Via Lungarini 129
90014 Casteldaccia (PA)
STORIA DELLE FERROVIE ITALIANE
Sommario
Nel mese di gennaio del corrente anno, ho avuto la fortuna di frequentare il 9° Corso di
Tecnica Ferroviaria organizzato dal C.I.F.I. (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani).
Anche se laureatomi in una disciplina diversa (indirizzo strutture), l’argomento delle
ferrovie mi ha sempre interessato e ricordo ancora quando vidi per la prima volta la
piccola Stazione di Casteldaccia non ancora delimitata e con tutte le traverse in legno
accatastate le une sulle altre.
In virtù di questa forte passione, ho riportato in questa pubblicazione un po’ di materiale
storico che ho trovato su internet e che riguarda la storia delle ferrovie e del nostro Paese.
Ringrazio, pertanto, i tanti autori che permettono con i loro studi di conoscerne la storia
attraverso uno strumento “libero” qual è il web.
La mia speranza è che almeno “uno solo” dei tanti naviganti, attraverso la lettura di
questo mio piccolo contributo, possa capire e possa aprire gli occhi su come la mente
umana sia un dono prezioso capace di imprese impossibili, ma se non è accompagnata
da un’anima, trascina alla distruzione, alla morte, alla guerra, sconvolgendo la dignità
dell’essere umano.
1. Introduzione [1-2]
Le ferrovie hanno origine dalla combinazione di due elementi: la strada ferrata e la
trazione meccanica. La strada ferrata, composta da due guide parallele in metallo, su cui
far scivolare materiale o su cui far rotolare carri o simili, ha origini antiche: pare, infatti, che
già per la costruzione delle piramidi furono utilizzate rotaie in bronzo. Nell’età moderna,
rotaie in legno erano utilizzate nelle miniere inglesi nel 1600, successivamente nel XVII
secolo, furono rivestite di lamiera e le ruote dei vagoncini muniti di cerchioni.
Si veniva a creare così l’accoppiamento ruota metallica – rotaia metallica che permetteva
una cospicua riduzione della resistenza al moto e che, al tempo, permise di far trainare al
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cavallo, unico mezzo di trazione allora utilizzabile, un carico quadruplo rispetto al
passato.
All’inizio del 1800 con l’invenzione della locomotiva, ovvero con lo sviluppo della trazione
meccanica, si ha la nascita vera e propria della ferrovia come sistema di trasporto per
passeggeri e merci.
Uno studio sulle origini e sulle vicende delle ferrovie italiane assume un significato che va
al di là della storia di questa importantissima infrastruttura, che ha caratterizzato
l’economia dei maggiori paesi europei nella seconda parte del XIX secolo. Il ruolo che le
ferrovie hanno avuto in Italia in nessun modo può essere paragonato con quello avuto in
altri paesi. La coincidenza dell’unificazione con la realizzazione sul territorio nazionale
delle maggiori direttrici ferroviarie non si esaurisce in una semplice questione temporale,
ma va vista in un’ottica particolare: le ferrovie furono lo strumento indispensabile per unire
gli stati preunitari e le loro rispettive popolazioni.
Il significato politico delle prime realizzazioni ferroviarie, che emerse con tutta la forza in
occasione della realizzazione della Direttrice Adriatica, fu quindi una caratteristica italiana,
a differenza di ciò che avvenne in altri paesi europei, come Francia e Regno Unito, dove
le ferrovie si affermarono soprattutto come importante fattore economico.
Il principale artefice del sistema ferroviario italiano fu Camillo Benso, conte di Cavour.
In un suo viaggio in Inghilterra egli rimase colpito dall’industria nelle sue varie forme ed in
particolare dalle “strade ferrate”.
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2. La fine del primato dei trasporti marittimi [2]
Le vie di comunicazione hanno sempre rappresentato un elemento di grande importanza
per lo sviluppo economico e sociale di un territorio. Prima dell’avvento delle ferrovie, le vie
d’acqua, intese non soltanto come trasporti via mare ma anche attraverso fiumi navigabili
e canali artificiali, rappresentavano la via di comunicazione prevalente ed erano la
condizione necessaria per lo sviluppo delle regioni interne delle nazioni. In Europa, la
Gran Bretagna, con la sua fitta rete di canali navigabili, è stato l’esempio più importante di
come i trasporti costituissero un elemento decisivo per lo sviluppo economico. All’inizio
del XIX secolo, le imbarcazioni utilizzate per questo scopo rappresentavano circa il 75%
dell’intera flotta britannica ed il trasporto fluviale aveva un costo minore rispetto a quello
stradale.
Anche in Italia, prima dello sviluppo delle ferrovie, il trasporto per vie d’acqua rappresentò
la comunicazione più importante, anche se la rete era distribuita in modo disomogeneo
dal punto di vista territoriale. Il trasporto fluviale, infatti, si sviluppò soprattutto nelle zone
settentrionali e soltanto in misura marginale a sud, dove le difficoltà di comunicazioni
interne venivano superate dal trasporto via mare lungo le coste. Si trattava di navigazione
di cabotaggio, soprattutto nel Regno di Napoli, dove le difficoltà di attraversamento
dell’Appennino rendeva conveniente il trasporto via mare non solo delle merci pesanti,
ma anche delle persone.
La dimensione mediterranea della marina mercantile italiana rese particolarmente forte
l’impatto che la nascita e lo sviluppo delle ferrovie in Italia ebbero sul trasporto via mare.
La realizzazione delle linee ferroviarie litoranee, prima fra tutte la Direttrice adriatica,
penalizzò considerevolmente la navigazione di cabotaggio. La realizzazione delle
transappenniniche, inoltre, rese il trasporto su rotaia di merci e persone molto più
conveniente rispetto alle lunghe navigazioni attraverso lo stretto di Messina ed il mar
Ionio.
La legislazione in quegli anni si limitò a prendere atto della crescente importanza assunta
dal trasporto ferroviario rispetto a quello marittimo, ad esempio, la legge n°3.880 del 15
giugno 1877 limitò il numero di navigazione litoranee proprio per la loro ormai scarsa
utilità.
La vera rivoluzione provocata dalla realizzazione delle ferrovie si ebbe, però, nei trasporti
interni per vie d’acqua. In Italia i fiumi navigabili erano stati utilizzati per trasporto
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soprattutto nel centro – nord e soltanto in misura marginale nel meridione. Tale rete di
canali, i navigli, raggiungeva circa 700 chilometri di lunghezza già alla fine del XIII secolo.
Nell’Italia settentrionale, prima della realizzazione delle ferrovie, la rete idroviaria padana
rappresentava il sistema di trasporto più economico, e per le merci povere l’unico mezzo
di collegamento tra le città venete e quelle lombarde.
Il trasporto ferroviario, però, rese tecnicamente ed economicamente superati i canali e,
anche se i costi di esercizio dell’epoca si eguagliavano, le ferrovie erano preferite per la
maggiore velocità soprattutto nel caso di trasporto di persone.
Con la realizzazione della linea Milano – Venezia diminuì notevolmente la navigazione sul
Po e soprattutto sull’Adige, dove il traffico si ridusse al trasporto di poche merci pesanti
come il materiale da costruzione.
Nell’Italia centrale la navigazione fluviale riguardava soprattutto l’Arno ed il Tevere, su
quest’ultimo il traffico fu particolarmente intenso fino all’unificazione e riguardava
particolarmente il trasporto di derrate che giungevano ai porti fluviali della città di Roma,
Ripagrande e Ripetta, da Civitavecchia e da Anzio. Anche in questo caso, però, l’arrivo
delle ferrovie rivoluzionò i precedenti sistemi di trasporto. Il 24 aprile 1859, l’apertura della
linea ferroviaria Roma – Civitavecchia, osteggiata dai proprietari dei bastimenti che
effettuavano il trasporto tra i due centri, segnò l’inizio del declino della navigazione sul
Tevere.
All’apertura della Roma – Civitavecchia si aggiunse quella per Anzio e la navigazione sul
Tevere continuò a diminuire fino a cessare completamente all’inizio del XX secolo.
Nell’Italia meridionale, dato il carattere torrentizio dei pochi corsi d’acqua esistenti, la
navigazione interna era limitata ad alcuni tratti del Garigliano ed del Volturno. Il processo
che portò al declino della navigazione interna a favore delle ferrovie fu un processo
inevitabile. La maggiore velocità del trasporto su rotaia ed i suoi minori costi furono gli
elementi determinanti.
A questo si deve aggiungere anche la sovrapposizione dei percorsi, lungo le stesse
importanti direttrici di traffico, che vedevano spesso accomunati accanto alle strade ed i
canali, anche le linee ferroviarie. Si cercarono, infine, misure che potessero permettere la
sopravvivenza della navigazione interna, come l’unificazione della gestione dei due
sistemi di trasporto, dove questo era possibile, ma questo non servì ad evitare il declino e
la sostanziale scomparsa della navigazione interna.
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3. Le origini della ferrovia [3]
La prima ferrovia fu la Stockton-Darlington inaugurata il 25 settembre 1825; ma era più
che altro una prova, con i passeggeri su vagoni-carrelli, anche se un tempestivo e
intraprendente "manager" Eduardo Pease, riuscì quel giorno a vendere alcuni biglietti ai
coraggiosi passeggeri.
A Pease spetta il vanto di aver fondato la prima società ferroviaria del mondo, detta
appunto "Stockton and Darlington Railway Company". A quel primo biglietto gli inglesi nel
celebrare il centenario (1925) gli hanno dedicato a Darlington perfino una lapide ricordo.
Storicamente, però, si fa risalire l'inaugurazione della prima ferrovia del mondo (16 sett.
1830), lunga 14 chilometri alla Liverpool - Manchester con la famosa locomotiva
"locomotion" costruita da Stephenson; pochi mesi dopo (30 ottobre 1830) era poi seguita
la francese Saint-Etienne-Lione col primo tratto di 15 chilometri. A Parigi la strada ferrata
che la univa a San Germano fu invece inaugurata sei anni dopo, il 24 agosto 1837. Quel
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giorno un passeggero singolare era un giovane poeta non ancora romanziere, Victor
Hugo, che così descrisse scrivendo alla moglie questo suo primo viaggio in ferrovia:
"E' un movimento magnifico, che bisogna aver sentito per rendersene conto. La rapidità è
inaudita. I fiori ai lati della via non son più fiori, sono macchie anzi sono strisce rosse o
bianche;... le città, i campanili e gli alberi danzano e si perdono follemente
nell'orizzonte;...Occorre uno sforzo per non figurarsi che il cavallo di ferro sia una vera
bestia. La si sente soffiare nel riposo, lamentarsi in partenza, guaiolare in cammino: suda,
trema, fischia, nitrisce, rallenta, trascina; enormi rose di scintille sprizzano gialle ad ogni
giro di ruota o dai suoi piedi, e il suo respiro se ne va al di sopra delle nostre teste in belle
nuvole di fumo bianco, che si lacerano sugli alberi della strada".
La "rapidità inaudita" descritta da Hugo, era allora di 15 chilometri all'ora !! Un prudente
apostolo del progresso sulla rivista Quarterly tutto allarmato scriveva. "E' una pretesa
assurda e ridicola quella di voler far viaggiare locomotive con una velocità doppia delle
carrozze di posta. Tanto varrebbe viaggiare su di una bomba ! Vogliamo sperare che il
Parlamento non approvi alcuna domanda di ferrovia senza prescrivere che la velocità di
nove miglia all'ora (14 km/h) - la massima che possa adottarsi senza pericoli - non debba
essere giammai superata!”
Il prudente apostolo non fu ascoltato, anzi, il "movimento magnifico" aveva stregato i
governanti di tutti i Paesi. Dopo soli 6 anni dalla Liverpool-Manchester, si contavano in
Europa già 876 chilometri di strade ferrate, 461 dei quali realizzate in Inghilterra, 245 in
Austria, 141 in Francia, 20 in Belgio, 7 in Baviera, 40 in Sassonia, 26 in Prussia, 28 in
Russia, e vari chilometri nei Principati e Città libere della Germania.
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4. Le origini in Italia [3]
Il 3 ottobre 1839, nel regno di Napoli, per la prima volta in Italia, una locomotiva correva
sulle rotaie tra Napoli e Portici, trascinandosi dietro dei vagoni con sopra dei passeggeri.
L'anno prima della inaugurazione della linea parigina, nei primi mesi del 1836 era giunto a
Napoli un ingegnere francese - Armando Bayard de le Vingtrie - per chiedere a Re
Ferdinando II il permesso di poter costruire una "strada ferrata", come si diceva allora, tra
Napoli e Nocera.
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Egli avrebbe insieme con una sua Compagnia, compiuta l'opera a proprie spese e a
proprio rischio. Domandava in compenso che gli si lasciasse per 99 anni l'usufrutto, poi la
"ferrovia" sarebbe divenuta proprietà dello Stato.
La proposta fu studiata dal cavalier Nicola Santangelo, Ministro degli Interni, e fu del
parere di accettarla in linea di massima. Quello di Napoli era il clima ideale del
pionierismo delle modernità; i Borboni avevano inaugurato il primo battello di linea a
vapore d'Italia, ed erano riusciti con una delle prime reti italiane a collegare
telegraficamente Napoli con la Sicilia; dunque anche al giovane Re (26 enne, sul trono da
sei anni) l’idea di Bayard non dispiaceva proprio - (ricordiamo che a Napoli fu poi
costruita la prima Metropolitana d’Italia).
Con decreto del 19 giugno 1836 il Re concesse al Bayard la facoltà di costruire la ferrovia,
ma con limitazione assai più strette di quelle che il francese avrebbe voluto.
I lavori avrebbero dovuto esser compiuti in sei anni; Bayard doveva depositare 100.000
ducati, i quali sarebbero stati confiscati se in quel tempo non si fosse finita l'opera. Inoltre
l'usufrutto della concessione fu limitata a soli 80 anni. Ottenuta dunque la concessione, il
Bayard si pose all'opera e già due anni dopo, alla fine del mese di agosto 1838 , il primo
tratto di binari era pronto da Napoli al Granatello di Portici.
Le locomotive giunsero dall'Inghilterra, mentre le carrozze solide ed eleganti furono
fabbricate a Napoli.
Nel Regno Lombardo – Veneto
Alla costruzione della prima ferrovia lombarda fu impegnata una industria privata.
La prima linea, da Milano a Como, fu ideata dal nobile Nanino Volta, figlio del celebre
scienziato comasco, e dall'ingegnere Bruschetti di Milano, che n'ebbero la concessione
con sovrana patente del 27 luglio 1837 (un anno e un mese dopo quella di Napoli) ma
non
furono
mai
iniziati
i
lavori
e
il
progetto
rimase
solo
sulla
carta.
Altra concessione fu data nell'aprile del 1838 alla ditta Holhammer di Bolzano, che la
cedette poi ad una Società anonima, per la linea da Milano a Monza. Questa fu
solennemente inaugurata il 18 agosto 1840, e fu la seconda linea realizzata nella nostra
Penisola, la prima del Lombardo - Veneto.
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Piemonte
Fra gli Stati, com'era allora divisa l'Italia prima del 1860, il Piemonte diede alle costruzioni
ferroviarie l'impulso maggiore, vincendo tutte le gravi difficoltà che si presentavano con i
suoi monti, fiumi e torrenti. E non procedette senza criterio, ma seguendo un programma
saggiamente maturato già prima, perfino considerando i futuri congiungimenti con le
linee dei Paesi più vicini.
E fu appunto il Piemonte a concepire e a sostenere la grandiosa idea di aprire attraverso
le Alpi la prima via al commercio internazionale; e non tardò a preparare i mezzi per
effettuare la gigantesca impresa, culminata poi nel 1870 con il ciclopico traforo del
Cenisio.
Dopo che Carlo Alberto aveva autorizzato una Società che aveva fatto i primi studi
preliminari, il Governo deliberò il sistema delle ferrovie piemontesi in due grandi linee
principali: una della quali unisse Genova a Torino, passando per Alessandria, e l'altra da
Alessandria
mettesse
capo
al
Lago
Maggiore,
attraversando
la
Lomellina.
Ultimati gli studi nei particolari, venne ordinata il 13 febbraio 1845 la costruzione delle due
linee a spese dello Stato.
Della ferrovia Torino - Genova da Novi a Sampierdarena, considerando l'epoca in cui fu
costruita, nella quale l'arte ferroviaria muoveva i primi suoi passi, fu veramente un'opera
colossale. Svolgendosi i lavori su una regione aspramente montagnosa, oltre a tratti con
pendenze del 35 per mille, richiese anche la perforazione di numerose gallerie, dieci di
numero, di cui la massima, a Busalla, si interna sotto il colle dei Giovi per ben 3.260 metri,
considerata allora la più lunga galleria del mondo. Fino allora deteneva il primato la
galleria del Semmering (linea Vienna-Trieste) con i suoi 1.430 metri, opera austriaca ma
realizzata (periodo 1848-1854) da un italiano: l'ingegner veneziano Carlo Ghega.
Dopo la proclamazione dello Statuto del 4 marzo 1848, all'opera del governo piemontese
si aggiunse quella privata, contribuendo ad infittire sempre di più le vie ferrate in
Piemonte.
Nel 1852 lo Stato deliberò di costruire a proprie spese la strada ferrata da Torino a Susa
(costruendo in parallelo la strada del Passo del Cenisio che metteva in collegamento la
Savoia)
e
ne
affidò
i
lavori
alla
Società
Jakson,
Brassey
e
Henfrey.
Sul tratto di Torino-Susa appena citato, già il 13 agosto 1840, un umile imprenditore di
Bardonecchia, Giuseppe Francesco Medail, dopo aver esaminato ogni passo le sue
montagne, d'estate e d'inverno, studiando i vari ostacoli sia dalla parte italiana come in
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quella francese, dopo aver misurato che Bardonecchia e Modane erano allo stesso livello,
e che l'interposto monte Freius era il più stretto fra tutti i monti, inviò un memoriale a
Torino, esponendo il suo pensiero prima ancora della progettata costruzione del Passo
stradale del Moncenisio e della ferrovia Torino-Susa. Non ebbe risposta. Ne inviò un altro
all'inizio del 1841, ma ebbe lo stesso poco fortunato esito. Il suo era un progetto audace e
avveniristico e nel preambolo della sua relazione diceva: " Per migliorare la strada da
Torino a Chambery e renderla tale da rivaleggiare in qualunque stagione con quella dei
nostri vicini, conviene abbandonare la strada del Cenisio e forare le Alpi del tratto più
Breve, cioè sotto il monte Frejus, fra Bardonecchia e Modane”
Questo "tratto più breve" dell'audace progetto misurava circa 13 chilometri. Una follia per
quei tempi, senza le moderne perforatrici. Il progetto non toccò neppur l'onore di una
discussione, sicchè fu sepolto negli archivi di Stato. Medail chiuse gli occhi a Susa il 5
novembre 1844 e non ebbe la soddisfazione di veder presa in considerazione il suo
progetto. Che però dopo l'esilio e la morte di Carlo Alberto, passò di mano in mano con
tante paternità; ma la più originale fu quella dell'ing. milanese Giovan Battista Piatti che
(dopo essere stato a Londra a curiosare) il 12 febbraio 1853 su quell'audace progetto di
Medail, concepì in concreto un doppio disegno: come affrontare l'immane opera di scavo
basandosi sull'applicazione dell'aria compressa. "Proposta per la strada ferrata fra Susa e
Modane di un nuovo sistema di propulsione ad aria compressa da motori idraulici, e
abbozzo di progetto per il traforamento delle Alpi". Era un opuscolo stampato a Torino
dalla tipografia Castellazzi e Garretti. Anche questo progetto passò di mano, anche
perchè Piatti non l'aveva brevettato, nè aveva gli agganci giusti dentro il governo
Sabaudo. Il 15 gennaio 1854, tre ingegneri (Sommeiller, Grandis, Grattoni) su quel
progetto chiesero il brevetto d'invenzione e lo proposero al ministero dei lavori pubblici. A
un anno esatto dall'opuscolo di Piatti (arma vincente nella ciclopica perforazione).
A parte la diatriba sulla priorità, il "progetto" dei tre ingegneri giunse finalmente in
Parlamento il 29 giugno 1857. La grande opera fu approvata con 98 voti favorevoli contro
18 avversi. Il 31 agosto 1857 Vittorio Emanuele inaugurava i lavori col dar fuoco alla prima
mina alla galleria di Modane; il 14 novembre dello stesso anno dava fuoco a quella sul
versante piemontese. Le perforatrici meccaniche non erano ancora state perfezionate, i
lavori di scavo furono iniziati a mano, ma dopo cinque anni sia da una parte che dall'altra
non si era andati oltre i 700 metri di galleria, e fatti tanti sacrifici di uomini e di denari. Ne
rimanevano di metri 11.500 !! Qualcuno già disperava, perchè si stava procedendo a
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passo di formica. Ma poi arrivarono le nuove macchine (pneumatiche ad aria compressa,
idropneumatiche, scalpelli meccanici con diamanti ecc.) i lavori ebbero una forte
accelerazione e poterono esser compiuti in poco più di tredici anni. Si lavorò anche tutta
la vigilia e tutta la mattina del Natale 1870. Questo perchè in una breve pausa nel versante
italiano, a mezzogiorno della vigilia, si erano uditi dei rumori sordi e confusi; operai e
tecnici si guardarono trepidanti tutti in faccia alla luce delle fiaccole, poi qualcuno
azzardò: "non c'è dubbio, sono i minatori del versante opposto". I lavori ripresero con
maggior lena, lo scalpello affondò negli ultimi massi; poche ore dopo il governo riceveva
questo telegramma: "Bardonecchia . Quattro ore e venticinque minuti. Lo scalpello ha
forato l'ultimo diaframma di quattro metri e ci parliamo da una parte all'altra".
L'errore di dislivello e di deviazione laterale risultò essere di pochi centimetri. Una
meraviglia dell'ingegneria! Un’opera audace, allora unica al mondo!
Sette mesi dopo il primo treno percorreva la lunghissima galleria di 12.233,55 metri del
traforo del Cenisio.
Lasciamo pure il merito agli ingegneri esecutori; ma Carlo Cattaneo affermò che il traforo
del Cenisio si doveva specialmente "a un lampo di genio di Giovan Battista Piatti". Che
pochi ricordarono nè da vivo nè da morto. Morì ignorato nelle tribolazioni e povero. Solo
Milano gli dedicò un monumento.
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5. La nascita delle Ferrovie dello Stato [4]
La nascita delle Ferrovie dello Stato avvenne in un clima di malcontento dei viaggiatori e
di forti agitazioni sindacali dei ferrovieri che reclamavano aumenti dei salari, già più alti di
altri lavoratori, ed il riconoscimento del diritto di sciopero negato esplicitamente dal
Decreto Legge presentato dal precedente governo Giolitti. Le FS vennero dunque istituite
con legge 137 del 22/04/1905, approvata a larghissima maggioranza a seguito del nuovo
disegno di legge, presentato dal Ministro dei Lavori Pubblici Carlo Ferraris, del governo
Fortis.
Furono liquidate dallo Stato le “Compagnie” che gestivano, sin dal 1885 con Convenzioni
ventennali in scadenza e già disdettate nel 1903 dal governo Zanardelli, le tre principali
reti ferroviarie: Mediterranea, Adriatica e Sicula, cui si aggiunse l’acquisizione delle
ferrovie Meridionali avvenuta l’anno successivo, quando i ferrovieri cominciarono a
beneficiare, con l’emanazione dello Stato Giuridico, di alcuni diritti non garantiti dagli altri
impiegati statali.
Delle tre Compagnie le FS ereditarono uno stato precario delle linee ed un parco rotabile
molto eterogeneo ed in parte obsoleto.
Nel primo decennio di gestione statale vennero realizzate:
2.000 km di nuove linee;
350 km di linee elettrificate;
1.000 km di binario raddoppiato;
da 2.600 a 5.000 locomotive di modello perfezionato (la N.6.801 raggiunse sulla
Parma - Piacenza, nel 1907, i 120 km/h);
veicoli da 60.000 a 117.000 unità;
nuovi piani regolatori di varie stazioni, tra cui Torino, Bologna,Milano, Roma T. e
Napoli;
10 nuovi depositi locomotive nei punti più nevralgici della rete;
adozione degli apparati centrali idrodinamici per la manovra degli scambi e dei
segnali nelle stazioni di più intenso traffico.
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6. Le premesse della politica ferroviaria fascista [5]
Durante il primo conflitto mondiale le Ferrovie dello Stato parteciparono in maniera
importante allo sforzo bellico fornendo i mezzi necessari a garantire sia «il pronto
intervento delle truppe al fronte» sia «il continuo approvvigionamento di materiali e
vettovaglie all’esercito operante». In particolare dopo Caporetto il coinvolgimento
dell’Azienda di Stato fu ancora più significativo e questo, se da un lato accelerò l’usura di
materiali e mezzi, dall’altro contribuì a creare un clima di forte consenso attorno
all’Azienda. Nei difficili anni del dopoguerra però, l’Amministrazione ferroviaria diventò
presto il bersaglio di numerose e aspre polemiche che coinvolsero ampi strati
dell’opinione pubblica. Le cattive condizioni del materiale mobile, determinate dalla
mancata sostituzione di un parco macchine ormai vecchio e logoro, e le frequenti
agitazioni del personale, cresciuto a dismisura durante la guerra, rendevano infatti
l’Azienda incapace di assicurare il buon funzionamento dell’esercizio ferroviario.
I termini «disservizio» e «anarchia ferroviaria», coniati nel 1905 all’epoca della
nazionalizzazione per descrivere le cattive condizioni delle ferrovie italiane, tornarono
quindi prepotentemente di moda. In particolare nel corso del 1920 gli agenti ferroviari,
raccolti attorno al loro potente sindacato, lo Sfi (Sindacato Ferrovieri Italiani) si resero
protagonisti di agitazioni sindacali, scioperi, episodi di interruzione dal servizio che
s’impressero «nel senso comune degli italiani come la manifestazione più alta, anzi come
l’esempio più perfetto, dell’insubordinazione sociale e del disordine pubblico».
Gli scioperi del 1920 degli agenti ferroviari e di altri impiegati pubblici, come i
postelegrafonici, rappresentarono uno dei momenti di maggiore tensione di quel periodo
di lotte sociali che culminò nell’occupazione delle fabbriche nel settembre dello stesso
anno.
In particolare la proclamazione dello sciopero ferroviario del gennaio del 1920 fu la causa
indiretta di una spaccatura interna al movimento dei Fasci di combattimento, che da quel
momento iniziarono a intraprendere un nuovo percorso politico. Mussolini, che
inizialmente si era mostrato favorevole a riconoscere le ragioni dei ferrovieri, al momento
della proclamazione dello sciopero si mostrò invece nettamente contrario all’astensione
dal lavoro nei pubblici servizi. Non tutti i leader fascisti però, condivisero l’opinione del
duce. Due esponenti di spicco del fascismo come Eno Mecheri e Agostino Lanzillo,
schieratisi entrambi dalla parte dei ferrovieri, furono costretti a lasciare il movimento. Due
giorni dopo l’inizio dello sciopero ferroviario Cesare Rossi, primo collaboratore del duce
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che, in quel momento, secondo Emilio Gentile, era «molto più isoluto di Mussolini nel
sostenere […] la necessità di lasciarsi alle spalle ogni velleità di propaganda fra il
proletariato per volgersi decisamente dalla parte della borghesia produttiva e dei ceti
medi», sulle colonne de “Il Popolo d’Italia”, in un noto articolo intitolato Non vogliamo i
salti nel buio, scriveva: È tempo di proclamare francamente che di fronte alla certezza
ineluttabile della dissoluzione generale a cui oggi fatalmente ci condurrebbe un
movimento rivoluzionario – da chiunque diretto e qualunque ne fosse l’obiettivo – si ha il
dovere di andare contro corrente: più brutalmente diciamo: si ha il dovere di essere
risolutamente dei conservatori e dei reazionari. Di reagire cioè contro i salti nel buio, di
conservare, cioè quel che di solido, di organico, di sano offre la classe sociale oggi al
potere.
Queste argomentazioni anticipavano la svolta a destra che i Fasci di combattimento, non
senza contrasti interni, decisero di intraprendere, per evidenti ragioni di opportunità
politica, nel maggio successivo al congresso di Milano e che si realizzerà pienamente agli
inizi del 1921.
Comunque già da quel momento il fascismo non fu più un movimento soltanto
antisocialista ma anche antioperaio, e iniziò ad assumere agli occhi dell’opinione
pubblica moderata il ruolo di severo e rigido difensore dell’ordine costituito.
Il disservizio ferroviario, le cui cause erano fatte risalire, da un’abile propaganda, alle
frequenti agitazioni del personale, appariva come la migliore testimonianza dell’incapacità
mostrata dallo Stato nel tenere a freno le velleità rivoluzionarie del proletariato e offriva ai
fascisti la possibilità di dipingere sé stessi come unica forza nuova in grado di difendere
gli interessi nazionali.
È ben comprensibile quindi, la particolare attenzione dedicata dal fascismo alla questione
ferroviaria. Le forti critiche espresse dal movimento dei fasci sulla gestione dell’azienda
erano infatti destinate a riscuotere un successo crescente presso le classi medie
esasperate dalle numerose e troppo frequenti agitazioni sindacali dei ferrovieri che nel
corso di quel turbolento 1920 ostacolarono a più riprese la regolarità del servizio.
Alcuni mesi dopo la conclusione dello sciopero di gennaio gli agenti ferroviari di diversi
compartimenti intrapresero nuove azioni di protesta contro il governo che ritardava
l’applicazione di quanto previsto dagli accordi presi con il sindacato. Il primo maggio, in
occasione della festa dei lavoratori, l’astensione dal servizio dei ferrovieri fu quasi
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completo. Nello stesso mese iniziarono invece le azioni di boicottaggio dei trasporti di
armi destinate agli eserciti in guerra contro la Russia.
Il 14 ottobre i ferrovieri aderirono alla grande manifestazione nazionale di solidarietà alla
Russia che prevedeva due ore di sospensione dal servizio.
Alla fine dell’anno tra scioperi parziali, saltuarie agitazioni e astensioni locali dal lavoro
l’Amministrazione ferroviaria contò 65 interruzioni di servizio tra gennaio e dicembre. A
queste si aggiunse, in alcuni casi, in aperta sfida allo Stato, il boicottaggio dei treni che
trasportavano carabinieri o guardie regie inviati per ragioni di ordine pubblico presso le
località in cui era in atto uno sciopero.
Inoltre, a seguito delle iniziative sindacali prese dallo Sfi nel dicembre del 1920, Giolitti
decise di denunciare tutti i membri del comitato centrale del sindacato. Infine, per
contrastare la combattività della categoria, e neutralizzare la più potente arma a loro
disposizione, quella dello sciopero, l’Amministrazione ferroviaria fece più volte ricorso
all’applicazione dell’articolo 56 del regolamento ferroviario che prevedeva la sospensione
e addirittura il licenziamento per chi volontariamente abbandonava il servizio.
L’applicazione dell’articolo 56 era ormai ritenuta illegittima, e non solo tra i ferrovieri,
poiché si pensava che essa fosse stata implicitamente abrogata da Nitti che non ne aveva
fatto uso nel gennaio del ’20. Colpire i ferrovieri con l’applicazione dell’articolo 56
rappresentava forse il primo segnale di quella «politica risoluta ed energica» che, secondo
il prefetto di Milano, il senatore Lusignoli, l’opinione pubblica in quel momento reclamava.
L’azione del governo in campo ferroviario non si esaurì però in una più rigorosa politica di
contrasto delle iniziative sindacali, bensì comprese una serie di provvedimenti assunti in
favore del personale, riguardanti soprattutto l’aumento delle retribuzioni. Tali interventi
avevano lo scopo di tutelare gli stipendi dei ferrovieri dagli effetti dell’inflazione
postbellica.
Disavanzo economico, elefantiasi dell’apparato amministrativo e, soprattutto, forte
caratterizzazione politica del personale e della sua azione in campo sindacale: erano tutti
elementi che, a partire dal gennaio del 1920, facevano dell’inefficiente politica ferroviaria
di quegli anni uno dei bersagli preferiti dalla polemica fascista.
«Quali le cause di questo terribile stato di cose?» si chiedeva alla Camera nel maggio
1922 l’onorevole Edoardo Torre, futuro Commissario Straordinario delle Ferrovie del
governo Mussolini.
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Secondo il parere di Torre nel gennaio del 1920 «le sorti delle ferrovie erano nelle mani
del sindacato rosso di Bologna» e l’allora Presidente del Consiglio Nitti aveva fatto al
Sindacato «tutte le concessioni» consegnando «mani e piedi legati lo Stato alla classe dei
ferrovieri». Da quel momento lo Sfi era diventato onnipotente e lo Stato era rimasto «sotto
l’incubo doloroso dello sciopero ferroviario».
Dall’esame degli eventi del gennaio del 1920 e, soprattutto, dall’atteggiamento
successivo dei governi Nitti, Giolitti e Bonomi, emerge invece una realtà molto diversa da
quella descritta da Torre. Anche in occasione dello sciopero legalitario dell’agosto del
1922 il Presidente del Consiglio Facta decise di comminare severe sanzioni disciplinari ai
ferrovieri scioperanti. Secondo “L’Avanti!” ben 111 agenti ferroviari furono colpiti
dall’applicazione dell’articolo 56 del regolamento ferroviario e perciò dimissionati. Il
sindacato dei ferrovieri si trovava impotente a reagire contro l’offensiva dello Stato.
Lo Stato, reagendo all’aggressività sindacale dei ferrovieri con l’applicazione delle
sanzioni previste dalla legge nei confronti di coloro che si rendevano protagonisti di
episodi di interruzione del servizio, aveva ottenuto risultati significativi.
Ciò risulta evidente se si considera la scomparsa quasi totale delle agitazioni sindacali
durante i primi mesi del 1922.
A
due
anni
dallo
«scioperissimo»,
l’emergenza
ferroviaria
poteva
dirsi
ormai
completamente e definitivamente rientrata. Questo aspetto però, era ignorato dai fascisti
impegnati invece a fare delle agitazioni ferroviarie dei mesi precedenti, e dei conseguenti
disagi
che
esse
avevano
comportato,
l’oggetto
di
una
facile
distorsione
e
strumentalizzazione politica. I capi del movimento fascista infatti, nell’occasione, si erano
rivelati capaci di interpretare il sentimento di parte dell’opinione pubblica moderata
che ormai identificava la categoria dei ferrovieri con la «tanto deprecata scioperomania
del dopoguerra»
Agli inizi del 1921 Mussolini si era scagliato contro lo Stato «ipertrofico», «elefantiaco» che
svolgeva le funzioni di «tabacchino», «postino», «ferroviere», «panettiere». Secondo il duce
ogni azienda statale era un «disastro economico», e lo Stato avrebbe dovuto«rinunciare
ad ogni forma di gestione economica», lasciando nelle più capaci mani private alcune
delle numerose funzioni allora esercitate da Amministrazioni pubbliche. In polemica
contro le cosiddette «bardature di guerra», Mussolini, strizzando l’occhio al ceto
imprenditoriale, abbracciava quindi la causa liberista e auspicava la privatizzazione delle
ferrovie.
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Tuttavia subito dopo la marcia su Roma al nuovo governo sembrò più urgente procedere
a un immediato sfoltimento del personale delle Ferrovie dello Stato piuttosto che
adoperarsi per attuare una riforma strutturale dell’Amministrazione ferroviaria che si
concretizzerà in seguito, con la nascita del Ministero delle Comunicazioni, realizzando
una sostanziale riduzione dell’autonomia dell’Azienda. L’esonero di parte del personale
ferroviario era un’azione che avrebbe soddisfatto sia le esigenze di carattere economico
delle Ferrovie, nell’ottica del risanamento finanziario dell’Azienda, sia quelle di tipo tattico
del fascismo, intenzionato a realizzare in ambito ferroviario una vera e propria repressione
politica.
La riduzione del numero degli agenti ferroviari era stata auspicata da Torre nel discorso
alla Camera del maggio del 1922, che può essere considerato il manifesto
programmatico della politica ferroviaria attuata dal fascismo nei primi mesi di governo:
“Si licenzi tutto il personale superfluo – dichiarava Torre alla Camera –. Nelle ferrovie c’è
personale pletorico, perché, durante la guerra, le ferrovie si trasformarono in facile e vasto
campo di collocamento! Sono pochi i deputati che non hanno imboscato nelle ferrovie
decine e centinaia di elettori! Inoltre furono assunti in servizio donne e ragazze come
avventizi straordinari, solo per il tempo della guerra. Ma quando la pace fu conclusa esse
avrebbero dovute essere licenziate, ed i posti rimasti in organico, avrebbero dovuto essere
riservati ai reduci della guerra. Accadde invece che le persone suddette, in gran parte
superflue, vennero un bel giorno poste in pianta stabile, e ciò per imposizione violenta di
quella organizzazione cui i nominati agenti, donne incluse, avevano dato man forte, per gli
esperimenti rivoluzionari di infausta memoria. Però si raggiungeva uno scopo immediato:
quello di irreggimentare nei propri quadri questa massa ingente, docile strumento di ogni
eventuale speculazione politica”
Era evidente quindi che per indebolire il potente sindacato dei ferrovieri Torre considerava
necessario epurare il personale dagli elementi a esso più vicini.
Dopo i primi provvedimenti emanati dal nuovo Direttore Generale Luigi Alzona, tesi al
raggiungimento di maggiori economie nelle spese attraverso la riduzione del numero dei
treni e del personale, grazie alla legge dei pieni poteri, il governo Mussolini il 31 dicembre
del 1922 «per riorganizzare la più importante delle Amministrazioni dello Stato,
rendendone più agili le funzioni e diminuirne le spese», con il decreto n. 1681 sciolse il
Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie e ne attribuì tutti i poteri a un Commissario
Straordinario nominato nella persona dello stesso Edoardo Torre, dichiarato «libero da
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ogni vincolo burocratico» e perciò nelle condizioni di «metter in atto ardite iniziative il più
sollecitamente possibile»
Torre poteva quindi dedicarsi al raggiungimento dei suoi obiettivi. Innanzitutto era
necessario diminuire al più presto il disavanzo di bilancio dell’Azienda ferroviaria. Questo
traguardo in tempi brevi non poteva essere ottenuto se non attraverso una drastica
riduzione delle spese, a sua volta resa possibile dallo sfoltimento dei ranghi del
personale. L’istituto dell’esonero dal servizio degli agenti ferroviari usato contro gli
elementi più politicizzati e attivi sul fronte sindacale diventava un vero e proprio strumento
di epurazione volto a indebolire le associazioni di categoria.
A quel punto si potevano abolire o svuotare di significato alcune delle recenti conquiste
sindacali, limitare l’esercizio del diritto allo sciopero e confermare, all’opinione pubblica,
che l’azione del governo fascista era tesa alla restaurazione dell’ordine e della disciplina.
I criteri per la scelta del personale da esonerare, stabiliti a suo tempo dal governo
Bonomi, erano formulati quindi in maniera volutamente ambigua, tanto da concedere a
Torre ampia discrezionalità nell’individuazione dei soggetti cui applicare il provvedimento.
Soprattutto nel caso del personale ferroviario non si trattava certo di procedere al
licenziamento «del personale esuberante, o incapace, o comunque improficuo» come
dichiarava Mussolini nella relazione sull’uso della legge dei pieni poteri presentata alla
Camera nel 1924, o di eliminare «i non valori […] i poltroni, i favoriti», come si illudeva
Luigi Einaudi, bensì di utilizzare gli strumenti forniti dalla legge per attuare nei confronti
della categoria dei ferrovieri una vera e propria epurazione politica. Ciò emergeva
chiaramente dalle dichiarazioni dello stesso Commissario Straordinario che, nel gennaio
del 1923, annunciava al “Popolo d’Italia” di voler licenziare non solo i «fannulloni, gli
incapaci», ma anche «i nemici dello Stato», il che voleva dire «liberare le ferrovie dagli
elementi turbolenti e dai sobillatori di scioperi». Gli agenti non riconosciuti «idonei al
servizio per incapacità» erano individuati da Torre negli «elementi subdoli e pericolosi,
ben noti di già, che [avevano] alimentato gli scioperi e minato con animo nemico la
disciplina e la concordia della famiglia ferroviaria», ai quali poteva attribuirsi il requisito di
«incapacità morale», sufficiente, secondo Torre, a far scattare il provvedimento del
licenziamento. La possibilità di licenziare un impiegato di un’Azienda di Stato sulla base
di un insindacabile giudizio soggettivo riguardante la sua capacità lavorativa, come detto,
era già stata introdotta dal precedente governo Bonomi. Torre però intendeva sfruttarla a
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fini politici, equiparando l’eventuale attività sindacale dei singoli al requisito di scarsa
capacità.
Il Ministero dell’Interno raccolse quindi presso tutte le prefetture del Regno l’elenco dei
ferrovieri sovversivi da fornire a Torre affinché provvedesse al loro sollecito
allontanamento dai ranghi del personale. I nominativi da inserire in quelle che presto
diventarono vere e proprie liste di proscrizione erano forniti a Torre anche da apposite
commissioni formatesi in ogni compartimento presiedute da fiduciari compartimentali
scelti tra gli agenti ferroviari membri dell’Anff o tra quelli ad essa vicini
Grazie all’approvazione di norme eccezionali e alla loro libera interpretazione, Torre
poteva quindi procedere liberamente allo sfoltimento dei ranghi dell’Azienda.
Erano questi i primi passi dell’operazione intrapresa da Torre, e sollecitata dai principali
esponenti della scuola liberista, di sfoltimento del personale ferroviario. Lungi però
dall’essere una manovra a carattere esclusivamente economico, l’esonero di decine di
migliaia di agenti ferroviari assumeva per il governo Mussolini ben altro significato.
Significativo è il brano seguente tratto da un’altra lettera dell’Alto Commissario al Direttore
Generale di Pubblica Sicurezza del luglio dello stesso anno: “Tutti gli agenti che tu mi
vieni segnalando come sovversivi o, comunque, intesi ad esplicare opera dannosa agli
interessi nazionali, sono compresi negli elenchi delle persone da dispensarsi dal servizio
[…] se peraltro tu ritenessi necessaria la immediata eliminazione di taluno fra coloro che
mi hai designati, vorrai compiacerti di comunicarmene le generalità e la residenza onde io
possa affrettare l’adozione degli opportuni provvedimenti”.
L’uso prettamente politico dello strumento dell’esonero del personale ferroviario non si
limitò a colpire i dipendenti delle Ferrovie dello Stato di appartenenza socialista,
comunista o anarchica, bensì, alla vigilia delle elezioni politiche del 1924 si estese a
colpire i nemici interni, in quel momento considerati ben più pericolosi, alcuni dei quali, in
quei mesi, si erano riuniti nell’associazione “Patria e Libertà”.
Nell’ottobre del 1923, grazie all’applicazione dei decreti n. 143 e n. 153, erano stati già
licenziati 14.290 funzionari e agenti ferroviari, ne erano stati collocati a riposo altri 3.776,
mentre circa 10.000 avventizi erano stati allontanati dal servizio. A dicembre dello stesso
anno il numero complessivo del personale ferroviario esonerato o collocato a riposo era
salito a 43.053, il 19,32% del totale degli addetti al 1° gennaio di quell’anno. Il decreto n.
172 del 24 gennaio del 1924 prolungava il periodo di applicazione del decreto
sull’esonero del personale ferroviario fino al 30 aprile 1924. A quella data il numero dei
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licenziati era salito a 30.100, quello dei collocati a riposo a 6.466. Ciò significava che sui
65.274 impiegati dell’amministrazione statale licenziati, 46.566, cioè il 71,34%,
apparteneva ai ranghi dell’Azienda ferroviaria.
Il provvedimento che fece più discutere, però, fu senz’altro quello varato sempre nel
dicembre del 1923 sulla modifica dei quadri di classificazione del personale approvata nel
1921. Con l’eccezione dei funzionari di grado più elevato che godettero di un aumento
dello stipendio, la nuova classificazione del personale prevedeva una diminuzione
generale degli emolumenti. La riduzione degli stipendi risultava più accentuata quanto più
si scendeva nella scala gerarchica, «per ripristinare una equa differenziazione fra i vari
gradi del personale». Così mentre lo stipendio minimo annuo di un capo servizio saliva da
21.000 a 27.500 lire, quello di un macchinista scendeva da 9.900 a 7.400 lire, mentre la
paga minima di un conduttore, che prima ammontava a 6.600, e quella di un operaio, in
precedenza fissata a 7.650, passavano entrambe a 5.000 lire. Oltre ad allargare il divario
retributivo tra i quadri dirigenti e il personale esecutivo, le nuove norme raggruppavano le
troppo numerose qualifiche degli agenti ferroviari in sei categorie retributive, ad ognuna
delle quali corrispondeva un tipo di stipendio.
Infine Torre istituì il corpo di polizia ferroviaria, diretta emanazione dell’Anff, con il compito
di sorvegliare il personale, garantire l’ordine all’interno dei treni e delle stazioni, impedire i
furti che costavano alle Ferrovie dello Stato decine di milioni di lire l’anno di indennizzi. La
polizia ferroviaria era stata creata da Torre come un organo alle sue dirette dipendenze.
Nelle visite dell’Alto Commissario in Alessandria, una provincia nella quale Torre godeva
di largo seguito ma dove albergavano anche i suoi più fieri oppositori all’interno del Pnf,
svolgeva le mansioni di vera e propria scorta armata del capo delle Ferrovie. In occasione
di un banchetto organizzato in onore di Torre in Alessandria il 6 maggio del 1923 si
verificarono scontri a fuoco tra la polizia ferroviaria e alcune legioni della Milizia Volontaria
Sicurezza Nazionale (Mvsn) facenti capo al sindaco della cittadina piemontese Raimondo
Sala, fiero oppositore dell’Alto Commissario. Proprio a seguito di questo incidente De
Bono, all’epoca anche capo della Mvsn, sciolse d’imperio la polizia ferroviaria e inviò
prima Cesare De Vecchi e poi Italo Balbo a riportare l’ordine nel fascio di Alessandria.
Nell’agosto fu poi creato il corpo della Milizia Ferroviaria, inquadrata però all’interno della
Mvsn.
I provvedimenti presi da Torre, oltre a irreggimentare gli agenti ferroviari e a fornire
all’esterno l’idea di un governo capace di restaurare e mantenere la disciplina tra il
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personale addetto al compimento del più importante servizio pubblico, avevano anche lo
scopo di migliorare i conti dell’Azienda. Nell’esercizio finanziario 1923-24 l’eliminazione
del personale e la riduzione degli stipendi comportò un’economia di 365 milioni rispetto
all’esercizio precedente. In questa direzione muovevano anche i provvedimenti emessi al
fine di diminuire l’importo dei trattamenti di quiescenza del personale ferroviario e
l’aumento delle tariffe ferroviarie.
Dopo la destituzione di Torre da parte di Mussolini per ragioni politiche interne al partito
occorreva dunque continuare a guidare con mano ferma l’Amministrazione, ottenere
avanzi di bilancio, infrenare le agitazioni sindacali, offrire agli utenti un servizio efficiente
basato soprattutto sulla rigida osservanza degli orari, sulla sicurezza sui treni e nelle
stazioni e sulla massima velocità dei percorsi. Anche in questo senso quindi vanno lette le
numerose iniziative che il Fascismo intraprese nel corso degli anni per introdurre novità
tecniche nel settore ferroviario atte a migliorare la qualità del trasporto, a velocizzare i
tempi di percorrenza dei treni e a rendere più confortevole e fruibile il servizio. Tra le
realizzazioni più importanti attuate nel corso del Ventennio possiamo ricordare il
completamento delle linee direttissime Roma-Napoli e Firenze-Bologna; l’istituzione dei
“treni rapidi” sui lunghi percorsi e dei “treni leggeri” sulle tratte brevi; la diffusione sulle
linee secondarie delle automotrici dotate di motore a combustione interna, le cosiddette
Littorine e, last but not least, il processo di elettrificazione delle principali linee ferroviarie
che, iniziato già in età liberale, ebbe durante il Fascismo, superate le prime iniziali
incertezze, notevole impulso, tanto da consentire all’Italia di conservare in questo ambito
un primato europeo.
Erano tutte iniziative tese, da un lato, a difendere le Ferrovie dalla sempre più agguerrita
concorrenza del trasporto su strada, che divenne significativa a partire dai primi anni
Trenta; dall’altro, a fornire agli occhi dell’opinione pubblica italiana ed estera l’immagine
di un’Azienda all’avanguardia, moderna, in grado di raggiungere sul piano tecnico un
primato internazionale, tanto da diventare, come assai precocemente affermò il duce in
persona, «oggetto di ammirazione e di invidia da parte degli stranieri». Così, realizzazioni
e intraprese ferroviarie si rileveranno col tempo sempre di più elementi costitutivi di base
della costruzione di un vero e proprio mito politico-propagandistico di regime, dotato di
vasta e durevole popolarità.
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7. Le deportazioni [6 - 7]
1938, la visita di Hitler e le leggi razziali
Nel maggio del 1938 Hitler viene a Roma per ricambiare la visita di Mussolini.
Storicamente non esiste la prova di un collegamento diretto tra la visita e la svolta razzista
del Regime (e secondo molti storici, a partire da De Felice, sarebbe ingiusto scaricare le
responsabilità dell’Italia e del fascismo su Hitler). Fatto sta che il mese dopo una
delegazione di esperti tedeschi di razzismo viene in Italia per istruire funzionari italiani su
questa pseudo-scienza; e appena due mesi dopo, il 14 luglio del 1938, viene pubblicato il
"Manifesto della razza", firmato da un gruppo di professori, di cui il più autorevole è Nicola
Pende, in cui si sostiene la teoria della purità della razza italiana, prettamente ariana, il cui
sangue va difeso da contaminazioni: quindi, gli ebrei sarebbero estranei e pericolosi al
popolo italiano. Sempre in luglio l’ufficio demografico del Ministero dell’interno si
trasforma in Direzione generale per la demografia e la Razza.
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Il massimo consenso alla campagna razzista si manifesta tra gli intellettuali e i docenti
universitari. Tutto ciò suscita scarsi dissensi. Uniche eccezioni di rilievo sono il filosofo
Giovanni Gentile, lo scrittore Massimo Bontempelli, e il fondatore del futurismo Tommaso
Marinetti. Voci discordi si levano anche in ambienti cattolici (in particolare ad opera del
gruppo fiorentino di Giorgio La Pira), preoccupati tra l’altro della piega "pagana" che
sembra prendere la persecuzione antiebraica, e inizialmente anche da parte del Vaticano
che però – come scrive Renzo De Felice – tutto sommato non si dimostra contrario "ad
una moderata azione antisemita". E infatti il 10 ottobre l’ambasciatore italiano presso la
santa Sede comunica per telespresso a Mussolini: "(…) le recenti deliberazioni del Gran
Consiglio in tema di difesa della razza non hanno trovato in complesso in Vaticano
sfavorevoli accoglienze (…) le maggiori per non dire uniche preoccupazioni della Santa
Sede si riferiscono al caso di matrimoni con ebrei convertiti".
Contemporaneamente al "Manifesto della razza" viene lanciata (in data 15 luglio 1938)
un’edizione speciale dei "Protocolli"; e per sostenere e diffondere la teoria razziale, nuova
per gli italiani, inizia le sue pubblicazioni una rivista: “La difesa della razza”, diretta da
Telesio Interlandi. Durante tutta l’estate del ‘38 tutta la stampa italiana pubblica articoli
diffamatori contro gli ebrei per preparare l’opinione pubblica alla normativa razziale. Il 1°
settembre 1938 viene emanata la legge: tutti gli ebrei italiani sono messi al bando della
vita pubblica; perfino le scuole sono precluse ai bambini ebrei. All’interno del partito
fascista, tra i pochi ad opporsi c’è Italo Balbo.
La persecuzione degli ebrei italiani
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Il periodo 1938-1943 è tragico per gli ebrei italiani. Michele Sarfatti nel suo studio certifica
che in questi sei anni vengono assoggettate alla persecuzione circa 51.100 persone, cioè
poco più dell’1 per mille della popolazione della penisola; i perseguitati sono in parte
(circa 46.600) ebrei effettivi e in parte (circa 4500) non-ebrei classificati "di razza ebraica".
L’antisemitismo permea la vita del paese in tutti i suoi comparti. In un solo anno, dei 10
mila ebrei stranieri presenti in Italia, 6480 sono costretti a lasciare il Paese. Uno degli
epicentri della "pulizia etnica" del fascismo sono le scuole e le Università. Nel giro di
poche settimane, 96 professori universitari, 133 assistenti universitari, 279 presidi e
professori di scuola media, oltre un centinaio di maestri elementari, oltre 200 liberi
docenti, 200 studenti universitari, 1000 delle scuole secondarie e 4400 delle elementari
vengono allontanati dagli atenei e dalle scuole pubbliche del regno: una profonda ferita,
mai completamente rimarginata, viene inferta alla cultura italiana. Molti illustri docenti
sono costretti all’esilio (come Enrico Fermi, che ha una moglie ebrea); altri costretti al
silenzio e alla miseria, esclusi da quegli istituti che hanno creato, come Tullio Levi Civita
(fisico e matematico), che si vede persino negare l’ingresso alla biblioteca del suo Istituto
di Matematica della Università di Roma dal nuovo direttore, Francesco Severi. La stessa
tragica sorte subiscono 400 dipendenti pubblici, 500 dipendenti privati, 150 militari e 2500
professionisti, che perdono i loro posti di lavoro e vengono ricacciati nel nulla, senza
possibilità non solo di proseguire la loro carriera, ma spesso anche di sopravvivere. Gli
episodi di violenza fisica da parte fascista sono per fortuna contenuti (qualche incidente si
verifica solo a Roma, Trieste, Ferrara, Ancona e Livorno)
Gli ebrei come reagiscono? Quelli che hanno la possibilità, emigrano: i più verso le
Americhe, molti in Palestina. L’1 per mille dei perseguitati si suicida. Il caso più
drammatico è quello di Angelo Fortunato Formiggini, giornalista, editore, fra i primi a
rendersi conto della pericolosità del fascimo. Si registrano anche molte abiure e
pubbliche dissociazioni (3880 casi tra il 1938 e il 1939) ed anche qualche "arianizzazione",
ottenuta col presentare documenti falsi e forti somme di denaro. Sono invece pochi quelli
che fanno valere una legge, emanata ad hoc, secondo la quale era da considerarsi
"ariano" l’ebreo che dimostrava di essere figlio di un adulterio. Gli altri si adattano a vivere
come possono, si organizzano in seno alle stesse Comunità e continuano, malgrado le
loro peggiorate condizioni, ad aiutare i fratelli d’oltralpe che dall’avvento di Hitler al potere
continuano ad affluire numerosi in Italia (tra il ’38 e il ’41, nonostante i divieti e le leggi
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razziali, ne arrivano almeno 3 mila, anche grazie alla compiacenza delle guardie di
frontiera).
Nel 1939, Dante Almansi, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è
autorizzato dal governo a creare un’organizzazione per assistere i rifugiati ebrei giunti in
Italia da altre parti d’Europa. Conosciuta come Delasem, il nome per esteso di questa
organizzazione era Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei. Tra il 1939 e il 1943 la
Delasem aiuta oltre cinquemila rifugiati ebrei a lasciare l’Italia e raggiungere Paesi
neutrali, salvando loro la vita.
II guerra mondiale, la persecuzione si aggrava
La politica razziale del fascismo dovrebbe concludersi con l’allontanamento di tutti gli
ebrei dalla penisola. Mussolini decide nel settembre 1938 l’espulsione della maggioranza
degli ebrei stranieri e nel febbraio 1940 l’espulsione entro dieci anni degli ebrei italiani.
L’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940 blocca l’attuazione di queste decisioni.
Con la guerra, però, il fascismo aggrava la persecuzione dei diritti, istituendo nel giugno
1940 l’internamento degli ebrei italiani giudicati maggiormente pericolosi (per il regime) e
degli ebrei stranieri i cui paesi avevano una politica antiebraica. Nel ’40 gli ebrei italiani
internati o confinati sono 200 (tra essi, vi è Leone Ginzburg con la moglie Natalia); nel ’43
raggiungeranno il migliaio. Il numero degli ebrei stranieri internati è di gran lunga più alto,
anche se mancano dati precisi al riguardo.
Campi di concentramento vengono aperti in ogni parte d’Italia. I più importanti sono quelli
di Campagna e di Ferramonti. De Felice nel suo libro "Storia degli ebrei sotto il fascismo",
parla di oltre 400 tra luoghi di confino e campi di internamento, ma non è stato ancora
fatto un censimento attendibile. Ebrei vengono rinchiusi anche nelle prigioni delle
maggiori città italiane, San Vittore a Milano, Marassi a Genova e Regina Coeli a Roma.
Non è finita. Nel maggio 1942 gli israeliti di età compresa tra i 18 e i 55 anni sono
precettati in servizi di lavoro forzato (ma su 11.806 precettati, ne saranno avviati al lavoro
solo 2.038). Nel maggio-giugno 1943 vengono creati dei veri e propri campi di
internamento e lavoro forzato per gli ebrei italiani.
Soltanto all’Estero, la situazione è visibilmente migliore: in Francia, Jugoslavia e Grecia, i
comandi italiani intervengono spesso a difesa degli ebrei e sottraggono molti di loro ai
tedeschi, salvandoli dalla persecuzione e dalle deportazioni. Scriverà in un rapporto a
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Berlino un alto ufficiale delle SS, Roethke: "La zona di influenza italiana (…) è divenuta la
Terra Promessa per gli Ebrei residenti in Francia".
Il 25 luglio del '43 viene destituito Mussolini e sciolto il partito fascista. Il governo Badoglio
rilascia i prigionieri ebrei, abroga le norme che prevedono il lavoro obbligatorio e i campi
di internamento ma – nonostante la sollecitazione dei partiti antifascisti - lascia in vigore le
leggi razziali, che non sono revocate neppure dal Re.
Badoglio scriverà nelle sue memorie che "non era possibile, in quel momento, addivenire
ad una palese abrogazione delle leggi razziali, senza porsi in violento urto coi tedeschi".
Un comodo alibi. Forse qualche peso nella decisione ha anche la nota della Santa Sede
al Ministro dell’Interno badogliano secondo cui la legislazione in questione "ha bensì
disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma".
1943, l'occupazione tedesca, la Rsi e le deportazioni
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La "soluzione finale" per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l'ordine da Berlino
di "trasferire in Germania" e "liquidare" tutti gli ebrei "mediante un'azione di sorpresa". Il
telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler,
comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei a Roma
non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è "città aperta", e poi c'è il Papa,
sotto l'ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza.
Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell'Europa dell'Est sono ancora scarse e
imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di
consegnare 50 chili d'oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani
che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi
difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso,
nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà
compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l'ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei
forniti dall'Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell'Interno, stanno già organizzando il
blitz del 16 ottobre.
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C'è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte a Via del
Portico d'Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che "qui ebbe inizio la spietata
caccia agli ebrei".
Qui, in un'alba di circa mezzo secolo fa, si radunarono i camion e i soldati addetti alla
"Judenoperation" nell'area del ghetto, dove ancora abitavano molti ebrei romani. Il centro
della storia e della cultura ebraiche a Roma stava per vivere il suo giorno più atroce. «Era
sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte,
portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete
essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel
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campo dove vi porteranno c’è un’infermeria», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di
Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943.
Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi
delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in contemporanea la caccia per i
quartieri di Roma. L'azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione.
Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza
sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano
la cattura di 1024 ebrei romani.
"Quel 16 ottobre -racconta uno degli scampati alla deportazione- era un sabato, giorno di
riposo per gli ebrei osservanti. E nel Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della
festa delle Capanne. Un sabato speciale, quasi una festa doppia... La grande razzia
cominciò attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano il
totale delle forze impiegate per la "Judenoperation".
Oltre duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città era
stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del vecchio Ghetto.
L'antico quartiere ebraico fu l'epicentro di tutta l'operazione... Le SS entrarono di casa in
casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno... Tutte le persone
prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del
Portico d'Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati
erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli.
Non venne fatta nessuna eccezione, né per persone malate o impedite, né per le donne in
stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bambini al seno...".
"I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le
quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di
famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore
fermo in gola", ricorda Giacomo Debenedetti.
"Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi
caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e
malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il
Lungotevere in direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio
Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava
per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i
miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere.
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Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di
concentramento? "Campo di concentramento" allora non aveva il significato terribile che
ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove
probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che
sarebbe stato il Lager", ha scritto Settimia Spizzichino nel suo libro "Gli anni rubati".
Per la prima volta Roma era testimone di un'operazione di massa così violenta. Tra coloro
che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva
sommessamente: "povera carne innocente". Nessun quartiere della città fu risparmiato: il
maggior numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si
salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di
amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo
all'Isola Tiberina. Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel
collegio Militare di via della Lungara, a pochi passi da qui. Le oltre 30 ore trascorse al
Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande
sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c'erano 207
bambini.
Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio
composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina.
La partenza dei convogli dei deportati
Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di
Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su
un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al
convoglio.
Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese
quasi subito che nei carri bestiame "erano racchiusi" - così si esprime una sua relazione"numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenenti a
razza ebraica”.
Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti
a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il "treno
piombato", da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di
riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si
avvicinò alla grata, e le accennò di tacere.
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Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima
parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro.
Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per una decina di
minuti. "A richiesta dei viaggiatori invagonati"- è ancora il macchinista che parla - alcuni
carri furono sbloccati perchè "chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni
corporali". Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita
sparatoria.
A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di una vecchia, deceduta durante il
viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere riuscito a parlare con nessuno di
coloro a cui aveva fatto percorrere la prima tappa verso la deportazione.
Cambiato il personale di servizio, il treno proseguì per Bologna.
Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.
Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna
(Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.
Dopo il 16 ottobre 1943, la polizia tedesca catturò altri ebrei: alla fine scomparvero da
Roma 2091 ebrei.
Nel biennio 1943-1945 le perdite della popolazione ebraica in tutta Italia furono all'incirca
7750, pari al 22% del totale della popolazione ebraica nel nostro Paese.
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Deportazione dal manicomio di Pergine e dalle Vallate [8]
Il 26 maggio 1940, alle ore 4 del mattino un treno straordinario partì da Pergine. A bordo
si trovarono 299 malati di mente; destinazione: Zwiefalten, una grande clinica psichiatrica
in Baden Wurttemberg.
Scopo del viaggio: trasferire nel Reich i malati optanti per la Germania. Alle 6,45 il treno
sostò a Bolzano ed il prefetto, dott. Agostino Podestà, venuto alla stazione, ispezionò
“minuziosamente” il convoglio e salutò i malati ed i loro accompagnatori e si dichiarò
soddisfatto: infatti tutto era organizzato bene. Le vetture erano in buono stato, una vettura
sanitaria accoglieva i più gravi; i malati, 160 uomini e 139 donne, venivano assistiti da 31
infermieri e 13 suore, erano “ben lavati e ben rasati, vestiti con l’uniforme nuova
dell’Istituto e contraddistinti da un numero indelebile sul dorso…..” (come si legge
nell’ordine di servizio), ebbero un posto adeguato; c’era materiale di medicazione e di
pronto soccorso. Il prefetto salutò anche una delegazione tedesca ed una italiana che
accompagnarono il trasporto.
Perché questo trasferimento, e perché in un momento così precoce?
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La prima idea della deportazione si era concretizzata a metà dell’ottobre 1939 a Tremezzo
in un incontro tra Himmler, capo delle SS e Bocchini, capo della polizia italiana ed è da
vedere come tappa importante all’interno della questione delle “opzioni”.
Dall’annessione
nel
1918,
ma
soprattutto
dall’inizio
della
politica
fascista
di
colonizzazione, la questione del Sud Tirolo divenne un punto di conflitto importante nelle
relazioni tra l’Italia e l’Austria e, dopo il 1938, la Germania. Rischiava di compromettere i
buoni rapporti tra Hitler e Mussolini. Così entrambe le parti erano interessate ad una
soluzione “definitiva”. Il 22/10/1939 venne concordato “l’accordo delle opzioni”: fino al 31
dicembre 1939 la popolazione di madrelingua tedesca delle provincie di Bolzano, Trento,
Belluno ed Udine poteva “scegliere liberamente” tra la cittadinanza tedesca e con questa
l’emigrazione nel Reich entro i prossimi 3 anni, oppure la permanenza in Italia e
implicitamente l’accettazione del regime fascista e la rinuncia alla propria identità
culturale.
Roma sperava di eliminare con questo, qualsiasi pericolo di irredentismo e di confermare
il confine del Brennero, per Berlino la rinuncia al territorio sudtirolese non significava una
rinuncia alla popolazione tedesca.
Sotto la pressione di un’intensa campagna di propaganda, specie delle organizzazioni
naziste (Volkischer Kampfring Sudtirols) l’86% dei sudtirolesi (ca. 200.000) optò per la
cittadinanza tedesca e per l’emigrazione nella Grande Germania.
Per quanto riguarda il trasporto dei malati psichici, Himmler, nell’incontro con Bocchini,
aveva assicurato di spalancare le porte a tutti: “ai minorati psichici e fisici, così come ai
pregiudicati e ai delinquenti…..”. I tedeschi avrebbero aumentato il numero degli optanti
per la Germania, i pazzi costituivano un prezioso materiale “Zahlmaterial” ed in Germania
non si avevano molti problemi per il mantenimento dei malati. Gli italiani, da parte loro,
non gradivano l’idea che partissero i giovani, i lavoratori, i soldati e restassero i vecchi, i
pazzi, i deficienti. Se i malati, conseguita la cittadinanza tedesca, fossero rimasti a
Pergine, la Germania avrebbe dovuto pagare le rette. E questa preferì, evidentemente,
importare i malati piuttosto che esportare i marchi.
Così l’intesa fra le autorità tedesche ed italiane fu perfetta.
Un’altra domanda si potrebbe porre: perché portare via tanti malati tutti insieme?
Non
sarebbe
stato
doveroso
trasferirli
singolarmente,
parallelamente
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al
trasferimento delle loro famiglie, e ciascuno all’ospedale più vicino al luogo
destinato alla sua famiglia?
È evidente che un trasferimento di tanti malati, senza l’esame del singolo caso, senza la
considerazione
del
possibile
effetto
del
rapido
cambiamento
di
ambiente
e
dell’interruzione delle relazioni umane istauratesi negli anni, non era deontologicamente
ammissibile.
Ma è altrettanto che questo aspetto, in quella decisione, non fu considerato, fu
considerata l’istituzione, come fonte di spesa e la “praticità” di un trasporto collettivo.
Un’altra domanda si pone a questo punto: i malati trasportati erano informati?
Consenzienti? O incapaci di intendere? Chi prese la decisione per loro?
Approfondendo questo punto incontriamo una serie di irregolarità, omissioni, di
comportamenti superficiali o perfino illegali da parte dei medici, ma anche dei magistrati,
che a mio avviso rendono legittimo chiamare questo trasporto una vera e propria
“deportazione”.
Torniamo al 26 maggio 1940. Alle ore 9:30 il treno valicò il passo del Brennero e alle
22:00 giunse a Zwiefalten – Biedlingen. I malati, ignari della destinazione, inizialmente
pensavano di tornare a casa, ma poi i più consapevoli capivano che la destinazione era
ben diversa. Uno dei malati cercò di fuggire, ma venne ripreso.
All’arrivo a Zwiefalten qualcuno si rifiutò di scendere dal treno e fu tratto fuori a forza dagli
infermieri. Suor Andreina Dell’Antoniola, quando ricorda il lungo viaggio, descrive la sua
grande delusione: “Speravo di accompagnare le mie malate fino al letto assegnato a loro,
aiutarle a disfare le valigie, riporre le cose nell’armadio, conoscere le nuove infermiere e
parlare delle abitudini dei pazienti, delle manie, delle paure. Ma non me lo permisero ed io
sentì di subire un torto. Provai una lunga pena nel cuore”. Non vi era tempo per una visita
della struttura, per aiutare nella sistemazione dei malati. O forse le autorità tedesche
erano attente a tenere nascoste le condizioni all’interno dell’ospedale.
Negli anni successivi si ebbero altri piccoli movimenti nell’ospedale di Pergine. Nel 194041 e nel 1943 altri piccoli gruppi di malati furono deportati.
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Le relazioni sul primo di questi trasporti forniscono che: “ I malati furono spinti nel treno
come pacchi, all’arrivo furono buttati fuori dai vagoni con spintoni e strattoni, tra le grida e i
lamenti di quei poveretti”
Un’infermiera che protestò fu arrestata e portata al commissariato. Complessivamente
circa 600 malati altoatesini furono deportati in ospedali tedeschi.
Deportazione degli operai [9]
La drammatica vicenda dei lavoratori deportati nei lager nazisti, rei di essersi ribellati per
mezzo degli scioperi alle insostenibili condizioni di vita cui il fascismo li aveva costretti, è
stata marginalizzata per anni.
C’è un legame tra deportazione operaia e lavoro coatto in Germania. I rastrellamenti dei
lavoratori avevano una duplice motivazione, da un lato politica e dall’altro economica. Si
trattava di reprimere ogni forma di opposizione a fascismo e nazismo, e di disporre di
manovalanza da sfruttare fino alla morte.
Sui quattro milioni di persone che caddero in quel modo, però, si è sempre taciuto a
anche chi ha trovato la forza di raccontare il proprio dramma troppo spesso non è stato
ascoltato.
Le storie di coloro che hanno vissuto la deportazione per aver espresso il loro dissenso al
regime fascista meritano di essere rievocate ed approfondite, se non altro perché esse
stesse, al di là dei grandi nomi e dei grandi eventi, sono Storia.
Già nel marzo del 1943 a ancor più dal marzo 1944 in Italia si assistette ad un’ondata di
massicci scioperi dei lavoratori. Tali manifestazioni rappresentarono l’unico ed eclatante
esempio di protesta e resistenza nell’Europa occupata, nonché la ripresa del
protagonismo operaio e un’inedita esperienza di disobbedienza di massa.
Fonti tedesche certificano che, nella prima settimana del marzo del 1944, il numero degli
scioperanti raggiunse almeno le 350.000 unità. Fra questi non tutti erano partigiani,
consapevoli del significato della loro protesta e delle conseguenze che questa avrebbe
portato.
Gli scioperi erano organizzati, fuori e dentro la fabbrica, dalle organizzazioni clandestine
antifasciste e soprattutto del partito comunista.
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Le adesioni coinvolsero masse di lavoratori. Le ragioni che spinsero tanti operai alla
ribellione erano la rigida disciplina cui il lavoro era sottoposto e le pessime condizioni di
vita che erano costretti a fronteggiare: si soffrivano fame e freddo, e i generi di prima
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necessità non potevano essere acquistati a causa dei bassi salari. Anche i più obbedienti
o rassegnati alla dittatura, a fronte di questa situazione, cominciarono a staccarsi
progressivamente dal fascismo.
Scioperare, soprattutto per i giovani, rappresentava anche la possibilità di guadagnarsi un
momento di libertà individuale, di spensieratezza. Questo dimostra come non tutti fossero
pienamente consci della portata dei loro gesti, ma cercassero di fuggire alle vessazioni
della dittatura.
Il nucleo forte, seppure numericamente ridotto, di operai anziani che già si erano opposti
al fascismo e ne avevano conosciuto i metodi repressivi, funse da traino per i più giovani
che finalmente potevano svincolarsi dall’educazione del credere, obbedire, combattere
ed acquisire coscienza dei loro diritti.
Questo non sfociò immediatamente in una presa di coscienza politica. Il passaggio
all’antifascismo avvenne pere molti successivamente ai primi rastrellamenti delle milizie
nazi-fasciste: assistere alla cattura e alla deportazione di tanti compagni di lavoro fu una
scintilla che fece maturare in molti operai la decisione di lottare con le armi contro gli
occupanti.
I deportati, come detto, erano destinati al lavoro coatto, per moltissimi questo significò la
morte nei lager. Essi erano considerati schiavi, privati della loro dignità umana e valutati
soltanto nella misura in cui potevano essere utili all’economia dello stato nazista. La
deportazione era contemporaneamente tappa e strumento dello sterminio.
Alcune statistiche calcolano che nel complesso i deportati politici e razziali italiani furono
43.000 e che fra essi i sopravvissuti furono soltanto 4.400.
In questo ambito vale la pene ricordare la vicenda di Sesto San Giovanni, importante
nucleo industriale alle porte di Milano. Lì gli scioperi furono particolarmente intensi. I
lavoratori della Falck, della Breda, della Magneti Marelli e di altre importanti industrie
italiane occuparono le fabbriche e bloccarono la produzione per settimane. Più di 500 fra i
lavoratori di Sesto furono deportati nei campi di lavoro tedeschi. Fra essi c’erano anche
alcuni bergamaschi, le cui testimonianze raccontano il dramma della deportazione:
riportati a Bergamo e rinchiusi in una delle prigioni della città, essi erano poi condotti
presso la stazione, dalla quale partivano i treni sui quali, come bestie, viaggiavano alla
volta dei lager. Durante il percorso fra la prigione e la stazione una folla inerme di
famigliari, amici e gente comune partecipava attivamente alla loro tragedia, mostrando
segni di solidarietà e vicinanza.
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8. Le ferrovie e lo Stato Vaticano [10 – 11 – 12]
Non ci sono valigie, né viaggiatori, non si avverte l’odore acre di tutte le stazioni di questo
mondo sulla pensilina della Stazione Vaticana, tuffata nel verde dei giardini, a sud del
palazzo del Governatorato; il capostazione è un ingegnere romano, Daniele Dalvai.
I treni sono annunciati con giorni di anticipo e per di più “bussano” alla porta.
I convogli arrivano dalla Stazione San Pietro, l’interfaccia della Stazione Vaticana,
percorrendo 600 metri di binario sul Viadotto del Gelsomino, che scavalca con 8 arcate
Via Gregorio VII, e si fermano davanti ad un impressionante portone di ferro che scorre
nell’arco praticato attraverso le mura Vaticane, cioè sulla linea di confine tra i due Stati.
C’è un campanello di quelli che si usano per gli esterni delle case di campagna; il
ferroviere italiano, accompagnato eventualmente da un agente della Polfer, scende e
suona; nel passato l’arrivo veniva annunciato via telefono o telegrafo dalla Stazione San
Pietro.
La stazione, progettata dal Senatore architetto piacentino Giuseppe Momo, ha un aspetto
solenne;
all’ingresso della sala d’attesa, una targa sta a “ricordo perenne”
dell’inaugurazione del 1933, “gloriosamente regnante Pio XI, duce d’Italia Benito
Mussolini”.
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La storia del rapporto tra lo Sato Pontificio e le Ferrovie Italiane è ricca di aneddoti. Ecco
elencate, in ordine cronologico, alcune curiosità storiche sul rapporto tra Vaticano e
Ferrovie:
Il primo viaggio in treno di un Papa fu quello di Pio IX, sulla Napoli – Portici nel
1849. In appena 15 anni lo Stato Pontificio diventerà uno degli Stati più evoluti nella
costruzione di infrastrutture ferroviarie; ricordiamo i collegamenti ferroviari con
Frascati, Civitavecchia, Velletri ed Ancona.
Pio XI, che in seguito con la riconciliazione con lo Stato italiano nel 1929, volle la
realizzazione della Stazione Vaticana; non viaggio mai in treno, come pure i suoi
predecessori confinati in Vaticano dopo la presa di Porta Pia nel 1870.
L’11 aprile 1959 partì dalla stazione ferroviaria vaticana il convoglio speciale
passeggeri che le Ferrovie Italiane misero a disposizione del Vaticano per la
traslazione della salma di San Pio X a Venezia per volere di Giovanni XXIII (al
ritorno il feretro giunse alla Stazione Termini, dove incontrò quello di Don Bosco
con il quale, solennemente ed in processione, fu condotto nella Basilica di San
Pietro).
Papa Giovanni XXIII, con il pellegrinaggio ad Assisi del 1962, fu il primo Pontefice
ad usare la stazione ferroviaria della Città del Vaticano ed il primo Papa a viaggiare
in treno dopo l’Unità d’Italia varcando i confini del Lazio.
Il pellegrinaggio in treno ad Assisi di Papa Giovanni XXIII, nel 1962, avvenne ad
una settimana esatta dall’apertura del Concilio Vaticano II. Il “Papa Buono”
trascorse quasi tutto il tragitto al finestrino, raccontano le cronache dell’epoca, e al
ritorno, sceso dal treno si disse “contento di aver fatto un buon viaggio”, frase che
riempì d’orgoglio tutti i ferrovieri.
Con Paolo VI continua il rapporto tra Vaticano e Ferrovie Italiane: nel 1964 il Santo
Padre dedica un’udienza ai ferrovieri e nel 1972 celebra una messa nei cantieri
della linea direttissima Roma – Firenze, allora in costruzione.
Papa Giovanni Paolo II fece uso della stazione Vaticana per la prima volta l’8
novembre 1979, per un viaggio simbolico con il treno “Arlecchino” delle Ferrovie
dello Stato Italiane, in occasione della XXI giornata del ferroviere
Ancora Papa Giovanni Paolo II, a causa delle intense nevicate che colpirono tutto il
centro Italia nel 1985, rendendo impraticabili le strade e gli scali aerei, di ritorno da
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un viaggio Pastorale rientrò a Roma a bordo di un treno speciale organizzato nel
corso della notte dalle Ferrovie dello Stato in tutta fretta.
Il 15 giugno 2005 una rappresentanza di 500 ferrovieri, a bordo di un treno speciale
partito dalla Stazione di Roma Termini giunge nella Stazione Vaticana per recarsi
all’udienza generale del Santo Padre Benedetto XVI.
Il 23 dicembre del 2006, la stazione di Roma Termini, il più grande scalo ferroviario
italiano, è dedicato alla memoria di Papa Giovanni Paolo II.
Il 23 giugno 2013, subito dopo la preghiera dell’Angelus Papa Francesco
raggiunge la stazione ferroviaria vaticana per incontrare più di 300 bambini
provenienti da case famiglia, istituti, associazioni, arrivati poso prima con uno
speciale treno, Frecciargento, partito da Milano. Il Frecciargento, partito da Milano
centrale alle 7:30 già carico di emozioni e aspettative, era giunto alla Stazione
Vaticana alle 11:10, dopo aver fatto tappa a Bologna e Firenze per fare salire altri
passeggeri, a loro volta accolti a Roma da altri bambini, per un totale di quasi 400,
la maggior parte tra i 6 ed i 10 anni, accompagnati da educatori, assistenti sociali e
familiari.
Il “treno dei bambini” che per la prima volta nella storia ha portato dei visitatori alla
Stazione Vaticana per salutare il Pontefice è stato dunque un viaggio
assolutamente unico, come conferma l’Amministratore delegato delle Ferrovie
dello Stato Italiane Mauro Moretti: “Questo evento è unico. Con tutti questi ragazzi e
bambini a bordo, non era mai successo. Abbiamo avuto tanti personaggi, anche
Papi ed il Presidente della Repubblica, ma questo credo sia la cosa più bella e
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significativa, perché sono dei bambini che possono avere una giornata di luce, di
sole….Sono tutti impegnati a conoscersi fra di loro, a fare iniziative. Tutti tesi a
vedere il Papa da vicino e anche questa è una bellissima cosa. È un treno, direi,
quasi della speranza o della carità”.
9. Il dopo guerra e l’affermarsi della motorizzazione [13]
Il grande sviluppo della motorizzazione cominciò in Italia tra il 1949 e il 1950, grazie alla
prima diffusione dei ciclomotori, nonché della Vespa (1946) e della Lambretta (1947), le
nuove moto a ruote piccole dotate di scocca paravento anteriore, che non sporcavano
viaggiando nelle strade ancora in buona parte a sterro, e non dovevano essere cavalcate
come le "dueruote" tradizionali, poiché il motore era collocato sul retro sotto il sedile.
Prodotte da due aziende con necessità di riconversione post-bellica, la Piaggio di
Pontedera che produceva motori per aerei, e l'Innocenti di Milano che fabbricava tubi in
acciaio e linee per confezionare proiettili, diedero luogo a un'accanita rivalità tra i rispettivi
utilizzatori e sostenitori. Vespa e Lambretta divennero il simbolo della ricostruzione, e
ricevettero unanimi consensi in tutta Europa. La Vespa fu pure accompagnata nel 1948
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dall'Ape, il motofurgone con tre ruote e un cassone, che ebbe il merito di accelerare il
commercio al minuto e che in seguito fu esportato in diversi paesi extraeuropei.
Il vero e proprio avvio della motorizzazione individuale si deve far risalire alla Fiat 600,
uscita dalle catene di montaggio nel 1955.
L'utilitaria era stata ideata dall'ingegner Dante Giacosa e annunciata dal presidente della
Fiat Vittorio Valletta come vettura "ultraeconomica" in sostituzione della Topolino prodotta
dal 1936. Quest'ultima, nonostante la buona diffusione, con oltre 510.000 unità prodotte,
non
era
mai
riuscita
ad
affermarsi
in
qualità
di
automobile
per
tutti.
Nel 1956 furono immatricolate 126.099 Fiat 600 su una quantità complessiva di 201.771
autovetture (www.fiat.com, timeline 1955-1959). La produzione automobilistica divenne
decisamente l'industria trainante, visto l'enorme indotto generato: per fare un esempio, nel
1961 l'occupazione nel settore si aggirava sulle 110.000 unità, mentre 1.700.000 posti di
lavoro erano legati alla circolazione veicolare. Il petrolio, le autostrade, i pneumatici, le
officine e i servizi di manutenzione, ma anche le attività commerciali, assicurative e
creditizie
si
alimentavano
dall'accresciuta
presenza
di
autoveicoli.
L'importanza assunta dall'industria dell'automobile in Italia, persino in rapporto agli altri
paesi, risulta dai dati dell'import-export: tra il 1950 e il 1960 le autovetture esportate
passarono da 19.649 a 197.935 a fronte delle 18.279 autovetture importate nel 1960.
Gli interessi dell'industria produttrice di automobili cominciarono così a farsi sentire
prepotentemente.
Completata la ricostruzione post-bellica, nei primi anni '50 si decise di potenziare le
autostrade, per andare incontro alla cresciuta esigenza di infrastrutture al Nord, e per
creare al Sud una rete moderna finalizzata ad aumentare le relazioni con il resto del
Paese; ma anche per unire l'Italia agli Stati d'oltralpe, con i quali si intensificava l'unione
economica che avrebbe portato nel 1957 al Mercato comune europeo.
Si
sviluppò
di
conseguenza
una
vera
e
propria
"ideologia
autostradale".
Il progetto per l'asse portante, l'autostrada del Sole Milano-Napoli, fu elaborato dalla Fiat,
dalla Pirelli, dall'Agip e dall'Italcementi, che lo cedettero gratuitamente allo Stato, a
testimonianza di quanti tornaconti ruotassero ormai attorno al trasporto su gomma.
La costruzione e l'esercizio delle nuove autostrade, dette di "seconda generazione" per
distinguerle dalle arterie ultimate sotto il fascismo, vennero dati in concessione a privati.
Un secondo intervento nel campo delle autostrade fu approvato con la legge 24 luglio
1961 n. 729, che con uno stanziamento ben superiore, di 1.000 miliardi di lire, prevedeva
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la creazione nel Paese di grandi arterie: autostrade, superstrade e raccordi autostradali, in
totale 5.120 km. Il 40% del finanziamento doveva essere destinato al Mezzogiorno.
Nel periodo seguente l'enorme investimento statale portò a realizzare in media 208 km di
autostrade all'anno, contro i 170 della Germania e i 127 della Francia. Alla fine del 1974
l'Italia aveva il doppio di autostrade rispetto alla Francia e due volte e mezzo quelle della
Gran Bretagna; in termini assoluti la rete italiana risultava inferiore solo a quelle degli Stati
Uniti e della Germania
Bibliografia
[1] “La nuova concezione della Ferrovia Europea dalle reti nazionali a una rete
integrata. Effetti delle direttive sulla liberalizzazione, interoperabilità, sicurezza” –
Tesi di Dottorato del Dott. Ing. Daniele Mingozzi;
[2] Sviluppo locale e infrastrutture del territorio: origini del sistema ferroviario in
Capitanata – Dott. Mariano Tosques (gennaio 2007);
[3] Storia delle ferrovie italiane – www.cronologia.leonardo.it;
[4] Storia e tecnica ferroviaria – 100 Anni di Ferrovie dello Stato – C.I.F.I.;
[5] Le premesse della politica ferroviaria fascista: risanamento finanziario e
repressione politica (1922-1924) – Stefano Cecini;
[6] Ebrei e fascismo, storia della persecuzione a cura di Mario Avagliano (in Patria
Indipendente, n. 6-7, giugno-luglio 2002) – www.storiaxxisecolo.it;
[7] 16 ottobre 1943: La partenza dei convogli dei deportati - (da Giacomo
Debenedetti, 16 ottobre 1943, pp. 62-64) – www.romacivica.net;
[8] Deportazione dal manicomio di Pergine e dalle Vallate – Atti del convegno
Psichiatria e nazismo di Verena Perswanger – www.lager.it;
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[9] Relazione presentata da Roberto Villa al convegno organizzato dalla CGIL e
Cisl Lombardia presso l’Università di Cracovia in occasione del Treno per
Auschwitz 2009 – Operai, resistenza, scioperi, deportazione (Cracovia, 26 gennaio
2008);
[10] “La stazione ferroviaria del Papa” di Bruno Bartoloni – Corriere della Sera (26
agosto 1996);
[11] Vaticano e Ferrovie: una storia ricca di aneddoti (27 ottobre 2011) –
www.fsnews.it;
[12] Papa Francesco ed i ragazzi del “Treno dei bambini” – Per loro una festa nel
cuore del Vaticano – www.vatican.va;
[13] La cultura della mobilità in Italia di Stefano Maggi - www.storiaefuturo.com.
Casteldaccia (PA), lì 03.05.2014
Ing. Francesco Solazzo
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