tortolì-Arbatax (cartiere e impianti minori); l'ultimo nel SulcisIglesiente (è il rebus dell'isola, con alcune industrie che sarebbero andate bene un secolo fa, e altre che andrebbero bene oggi se potenziate e 257 ammodernate). Cagliari, dunque, resta il punto di forza dell'industrializzazione isolana. Come tale, dovrebbe assorbire 498 miliardi sui 1.517 previsti dal Piano Quinquennale, (Piano di Rinascita più gli interventi dello Stato). La città ha grandi raffinerie, stabilimenti di trasformazione dei prodotti agricoli, su una rete di 840 ettari regolata da un Consorzio. Villacidro è sede di un colossale stabilimento per la produzione di fiocco e filati sintetici. L'area industriale avrà un portocanale esteso sui terreni piatti, con acquedotti e strade di servizio. Il costo delle prime opere sfiora i ventiquattro miliardi. Sono previsti investimenti privati per altri centoventi. Una società francese prepara un centro per la produzione di nichel. Un gruppo scandinavo progetta bacini di carenaggio per navi da duecentomila tonnellate (Cagliari è a meno di sessanta miglia dalla rotta Gibilterra-Suez). Se le previsioni si avvereranno, l'area cagliaritana dovrebbe impiegare nel 1975 oltre 41mila operai nell'industria, mentre gli addetti all'agricoltura dovrebbero scendere a quindicimila. 20 Logudoro, Anglona, Gallura. Povere terre occidentali dell'alta Sardegna, attendono da decenni vasti interventi di bonifica. Vi è tant'acqua che vi si potrebbero creare le più ricche risaie d'Italia. Ma i fiumi hanno letti dissestati. La Cassa interviene in pianura e crea reti di collegamento, ma non ha soldi per le sistemazioni montane. Così d'inverno i fiumi gonfiano, vengono giù furiosi, si trasformano in micidiali valanghe d'acqua che sconvolgono le opere ultimate in estate. Il turismo potrebbe essere una notevole fonte di ricchezza. Ma i còrsi hanno dichiarato guerra ai sardi. La loro pubblicità dice: «In Sardegna si spara, venite a godervi il nostro sole nel letto in cui ha dormito Napoleone», In tutta la Corsica pare non ci sia un solo letto in cui l'imperatore dei francesi non abbia trascorso almeno una notte. Miracoli dell'ubiquità. Ma il turismo delle coste sarde nord-occidentali ne sof258 fre. Per controbattere la sleale concorrenza dei vicini di casa qualcuno ha proposto di lanciare lo slogan: «Venite nel paese dei seimila nuraghi, ove Napoleone non riuscì a metter mai piede». 259 LE REGIONI SIAMESI 261 Quando scende verso Sud, l'Abruzzo s'addolcisce, le montagne si spezzano a mezz'aria, le valli s'allargano, e la terra si fa Molise. Una lunga storia ha unito due regioni profondamente diverse. Di qua e di là del Sangro tutto è diverso: il colore dell'aria, il temperamento degli uomini, l'impasto delle campagne. Anche ora che si son fatte regioni autonome, Abruzzo e Molise hanno in comune soltanto la loro condizione di cerniera tra Nord e Sud. Sono le porte d'ingresso verso la povertà del Mezzogiorno. L'area di Ascoli Piceno, (l'unica zona marchigiana servita dalla Cassa per il Mezzogiorno), è l'anticamera di questa linea di displuvio che s'allarga fra il Tronto e i comprensori di bonifica del Vomano. Da qui in giù è la sfera del sottosviluppo. Una strana sorte ha accomunato le due regioni. Sono quelle che fino a poco fa hanno preoccupato di meno Stato e governi, quelle che hanno avuto gli aiuti minori. La stessa letteratura meridionalista ha guardato poco e male a queste latitudini, ove pure si sono verificate frane demografiche che hanno superato in intensità quelle della Calabria, e lavine economiche che sono rimaste esempi insuperati di superficialità e di confusione nella storia dei programmi d'intervento nelle aree depresse italiane. 2 Dell'Abruzzo ci si è accorti solo da poco. La lunga dominazione pontificia aveva lasciato in eredità al Regno una regione arretrata per antonomasia. Si viaggiava sui tratturi, i paesi si raggiungevano a dorso di mulo. Oggi alcune autostrade aggirano le montagne e accorciano le 263 distanze. Un viaggio da Roma all'Aquila non è più un'interminabile avventura. Ma molti villaggi sono isolati sugli omeri delle montagne. I tratturi non sono stati cancellati. Sugli altopiani son difficili le riconversioni colturali e l'irrigazione. E' molto diffusa la pastorizia, attività tipica delle aree depresse. Anche il Molise è stato scoperto da qualche anno. Vi nascono ora alcune autostrade, una delle quali sbudellerà il Gran Sasso. Ma va ricordato che l'azione di recupero intrapresa dallo Stato in queste due regioni accusa un ritardo di almeno dieci anni. Sono tanti, anche rispetto al Mezzogiorno più buio che s'incontra più giù. A occidente, il Basso Lazio è un prolungamento geopedologico del Molise e della Campania. Di queste regioni ha le caratteristiche di fondo: aree montane e altocollinari, paesi decrepiti cui è difficile approdare, e i primi grandi nastri d'asfalto che tentano di rompere un lungo isolamento. Anche in queste terre, per un'intera epoca, si è trattato di un feudo pontificio. Lo stato papale era difeso da pochi mercenari e da moltissime paludi. Le più vaste erano nell'area pontina e lungo le fasce adriatiche che delimitano l'Abruzzo fino alle propaggini marchigiane. Racchiudevano un mondo di estrema miseria, di sgradevole servilismo e di terribili paternalismi inquisitori. 3 In molti massicci abruzzesi, dopo aver risalito faticosamente il fianco vallivo ci si trova di fronte a un'insellatura, tra due monti. Di là, circondata da altre montagne, una conca boscosa e brulla. La dicono «piano», perchè nel fondo si stende una breve pianura coltivata a patate o a cereali. Se c'è un fiumiciattolo, è stallo di greggi. Un gruppo di «piani» si incastra in quel groviglio di monti che formano il massiccio del Velino e del Sirente, con alcuni villaggi. Ai piedi, la conca del Fucino, con l'antica terra dei Marsi. Lunga trenta chilometri, a settecento metri sul mare, è solcata da una rete di canali con pioppi e salici. Un 264 secolo fa era il lago di Celano, e superava per estensione il Trasimeno. L'idea di prosciugarlo fu prima romana. L'imperatore Claudio costruì un canale emissario di dieci chilometri, e mezzo lago sparì. Poi l'idea fu abbandonata fino al Settecento. Si ricominciò a metà secolo diciannovesimo. O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me: la scommessa era fatta da Alessandro Torlonia. Fu il Fucino a perdere. Le acque furono portate sottoterra verso il Liri, e gli abruzzesi ebbero la loro conca più vasta, due volte più grande di quella di Sulmona, quattro volte quella dell'Aquila. Avezzano riprese vita, e l'agricoltura vi divenne una cosa seria. 4 Quel che è rimasto del più vecchio Abruzzo è fissato in paesi che hanno l'aspetto di antichi borghi feudali. Il passato resiste soprattutto in montagna e sugli altopiani, ove gli armenti cantati da D'Annunzio fanno sempre folla e colore, e i pastori cantano nenie d'altre generazioni. La Cassa per il Mezzogiorno investe miliardi nei comprensori di bonifica che quasi sempre coincidono con le aree solcate dai fiumi: TrignoSinello, Tronto, Vomano, Aterno-Pescara, Volturno Superiore, Sangro, Biferno e un pò anche Fortore. All'interno, si opera sulle pendici del Velino, della Laga, del Gran Sasso, della Maiella. Si cerca di recuperare una terra aspra, durissima, imbrigliata di rovi e macche di quercioli, di carpini, di lecci nani. E' la terra dei botri, con brevi poderi contornati da un muro a secco, nei quali non entrano le macchine agricole. E' la terra che scopre sotto leggeri strati di humus un'ossatura fragile, una faccia bianca, desertica. I contadini fanno miracoli per tirar su le colture. E vanno a tirarle più su che in qualsiasi altra zona d'Italia, fino a millecinquecento metri d'altitudine. Anche più in alto che i contadini della Sila. 265 5 Sulla carta esistono vari nuclei industriali. L'Aquila, però, più che delle industrie vive del turismo. La città è molto bella, bianca e rossa in un gran paesaggio di steppa montana. D'inverno si chiude nella neve. Si animano le piste, i pianori, le sciovie. Ma la città resta silenziosa, quasi ascetica. In quindici anni, Pescara, città epicurea e godereccia, ha visto triplicare il numero dei suoi abitanti, che in buona parte vivono delle industrie del nucleo e dell'industria - più redditizia - del mare. Chieti e Teramo hanno le loro aree di sviluppo, ma il fumo delle ciminiere non supera il livello delle nebbie montane. Come per Avellino, il balzo è difficile, sono terre con molto osso, e l'osso le allontana dai grandi centri di propulsione. Pescara ha spazzato via il passato a suon di capitali, si è votata ai traffici e alla produzione industriale, ha corso temerariamente il piacere del rischio, ha saputo sfruttare abilmente la sua posizione di saldatura tra Nord e Sud, ha galvanizzato l'intera regione, proponendo un discorso spregiudicato e moderno. Il Pescarese è l'unica terra d'Abruzzo che abbia cambiato completamente fisionomia. L'ossatura industriale partì ai primi del '900 con l'impianto delle officine metalmeccaniche e della fonderia di ghisa, che furono per Pescara, fatte le debite proporzioni, quel che la Fiat è stata per Torino. Poi son venute la Montecatini di Bussi e di Piano d'Orta, le aziende petrolifere e quelle del cemento. Da Pescara partono per tutto il mondo prodotti alimentari, farmaceutici e dolciari, confezioni tessili, macchine olearie, compensati, macchine per la lavorazione del legno. Le imprese industriali sono in grado di assorbire ventimila unità. La borsa merci del lunedì ha quotazioni che costituiscono indici ufficiali a carattere nazionale. La città ha bisogno di tecnici. Dovrebbero provvedervi le libere università. Ve ne sono due, a L'Aquila e a Pescara, con facoltà anche a Chieti e a Teramo. Ma quella 266 degli ampliamenti delle sedi e della loro definitiva dislocazione è una dura polemica ancora in corso. Come per la Calabria. Tra Pescara e le città vicine si contano una settantina di alberghi degni di questo nome. La densità territoriale è tra le più alte del Mezzogiorno. Il turismo marino ha un forte reddito. Anche quello montano, interno. Si dice che le maggiori prospettive abruzzesi siano aperte proprio dal settore turistico. E la Cassa ha finanziato i nuclei di sviluppo turistico, ma i soldi non sono sufficienti, lo Stato quasi se ne disinteressa, i privati temono i rischi troppo scoperti. Il giro è vizioso, e rallenta il ritmo dello sviluppo. 6 L'unica vera industria di Chieti produce camicie che esporta al novanta per cento in Germania. Una grande speranza è il centro per la produzione dei radiatori di ghisa, nato con capitali italo-francesi che dovrebbe avere , una notevole espansione. Per il resto, si è in attesa di capitali pubblici e privati. Teramo, l'antica Interamnia, è una città tipicamente pedemontana, inchiodata su una valle sconnessa e scarsamente produttiva, con un mediocre sviluppo industriale. Chieti, attaccata a Pescara da un breve cordone d'asfalto, vive di riflesso la vita economica e sociale della città dannunziana. L'area di sviluppo, la « Valle del Pescara» ha saldato i vincoli fra le due città. I recenti ritrovamenti di metano nei territori di San Salvo e Cupello e la disponibilità della rilevante produzione di energia elettrica costituiscono un ulteriore incentivo ai fini dell'intervento di nuovi finanziamenti industriali. Tutto l'apparato industriale dell'Abruzzo-Molise, (dovremmo dire: dell'Abruzzo soltanto), finisce qui. All'interno c'è il metano, non si sa quanto, perchè mai sono state condotte indagini e rilevazioni specifiche. Per un certo tempo s'era pensato all'intervento dell'Eni, ma non se n'è fatto nulla, e sui pozzi abruzzesi è calata una cortina di silenzio. 267 7 Dovrebbero redimere una gran parte del Molise una diga alta sessanta metri e un lago artificiale. Inizialmente, la capacità sarebbe stata di otto milioni di metri cubi, in una fossa larga in media un chilometro, lunga otto. Le prime previsioni irrigue del progetto parlavano di circa quattromila ettari nella valle del Basso Biferno e di un migliaio di ettari nella piana di Boiano. Aggiornato, il progetto ha dimensioni mastodontiche: la costruzione della diga di Ponte Liscione permetterà l'accumulo di circa centosessanta milioni di metri cubi d'acqua, destinati ad usi irrigui e potabili, e alla produzione di energia elettrica. Lo schema riguarda circa diciannovemila ettari lordi. La superficie netta irrigabile supera i quindicimila ettari. La spesa - dieci miliardi di lire - è tra le più rilevanti tra quelle sostenute dall'intero programma di coordinamento della Cassa. L'investimento complessivo sarà pari a trentasei miliardi, e prevede un canale portante e un'ampia rete di distribuzione che comprenderà anche il Territorio del Larino. I paesi del Biferno stanno per vivere gli ultimi anni della civiltà contadina. La grande diga romperà la crosta del sottosviluppo, e il 1980 sarà il primo anno della rinascita molisana, La Cassa ha investito dodici miliardi per i primi tronchi delle arterie di fondovalle, simili a quelle lucane, che evitano i monti, o li superano con gallerie e viadotti. Campobasso si cuce a Foggia, a Napoli e a Roma, che sono gli sbocchi di maggiore interesse per le produzioni agricole regionali, e le vie obbligate per l'inserimento nei giri industriali del futuro. Qualcosa, infatti, anche nel settore dell'industria, comincia a muoversi. Molti albanesi e dalmati che vivono arrampicati sui paesi a nido d'aquila si salutano ancora dicendo «ghiaku sprishur», sangue sparso, e molti molisani disseminati in tutta Italia e in mezza Europa potrebbero ripetere questa voce senza cadere in contraddizione, tanto violenta è stata la spinta migratoria che ha portato il Molise in cima alla graduatoria nazionale. Malgrado ciò, le infrastrutture di base che si 268 vanno predisponendo lasciano pensare che si stia preparando un avvicinamento del Molise all'attività industriale pugliese. Molise e Lucania svolgeranno così i ruoli di regioni-satelliti della Puglia. Non è dato sapere se la regione autonoma saprà porsi su questa strada, che è la più conveniente almeno fine a questo momento, nè se le sarà possibile assumere le fisique du rôle superando le tremende pressioni che le altre regioni opereranno in concorrenza. Ma i molisani - una sola provincia in tutta la regione, e per di più con un terzo degli abitanti rispetto al milione di unità previsto dalla Costituzione - si son battuti a fondo per separarsi dall'Abruzzo, convinti di ottenere risultati più confortanti rispetto al passato. Saranno gli artefici del loro rilancio o della loro disfatta. 8 L'area di Termoli è l'antitesi del Molise interno, di quella parte di regione rimasta tagliata fuori dalle prospettive create dalla diga di Ponte Liscione. Vi si giunge dopo ottantatre chilometri di strada difficile e una ferrovia di cartone che, fra Casacalenda e Campolieto, (si sfiorano i mille metri d'altitudine), resta spesso bloccata. Strada e ferrovia non uniscono, ma dividono questo Molise da Campobasso. Questo è montagnoso, gelido, isolato. Termoli ha il mare. Niente, neanche il dialetto, li accomuna. La mentalità mercantile dei termolesi contrasta violentemente con quella impiegatizia, «ministeriale», dei campobassani. Gran parte del Molise guarda ancora a Napoli e alla Valle del Sacco. Termoli sparte gli occhi tra Pescara e Bari. Il Molise insegue una grande agricoltura e un moderato sviluppo industriale. Termoli si è buttata nel turismo, ha speso fino all'ultima lira le rimesse dei suoi emigrati, ha rischiato grosso, e oggi è l'anticamera di Brindisi per le correnti dirette in Grecia. Il Molise spera, Termoli è stata impaziente e si è costruita il futuro con le sue mani. Non ha mai avuto una lira dalla Cassa, ma si è costruito un porto moderno, ha realizzato i collegamenti più comodi per le Tremiti, affascina e trattiene i turisti di passaggio, accu269 mula nuovi capitali che poi reinveste in attrezzature alberghiere e in grosse imprese artigianali. L'aeroporto di Pescara non è lontano. Foggia è a due passi, con i suoi grandi paesi popolosi come città. Essi costituiscono il serbatoio turistico del piccolo centro adriatico. Nell'immediato dopo guerra Termoli era poco meno d'un villaggio. Oggi ha le prime raffinerie molisane. Perciò questa città si sente estranea al Molise. Sa di esserne l'antitesi. 9 Si entra nel Basso Lazio da Avezzano. Il cordone corre tra le due abbazie più famose del Centro-Italia. Sono a Subiaco e a Cassino. Due piccole repubbliche teocratiche che ancora oggi influiscono profondamente sulla vita politica ed economica dei comprensori. Dal corso del Liri si scende nella Valle del Sacco, infossata tra bige montagne che videro scorrere fiumi di sangue nell'ultima guerra. La Valle del Sacco è un feudo che fa capo ad Andreotti. In tempi non remoti era sconvolta dalle acque che precipitavano dagli Ernici e dai Lepini. Oggi quelle acque sono totalmente regimate. L'agricoltura è fiorente, l'industria fiorentissima. Gli squilibri non mancano. Intere aree montane sono isolate, con paesi collegati da antiche mulattiere care a San Benedetto nel Cassinate, e a Lucrezia Borgia nel Sublacense. Ma è la sorte di tutti i borghi montani. Gli uomini scesi a valle non hanno grandi rimpianti. Sono zone, queste, destinate a più intensi sviluppi. Soprattutto quella di Cassino, che salda i gruppi di industrie campane con quelle della Capitale. Qui il Liri si è trasformato nel Reno della Ciociaria. Malgrado ciò, l'esodo è stato imponente. Su novantuno comuni, ottanta hanno subito un forte decremento demografico. I paesi montani sono stati dimezzati dalle fughe. Casalattico, Filettino, Pescosolido, Settefrati, Gallinaro, Acquafondata, Picinisco, sono paesi-ombra. Per l'agricoltura vi si utilizza oltre il novantacinque per cento di una terra che non è fertile. Montagne e colline ovunque. Ovunque, un'economia agricola di auto270 consumo. Solo più su, verso l'area Pontina, in trent'anni la terra ha cambiato faccia. Ove una volta imperversava la malaria oggi sorgono 250 complessi che occupano venticinque mila operai, tecnici e impiegati. Per Cassinate e Sublacense, resta da toglier di mezzo il serioso paternalismo degli abati, figure anacronisticamente legate a concetti di temporalismo che oggi offenderebbero un Borbone. Ma anche questa è storia che si va consumando. Le nuove strade interrompono le muraglie che dividevano i paesi vallivi. L'Autostrada del Sole ha portato Napoli alle soglie della Capitale. Ho visto scuole arrampicate a millecento metri, e ragazzi alle prese con tornii e fresatrici, strumenti da marziani fino a qualche anno fa. I monasteri, come repubbliche teocratiche, restano sempre più isolati. Pare salgano sempre più in alto, fino a restare microscopiche immagini, quasi trasparenti, ricordi che vanno diventando un pò alla volta più remoti, riferimenti metafisici sconfitti dall'ansia illuministica degli uomini stanchi del mito delle speranze. 271 LE CINQUE PUGLIE 273 I nuclei industriali attivi della Puglia sono tre, Bari, Brindisi e Taranto. Sulla carta salgono a cinque, con la Capitanata e il Salento. La regione, teoricamente, è tutta zona di industrializzazione. Ma in realtà lo sviluppo, tranne poche eccezioni, si è fermato sui gradini delle cattedrali industriali, spettacolari e solitarie, senza i tessuti intermedi che determinano la diffusione del benessere. I nuclei sono stati determinati dalla Cassa per il Mezzogiorno che, scelte le aree, vi ha eseguito alcune importanti opere infrastrutturali. Il nucleo barese è a ridosso della città e segue le indicazioni del piano regolatore della preesistente zona industriale, approvato nel '63 come stralcio generale del piano regolatore dell'area. Indica la sistemazione urbanistica dell'intero comprensorio territoriale di competenza del Consorzio, con le scelte operate per l'insediamento di altri agglomerati industriali, e gli obiettivi di occupazione. Per l'area di Brindisi il piano prevede l'attrezzatura di un agglomerato principale di 1.720 ettari, con tre satelliti a Fasano, Ostuni e Francavilla, per altri duecento ettari. Con una densità variabile da quindici a sessanta addetti per ettaro, secondo la tipologia industriale prevista, vi è la possibilità di impiegare da venticinquemila a trenta mila operai e impiegati. Il costo presunto delle attrezzature sfiora i sessanta miliardi di lire 1963. Negli agglomerati satelliti si prevede la creazione di setteundicimila posti di lavoro, per un costo complessivo di un miliardo 1963. Nello studio economico si è tentata una stima degli investimenti socio-culturali necessari a garantire la realizzazione del piano e degli obiettivi previsti, eliminando le strozzature riscontrate nell'ambito del comprensorio e dell'area. Tale stima indica investimenti per circa due275 cento miliardi in tre fasi, destinati alla costruzione di scuole a vari livelli, alloggi, attrezzature turistiche e sportive, centri di qualificazione professionale, potenziamento dei servizi. Per l'area tarantina le infrastrutture, una volta ultimate, dovrebbero avere assorbito ventidue miliardi. E' prevista con eccessivo ottimismo la creazione di 83 mila nuovi posti di lavoro. Il piano di Foggia prevede l'utilizzazione di quattrocento ettari per l'insediamento di industrie leggere e di trasformazione dei prodotti agricoli. L'occupazione dovrebbe interessare a chiusura del primo ciclo cinquemila unità. Il Salento dovrebbe essere tutta area di sviluppo, dal momento che è considerato polo turistico. Ma i poli turistici sono delle cose vaghe. Sicchè si può dire che l'estrema terra pugliese sia l'unica in tutta la regione a non avere alcuna prospettiva di sviluppo industriale con capitali pubblici. 2 La Puglia non ha, a differenza della Calabria, abbondanza di energia motrice, e vi mancano in grandissima parte le materie prime. Vi sono alcuni tipi di minerale, (mica, cromo, bauxiti), e alcuni notevoli centri di produzione di salgemma. In certi tratti dell'alta costa adriatica, da Bari al limite del Fortore, potrebbero essere localizzate industrie per la distillazione dei combustibili fossili, ginestrifici per la produzione di fibre tessili, gessifici, cementifici, linifici, industrie del legno. Più a sud, da Brindisi a Lecce, potrebbero avere grandi possibilità di sviluppo tutti i tipi di produzione a valle della chimica. Il discorso sull'agricoltura resta ancora complesso. Su un milione e seicentomila ettari disponibili, 670 mila (secondo una stima ottimistica), oppure 150 mila (secondo i pessimisti), potrebbero essere riservati esclusivamente alle colture specializzate. Gli altri dovrebbero essere rimboschiti e destinati ai pascoli. Gli emigrati sono un esercito, anche se le fughe, almeno dal '66 in poi, stagnano. E' stato scritto che insieme e seriamente sfruttati turismo e agricoltura potrebbero fornire un buon 276 tenore di vita a 380 mila famiglie. Attualmente ve ne sono circa 450 mila. Quali sono le prospettive per le altre? Quelle dell'industria. Ma l'industria pugliese ha una storia strana. I nuclei, anche i principali, quelli del «triangolo» centrale della regione, restano Puglie lontane tra loro. Bari ha industrie prevalentemente meccaniche, leggere, quelle che rendono di più. Taranto, con la cattedrale del siderurgico, è un mondo chiuso. Brindisi poteva essere un polo di collegamento, soprattutto un polo di proliferazione. Ma è tipico il caso del taglio dei viveri verificatosi per questa città. Il piano Cee, che prevedeva investimenti complessivi per cento miliardi di lire nelle tre aree, ha visto ridursi il triangolo in un asse che va da Bari a Taranto, con una diramazione minore verso Foggia (ove la Fiat impiegherà un migliaio di unità), e la possibilità di una «girata» di minori proporzioni verso Matera. Brindisi è rimasta fuori, e al Comitato dei ministri per il Mezzogiorno nessuno ha saputo dirci perchè. 3 Il siderurgico sorge a cinque chilometri da Taranto, tra il mare e gli ulivi, e si stende per seicento ettari, occupando una superficie più vasta della stessa città. Visto dall'alto, pare la concretizzazione delle immagini dickensiane di «Tempi difficili», una Coketown dei nostri giorni. Questo regno dell'acciaio ha richiesto investimenti per centinaia di miliardi. E' un'oasi di ferro nel deserto dei tufi. Lo hanno chiamato « l'elefante bianco», un elefante che non fa razza, non prolifica. Colossale, ma fine a se stesso. Non è riuscito nemmeno a risolvere i problemi dell'occupazione tarantina. Alla sua costruzione lavorarono quindicimila operai. Ora ne occupa meno della metà. Si noti che Taranto, molto cresciuta in questi ultimi tempi, aveva un arsenale che dava lavoro a dodicimila operai. 4 277 Il discorso sull'industrializzazione della Puglia può cominciare qui. E' un discorso difficile e delicato, che a farlo in termini. puramente economici conduce spesso a conclusioni deludenti. Fermiamoci al caso della città bimare. La necessità di realizzare il siderurgico c'era. Il problema si poneva in questi termini: accertato che la domanda d'acciaio avrebbe ricevuto uno sviluppo nei prossimi anni, occorreva prepararsi ad incrementarne la produzione. Le soluzioni erano due: ampliare gli impianti attivi, (Bagnoli, Piombino, Cornigliano), oppure crearne di nuovi. Si scelse la seconda via, perché l’Iri sapeva che l'incremento della produzione non sarebbe stato possibile con l'ampliamento degli impianti preesistenti. A questo punto restava da risolvere il problema dell'ubicazione del nuovo siderurgico. Le valutazioni erano diverse. Ragionando in termini strettamente economici, il « gigante» andava costruito là dove era più densa la domanda, cioè in una zona costiera del Centro-Nord, tenendo conto appunto delle spese di trasporto che avrebbero inciso sui costi e quindi sui prezzi ai fini della concorrenza interna ed esterna. Ma si volle inquadrare il problema nella gran questione dell'industrializzazione del Sud. In sostanza, al discorso economico si sostituì quello politico e sociale. Se il siderurgico fosse sorto al Nord, l'industria di Stato avrebbe contribuito a perpetuare gli squilibri nella struttura economica generale del Paese. Dice l'Iri, e con esso il governo: tutte le imprese utilizzatrici di prodotti siderurgici avrebbero trovato un nuovo motivo di attrazione nell'area centro-settentrionale. Così, però, si sarebbero ancora di più allungati i tempi dello sviluppo industriale del Sud. Perciò fu scelta la zona a nord di Taranto, che è sulla costa, fa da confluenza a strade e ferrovie, ha alle spalle una zona pianeggiante che può permettere la nascita di eventuali industrie sussidiarie, e per di più rappresenta una testa di ponte verso il Medio Oriente e l'Africa, mercati ai quali mira la siderurgia italiana. 278 Almeno apparentemente, il ragionamento fila. Sta di fatto, però, che il siderurgico è rimasto un ciclope solitario, isolato. Ovviamente, anche a questa constatazione c'è una risposta. Si obietta, infatti, che è troppo presto per giudicare se il gigante rimarrà solo nel deserto, se insomma sia da considerarsi veramente un elefante bianco. La controrisposta, in questo caso, è che un siderurgico non è più un'industria motrice. Si citano in proposito gli esempi di Terni e Piombino, ove nonostante tutto non sono sorte unità industriali consistenti negli ultimi cinquant'anni. I criteri cui ci si è attenuti per il siderurgico tarantino, si dice, andavano bene nelle condizioni tecnico-economiche della fine del secolo scorso o dei primi anni del '900. Allora la siderurgia nasceva obbligatoriamente, a causa dei costi di trasporto delle materie prime, nelle zone ricche di carbon fossile o di minerali di ferro. Sempre per le stesse ragioni, in prossimità della siderurgia si collocava l'industria meccanica. Ma c'è di più: l'industria meccanica presentava una volta caratteristiche diverse da quella moderna. Bastava acquistare acciaio e carbone. E nello stesso stabilimento potevano essere effettuate tutte le operazioni necessarie fino al prodotto finito. Oggi il processo produttivo ha subito una rivoluzione. L'industria di base e quella dei prodotti finiti, che sono l'alfa e l'omega dell'intero ciclo industriale, non occupano più una posizione predominante. Al contrario, predominanti sono le attività produttrici di beni e di servizi intermedi. Nell'economia moderna un'azienda industriale, se vuole sostenere la concorrenza, deve specializzarsi, deve cioè concentrare gli sforzi sulla sua attività principale, e ricorrere invece ad altre aziende specializzate per le attività connesse, (ottomila aziende minori e private lavorano prodotti utilizzati dalla Fiat). Di qui la necessità delle grandi concentrazioni territoriali: vale a dire che un'industria ha bisogno di avere intorno a sè nuclei di aziende che formino beni e servizi connessi con la propria attività per una produzione costantemente competitiva. La mancata realizzazione 279 di queste attività. complementari nelle aree brindisina e salentina ha creato intorno al siderurgico di Taranto un circolo vizioso. Da esso sono nate le illusioni prima, e successivamente le reali difficoltà dell'industrializzazione su vasta scala delle aree meridionali pugliesi. 5 Il successo dello sviluppo industriale pugliese e meridionale è strettamente collegato alla possibilità di creare in ampie aree poligoni di unità industriali principali che abbiano tecniche simili, e che siano completati da unità ausiliarie intermedie. Come dire: si fanno sorgere di forza i «poli di sviluppo», attuando così un compromesso di criteri economici e di criteri sociali. I poli, poi, agiscono da motori per lo sviluppo industriale delle zone non toccate dal «miracolo». E' la teoria degli assi di sviluppo: tra un polo e l'altro va sollecitata e attuata la nascita dei collegamenti connettivi. Si crea così la rete industriale attiva. Forse questo era nella mente di coloro che vollero il siderurgico. Poi le cose sono restate a mezz'aria. Si indicarono per la chiusura del grande ciclo gli anni sessanta. Fu un errore dovuto all'entusiasmo. Si indicarono poi gli anni ottanta. Ma anche questa data sembra troppo vicina. Malgrado tutto, la Puglia accusa il pericolo dei tempi troppo lunghi. Solo Bari fa eccezione a questa regola. 6 I convegni sui traffici marittimi con i Paesi africani e medioorientali hanno cercato di puntualizzare attraverso gli studi degli esperti i precipui interessi della nostra economia e di quella del bacino mediterraneo, sollecitando l'allargamento dell'area commerciale e indicando nuove e più importanti vie di sbocco per la produzione pugliese e meridionale. L'Africa soprattutto, interessata com'è al processi di rinnovamento e di 280 trasformazione, va a mano a mano abbandonando i vecchi costumi di vita per avviarsi a più moderne forme di organizzazione. Questo continente, però, non è ancora in grado di risolvere i problemi della propria espansione economica. Ha bisogno di collaborazioni intense, specialmente di nuovi scambi. Dovrà essere compito delle nazioni europee - e delle regioni mediterranee - tendere una mano al continente nero. E se poche altre nazioni sembrano più idonee di quella italiana ad assecondare gli slanci di progresso che si verificano sulla «quarta sponda», pochissimi centri industriali sono più adatti di quelli pugliesi ad assumere un ruolo ed una funzione di prim'ordine per queste nuove possibilità. Lo sviluppo dei traffici con i Paesi mediterranei centro-orientali ha come presupposto indispensabile la soluzione del problema dei porti meridionali, per i quali si impone un complesso piano di nuove strutture. Brindisi è, in questa visione mediterranea dell'espansione economica, in prima linea. Proprio da questa città è partito l'appello a non disperdere i fondi e a non distrarre gli sforzi in ampliamenti e attrezzature portuali di secondaria importanza. Il movimento di merci e prodotti finiti verso i Paesi della sola Africa ha interessato in questi ultimi tempi l'Italia per una media annua di sei milioni di tonnellate. Il trenta per cento delle merci in partenza ha preso il via da Brindisi, che è così risultato tra i primi porti attivi del Mezzogiorno, e la maggiore porta italiana per gli empori mediterranei. 7 Mario Dilio ha scritto che la Puglia è fra le regioni del Mezzogiorno nella più idonea condizione per porre in essere la realizzazione di un'area di sviluppo globale con un ruolo preciso che essa deve avere nella strategia di avanzamento dell'intero Sud. Tra l'altro, l'area pugliese è stata individuata in stretta connessione con i problemi e i fenomeni di sviluppo della Lucania. Essa integra da un lato la concentrazione di 281 Bari, Brindisi e Taranto con il processo industriale e agricolo in atto nella Daunia e con quello turistico della penisola salentina, e dall'altro con quello in corso nel versante ionico del materano. Se così sarà, per la prima volta nel Mezzogiorno si cominceranno a impostare globalmente i problemi dello sviluppo, evitando di cadere nella frammentarietà e nella dispersione. Quali sono le linee dello sviluppo economico dei prossimi anni? La legge di rilancio dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno poggia le sue fondamenta sul concetto della concentrazione degli sforzi nei tre settori dell'industria, dell'agricoltura, del turismo. L’ approvvigionamento idrico in generale, e quello per uso irriguo e industriale in particolare, assumono per unanime riconoscimento un aspetto realisticamente prioritario in una regione come questa: esso ben si coordina con l'obiettivo dell'intervento pubblico in agricoltura, inteso a sviluppare quei comparti produttivi più rispondenti all'agricoltura meridionale e all'evoluzione della domanda interna e internazionale. Di qui l'intenzione di favorire l'irrigazione, la trasformazione delle colture tradizionali, la realizzazione di infrastrutture industriali di conservazione dei prodotti, la loro trasformazione e commercializzazione, onde consentire alle imprese agricole di acquisire, attraverso adeguati rapporti con il settore industriale e quello distributivo, una maggiore quota del valore aggiunto della produzione agricolo-industriale. Per la Puglia sono stati delimitati nove complessi irrigui: Fortore, Sinistra Ofanto, Destra Ofanto. Schemi minori del Tavoliere, Tara, Sinistra Bradano, Schemi minori del Salento, Zone litorali del Gargano, Fascia costiera del Barese. Si tratta di zone irrigabili. Alla data 1970, per circa 65 mila ettari, che investono aree di valorizzazioni connesse per circa 730 mila ettari. Per quel che riguarda lo sviluppo del turismo, i tre comprensori individuati sono quelli dei «Trulli e Grotte», del «Gargano e delle Tremiti», del «Salento», per una superficie globale di poco superiore ai cinquemila chilometri e una popolazione che sfiora le seicentomila 282 unità. Lo scacchiere è evidentemente troppo vasto per le iniziative prese e per quelle in programma. Il futuro non è chiaro. 8 In Capitanata, in una zona che al 47 per cento è coperta da seminativo - il vecchio granaio d'Italia dell'epoca in cui si seminavano cereali anche nei vasi di fiori - sarà finalmente possibile insediare orti, vigneti a tendoni per i vini pregiati, giovani uliveti. Il reddito attuale dei terreni è così basso da documentare drammaticamente ciò che da mezzo secolo si dice quando si parla di crisi, di grave crisi per l'economia agricola del Tavoliere. Il piano di trasformazione predisposto parallelamente alla costruzione del complesso di Occhito, che una volta ultimato costerà centocinquanta miliardi di lire, prevede la realizzazione di programmi che erano considerati un'utopia. La diga è la prima opera destinata a segnare una svolta decisiva nella storia dell'economia dauna. Ne sono allo studio altre per la valorizzazione di tutte le risorse idriche del Tavoliere. Complessivamente, circa la metà del comprensorio, di oltre duecentomila ettari, è compresa nell'area irrigabile. La Puglia ha poche acque superficiali. E' bagnata da due soli fiumi, il Fortore e l'Ofanto, e da qualche torrente quasi sempre in secca. Per di più, è difficile, essendo una regione priva di montagne, reperire invasi naturali. Quelli artificiali, inoltre, come si è visto per l'Occhito, sono di complicata realizzazione per la natura carsica dei terreni. Onde lo sforzo colossale che si va compiendo da anni con i fondi stanziati dalla Cassa per sfruttare ogni risorsa. Il piano irriguo del Tavoliere riguarda altri due complessi, quello dell'Ofanto e del torrente Carapelle, oltre allo sfruttamento delle sorgenti carsiche e delle acque di scarico industriale e urbano. Quattro invasi artificiali saranno realizzati sugli affluenti dell'Ofanto, (il Rendina, l'Atella, l'Osemo e il Marana Capacciotti), per una capacità complessiva di centodieci milioni di metri cubi 283 per l'irrigazione di altri trentamila ettari. Il, complesso del Carapelle e quelli minori porteranno l'acqua su ventitremila ettari. 9 Il Salento è bello ma povero, d'un'antica povertà greca. Vive di poche industriole, dei commerci, dell'agricoltura. Le strutture agricole, su cui poggia fondamentalmente l'economia locale, sono antiquate. La fuga dai campi è determinata dai redditi bassi e aleatori. Il frazionamento delle campagne impedisce le trasformazioni delle colture e l'ingresso della meccanizzazione. Circondata da cinque consorzi di bonifica, (Arneo, Ugento, Li Foggi, Alimini-Fontanelle, San Cataldo). Lecce, città colta, isolata, statica, è al centro di una terra che vive in una dimensione temporale che non ha gli strumenti per una marcia di trasferimento in una sfera moderna e dinamica. Più u'ogni altra area pugliese, il Salento, questa antica quinta Puglia, è l'immagine d'una regione in crisi. Una crisi cristallizzata, che non è riportabile ad alcun altro esempio dell'esperienza italiana, e pertanto più preoccupante, perchè taglia fuori uomini e terre che sono stati all'origine delle correnti intellettuali e culturali della regione. Non è un vanto retorico, nè un luogo comune. E' la constatazione della decadenza del fenomeno culturale provinciale come base per uno sviluppo anche economico, civile, sociale. Le constatazione, cioè, delle differenze di fondo che sono puntualmente riscontrabili tra gli impegni ideali e le correlazioni pratiche nell'Italia e nel Mezzogiorno, e nei Paesi più avanzati dell'Europa occidentale. 284 INDICE Meridionalismo in crisi? Vecchi miti e nuove frontiere L'aggressione del Mezzogiorno Politica agraria: tallone d'Achille Il Sud col cuore d'acciaio Dieci milioni di braccia Gli anni dell'ultimatum Una politica mancata Partiti e Mezzogiorno Tra l'Europa ed il Mediterraneo Per un nuovo meridionalismo Mezzogiorno a passo d'uomo Le due Lucanie Le « isole» calabresi Sicilia un altro continente Napoli senza il regno L'altra Campania La questione sarda Le regioni siamesi Le cinque Puglie Pag. “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ 285 l 15 27 39 55 71 85 97 107 135 147 155 155 173 189 213 225 235 261 273 Tipografia di Matino - Matino (Lecce) finito di stampare il 30 agosto 1968 287