A CURA DI
MASSIMILIANO MONNANNI
MARIO
MODERNI
LA SUA VITA
NARRATA
DAL PADRE
SALLUSTIANA
EDITRICE
A CURA DI
MASSIMILIANO MONNANNI
MARIO MODERNI
LA SUA VITA
NARRATA
DAL PADRE
La targa marmorea apposta
nell’atrio dell’Aula Magna
dell’Accademia di Belle Arti
di Roma, che ricorda l’eroismo di Mario Moderni e l’istituzione, per volontà della sua
famiglia, della fondazione
che porta il suo nome.
Sommario
Presentazione
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Introduzione
9
Prefazione
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La nascita
CAPITOLO I
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L’infanzia
CAPITOLO II
17
L’adolescenza
CAPITOLO III
29
La giovinezza
CAPITOLO IV
51
La vita militare
CAPITOLO V
81
La morte
CAPITOLO VI
137
Condoglianze
CAPITOLO VII
189
La salma dell’eroe
CAPITOLO VIII
229
PRESENTAZIONE
di Donato Robilotta
Assessore agli Affari Istituzionali e agli Enti Locali della Regione Lazio
S
ono davvero onorato - e di ciò ringrazio la Fondazione Moderni – di poter
scrivere l’introduzione del volume in ricordo del valoroso giovane patriota
Mario Moderni.
Nella narrazione della vita di suo figlio, il Colonnello Pompeo Moderni descrive e trasmette sentimenti contrastanti: la gioia e l’orgoglio per aver avuto modo di condividere con il giovane figlio l’amore per la libertà, per la propria Patria
ed il coraggio di morire credendo in una giusta causa, il dolore per un vuoto incolmabile ed eterno.
L’esempio di Moderni mi auguro possa risvegliare il sopito senso della Patria
nelle nuove generazioni, arricchendo il bagaglio di valori e di ideali che hanno reso l’Italia un paese libero e democratico.
La Regione Lazio ha fatto proprio il riferimento a questi valori, difesi con la
vita tra l’altro dal giovane combattente, ed ha approvato, prima in Italia, una legge regionale sui Valori Nazionali, allo scopo di educare e far conoscere le ragioni
dell’appartenenza ad un Italia fondata sul sacrificio di tanti e sull’unità di ideali.
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Sono sicuro che le attività della Fondazione, ora riprese con vigore dopo un
lungo periodo di stasi grazie all’azione di rinnovamento impressa dall’amministrazione regionale, contribuiranno attivamente, mediante il conferimento di
borse di studio a studenti meritevoli, a trasmettere e tramandare la memoria
e l’importanza del senso della Patria.
Saluto quindi con soddisfazione iniziative di tale genere, che sono senza
dubbio alcuno la conferma di un ritrovato orgoglio nazionale, alla riscoperta
di figure e di valori su cui è fondato il nostro Paese.
INTRODUZIONE
di Massimiliano Monnanni
Commissario Regionale fondazione Mario Moderni
N
ello scorrere le pagine, appassionate e calde di un intenso amore paterno, con le quali il Colonnello Pompeo Moderni narra la breve vita del
suo unico figlio Mario, conclusasi eroicamente, a soli 22 anni, sul fronte di
guerra della Val Camenca, si compie un viaggio a ritroso nel tempo, molto
più del secolo trascorso, un enorme salto all’indietro, in un mondo, intessuto di valori, convenzioni, passioni, amor di patria, del quale sembra essersi
smarrito financo il ricordo.
Eppure quella società, quei valori, quei fatti appartengono alla storia del
nostro Paese, alla nostra memoria collettiva, alle radici culturali e storiche di
ognuno di noi.
Nel corso della I Guerra Mondiale oltre 600 mila furono i caduti, ed ogni
famiglia ebbe un caro o un congiunto da piangere e da ricordare.
Cosa resta oggi di tutto ciò?
Scrive il Colonnello Moderni nella prefazione alla “Vita di Mario Moderni”: “La ragione prima di questo libro è stata un bisogno imperioso del cuo-
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re: appena decisa la fondazione di un’opera di beneficenza che porterà il suo
nome, mi venne il desiderio di scrivere il racconto della sua breve esistenza
e di dedicarlo ai suoi beneficati, perché essi, ispirandosi alle sue virtù domestiche, potessero mantenersi buoni ed affettuosi verso i loro parenti, come si
è mantenuto Lui, anche in mezzo ad opposti interessi familiari. La sua morte eroica era stata al campo uno splendido esempio di stoicismo e di patriottismo: ho voluto che questo esempio di romanità ed eroismo, si perpetrasse
tra i suoi beneficati”.
E conclude: “Esso morendo potè proclamare d’aver fatto il suo dovere, ed
io auguro a tutti quelli che otterranno le Borse di studio da me istituite, che,
ispirandosi alla vita semplice, ma onesta di Mario Moderni, possano, morendo, proclamare altamente anch’essi d’aver fatto, e sempre, il loro dovere verso se stessi, verso le loro famiglie e verso la Patria”.
Una funzione pedagogica, dunque, tipica del milieau risorgimentale e positivista, nel quale l’intera famiglia Moderni, e quindi lo stesso Mario, era vissuta.
Dal nonno francese, combattente per la libertà, al nonno acquisito, cospiratore e garibaldino, più volte decorato, al padre di Mario, arruolatosi a
soli 16 anni per combattere la III Guerra d’Indipendenza.
Tramandare le virtù, i valori, l’amor di patria di una famiglia destinata
ad estinguersi a causa del suo stesso patriottismo, con l’unico mezzo possibile, degna conclusione dell’intera sua storia, un’opera di beneficenza laica,
atta a consentire alle classi popolari l’istruzione superiore necessaria a farle
costruire un futuro migliore.
Questo il grande patrimonio morale lasciatoci in dote dalla famiglia Moderni, che è compito della Fondazione quanto più possibile diffondere e promuovere presso le giovani generazioni del nostro Paese
PREFAZIONE
del Colonnello Pompeo Moderni
Roma, 1 Maggio 1920
Il
lettore, appena preso in mano questo libro, probabilmente si chiederà:
quale la ragione di esso? Perché Mario Moderni non era un capitano, un
alto ufficiale, un diplomatico, un uomo che avesse raggiunto un’alta posizione sociale e la cui vita, spenta dalla guerra mondiale, potesse interpretare la storia.
La ragione prima di questo libro è stata un bisogno imperioso del cuore:
appena decisa la fondazione di un’opera di beneficenza che porterà il suo nome, mi venne il desiderio di scrivere il racconto della sua breve esistenza e di
dedicarlo ai suoi beneficati, perché essi, ispirandosi alle sue virtù domestiche, potessero mantenersi buoni ed affettuosi verso i loro parenti, come si è
mantenuto Lui, anche in mezzo ad opposti interessi familiari. La sua morte
eroica era stata al campo uno splendido esempio di stoicismo e di patriottismo: ho voluto che questo esempio di romanità ed eroismo, si perpetrasse tra
i suoi beneficati. Esso morendo potè proclamare d’aver fatto il suo dovere,
ed io auguro a tutti quelli che otterranno le Borse di studio da me istituite,
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che, ispirandosi alla vita semplice, ma onesta di Mario Moderni, possano,
morendo, proclamare altamente anch’essi d’aver fatto, e sempre, il loro dovere verso se stessi, verso le loro famiglie e verso la Patria.
Terminata vittoriosamente la guerra, mentre in ogni parte d’Italia, i Socialisti italiani, che durante la guerra avevano, con la loro propaganda tentato d’impedire questa vittoria, temendo dovesse essere una disfatta del loro
partito, stanno provocando ad ogni momento scioperi e rivolte sanguinose;
mentre le masse ignoranti ed ingannate, perduto ogni sentimento nobile di
Patria, rotto ogni freno, abolita ogni disciplina, stanno sospingendo il paese
nell’abisso, in fondo al quale sta la schiavitù economica, mi è sembrato che
queste pagine da me scritte, possano con il tempo, avere un valore storico.
Io spero ancora che il buon senso naturale degli Italiani salvi la Patria
dall’estrema rovina, come la salvò dopo la disfatta di Caporetto, conducendola, fra l’ammirazione del mondo, alla splendidissima vittoria finale di Vittorio Veneto; ma se questa mia speranza non avesse, disgraziatamente, ad
avverarsi, questo disastro che colpirebbe l’Italia vittoriosa, sarebbe dovuto
alla propaganda infame della lotta di classe, per troppo lungo tempo supremamente sopportata dai vari Governi succedutisi, la quale doveva necessariamente tradursi in odio di classe, e condurre immancabilmente alla guerra civile.
Indebolitosi nelle masse, sempre più evolute, il sentimento religioso, per
esse non vi può essere altra forza morale che l’amor di Patria; e questo amor
di Patria, questo sentimento nobilissimo, bisogna spiegare ed inculcare al
popolo in tutti i modi possibili, facendogli comprendere che il medesimo,
fondato su ben definiti limiti di diritti e di doveri, affratellando tutte le classi sociali davanti ai comuni interessi, non ostacola, ma facilita la ragione di
rivendicazioni proletarie, senza sconvolgere la scala dei valori umani, indispensabile al progresso della società civile; unendo a poco a poco, con vincoli di solidarietà, tutti i popoli della Terra.
L’amor di Patria è quello che ci diede la forza per risorgere a dignità di
Nazione; l’amor di Patria fu la molla che, nell’ultima guerra, fece scattare la
nostra gioventù e, quasi disarmata, la scagliò entusiasmata contro il secolare nemico d’Italia; l’amor di Patria fu il talismano che diede ai nostri ragazzi, usciti dalle braccia delle madri, la forza di resistere a tutti i disagi ed i pericoli d’una guerra eccezionalmente lunga, barbara e crudele, affrontando
serenamente la morte con un eroismo che ha meravigliato il mondo. Un indebolimento dell’amor di Patria, dovuto alla propaganda socialista e clericale nelle trincee dei nostri soldati, fu, quasi certamente, la causa prima del
disastro immenso di Caporetto, che per poco non travolse le fortune d’Italia:
un rafforzamento dell’amor di Patria, provocato dal pericolo mortale che minacciava l’Italia dopo quella grande disfatta, ci diede la vittoria finale di Vittorio Veneto, la vittoria più grande e più completa che ricordi la storia! L’amor di Patria, e solo l’amor di Patria, da a noi poveri genitori, orbati dei nostri figli, la rassegnazione di vivere senza di essi, pur chiamandoli ad ogni
momento; ci dà la forza per sopportare il ritardo nella riconsegna delle loro
salme adorate, le privazioni e la denutrizione a cui una lunga carestia non
preveduta, costringe la nostra vecchiaia sconsolata; ci dà la forza per guardare con filosofico disprezzo il tradimento dei nostri alleati, e più specialmente della Francia, da noi salvata al principio della guerra; tradimento,
dopo la nostra vittoria, ottenuta per noi e per loro, e contrastante le nostre
sante rivendicazioni, per le quali i figli nostri avevano versato il loro sangue
generoso.
Le generazioni che verranno, constatando che questa grande forza morale dell’amor di Patria è quella che, in questo periodo storico, ha salvato l’Italia della servitù straniera, e, speriamo, la salverà dalla guerra civile, conserveranno religiosamente questa forza morale, composta di altruismo e sacrifizi, che è la sola, grande e nobile, che può dare ad esse l’agiatezza, alla
Patria lusso e potenza.
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Il frontespizio del manoscritto
del Col. Pompeo Moderni
“Mario Moderni. La sua vita
narrata dal padre”
CAPITOLO I
LA NASCITA
P
esava come un incubo su la famiglia Moderni la mancanza di discendenti: dei due figli di Michele Moderni e di Rosa Savelloni, nessuno sembrava dovesse aver figli. Ernesto il figlio minore, ammogliatosi per primo, ma
con una donna malaticcia, non permetteva illusioni circa la possibilità di vedere da questo ramo, continuata la famiglia; né miglior sorte pareva dovesse
aspettarsi dal matrimonio di Pompeo, figlio maggiore, poiché gli anni passavano ed anche questo connubio restava sterile. In seguito a delle cure speciali e ad una speciale operazione fatte fare a sua moglie, dopo 12 anni di matrimonio, nacque a Pompeo una bambina, ma nata morta; l’anno appresso
nacque altra bambina, morta anch’essa prima di nascere, e finalmente dopo
16 anni di matrimonio, da Pompeo Moderni e da Francesca Conovelle1 nacque Mario, il 20 luglio 1893, alle ore 7.15, in Via Vittoria n° 32 piano III, appartamento a destra su la scala.
Fu gioia grande nella mia casa per la nascita di questo bambino, che io,
d’accordo con mia moglie, volli che non fosse ascritto a nessuna religione, con
quella forma coatta che si usa nella società attuale, ma lasciato, senza pre1: Il nome di Conovelle è una storpiatura fatta sui registri dello Statuto Civile, dal parroco di San Salvatore in Lauro di Roma,
dove fu battezzata la madre di Mario, nata da Lucia Mascetti, romana, e dal marito (un francese) che si chiamava Giovanni
Antonio Knoell, forse un Bretone, morto nel 1870 combattendo per la Patria sua.
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concetti religiosi, completamente libero di scegliere la sua via, quando, compiuta la propria istruzione e la propria educazione, fosse stato in grado di
comprendere l’importanza dell’atto da compiere, ed avesse potuto riflettere se
vi era proprio bisogno di essere ascritti ad una religione o non bastasse semplicemente praticare coscienziosamente la morale, che di tutte le religioni
passate, presenti e future è stata, è e sarà la base.
Il piccolo Mario non era nato però sotto buona stella: prima di tutto, la sua
nascita avvenuta quando io avevo già 45 anni di età, lo minacciava fin dalla
culla con il pericolo di potere restare orfano prima di essersi potuto fare una
posizione indipendente; in secondo luogo egli era nato con sei dita al piede destro (due mignoli), imperfezione della quale nessuno si accorse per alcuni
giorni, ed avrebbe potuto avere conseguenze gravissime, se per disgrazia
avesse dovuto aver bisogno di una balia, specialmente se fuori di Roma. Un
a dozzina di giorni dopo la sua nascita, mentre io mi trovavo fuori di Roma e
la madre lo lavava, una giovane amica di famiglia, Rosina Gordini, che tanta parte doveva rappresentare nella breve esistenza di Mario, accarezzandolo
e baciandogli i piedini, si accorse di questa imperfezione.
CAPITOLO II
L’INFANZIA
L’
avere sei dita ad un piede non era un grave difetto fisico e soprattutto
non poteva avere conseguenze, ma io mi consigliai subito con il medico
di famiglia, Dott. Valeriano Bertarelli, desiderando di far sparire, possibilmente, anche questa lieve imperfezione ed avere perfettamente sano e libero
da qualsiasi difetto, il tanto desiderato, e, fin dal suo primo apparire, adorato figliuolo. Il medico lo visitò attentamente parecchie volte e quindi dichiarò
che l’asportazione del sesto dito non presentava difficoltà e non avrebbe lasciato traccia alcuna, poiché il medesimo potevasi disarticolare. L’operazione
fu decisa, ma come avvertiva il medico, si doveva attendere che il bambino
avesse raggiunto almeno i sei mesi d’età.
Venne presto il giorno fissato per togliere al mio piccino l’imperfezione con
la quale era nato: e benchè la Mamma fosse di animo virile, pure non le permisi di assistere all’operazione, di udire gli urli di dolore del povero piccino e
vedere le sue teneri carni straziate dal ferro del chirurgo.
La Signorina Rosina Gordini volle assumersi l’incarico di tenerlo su le sue
ginocchia mentre il chirurgo operava; io mi assunsi il compito di tenere fer-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
mo tra le mie mani il piedino del mio angeletto e l’operazione cominciò. Alla prima incisione egli volse i giro gli occhi esterrefatti come per chiedere:
perché mi fate del male? Poi cominciò a gridare e quei gridi di dolore, gli
unici che abbia emesso in sua vita, li ho ancora nelle orecchie come se li
avessi uditi ieri.
Il medico aveva sbagliato nelle sue previsioni, me ne accorsi subito, il ditino no era disarticolarizzabile perché i due mignoli erano saldati su lo stesso
osso, e dovette tagliare come si poteva. In definitiva, tagliato il sesto dito, rimase al piede una sporgenza laterale dell’osso che di poco o nulla migliorava
le condizioni primitive. Averlo potuto prevedere, avrei risparmiato al povero
piccino quel primo dolore!
Dal giorno della nascita, la madre non aveva avuto più che un solo pensiero: suo figlio! Appena nato non le era sembrato bello, ma dopo un paio di
giorni, accomodatasi la figura del neonato, essa aveva dovuto cambiar parere. Tra le cure assidue, previdenti ed amorose di una madre affettuosissima,
il bambino cresceva diventando sempre più bello e florido, e benchè ci avesse impensierito alquanto il ritardo nel cominciare a pronunciare le prime parole; ma finalmente dalle sue labbruccie scoccò la dolce parola mam-ma e le
nostre paure sparirono.
Mentre era nel secondo anno d’età avemmo uno spavento, che fortunatamente durò poco: la Mamma si accorse che il bambino aveva la febbre ed abbastanza alta. Chiamato il medico questi lo visitò minutamente poi ci disse:
ancora non vi è alcun sintomo ma temo trattarsi di difterite. Infatti dopo tre
giorni di febbre, delle larghe placche si manifestarono alla gola: eravamo però preavvisati e si stava in guardia; due iniezione successive di siero, fecero
sparire ogni pericolo.
Grassoccio, roseo, di capelli biondo-oro che gli scendevano in anella su le
spalle, occhi color di cielo, a due ani e mezzo il nostro Mario era diventato uno
dei più belli bambini di Roma. A quell’età gli feci fare un ritratto in miniatura che ricorda la bellezza del bambino. La Mamma ne era fiera! Quando le
amiche veniva a trovarla e, mentre accarezzavano il bambino, alludendo alle
ritardate gestazioni, le dicevano: ci hai messo molto, ma l’hai fatto bello, i
suoi grandi e dolcissimi occhi, brillavano di santo orgoglio materno! Eravamo entrambi stati già provati dalla sventura, sapevamo già che cosa fosse dolore, ma allora con il nostro piccolo Mario che ci sorrideva, eravamo felici!
L’avverso Destino però che mi ha perseguitato per tutta la vita, vegliava
su la mia casa, perché la felicità non potesse regnarvi lungamente. I brevi
periodi di felicità che da questo avverso Destino mi furono concessi, dovevano servire per farmi poi sentire più acuto il dolore nella nuova sventura
che mi preparava.
Nel dicembre del 1895 mia moglie si accorse d’essere nuovamente incinta
e nello stesso tempo le si manifestarono dei dolori al braccio sinistro, che il
medico di famiglia definì per una nevralgia, della quale intraprese subito la
cura. Avevamo cambiato alloggio: da Via Vittoria eravamo venuti ad abitare
in Via Conte Verde n° 15, piano II, appartamento a destra su la scala; più
grande, più conveniente, più in lusso, ma non così bene esposto come quello
di Via Vittoria. Il medico di famiglia non ne fu contento e quando mia moglie
si ammalò, esso dichiarò che, l’appartamento essendo alquanto umido per
mancanza di sole nei mesi invernali, i dolori reumatici da essa avuti qualche
mese prima, dovuti appunto alla poca salubrità della casa, si erano mutati in
una nevralgia. Il medico si era sbagliato anche stavolta: non si trattava di nevralgia, ma degli ultimi residui di una malattia ereditaria, facilmente curabile; in marzo mia moglie abortì e fece un bel maschio che visse una mezzora
ed al quale era destinato il nome di Scipione. La salute della mia buona e santa compagna andò sempre peggiorando; a nulla valsero le cure più affettuose, le medicine le più costose, un consulto fatto troppo tardi; il 5 novembre
del 1896, un giovedì, alle ore 22.30 essa spirò, quasi improvvisamente, fra le
mie braccia. Il suo ultimo pensiero dev’essere stato per il suo piccino, perché
a tre camere di distanza, dove lo avevamo collocato, per il grave stato in cui
trovavasi la Mamma, il bambino si svegliò piangendo forte e gridando. Mia
madre, che assieme alla signorina Gordini assisteva mia moglie, corse a tranquillizzare il piccolo Mario, rimasto orfano di madre all’età di 3 anni e 3 mesi! Fu uno schianto! Io mi sentivo il cuore straziato non solo per aver perduto una compagna impareggiabile, la madre del mio bambino, con la quale per
9 anni avevo diviso gioie e dolori, ma anche dal pensiero che quel povero
bambino fosse condannato a non conoscere le carezze di una madre, a non
provare le dolcezze dell’amore materno, a non essere assistito dalle sue cure,
a non bearsi nel profumo dei suoi baci!
Altre preoccupazioni si aggiunsero subito a farmi sentire tutta la gravità
della perdita che io e Mario avevamo fatto, a mostrarmi le difficoltà gravissime in mezzo alle quali mi trovavo. Non potevo e non volevo affidare il bambino ad una persona mercenaria che si incaricasse della mia casa, tanto più che
i miei doveri professionali mi obbligavano a lunghe assenze da Roma, né volevo separarmi dal bambino e consegnarlo a mia madre, come ella mi offriva.
Dal giorno che mi era nato quel bambino, avevo inteso subito tutti gli
obblighi che ha un padre per l’istruzione da impartire ai piedi, per la loro
educazione, per la formazione del loro cuore, della loro coscienza, del loro
carattere, per l’indirizzo del loro cervello; tutte cose che un padre, il quale
ama veramente i propri figli, deve curare e sorvegliare da sé e non affidare
ad altri, per quanto stretti parenti essi siano. La morte avendomi tolto la
mia collaboratrice naturale, ed una collaboratrice su la quale avrei potuto
fare sicuro affidamento, i miei doveri di padre si rafforzarono maggiormente nella mia coscienza.
Non volendo sbarazzarmi del bambino e consegnarlo a mia madre, bisognava provvedere perché una donna assumesse la direzione della casa e la
sorveglianza del povero orfanello, e questa donna non poteva essere che mia
madre. Essa però, per la sua tarda età, essendosi ridotta a convivere con mio
fratello, non si sentiva più la forza di riprendere la direzione di una casa ed
oppose un deciso rifiuto dal quale non fu più possibile smuoverla. Vi sarebbe
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L’INFANZIA
stato un altro mezzo per accomodare le cose, quello cioè di smettere casa ed
andare con mio figlio a convivere con mia madre in casa di mio fratello e di
mia cognata, la quale ultima però non mi offriva nessuna garanzia né per l’educazione, né per la salute di mio figlio, e con la quale, ero certo, non sarei
andato d’accordo.
Intanto, mentre degli amici facevano gli ultimi tentativi per decidere mia
madre a prendere la direzione della mia casa, per non andare in un albergo,
avevo accettato l’ospitalità che mi aveva offerto la signorina Gordini e con il
mio bambino mi ero rifugiato in casa sua. Erano passati appena una ventina
di giorni dalla morte della Mamma, quando il bambino si ammalò di bronchite e la malattia divenne in breve di una certa gravità.
Nuove ansie. Pochi giorni prima della sua morte, mia moglie si era sognata mia Zia, la sorella di mia madre, morta quattro anni prima, dalla quale era
amata ed essa riamava teneramente: sembrava che questa nostra buona e da
noi amata parente, venisse a prenderla tutta vestita di bianco. Mia moglie nell’accingersi a seguirla le domandava:
- E Mario,
- Lascialo pure – Le rispondeva la morta – verremo a prenderlo più tardi.
Nel vedere mio figlio ammalato seriamente, credetti che il sogno di sua
madre fosse stata una visione, un fenomeno di telepatia, e che l’ultima ora del
mio piccino stesse per suonare. M’ingannavo, il Destino mi riserbava un colpo più crudele, una sciagura più grande, un dolore senza possibilità di conforti; ed il bambino pian piano, per le affettuose cure prestategli dalla signorina Gordini, cominciò a migliorare ed in breve ogni pericolo scomparve.
Il medico della famiglia Gordini che lo aveva curato, mi avvisò che il mio
piccino era entrato in piena convalescenza e appunto per questo aveva bisogno di tornare a casa sua tutta piena di sole, in mezzo ai fiori della grande
terrazza, in mezzo a tutte quelle indispensabili comodità che ci mancavano in
quella nostra ristretta e provvisoria dimora. Ma a rendere possibile questo ritorno alla nostra casa, si opponeva sempre la mancanza di una parente che
assumesse la direzione della famiglia e la custodia del bambino. La signorina
Gordini, vistomi nell’impossibilità di risolvere questo gravissimo problema,
dal quale dipendeva la tranquillità mia e l’avvenire di mio figlio, si offrì essa
stessa di venire in casa mia a far da mamma al povero orfanello. Accettai subito con riconoscenza l’affettuosa proposta. La signorina Gordini conviveva
con suo padre, cospiratore e vecchio soldato delle prime guerre dell’Indipendenza Italiana, pensionato come mutilato di guerra per tre gloriose ferite riportate sui campi di battaglie; io non avevo più che il mio Angeletto, l’appartamento mio in Via Conte Verde n 50, che, spinto dal medico (il quale nella malattia di mia moglie non aveva veduto altra causa che l’umidità dell’appartamento dove ci trovavamo) ero andato ad abitare, di fronte all’altro, otto giorni prima della morte della mia povera moglie, nella speranza di salvarla, era abbastanza vasto per contenere comodamente riunite le due piccole famigliuole; così dopo due mesi, la vigilia di natale del 1896, facemmo ritorno nella casa che era stata così precocemente visitata dalla morte.
Non era una casa allegra la nostra! Mario cresceva in un ambiente fatto
deserto e muto dalla morte! Il vuoto lasciato dalla povera mamma sua, rapita all’affetto nostro a soli 35 anni d’età, non era facilmente colmabile! Tuttavia a mio figlio non mancava le cure, le più affettuose: la signorina Gordini,
conosceva già l’andamento della casa, quindi non le ci volle molto per riassumerne nelle sue mani l’amministrazione. Essa conosceva le mie abitudini:
donna di cuore buono ed affettuosissimo, entrata in casa, s’impose il compito di non fare accorgere a me ed a mio figlio la grave perdita che avevamo
fatto e, interrogando la domestica che era stata con mia moglie, consultandosi con mia madre, mettendovi tutto il suo impegno, ci riuscì completamente.
Non era passato molto tempo dalla morte di mia moglie e già mio figlio la
chiamava Mamma! Dapprincipio quel nome mi faceva male, mi sembrava
che si usurpasse qualche cosa che era strettamente dovuto soltanto alla povera morta, ed una sera, preso il bambino per la mano, lo condussi davanti ad
un grande ritratto della madre e gli dissi: - Guarda Mario mio, Mamma tua,
guardala bene, non te la dimenticare mai; questa è mamma tua non la signorina Rosina. Egli ascoltò quanto gli dicevo mentre guardava attentamente il
ritratto poi, dopo un istante di riflessione, voltosi di scatto verso di me come
avesse trovato la soluzione di un problema, insegnando con la sua manina, il
ritratto della madre mi disse:
- Quella è mamma Checchina – Poi voltosi verso la signorina Gordini ed afferrandola per la gonna, proseguì concludendo – E questa è mamma Rosa.
Capii che per il bambino era un bisogno pronunziare quel santo nome e lo
lasciai fare come voleva, tanto più che le cure assidue che la signorina Gordini aveva per il mio Mario glielo avevano affezionato talmente, che sarebbe
stato impossibile far comprendere a quel bambino, che quella donna non era
una sua buona mamma!
Stavano per scadere i due anni di lutto stretto che per la morte di mia moglie avevo imposto a me ed a mio figlio, quando altri due avvenimenti vennero quasi contemporaneamente a turbare la tranquillità della nostra esistenza: mio padre, giunto all’età di 75 anni, moriva quasi improvvisamente a
Roma di congestione, il 29 agosto 1898, mentre noi ci trovavamo, per la bagnatura, nella nostra villetta di Terracina; ma questo avvenimento rimase
quasi inavvertito al bambino. L’altro invece ebbe una grande importanza per
la mia famigliuola: Giuseppe Gordini, padre della signorina Rosina, venne
colpito da paralisi progressiva, conseguenza delle ferite riportate in guerra, e
perché potesse avere tutte le cure e le assistenze che il suo stato richiedeva, fu
collocato in una casa di salute, dalla quale non doveva più uscire.
La signorina Rosina, rimasta senza il padre, sola in casa con me, venne a
trovarsi in una posizione irregolare davanti alla società. Come rimediare? A
separarci non vi era da pensare: tutti e due amavamo Mario, tutti e due avevamo consacrato la nostra vita, ogni nostro pensiero, ogni nostra azione al
piccolo orfanello e nessuno dei due avrebbe accettato di separarsene. Non c’era quindi che una soluzione: sposarci! A me che alla morte di mia moglie era
sembrato impossibile un secondo matrimonio, in questa occasione mi si af-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
facciò subito alla mente come un ancora di salvezza e lo proposi alla signorina Rosina. Benché ci fossero 20 anni e mezzo di differenza tra la mia e la sua
età, pure essa accettò subito con gioia una proposta che le avrebbe permesso
di non separarsi più dal suo Mario. Il nostro matrimonio avvenne il 25 marzo
1899. Due amici ci accompagnarono al Municipio ed in una mezzora che legalizzava la presenza in casa mia della signorina Gordini, divenuta signora
Moderni, era compiuta.
Intanto il mio Mario, a 6 anni compiuti, era entrato nelle Scuole elementari
pubbliche, perché non volevo che frequentasse scuole private a pagamento. Il
suo piccolo cervello potesse accogliere idee vanitose, tanto difficile a sradicare
dalla mente di giovanetti, cresciuti nella convinzione di appartenere ad una casta privilegiata. Prima di entrare alle elementari, aveva frequentato il giardino
d’infanzia, ed un po’ qui, un pò con l’istruzione impartitagli a casa dalla sua seconda Mamma, quando lo presentammo alle elementari, il bambino era già in
grado di entrare direttamente alla seconda classe. Ne avvertimmo infatti, la direttrice della scuola, la quale gli fece delle domande, onde potere accontentare
il nostro desiderio, di farlo entrare direttamente nella seconda classe. Ma nel
mentre il bambino si era mostrato al giardino d’infanzia, d’una irrequietezza
della quale più tardi dovevamo conoscere la causa, era nello stesso tempo d’una timidezza che non ha potuto vincere mai completamente, specialmente nei
suoi rapporti con me, quindi alle domande fattegli dalla direttrice, rimase muto come un pesce e bisognò rassegnarsi a fargli perdere un anno, e ripetere cose che sapeva benissimo.
Ho detto che nel giardino d’infanzia era irrequieto ed irrequieto doveva mostrarsi anche nelle scuole elementari e poi al Ginnasio, ma in casa questo bambino è stato sempre d’una bontà eccezionale; nessuno lo ha udito mai piangere,
mai avuto di quei capriccetti, di quelle stranezze così comuni a tutti i bambini.
La sua seconda mamma, sotto questo punto di vista non ha dovuto faticare
molto per allevarlo.
Dopo la morte della mia prima moglie, mi ero chiuso in casa, ad occuparmi
esclusivamente del mio bambino e dei miei studi, senza più frequentare ne amici, ne divertimenti e specialmente senza mettere più piedi nei teatri. La mia seconda moglie mi fece comprendere che questo stato di cose non poteva continuare all’infinito, poiché quel povero bambino sempre chiuso in casa, avrebbe
finito per diventare un selvaggio. Quella piccola esistenza che si schiudeva, aveva bisogno di vedere, di capire, di godere, di divertirsi, e siccome si avvicinava
il carnevale mi propose di preparare una mascheratura per condurre il nostro
figliuolo al veglione dei bambini del teatro Costanzi e di altri teatri, veglioni allora in gran voga.
Per il genere di mascheratura non vi era molto da scegliere, se gli si voleva fare un grande piacere, bisognava vestirlo da soldato. Strano atavismo! Da
bambino io pure avevo avuto questa specie di frenesia per la divisa militare,
ed a 17 anni e mezzo l’ho indossata per non svestirla più! Il mio Mario, poteva avere 2 anni e mezzo, sua madre lo conduceva a passeggio, quando in
Via Torino, incontrato un corazziere, non potendo e non sapendo in altro mo-
do esprimere l’ammirazione per l’imponente soldato, si mise a gridare:
- Mamma me lo comperi, mamma me lo comperi.
E ci volle del bello e del buono per calmarlo, mentre i passanti non potevano frenare le risa alla strana pretesa di quel bambino. Fra i ricordi dell’infanzia del mio Mario, conservo una di quelle cartoline illustrate che si inviano in
occasione delle feste natalizie: è una caricatura di un soldato Francese di Fanteria, sotto alla quale è stampato = Buone feste =. Sul rovescio, Mario, che doveva avere 5 o 6 anni, con la calligrafia tremolante di chi comincia a tracciare
le prime lettere mi scriveva:
Papà mio
Mario ti augura mille anni felici, così vedrai il tuo piccolo
Generale; un bacio e ti prometto che sarò buono tanto.
La nota militare salta fuori dalla sua penna, appena gli riesce fissare sulla
carta un suo pensiero!
La mascheratura fu dunque presto trovata e mia moglie si incaricò di confezionargli una divisa da Sottotenente d’artiglieria. Niente fu trascurato; dalla
sciarpa agli speroni; dalla bandoliera al pentolino con relativo pennacchietto di
penne di struzzo; Dragona, pendagli, spalline, sciabola, tutto strettamente regolamentare, mia moglie girando per i negozi, frugando dappertutto, trovò
quanto le occorreva, per la sciarpa, la giubba e i pantaloni, le confezionò da sé.
Chi può ridire la gioia di quel bambino quando si vide vestito da ufficiale di
Artiglieria?! Ed egli non credeva già di essere mascherato, ma la sua piccola testina era convinta di essere un’ufficiale sul serio. Benché quel genere di mascheratura non sia di moda, anzi a qualcuno è addirittura antipatica, pure il
bambino era così bello, la divisa così perfetta, ed era portata con tanta inarrivabile serietà e disinvoltura, che gli fu accordato un premio. Uscendo dal Costanzi una folla di signore e signori lo seguirono fino in Via Nazionale ammirandolo; ed egli, seccato di quell’ammirazione voltosi a me, mentre con la più
grande naturalezza sganciava la sciabola dal pendaglio e poggiando l’elsa su
l’avambraccio sinistro, esclamava:
Papà, che stupidi, non hanno mai veduto un ufficiale!
Mentre, bagnando la penna nel cuore che sanguina io sto vergando queste
righe, e mio figlio già da tre mesi riposa nella sua fossa gloriosa, la sua piccola
divisa da ufficiale di Artiglieria è ancora religiosamente custodita nella mia casa, il suo ritratto, vestito con quella divisa che mostra con quale baldanza, a 5
o 6 anni sapesse portare la divisa militare, è appeso nella sua camera, diventata il santuario della mia casa! Nelle Scuole elementari, mio figlio procedeva regolarmente, quando nel 1902, mentre frequentava la terza classe, fu colpito da
catarro intestinale acuto. Fu un anno di angustie che in qualche momento si
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MARIO MODERNI
L’INFANZIA
cambiarono in spavento quando in un consulto uno dei medici espresse il dubbio che, da certi sintomi, si potesse trattare di catarro tubercolare: durante tutta una settimana, finché non si ebbero risultati dell’analisi chimica delle feccie,
vivemmo in pianto. Fortunatamente non si trattava di catarro tubercolare e mia
moglie con cure assidue instancabili, dopo un anno riuscì a debellare questa
crudele malattia.
A poco a poco il bambino si riebbe, ma non si sta a dieta e cura lattea per
un anno intero, specialmente all’età del mio povero Mario, senza risentirne delle conseguenze! Da grassoccio che era prima, divenne magrolino e deboluccio,
ne fu più possibile vederlo tornare alla primitiva floridezza. Malgrado ciò non
perdette l’anno di studio, anzi alla fine del terzo anno si meritò due premi, uno
per lo studio, l’altro per i lavori manuali.
Anche la crisi del catarro era passato ed in questo anno di premurose attenzioni materne, per salvarlo al più presto da così terribile malattia, mia moglie
si guadagnò veramente il nome santo di madre, che il bambino gli aveva dato
fin dai primi giorni.
L’anno appresso, nel 1903, mentre frequentava, la quarta classe, in seguito
ad una passeggiata scolastica, fattagli fare nel gennaio, alle 8 di mattina, in
campagna, dopo una forte brinata, e senza la mantellina con la quale era solito andare a scuola, il bambino si mise a letto con febbre e poco dopo si manifestò una polmonite sinistra. Il male si fece subito grave e noi vedemmo con terrore nuovamente minacciata la vita del nostro Mario. Fu chiamato a consulto il
Dott. Concetti specialista per le malattie dei bambini, ed benché riconoscesse
che il caso era grave pur tuttavia ci dichiarò che non era disperato e che si poteva sperare ancora in una soluzione favorevole.
Verso la mezzanotte di quel giorno, mentre mia moglie, pregata da me, si era
coricata per riposarsi ed io vegliavo da solo il mio piccolo ammalato, il bambino svegliatosi e voltosi verso di me per chiedere aiuto, mi chiese stentamente:
- Papà, non posso più respirare!
Credetti giunta la sua ultima ora, calde lacrime mi solcarono le guance,
mentre con un altro cuscino gli sollevavo la testina ricciuta perché potesse respirare meglio. Quella notte è rimasta segnata nel mio cuore come uno dei ricordi dolorosi della mia vita! Poco dopo si è riaddormentato e l’indomani i medici constatarono un notevole miglioramento nel suo stato: la crisi era passata
e, come accade ai bambini, presto fu dichiarato fuori pericolo. Abbracciati, io e
mia moglie, salutammo con lacrime di gioia lo scampato pericolo del nostro angeletto. Nulla di notevole gli occorse più mentre frequentava le Scuole elementari di Piazza Dante, dove a suo maestro, nella quarta e quinta classe, ebbe la
fortuna di avere Paolo Bardazzi, un uomo di cuore e di mente che avrebbe dovuto essere preso a modello come educatore, e fu perseguitato.
Durante il periodo che frequentò le scuole elementari vanno ricordati quattro episodi della sua vita, ai quali sul momento non si diede importanza, ma dopo la sua morte ci sono tornati in mente come indizi rivelatori del suo carattere e del suo cuore.
Frequentava la seconda o la terza elementare, quando un giorno in scuola,
una maestra nel chiudere una porta, inavvertitamente, gli schiacciò il pollice di
una mano. Si comprende facilmente che non dev’essere stata una cosa piacevole, e la Direttrice della Scuola fece subito, da una inserviente, accompagnare a
casa, il bambino per le cure che fossero state necessarie. Il nostro Mario, passato lo spasimo del primo momento, si presentò in casa tranquillo e senza versare una lacrima! Si lasciò fasciare dalla Mamma, ma senza pianti, senza spavento e senza quelle moinerie così facili e naturali nei bambini.
Mentre frequentava la quarta elementare, tornando da scuola, accompagnato dalla domestica, nell’attraversare Piazza Dante, una sassata anonima lo
colpì in faccia ferendolo. Anche questa volta niente pianti, niente gridi; entrando in casa con la guancia sanguinante, le sue prime parole furono:
- Però non mi fa male, sai Mamma!
E siccome mia moglie allarmata, mentre gli lavava la ferita, interrogava la
domestica sull’accaduto, egli continuava ad insistere:
- Ti assicuro, Mamma, che non sento alcun dolore.
Da questi due episodi rimasti allora inavvertiti, come avviene spesso nelle
manifestazioni dei bambini, alle quali si da poca importanza, mentre sono talvolta indizi di quel che quei piccoli esseri saranno più tardi, emergono due cose: la sua forza d’animo, quella forza d’animo che al momento della morte doveva diventare sublime eroismo, quella sua eccezionale bontà di cuore. Infatti,
egli, così piccino, ha la forza di resistere al dolore per non spaventare i suoi cari ed il suo primo pensiero è di assicurare la Mamma che non sente alcun dolore! Però dolore doveva sentirlo, perché aveva riportato una piccola ferita lacero-contusa, di cui gli è rimasta poi una piccola cicatrice, e quelle ferite sono
sempre molto dolorose.
E passiamo al terzo episodio: in un estate, durante il mese di luglio, trovavasi assieme alla mamma ed a due signorine nostre amiche, nella nostra villetta di Terracina, per i bagni di mare. Non so più quale mancanza avesse commesso, forse era scappato di nascosto in giardino per farsi qualche scorpacciata di frutta, come faceva tutte le volte che gliene capitava il destro: mia moglie
non voleva assolutamente che si recasse in giardino senza essere in sua compagnia, perché non solo temeva che le frutta mangiate senza limiti potessero nuocere alla sua salute, specialmente dopo essere stato ammalato di catarro intestinale, ma anche perché il nostro giardino assai vasto (8000 metri quadrati),
presentava dei pericoli seri, essendovi dei salti a picco di una diecina di metri,
cadendo dai quali, su di un suolo roccioso, vi era da ammazzarsi addirittura. Il
fatto sta che, adirata per qualche cosa di questo genere, quando potè trovarlo,
si levò una pantofola e lo picchiò sulle spalle e sulle natiche. Lui, buono, se la
prese filosoficamente senza fiatare; poi, quando mia moglie l’ebbe lasciato e se
ne fu andata, una di quelle signorine gli disse:
- Scioccone, perché non sei scappato? Quando mamma vuol batterci noi
scappiamo e non stiamo li a prendercele.
Lui serio rispose:
- No, io non scappo, perché quando mamma si arrabbia così, se non si sfoga
si sente poi male!
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Vi può essere una manifestazione di bontà maggiore di quella contenuta in
queste poche e semplici parole?!… Del resto, da bambino, ha dato rarissime occasioni di doverlo punire, perché è stato di una bontà eccezionale; le ragioni per
cui qualche volta lo si è dovuto punire, erano la sua irrequietezza in scuola e le
scappate nel nostro giardino di Terracina.
Di fronte ad una cinquantina di grandi alberi di frutte diverse, a 160 alberi di prugne, 120 alberi di mandorle, e 250 viti di uve scelte da tavola, quale
bambino sarebbe stato fermo?! E non c’era da scendere che una dozzina di gradini per essere da casa in giardino!
Quando poi era stato punito dalla Mamma, egli afferrava la prima occasione favorevole per avvicinarlese e con le lacrime agli occhi le ripeteva:
- Però mi vuoi ancora bene? Mi perdoni?
E si capisce che finiva presto con due bacioni! Quando invece era stato punito da me, si metteva appresso alla mamma onde ottenere la sua mediazione
per far pace con me, e non la lasciava tranquilla fino a che non aveva ottenuto
il suo scopo.
Un autunno eravamo a Monte Monaco, paese a 900 metri sul mare, nell’Appennino Marchigiano, da alcuni giorni gli tenevo il broncio per una piccola mancanza commessa e Lui non sapeva cosa fare per farsela perdonare: una
mattina attendevo il mulattiere alle 6 per una lunga escursione: dovevo salire
sul monte della Sibilla, poi scendere nella selvaggia e quasi impraticabile alta
valle del Tenna e fare un lungo giro per tornare a monte Monaco; prevedevo che
sarei stato di ritorno a notte fatta. Il mulattiere si presentò invece alle 7, ero furente, perché vedevo la mia escursione compromessa; inforcai il mulo e via di
buon passo. Quando fui a tre quarti d’ora da monte Monaco, m’accorsi che avevo dimenticato il mio martello da geologo, ma fortunatamente mi trovavo vicino ad alcune case, dove mi fu possibile farmi prestare un martello da muratore, e continuai la mia strada; dopo un’altra mezzora, quando stavo per cominciare l’erta del monte della Sibilla, mi parve udire in lontananza, dietro a me,
una voce che chiamasse: Papà. Mi volsi e vidi un punto nero che avanzava rapidamente su la mulattiera da me percorsa: indovinai che doveva essere mio figlio, mi fermai ed attesi. Era, infatti, Lui che correva su una strada deserta ed
a Lui sconosciuta: in un certo punto si era trovato davanti ad un bivio; una strada scendeva, l’altra saliva; egli pensò: Papà va in montagna, dunque sale, ed infilò quella in salita. Arrivò rosso, trafelato e senza dirmi una parola mi presentò il mio martello con la sua fodera: lo guardai commosso e gli chiesi:
- Tu vuoi un bacio adesso?
Egli mi guardò con i suoi begli occhi che avevano in quel momento un’espressione di grande contentezza. Me lo feci sporgere dal mulattiere, lo sedetti
sul davanti della sella, lo abbracciai, lo baciai: la pace era fatta. Allora Lui, gettandomi le braccia al collo, mi disse:
- Papà, portami con te.
La colazione che mi ero portata, per due sarebbe stata scarsa, ma pur di farlo contento, pur di mostrargli il mio grato animo per quella sua premura, avrei
trovato modo di farla bastare; ero un vecchio lupo di montagna io! Stavo già
per accomodarlo avanti a me sulla sella, quindi mi venne in mente di chiedergli:
- Mamma lo sa che sei venuto da me?
- No – mi rispose.
Trasalii ed esclamai: - Se ti porto con me questa sera Mamma la troveremo
morta dallo spavento! E’ impossibile, Mario mio, che possa portarti con me; fermati qui seduto per qualche minuto, poi, senza affaticarti troppo, torna subito
a casa. Lo lasciavo poco tranquillo in quel punto deserto, dove se fossero capitati dei cani da pastore me lo avrebbero potuto sbranare, ma non vi era da scegliere. Mi obbedì subito, rassegnato si sedette, mentre io continuavo la mia strada e dal zig-zag che faceva la mulattiera salendo, potei vederlo, dopo qualche
minuto prendere la via del ritorno e seguirlo lungamente con lo sguardo finché
sparì nella sinuosità della strada campestre.
A prima vista, questi atti infantili sembrano di nessuna importanza, ma a
chi, come me, ha visto quell’esistenza spegnersi a 22 anni; che, come me, costretto dall’avverso Destino, affermare il suo pensiero nei termini di quella breve esistenza, trova negli atti infantili gli indizi di quel che sarebbe stato da giovane, come gli atti giovanili ci danno un idea di quel che sarebbe stato fatto uomo adulto. Intanto gli atti infantili avevano rivelato in quel mio angeletto disciplinatezza, bontà di cuore, coraggio e forza d’animo, qualità appunto che lo
hanno distinto subito nella sua breve carriera militare.
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Mario Moderni a 20 anni
CAPITOLO III
L’ADOLESCENZA
Ed
eccoci al periodo più movimentato della vita di questo povero figliuolo; al periodo nel quale ha veramente sofferto per compiere un
lavoro superiore alle sue forze. Tutti gli anni, dopo i bagni di mare, usavo, nei
mesi di settembre e ottobre,di portarlo con me in montagna,dove gli facevo
fare delle escursioni che giovavano alla sua salute:l’anno che terminò le scuole elementari, lo portai a Leonessa nell’Abruzzo Aquilano, a 300 metri sul mare nel gruppo boscoso del Terminillo. Una mia indisposizione avendomi obbligato a chiamare un medico del paese, questi,osservato il mio Mario un po’ delicatino, volle esaminarlo sommariamente, quindi mi avvertì che quel ragazzo
aveva bisogno di prendere molti fosfati, perché aveva le ossa minutissime.
Tornati a Roma in autunno, assieme all’emulsione Scottò, che era solito
prendere tutti gli anni, cominciò a prendere anche degli ipofosfati e all’apertura delle scuole entrò al ginnasio Umberto I.
Durante tutto il tempo che era stato alle scuole elementari aveva studiato
ed analizzato, discutendo anche con conoscenti che si trovavano nelle mie
identiche condizioni,quale carriera fosse più conveniente far seguire a mio fi-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
glio: quella degli studi tecnici o degli studi classici; Ma dopo lungo riflettere,
dopo molte esitazioni, mi convinsi che la carriera più conveniente per mio figlio era quella degli studi classici, perché lasciava maggior tempo per osservare le attitudini del ragazzo, senza compromettere nulla: alla fin fine se avesse avuto voglia di seguire la carriera tecnica, poteva decidersi quando fosse
giunto al liceo, mentre una volta entrato alle scuole tecniche non vi era altra
via da seguire che quella.
Per aiutare il nostro Mario negli studi più seri che andava ad intraprendere, io e mia moglie ci dividemmo le materie nelle quali, ognuno di noi, gli
avrebbe fatto le spiegazioni di cui avrebbe avuto bisogno, o fatto ripetere
quelle lezioni che il ragazzo avesse dovuto sapere a memoria; malgrado il nostro impegno,fin dai primi giorni ebbi subito cattive notizie dai professori di
mio figlio e queste cattive notizie riguardavano lo studio e la condotta: in
quanto allo studio i professori si lamentavano che non sapeva quasi mai le lezioni e che rispondeva raramente alle domande che gli venivano rivolte; in
quanto alla condotta lamentavano quella sua certa irrequietezza che non gli
faceva prestar troppa attenzione alle lezioni, mentre disturbava i suoi condiscepoli, specialmente con la sua smania di parlare.
Strano fenomeno questo! Mentre a casa non si riusciva a fargli dire dieci
parole in tutta la giornata, in scuola dove avrebbe dovuto tacere, sentiva invece il bisogno di parlare!Procurai dapprima a prenderlo con le buone, perché stesse quieto in scuola e studiasse con maggior volontà in casa, ma quando mi accorsi che le cose non andavano meglio, non esitai a ricorrere alle punizioni. Esso si prendeva fisiologicamente le punizioni senza mai fiatare, senza protestare, ma le cose continuavano a non andare bene.
Avevo raccomandato a mia moglie di trascurare qualsiasi altra occupazione, pur di dedicare il maggior tempo possibile per aiutare Mario a fare i suoi
compiti e studiare le materie delle lezioni che essa si era riservata, onde procurare di rialzarlo nell’opinione dei professori: dal conto mio avevo smesso di
frequentare le associazioni di cui facevo parte e di non occuparmi d’altro che
dello studio di mio figlio. Gli avevo stabilito un orario di studio per il quale,
dopo cena gli restavano libere una o due ore che permettevano a me di fargli
delle ripetizioni o di aiutarlo con i miei consigli a terminare i compiti che gli
restavano più difficili. Esso, buono, docile, condiscendente, faceva tutto quello che gli si consigliava, ed il suo contegno in casa contrastava maledettamente
con le lagnanze dei professori per il suo contegno in scuola. Di sera non poteva
trattenersi a studiare fino a tarda ora; verso le 21 o 21 e 30 gli s’iniettavano gli
occhi di sangue e bisognava farlo coricare; però di mattina si alzava volentieri
di buon ora, e senza bisogno di essere svegliato, per mettersi a studiare.
Dopo qualche giorno di studio intensivo, sicuro che i nostri sforzi e la buona volontà del ragazzo avessero ottenuto l’effetto sperato, andai a scuola ad
assumere informazioni, con la speranza che i professori mi avrebbero dichiarato di aver constatato un miglioramento. Mi venne incontro il professore di
Storia e Geografia, il quale al solo vedermi diventò rosso dalla collera e senza lasciarmi il tempo di parlare mi disse: “Se non fa studiare suo figlio a ca-
sa è inutile che lo mandi a scuola, perché qui diventa lo zimbello di tutti e mi
disturba la classe: oggi non mi ha risposto neppure una parola né della lezione di storia, né di quella di geografia”.
Divenni furente e mi diressi a casa con l’intenzione di rimproverare seriamente mia moglie perché quelle lezioni delle quali Mario non aveva saputo
neppure una parola, erano appunto materie che essa si era riservata di fargli
ripassare, e poi di dare una solenne punizione a mio figlio per deciderlo a studiare con maggiore volontà. Fortunatamente venne ad aprirmi la porta di casa mia moglie stessa, la quale visto alterato, mi domandò subito che cosa
avessi le raccontai con parole concitate quanto era avvenuto in scuola. Mia
moglie divenne pallida ed impedendomi di avvicinarmi a mio figlio mi rispose: “Qui trattasi di cosa seria; tuo figlio deve esser affetto da qualche malattia ed è necessario che tu lo faccia visitare da qualche specialista esso studia
di buona voglia; questa mattina alle cinque era in piedi a ripassare le lezioni;
prima di andare a scuola me le ha recitate a memoria e le sapeva perfettamente senza un errore, senza nemmeno un impuntatura!”.
Il giorno stesso presi appuntamento con il Dott. Sante De Santis professore di psichiatria ed il domani vi condussi Mario. Il professore lo esaminò lungamente e minutamente, poi mi espose così i risultati del suo esame.
“Questo ragazzo è affetto da esaurimento nervoso e corre velocemente verso
l’epilessia e il Ballo di San Vito: lo studio gli fa male, bisognerebbe che Ella avesse delle campagne e che potesse metterlo a cavallo, facendogli fare una vita attiva all’aria aperta. Ad ogni modo bisogna che ella lo tolga immediatamente da
scuola, gli prenda un professore privato il quale lo faccia studiare un ora al giorno, non più; bisogna nutrirlo bene, iperalimentazione, trattarlo con dolcezza e
fargli fare una cura intensiva di fosforo. Questo per un anno, poi vedremo”.
Il Destino nuovamente avverso aveva colpito nuovamente me ed il mio povero figliuolo! Avevo riparato la gravissima sciagura della morte della sua
buona Mamma, il caso avendomi permesso di trovargliene un’altra altrettanto buona quanto la prima,come riparerei ora a questa nuova sciagura?! Era
il naufragio completo d’ogni speranza mia e di Mario. Avevo quel figlio solo
e ad costo di qualunque sacrificio avrei voluto farne un letterato od uno scienziato;un uomo colto infine: Mario anelava di seguire la carriera militare, ed io
fingevo di non accorgermene,deciso però a non ostacolare la sua volontà,
quando questa con il tempo e con la maggiore età avesse preso la forma di vera vocazione. Tutto sembrava perduto; se una qualche speranza vi poteva essere di salvare mio figlio dalla nuova sventura che lo aveva colpito,questa era
risposta nell’adempimento scrupoloso delle istruzioni del medico. Tolto immediatamente da scuola, ebbe un professore di Latino per un’ora al giorno di
studio; feci venire dalla Svizzera medicine speciali e costose per la cura intensiva del fosforo; con delle uova e della carne si cercò di nutrire al meglio il
ragazzo, il quale è stato sempre di poco appetito; poco vino, niente caffè e
niente liquori; passeggiate in bicicletta brevi e frequenti nei dintorni di Roma,
teatri, specialmente diurni per non stancarlo troppo; sospesi i bagni di mare
per un anno e prolungata invece la permanenza in montagna.
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L’ADOLESCENZA
La rivelazione della sua malattia spiegava ora quella sua irrequietezza in
scuola, che irritava i professori e lo metteva in così cattiva luce agli occhi loro: stare fermo in scuola, con la mente rivolta alla lezione, era per Lui una
tortura che lo obbligava a rimuoversi ed a cercare di distrarsi. Quando frequentava le Scuole Elementari il suo maestro Paolo Bardazzi mi diceva che
spesso si accorgeva come mio figlio ed altri suoi compagni, in certi momenti
erano talmente stanchi di dover star fermi, zitti ed attenti, che i loro occhi diventavano smorti e non capivano più niente. Allora egli si alzava e , dopo avere avvertito gli alunni di non muoversi dai loro posti, sotto la minaccia di pene severissime, usciva dalla classe e fingeva di allontanarsi, ma effettivamente si metteva ad origliare all’uscio della sua classe. Era appena uscito fuori
dalla porta, che nella classe cominciava un chiasso indiavolato, vi era chi gridava, chi saltava perfino sui banchi; tutti del resto erano fuori dei loro posti:
allorchè la cosa aveva raggiunto certi limiti ed i ragazzi avevano potuto sfogarsi per sette od otto minuti, egli faceva sentire la sua voce parlando con
qualche inserviente, onde lasciar tempo agli alunni di riprendere i loro posti,
quindi rientrava in classe e, dopo aver lodato ragazzi per averlo obbedito, restando quieti ai loro posti, riprendeva più proficuamene la sua lezione. Non
tutti gli insegnanti si chiamavano però Paolo Bardazzi! Non tutti, possono
avere la sua mente ed il suo cuore! Non tutti come lui, nascono educatori.
D’altra parte certi sistemi non sarebbero più possibili nelle scuole medie, i cui
insegnanti appartengono ad un ramo della Burocrazia!E la Burocrazia, si sa,
è una macchina e perciò non può avere cuore! i suoi membri (stavo per dire
i suoi ingranaggi)non si possono occupare che di tre cose: l’orario, lo stipendio, la carriera!… Era possibile che i professori del Ginnasio Umberto I, potessero distinguere che non avevano davanti un poltrone, ma un povero ammalato! Dopo un anno di riposo assoluto, durante il quale, il prof. De Santis
aveva ripetutamente visitato mio figlio, lo feci tornare al Ginnasio. Le sue
condizioni erano migliorate, ma il De Santis mi avvertiva di non farmi illusioni e di stare in guardia, perché lo studio era una fatica troppo grande per
quel ragazzo quindi sarebbesi dovuto scegliere per Lui un’altra carriera. Scegliere un’altra carriera all’infuori dello studio per un ragazzo di civile condizione, è una cosa che si fa presto a dire, ma che non è altrettanto facile da trovare! Infatti, quale carriera si può far intraprendere ad un ragazzo che ha fatto soltanto le Scuole elementari? Altro che i mestieri più bassi, poiché i tipografi, ad esempio, ed i fuochisti delle ferrovie devono già essere provvisti della licenza delle Scuole Tecniche. Eppure la salute di quel mio figliuolo adorato mi stava tanto a cuore, che ho guardato anche in faccia l’eventualità di
metterlo a fare un mestiere! però il suo grado basso di cultura, non permettendomi di scegliere, mi avrebbe obbligato di metterlo in una via nella quale
avrebbe trovato compagni non forniti di quella educazione fine che riceveva
in famiglia, con i quali perciò si sarebbe trovato a disagio e molto probabilmente ne sarebbe diventato lo zimbello, la vittima. No, no, era meglio tentare. Pian piano, non affaticandolo troppo facendogli ripetere magari qualche
anno, provare di fargli ottenere per lo meno la licenza ginnasiale.
Intanto il mio Mario aveva ricominciato il 1° anno di Ginnasio e le cose
cominciavano ad andare benino: si capiva che il mio povero figliuolo ci metteva tutto il suo impegno e, salvo la sua solita irrequietezza, i professori trovavano in Lui un sensibile miglioramento. Alla Fine dell’anno scolastico fu
promosso alla 2° classe senza esami: non aveva ottenuto una classificazione
splendida, era passato con due sette e per le altre materie tutti 6, ma era passato. Che differenza con l’anno precedente! Il mio cuore si riapriva alla speranza: il mio Mario sarebbe divenuto un uomo colto e non avrebbe avuto il
bisogno di guadagnarsi da vivere con il lavoro manuale! Per incoraggiarlo, io
e mia moglie lo colmammo di carezze, di baci e di regali: durante la villeggiatura estiva riposo assoluto, escluso qualsiasi genere di studio. Durante il
2°anno non vi fu nulla di notevole, all’infuori della solita invincibile irrequietezza in scuola che non mi riusciva di vincere e che qualche volta mi irritava
perché quel ragazzo del quale i professori lamentavano l’irrequietezza, a casa non si udiva, non dava fastidio a nessuno; si chiudeva, ordinariamente,
nella sua camera e per farlo parlare non era cosa facile. Alla fine dell’anno fu
rimandato in due o tre materie: per non affaticarlo troppo avrei voluto che ripetesse l’anno, ma Egli ne fece una questione di amor proprio, dopo un mese di assoluto riposo, durante la bagnatura cominciò a ripassare, con l’aiuto
mio e di qualche professore privato, le materie nelle quali era stato bocciato.
Nella sessione autunnale di esami fu promosso alla 3° classe.
Ed eccoci alle dolenti note: in 3° ginnasiale era cresciuto il lavoro e conseguentemente era cresciuta quell’irrequietezza nervosa che non gli permetteva di star fermo e zitto. Il ragazzo si trasformava in giovinetto ed all’irrequietezza nervosa si aggiungeva quell’irrequietezza speciale che è caratteristica dei maschi all’età del loro sviluppo. I professori si lamentavano della
sua irrequietezza in scuola ed io avevo un bel da fare a dimostrare loro che
si trattava di un fenomeno nervoso, perché mio figlio in casa, in strada e dovunque, era il più buono e disciplinato giovinetto che si potesse immaginare. Eh si, tutti i padri trovano buoni i loro figli! E i professori non tenevano
conto alcuno delle mie dichiarazioni.
Alla fine dell’anno fu rimandato in diverse materie, ed io non volli che si
affaticasse nel tentare di riparare nella sessione autunnale: date le sue condizioni, era meglio perdere un altro anno e fargli ripetere la 3° ginnasiale. A
questo modo, io speravo, mentre con la cura assidua a cui era sottoposto, il
suo fisico s’irrobustiva, questa ripetizione della terza ginnasiale, gli avrebbe
permesso di rafforzare le sue fondamenta dei suoi studi per progredire poi
con maggior facilità.
Malgrado tutto io speravo ancora, perché l’esaurimento nervoso non aveva intaccato l’intelligenza, ma soltanto la memoria di mio figlio; esso capiva
benissimo tutte le spiegazioni che gli si facevano, ma disgraziatamente dimenticava facilmente le regole che gli dovevano servire per le dimostrazioni o
per le applicazioni. Per questo motivo le materie veramente difficili per lui
erano il Latino e la Matematica, mentre per l’Italiano, la Storia, la Geografia
ed il francese, andava ogni giorno migliorando, anzi, specialmente nell’Italia-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
no cominciava a dar segni non dubbi che avrebbe potuto divenire bravo. Il
prof. D’Alfonso, uno dei suoi professori di Lettere al Ginnasio Umberto I, mi
diceva che quando lo interrogava, Mario non rispondeva mai con errori; non
rispondeva perché non ricordava e per la sua istintiva timidezza, ma non sbagliava, non diceva sciocchezze. Caratteristica poi del suo cuore buono e generoso, del suo carattere dolce e mite, era il non prendere mai in cattiva parte
le osservazioni dei suoi professori, il non conservare rancore verso di essi per
i cattivi punti che gli davano. Fu in questo periodo che io studiai, assieme al
Direttore delle Scuole Tecniche che sono in piazza Vittorio Emanuele, se non
fosse stato miglior consiglio togliere mio figlio dagli studi classici e fargli
continuare gli studi Tecnici per salvarlo dal Latino che lo schiacciava; ma
dovetti convincermi pur troppo che il nostro avverso Destino non ci aveva lasciato nessuna via di salvezza. Al Ginnasio fanno studiare la matematica, ma
non danno quasi mai problemi da risolvere, mentre alle Scuole Tecniche, gli
alunni devono giornalmente in Scuola ed in caso risolvere problemi. Mio figlio capiva facilmente le spiegazioni delle diverse regole e le conosceva bene,
anzi io lo avevo spinto più avanti del programma della 3°Ginnasiale ,fino allo studio delle prime operazioni algebriche, ma quando si trattava di risolvere un problema era per Lui cosa talmente difficile che raramente gli è riuscito di risolverne qualcuno. Togliendolo perciò dal Ginnasio lo avrei salvato dal Latino, ma lo avrei messo in una via senza uscita per Lui, perché
non potendo risolvere problemi, non avrebbe avuto nessuna speranza di essere negli esami di Matematica.
Tornati quindi dai bagni di mare, durante i quali lo avevo in riposo assoluto, Mario ebbe un professore di Latino che in casa veniva preparandolo
onde potesse trovare più facile e meno faticosa la ripetizione della 3°ginnasiale. Tale preparazione mi faceva sperare che il mio Mario sarebbe passato
in 4°ginnasiale. Cominciando a trattarlo un po’ da giovinotto gli avevo detto: “Quest’anno non voglio venire a domandare informazioni ai professori,
aspetterò tranquillamente la pagella trimestrale,sicuro che tu non vorrai darmi un dispiacere”.
Ed Egli a me: “Sta tranquillo,papà che ti farò contento. Passò il primo
trimestre a la pagella non veniva; ne domandai a mio figlio parecchie volte
ed Egli mi rispondeva sempre che non gliela avevano data. Finalmente un
giorno, era il pomeriggio del 21 Gennaio del 1909, Egli confidò alla Mamma che da otto giorni teneva la pagella in tasca, ma siccome era brutta non
aveva avuto finora il coraggio di consegnarmela. Mia moglie lo sgridò, facendogli osservare che la parte più brutta era stata quella d’avermi nascosto
la verità per otto giorni e che per questo motivo doveva aspettarsi da me una
punizione, tanto più che quella era la seconda volta che gli accadeva di tenersi la pagella in tasca per otto giorni. Infatti, io ci tenevo moltissimo e non
risparmiavo cure, avvertimenti o punizioni per fare di mio figlio un giovine
franco e leale: una mancanza francamente confessata da mio figlio,era sicuramente perdonata. Il suo carattere malinconico, taciturno e poco espansivo,
mi facevano temere che potesse diventare subdolo e stavo in guardia. Pur
tuttavia quel giorno mia moglie, dopo averlo sgridato, lo incoraggiò a confessarmi la verità quindi lo accompagnò a scuola, lo baciò e lo lasciò all’angolo di via Manin.
Oggi, dopo la sua morte eroica dopo aver mostrato che possedeva al più
alto grado, i sentimenti più nobili della natura umana, si spiegano le sue azioni dell’adolescenza. Siccome questi sentimenti nobili non possono essere
spuntati fuori improvvisamente, ma venivano certamente sviluppandosi nel
suo cuore fin dall’infanzia, così questi sentimenti dovevano farlo soffrire orribilmente: questo povero figliuolo che per mancanza di memoria si vedeva
esposto ai rabuffi e qualche volta alle insolenze dei professori, alle beffe dei
compagni meno eletti di cuore ed alle punizioni, qualche volta severe del padre deve per lunghi anni aver sofferto immensamente. La scuola che per la
maggior parte dei giovanetti è il primo agone della vita, dove combattono le
loro prime battaglie e raccolgono i primi allori, provano le loro prime soddisfazioni d’amor proprio, per il povero figlio mio per un umiliazione continuata, una tortura morale senza fine; perciò il suo carattere si veniva facendo malinconico e taciturno.
Trovarsi con quella pagella in mano (che del resto a lui sembrò più brutta di quel che in realtà non fosse) Egli che aveva promesso al Papà di non dargli dispiaceri s’era inteso avvilito, gli era mancato il coraggio di presentarsi al
padre ed aveva allontanato questo momento umiliante e doloroso finché aveva potuto. Malgrado la promessa alla Mamma di consegnarmi la pagella e di
confessarmi la sua mancanza quando fosse tornato a casa, mio figlio alla sera non tornò da scuola.
Quando arrivai a casa, trovai mia moglie angustiatissima, perché era passata da un pezzo l’ora in cui Mario avrebbe dovuto essere di ritorno dalla
scuola, ma le era rimasta la speranza che mio figlio fosse venuto a prendermi
in ufficio: nel vedermi solo, dopo avermi chiesto se avevo veduto Mario, scoppiò in pianto e fra le lacrime mi raccontò l’affare della pagella, lo spavento e
lo scoraggiamento di mio figlio.
Corsi al Ginnasio Umberto I; era chiuso: annottava, tornai a casa a vedere se fosse venuto; poi andai dal portiere della casa ove abitava mia madre, in
Piazza Vittorio Emanuele n° 139. Mia madre conviveva con mio fratello e sua
moglie: il 21 gennaio era il genetliaco di entrambi; bisognava non spaventare intempestivamente mia madre ne disturbare la piccola festa familiare; perciò pregai il portiere di domandare prudentemente alla domestica di mia madre, se Mario era presso di lei o se vi era stato nel pomeriggio. Mi fu risposto
che nessuno lo aveva veduto. Con la morte nel cuore mi recai alla Questura
centrale a denunziare la scomparsa di mio figlio, raccomandandomi caldamente con le lacrime agli occhi, perché si vigilassero accuratamente le rive del
fiume dichiarandomi disposto a contribuire nella spesa per questa vigilanza.
Mi si promise tutto quello che volli, si presero minutamente i contatti di mio
figlio e degli abiti di cui era vestito, ma a me rimase l’impressione che nessuno avrebbe mosso un dito, nessuno si sarebbe incomodato a perlustrare le rive del fiume, ed i connotati sarebbero serviti soltanto per riconoscere pronta-
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MARIO MODERNI
L’ADOLESCENZA
mente il probabile annegato di domani! Tornai a casa disperato e piangente:
aprimmo tutte le persiane del nostro appartamento ed illuminammo tutte le
camere. Chissà se quel figliuolo si fosse aggirato impaurito nei dintorni, vista
la sua casa illuminata avrebbe capito che i genitori lo attendevano non era certo per fargli del male! Passammo così tutta la notte nel mio studio, piangendo
abbracciati: ogni tanto mia moglie andava a visitare la scala nella speranza di
trovarlo nascosto in qualche angolo ma il nostro Mario non comparve.
La mattina seguente mi recai in cerca di notizie alla Questura centrale, poi
al commissariato dell’Esquilino: nessuno ne sapeva nulla, tornai a casa con la
promessa che appena i fosse avuta qualche notizia mi sarebbe stata comunicata. Era l’ultimo venerdì del mese, giorno in cui mia moglie è solita ricevere
le sue amiche: nel pomeriggio capitò la signora Vittoria Dini, una delle sue
buone amiche, la quale trovò due fantasmi piangenti che si torcevano le mani dalla paura e dalla disperazione, nell’impotenza di poter far nulla per ritrovare il figlio scomparso. Impressionata dell’accaduto e dal vederci soli e
abbandonati senza nessuno che ci confortasse e ci aiutasse in quel tremendo
momento della nostra vita, di sua iniziativa si recò da mia madre benché non
la conoscesse per metterla al corrente di tutto.
Fu ricevuta da mia cognata, la quale avrebbe voluto impedire che la signora Dini vedesse mia madre, ma di fronte alla risolutezza della signora,
che affermava di aver urgente bisogno di parlare con la vedova Moderni, dovette cedere e chiamarla. Alla notizia della scomparsa del nipote, che essa
adorava, mia madre rimase come fulminata. Malgrado ciò avendole la signora Dini detto dello stato pietoso in cui io mi trovavo e che suo stretto dovere era di correre verso di me, la povera vecchia (aveva allora 84 anni) si
era alzata per andarsi a vestire, quando mia cognata, che stava ad origliare
entrò e con intonazione da padrona disse a mia madre: - Lei non deve uscire e non si muoverà di qui; in quanto a mio cognato gli dica pure che suo figlio non lo vedrà più!
La signora Dini venne adirata e nauseata a raccontarmi subito l’accaduto, dal quale emergeva chiaramente che mia cognata sapeva dove trovavasi
mio figlio. Il giorno appresso ricevetti una lettera di Mario: riconobbi lo stile
di mio fratello e non dubitai più che mio figlio fosse caduto in un trabocchetto. Quella lettera era quasi un atto di ribellione, era un fenomenale atto
di incoscienza commesso da mio fratello sotto la suggestione di sua moglie,
quella lettera era un delitto.
Non esitai più: incaricai il mio avvocato di sporgere querela contro mio
fratello per sequestro di minorenne mentre un amico si incaricava di parlare
della cosa al Prefetto di Roma, ed un altro amico ne informava il sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno. Da quest’ultimo veniva subito impartito l’ordine alla Questura perché il minorenne Mario Moderni fosse immediatamente restituito a suo padre che lo richiedeva, ed in caso di resistenza a
quell’ordine fosse arrestato lo zio Ernesto che lo riteneva. La sera del lunedì,
25 gennaio mio fratello condusse mio figlio al Commissariato di Pubblica Sicurezza dell’Esquilino, come gli era stato imposto, ma ve lo condusse trave-
stito da soldato bersagliere, una pagliacciata addirittura! Ad attenderlo vi era
andata mia moglie accompagnata da due signorine nostre coinquiline, amiche d’infanzia del mio Mario: questo povero ragazzo era stato talmente spaventato e suggestionato che da principio dichiarò precisamente di non voler
più tornare alla casa paterna; a nulla valsero le esortazioni delle sue due amiche che gli ricordavano tutto l’affetto e le premure dei suoi genitori; la scenata si prolungava ma quando vide la Mamma scoppiare in pianto dirotto ed investire il cognato con frasi roventi, che erano purtroppo assai ben meritate, e
rimproverare al figlio la sua ingratitudine, il ragazzo non poté più resistere e si
slanciò piangendo al collo della madre chiedendole perdono. Io non avevo voluto trovarmi al Commissariato, ma insistenti messaggi del Commissario mi
obbligarono ad intervenire all’ultimo momento, ed incontrai sulla scala mia
moglie alla quale era già stato restituito nostro figlio: dietro invito del Commissario non esitai subito a perdonare mio figlio, ad abbracciarlo e baciarlo.
Vediamo ora cosa era successo il 21 Gennaio, dopo che mia moglie ebbe
lasciato Mario sull’angolo di Via Manin: il ragazzo era umiliato di non aver
riportato una buona pagella come mi aveva promesso; era irritato, probabilmente, dal sapere che dal canto suo aveva fatto il possibile per mantenere la
promessa; era spaventato dalla mancanza della promessa per la seconda volta, di tenersi cioè per otto giorni in tasca, nascondendomi la verità; arrivato
a scuola in quelle condizioni d’animo trovò che per indisposizione del professore e per altra causa che in questo momento mi sfugge quel giorno non c’era lezione nella sua classe. Sapendo che a casa non avrebbe trovato mia moglie perché uscita, pensò di recarsi dalla Nonna dalla quale si sapeva amato
teneramente, a raccontarle le sue pene ed in cerca di protezione. Tutto ciò è
umano. Disgraziatamente fu proprio mia cognata che andò ad aprire la porta a mio figlio e fu proprio ad essa che quel ragazzo umiliato, irritato e spaventato, raccontò i suoi casi.
Una donna che avrebbe avuto un pizzico di buon senso ed un briciolo di
cuore, avrebbe capito subito che suo stretto dovere era quello di farmi conoscere direttamente o per mezzo di mia madre, lo stato di esaltazione in cui trovarsi Mario e, se una parte simpatica voleva rappresentare in quella faccenda, farsi mediatrice del perdono, per la ritardata consegna della pagella, che
non avrebbe faticato molto ad ottenere. Invece questa donna nefasta per la
mia famiglia, che mio fratello andò a raccattare nelle sacrestie; questa donna
che non ebbe mai un pensiero gentile ne una parola cortese per nessun membro della famiglia Moderni, che pur tutti l’anno circondata di cure e d’affetto; questa donna che con il suo egoismo, e le sue sgarberie ha fatto piangere
mia madre e la madre di Mario, che si era resa insopportabile a mia zia ed a
mio padre; questa donna ignorante e orgogliosa che non aveva potuto aver figli, malgrado i paternoster recitati ed ogni sorta di medicine ingoiate; questa
donna che aveva visto con rabbia il piccolo patrimonio di mia madre lasciato per testamento direttamente a Mario, per impedire che una parte di questo patrimonio, per la debolezza di carattere di mio fratello, andasse a finire
nelle mani dei suoi parenti; questa donna che per anni aveva aizzato suo ma-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
rito contro la madre, perché non gli aveva lasciato la metà del suo piccolo patrimonio, ma soltanto poco più della metà del suo reddito netto, vistosi improvvisamente davanti quel povero ragazzo in quello stato, nella sua sconfinata ignoranza credette che fosse sufficiente farmi accusare di maltrattamenti per impossessarsi di mio figlio, e per amministrarne più tardi il piccolo patrimonio lasciatogli da mia madre.
Introdottolo in una camera che guardava nel cortile, ivi lo chiuse perché la
Nonna non lo vedesse e non guastasse i suoi disegni, mentre essa vestivasi in
fretta. Approfittando che l’appartamento trovavasi al mezzanino e che in prossimità di una finestra vi era il tetto delle fontane, lo fece discendere, non senza pericolo che si facesse del male, nel cortile che apparteneva ad un altro fabbricato, evitando cosi che la portiera della sua abitazione, la quale non aveva
udito Mario entrare non lo vedesse neppure uscire. Quindi uscita anch’essa, fece salire mio figlio in una vettura coperta e lo condusse da suo marito, al quale raccontò i pericoli che correva quel povero figliuolo nelle mani di un padre
violento, barbaro e disumano, che tornando a casa chissà in che poltiglia sanguinolenta lo avrebbe ridotto! Figurarsi quale impressione tutta questa commedia doveva produrre nell’ animo di quel ragazzo! In quanto a mio fratello,
è un uomo onesto e di buon cuore, ma sua moglie è riuscita a dominarlo completamente e a fargli fare tutto quello che essa vuole: come sia riuscita a martirizzarlo in modo da averlo sempre ossequiente alla sua volontà é un mistero.
Non con il profumo della gioventù, perché hanno la stessa età, essendo nati
nello stesso giorno del medesimo anno, e l’ha sposata quando era già prossima
ai 30 anni; non con la bellezza, perché non è stata mai bella, anzi è quasi gobba; non con la grazia, perché si fa invece rimarcare da tutti per la sua sgarberia; non per l’educazione, perché ne ha pochina; non per l’istruzione e la cultura, perché non credo che sia riuscita a terminare le scuole elementari, e tutta la sua cultura si arresta a tutto quello che ha imparato nella dottrina cristiana e nei romanzi che legge nelle appendici dei giornali. Comunque sia, tutti della nostra famiglia hanno dovuto constatare che quell’uomo dal carattere
debole, non aveva la forza di resistere alla volontà della moglie, e finiva per far
sempre quello che essa voleva. Ed appunto per questa ragione, nostra madre,
la quale desiderava che il suo piccolo patrimonio fosse andato per intero a mio
figlio, cioè all’unico nipote che aveva, desiderava me e mio fratello, lasciandoci semplicemente usufruttuari, con la condizione che qualunque dei figli
non si fosse rassegnato a questa sua volontà, gli fosse toccata soltanto la legittima. A questo modo essa provvedeva che nessuna parte del suo piccolo patrimonio, potesse da mio fratello, sotto l’influenza della moglie, essere lasciata alla di lei famiglia (cosa che fortunatamente poi non é avvenuta). Mio fratello, di carattere ampolloso ed esagerato, inteso da sua moglie che si trattava di salvare suo nipote da certo sterminio, per impedire che di quell’esile corpicino se ne facessero salsicce, nuovo Don Chisciotte, accettò subito di fare
questo salvataggio e si accordarono di condurre Mario in casa di una famiglia
di loro conoscenti nel Quartiere di Villa Ludovisi, ed ivi tenerlo nascosto. Cosa ne volessero fare poi, non so, ne mi sono curato di sapere; dalle parole sfug-
gite il domani a mia cognata, davanti alla Signora Dini, seppi che sperava di
non dovermelo più restituire.
Messo ad esecuzione il loro piano, se ne tornarono a casa sereni e tranquilli, come se avessero compiuto una buona azione. La sera vi fu pranzo da mio
fratello con intervento di parenti di mia cognata, per festeggiare il genetliaco
suo e di sua moglie. Si trattennero fino a tarda ora, mangiando e bevendo spumante, senza che a mio fratello ed a mia cognata passasse per la testa che, in
quel momento stesso, per loro colpa, un loro strettissimo congiunto, un povero
padre, con angoscia mortale nel cuore, piangendo lacrime di fuoco, correva per
Roma alla ricerca del suo unico figlio, tenendo conto un qualche atto inconsulto, commesso in un momento d’esaltazione, gli vietasse di riabbracciarlo. Caini!
E non tengo conto del dolore di mia moglie… una matrigna! Si poteva credere, si poteva preoccuparsi del dolore di una matrigna?! Questo nome antipatico che mia cognata faceva risuonare spesso all’orecchio di mia madre, perché
non si affezionasse a mia moglie!…
Cara e santa compagna mia, che rinunziava spontaneamente alla gioia di
essere madre, rifiutando di sottoporsi ad una lievissima operazione chirurgica
di cui aveva bisogno (la stessa subita dalla madre di Mario) perché nessuno
potesse mai dubitare che tutto il suo affetto, tutte le sue cure, tutti i suoi pensieri, tutta la sua vita, erano dedicati (come era riservata la pingue eredità che,
figlia unica, avrebbe avuta da sua madre) esclusivamente al caro orfanello ereditato!… Mario conosceva la sua devozione, Mario aveva visto il suo pianto,
Mario aveva visto il suo dolore e ne la ricompensava con il suo affetto e con la
sua tenerezza; Mario sarebbe stato la consolazione per la sua vecchiezza!
Avevo perdonato sinceramente a mio figlio, tanto più facilmente in quanto che avevo veduto subito che il meno colpevole, per il dolore e per lo spavento procuratici, era proprio Lui; ma sia per l’accusa di maltrattamenti lanciatami, accusa della quale poteva per lo meno restare qualche sospetto, nell’animo di chi aveva dovuto trattare la pratica della riconsegna di mio figlio
alla casa paterna; sia per far provare a mio figlio la lontananza della famiglia; sia per isolarlo e toglierlo dalle suggestioni dei miei parenti, decisi subito che mio figlio fosse subito rinchiuso in un Collegio fuori di Roma: perché in questa circostanza avevo dovuto constatare, che il carattere dolce e
mite di Mario, presentava un lato pericoloso, quello cioè di essere facilmente suggestionabile.
Alla scappata di mio figlio aveva contribuito involontariamente anche mia
madre: essa aveva questo unico nipote e lo amava con quell’incoscienza caratteristica delle Nonne che hanno un solo nipote; Vedeva Mario avanzare faticosamente in scuola, della quale essa non capiva il bisogno: aveva lasciato suo nipote erede del suo piccolo patrimonio e le sembrava che qualunque altra piccola cosa avesse guadagnato, gli sarebbe bastata per vivere, senza affaticarsi, senza ammazzarsi a studiare; Non ero riuscito a farle comprendere, che la rendita
del piccolo patrimonio poteva bastare ad essa, povera vecchia, ma non poteva
essere sufficiente per Mario, il quale doveva formarsi una famiglia; da qui il bisogno di avviarsi ad una professione in armonia con il grado sociale della fami-
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L’ADOLESCENZA
glia alla quale apparteneva, e con l’educazione che aveva ricevuto. Non ero riuscito a farle comprendere, che se anche la rendita del patrimonio lasciato a
Mario fosse stata assai maggiore e tale da permettergli di vivere agiatamente
senza lavorare, pur tuttavia sarebbe stato indispensabile avviare mio figlio ad
una carriera, anzitutto perché ai nostri tempi un giovane senza istruzione, senza cultura, è un giovane che nella società moderna sarebbe stato uno spostato.
In secondo luogo, anche un giovane ricco, ma senza istruzione, quindi senza
possibilità di occupare in qualche modo il suo tempo, avrebbe finito per contrarre dei vizi e dilapidare il suo patrimonio.
Così mentre io mi dibattevo contro serie difficoltà perché mio figlio, sia pure lentamente potesse almeno compiere gli studi ginnasiali; mentre lottavo con
l’esaurimento nervoso, mentre tentavo di delimitare dove arrivava l’impotenza
e cominciava la stanchezza, il disamore ad una cosa che costa troppa fatica a
compiersi; invece di essere aiutato da mia madre con incoraggiamenti a Mario,
perché facesse del suo meglio per raggiungere la meta segnatagli dal padre, mia
madre finiva di scoraggiarlo e di disamorarlo sempre più dallo studio, con il suo
continuo brontolamento contro l’inutilità di quegli studi, superiori alle forze del
suo amato nipote. Si metta qualunque ragazzo nelle condizioni in cui, per lungo tempo, si trovò mio figlio e si vedrà che senza l’eccezionale bontà di Mario,
senza la sua dolcezza e docilità di carattere, esso si sarebbe guastato e perduto
irreparabilmente. Infatti, da una parte mia madre, che gli regalava dolci e danari finché ne voleva e qualunque cosa avesse desiderato, da una parte questa
Nonna la quale avrebbe voluto che, lasciati gli studi non avesse pensato che a
divertirsi; dall’altra parte il padre che con le buone, ma se occorreva anche con
le cattive, lo spingeva avanti non lesinando spese di libri e professori privati per
aiutarlo, onde potesse arrivare a compiere il corso ginnasiale, e naturalmente
qualunque ragazzo si sarebbe sentito attratto verso la Nonna e avrebbe creduto il padre un tiranno!
Né basta, quando morì la madre di Mario, la nonna non volle venire a prendere la direzione della mia casa, evidentemente perché sperava che, messo nella impossibilità di vedere altrimenti, avrei finito per affidare mio figlio ad essa
che lo avrebbe allevato a modo suo. L’aiuto offertomi dalla signorina Gordini,
scombussolò tutti i suoi piani, e mia madre non poté vedere di buon occhio questa specie d’intrusa che s’installava nella casa di suo figlio. Peggio ancora quando la signorina Gordini divenne mia moglie: naturalmente mia cognata lavorava continuamente a far crescere l’antipatia di mia madre verso la matrigna di
suo nipote. Mia madre riconosceva che questo suo nipote era trattato da mia
moglie con affetto di vera madre; che questa matrigna non gli faceva mancar
nulla, non lo lasciava un momento; aveva visto con orgoglio questo suo bel nipote vestito sempre elegantemente con abiti fatti dalla matrigna; aveva visto
questa matrigna, per il suo adorato figliastro, imitare financo un abito in velluto turchino con guarnizione di pizzi, che da bambino aveva portato il Re Vittorio Emanuele III! Anche da giovinetto questo suo nipote, era sempre elegante,
sempre pulito e bene educato ogni qualvolta veniva in casa mia, non poteva fare a meno di rimarcare l’ordine, la nettezza, la ricercatezza con cui era tenuto il
mio appartamento; non poteva fare ameno di osservare in quale ambiente sano
moralmente e materialmente cresceva suo nipote non poteva fare a meno di stabilire confronti poco lusinghieri per mia cognata, per la poca cura che essa aveva della sua casa, dei suoi mobili, della sua biancheria e dei suoi abiti. Non poteva fare a meno essa, che per la casa aveva un culto di fare gli elogi a mia moglie e mostrare il suo dispiacere di non poter dire altrettanto di mia cognata. Parlando con degli estranei, non poteva fare a meno di lodare le maniere cortesi ed
affettuose con le quali era sempre accolta da mia moglie e di lamentarsi delle
continue sgarberie che riceveva da mia cognata, dei dispiaceri che questa sua
nuora le procurava, mettendola continuamente in conflitto con il figlio. Di tutto
questo però essa si dimenticava, quando poteva avere Mario con sé allora essa si
ricordava soltanto che mia moglie era la matrigna di suo nipote e gli andava sussurrando delle cose che dette ad un ragazzo meno buono e meno affezionato, lo
avrebbero allontanato per sempre da quella povera donna che gli aveva consacrata la sua esistenza. Fra l’altro vi era la seguente insinuazione la quale forzava maledettamente di sacristia e perciò, molto probabilmente, doveva provenire
da mia cognata: “quando tuo padre morrà, la tua matrigna ti si prenderà tutto,
si sposerà un altro uomo e se ne andrà”. Insinuazione priva di senso comune,
perché se gli anni passavano per me, dovevano passare per mio figlio e per mia
moglie: l’uno diventava uomo adulto, l’altra diventava vecchia mentre d’altra
parte vi erano i testamenti di mia madre e mio, che regolavano gli interessi della famiglia. Questa insinuazione che veniva ripetuta continuamente a mio figlio,
ci era stata riferita da mio figlio stesso;
Avevo pregato parecchie volte, mia madre di smettere quel sistema che danneggiava l’educazione, il cuore e l’avvenire di suo nipote, avevo inutilmente dimostrato a mia madre, come mia moglie essendo la più giovane della famiglia,
era forse con essa che Mario avrebbe dovuto vivere più lungamente; era quindi
questa donna che avrebbe dovuto incoraggiarlo con il suo affetto e con i suoi
consigli a sopportare le avversità, le disgrazie, i dolori che il destino riserba a tutti nella vita; doveva essere logico perciò spingere sempre più Mario verso questa
donna, perché gli rimanesse al fianco, il più lungamente possibile, una persona
che lo amava teneramente; non allontanarlo da essa, perché restasse, forse assai
giovane, solo al mondo, senza l’affetto, il conforto, i consigli di una madre. L’antipatia di mia madre dovuta in gran parte al lavorio incessante di mia cognata,
era però più forte delle mie ragioni e non ottenevo da essa quanto desideravo.
Per quanto doloroso dovesse riuscire a me ed ad mia moglie il separarci
dal nostro Mario, pure, dopo quanto era avvenuto, s’imponeva per l’avvenire
stesso del mio amato figliolo. La scelta del collegio presentò delle difficoltà
non lievi, che però dei buoni amici mi aiutarono a superare in pochi giorni, e
così ebbi la fortuna di potere collocare il mio Mario a Velletri, nel Collegio
Clemente Cardinali, annesso alla scuola normale, vicinissimo a Roma e quindi in condizioni da poter andare facilmente a vedere mio figlio, ogni volta che
lo avessi voluto.
Il 31 Gennaio, io e mia moglie lo accompagnammo in Collegio, dove Egli si
rassegnava d’entrare, ma non era difficile indovinare che vi andava di assai cat-
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tiva voglia. Giunti a Velletri la mattina, andammo a visitare la nuova casa del
nostro Mario, vi portammo il suo baule, ma poi chiedemmo che ci fosse concesso di tenerlo a pranzo con noi all’albergo e non condurlo in Collegio che allora della nostra partenza per Roma. Al direttore diedi istruzioni perché all’infuori di me e di mia moglie nessun’altra persona, nessun altro parente potesse
vedere e parlare con mio figlio; che nessuna lettera Esso potesse ricevere, che
non portasse esternamente la mia firma. Arrivata l’ora di fare ritorno a Roma,
mia moglie non ebbe la forza di accompagnarlo in collegio, ma preferì separarsi da Lui in una camera dell’albergo, dove poté liberamente dare sfogo al suo
pianto ed al suo dolore. Mario si staccò dal collo della Mamma commosso e
piangente, e ci incamminammo assieme verso il Collegio Cardinali, situato nella parte più alta della città: il Censore ci attendeva e, con il cuore stretto, gli
consegnai mio figlio, dal quale non mi ero mai staccato. Ci abbracciammo e baciammo ripetutamente, poi, salutato il censore, mi avviai per uscire: percorso
un lato del portico che inquadra il cortile, prima di arrivare alla porta di uscita, mi voltai per salutare ancora una volta mio figlio. Mario era là, vicino al censore, alla metà del portico, come impietrito; dagli occhi, nei quali si leggeva un
supremo sconforto, scendevano silenziose ed abbondanti lacrime. Lo sguardo
disperato di quel ragazzo mi sta ancora fisso nel cuore. Dovetti farmi forza per
non tornare indietro, prenderlo e portarmelo via. In quel momento maledissi dal
più profondo del cuore chi aveva resa necessaria quella separazione, che straziava il cuore di Mario, il mio e quello di mia moglie.
Oltre al pagamento della retta, oltre alle poche lire che avevo lasciato a Mario per piccoli divertimenti, assegno rinnovabile mensilmente, nella misura prescritta dai regolamenti del Collegio, avevo pure depositato nella cassa del Collegio una piccola somma per far fronte a tutte quelle spese straordinarie, specialmente per eventuali malattie, che potessero manifestarsi. Io e mia moglie
scrivevamo a nostro figlio 3 o 4 lettere alla settimana; nello stesso periodo di
tempo, Egli non poteva che scriverci che 2 lettere. Andavo a trovarlo ordinariamente 2 volte a mese, ma vi erano poi le visite straordinarie; spesso mia moglie mi accompagnava.
Pochi giorni dopo l’entrata di Mario in Collegio, avvenne un fatto che colpì fortemente la sua immaginazione: un suo compagno, un abbruzzese, se non
erro di Avezzano, che nella camerata aveva il letto vicino a quello di mio figlio, ammalatosi di meningite, si trovò subito in condizioni disperate: fu telegrafato al padre il quale partì immediatamente per Velletri, dove giunse
quando il figlio era già spirato da un ora! Tutti i collegiali presero parte al funerale e Mario, ultimo arrivato, fu incaricato di dare l’estremo saluto al compagno perduto.
Mario me ne scrisse subito, con parole che rivelavano come quel fatto pietoso lo avesse impressionato, aveva veduto morire quel povero ragazzo, in mezzo
a persone estranee, senza il bacio del Babbo e della Mamma; aveva visto la disperazione di quel povero padre che non aveva trovato che un cadavere da baciare. Dalla sua lettera traspariva la preoccupazione che un caso simile potesse
accadere anche a lui! Se avesse potuto allora immaginare che anche Lui sareb-
be morto lontano dalla sua famiglia, senza il bacio, il conforto, l’assistenza dei
suoi cari!… Intanto aveva ripreso le sue lezioni al Ginnasio: si trovava in un
ambiente più calmo in terza ginnasiale non vi erano che 7 alunni e perciò il professore poteva meglio occuparsi di ogni singolo studente. A Velletri si rivelò più
decisamente la sua disposizione per la lingua italiana, e presto, professore e condiscepoli, riconobbero che per la lingua italiana Egli era il migliore della sua
classe: questa piccola soddisfazione di amor proprio rafforzò alquanto il suo coraggio, ed il mio Mario tornò a sperare di poter fare contento il babbo; ottenendo la licenza ginnasiale.
Non potendolo avere a Roma durante il carnevale, perché i regolamenti
del Collegio non lo permettevano, per non lasciarlo chiuso nella sua prigione
l’ultimo giorno di carnevale, decidemmo di andare noi a passare quella giornata a Velletri. Il penultimo giorno di carnevale a mia moglie venne un attacco di Influenza con febbre, e temetti che il piccolo divertimento promesso
al nostro Mario dovesse sfumare; ma il mattino seguente mia moglie, ingannandomi, mi disse di non avere più febbre, di sentirsi bene e partimmo con il
primo treno per Velletri, benché la notte avesse nevicato e i monti laziali fossero tutti bianchi di neve. Non era vero che mia moglie fosse guarita: essa
continuava ad avere il suo attacco di Influenza, alquanto attenuato, ma con
l’abnegazione e con la devozione di cui sono capaci soltanto le madri, questa
matrigna, conto le quali si aizzavano i sospetti e le antipatie di mia madre, si
alzò dal letto con tutta la febbre alle 5.30 del mattino, commettendo certamente un’imprudenza che avrebbe potuto avere serie conseguenze, perché il
suo adorato figliastro non restasse solo chiuso in Collegio. Ottenemmo facilmente dal Direttore il permesso di averlo con noi tutto il giorno e tutta la notte, fino all’indomani all’ora del pranzo. Anzi il Direttore ci procurò il modo di
poterlo condurre alla festa da ballo che dava il circolo di Velletri. Fu una giornata di felicità per mio figlio, e, mia moglie, contenta nel vederlo felice, non
si accorgeva dell’Influenza che aveva addosso; appoggiata al suo braccio passeggiò lungamente per le strade principali di Velletri, dove eravi il gettito di
fiori e coriandoli. Alla sera andammo alla festa da ballo dove ci trattenemmo
fino all’una dopo la mezzanotte e, fatta una buona cenetta al Ristorante del
Circolo, ce ne tornammo all’albergo: avevo preso una camera con due letti per
non separarci da Lui neppure quelle poche ore della notte. In un letto si coricò mia moglie, nell’altro mi coricai io con Mario e così abbracciati passammo tutta la notte a chiacchierare: aveva fatto un bel tema di italiano che il
professore gli aveva classificato con 9/10 e me lo raccontava a memoria; dal
suo racconto traspariva la contentezza di essere primo in qualche materia
quand’ebbe finito gli dissi: “Perché non lo metti in versi, nelle ore libere che
hai e me lo mandi poi a Roma?”.
“Si papà – Mi rispose”; infatti pochi giorni dopo mi arrivarono alcune pagine di versi che, se avevano bisogno di un lungo lavoro di limatura, non pertanto dimostravano una facilità non comune di verseggiare ed una tavolozza assai
ricca. Il domani, giorno delle ceneri, dopo aver fatto colazione con noi, lo riaccompagnai in Collegio all’ora stabilita. Però quel ragazzo che in casa sua era
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L’ADOLESCENZA
abituato a svegliarsi fra i baci del Papà e della Mamma; che alla notte si addormentava tra i baci dei suoi cari; che tutto il giorno sentiva dei essere lo scopo della vita di quei due esseri, che in casa sua si trovava in mezzo a tante piccole comodità, quali soltanto la delicatezza della donna sa inventare e le sue dita di fata confezionare; trasportato improvvisamente nel freddo ambiente di un
Collegio, dove non vi erano le sgridate del Babbo e della Mamma, ma non vi
erano nemmeno il oro baci e le loro carezze, i loro aiuti ed i loro incoraggiamenti, non vi erano più le punizioni, che si potevano sempre evitare con delle
scuse e delle promesse, ma la severa ed inesorabile disciplina che nessuno può
modificare, nessuno può infrangere; quel ragazzo affettuoso, di poche parole e
poco espansivo, che aveva però bisogno d’essere circondato d’affetto, in Collegio doveva sentirsi infelice fin dal primo giorno poté misurare tutta la gravità
dell’errore commesso. Sul principio sopportò in silenzio e con rassegnazione la
sua nuova posizione, ma quando, dopo Carnevale e dopo essere venuto a fare
la Pasqua in famiglia, dalle dimostrazioni affettuose ricevute da me e da mia
moglie, fatto certo che nessun rancore io gli conservavo e lo spiacevolissimo avvenimento che lo aveva condotto in Collegio, si fece coraggio e nelle sue lettere
mi aprì l’anima sua.
Riporto due di queste lettere, nelle quali vi sono delle parole un po’ dure,
strappategli dal dolore, verso chi era stato la causa della sua relegazione.
Velletri, 17 aprile 1909
Mio caro Papà
Da quando sono giunto in Velletri mi sento poco bene, ciò però
non deve allarmarti perché capisco che è cosa da nulla.
Mi sono pentito di quello che ho fatto, mi sono accorto del dolore che ti ho procurato, e che fu aumentato da gente estranea alla quale io incoscientemente ho ricorso, in un momento di esaltazione nervosa. Capisco ora il loro torto ed il mio, e mi trovo qui solo, lontano dalla famiglia, senza un aiuto, senza che nessuno si curi di me, lontano dall’affetto tuo e di Mamma. Ho promesso a me
stesso di cambiar vita e comincerò col dirti la verità, nel tenerti
nulla celato, di essere espansivo rendendoti ancora felice.
Io a Velletri non mi ci posso vedere, vi penso sempre, penso sempre alla mia casetta e sarebbe mio vivo desiderio di tornare a casa e passare la vita mia con voi. Ti prometto che coloro che hanno contribuito ad addolorarti, saranno sempre miei nemici, tanto
più che ho saputo altre cose sul loro conto, che fanno veramente
vergogna di essergli parenti. (qui vi è dell’esagerazione; ad ogni
modo deve riferirsi ai parenti di mia cognata ) Quella casa sarà da
me schivata come luogo pernicioso e mai più essi vedranno il mio
viso. Te lo prometto veramente convinto di cosa siano capaci di fare quella gente. Per quest’anno passerò questi altri 64 giorni, die-
ci settimane (contava pure le ore povero figlio!) a Velletri, ma quest’altro anno voglio passare la Pasqua a casa mia, facendo risparmiare tanti denari a te, ed essere meglio custodito.
Lontano da te riconosco quanto mai era utile il tuo aiuto e sono pronto a ritornare sotto la tua autorità di padre, non avendo io
fatto quel passo se non in un momento di esaltazione ed istigato
da voci maligne. Io mi sottometto nuovamente da buon figlio sotto
la tua autorità ed amorevole severità.
Voglio tornare a fare il cavaliere di mamma, a renderle i servizietti, onde ricompensarla in parte di tutto quello che ha fatto e fa per me.
In quanto a Nonna, essa non mi vedrà che a tuo piacere, perché non voglio essere messo su, conoscendo il mio carattere, da
quella gente; insomma, non voglio più essere istigato e sono tutti
morti per me. Ti bacio affettuosamente insieme con Mamma, che
mi pare già tanti anni che non la vedo, mi pare di non essere stato affatto a casa, e rendo i miei saluti anche al signor Cozzolino
(un professore di disegno mio amico), ringraziandolo dei suoi avvertimenti che mi ha dati prima ch’io ritornassi in Convitto.
Ti bacio nuovamente.
Mario
Velletri, aprile 1919
Carissimo Papà
Ho il piacere di farti conoscere che ho avuto il permesso di studiare nelle ore che tu desideravi. Anch’io sono felice di ciò e sto studiando tutto il latino del primo e secondo anno. In tutto, ora studio 11 ore al giorno perché:
1 Ora la mattina
2 ore a scuola
1 ora prima di pranzo
2 ore dopo pranzo
2 ore a scuola
1 ora dopo scuola
2 ore la sera
Totale 11
Il professore già s’è accorto del piccolo miglioramento e
m’ha confortato a proseguire: l’altro giorno in classe i compagni, siccome seppi bene la metrica latina ed egli mi fece degli elogi, dissero al professore ch’io studiavo 11 ore al giorno,
dopo avermi lodato ha esclamato, studi e vedrà che nella vi-
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ta si troverà felice; un fulgido avvenire è a lei davanti!
Sono stato esonerato dalla ginnastica, quindi quell’ora la
dedico allo studio della roba vecchia. Il dopo pranzo però studio passeggiando nei deserti corridoi perché il Censore mi ha
proibito di stare nella sala da studio, temendo che lo stare inclinato sul tavolino possa nuocermi 2.
Ricordo ora la mia cameretta profumata, baciata dai raggi del sole e rinfrescata dal venticello, saturo di mille affluvi
soavi! Ricordo la mia terrazza fiorita, dove tante volte andavo
a studiare la mattina e vedevo di li sorgere il sole! Quanti dolci ricordi mi rimembra la mia cameretta per ora deserta! Vorrei essere un uccello per fuggire dal Convitto e venire a godermela tranquillamente, quando la sera con le persiane aperte è
baciata dai raggi del sole morente!
Ma voglio ritornare ad abitarti nuovamente o mia cameretta, voglio ritornare dal mio triste esilio per non distaccarmi
mai più da te!
Sto prendendo lo ioduro regolarmente e siccome spuntava
qualche foruncolo mi sono fatto rinnovare la pomata Helmerich.
Studio, caro Papà e spero che le mie fatiche non vadano perdute.
Come sta mamma? Perché non mi scrive? Giacchè non posso sentire la sua voce amorosa, abbia almeno la sua scrittura
che mi ricordi di lei.
Saluto tutti, le Budini (quelle signorine nostre coinquiline
che accompagnarono mia moglie al commissariato), la Pettinati e il signor Corzolino, al quale dirai che sto mettendo in
esecuzione i suoi saggi avvertimenti.
Ti abbraccia e ti bacia il tuo affezionatissimo figlio.
Mario
Se mio figlio desiderava così ardentemente di venir via da un buon Collegio vicinissimo a Roma, dove tutti gli volevano bene, dove aveva dei buoni compagni da stare insieme e per fare delle amene e salutari passeggiate;
se questo povero figliuolo rimpiangeva così amaramente la sua cameretta,
ciò significava chiaramente che non ci si doveva trovare tanto male, quanto la mia cognata avrebbe voluto far credere! Se Mario non si poteva vedere a Velletri, io e mia Moglie non potevamo vederci soli senza quel figlio,
nella nostra casa si era fatto un vuoto che non era facile colmare! Fin da
quando andammo a passare con lui l’ultimo giorno di Carnevale in Velletri,
e potemmo constatare il dolore suo e per la lontananza da noi, la sua gioia
di vederci e poter passare una giornata in nostra compagnia, la sua completa sottomissione alla nostra volontà, fra me e mia moglie era stato convenuto che a giugno, alla fine cioè dell’anno scolastico, il nostro Mario sarebbe tornato definitivamente a casa con noi ed in Collegio non sarebbe più
tornato; pur continuavo a fargli credere che la cosa non fosse stato così fa2: essendo leggermente miope per leggere o scrivere si coricava molto sul tavolo.
cile come a lui sembrava, poiché la sua scappata, le parole dette da suo zio,
avanti alle autorità, mi legavano le mani e malgrado la mia buona volontà
non me la sentivo di assumermi una simile responsabilità. Mia Moglie invece lo incoraggiava, dicendogli che il Papà gli voleva bene e che lo avrebbe
accontentato sicuramente, quando avesse potuto essere certo che nessuna
scenata, come quella avvenuta, si sarebbe più ripetuta; del resto che stesse
tranquillo e studiasse di buona voglia, che avrebbe pensato essa a spingere
Papà a fare quanto egli desiderava.
Ed il povero figlio, studiava fino ad 11 ore al giorno, una fatica enorme,
insopportabile per lui, onde accontentare il Papà e farsi anche perdonare
con lo studio il fallo… la cui responsabilità risaliva ad altri! Infatti nello
studio aveva fatto davvero progressi: in Italiano prendeva spesso 9/10, i
suoi compagni si rivolgevano sempre a lui per avere un parere su componimenti italiani, in tutte le altre materie se la cavava, soltanto in latino continuava ad essere la sua bestia nera. Se per applicarsi però più ad una materia per qualche giorno ne trascurava un’altra, prendeva subito cattivissime classificazioni come se quella materia non l’avesse mai studiata. 11 ore
di studio al giorno mi impensierivano seriamente; sapevo che a quel modo
mio figlio non avrebbe potuto resistere lungamente e temevo che da un momento all’altro potesse essere colpito da grave malattia. Purtroppo cominciavo ad intravedere l’impossibilità di fargli terminare il corso ginnasiale
ma prima di prendere qualsiasi risoluzione scrissi ripetutamente al prof.
Giacomo De Juliis professore di lettere di Mario, chiedendo il suo autorevole parere. I due brani di lettere scrittemi dal professore, in risposta alle mie,
sono interessantissimi e dimostrano in quali grandi difficoltà ci dibattevamo io e mio figlio.
Velletri, 12 aprile 1909
Preg.mo Sig Colonnello
E passo subito all’argomento che, a giusta ragione le sta
tanto a cuore. Il suo figliuolo, che ha un’indole eccellente ed
una intelligenza più che idonea a superare tutte le difficoltà
negli studi è arrivato alla mia classe impreparatissimo.
In Latino egli manca di elementari fondamenta e se non si
ripara a tempo, si perderà irremissibilmente per gli studi classici. E sarà un gran male, perché il giovinetto ha naturale gusto letterario, colorita fantasia e di sentimento. Ma Ella sa benissimo che, se un giardino è coltivato come un terreno da semina la produzione non sarà di fiori certamente. Li è in tempo a riparare, ma occorrono una grande volontà e una grande pazienza.
Dev.mo
Giacomo De Juliis
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L’ADOLESCENZA
Velletri, 31 maggio 1909
Preg.mo Sig. Colonnello
Veggo che nel suo cuore batte un sol palpito: l’immenso affetto pel suo caro figliuolo. Ed ha ragione: che cosa mai vi può essere di più alto, di più nobile e di più dolce nella vita? Ed io che
lo provo me ne intendo: ho anch’io come Lei, un unico figliuolo.
Ciò dico per assicurarla che egli riceve da me cure paterne
e però stia tranquillo. Ma l’ingannerei se non Le dicessi che,
quanto al Latino egli trovasi male assai: avrebbe bisogno di
ricominciare da capo, dai primi esercizi, attentamente, con
metodo accurato, e senza salti di sorta.
Ritengo, poi, e sono a ripeterglielo, che, abbandonando gli
studi classici, farebbe male assai! Ma non vorrei che vi fosse
costretto dal disagio morale e dallo sconforto che viene naturalmente nel ritrovarsi in condizioni impari di fronte ai compagni di scuola.
E questo bisognerà anzitutto evitare.
Gradisca i miei ossequi
Sono Dev.mo
G. De Juliis
Il Prof. De Juliis aveva constatato che a Mario non mancava l’intelligenza necessaria per continuare gli studi classici ma riteneva che fosse stato
trascurato dal principio nelle classi troppo affollate di Roma, dove sei i giovani non studiano da se, i professori poco li possono aiutare e credeva perciò necessario che bastasse ricominciare dalle fondamenta. Infatti, il prof.
De Juliis che aveva ricevuto Mario in terza classe ginnasiale senza averlo conosciuto prima e senza sapere quale terribile malattia lo avesse colpito appena entrato al Ginnasio, non poteva giudicare diversamente; ma io che sapevo come mio figlio, oltre ai professori di scuola avesse avuto sempre professori a casa che lo aiutavano con le ripetizioni, io che sapevo che il primo
anno di Latino lo aveva studiato a casa, poi ripetuto l’anno susseguente a
scuola, ottenendo il passaggio senza esami, io non potevo ingannarmi; le
parole del prof. De Juliis erano per me una ben triste e scoraggiante rivelazione: mentre faceva il terzo ano di corso, Mario aveva completamente dimenticato tutte le regole Latine che si studiano nella prima e nella seconda
classe! Malgrado la cura del prof. De Santis, che continuava a fare con assiduità, questo povero ragazzo mancava di memoria, ed i suoi sforzi, le sue
11 ore di studio al giorno, invece di fargli guadagnare terreno glielo facevano perdere!
Dolorosa situazione quella di avere intelligenza e mancare di memoria;
perché la prima permette di vedere tutta la carriera che si potrebbe percorrere, tutte le soddisfazioni che si potrebbero provare, tutti gli onori che si
potrebbero conseguire, mentre la seconda v’inchioda e vi impedisce di
avanzare lasciandovi nel cuore lo sconforto e la disperazione.
Quella parte della lettera del Prof. De Juliis nella quale mi parlava del
possibile sconforto, da cui poteva essere assalito il mio Mario, vedendosi impossibilitato, vedendosi sorpassato da tutti i suoi compagni, mi aveva colpito profondamente perché ciò era probabilissimo, anzi questo sconforto
esisteva forse già nel cuore di quel povero figliuolo! Bastava ad assicurarsene la compiacenza con la quale Egli mi aveva ripetuto nella sua lettera del
24 aprile, riportata più avanti, gli elogi fattigli pubblicamente in classe dal
professore, elogi che a lui toccavano così di rado! E pensare che vi sono degli imbecilli ai quali la Natura negò l’intelligenza ma fu prodiga di memoria
e che in società fanno fortuna! Ripetendo come pappagalli quello che leggono senza capire, fanno brillantemente i loro studi prendendo spesso delle Lauree ad Honorem; poi vincono concorsi su concorsi e finiscono per raggiungere posizioni elevate. Guai però se arriva il giorno in cui dovranno
spremere qualche cosa dal loro cervello! Quel giorno sarà il loro disastro,
perché dal loro cervello non uscirà nulla; ma questo avviene di rado, perché consci della loro impotenza, questi sbafatori (come li chiamerebbero a
Roma) della pubblica opinione, che non distingue fra intelligenza e memoria, sanno scansare la prova.
La constatazione fatta che malgrado la cura che Mario faceva ormai da
5 anni, pure la sua memoria non si era irrobustiva abbastanza per continuare i suoi studi, sia pure impiegando due anni per ogni classe, mi toglieva ogni speranza che mio figlio potesse finire il Ginnasio, a meno di vederlo morire di fatica e di crepacuore. Dovetti perciò fin da quel momento
prendere la mia decisione, per quanto essa fosse dolorosa al mio cuore e per
quanto essa dovesse modificare radicalmente l’avvenire sognato per il mio
unico e adorato figlio.
Alla fine dell’anno scolastico, Mario tornò a casa dal Collegio per le vacanze estive: al Ginnasio di Velletri, era stato bocciato in Latino ed in qualche altra materia… Avrei voluto che avesse ripetuto l’anno senza affaticarsi ancora per gli esami di riparazione, ma Lui mi pregò tanto che dovetti
acconsentire a fargli dare delle ripetizioni di Latino, però a Settembre,dopo
tornati dai bagni e dopo almeno due mesi di assoluto riposo. Nello stesso
tempo mi pregò di nuovo di rimandarlo più in Collegio,di non allontanarlo
più da noi, promettendomi nuovamente formalmente che in casa dei miei
parenti non ci avrebbe messo più piede, che la Nonna l’avrebbe veduta soltanto quando e dove io avessi fissato; Non gli ci volle molta fatica ad ottenere una cosa, già da lungo tempo stabilita nell’animo mio e di mia moglie!
E mantenne scrupolosamente la sua parola: quei cinque mesi di Collegio
erano stati una lezione che gli aveva fatto molto bene. Degli agi, delle carezze, dell’affetto, delle premure, spesso non ce ne accorgiamo che quando
ci mancano; ed a Mario in Collegio erano mancate molte cose alle quali era
abituato; molte delle cose di cui aveva bisogno e alle quali era abituato, le
sobillazioni della Nonna e degli zii, avevano reso insensibile, ma delle qua-
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li, appena ne fu privo, intese subito un imperioso bisogno. Quei cinque mesi di Collegio, se lo avevano rattristato, è innegabile però che moralmente
gli avevano fatto un gran bene!
In Ottobre fece gli esami di riparazione, ma non riuscì in Latino; perciò lo feci nuovamente iscrivere al Ginnasio Umberto I per ripetere la terza volta la 3° classe ginnasiale!
Mentre in scuola ripeteva il 3° anno di Latino, un professore privato, gli
faceva ripassare in casa, tutta la materia del 1° e 2° anno. Con tutto ciò a
Giugno non poté essere promosso in Latino e fu obbligato fare gli esami di
riparazione in autunno, nei quali ottenne finalmente il passaggio alla
4°ginnasiale.
Dopo le difficoltà incontrate per tenere a mente le regole della lingua latina, naturalmente non vi era da pensare di fare studiare il Greco a quel povero figliuolo e bisognava fermarsi qui, spingere le cose più oltre, sarebbe
stato davvero fargli sciupare del tempo e compromettere la sua salute. Il
passaggio dalla 3° alla 4° ginnasiale non era gran cosa, ma era sempre meglio della sola lingua delle sole Scuole Elementari: per quanto faticosamente, Egli aveva imparato benino il Francese ed aveva oramai gli elementi per
estendere le sue cognizioni in Storia, in geografia e in lingua italiana; fu
dunque convenuto che al Ginnasio non sarebbe più tornato.
Dati gli stenti, i dispiaceri, le fatiche, le umiliazioni da Lui incontrate nei
sei anni impiegati per fare le prime tre classi ginnasiali, si crederebbe che
questo ragazzo avesse accolto con un grido di gioia, con un grande sospiro
di soddisfazione, la decisione paterna di fargli troncare gli studi classici; invece Egli si allontanò dal Ginnasio assai malinconicamente e la segreta vocazione non poteva sfuggire a me che gli leggevo nel cuore, come in un libro aperto. Malgrado tutto Egli non disperava che, riacquistate sufficienti
forze, mercé la cura che veniva facendo, avrebbe potuto seguire gli studi ed
entrare alla Scuola Militare di Modena; La carriera militare! Il sogno di tutta la sua breve esistenza. Lasciare il Ginnasio, significava per Lui rinunziare per sempre al suo sogno. No, Egli non lasciava il Ginnasio spontaneamente, allegramente, ma cacciatovi dall’avverso Destino, il quale aveva inciso su la fronte di quell’innocente la parola dolore, e voleva che, durante la
sua vita, non avesse soddisfazione alcuna.
CAPITOLO IV
LA GIOVINEZZA
A
bbandonati gli studi classici, bisognava necessariamente avviarlo per
qualche altra carriera: fin da piccino aveva mostrato una certa disposizione per il disegno ed una vera passione per la musica; bisognava quindi
scegliere fra queste due carriere artistiche. Interrogato da me quali delle due
preferisse, Egli mi rispose decisamente che avrebbe desiderato dedicarsi alla musica. Io però, credetti che mio dovere fargli osservare che per studiare
la musica come desiderava Lui, per diventare cioè compositore, non occorreva meno fatica e meno memoria che per studiare il Latino ed il Greco;
quindi se avesse seguito questa sua inclinazione, molto probabilmente dopo
qualche anno di sforzi sterili, si sarebbe ritrovato davanti un altro disastro,
ad un’altra disillusione, ed in un età nella quale non gli sarebbe stato possibile ricominciare lo studio per la terza volta lo studio di qualche cosa, che
potesse procacciargli una posizione sociale. Conseguentemente lo consigliai
di dedicarsi allo studio per il disegno, per il quale occorreva pochissimo lavoro per la memoria: siccome poi questo studio gli avrebbe lasciato delle ore
libere, di queste avrebbe potuto dedicarne qualcuna allo studio di pianofor-
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te, come cosa secondaria, fatta esclusivamente per suo diletto e senza affaticarsi molto. Se durante un certo periodo di tempo, avesse constato che lo
studio della musica non gli costava fatica, se vi fossero state speranza di riuscita, sarebbe stato in tempo da abbandonare il disegno per dedicarsi esclusivamente alla musica.
Il mio Mario fin dall’infanzia è stato sempre di una dolcezza insuperabile di carattere, angelica addirittura; e di questa qualità avevano abusato dei
parenti ignoranti per suggestionarlo e tentare di rivoltarlo contro il padre: lo
avevo abituato a mantenergli sempre scrupolosamente qualunque promessa
gli avessi fatto, ma pure, benché assai di rado, qualche volta è accaduto per
forza maggiore, di dovere di rimandare qualche gita, o qualche serata al teatro, o qualche altro divertimento. Mai quel ragazzo ha mostrato dispiacere
del contrattempo che gli impediva di godere di quel tale divertimento,o di
avere quel dato regalo; mai si è inteso brontolare; mai si è visto impuntarsi,
gridare, piangere, per avere quello che gli era stato promesso e che una circostanza fortuita obbligava di rimandare ad altro momento. Non solo Egli
non ha fatto mai resistenza, opposizione, per avere subito quanto gli era stato promesso, ma spesso voleva dimostrare con delle considerazioni che,
quand’era bambino, non avevano né capo né coda e provocavano la nostra
ilarità, come fosse stato un bene l’avere rimandato ad un altro momento quel
dato divertimento o quel dato regalo; anzi da questo, io e mia moglie capivamo che il contrattempo doveva essere stato doloroso per Lui e provvedevamo in qualche modo perché sentisse meno il dolore.
Anche in questa circostanza quindi il mio figliuolo si piegò subito docilmente alle ragioni da me espostegli, ed accettò di prendere come carriera lo
studio del disegno per conseguire anzitutto il diploma per l’insegnamento del
disegno e continuare poi per il corso di Architettura, lasciando come cosa secondaria, e fatta a ore perdute, lo studio della musica.
Per non fargli perdere del tempo, gli presi subito un professore di disegno, perché lo preparasse, per quell’anno stesso, agli esami di ammissione
all’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma. Fu un tentativo che aveva però
poche possibilità di riuscita,per la ristrettezza del tempo e Mario non riuscì,
anche perché l’insegnante che avevo avuto sotto mano, seguiva metodi antiquati. Mi procurai allora un professore di disegno dell’Istituto stesso, il
quale durante l’anno scolastico, con lezioni private lo preparasse per entrare all’Istituto.
Aveva appena cominciato questo periodo preparatorio per intraprendere
la carriera dell’architetto, quando avvenne un fatto importante, che lasciò
un’impronta indelebile nella sua giovine esistenza, ed ebbe conseguenze favorevoli per Lui. Il mio Mario era stato di parola; in casa della Nonna e dello zio non ci aveva messo più piede; la Nonna era padrona di venire a vederlo, in casa mia, quando voleva, ma la sua grave età (era entrata nell’86°
anno) non le permetteva di salire tanto spesso fino al nostro appartamento,
situato ad un quarto piano, sicché di tanto in tanto gli mandava degli appuntamenti entro il giardino di Piazza Vittorio Emanuele, dove poteva ve-
dere e parlare al nipote (da principio in presenza di mia moglie, ma poi rassicurato completamente dalla condotta di mio figlio, lasciai che ci andasse
da solo). Veramente avevo consigliato mia madre di vedere e trattenersi con
suo nipote, in un caffè situato quasi al disotto della sua abitazione, ma a
quella benedetta vecchia pareva non stesse bene che una donna sola, anche
se di 86 anni, andasse a trattenersi in un caffè e non volle mai darmi retta.
Così fu che alla fine di Gennaio essa ebbe un lungo abboccamento con
Mario nel giardino di Piazza Vittorio Emanuele, abboccamento nel quale
mio figlio si era proposto di ottenere dalla Nonna il suo contributo per l’acquisto di un pianoforte. Il contributo, manco a dirlo, fu concesso subito, ma
chissà a quale lunga discussione avrà dato luogo la prevista fatica per lo studio della musica, i pericoli per la salute dell’adorato nipote ecc., ecc.; mia
madre si trattenne a lungo con mio figlio; la giornata era fredda e rigida,
quandò tornò a casa dove mettersi a letto: si manifestò una bronchite con abbondante catarro bronchiale e con febbre.
Il 3 Febbraio mio fratello mi fece avvertito che nostra madre stava male
assai e che perciò andassi a vederla; corremmo subito tutti: io, mio figlio e
mia moglie. Mia madre stava male si, respirava affannosamente per il catarro che non poteva emettere, ma aveva perfetta lucidità di mente e degli occhi di un colore che non sarebbe sembrato che fosse in imminente pericolo
di vita; pur tuttavia il medico curante aveva dichiarato che difficilmente
avrebbe passato la notte. Mio fratello e la sua famiglia avevano vegliato mia
madre tutta la notte innanzi, era quindi doveroso che quella notte fosse vegliata da noi: mia moglie era però sofferente e per questo volli che tornasse
a casa e si coricasse; restammo a vegliare mia madre io e mio figlio.
Verso la mezzanotte mi parve che il respiro di mia madre si affievolisse;
presi Mario per la mano e lo condussi vicino al letto della Nonna e non mi ci
volle molto per accorgermi che mia madre si andava spegnendo placidamente senza una scossa, senza un sussulto, come un bambino che si addormenta.
A mezzanotte precisa mia madre spirò. Mario divenne pallidissimo e mi
strinse nervosamente la mano, che tenevo nella mia, mentre grosse lacrime
gli inondavano la faccia: era la seconda volta che vedeva morire! Questa
volta non si trattava di un compagno, ma della nonna che adorava. Dopo
avergli fatto baciare la Nonna, lo abbracciai e lo baciai ripetutamente,
quindi svegliai mio fratello perché sua moglie, una nipote di sua moglie, che
conviveva con lui, e la cameriera di mia madre, facessero alla morta la sua
ultima toletta.
La morte della Nonna fece a Mario una profondissima impressione un
cuore affettuoso non può restare indifferente neppure davanti alla morte di
un estraneo, figurarsi quale dispiacere dovesse provare quel giovinetto davanti alla morte di una così stretta parente, dalla quale si sentiva teneramente amato! Dalla Nonna non aveva avuto mai un rimprovero, mai una
sgridata, ma soltanto baci, carezze e regali; alla sua morte lo lasciava erede
di tutto quanto possedeva.
Poteva Mario non amare sua nonna?
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LA GIOVINEZZA
Quel giovinetto poco espansivo, ma affettuosissimo, che aveva bisogno di
essere amato, avrebbe dovuto crescere in un ambiente tutto amore, invece
che tra i litigi provocati dall’intrigo e dalla prepotenza di mia cognata. Essa
non aveva potuto aver figli ed aveva veduto sfuggirsi la metà dell’eredità della suocera a scapito dei suoi bisognosi parenti, essa che malgrado tutte le arti adoperate, tutte le liti provocate fra suo marito e sua suocera, non era riuscita a far modificare a mia madre il suo testamento,con il quale lasciava
erede universale suo nipote ed usufruttuari i figli, essa con continue insinuazioni contro me e contro mia moglie,riusciva di far sospettare mia madre
che il nipote fosse trattato con troppo rigore, e la metteva continuamente in
guardia contro immaginarie appropriazioni che mia moglie, dopo la mia
morte, avrebbe potuto fare del patrimonio del figliastro. Mia madre e mio
fratello volevano sinceramente e profondamente bene a mio figlio e se mia
cognata non avesse raggirato suo marito, uomo debolissimo e senza carattere, versando contemporaneamente nell’animo di mia madre il veleno che
aveva nel cuore, spingendo quei due esseri che amavano Mario ad immischiarsi di cose che la Natura e le leggi hanno riservato esclusivamente al padre, le debolezze della Nonna, aveva per il nipote, sarebbero state facilmente neutralizzate e senza conseguenze.
Per quanto fosse grande in me il dispiacere di aver visto sparire dal mondo e tornar nel nulla, colei che mi aveva dato la vita, pur tuttavia, guardando mio figlio, dovetti pensare: mia madre è morta a tempo, mio figlio è salvo! Mario era nel diciottesimo anno, ed avendo pochi desideri raramente
chiedeva denari alla Nonna, ma essa stessa glielo offriva a mia insaputa, ed
avrebbe fatto a meno di qualunque cosa, pur di dare a suo nipote tutto quello che avesse desiderato. In una grande città, togliete ad un padre il controllo del portamonete del figliuolo, e poi se quel giovinetto non prenderà vizi,
se non si rovinerà con delle cattive azioni, se non farà piangere la famiglia,
sarà un vero miracolo. Mia madre gli avrebbe dato di nascosto non solo il denaro che Egli avesse chiesto, ma aveva disposto, e ne aveva ripetutamente
avvertito il nipote che, compiuti i 21 anni, esso dovesse entrare in possesso
delle gioie che gli aveva lasciato, per un valore da 20 a 30 mila lire: non sono mai riuscito a far comprendere a mia madre quale grave pericolo avrebbero rappresentato per Mario quei brillanti in suo potere e quanto più savio
consiglio sarebbe stato il disporre che Mario dovesse entrare in possesso di
quel bel ricordo della Nonna, la vigilia del suo matrimonio. Non sono riuscito mai a nulla, semplicemente perché mia cognata continuava ad insinuare
a mia madre, che di quelle gioie potesse impadronirsi mia moglie.
Alla morte di mia madre quelle gioie erano fortunatamente depositate
ancora a mio nome alla Banca d’Italia, e mio figlio, per darmi una prova che
le parole della Nonna non lo avevano influenzato, mi disse un giorno: “Papà, perché vuoi continuare a pagare la Banca d’Italia per il deposito dei
gioielli di Nonna? Puoi ritirarli e portarli in casa, poiché io non né disporrò
che quando tu me lo permetterai”.
Il domani andammo, io e Lui, a ritirare la cassetta di gioielli: usciti dal-
la Banca, lo feci montare in una carrozza e lo lasciassi che portasse da solo,
la cassetta a casa, per vedere come si sarebbe contenuto. Giunto in casa, consegnò la cassetta alla Mamma dicendole: “Eccoti le gioie, conservamele tu
poi abbracciandola e baciandola aggiunse: però te le devi mettere quando
vorrai, perché sarebbe una sciocchezza lasciarle chiuse per degli anni”.
Siccome la Mamma, ricordandosi di tutte le insinuazioni alle quali quei
gioielli avevano dato luogo, protestava che non li avrebbe messi, tanto più
che non né aveva bisogno, Egli insistette così: “No, Mamma, tu li devi usare anche per far e guadagnare qualche cosa a me, perché tu, mettendoli, alla fine dell’anno mi pagherai l’affitto”.
A mia moglie le venne da piangere e da ridere contemporaneamente per
quella trovata di Mario, il cui cuore sano non erasi guastato neppure alle straordinarie circostanze nelle quali erasi trovato: l’abbracciò e lo baciò promettendogli che lo avrebbe accontentato quando se ne fosse presentata l’occasione.
Da allora in poi, alla fine di ogni anno, fra Lui e la Mamma, accadeva
una scenetta comica esilarantissima, il conto cioè dell’affitto dei brillanti della Nonna: Mario cominciava come un ciarlatano a decantare la sua mercanzia, la bella figura che la Mamma aveva fatto nella tale o tale altra circostanza, l’ammirazione che aveva destato, ed altri simili buffonate, concludendo che per pagare tutto ciò ci sarebbero volute delle somme favolose, ma
Egli si rimetteva però alle sue generosità; e finiva, infatti, per accontentarsi
di qualunque cosa la Mamma gli desse. E da notare che tutto il denaro che
poteva rimediare alla fine dell’anno, gli serviva per fare il regalo della Befana a me, alla Mamma, e negli ultimi anni anche alla sua innamorata! Ed i
suoi regaletti erano sempre oggetti di buon gusto!
La morte della Nonna aveva liberato quel povero figliuolo da una posizione incresciosa: Egli amava teneramente la Nonna; amava teneramente la
Mamma perché vedeva le continue cure che aveva per Lui, le continue prove d’affetto vero e profondo che gli dava; voleva bene a Papà, un po’ brontolone, come diceva Lui, ma dal quale non poteva disconoscerne l’attaccamento profondo, la previdenza meticolosa perché a Lui non mancasse nulla;
e doveva necessariamente soffrire di quegli attriti che impedivano a Lui di
dimostrare a tutti l’affetto suo. Alla morte di nostra madre, mio fratello essendosi mostrato assai cauto nella ripartizione degli oggetti di valore lasciati da nostra madre e non compresi nel testamento, io avevo messo una pietra sul passato ed avevo conseguentemente tolto a mio figlio il divieto di frequentare la casa dello zio. Egli che, malgrado quanto era accaduto, in fondo amava tutti, aveva bisogno di amor di tutti, fu contento anche di questo,
si sentiva come sciolto da legami che lo imbarazzavano.
Mi vedevo oramai padrone di mio figlio, vedevo più facile il compito di
seguire quel giovinetto, per formargli una coscienza, per plasmare il carattere per condurlo alla conquista di una posizione sociale; morta mia madre le
insinuazioni non potevano più arrivare a mio figlio passando per la bocca
della Nonna, non avrebbero dovute essere fatte direttamente e ciò sarebbe
stato estremamente pericoloso sotto diversi aspetti. Quindi sbarazzato il ter-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
reno, non più bastoni fra le ruote, non più ostacoli su la via che dovevo percorrere assieme al mio Mario, perché Egli divenisse non solo un bravo professionista capace di crearsi una posizione agiata per se e per la famiglia che
si sarebbe formata, ma anche un patriota, cioè un buon cittadino amante del
suo paese; un gentiluomo perfetto, un uomo onesto ed illuminato.
Malgrado tutte le cure mie e della Mamma, il nostro Mario non aveva ripreso più le forme rotonde come aveva nell’infanzia; era di poco appetito e
perciò mangiava poco; si manteneva magrolino con la faccia scarna; però i
lineamenti erano belli e regolarissimi; se si fosse ingrassato un pochino, sarebbe divenuto un bellissimo giovine come era stato un bellissimo bambino.
La capigliatura da biondo-oro a poco a poco era diventata quasi nera, ma
rimanendo sempre riccia, anzi simpaticamente riccia; gli occhi però erano rimasti di un blu-celeste, proprio del color del cielo, ordinariamente melanconici, ma appena una sensazione piacevole lo colpiva, divenivano brillanti come due stelle: l’insieme della sua fisionomia aveva spiccatamente l’impronta della bontà e della dolcezza.
Quell’anno ragioni professionali mi obbligarono di passare l’estate a Pellestrina, situata fra Chioggia e Venezia, sul cordone litoraneo che separava il
mare dalla laguna. Così invece della solita villeggiatura, Mario e la Mamma
vennero a passare un mese a Pellestrina, da dove facevamo un paio di gite
per settimane alla vicina Venezia. Per un futuro architetto la visita di una
città come Venezia non doveva essere del tempo perduto! Gli comperai subito una macchinetta fotografica perché si divertisse a prendere fotografie
artistiche e lo lasciai libero di andare a Venezia anche tutti i giorni se lo avesse voluto. Egli però si annoiava da solo e per quanto la spesa sui vaporetti
lagunari fosse di pochi centesimi, per quanto questa gita di un’ora e mezza
fosse sempre piacevolissima e Venezia fosse un boccone ghiotto per un futuro artista, Mario da solo ci andò una sola volta, come una sola volta si recò
a Chioggia; senza di noi si trovava sperduto e si annoiava. A Venezia potei
fargli vedere una cerimonia emozionante, che non doveva veder più; il varo
di una nave da guerra, La Quarto, nave esploratrice; come potei fargli visitare una corazzata che si trovava ancorata davanti alla Riva degli Schiavoni, la Emanuele Filiberto.
In autunno si presentò agli esami per essere ammesso all’Istituto Superiore di Belle Arti, anzi per consiglio del professore Fausto Pagnetti, che lo
aveva preparato e che gli si era subito affezionato, tentò di dare gli esami
per essere ammesso direttamente al 2 anno di corso, saltando il primo: riuscì nella maggior parte delle materie e fu tanto di guadagnato, pochi perché i Regolamenti dell’Istituto rassomigliando assai a quelli universitari,
poté continuare per alcune materie del secondo anno di corso e per una o
due del primo.
Da principio però si era scoraggiato, anzitutto perché non era riuscito nei
primi esami; poi perché il professore gli correggeva molto il disegno di figura e gli faceva ricominciare daccapo lo stesso disegno. Infatti, Egli da principio poca pazienza aveva per il disegno di figura, per il quale poi alla fine
era diventato bravo; ma a me in fondo questo non importava neanche molto, perché non dovendo fare ne lo scultore ne il pittore, mi bastava che di figura ne sapesse quel tanto necessario per passare agli esami. La morte della
Nonna deve avere influito molto a quel suo momentaneo scoraggiamento,
perché quella sparizione improvvisa di quella stretta congiunta, deve avergli
fatto riflettere che anche il Papà cominciava ad invecchiare e che per il tempo perduto al Ginnasio, sia pure senza sua colpa, egli si trovava ancora incapace a guadagnarsi da vivere.
Un mese dopo la morte della Nonna, non riuscendo a vincere una strana
timidezza per la quale non osava dirmi a voce le cose più semplici e naturali, mi scrisse la lettera seguente:
Roma, 30 marzo 1911
Carissimo Papà
Tu sai che io non so bene esprimermi a voce, quindi spero
gradirai lo stesso queste mie righe che racchiudono lo stesso il
mio pensiero.
Mi sono accorto che nell’arte del disegno io non ho tutta
quella disposizione che richiede la scrupolosità artistica e che
quindi mal conduco i lavori: non credere che non me ne accorga! Ho una momentanea impressione delle cose che traduco subito in fatto, come tu sai, ma non so rendere quei particolari che
sembrano inutili e che invece sono di somma importanza, dando il vero carattere alle cose per il giusto gusto. Tu comprenderai che non basta saper fare un assieme! E poi io sento in me che
mi manca veramente quel genio che l’arte richiede, e che anche
imparando il disegno materialmente non saprei poi servirmene
bene per comporre cose belle.
Senti, Papà, io ti ringrazio di tutto cuore per quello che hai
fatto per me ed io non voglio esserti più di peso, non credere che
io non voglia far nulla, come disse quel prete 3 no, sarebbe vana
pretenzione d’effimera durata.
Io voglio occuparmi, aiutarti, incamminarmi in una via sicura ed onorata e, seguendo i tuoi consigli, manterrò sempre onesto il tuo nome.
Vedi, Papà, tu hai speso e spendi ancora per me; ora basta!
Cerchiamo assieme un posto onorato e sicuro ed io sarò felicissimo. Anche tu sarai tranquillo vedendomi sistemato e la nostra
vita passerà felice senza più preoccupazioni e senza timori.
Io mi ricorderò sempre dei consigli del mio Papà, dei suoi sacrifici, delle sue parole, e mi manterrò onesto, buono, onorato
come lui, lungo il cammino della mia vita, che non credo però
molto lungo.
3: Allude ad una polemica avvenuta sui giornali quando Lui era in quarta elementare: il Municipio voleva obbligare i maestri ad impartire l’istruzione religiosa in questa circostanza scrissi una lettera a Paolo Bardazzi, maestro di mio figlio perché ad esso non fosse
assolutamente impartita alcuna istruzione religiosa, e se non fosse stato possibile fargli occupare quel tempo in cose più utili, lo si fosse mandato a passeggiare per i corridoi. Il Bardazzi che era uno dei maestri i quali giustamente si ribellavano a questa imposizione,
pubblicò la mia lettera, per dimostrare, fra altre cose, che vi erano dei padri che non volevano l’istruzione religiosa per i loro figli.
Su di un giornale clericale, se non erro, La vera Roma, comparve un’articolo nel quale compassionando le condizioni del povero giovinetto si prevedeva che, educato a quel modo, avrebbe finito per diventare un vagabondo il quale avrebbe poi preteso i denari per coltivare i suoi vizi. Risposi all’untuoso scrittore con due articoli sul grande Capitan Fracassa, che ebbero un successo d’ilarità.
Senza istruzione religiosa, di mio figlio avevo fatto un patriota, un eroe, un giovane, che per la sua correttezza e per le sue virtù tutti
quanti lo conobbero, ricordano con affetto.
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
Ora non v’è premura, quindi possiamo con comodo cercare
un posto buono e sicuro, ed io perciò sarei anche pronto a studiare ancora un poco per aiutarti a riuscire nell’intento.
Nella speranza che tu accetti nel senso buono questa mia, ti
domando perdono di tutto e ti bacio.
Tuo
Mario
Questa lettera, assieme al momentaneo scoraggiamento, rivela anche altre cose: prima di tutto quella strana previsione della morte non lontana,
che per la prima volta, a 18 anni, manifestava; poi un cuore da angelo addirittura, sentimenti nobilissimi, la preoccupazione, del suo avvenire, benché la Nonna gli avesse lasciato un piccolo patrimonio ed altro dovesse
aspettarsi dal padre, e infine una certa nostalgia per gli studi, che pure gli
erano costati tanti dolori!
Un abbraccio, un bel bacione e delle parole sgorgate spontanei dal cuore di un padre, pronto a lavorare fino alla più tarda età, pur di aiutare il
suo unico figliuolo a farsi una posizione, rinfrancarono il mio Mario, che si
rimise di buona lena a studiare il disegno e, come si è detto, alla fine dell’anno poté essere ammesso all’Istituto di Belle Arti in buone condizioni.
La vita si era fatta calma e tranquilla; non più fatiche insopportabili,
non più attriti di parenti; i giorni scorrevano felici per Lui. Io temevo che
in quell’ambiente, dove fra tanti giovani artisti ve ne sono anche dei troppo scapigliati, dove vi sono pure tanti giovani e belle artiste, il mio Mario di
per se stesso facilmente suggestionabile potesse essere facilmente suggestionato; la condotta di mio figlio mi rassicurò subito. Egli aveva bisogno di un
compagno, un amico del cuore, ma di uno solo, e non ne ebbe mai più che
uno per volta, e fortunatamente fu sempre felice nella scelta.
Le fatiche sopportate per ottenere il passaggio alla IV Ginnasiale, ottennero un immediato compenso: all’Istituto Superiore di Belle Arti si poteva
essere ammessi anche avendo ottenuto soltanto la licenza delle scuole elementari, ma questi allievi erano obbligati di frequentare contemporaneamente alle lezioni di disegno, anche un corso di cultura generale, che veniva impartito ad essi entro l’Istituto stesso e senza del quale non potevano
progredire negli studi artistici. Il passaggio dalla III alla IV Ginnasiale,
mentre risparmiava a Mario della fatica, lo collocava in una categoria più
scelta di studenti, cosa che doveva necessariamente rialzare il suo morale
assai depresso: all’Istituto di Belle Arti non era più fra gli ultimi!
Del resto a casa, dopo la cena, continuavo ad occuparmi della sua cultura generale, senza obbligarlo ad imparare a memoria per non affaticarlo:
le mie, più che lezioni, erano delle piccole conferenze, fatte alla buona nell’intimità della famiglia. Gli venivo così insegnando i principi dell’Algebra,
della Fisica e della Chimica: durante le escursioni estive che facevamo assieme in montagna, gli facevo delle lezioni pratiche di Geologia dalle quali
ricavava più profitto che se avesse fatto un corso regolare in una scuola.
Dalla mia biblioteca, fornita di classici italiani e di altri libri di letteratura
italiana e straniera, di opere importanti di Storia e di Geografia
Dalla mia collezione mineralogica e cristallografica costituita da oltre
300 campioni raccolti da me, imparava a conoscere molti minerali; dalla
mia piccola collezione numismatica, si formava un’idea di quest’altra scienza. A questo modo, il mio Mario, senza affaticarsi, veniva allargando continuamente le sue cognizioni.
Usciva dall’Istituto ordinariamente alle 17; dopo un ora o un ora e mezza al più di passeggiata, rientrava in casa e si metteva per un oretta a studiare la musica; qualche volta, dopo la cena, studiava un’altra ora, due volte per settimana dalle 19 alle 20, veniva la maestra a dargli lezioni di pianoforte, che studiava con passione; ma si dovette ben presto convincere della giustezza delle osservazioni mie. Lo studio della musica lo affaticava e se
avesse dovuto studiarla come carriera per la mancanza di memoria, si sarebbe ripetuto quanto gli era accaduto per il latino: studiata però così, per
svago, per diventare un buon dilettante, progrediva lentamente, ma progrediva sempre. Del resto lo studio della musica non lo poteva annoiare perché dotato di un orecchio felicissimo, quando era stanco di suonare gli esercizi datigli dalla maestra, chiudeva il libro della musica e suonava ad orecchio tutte le canzonette e tutta la musica che udiva; specialmente la Tosca,
la Cavalleria Rusticana ed i Pagliacci, erano opere che le suonava quasi per
intero. Io fingevo di brontolare quando lo sentivo suonare ad orecchio, ma
poi lo lasciavo divertirsi come voleva, anzi quando lo vedevo malinconico,
cosa che gli succedeva spesso, io stesso gli chiedevo ironicamente che mi
suonasse qualche cosa del suo repertorio. Ad ogni modo con lo studio della
musica aveva ottenuto un gran risultato: mentre imparava una cosa per la
quale esso aveva trasporto e che è sempre un bel e gentile ornamento per
un giovane, senza che mio figlio se ne accorgesse, lo abituavo a rincasare di
buon ora, a starsene di notte in casa con la famiglia e non andare a zonzo
con i compagni, perché i compagni della notte sono raramente buoni compagni! Nel 1913 Mario compiva 20 anni, quindi cadeva di leva, perciò fin
dall’autunno del 1912 cominciai le pratiche per farlo assegnare alla terza
categoria come ne aveva diritto, poiché in quello stesso anno io compivo 65
anni di età. Agli amici e conoscenti che mi domandavano a quale categoria
sarebbe stato assegnato mio figlio, rispondevo scherzando: signori miei, mio
figlio l’ho fatto su misura perché fosse assegnato alla terza categoria, poiché
la legge dice che, figlio unico di padre sessantacinquenne dev’essere assegnato alla terza categoria. Se mio figlio avesse potuto andare alla scuola militare di Modena, non sarei stato contrario affatto che avesse seguito la carriera militare, ma in ritardo coi suoi studi, causato dal suo esaurimento nervoso, gli aveva impedito di andare a Modena e fatto perdere molti anni per
ottenere un diploma che lo abilitasse ad una professione, quindi dovetti riguardare con una vera e grande fortuna l’esenzione di Mario dal servizio
militare, esenzione che gli permetteva di continuare i suoi studi. Il destino
crudele che aveva sempre perseguitato me e quel mio buon figliuolo e che
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
aveva decretato che nella mia vecchiaia dovessi essere oggetto di compassione fra gli uomini, stava in agguato e ripeteva ghignando: si, l’hai fatto
proprio su misura; te ne accorgerai fra poco!
Il primo documento necessario, era la mia fede di nascita e mi affrettai
a farmela venire da Velletri; ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere che
la medesima era sbagliata nella paternità. Ne scrissi al Parroco che me l’aveva spedita, avvertendolo dell’errore commesso; ed esso mi rispose che non
vi era errore di sorta; poiché sui registri parrocchiali risultavo figlio di Rosa Savelloni e di Gioacchino Moderni. Corsi a Velletri per verificare con i
miei occhi, e dovetti convincermi che effettivamente non risultavo figlio di
Michele, ma di un Gioacchino Moderni che non era mai esistito, quindi Mario non sarebbe stato figlio mio, ma di quel tale Pompeo nato da Gioacchino. Mi accorgevo di questo errore dopo avere parecchie volte estratta la copia della mia fede di nascita per i miei due matrimoni e per altre formalità! Sembra strano eppure è così! Ma più strano ancora si è che avendo a voce dichiarato sempre di essere figlio di Michele, siano stati accettati dalle
autorità dei documenti che provavano invece io essere figlio di Gioacchino!
Dovetti rivolgermi al mio avvocato, perché mi facesse correggere l’errore sul registro parrocchiale con una sentenza di Tribunale: conseguentemente ci mettemmo alla ricerca dei documenti necessari. Di mio padre esisteva l’atto di morte, ma fu impossibile rintracciare il suo atto di nascita,
eppure io sapevo in quale parrocchia di Roma fosse stato battezzato! Non
solo non rinvenni l’atto di nascita, ma della sua famiglia non rinvenni altro
documento all’infuori dell’atto di morte di una sua sorella di primo letto.
Della madre, del padre e di tre altri fratelli di primo letto, non risultava
niente, tutti spariti nel nulla. Eppure mio padre era pensionato dello Stato!
Ma più grave ancora divenne la situazione, quando da Velletri m’intesi rispondere che non si trovava neppure l’atto di matrimonio di mio padre con
mia madre. Corsi nuovamente a Velletri: esaminando i registri parrocchiali, feci osservare che l’atto di nascita di mio fratello era in perfetta regola e
da esso risultava essere Ernesto Moderni, figlio legittimo di Michele Moderni e di Rosa Savelloni. Dunque il matrimonio di mio padre con mia madre
aveva avuto luogo e si doveva perciò rintracciarne l’atto, tanto più che io
potevo indicare il mese, l’anno e la parrocchia in cui il matrimonio fu celebrato. Per quante ricerche si facessero tanto alla Parrocchia, che è quella di
Santa Maria del Trivio, quanto all’Archivio Vescovile di Velletri, non fu rinvenuto nulla e nessuno mi seppe dire a che cosa si potesse attribuire lo
smarrimento di questi documenti che non poteva essere molto remoto, poiché mia madre aveva dovuto sostenere delle lunghe ed importanti liti innanzi ai Tribunali di Roma e per poter far ciò aveva dovuto presentare l’autorizzazione maritale 4.
Si fecero eseguire ricerche nell’Archivio Lateranense, ma dopo una settimana quel Monsignor archivista mi fece sapere che non aveva trovato nulla, mi faceva sapere però che impiegandovi maggior tempo, qualche cosa
sarebbe forse uscita fuori. Gli chiesi allora che mi dicesse quanto tempo e
4: Sembra impossibile che documenti così importanti dello Stato Civile fossero tenuti dal Governo Pontificio con tanta incuria, e non
con meno incuria sembra li tenga il Governo Italiano.
quanto danaro stimava approssimativamente necessari per una più lunga e
accurata ricerca.
Mi rispose subito che non poteva precisarmi nulla in proposito; solo, come dato di fatto, mi accennava che per un caso simile, verificatosi a Palestrina, a danno della principesca famiglia dei Colonna, le ricerche si prolungarono per due anni e costarono parecchie migliaia di lire. Mi spaventai,
perché i mesi passavano e si avvicinava il momento nel quale Mario doveva presentarsi alla leva: stavo per rivolgermi all’Archivio del Tribunale di
Roma, dove mi si assicurava che i documenti da me ricercati dovevano esistere sicuramente, quando il mio avvocato di Velletri mi avvertiva di aver
saputo confidenzialmente, come il Tribunale di Velletri, davanti al quale
trovavasi il ricorso per la correzione della paternità sul mio atto di nascita,
stesse per deliberare di non farsi luogo a procedere, cioè di lasciare l’atto di
nascita così come si trovava, ritenendolo esatto. Mi vidi perduto, perché non
solo il mio Mario sarebbe stato assegnato alla prima categoria, ma l’errore
esistente sul mio atto di nascita, avrebbe avuto conseguenze gravissime per
l’ottenimento della pensione mia e per quella di mia moglie, nonché per la
successione dopo la mia morte. Fortunatamente a mia cognata, pratica di
tutti gli usi di sacrestia, venne in mente di fare esaminare i libri delle parrocchie nella cui giurisdizione aveva abitato la mia famiglia prima del
1870; e così si trovò che sui libri delle anime5 dell’anno 1857 in poi, Michele Moderni aveva dichiarato di essere coniugato con Rosa Savelloni e di avere due figli, Pompeo ed Ernesto. Questa dichiarazione fu trovata sufficiente
dal Tribunale di Velletri, il quale perciò con apposita sentenza fece correggere il mio atto di nascita: anche quest’altro pericolo per il mio Mario era
stato scongiurato, e, dopo angustie paure e spese; dopo aver corso per parecchi mesi da un ufficio all’altro, ebbi finalmente il documento che mi occorreva, perché mio figlio fosse assegnato alla terza categoria.
Tornò la tranquillità nella nostra famigliuola e io tornai a studiare mio figlio per migliorarlo continuamente: spesso un velo di mestizia copriva il suo
sorriso; amava molto di appartarsi e di ciò, io e mia moglie lo rimproveravamo sovente, perché lo avremmo voluto sempre in nostra compagnia. D’indole buona, dolcissima, gioviale e spiritoso naturalmente, di quello spirito romanesco, di buona lega, non riuscivamo a spiegarci questa tinta di malinconia, quella specie di misantropia da cui sembrava afflitto.
Dopo la sua morte, fra le sue carte abbiamo trovato lo scritto, che qui riproduco, nel quale egli stesso riconosce questo suo non naturale stato d’animo e ne da una spiegazione… che non spiega molto! Ecco lo scritto:
Passavo tristi i miei giorni e talvolta lo sconforto m’assale.
Una terribile nostalgia si è quasi impossessata di me ed è da
lungo tempo che combatto per respingerla. Invano!
Nessuno può giudicare la mia coscienza, e sono perciò ritenuto
dai miei un incapace di resistere e di combattere… Quale inganno!
5: Registri statistici nei quali ogni anno prima delle pasqua, i parroci, inviando preti nelle case, facevano prender nota dei componenti ogni singola famiglia e della loro rispettiva età; allo scopo di verificare poi che tutti quelli che lo dovevano, avevano adempito
il precetto pasquale.
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
Nella esteriore calma apparente, nulla si svela dell’interno
dell’animo mio, che io stesso mi sforzo a non tradire. Nel sorriso, qualche volta ostentato, celo un rancore incomprensibile che
non so spiegarmi, un rancore ingenuo, non vendicativo verso alcuno,non ho mai mantenuto ira, non conobbi, non ho mai conosciuto odio io. Talvolta m’appare una chimera lontana, radiosa nella sua bellezza, e allora mi sento più sollevato, vago col
pensiero lontano, in luoghi più puri, quasi misteriosi, dove regna una pace infinita. L’animo allora si solleva e nuovamente
spera, ma ad un tratto la chimera svanisce ed io attonito mi
guardo attorno ed un freddo tremito m’assale.
La vita reale mi si presenta nuovamente con tutte le sue
guerriglie e le sue armi… dal sogno di pace alla lotta. Bisogna
lottare, mi dicono i miei, a nulla arriverai altrimenti… ed è vero il loro detto!
Ma l’animo mio talvolta ascolta queste parole con entusiasmo, mentre invece delle volte rimane muto ed inerte; me lo rimprovero io stesso e parche mi dica: lottare, perché? Io non cerco
che pace, l’unica consolazione della mia vita, ed il mio pensiero
ricorre alla chimera effimera e lontana, ma invano! Essa è sparita, anch’essa m’ha abbandonato!
E mentre solo, faccio forza a me stesso, ecco talvolta venire
qualcuno dei miei a rimproverarmi la mia solitudine… io non rispondo ed in un sorriso,nascondo ciò che nell’animo mio si combatte e ricordo allora il verso d’Ovidio, anch’egli nella mia natura ed indole:Saepe in risu celo animis dolenda vita.
Che vi fosse qualche cosa che alterasse il carattere di mio figlio è certo,
ma che cosa fosse e da che cosa dipendesse, non credo che se lo spiegasse bene neppure Lui. Da questo scritto sembra che andasse soggetto a specie di
allucinazione o sogni fatti ad occhi aperti, ed infatti a me ed alla Mamma ci
è occorso parecchie volte di udirlo parlar solo in camera: allora entravamo e
lo conducevamo con noi, rimproverandolo di star solo nella sua camera. Io
credo che si trattasse di fenomeni nervosi, dovuto sempre a quella sua malattia di esaurimento, rivelatasi appena entrata al Ginnasio. Infatti, quando
trovavasi in compagnia era sempre di buon umore, non chiassoso, ma un
burlone che teneva allegra la brigata: i suoi compagni e le sue compagne dell’Istituto, dopo la sua morte hanno pianto il caro condiscepolo, che durante
il lavoro al cavalletto, li faceva ridere continuamente con il suo spirito e le
sue trovate originali. Però Egli non cercava la compagnia quando la trovava, ci stava bene, ma appena restava solo diveniva taciturno e malinconico.
Sembrerebbe che un carattere il quale aveva bisogno di compagnia, avesse
cercato di farsi molti amici fra i suoi compagni di scuola, cosa che, data la
sua bontà e la sua squisita educazione, gli sarebbe riuscito assai facile, ma
come ho già detto, Egli all’Istituto di Belle Arti dove tutti i professori e gli
studenti gli volevano bene, di veri ed intimi amici non ebbe che due, buoni
figliuoli entrambi, con i quali avevo piacere che mio figlio stesse assieme:
prima un certo Confetti Olindo, il quale avendo avuto la disgrazia di perdere il padre, dovette lasciare la scuola ed impiegarsi; poi Morganti Enrico dal
quale non si divideva mai; questo Morganti essendo di Frosinone, quando si
assentava, per andare a trovare la famiglia, mio figlio, di festa non usciva di
casa perché solo si annoiava!Mario a sei anni andava già in bicicletta è stato il ciclista più piccino di Roma, e nei giorni festivi si andava assieme io, la
Mamma e Lui, a fare delle belle ed igieniche passeggiate per la campagna romana: un giorno mancò poco che mia moglie cadesse, si spaventò e rinunciò
alla bicicletta, io naturalmente non la lasciavo sola, ma insistevo perché Mario andasse, almeno la domenica mattina a fare delle piccole passeggiate in
campagna, le quali gli avrebbero fatto sicuramente bene. Non ho potuto tenerlo mai ed alla sua morte, le nostre tre biciclette non erano state più montate da circa tre anni, mentre ho poi saputo che al fronte si era fatto notare
per uno dei migliori ciclisti del Reggimento! Al fronte andava volentieri in
bicicletta perché aveva naturalmente compagnia senza cercarla; a Roma invece lasciava che si arrugginissero le sue tre belle e buone biciclette, perché
solo, si annoiava!
Lo scritto che ho riportato qui sopra non era destinato alla pubblicazione e più evidentemente tracciato in un momento più acuto di malinconia; le
frasi non furono limate affatto, sicchè ritengo che qualcuna non risponda
bene al suo pensiero. Per esempio dove parla del rancore ingenuo è chiaro
che in quel momento non ho trovato il vocabolo appropriato con il quale descrivere quel che provava internamente, che però non era certamente rancore e non poteva essere rancore: infatti, circondato in casa dalla tenerezza
della Mamma e mia, amato e stimato da tutti, non subiva contrarietà da
parte di nessuno, non aveva neppur tempo di formulare un desiderio per vederlo immediatamente appagato, mentre chi avrebbe dovuto sentire rancore? Eppoi come è vero e riconosciuto da quanti lo hanno avvicinato, che
Egli era incapace di concepire odio contro nessuno, così era incapace di serbare rancore, e ne ha dato centinaio di prove. Non aveva serbato rancore
nemmeno a sua zia, per i cinque mesi di Collegio che gli aveva procurati!
Ed appunto perché non era rancore quello che provava, ci aveva aggiunto
l’aggettivo ingenuo, come si vede affatto fuori di posto, e gettato là nello
scrivere,senza rifletterci,al solo scopo di togliere tutto od in parte il significato al vocabolo rancore.
Come ho detto, doveva trattarsi di fenomeni nervosi,che si manifestano
in modi diversi: una di queste manifestazioni era la sua timidezza,che a poco a poco andava però gradualmente diminuendo. La sua lettera che ho riportato più avanti ne è una prova lampante: perché scrivere al Papà invece
di parlargli, di una cosa così innocente e detta così affettuosamente,così remissivamente? Chi non ha conosciuto i nostri rapporti familiari potrebbe
credere che io trattassi mio figlio con molto sussiego: niente di meno vero; io
sono stato sempre affettuosissimo con mio figlio, e lo avevo abituato ad
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
un’intimità affettuosa: se mi alzavo prima di Lui, andavo subito in camera
sua ad abbracciarlo e baciarlo; così invece quando si alzava prima Lui, veniva in camera mia a baciare me e la Mamma; durante la giornata, quando
ci separavamo o ci riunivamo in casa, sempre, immancabilmente, ci abbracciavamo e baciavamo; spesso, anche adesso da giovinetto, me lo prendevo su
le ginocchia come fosse stato ancora un bambino; ho voluto tenerlo su le ginocchia e baciarlo anche vestito da ufficiale, quando venne a salutarci prima di andare al fronte, da dove non doveva più tornare!
D’estate, allo stabilimento balneare di Terracina, dove lo avevano conosciuto bambino, dove era in relazione con tutte le famiglie del paese, preferiva di non ballare perché non osava andare ad invitare le signorine: la cosa
era così generalmente risaputa che un anno qualche signorina andò ad offrirsi da se per ballare. Per questo motivo gli feci frequentare le sale da ballo di Picchetti e di Taglioni, dove perdette in gran parte questa sua strana timidezza, quando avrò detto che pur sapendo quanto mi facesse piacere il vederlo studiare per aumentare la sua coltura generale, Esso studiava sempre
quando io non lo vedevo. Sapeva che desideravo si facesse notare in società,
ma fintanto che allo stabilimento balneare od al Circolo ci eravamo io e la
Mamma, lui restava muto con un pesce e compassato come un inglese, ma
appena noi voltavamo le spalle, si metteva al piano ed a far del chiasso con
gli altri giovinetti della sua età! Era cresciuto in un ambiente patriottico,
educato patriotticamente, nel 1911 ho dedicato a Lui un libro patriottico. I
Romani del 1848-49: nelle famose giornate di Maggio 1915, il nostro Mario
veniva a casa puntualmente alle ore solite, calmo e tranquillo, senza farci sospettare nemmeno che potesse essersi trovato presente a qualche dimostrazione. Ripeto, strana questa sua timidezza verso di noi per i quali aveva una
grande tenerezza e dei pensieri gentili e delicati,più specialmente verso la
Mamma con la quale aveva più confidenza. Questa timidezza che gli impediva di aprirci l’animo suo, di raccontarci tutto quello che passava nel suo
cuore e nel suo cervello; che gli impediva di dirci le sue speranze, i suoi desideri, i suoi dubbi, le sue titubanze; che gli impediva di ricevere da noi quegli accorgimenti e quelle assicurazioni che lo avrebbero sicuramente confortato, era forse la sua causa principale del suo stato d’animo. Un’altra causa
andava ricercata forse nel suo modo estremamente delicato di sentire. Mio
figlio rifuggiva dagli amori volgari; io me ne era accorto dall’insieme della
sua condotta e soprattutto dal suo portamonete, sul contenuto del quale ho
fatto di essere sempre al corrente 6.
Fin da bambino egli si affezionava facilmente a delle bambine; divenuto
più grandicello, aveva avuto sempre la sua simpatia fra le ragazzette della
sua età; finalmente da giovinetto in poi ha avuto sempre l’innamorata. Era
un sentimento puro e gentile che lo spingeva verso la donna; era un bisogno
per Lui avere l’innamorata alla quale dedicare i suoi pensieri, alla quale usare certe speciali gentilezze, alla quale scrivere tutto ciò che di bello, di buono, di affettuoso,traboca dal cuore ben fatto di un giovane nella primavera
della sua vita;così come ad altri, invece, nella primavera della vita, si mani6: A questo proposito però sono stato obbligato riconoscere che quel biricchino me la faceva in barba: tre anni dopo la sua morte, conversando con il suo indivisibile amico Morganti, questi mi raccontava le loro scappatelle giovanili e le spesette che a loro
due procuravano, spesette che superavano di molto l’assegno mensile che io passavo a mio figlio. Lo lasciai dire poi gli chiesi: Tuo
padre ti avrà fornito i mezzi per queste spese, ma Mario dove trovava tanto denaro? E l’altro mi rispose pronto: Noi guadagnavamo in media 60 lire al mese a fare cartoline dipinte a mano. Il mio naso divenne lungo un metro! Fortunatamente quel denaro serviva a fare regaletti, ad entrare al cinematografo ed a pagare delle paste alle signorine! Ma a 20 anni, un medico specialista che
gli faceva fare una cura ricostituente il sistema nervoso, dovette avvertirlo che certe astinenze danneggiavano la sua salute e che
perciò doveva soddisfare certi bisogni fisici, pur prendendo le dovute precauzioni per evitare altri mali dei quali aveva paura.
festano prepotentemente bisogni materiali, il soddisfacimento dei quali, se
non contenuto e ragalato, spesso atrofizza il cuore, rovina la salute e qualche volta l’amore. Nella primavera della vita degli uomini (non parlo delle
donne, perché le leggi sociali, tuttora vigenti, fanno ancora per esse eccezionalissime e disgraziatissime condizioni) i bisogni spirituali e quelli materiali devono equilibrarsi, se questo equilibrio manca, ne può venire un danno
più o meno grave all’organismo. In mio figlio era più sviluppato il bisogno
spirituale e questa doveva a contribuire alla manifestazione di quei feomeni
nervosi di cui egli stesso non sapeva ben definire.
L’amore di Mario per la donna, non era però un sentimento eccessivamente romantico e niente affatto impulsivo: spinto istintivamente verso di
essa, Egli le tributava il suo omaggio affettuoso in forma calma ed elevata.
Gioiva certamente in cuor suo di vedersi distinto e preferito da quella data
signorina e da questa signorina si affezionava; ma siccome questo suo amoreggiare era sempre purissimo e non aveva altro scopo che un eventuale altro matrimonio, il quale però non avrebbe potuto avvenire fra qualche anno,
cioè dopo terminati gli studi, così i suoi amori non sono stati mai profondi e
non lo potevano divenire perché io, avvertito dalla Mamma (la quale apriva
tutti i cassetti, leggeva tutte le corrispondenze dell’amato figliuolo e me ne
avvertiva) troncavo facilmente, distraendolo con la lontananza o in qualche
altro modo, appunto perché quegli amori da ragazzo non si approfondissero
e lo facessero soffrire. Allontanandolo dallo studio, cioè dalla via più breve
che doveva condurlo al matrimonio, che io e la Mamma, tutt’altro che aversare, volevamo affrettare il più possibile per molteplici ragioni.
L’ultimo amoreggiamento però aveva assunto un carattere di maggiore
serietà, determinato probabilmente da una causa accidentale: la signorina,
distinta e di buonissima famiglia, la figlia del Comm. Ettore Mossolin e nipote al Generale Mossolin, della quale era innamorato, abitava poco distante dalla nostra abitazione, per cui spesso Egli doveva attenderla in strada per
accompagnarla a scuola: il padre della signorina, accortosi forse di qualche
cosa, un bel giorno seguì la figlia e la vide andare a scuola accompagnata da
un giovinotto che non conosceva. Gli passò davanti, li guardò entrambi ma
non disse nulla: tornata a casa la sera, la ragazza si aspettava una solenne
sgridata dal Papà; invece nulla, ne gli parlò ne la guardò in faccia, e così per
un paio di giorni; sembrava che per suo padre essa non esistesse più. La povera figliuola era disperata e ne parlò al suo innamorato; Mario senza pensarci due volte, prese un foglio di carta e scrisse al padre della ragazza una
lettera; da ogni parola della quale traspariva il perfetto gentiluomo; il padre
dopo letta la lettera di Mario, la quale aveva avuto il potere di calmare all’istante il suo risentimento, si recò dal figlio maggiore, gli mostrò la lettera che
aveva ricevuto e gli domandò se conoscesse quel giovane. Il figlio, che non
doveva essere del tutto inconsapevole dell’amoreggiamento di sua sorella
(poiché lo conosceva sicuramente la sua giovine sposa, la quale era una nostra intima amica, una nostra ex-coinquilina, una ragazza cresciuta con Mario che perciò amava come un fratello, una delle due signorine che avevano
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
accompagnato mia moglie dal commissario la sera del ritorno di Mario in famiglia, dopo la sua scappata) diede al padre le migliori informazioni di mio
figlio e della mia famiglia, concludendo che difficilmente sua sorella avrebbe potuto trovare un più buon giovane di quello con il quale amoreggiava. Il
Padre perdonò allora sua figlia e scrisse una lettera a mio figlio, una lettera
nella quale lo invitava a continuare i suoi studi ed a non far perdere tempo
alla sua figliuola, la quale doveva farsi una posizione indipendente anch’essa, poi quando avessero entrambi terminato i loro studi, avrebbero potuto riparlare del loro amore. Manco a dirlo, i due ragazzi continuarono a filare a
tutto vapore; ed ecco come i ferri si erano questa volta scaldati più del solito.
Della bella lettera scritta al Commendatore Mossolin, padre della sua innamorata mi piace riportare il brano seguente: “Io sono figlio unico del Colonnello Moderni Ingegner Pompeo dal quale, vecchio soldato, ho appreso la
rettitudine e la più tenace osservanza a quelle massime, che formano in un
giovane le migliori doti di virtù sociali”.
Mi chiamava brontolone ma si vantava di aver imparato da me la rettitudine ecc; decisamente le insinuazioni di mia cognata, non avevano fatto
presa nel cuore buono ed affettuoso del mio Mario!
Che mio figlio fosse un cuore buono ed un gentiluomo nel vero senso della parola, lo prova, se ce ne fosse bisogno, il seguente aneddoto: noi ci eravamo accorti di questo amoreggiamento di nostro figlio; mia moglie leggeva
di nascosto la corrispondenza, piuttosto voluminosa, che Mario teneva gelosamente chiuso a chiave; ma non gli avevamo dato importanza, poiché non
conoscendo l’episodio della lettera nella quale mio figlio aveva francamente
e lealmente dichiarato al padre della ragazza l’amore puro ed onesto che sentiva per essa, e gl’impegni morali che con quella lettera aveva assunto, credevamo si trattasse di uno dei soliti amoreggiamenti effimeri che sarebbe finito come tutti gli altri; perciò mia moglie cercava per conto suo di trovare
a mio figlio una buona ragazza, buona massaia, che avesse saputo assistere
il marito e tener bene la casa, della quale Mario, abituato da noi, era diventato amantissimo. Il caso fece riavvicinare mia moglie ad una sua antica
maestra di scuola, la quale, non avendo figli, aveva allevato e teneva con se
una sua nipote, bellissima e buonissima, giovane di vent’anni, un angelo addirittura di bontà e di bellezza, allevata seriamente per divenire una buona
madre di famiglia, abituata ad eseguire tutti i lavori domestici, espertissima
in lavori femminili di ricamo e di cucito, con centomila lire di dote ed una
forte eredità in vista. Mia moglie pensò subito: questa ragazza sarebbe quello che ci vorrebbe per il nostro Mario! Fece tastare il terreno da una sua amica, coinquilina di questa sua antica maestra, e non sembrò che si dovessero
incontrare difficoltà, poiché Mario si era fatto oramai conoscere per educazione, carattere ed abitudini, un giovane a cui ogni madre avrebbe affidato
volentieri la propria figliuola, sicura d’averne assicurata la felicità: si trattava di attendere che Mario avesse terminato gli studi. Mia moglie fece in modo che i due giovani si incontrassero in uno dei giorni in cui essa era solita
ricevere le sue amiche: al cuore di una madre non sfugge nulla: quando la si-
gnorina, alla quale doveva essere già stato detto un gran bene di Mario, si
incontrò con Esso nella nostra casa, alla vista di quel bel giovane dal personale snello, dal portamento distinto, elegante e semplice nel vestire, dal volto pallido sul quale spiccavano i suoi dolcissimi occhi celesti, con la piccola
testa simpaticamente ricciuta, la signorina divenne rossa! Malgrado che Mario si mostrasse disinvolto e si sforzasse di padroneggiarsi, pur tuttavia mia
moglie si accorse che la vista della bellissima fanciulla gli aveva fatto impressione. Il seguito si parlò diverse volte in famiglia della possibilità di questo matrimonio, che per Esso sarebbe stato convenientissimo sotto tutti gli
aspetti, ma Mario lasciò sempre cadere il discorso, senza farci opposizione,
studiando probabilmente di non incontrarsi più con una signorina, pericolosamente bella, buona e ricca, lasciando che a poco a poco ci passasse dalla
mente l’idea di questo matrimonio, per Lui divenuto impossibile, dal momento che con la sua lettera si era moralmente impegnato verso il padre, come con la parola si era, forse anche prima, impegnato con la sua Amalia.
Questo fatto mostra non solo la sua onestà, ma ancora che era un giovane di carattere, qualità rivelatasi in Lui anche in altre circostanze, che noi
ignoravamo; la sua innamorata ci ha raccontato dopo la sua morte come essendo giunte a conoscenza di mio figlio delle parole che potevano sembrare
poco rispettose per la sua Amalia, parole che sarebbe state pronunziate da
un giovane che frequentava la di lei casa, Mario scrisse a questo giovane
dandogli un appuntamento per avere delle spiegazioni in proposito. La signorina avendo saputo che i due giovani dovevano incontrarsi, intimorita
per le conseguenza che ne potevano derivare, fece in modo di assistere in lontananza al colloquio. I due giovanotti si incontrarono, infatti, in Via dello
Statuto angolo Via Pellegrino Rossi: sul principio sembrava che ci fosse molta elettricità nell’aria, il loro parlare era concitato, io non l’ho veduto mai in
collera e quindi non avevo potuto constatate un fatto che era caratteristico
nella nostra famiglia: tanto a me che a mio fratello, come a nostro padre, l’ira fa diventare pallidissimi, un tremito nervoso ci assale, e in quei momenti
ci si sviluppa una forza muscolare che ci permetterebbe di affrontare uomini assai più forti di noi; passata la crisi sopravviene un grande abbattimento che può durare anche delle mezze giornate, l’altro, mentre parlava fumava; casualmente del fumo dev’essere andato sul viso di Mario, il quale perdute come suol dirsi le staffe, lo apostrofò così: “Vede, signore, che parlando con Lei io non fumo e siccome non sono il figlio del suo portiere, così
smetta di fumare e getti la sigaretta”.
Queste parole furono dette con tale risolutezza che l’altro credette bene di
accondiscendere subito e gettò la sigaretta: passato questo momento che fu
il momento culminante del colloquio, questo andò calmandosi a poco a poco, poiché l’altro deve aver dato le richieste spiegazioni, che dopo tutto riguardavano una distinta signorina appartenente come ho già detto, a distintissima famiglia che il giovane ed i di lui parenti frequentavano ed alla quale perciò dovevano tutti i riguardi. I due giovanotti finirono per stringersi la
mano e la signorina gettò un sospiro di soddisfazione.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Del resto anche fra i suoi compagni godeva di una certa considerazione,
poiché da un pezzo lo avevano eletto presidente dell’associazione studentesca, e questa considerazione era dovuta evidentemente al suo carattere serio ed energico, i professori poi dell’istituto di Belle Arti, lo amavano e lo
stimavano, anzi qualcuno gli era diventato amico. Ma per il padre e per la
madre, i figli sono sempre dei bambini, i loro cari bambinoni, specialmente il nostro, il quale fuori di casa cominciava, come si è visto, a far l’uomo
e ad assumere delle responsabilità entro le pareti domestiche, la sua affettuosa remissività e dolcezza, non avrebbero fatto supporre tutta l’energia e
la risolutezza di cui l’animo suo era dotato, e per noi continuava ad essere
il nostro bambinone che ci stava sempre attaccato al collo e ci copriva di
baci tutto il giorno.
Oltre al carattere, veniva consolidandosi anche la cultura di mio figlio: la
sua lettura preferita erano le poesie e nella mia piccola biblioteca vi era da
scegliere: Ovidio, con la traduzione italiana, Dante, Ariosto, Petrarca, Tasso,
Shakespeare, Alfieri, Manzoni, Silvio Pellico, Giusti, Carducci, Guerrini, Cavallotti ed altri, ma la racconta, assai rara, delle poesie di Cavallotti, l’aveva spesso fra le mani. Un altro libro che leggeva e rileggeva continuamente
era il romanzo di Dumas, I Tre Moschettieri. Tutte quelle avventure eroiche
e quei combattimenti, tutte quelle azioni cavalleresche, esercitavano un fascino irresistibile sull’animo suo e devono aver contribuito a farlo diventare
cavalleresco e coraggioso: ogni tanto sentiva prepotente il bisogno di rileggere qualche brano, esponendosi alle beffe della Mamma, che, quando se ne
accorgeva, gli ripeteva: che stai imparandolo a memoria?! Però sfogliava
spesso la storia universale del Cantù dove erasi accorto che vi era molta roba che faceva al caso suo; infatti, nei due esami di Storia dell’Arte dati all’Istituto aveva ottenuto buone classificazioni.
Ricordandomi sempre delle parole scritte dal suo professore di lettere di
Velletri, Giacomo de Juliis, lo spronavo ad esercitarsi nello scrivere non solo
per non perdere quello che aveva imparato ma per progredire continuamente. - Poiché ha la fortuna di avere una tavolozza bene assortita – Gli dicevo
– Ed una certa facilità nello scrivere, fa continue esercitazioni, specialmente
su argomenti artistici, tentando di diventare un buon critico d’arte, per acquisire con ciò un’altra non disprezzabile qualità da servirtene come appendice alla tua professione di Architetto. – Ed Egli obbediente, come sempre,
aveva cominciato a far qualche cosa, anzi aveva voluto procurarmi una sorpresa, a mia insaputa, due articoli sulla Via Appia, alla Romana Tellus, una
rivista di Archeologia Cristiana abbastanza interessante alla quale ero abbonato. Disgraziato anche in questo, i suoi articoli furono inviati proprio nel
momento in cui la Rivista cessava le sue pubblicazioni per insufficiente numero di abbonati, per cui i due articoli del mio Mario andarono perduti ed
Egli non poté fare la desiderata improvvisata al suo papà.
Però di Lui mi è rimasto un bozzetto che è tutto un profumo di gentilezza e patriottismo che un giorno o l’altro pubblicherò; come mi è rimasto un
articolo pubblicato sulla Rivista quindicinale Fiamma, articolo che qui ri-
porto per mostrarne la struttura semplice, l’esposizione chiara, nonché l’onestà e la modestia nel non appropriarsi nulla che appartenesse ad altri.
LA STATUA DI SOFOCLE A TERRACINA
Sotto l’appassionata direzione del Cav. Pio Caffoni, è sorto in Terracina un piccolo museo, ed in esso vi si possono ammirare gl’interessanti ricordi storici della graziosa cittadina
Volsco-romana.
Oltre alle innumerevoli anfore trovate nelle vicinanze del
lago di Fondi ed ai preziosi resti trovati nelle sostruzioni del
Tempio di Giove Anxur, sul monte Nettuno, ed in alcuni scavi
fatti nelle proprietà del Conte Antonelli e di altri; vi è fra questi, il modello in gesso di una statua di Sofocle. L’originale fu
donato dagli Antonelli a Papa Gregorio XVI che lo fece collocare nel museo Lateranense, dove attualmente trovasi.
La statua è una squisita opera d’arte; in ogni suo particolare si può notare la finezza e la maestria che la condussero a termine. Degne di Fidia e dell’impareggiabile scalpello Ellenico sono le pieghe e la toga che avvolge la statua, e
per la loro naturalezza artistica formano un insieme bello ed
armonioso.
Però intorno a Sofocle vi è una leggenda: appena scoperta
la statua, perfettamente mantenuta e rispettata dal tempo, fu
da alcuni archeologi qualificata per quella di Sofocle, ma dopo minuziose ricerche e studi del Cav. Caffoni ad esso è nato
un dubbio sulla sua identificazione.
Infatti, Sofocle essendo stato scrittore tragico, lo scultore
non avrebbe potuto trascurare di porre sulla sua fronte la corona d’alloro ed ai suoi piedi l’emblema della sua arte, cioè, il
Tirso o la Lira, e la Maschera; invece nulla di ciò si osservano
solamente lo Scrinium et Volumina adoperati dai romani.
Inoltre i suoi piedi portano il calzare romano e non quello
greco. Altro particolare importante, sempre secondo la leggenda, è che Sofocle fosse calvo, Defectus Filis mentre la statua esistente in Terracina lo rappresenta con folta e riccia capigliatura.
Che fosse calvo ce lo dimostra molto chiaramente la leggenda, un giorno Sofocle, mentre passeggiava in un prato, ed ammirava estatico l’incanto della natura, che rispecchiava la sua
sfolgorante bellezza, in una magnifica giornata smagliante di
luce ad un tratto un falco, volando verso la sua direzione, fece
cadere sul suo capo nudo e lucente al sole, una testuggine che
portava nel nostro, la quale colpendo Sofocle da molta altezza
fu causa della sua morte.
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
Per quanto leggendari la morte del grande scrittore greco,
pur tuttavia contiene in se un’indicazione della quale non si può
fare a meno nella riproduzione della sua immagine.
Secondo sempre il parere del Caffoni, la statua non sarebbe
dunque quella di Sofocle, ma bensì quella di un Romano che
esiliato nel 760 sotto Augusto dimorò lungamente in Grecia
prendendo a poco a poco la foggia dell’uomo.
In ogni modo si tratta sempre di una statua, che per la sua
perfezione artistica, rivaleggia con lo scalpello Fidiaco e davanti alla quale, anche il profano si sente pervaso da un godimento estetico, che soltanto le vere opere d’arte fanno provare, e
specialmente quelle che per la loro squisitezza risalgono agli
antichi e fulgidissimi tempi dell’Ellade.
Mario Moderni
E non credasi che questa statua abbia servito di pretesto a mio figlio soltanto per esercitarsi a scrivere un articolo di argomento artistico, no; la bellezza di quella statua lo aveva veramente colpito tanto che in uno degli ultimi anni che siamo andati a Terracina per la bagnatura, Egli volle disegnarsela a sfumino. Dunque quanto espone in questo articolo non è di maniera,
ma è la vera espressione del suo sentire.
Fra le sue carte ho trovato anche i due sonetti, che qui sotto trascrivo, i
quali possono dare un’idea della tavolozza che aveva a sua disposizione e dei
sentimenti di cui era dotato per scrivere, benché avesse dovuto fermarsi alla
licenza della Terza Ginnasiale!
Il primo sonetto è dedicato alla madre e fu scritto quando trovavasi in
collegio a Velletri; il secondo è dedicato alla sua innamorata Amalia Mossolin, e fu scritto a Roma.
ALLA SANTA MEMORIA
DI FRANCESCA CONOVELLE
MIA MADRE
La tua beltà 7 la canterà l’Aprile
Nell’albe rosee e negl’effluvi puri,
L’intoneran le fate negli scuri
Almi cipressi con armonia gentile.
La viola e ‘l giglio da l’odor sottile, le passere errabonde
di su muri
E l’usignol che la notte i duri
Marmi 8 rallegra col suo canto umile
E mi diran del labbro tuo di rosa
L’idioma gentile, e ‘l dolce incanto
7: La madre è morta di 35 anni.
8: I marmi del cimitero.
Delle tue luci e la voce amorosa,
Di quella voce che amorosa tanto,
Nella notte fatale e dolorosa
Mentre fuggivi 9… invocai nel pianto!
Velletri, maggio 1909.
Pensando a te…
Mentre tu dormi calma e sorridente,
Pien di beltà e di candor divino
Veglia il mio cuor e per te la mia musa
Invia il suo pensier a te vicino
Le armonie soavi della sera
Mi parlan d’amore, di quell’amore
Che inebria la mente e accende ‘l core
Come ai fior la bella primavera.
Tutto si calma allor l’animo mio
E sogna anch’esso dolcezze luminose:
E nell’alba nuova la pace dell’oblio.
Si scuote il cuor dalle tristezze ascose
E nel silenzio taciturno e pio
Cinta ti veggo da aulenti rose
Nel 1913 Mario aveva terminato all’Istituto di Belle Arti il Secondo anno di
corso ed ottenuto il passaggio al Terzo, con il quale terminava il periodo inferiore. Intanto essendo stato assegnato alla 3 categoria, bisognava provvedere per farlo esonerare da possibili chiamate per istruzione, iscrivendolo al Tiro al Segno.
Conseguentemente decisi che il primo dell’anno 1914, mi sarei recato al
ricevimento al Quirinale, dove ero sicuro di trovare un mio conoscente, Tenente-Colonnello in congedo, Vice-direttore del Poligono di Tiro in Roma (del
quale avevo smarrito l’indirizzo) per raccomandargli mio figlio, onde fosse
bene esercitato nel maneggio del fucile e nel Tiro a Bersaglio.
Quando il mio Mario udiva purtroppo assai di rado che avrei indossato la divisa per recarmi a qualche cerimonia od a qualche convegno militare, il viso gli
si radiava di una indicibile contentezza: Egli correva subito a tirar fuori i miei
indumenti militari che sapeva benissimo dove erano riposti, mentre io non avrei
saputo dove trovarli, senza l’aiuto di mia moglie. Era Lui che, improvvisandosi
mio attendente mi spolverava la divisa, mi lustrava i bottoni, mi metteva gli
sproni alle calzature, le spalline e le decorazioni alla giubba, la dragona ed i pendagli alla sciabola. La sciabola!... questa specialmente era l’oggetto delle sue cure più meticolose: non toccava mai il fodero con le mani per timore che potesse
perdere la brunitura ed arruginirsi; aveva bisogno di sguainare e ringuainare la
sciabola diverse volte come per assicurarsi che funzionava bene. Sembrava uno
scudiero che preparasse le armi per un cavaliere del tempo dei tornei.
9: Nell’attimo in cui sua madre spirava esso, a tre camere di distanza si svegliò gridando e piangendo.
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Quando non ero in casa, prima di mettere la dragona alla sciabola, domandava alla Mamma: “Quale sciabola metterà Papà?”.
E la Mamma che lo andava osservando e non perdeva nessuno dei suoi
movimenti, rispondeva sorridendo: “Se indosserà l’altra uniforme metterà
certamente la piccola”.
Perché anche io da giovane avevo avuto per le armi, la stessa passione che
ora mostrava mio figlio, per cui invece di una sciabola ne avevo due, belle e
fine entrambi: una più grande, un po’ pesante, con la lama larga damaschinata in oro, a doppia costa, solida sciabola da combattimento, quando nei
combattimenti si usava ancora la sciabola! A questa mio figlio aveva messo
nome la scimitarra e, pur riconoscendone i pregi, non la trovava più di moda e non eccitava i suoi desiderii; l’altra più piccola, più maneggevole, damaschinata anch’essa, gli sembrava più elegante e la preferiva. Io che me ne
ero accorto da un pezzo, un giorno, quando ancora frequentava il Ginnasio,
per invogliarlo a studiare, malgrado la fatica che ciò gli costava, gli avevo detto: “So che la sciabola piccola ti piace, ebbene il giorno che sarai nominato
ufficiale, te la regalerò, puoi perciò considerarla, fin da questo momento, come cosa che deve appartenerti prima della mia morte”.
Da quel giorno, ogni volta che la sciabola usciva dal suo ripostiglio, ogni
volta che poteva toccarla, gli sfuggivano suo malgrado dei profondi sospiri!
Quando poi, dopo avermi aiutato a vestire, uscivo di casa in divisa, questo ragazzo mi si metteva al fianco e non mi lasciava che la dove a lui era vietato di entrare: privarlo di questo piacere di accompagnarmi mi avrebbe procurato forte dolore. Per la strada, quando altri militari mi rendevano gli onori dovuti al mio grado, Egli fremeva dal piacere come se li avessero resi a Lui;
se poi mi appoggiavo confidenzialmente al suo braccio, lo vedevo subito arrossire dall’intensa soddisfazione, poiché Egli doveva fare questa riflessione:
sono troppo giovane perché i passanti possano credermi un amico di questo
Colonnello, dunque tutti devono accorgersi che io sono suo figlio. Essere figlio di un Colonnello! Povero Mario mio, essere figlio di un Colonnello era
una grande, una immensa soddisfazione dell’animo suo! E se ne gloriava ogni
volta che gliene presentavasi l’occasione!
Dunque, mi recai al ricevimento di capodanno, dove trovai la persona che
cercavo, alla quale raccomandai mio figlio e mi ebbi da essa tutte le informazioni che mi abbisognavano. Mario mi accompagnò fino in Piazza del Quirinale poi tornò a casa a prendere la Mamma con la quale, dopo fatta una
passeggiata, vennero ad aspettarmi davanti al portone del Palazzo della Consulta, come erano soliti fare ogni volta che mi recavo a quel ricevimento. Dissi a Mario quanto avevo saputo della sua iscrizione alla Società del Tiro al Segno, iscrizione della quale doveva occuparsi subito, mentre Egli era intento a
salutare un suo compagno di scuola, mia moglie mi disse rapidamente a bassa voce : “Mario soffre a non essere Ufficiale, quando gliene passa qualcuno
vicino, lo mangia con gli occhi e non si stanca di guardarlo, finché lo può seguire con lo sguardo; vedi un po’ se ti riesce farlo nominare Ufficiale della Milizia Territoriale, sarebbe una felicità per quel povero ragazzo!”.
Io ci stavo pensando già da qualche tempo ma esitavo, perché sapevo che
i titoli di studio posseduti da mio figlio, non potevano essere sufficienti alla
sua nomina ad ufficiale della Milizia Territoriale, mentre non sapevo e non mi
ero curato di sapere se vi fossero disposizioni che permettessero di ottenere in
un altro modo tale nomina; non volevo perciò fargli concepire speranze, la cui
mancata realizzazione potesse procuragli dolore e sconforto. Le parole di mia
moglie troncarono ogni mia esitazione e decisi di tentare se vi era una via di
far contento il mio Mario.
Quando Egli ebbe salutato il suo compagno, mentre c’incamminavamo per
Via del Quirinale 10, appoggiandomi al suo braccio, gli dissi: “Voglio provare se
mi riesce di portarti con me l’anno venturo, al ricevimento di capodanno”.
“E come Papà? – Mi rispose e sentivo che il suo braccio tremava, come
aveva tremato la sua voce nel rispondermi”.
“Facendoti nominare Ufficiale di Milizia Territoriale”.
Mi fisso in faccia con i suoi begli occhi celesti, brillanti in quel momento
come due stelle, e mentre il viso gli si irradiava di contentezza mi domandò
dubbioso: “Credi che potrò essere nominato?”.
“Tentiamo: domani tu andrai con un mio biglietto al Distretto Militare, ti
presenterai al Capitano Bettenati ed a lui domanderai se il Terzo anno dell’Istituto Superiore di Belle Arti che stai frequentando, può essere considerato
equivalente al Secondo anno di Istituto Tecnico, titolo di studio necessario per
essere nominato Ufficiale di Fanteria di Milizia Territoriale”.
Inutile aggiungere che per tutta la serata, durante la cena, fino all’ora di
andare a letto, non si parlò più che di questo argomento, povero figliuolo mio,
vedeva spuntare all’orizzonte, la speranza di realizzare in qualche modo, un
sogno realizzato fin dall’infanzia! Non era la carriera militare, ma Lui conosceva la mia lunga ed interrotta propaganda a favore di questa negletta ed incoscientemente derisa istituzione militare; Egli aveva letto il mio romanzo militare “L’Assedio di Roma nella guerra del 1900” e sapeva perciò quale grande importanza avrebbe dovuto acquistare in tempo di guerra, questa povera
Cenerentola dell’Esercito Italiano.
Il domani andò al Distretto, parlò con il mio amico, ed a questo sembrò
che il terzo anno di Istituto Superiore di Belle Arti potesse essere considerato
equivalente al secondo anno di Istituto Tecnico; conseguentemente lo consigliò a fare la domanda unendovi i documenti necessari dei quali gli fece la lista. Aggiunse poi: del resto sta tranquillo perché se la tua domanda non venisse accolta vi è una disposizione che ti permette di essere nominato Ufficiale di Milizia Territoriale in seguito ad un esame di cultura generale, del quale eccoti qua il programma stampato.
Mario tornò a casa raggiante: un Capitano gli aveva dato del tu, lo aveva
trattato già come un collega e gli aveva mostrato la sua nomina non soltanto
facile, ma sicura addirittura: cominciava per Lui quel breve periodo di felicità che doveva essere troncato da una morte gloriosa! Mi consegnò il programma per gli esami di cultura, ed io, dopo avergli dato una corsa, mettendogli una mano sulla spalla gli dissi: “Figlio mio oramai dipende da te otte10: Oggi 24 maggio.
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
nere l’onore delle spalline: non credo troppo all’equivalenza del terzo anno di
Istituto Superiore di Belle Arti con il secondo di Istituto Tecnico perché sono
due corsi affatto diversi e la questione non fu studiata ancora11”.
“Ma in questo programma d’esami non c’è nulla che tu non abbia studiato, e quindi credo che, con una buona ripassata alle diverse materie tu ossa
affrontare tranquillamente questi esami con molta probabilità di riuscire. Segui perciò il consiglio del Capitano Bettenati, fai pure la domanda per essere
nominato Ufficiale per titoli di studio, ma nello stesso tempo preparati agli
esami di cultura”.
Il giorno appresso senza perder tempo, Mario cominciò a correre per
Roma onde procurarsi le carte occorrenti da unire alla sua domanda, ma
la cosa non fu così semplice come Esso credeva, e dovette salire e scendere molte scale per avere quelle carte, le quali non furono definitivamente
pronte che verso la fine del mese di marzo, ed allora soltanto, Egli, trepidante di speranza, potè portare il plico al mio, ed orami anche suo, amico,
Capitano Bettenati.
Intanto si era iscritto alla Società del Tiro al Segno ed a primavera frequentò con assiduità e trasporto il corso di lezioni nella categoria degli studenti. Com’era prevedibile in pochi giorni fece progressi: avere un fucile a sua
disposizione e potere sparare! Imparò presto il maneggio dell’arma, la nomenclatura e la scuola di puntamento; nelle lezioni di tiro riportò una discreta classificazione e mostrò d’esserci in Lui la stoffa di un buon tiratore.
Così si arrivò al mese di giugno: all’Istituto Superiore di Belle Arti, mio figlio ottenne il passaggio al quarto anno di corso, cioè all’ultimo anno del corso generale, alla fine del quale avrebbe potuto dare gli esami per l’abilitazione dell’insegnamento del disegno.
Della sua nomina ad Ufficiale non se ne era saputo più nulla, malgrado le
sollecitazioni per mezzo dell’amico Bettenati e di un altro amico, il Colonnello Accattino del Commissariato Militare; in luglio finalmente pervenne a Mario una lettera del Ministero della Guerra che dichiarava non esservi equivalenza tra il secondo anno di Istituto Tecnico e il terzo dell’Istituto Superiore
di Belle Arti, per cui, ad ottenere la nomina ad Ufficiale di MIliazia Territoriale bisognava sottoporsi ad un esame di cultura generale.
Seguendo il mio consiglio, Mario era venuto preparandosi a questi esami,
ed avrebbe voluto far la domanda per darli immediatamente, ma io frenai la
sua impazienza: anzitutto una tale domanda lo avrebbe inchiodato a Roma e
gli avrebbe fatto perdere la villeggiatura estiva nella sua villetta di Terracina,
con relativi bagni di mare. Quando era al Ginnasio l’ho spinto avanti con tutti i mezzi che avevo a disposizione, perché sapevo quale grande importanza
aveva per Lui il poter proseguire negli studi incominciati senza essere obbligato a cambiare carriera; ma dal momento che tale cambiamento erasi dovuto fare per forza maggiore, non volevo che si affaticasse troppo nello studio
mentale, tanto più che il riposo mi aveva mostrato quanto venisse irrobustendosi la sua memoria e quanto ci guadagnasse la sua cultura. In secondo
luogo, Egli si era preparato da se, senza il mio intervento, ma divenuti indi11: Durante la guerra la licenza di Istituto Superiore di Belle Arti venne equiparata alla licenza liceale.
spensabili questi esami di cultura generale, avevo bisogno di assicurarmi delle sue condizioni, perché data la sua istintiva timidezza non si esponesse ad
una bocciatura, che gli avrebbe procurato certamente un grande dolore.
“Andiamocene a Terracina - gli dissi - e dei tuoi esami ne riparleremo a Settembre; poiché è probabile che anche facendo la domanda subito,la tua pratica
non sarà evasa che fra uno o due mesi e tu perderesti il tuo mesetto di bagni.
Partimmo quindi per Terracina, da quando era scoppiata da poco la
grande conflagrazione europea, alla quale io prevedevo avremmo dovuto
prender parte per salvaguardare e difendere il presente e l’avvenire della
Patria. Mario portò i suoi libri e sotto la mia direzione, senza farlo affaticarlo troppo, continuò la sua preparazione per ottenere quelle spalline che
erano in cima da ogni suo pensiero e delle quali parlava sempre, alle quali
pensava sempre!
Il 20 Luglio, genetliaco di mio figlio, era stato quell’anno celebrato con
maggiore solennità, poiché il nostro Mario compiva il suo 21° anno, diventava cioè maggiorenne. Da questo giorno, voli che cominciasse a firmare i contratti d’affitto della casa lasciatagli dalla Nonna in Via del Boschetto 87, e tutti gli atti relativi fossero fatti direttamente in suo nome. In questa occasione
gli consegnai la catena d’oro per l’orologio che aveva appartenuto alla Nonna ed aveva a Lui destinata. Io gli regalai un anello con rubino che aveva un
valore morale, in quanto che questo anello, che prima era adorno di un brillante, me lo aveva regalato la sua povera Mamma morta: perdutomi il brillante la mia seconda moglie mi aveva fatto sostituire un rubino. Mia moglie
regalò anch’essa al suo Mario un anello che esso desiderava: erano due serpenti attorcigliati che su la testa portavano un piccolo brillante l’uno, ed un
piccolo rubino l’altro. Questo anello era il primo regalo da me fatto alla mia
seconda moglie, ed essa se ne privò, perché sapeva che Mario lo desiderava.
Inoltre, con pensiero delicatissimo, mia moglie aveva fatto sistemare nel ciondolo d’oro, che accompagnava la catena, i ritratti mio e della sua povera
Mamma morta. Oggi i due anelli che gli avevamo regalati in quel giorno di
festa per la mia famiglia, e che esso aveva lasciato a casa il giorno della sua
chiamata sotto le armi,per timore di perderli, ce li siamo ripresi e li porteremo per la sua memoria fino al giorno della nostra morte! Erano i primi ornamenti che gli avevamo concessi, ornamenti che erano ricordi, ed oggi, essi
sono e saranno per tutto il resto della nostra vita, cari e dolorosissimi ricordi
del nostro adorato Mario.
Presago di quanto stava per accadermi, temendo di non essere chiamato
alle armi e non potere tentare perciò di avere con me Mario nel mio Reggimento,il 19 Agosto 1914, da Terracina stessa, feci domande per essere richiamato in servizio nel caso di guerra. Non temo di errare affermando che,
molto probabilmente, sono stato il primo ufficiale in congedo che in questa
occasione abbia fatto la domanda per essere richiamato in servizio!
Il 3 Settembre tornammo a Roma ed il 5 mio figlio presentò la domanda
per essere sottoposto all’esame di cultura. Fu però chiamato agli esami soltanto in Ottobre: in quella occasione e nel riparto suo, quello cioè che chiede
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
gli esami avanti alla Commissione presieduta da Pirzio-Biroli, Colonnello del
2° Granatieri si presentarono 7 candidati dei quali ne furono approvati 6, rimandati uno. Dei 6 approvati Mario fu classificato il primo: dopo lo scrutinio, i candidati furono chiamati avanti alla Commissione per udire la proclamazione degli approvati, Mario, timido e tremante erasi nascosto dietro gli altri, ed intese un brivido corrergli per le ossa, allorché la voce del presidente lo
chiamò per il primo e lo invitò avanti. Dopo letta la classificazione ottenuta
nelle singole materie il presidente gli fece degli elogi speciali per il bel tema
d’ Italiano che aveva fatto e nel quale, senza esserne richiesto, aveva profuso
molte notizie storiche, alcune delle quali poco note ed in quel momento di
grande attualità, quale ad esempio la battaglia navale di Chioggia, vinta dai
Veneziani, comandati da Vittor Pisani, contro i Genovesi che avevano dapprima vinto i Veneziani a Pola, impossessandosi di tutto l’Adriatico.
Quel giorno Mario, abitualmente pallido, venne a casa acceso in viso: era
soddisfatto, era contento, era felice! Una leggera tinta di malinconia velava
un poco la sua felicità: uno dei suoi compagni era stato rimandato! Misurando la disgrazia del compagno dalla sua felicità, Egli soffriva per lui. Cuore
d’oro, Cuore d’angelo! La Mamma ed io lo abbracciammo e lo baciammo lungamente; poi gli sussurrai all’orecchio: “Se Papà non ti avesse spinto avanti
con le buone e con le cattiva, per farti giungere almeno dove sei giunto, saresti oggi così soddisfatto, così contento?!
Mi abbracciò e baciò nuovamente. Quindi mi disse. Il presidente della
Commissione ci ha detto che provvedessimo subito al nostro corredo militare, perché la nostra nomina, sarà questione di giorni e dovremmo prestare giuramento.
Sorrisi, perché la sollecitazione del presidente doveva essere perfettamente d’accordo con il suo desiderio. “Sta bene - gli risposi - oggi stesso andremo
all’Unione Militare ad acquistare quanto ti occorre, intanto vai a prendere la
sciabola piccola e portala qui”. Quando me l’ebbe portata gli dissi: “era destinata a te e te la dono, da oggi è tua. Ricordati che devi servirtene soltanto
in difesa della Patria, della Libertà, e dei deboli”.
Andammo poi all’Unione Militare e gli fece prendere la misura dell’uniforme di parata e dell’uniforme grigio-verde con relativo mantello: tutto quello che vi era in quei magazzini di più, fino e di più elegante lo scelsi per il mio
Mario; dalle spalline d’argento alla sciarpa di seta finissima, alle stoffe migliori, tutto volli che fosse bello e buono, ma strettamente d’ordinanza nella
forma, senza badare a spese, perché volevo che questo desiderio delle spalline, lungamente nutrito da mio figlio, fosse pienamente soddisfatto anche nei
minimi particolari, non solo per vederlo contento, ma anche perché ciò gli servisse d’incitamento a distinguersi in altre cose.
A Settembre riprese i suoi studi all’Istituto Superiore di Belle arti, frequentando il 4° anno di corso, ma pur troppo prevedevo che difficilmente Mario avrebbe potuto finir l’anno, perché malgrado la dichiarata neutralità,
qualunque mente equilibrata vedeva che l’Italia, se non voleva suicidarsi, sarebbe stata costretta a prender parte all’immane conflitto. Sotto la sua appa-
rente calma e freddezza, mio figlio fremeva: mi chiese il permesso di sospendere per quell’anno le lezioni di musica, onde poter dedicare tutte le ore libere allo studio delle evoluzioni e dei regolamenti militari, e di sera infatti, sotto la mia direzione, vi si dedicava con vera passione;
Passò il mese di Novembre e della sua nomina, Mario, non né sapeva ancora niente, costretto a guardare appese nell’armadio le sue fiammanti divise senza poterle indossare: la cosa seccava anche a me, perché avrei voluto
che, ad evitare perdita di lezioni e possibili incresciose conseguenze, Mario
avesse approfittato delle Feste natalizie per fare sotto le armi il suo mese di
servizio obbligatorio. Mi raccomandai al mio amico Colonnello Francesco
Accattino, perché al Ministero della Guerra mi sollecitasse la nomina di mio
figlio, e procurasse di farmelo assegnare per mobilitazione ad un Distretto
dipendente dalla Divisione di Roma. Ma l’avverso destino che aveva sempre
perseguitato quel ragazzo, non lo lasciava neppure ora gustare tranquillo la
sua piccola felicità: dapprima la pratica di mio figlio erasi smarrita (la ritrovai giacente in un casseto di un tavolo al Comando del IX Corpo di Armata); ritrovata la pratica, bisognava rinnovare, perché scaduto, l’atto di penalità del Tribunale; rinnovato questo atto ed essendosi smarrito anche questo negli uffici del Ministero, bisognò farne un’altra copia. Insomma , malgrado le corse di Mario e mie da un ufficio all’altro, malgrado l’assistenza
amichevole del Colonnello Accattino, ottenemmo che il decreto di nomina
fosse firmato appena, il 27 Dicembre, ma il medesimo non poté essere pubblicato che in Gennaio, troppo tardi per usufruire delle Feste Natalizie per il
servizio obbligatorio. Così non potei avere la soddisfazione di andare con mio
figlio al ricevimento del Quirinale, come gli avevo promesso l’anno avanti, ed
il Destino volle che neppure una volta il mio Mario potesse recarsi assieme al
padre ad una festa militare.
Indispettito da tante contrarietà, dissi a mio figlio: “Poiché non è stato
possibile fare il tuo mese di servizio obbligatorio durante le vacanze Natalizie, ormai non pensarci più e continua i tuoi studi, onde poter fare dei buoni esami in Giugno; fatti i tuoi esami, chiederai in Luglio d’andare sotto le
armi per fare il tuo mese di servizio obbligatorio. Intanto gli permisi di uscire un paio di volte vestito in divisa con la Mamma: sarebbe stata crudeltà
fargli attendere il mese di Luglio per indossare quella tanto agognata divisa!
Però non più di un paio di volte: a mio figlio avevo insegnato che i gradi militari erano onorifici più assai delle decorazioni cavalleresche, perché queste
si ottengono spesso con delle raccomandazioni e si perdono molto difficilmente, mentre i primi bisogna sempre guadagnarseli e si possono perdere
con molta facilità.
Durante il lungo periodo di incoscienza attraversato dal nostro paese, nel
quale una folla d’esaltati, suggestionati forse da oro straniero, in nome di cose giuste (l’elevazione morale ed economica del proletariato) bestemmiavano
una cosa santa (la Patria) e s’accanivano contro i suoi difensori (l’Esercito),
mio figlio vedeva il mio lungo apostolato in favore delle trascurate e derise
Milizie, di questa parte dell’Esercito, embrione vero della Nazione armata che
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MARIO MODERNI
LA GIOVINEZZA
alcuni Deputati invocavano continuamente alla Camera, senza sapere che esisteva già e che mancava soltanto di buoni regolamenti per farla funzionare e
progredire; mio figlio aveva letto i miei articoli ed i miei libri, aveva ascoltato le mie conferenze, tendenti a smuovere l’apatia, dei Governanti, a far comprendere a tutti, militari e borghesi, l’importanza che avrebbe avuto queste
Milizie nel caso di guerra, e quindi le cure ed i provvedimenti di cui dovevano essere oggetto, il prestigio del quale dovevano essere circondati coloro che
volontariamente ne facevano parte; Lui, a cui piaceva tanto accompagnare il
padre quando usciva da casa in divisa, aveva notato quanto raramente il padre indossasse questa divisa, e la indossava soltanto per ragioni militari; poiché la divisa non è un travestimento da Carnevale, ma è l’abito con la quale
la Patria distingue i suoi difensori, e perciò coloro i quali è concesso l’onore
d’indossarla, non devono abusarne, ricordandosi sempre che è per il servizio
del loro paese che quell’abito caratteristico fu loro dato. Mio figlio sapeva
quindi che la divisa non si doveva vestire soltanto per andare a passeggio!
Però i momento d’indossarla vene più presto che non avessi preveduto,
poiché alla fine di Febbraio od ai primi di Marzo, modificata la disposizione,
che permetteva agli ufficiali della Milizia Territoriale, di poter compiere il
mese di servizio obbligatorio, entro l’anno dalla data del decreto di nomina,
prescriveva invece che tutti gli ufficiali i quali non avevano fatto ancora il loro mese di servizio, dovessero farlo non, più tardi del mese d’Aprile. Questa
disposizione, che rivelava la probabilità di un’imminente mobilitazione generale, mi persuase della convenienza di rinnovare la domanda di essere richiamato in servizio nel caso di guerra, mentre consigliavo a Mario di approfittare delle Feste Pasquali per fare il suo mese di servizio obbligatorio, e perdere
così il minor numero possibile di lezioni all’Istituto di Belle Arti.
La mattina del 13 Gennaio al momento del forte terremoto che distrusse
Avezzano e tante vittime fece nella Marsica, io e mia moglie eravamo ancora
in letto: mia moglie spaventata balzò in terra e si rifugiò sotto l’arco di una
porta;io non mi mossi perché ho avuto sempre la convinzione che non vi sia
niente da fare contro quel fenomeno. All’improvviso mia moglie gettò un grido: Mario! E corse così come si trovava presso di Esso. Mario, per non disturbarci, invece di venire a lavarsi nel gabinetto di toletta, adiacente alla nostra camera da letto, aveva preso l’abitudine di andarsi a lavare in cucina,
sotto la bocchetta dell’acqua, e per quanto brontolassi, non ho potuto mai impedirglielo: al momento del terremoto si trovava dunque in cucina, vestito
soltanto con le mutande e la flanella; vide e intese le casseruole, appese alle
pareti, urtarsi fortemente le une contro le altre, capì che si trattava di forte
terremoto ed uscì dalla cucina; nell’attraversare la camera d’ingresso, mentre
il pavimento gli oscillava in modo impressionante sotto i piedi, vide le nostre
biciclette oscillare così fortemente sui loro sostegni da far temere che cadessero; spaventato, stava aprendo la porta di casa senza sapere quel che si facesse, quando la madre lo raggiunse, la quale lo abbracciò e lo riconfortò.
Mario aveva inteso un’altra volta il terremoto a Terracina nella nostra villetta ma allora era bambino, il terremoto non era stato forte per cui non gli la-
sciò nessuna sensibile impressione; quello però del 13 Gennaio del 1915, lo
spaventò. La sera si coricò nella sua camera, ma non poté chiudere occhio
tutta la notte; la sera appresso si fece coraggio e, gettandomi le braccia al collo mi disse: “Portatemi a dormire con voi altri, perché in camera mia sono sicuro di non dormire”.
Capii che aveva ricevuto una forte scossa nervosa e gli risposi: “Mio caro
bambinone, in tre in un letto staremmo incomodi tutti e non dormiremmo
nessuno, ma ti accomoderò subito in un altro modo”.
Infatti, feci portare un ottomana nel mio studio, adiacente alla nostra camera da letto, vi feci portare anche i suoi materassi e gli feci preparare lì da
dormire, a due passi da noi e con la porta della camera aperta, in modo da
formare quasi una sola camera. Lasciai che dormisse nel mio studio una
quindicina di giorni finché l’impressione ricevuta non si fosse completamente cancellata. Infatti, un giorno egli stesso mi disse di far togliere l’ottomana
dal mio studio, perché la sera sarebbe tornato a dormire nella sua camera. Ho
voluto citare questo aneddoto della sua vita che sembrerebbe insignificante,
se non dovessi in seguito ricorrere al medesimo per tentare d’indovinare la
causa della sua morte.
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La prefazione del manoscritto
CAPITOLO V
LA VITA MILITARE
N
el 1915 la Pasqua capitò il 4 Aprile, ragione per cui Mario credette opportuno farsi chiamare in servizio fin dal 21 Marzo, per arrivare al Reggimento almeno una settimana che cominciassero le Feste Pasquali, durante le quali
un certo numero di ufficiali e soldati ottengono delle piccole licenze, quindi per
quei che restano vi è un maggior lavoro da compiere e conseguentemente minor tempo da dedicar agli ospiti che arrivano. Nella sua domanda, avevo fatto
chiedere a mio figlio, di essere destinato per la mobilitazione ad un Distretto dipendente dalla Divisione Militare Territoriale di Roma, avevo pregato poi il mio
amico Accattino perché si occupasse di ottenere dal competente Ufficio del Ministero della Guerra, la desiderata destinazione: manco a farlo apposta, mio figlio fu destinato al Distretto Militare di Ancona! Nel modulo stampato che gli
fu inviato, perché designasse i Reggimenti presso i quali prestare il suo mese di
servizio, Egli, domiciliato in Via Conte Verde, indicò per primo il 2° Granatieri, accasermato a Piazza Santa Croce in Gerusalemme, a due passi cioè dalla
sua abitazione: fu destinato a prestar servizio presso l’82° Reggimento Fanteria, accasermato alla Caserma Principe di Napoli ai Prati di Castello, cioè pre-
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MARIO MODERNI
LA VITA MILITARE
cisamente alla parte opposta della città dov’Egli aveva la sua abitazione!
Il 21 Marzo dunque, era di Domenica, Mario si presentò all’82° Reggimento di Fanteria, poi venne a trovarmi nella clinica Postemspski (vicinissima alla
caserma del suo Reggimento) dove ero stato operato di un ascesso, circostanza
che mi aveva impedito di presenziare la sua entrata in servizio e di accompagnarlo in caserma dando così a questa cerimonia una certa importanza, perché
gli restasse impressa nella memoria. Pochi giorni dopo poté tornare a casa e ripresi subito le lezioni per completare la sua istruzione militare, tanto più che al
Reggimento si occupavano d’insegnarli quasi esclusivamente il servizio di caserma: picchetto, ranaio, spesa, ecc., ma esercitazioni militari, ma il comando
di un reparto in ordine chiuso ed in ordine sparso, niente o quasi niente. Eravamo alla vigilia della guerra e la grande maggioranza degli ufficiali dell’esercito permanente, credevano che gli ufficiali della Milizia Territoriale non dovessero far altro che comandare reparti presidiari!
Quel mese volava; mio figlio avrebbe voluto, novello Giosuè, fermare il sole, perché quel mese non fosse passato mai; ad ogni modo Egli compiva il suo
dovere con una puntualità, con una passione, con una serietà, che dovevano necessariamente rimarcati, e con una preparazione, che doveva sembrare impossibile a certi cervelli troppo piccoli. Nell’ultimo periodo di sua istruzione, il suo
Reggimento andò ad Avezzano a fare i tiri collettivi, ed Egli passò gli ultimi dieci giorni del suo servizio sotto alla tenda: il posto non si prestava troppo ad una
specie di scampagnata; il puzzo cadaverico che emanava dalle povere vittime
del terremoto del 13 Gennaio di quell’anno, rendeva poco piacevole quella residenza, ma per il mio Mario, che aveva così alto il sentimento del dovere, non
vi poteva essere disagio, non vi poteva essere privazione, causate dalla vita militare, che non avesse sopportato filosoficamente.
Terminato il suo mese, tornò a Roma di malavoglia, ed al Reggimento lo
avrebbero trattenuto volentieri (lo amavano già tutti, colleghi e superiori) ma a
me importava che terminasse l’anno di corso all’Istituto di Belle Arti, ed Egli
tornò rassegnato. Al Deposito del Reggimento vi era però deficienza di ufficiali
ed Egli si offrì di restare ancora per qualche giorno sotto le armi, senza assegni.
Qualche tempo dopo gli furono comunicate le sue Note Caratteristiche: erano
ottime. Vi era notata la severa eleganza militare nel vestire, la disinvoltura e naturalezza nel portare la divisa militare, la correttezza dei modi con i superiori,
eguali ed inferiori, la buona istruzione militare, la sua resistenza alle fatiche e
specialmente alle marce che gli avevano permesso, in una marcia-manovra di
40 chilometri, su per montagne impervie, d’essere uno dei pochi giunti in orario con il suo reparto, malgrado il suo aspetto fisico, il quale sembrava delicato, non facesse supporre tanta forza di resistenza. Il Capitano che aveva scritto
queste Note non sapeva e non supponeva, perché mio figlio non né menava vanto, che a cinque anni quel ragazzo magrolino aveva cominciato, nei mesi estivi,
a scalare con il padre le montagne dell’Abbruzzo e delle Marche, diventando
presto un eccellente camminatore; che a sei anni il padre suo lo aveva messo in
bicicletta ed era stato il ciclista più piccolo di Roma; che a quattro anni già si
reggeva a galla nell’acqua, ed a poco a poco era diventato così buon nuotatore
che, con le mani incrociate dietro le reni, nuotando con i soli piedi, superava in
velocità molti che nuotavano anche con le braccia; che fin da bambino, il padre gli aveva spedito a Terracina, da Grottammare su l’Adriatico, un bel sandalino, lungo 5 metri, perché con il remo si fortificasse il braccio. Oh, il padre
non aveva trascurato nulla per renderlo sano e forte! E se non aveva fatto di
più, se non aveva potuto ancora fargli apprendere la scherma, l’equitazione e
tutti gli altri esercizi ginnastici, si è perché il molto tempo che lo studio aveva
richiesto a quel povero figliuolo, glielo avevano impedito.
Alla fine di Aprile tornò a scuola… lasciando il cuore in caserma: in Maggio, all’Istituto Superiore di Belle Arti cominciano già gli esami ed io temevo che
Mario, se arrivava agli esami, difficilmente li avrebbe superati, perché supponevo che tra l’amore, il tempo perduto per sollecitare la sua nomina, ed il mese perduto per il servizio militare, poco doveva aver concluso in scuola. Invece,
dopo la sua morte, essendomi stati restituiti dall’Istituto di Belle Arti, tutti i lavori da Lui consegnati durante l’armata, potei constatare che questo buon figliuolo aveva lavorato più degli anni precedenti; fra i suoi lavori vi era della
buona roba e la sua promozione al 1° anno del corso speciale di Architettura,
era certamente assicurata. Egli mi diceva spesso che lavorava alacramente, per
anticiparsi del lavoro in previsione di quello che avrebbe dovuto perdere per il
servizio militare, però non ci credevo molto, mentre è poi risultato che quanto
mi diceva non era che la pura verità.
Cresceva intanto il fermento popolare per gli avvenimenti politici che andavano rapidamente maturandosi: il buon senso del nostro popolo, lo spingeva a
sciogliersi dall’alleanza tedesca ed a schierarsi risolutamente a lato della Francia e dei suoi alleati, malgrado fosse stata proprio essa a spingerci nell’innaturale alleanza, alla quale disgraziatamente avevamo dovuto rassegnarci per oltre
un trentennio.
Mario, apparentemente non prendeva parte all’agitazione che lo circondava, e
mi pareva strano, perché mio figlio conosceva i miei scritti a scopo di propaganda nei quali, pur riconoscendo i torti della Francia verso l’Italia, la sua
sciocca gelosia e rivalità, avevo propugnato sempre, anche quando la mia propaganda avrebbe potuto sembrare assurda 12 la necessità non solo di un alleanza, ma addirittura di una federazione di tutte le nazioni latine, per far fronte tanto al pangermanismo che al panslavismo. Proprio nei primi mesi del 1915, insieme ad altri pochi conoscenti, avevo fondato la nuova Associazione Latina gens
che tendeva appunto all’unione intima dei Latini di tutto il mondo, e Mario con
sua madre vi figuravano anch’essi come soci fondatori; il 20 Dicembre del 1915,
anniversario dell’impiccagione di Guglielmo Oberdan, avevo fatto una conferenza, l’ultima alla quale assistette anche mio figlio, conferenza di carattere polemico contro i germanofili d’Italia e la loro stampa, per sostenere tutte le ragioni
che ci imponevano imperiosamente di dichiarare la guerra ai due Imperi Tedeschi, i quali avevano tradito la nostra alleanza per smisurata sete di dominio;
conferenza calda di amor patrio nella cui chiusa, rivolgendomi al Presidente del
Consiglio dei Ministri gli dicevo fra l’altro: “… I nostri figli son tutti inscritti nelle file dell’esercito, che se li prenda, essi son sacrati alla Patria!…”. Parole che il
12: E continuerò in questa propaganda, anche dopo il modo stupidamente infame, con il quale l’Italia fu trattata dalla Francia,
salvata: prima con la sua neutralità; poi dal suo intervento, quando la Russia battuta doveva indietreggiare;infine d’aver messo
termine alla guerra, che avrebbe potuto prolungarsi ancora, mandando in frantumi l’Impero Austriaco con la strepitosa vittoria
di Vittorio Veneto, che le permetteva anche di minacciare alle spalle l’esercito tedesco.
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
mio avverso Destino, il quale non mi ha lasciato un momento durante tutta
la mia vita ghignando, scrisse subito sul suo taccuino! Mario divideva le mie
idee, ma tacitamente e non vi si accalorava; Egli ascoltava il suo Papà con visibile soddisfazione, come mostravasi soddisfatto ogni volta che pubblicavo
qualche mio lavoro o qualche mia conferenza, senza però entusiasmarsi.
Vennero le famose giornate del Maggio con le loro dimostrazioni, degenerate più volte in collisioni, e che nel momento culminante arrivarono fino all’invasione del palazzo della Camera dei Deputati ed alle barricate di
via Viminale; Mario, sempre calmo, freddo, sereno, inappuntabile nel vestire, andava regolarmente all’Istituto di belle arti per i suoi studi, veniva a
casa, immancabilmente alle ore solite, senza che da parte nostra avessimo
potuto sospettare che Egli si fosse trovato immischiato in qualche dimostrazione,in qualche tafferuglio;senza poter aver da Lui informazioni di
quanto avveniva giù, nel centro di Roma, che attraversava ogni giorno, e
seppure ci portava qualche notizia,erano cose, che diceva avere udito in
scuola dai suoi compagni.
Io e mia moglie, parlando fra di noi di quanto stava avvenendo esclamavamo spesso: “fortuna che Mario non si riscalda!”. E dicevamo così non perché ci fosse dispiaciuto che nostro figlio, a 22 anni, avesse parte attiva a quegli scoppi d’entusiasmo patriottico, che sono una caratteristica della gioventù,
specialmente di quella italiana e che si può bene affermare, nel Maggio del
1915 salvarono l’Italia, spingendola sulla via che doveva percorrere; no, non
ci sarebbe dispiaciuto affatto, ma temevamo per Lui i modi brutali delle Guardie di Città e le disgrazie che sempre si verificano in quei tafferugli.
Il giorno della grande dimostrazione che partendo da Piazza del Popolo
aveva per meta l’abitazione del Presidente del Ministero Antonio Salandra,
Mario venne con me e con la Mamma a Piazza del Popolo, dove, dopo aver visto l’immensa massa di gente che sulla vasta piazza e nei viali dell’attiguo Pincio andava organizzandosi, precedendo il corteo, andammo ad attenderlo sulla gradinata della Trinità dei Monti: era passata una terza parte del corteo, di
quella grande imponente fiumana di popolo composto, ordinato, plaudente ed
inneggiante alla guerra, quando Mario, che fino allora aveva riso con noi del
bagno involontario fatto da alcuni giovinotti caduti nella Fontana della Barcaccia, mi disse: “Papà, mi lasci andare con la dimostrazione,vedi che non vi
è alcun pericolo”.
Acconsentii e ci lasciò, sparendo immediatamente in mezzo a quella moltitudine; La sua forza di resistenza doveva essere giunta all’estremo limite, perché tutta quella calma, quella indifferenza era una maschera che si era imposta per farci vivere tranquilli: esso sapeva quanto grande fosse l’affetto nostro
per Lui, Esso sapeva che all’ora dei pasti se lo vedevo tardare mi angustiavo,
mi spaventavo subito (sempre la stessa strana e terribile visione mi appariva:
Mario saltando sul tram in corsa cadeva restando con l’estremità delle gambe
sfracellate!!!) perciò Esso per evitarci preoccupazioni faceva l’indifferente;
soltanto dopo la sua morte, dalla sua innamorata ed altri nostri altri conoscenti, abbiamo appreso, con grande nostra meraviglia, che non solo il nostro
Mario era sempre in mezzo a tutte le dimostrazioni, ma ne era sempre uno dei
vessilliferi! Però quando suonava l’ora che doveva trovarsi a casa, lasciava
bandiere e dimostranti, si ricomponeva, si metteva la sua maschera d’indifferenza, perché i suoi genitori dormissero tranquillo.
Si attendeva da diversi giorni il Decreto di mobilitazione ed io nell’attesa
nascondevo a mio figlio la mia afflizione ed il mi scoraggiamento, dappoi che
avevo perduto ogni speranza d’essere chiamato alle armi. Ero stato sempre uno
degli ufficiali in congedo più in vista per la mia attività; avevo avuto incarichi
lusinghieri; negli ultimi due anni ero stato chiamato due volte consecutive alle Manovre con i quadri, riportando ottime note caratteristiche; ero stato promosso Colonnello; avevo 67 anni è vero, ma è pur vero che ero forte e robusto,
perché gli anni soltanto non bastano a giudicare delle forze di un individuo;
quanti mi conoscevano, anche nel mondo militare, ritenevano che sarei stato
tra i primi chiamati, ed invece nessuno avviso avevo ricevuto di un’eventuale
chiamata. Il vedermi messo in disparte mi aveva arrecato un grandissimo dolore, sia perché desideravo prendere parte a quell’altra campagna, a quest’ultima campagna della nostra indipendenza, sia perché speravo poter avere Mario nel mio Reggimento; un Reggimento, di Milizia Territoriale, quindi di seconda linea, ed averlo sotto gli occhi miei, potermi incaricare della sua salute,
potergli far scudo del mio corpo se fosse stato necessario.
L’Italia stava per dichiarare la guerra, nessuno ormai ne dubitava più, e se
ciò faceva piacere alla mia anima di vecchio patriota che vedeva finalmente arrivato il giorno per il compimento della nostra unità, per l’innalzamento della
Patria adorata,per l’aumento del suo prestigio, della sua potenza, della sua ricchezza, dall’altro canto vedevo con dolore Mario obbligato a lasciare la scuola
e partire proprio nel momento in cui dopo tante fatiche e tanti stenti, stava per
conseguire un primo diploma, quello per l’abilitazione all’insegnamento del disegno, che gli avrebbe permesso di concorrere ai posti di professore nelle Scuole Secondarie. Era mio fermo proponimento, fargli continuare gli studi fino al
raggiungimento del diploma di Architetto, ma quel primo diploma nelle mani
di mio figlio, sarebbe stato un grande coefficiente di tranquillità per me, perché se io fossi venuto a mancargli e non avesse potuto portare a fine i suoi studi, lo stipendio di professore di disegno, unito alle rendite del suo picolo patrimonio, gli assicuravano una posizione modesta, ma sicura e tranquilla. Il nostro avverso Destino aveva disposto diversamente: Mario non avrebbe avuto il
tempo di dare gli esami e sarebbe partito, mentre suo padre sarebbe rimasto a
casa, torcendosi le mani dal dolore!
Ed il giorno tanto desiderato e tanto temuto venne finalmente: pubblicato
il Decreto di mobilitazione Generale, Mario doveva partire la sera del 23 Maggio per trovarsi la mattina del 24 ad Ancona, alla formazione del 139° Battaglione di Fanteria di Milizia Territoriale. Per quanto questa dolorosa separazione fosse preveduta, per quanto vi si fossimo preparati, pure fu straziante per
i nostri cuori;e tanto più fu straziante in quanto che bisognava frenarsi, bisognava nascondere il nostro dolore per non dare esempio di debolezza, ma viceversa dare esempio al nostro adorato figliuolo di fortezza d’animo della qua-
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le lontano da noi,avrebbe avuto sicuramente bisogno. La mia buona compagna, l’affettuosa seconda madre di Mario, trovavasi presso una sua amica, benché venne il marito di questa e portò la notizia che per le strade era stato affisso il Decreto di Mobilitazione Generale: mia moglie trasalì impercettibilmente, ma rimase apparentemente tranquilla; l’impressione provata per quella notizia, determinarono però nel suo fisico una crisi, le conseguenze della
quale avranno influenza per tutto il resto della sua vita! A me restava più facile nascondere il dolore per la partenza di mio figlio, facendolo credere dovuto tutto alla mancata mia chiamata in servizio. In quanto a Mario, quel giorno la sua forza d’animo fu messa a dura prova: cuore buono ed affettuoso, cominciò a provare un grande dolore nel doversi separare dalla sua Amalia, con
la quale amoreggiava oramai da circa due anni, e separarsene così clandestinamente, perché tanto i genitori della ragazza, quanto noi dovevamo fingere
d’ignorare questo loro amore, fino al giorno in cui la costanza dei due giovani
e la posizione di mio figlio, non mi avessero permesso e consigliato di chiedere per Lui la mano della signorina. Mario si raccomando alla Mamma perché
lo aiutasse a mantenerlo in relazione con l’innamorata e la pregò di frequentare, più spesso possibile, là di lei casa, onde poterne avere notizie anche da
parte sua. Non si era mosso mai dal fianco nostro, lo avevamo abituato casalingo, e per quanto ai giovani sorrida l’idea di sciogliere il volo ed allontanarsi per qualche tempo dal nido, pur tuttavia il pensiero che il ritorno a questo
nido, in mezzo alle affettuosità familiari, non dipendeva dalla sua volontà, lo
rendeva nervoso e malinconico.
Era però sempre bello, elegante e baldo nella sua semplice divisa grigiaverde, che indossava con insuperabile disinvoltura e spigliatezza: io me lo andavo a guardare di nascosto, mentre gli preparavo la cassetta, insegnandogli a
sistemare con curala propria roba, onde farcene entrare il più possibile, e ad
approfittare del minimo spazio, del più piccolo vuoto tra oggetto e oggetto, per
collocarvi qualche altra cosa utile in campagna. La mia riconosciuta abilità nel
preparare valigie, era però messa a dura prova da mia moglie, la quale ogni
tanto aveva da fare una nuova raccomandazione, doveva dare ancora un ultimo consiglio al suo Mario, e conseguentemente mi portava qualche altro indumento assolutamente indispensabile, o qualche oggetto necessarissimo, sicché quando credevo d’aver terminato, quando avevo mostrato a mio figlio la
posizione di ogni cosa,raccomandandogli di conservare sempre quell’ordinamento senza disfare mai la cassetta, mi vedevo costretto vuotarla, per variare
tutto l’ordinamento che avevo ideato onde farci entrare il nuovo indumento assolutamente indispensabile o il nuovo oggetto necessarissimo, che mia moglie
mi presentava. Per riporre tutta la biancheria, scarpe di ricambio, oggetti di
comodo,specialità medicinali, ecc. ecc. che essa avrebbe voluto far portar via
al suo Mario, sarebbe stato necessario uno di quei caratteristici bauli che usano i Commessi viaggiatori: altro che cassetta militare!
Avremmo voluto che quella giornata non fosse passata mai, ma il tempo se
è galantuomo è anche inesorabile, e la giornata passò. Cenammo; si capisce
che mangiammo poco tutti e tre, e la cena non fu allegra! Durante la cena;
mia moglie mise al collo di Mario una sottile catenella d’argento, attaccata alla quale eravi un piccolo medaglione, pure in argento, racchiudente il ritratto della sua povera Mamma morta, raccomandandogli di non togliersela mai
e di portarsela su la pelle, al posto in cui molti altri portano le medaglie benedette delle diverse Madonne e Crocefissi. Pensiero tenero, gentile ed educativo ad un tempo!
Si avvicinava l’ora della partenza: presi mio figlio per una mano, l’altra
gliela posai su una spalla e così gli parlai.
“Se qualche volta ti è sembrato che io fossi brontolone, esigente, pedante,
noioso, si è perché ti amo immensamente, si è perché desidero di vederti adorno di ogni virtù, desidero vederti amato stimato da tutti; ma ora che tu parti,
che ti allontani da casa dei tuoi per un tempo indeterminato, ti dichiaro che ti
vedo partire tranquillo, perché tu sei un buon figliuolo, nel cuore del quale non
ho seminato invano, e sono sicuro che dovunque andrai tu manterrai alto ed
onorato il nome onesto della tua famiglia,in qualunque circostanza ti troverai,ti ricorderai di noi, ti ricorderai di essere nato a Roma. Tu parti, ma i nostri cuori ti seguono, il nostro pensiero ti aleggerà sempre intorno. In nome mio
e della tua povera Mamma morta, ti benedico dal più profondo del cuore”. Lo
abbracciai e lo baciai, poi lo abbracciò e baciò mia moglie che, a quella scena
non aveva potuto frenare il pianto.
Mario era estremamente commosso, ma si contenne. Il domani mia moglie
mi disse che, approfittando d’essere rimasto solo con essa, perché io ero andato a prendere una carrozza e la domestica era scesa al portone con la sua cassetta, Mario gli gettò le braccia al collo pianse di un pianto convulso. Egli si
contenne davanti a me per timore che io scambiassi per debolezza ciò che era
tenerezza, e che forse neppure Lui distingueva bene cosa fosse, ma lasciò libero sfogo al suo sentimento gentile, quando fu solo con la santa creatura che
aveva avuto cura della sua infanzia, che aveva con tanto amore, con tanta devozione, con tanta abnegazione, ringraziato la sua povera madre.
Lo accompagnammo alla stazione un’ora prima della partenza, per assicurargli un angolo dello scompartimento, dove passare la notte il più comodamente possibile e ci riuscimmo. La stazione rigurgitava di partenti, i vagoni di
tutti i treni erano colmi di richiamati, i quali dopo aver riempito le terze classi, si erano dovuti collocare alla meglio nei corridoi delle seconde e delle prime
classi. Nello stesso scompartimento di Mario e quasi contemporaneamente era
salito un Capitano della Milizia Territoriale, che non conoscevo, e che doveva
essere proprio il Capitano di mio figlio. I guardia freno gridarono affine il sacramentale: signori in vettura; Mario ci abbracciò e ci baciò un ultima volta,
poi salì in vettura;ci salutò ancora una volta con la voce e con la mano mentre
il treno si muoveva, ma non poté venire al finestrino per l’agglomerazione dei
richiamati nel corridoio del vagone.
Tornammo a casa assai mesti per quella partenza del nostro figliuolo, benché non temessi alcun pericolo immediato per Lui: sapevo che andava in una
città del litorale adriatico lungo il quale il nemico avrebbe sicuramente tentato qualche cosa, ma non mi era riuscito di sapere se il mio Mario apparteneva
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ad un Battaglione costiero: dunque non il timore di un pericolo vicino ci rendeva mesti, ma il vuoto immenso che la partenza di quel giovane aveva fatto
nella nostra casa, di quel giovane che era lo scopo di ogni nostra attività, di
ogni nostro pensiero.
In quanto ai pericoli che potesse correre mio figlio, mi ero però ingannato
completamente: dopo poche ore che ci aveva lasciato, mancò poco che il nostro Mario restasse ucciso!
La mattina seguente, verso le 8.41 mentre come al solito mi recavo al mio
ufficio in Via Carlo Alberto mi venne incontro premurosamente il Dott. Giovanni Andrea Giuliano, nostro medico di famiglia, fin da quando Mario era rimasto orfano, il quale mi diede notizia che Ancona era stata bombardata dalla flotta austriaca, con morti, feriti e danni rilevanti; così pure si diceva bombardato un treno che si dirigeva verso Ancona, ed anche su questo vi sarebbero stati morti e feriti.
“A che ora è avvenuto il bombardamento?” Chiesi trepidante al dottore.
“Dicono verso le 5”.
Respirai: il treno dove trovavasi Mario arrivava in Ancona verso le 7, dunque alle 5 era almeno ad 80 o 100 chilometri di distanza! Tornai subito a casa a prevenire mia moglie dell’accaduto e rassicurarla che Mario non poteva
essersi trovato al bombardamento. Infatti, nella giornata ci pervenne un suo
telegramma così concepito: “Arrivato con ritardo sto benissimo; Moderni.”
Ci tranquillizzammo completamente: pensai che, dato il bombardamento subito da Ancona, avessero fermato i treni che si dirigevano verso quella
città; da qui il ritardo nell’arrivo di Mario: però le cose erano andate un po’
diversamente.
Il 24 Maggio stesso, dopo averci fatto il telegramma, perché la notizia del
bombardamento non ci spaventasse, ci scrisse una prima lettera nella quale
era questo periodo: “Non state in pensiero per me, benchè appena giunto sia
stato ricevuto a cannonate: non posso parlare di più, solo vi conforti il pensiero che sto bene e vi ricordo con affetto”. In altra lettera scrittaci il 26 Maggio
vi è anzitutto questo ricordo per la Mamma: “Ringrazio Mamma della gentilezza che mi ha usata,che ricambio ricordandomi di lei”.
Poi più sotto dice:
“Tutte le notti spara il cannone dando l’allarme e le trombe
segnalano per la città il pericolo,per la presenza di navi e velivoli nemici. Quindi si passa tutta la notte in caserma senza dormire, per essere pronti a mettere in salvo la truppa. Ho con me un
pezzo di granata che mi è caduta vicino, fortunatamente senza
colpirmi, e che porterò per caro ricordo del bombardamento di
Ancona”.
Il 27 mi scrive ancora una cartolina così concepita: “Grazie di tutto quello
che mi dici; spero farmi onore se mi favorirà l’occasione.io sto bene. Lavoro dalle 4 della mattina alle 7 di sera, e poi quasi tutte le notti dormo in piedi perché
viene dato l’allarme… Saluta la mia Mammuccia e dille che si ricordi di me 13”.
Da altre notizie datemi poi da Lui a voce, da altre datemi dal suo Capitano
Alfonso Schiavo e dal Tenente Edoardo Vicario, dopo la sua morte, ho saputo
ricostruire esattamente la scena del bombardamento. Il treno stava per giungere alla stazione di Falconara quando tutto il personale del treno nel quale trovavasi mio figlio ed i viaggiatori che erano con Lui, poterono vedere le navi austriache che stavano bombardando Ancona, bombardamento del quale avevano cominciato ad udirne il rumore in lontananza. Le navi austriache disposte
ad angolo, con il vertice toccavano quasi il porto di Ancona: appena le navi, che
formavano il lato dell’angolo dalla parte di Falconara, si accorsero del treno che
arrivava, con una conversione si mossero per disporsi parallelamente alla spiaggia, mentre contemporaneamente cominciarono a sparargli contro delle cannonate. Il macchinista, senza perder tempo diede macchina indietro ed andò a nascondersi riparato dalle colline: da bordo però, con i loro cannocchiali, dovevano aver veduto che trattavasi di un treno pieno zeppo di richiamati e conseguentemente fecero segnali ai velivoli che, unitamente alle navi, stavano bombardando Ancona. Infatti, al di sopra della località dov’erasi arrestato il treno,
apparve presto un velivolo, proveniente da Ancona, il quale si mise a gettare
granate: gli ufficiali che si trovavano nel treno, accortisi della poco gradita visita, fecero subito discendere tutti i richiamati, consigliandoli a sparpagliarsi
per la campagna onde non subire perdite rilevanti. Tanto per fare rumore, alcuni ufficiali, tra i quali il mio Mario, scaricavano le loro pistole contro il velivolo, che del resto si manteneva ad una quota abbastanza bassa. Ad un dato
momento una scheggia sfiorò la giubba dalla parte sinistra del petto di Mario
ed andò a conficcarsi avanti la punta di un piede del Capitano Schiavo, con il
quale stava parlando. Mio figlio, senza scomporsi, si chinò, estrasse con un certo sforzo la scheggia di granata che si era fortemente infissa nel terreno e, dopo
averla attentamente osservata,se la ripose attentamente in tasca esclamando:
“Questa birbonata, gli Austriaci ce la dovranno pagare! Il Tenente Vicario osservò che nel dir ciò i bellissimi occhi di Mario
brillavano come due stelle. Mario aveva ricevuto il battesimo del
fuoco e l’aveva ricevuto dall’arma nuovissima apparsa sui campi
di battaglia, la mattina stessa del primo giorno della Mobilitazione Generale, poche ore dopo l’Italia aveva dichiarato guerra
all’Austria. Era un predestinato!”.
Intanto su la via carrozzabile era rimasto ucciso un uomo e ferita sua moglie, che si trovavano sopra un carrozzino: mio figlio ed il Capitano Schiavo accorsero presso quella povera donna, la confortarono alla meglio e quindi l’accompagnarono all’ospedale di Ancona. L’essersi trovati in viaggio nello stesso
scompartimento, l’aver sfidato assieme il suo primo pericolo, unì subito in amicizia mio figlio con il Capitano Schiavo, al quale ultimo piacque la freddezza
d’animo e l’impassibilità di Mario sotto l’azione delle granate del velivolo. Conseguentemente mio figlio ed il Capitano Schiavo ottenne facilmente d’averlo con
13: Probabilmente alludeva alle notizie dell’innamorata.
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sé nella sua Compagnia. I velivoli nemici continuarono per diverse notti a fare
incursioni sopra Ancona: in una di quelle notti, il Capitano Schiavo essendo stato chiamato in servizio in un punto assai pericoloso, Mario, quell’anima di soldato nato, si offrì spontaneamente di accompagnarlo per non lasciarlo solo
esposto al pericolo; a nulla valsero le proteste, i consigli del Capitano, perché
Mario non si esponesse inutilmente al pericolo, perché risparmiasse le sue forze, in quei primi giorni faticosissimi di mobilitazione, specialmente per un Sottotenente; ma tutto fu inutile, Mario volle restare con il suo superiore. I velivoli, vennero, gettarono le loro bombe, danneggiarono la caserma, ma il mio Mario restò freddo, impassibile, padrone di se per modo si accattivò sempre più la
stima e l’amicizia del Capitano Schiavo.
Era esposto al pericolo, ma per quanto mi fossi raccomandato che non mi
tenesse celato nulla, che non mi trattasse come una donnicciuola e perciò mi dicesse tutto quanto di notevole gli accadeva, pure per non spaventare la sua buona Mammuccia, il suo Gatto, come la chiamava scherzosamente, e qualche volta si firmava il tuo Sorcio, non mi diceva tutto, non mi diceva tutto il pericolo
che nei primi giorni di mobilitazione presentava Ancona. Non dormiva di notte, faticava tutto il giorno dalle 4 alle 19, non sempre trovava da mangiare come gli sarebbe stato necessario, ma pure trovava il tempo per scrivere quasi tutti i giorni una letterina al padre e spedire tutti giorni, con una cartolina illustrata, un pensiero, un ricordo, un saluto affettuoso alla Mamma; Ai conforti,
agl’incoraggiamenti del padre, risponde fin dal primo momento: state tranquilli
che farò il mio dovere e, se la fortuna mi assiste,mi farò onore.
Il 5 Giugno mi scrisse la sua prima lettera da Macerata, arrivatovi, a quanto pare, il giorno avanti: cominciò allora per Lui quel periodo noioso di guarnigione, che ci descriveva nelle sue lettere quotidiane, perchè era giusto, era buono come sempre e non si lamentava di nulla. Nelle sue lettere ci diceva che aveva avuto la fortuna di trovare un buon attendente, come quello che gli era capitato all’82°Reggimento Fanteria; che i suoi colleghi lo trattavano bene e con
considerazione; che vi era affiatamento nel Battaglione e che era contento di
trovarvisi; con il suo Capitano poi Adolfo Schiavo, si erano tolti dalla trattoria,
avevano preso in affitto un appartamentino ammobiliato di 2 camere con cucina e facevano così vita in comune, approfittando dei loro attendenti per farsi
preparare da mangiare; diceva spesso quanto gli fosse utile l’istruzione militare
che gli avevo impartito in casa e lo studio dei regolamenti militari, quel po’ infine che gli avevo potuto insegnare e che a Macerata gli permetteva di non avere preoccupazioni quando, essendo l’ufficiale subalterno più anziano della
Compagnia, gli capitava spesso di doverne assumere il comando. Aveva molto
da fare e perciò gli restava poco tempo disponibile, ma almeno una volta a settimana non mancava di fare il suo bagno, come gli aveva raccomandato la
Mamma: il soggiorno di Macerata, dov’era stato da ragazzo in villeggiatura con
me e con la Mamma, gli riusciva monotono e poco gradito, malgrado gli avessi
inviato biglietti di presentazione per nostri conoscenti, dai quali era stato accolto affettuosamente. Si capiva anche dalle righe delle sue lettere, che non era
quella la vita militare alla quale agognava in quel momento di rinnovato pa-
triottismo, il quale aveva spinto migliaia di giovani studenti a partire volontari
per il campo, come semplici soldati: infatti, in fondo ad una sua lettera, che porta la data del 14 Giugno, scriveva:
“L’unica cosa che mi addolora è che pare che il nostro Battaglione sia sedentario e debba restare a Macerata; prego perciò te
e Mamma di perdonarmi se assieme al mio Capitano, ho avanzato la domanda di andare avanti od essere traslocato in un Battaglione marciante. E’ bene che ognuno scelga il suo posto in questo dramma europeo”.
Risposi allora, cercando di frenarlo, e gli dicevo: “lodo il tuo patriottismo ed
il tuo elevato sentimento militare; che tu sia benedetto perché ti vedo cercare risolute le orme del padre tuo; tu mi fai ringiovanire: però sarebbe stato meglio
che questa domanda tu non l’avessi fatta e ti prego ad ogni modo di non rinnovarla. Tu sei figlio unico non solo, ma sei l’unico del nostro casato, quindi
morto te si estinguerebbe la nostra famiglia e sarebbe un male. Sarebbe un male perché tu sei unico erede di un piccolo patrimonio, che devi far crescere nell’interesse tuo e nell’interesse generale del paese; tu sei anche erede di un certo
patrimonio morale che la tua morte immatura disperderebbe, quando invece,
aumentato delle tue azioni, potrebbe essere utile ai tuoi discendenti e per la Patria. Nel 1866 io potei partire tranquillamente volontario per la guerra, perché
lasciavo a casa un fratello, ma tu, essendo solo, hai altri doveri da compiere, altrettanto importanti per la Patria quanto l’affrontare il nemico in campo, quindi bisogna che ti accontenti di fare quel servizio militare che le tue speciali condizioni di famiglia ti permettono, e per le quali appunto la legge ti ha esentato
dal servizio di prima linea”.
Gli scrissi a questo modo, ripeto, per gettare un po’ d’acqua sugli ardori
bellicosi che si rivelavano in Lui, ma in fondo ero contento di vederlo patriota, coraggioso e risoluto, dopo tutto non credevo corresse grandi pericoli, se anche lo avessero traslocato in Battaglione marciante: era stata trascurata quella povera Milizia Territoriale, che non gli avrebbero affidato certamente che
servizi di retrovia!
Durante il mese di Giugno non ci furono altre novità all’infuori di un ritardo postale che lo lasciò per qualche giorno senza nostre notizie, ma questa circostanza di poca importanza, servì a farci meglio la sua affettuosità e la sua premura a nostro riguardo, perché la mancanza delle nostre lettere lo angustiava;
così pure, essendo rimasti senza domestica. Egli raccomandava alla Mamma di
non affaticarsi; sono piccole cose, le quali però dimostrano come, uscito per la
prima volta da casa sua, in mezzo ad un ambiente specialissimo, circondato da
molti compagni, occupatissimi in ufficio nuovo affatto per Lui, pure non trascura i suoi e continua per così dire, a vivere con essi anche da lontano. Nelle
sue lettere ci ripete ancora la speranza di essere traslocato in un Battaglione
Marciante che si stava formando a Milano, ma nello stesso tempo che il suo
maggiore non lo avrebbe lasciato partire avendo dichiarato che, nella penuria
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di ufficiali di cui soffriva il Battaglione, non poteva privarsi di uno dei migliori. Ci annunziava anche la sua nomina a comandante il reparto zappatori, e
mentre non si mostrava troppo entusiasta di questa sua nomina, per le seccature che portava con sé, come potuto constatare al campo di tiro in Avezzano
con l’82° Reggimento Fanteria, d’altra parte il motivo che gli aveva procurato
questa nomina, cioè il carattere serio, lo lusingava e dalle sue lettere, si capiva
che se ne compiaceva. Povero figliuolo, aveva moralmente sofferto tanto al Ginnasio, che non gli pareva vero di trovarsi in un ambiente dove anziché essere fra
gli ultimi si trovava tra i primissimi!
Di questa sua nomina se ne occupò anche la stampa locale: il giornale di Macerata La Preparazione nel suo n° 27 dell’11 Luglio 1915, facendo gli elogi del
139° Battaglione e del suo comandante, dopo aver lodato la fanfara e la banda
allora costituitasi, aggiunge: “ma ha pure testè istituito il reparto zappatori che
partirà domani per preparare i campi di tiro. Il comando di questo reparto venne affidato al Sottotenente Mario Moderni, romano, giovane animoso, bene
scelto per la bisogna”. Il 20 Luglio era il suo compleanno e noi desideravamo
di averlo con noi, di rivederlo dopo due mesi di lontananza, per cui gli suggerii
di chiedere una piccola licenza onde recarsi a Roma per affari. A Lui non parve vero di poter cogliere un pretesto per fare una scappata Roma, dove non c’era solo Papà e Mamma, ma c’era anche Amalia, alla quale scriveva tutti i giorni! Ma proprio in quel momento il Comandante della Divisione Militare, forse
per togliere qualche abuso, sospendeva tutti i permessi: cominciò quindi per
Mario un periodo d’incertezza, sempre fra il sì ed il no, che gli fosse accordato
il chiesto permesso. D’altra parte l’incarico affidatogli del riattamento del campo di tiro di Tolentino, con l’aumento delle piazzuole di tiro e l’allungamento
delle farfalle artificiale, rendeva ancor più difficile l’ottenimento del permesso,
desiderato da noi e da Lui.
Era occupatissimo, ma ci scriveva sempre affettuosamente: la Mamma
avendolo rimproverato di non averle spedito un gruppo fotografico fatto con dei
suoi compagni, mentre lo aveva spedito alla sua Amalia, in fondo ad una lettera scritta a me l’8 Luglio, così amorosamente si scusava:
Cara Mamma
Ti accludo il gruppo che ti avevo mandato e che sarà andato
smarrito. Avevo pensato subito di mandartelo,ma non so come
non ti sia giunto. E’ vero che sei inquieta con me? Povero Gatto!
Ma il sorcio ha tanto da fare ed è stanco, non materialmente, ma
perché deve pensare ai suoi 40 bambini da mantenere essendo solo con essi.
Come stai? Ricordati di me che non manco di pensarti tanto.
Bacioni e saluti cari.
Tuo
Mario
Il riattivamento del Campo di tiro di Tolentino che sembrava dovesse ostacolargli il permesso di venire a Roma, fu invece quello che glielo facilitò: lavorando dalle 3.30 alle 19, dando ai suoi soldati esempio di attività, comunicando da essi quel sentimento altissimo del dovere che Egli aveva, provvedendo accuratamente al loro benessere, riuscì in un tempo minore del previsto a compiere, ed a compiere assai bene, l’incarico che gli era stato affidato. Dal comandante il deposito del 12° Reggimento Fanteria ricevette un encomio per il
lavoro eseguito, altro encomio ricevette dal suo Maggiore: allora il Capitano
Schiavo insistette perché al suo subordinato fosse accordato il chiesto permesso
per urgenti ragioni di famiglia; il Maggiore appoggiò la domanda: ad un ufficiale che si era distinto per attività ed intelligenza, il comandante della Divisione non poteva negare il permesso, ed il nostro Mario ottenne così di venire ad
abbracciarci, di venire a passare il suo compleanno a casa sua, in piccola licenza di 3 giorni.
Quando il 18 Luglio ricevemmo improvvisamente il telegramma che ci annunziava il suo arrivo il domani mattina alle 7, piangemmo di gioia: la Mamma si diede subito attorno a sistemare la sua cameretta, poi uscì con la domestica a fare delle provviste, a comperare tutto ciò che poteva essergli più gradito nella sua breve permanenza in famiglia. La notte dormimmo poco; la mattina del 20, andai alla stazione un’ora prima e mi misi pazientemente a passeggiare sotto alla tettoia: finalmente giunse il treno, ma Lui, leggermente miope,
mi andava a cercare con gli occhi e, quando mi scorse, osservai sul suo viso l’intimo compiacimento di rivedere il padre. Ci abbracciammo, lo baciai ripetutamente, quindi montammo in carrozza ed andammo a casa dove mia moglie stava attendendolo sul pianerottolo della scala.
Appena fatta un po’ di toletta, mi presentò la scheggia di granata che gli
aveva sfiorato il petto il giorno del bombardamento di Ancona, perché la tenessi
per ricordo.
Gli risposi scherzando: “la conserverò gelosamente, ma procura di non farmene una collezione 14!
Egli gradì tanto i nostri regalucci, come gradì il pranzetto che la Mamma gli
aveva preparato! Era felice, ma qualche cosa mancava alla sua felicità: non
aveva avuto tempo di prendere gli accordi con la sua Amalia e perciò non sapeva come regolarsi per farle sapere che era venuto a Roma, per vederla e per
parlarle. Naturalmente non ebbe l’animo di confidarsi con me, ma la sua confidente era la Mamma. Dopo pranzo, mia moglie mi prese a parte e mi disse:
“io e Mario usciamo perché vuole che lo aiuti a vedere Amalia; tu fermati in casa con una scusa qualunque, poi dopo una mezz’oretta ci raggiungerai su la
cantonata di Via Carlo Alberto con Piazza Vittorio. Uscirono: mia moglie sempre delicata e previdente, nel timore che la ragazza vedendo improvvisamente
il suo innamorato, potesse riceverne un’impressione troppo forte, andò avanti,
la fece chiamare dal portiere perché scendesse, con la scusa che aveva bisogno
di portarle di un certo merletto; la ragazza stava per uscire e scese subito, accompagnata dalla sua domestica. Mia moglie parlando del merletto trovò modo di dire che attendeva Mario il quale doveva raggiungerla lì, Mario arrivato
14: La scheggia di granata trovasi ora assieme a proiettili antichi e armi antiche, nello stesso scaffale della mia collezione mineralogica e chissà, dopo la mia morte, come andrà a finire questo per me prezioso ricordo!
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la mattina per fare la sua festa in famiglia: infatti, Mario comparve di lì a poco; la signorina divenne bianca bianca, poi fatti i convenevoli, s’incamminarono verso Via Carlo Alberto, dove mia moglie mi aveva dato appuntamento.
Quando giunsi al posto indicato, per non disturbare quei ragazzi e lasciare che
terminassero la loro conversazione, mi appiattai dietro un albero di Piazza Vittorio Emanuele a godermi la scenetta da lontano: la ragazza mi volgeva le spalle e non poteva vedermi, la domestica non mi conosceva; Mario era troppo occupato della sua Amalia, ed anche per la sua leggera miopia non poteva vedermi, sicchè potei assistere inosservato. Alla fine, dopo essersi dati l’appuntamento per il domani a Villa Borghese, i due innamorati si lasciarono.
Allora venni fuori e gli andai incontro. “To, guarda che combinazione, siamo giunti insieme!”
Il mio caro bambinone era sicuro che quel brontolone di Papà, non sapesse
niente del suo amoreggiamento!
Avremmo voluto, in quel giorno ricordativo per Lui, farlo svagare in qualche modo, condurlo a teatro, per esempio, ma se i teatri di Roma, in quel momento non presentavano nulla di attraente, anche la considerazione che aveva bisogno di riposo per aver passato una notte in treno, escludeva il teatro
nel programma di quella giornata e lo escludeva anche per l’altra notte che
doveva passare a Roma, perché la notte susseguente avrebbe dovuto poi passarla di nuovo in treno. Fu convenuto perciò che ci saremmo contentati di andare al Cinematografo delle Terme dove vi era una lunga Films patriottica “I
martiri di Belfiore”. Appena incominciata la rappresentazione cinematografica, benché la medesima fosse all’aperto, mia moglie fu colta da forte malessere e dovetti condurla fuori su l’ingresso, ma non vi fu verso di tornare a casa, per timore che Mario abbandonasse lo spettacolo e si privasse anche di
quello svago assai modesto.
A casa poi gli avevo preparata una sorpresa: come sistema educativo avevo voluto che a mio figlio non fossero mancati tutti quei comodi che le mie condizioni mi permettevano di procurargli, ma volevo escluso assolutamente tutto ciò che infiacchisce, impoltronisce i giovani e li rende antipaticamente effeminati e bisognosi di tutte le raffinatezze della vita. Non avevo voluto perciò
che il suo letto fosse fornito di pagliericcio elastico, ma semplicemente di pagliericcio duro, fatto alla romana, fatto di paglia di granoturco e trapuntato,
sul quale vi erano due materassi di lana. Mia moglie, fin da quando aveva saputo che a Macerata, nella camera presa in affitto, aveva il letto con il pagliericcio elastico, mi si era messa attorno perché le permettessi di comperare uno
per il letto del suo Mario.
“Ormai non è più un bambino - mi diceva - fuori di casa si abitua dormire
sui letti elastici, e non voglio che in casa sua trovi un letto inferiore a quelli delle camere ammobiliate”. Ne faceva una questione di amor proprio e bisognò lasciarla fare.
Povero mio figliuolo, su quel pagliericcio elastico, preparatogli con tanto
amore dalla sua buona Mamma, non doveva dormire che 3 notti soltanto!
Mario fu contentissimo dell’innovazione come del resto era contento ogni
qualvolta vedeva la Mamma comperare qualche mobile nuovo, quando vedeva
qualsiasi miglioramento alla sua casetta, così come teneva alla pulizia all’assestatezza con cui la casa era tenuta. Infatti, in una lettera scritta poi dal fronte
alla sua innamorata, rispondendo ad essa, la quale gli partecipava che essendo
stata licenziata dalla Scuola Normale, si sarebbe inscritta all’Università a dei
corsi speciali di perfezionamento, le diceva: “dell’Università non m’importa affatto e preferirei che non ci andassi, mentre mi piacerebbe che tu diventassi una
donnetta di casa com’è Mamma!”.
Quei 3 giorni passarono come un lampo: a me non bastarono a ripetergli tutti i consigli, tutti gli avvertimenti, che il cuore mi suggeriva; a mia moglie a farle tutte quelle gentilezze, tutte quelle amorevolezze che una madre sa ideare per
un figlio adorato. La nostra piccola felicità fu subito contristata dal dolore della rinnovata partenza, del rinnovato distacco; un dolore però sopportato da tutti e tre senza inutili piagnistei, ma con virile fermezza per amor di patria.
In quei giorni seppi da Lui il seguente aneddoto: uno dei suoi zappatori, di
un villaggio vicino a Tolentino, di notte, salta la barra e se ne va in famiglia. Il
domani Mario gl’infligge 3 giorni di consegna: Egli raccontandomi questo fatto, mentre io gli raccomandavo d’essere buono, giusto, umano, con i suoi dipendenti, mi diceva: “Capirai, Papà, che non ho potuto farne a meno; però il
giorno appresso dopo aver constatato che quel zappatore lavorava di buona lena gli ho pagato un fiasco di vino”.
Scoppiai in una solente risata e risposi: “Sta tranquillo figlio mio, poiché fino a tanto che tu pagherai dei fiaschi di vino ai soldati che consegni, essi non
te ne serberanno rancore”.
Quell’animo di soldato non poté fare a meno, d’infliggere quella leggerissima punizione, ma il suo cuore d’angeli, colse subito, con tatto finissimo, la prima occasione, il primo pretesto, per togliere a quella punizione ogni carattere
di odiosità.
Cito un altro aneddoto insignificante, il quale mette in rilievo la dolcezza di
carattere di quel giovane che in faccia al nemico doveva mostrarsi eroe: alla stazione, dopo aver posata la cassetta nel vagone, mentre era sceso dal suo scompartimento per stare ancora vicino a noi per qualche minuto, un sottotenente
della Milizia Territoriale occupò il suo posto, benché vi fossero degli oggetti che
lo indicavano non disponibile; per quanto dicessi, non mi riuscì d’indurre mio
figlio, a far osservare al suo collega che quel posto d’angolo era occupato. Stavo per farlo io, ma Lui mi fermò. “No, Papà, lascia andare, che la cosa si accomoderà in viaggio”. E si accomodò, perché ad un certo punto del viaggio, quel
Sottotenente si accorse da sé di aver occupato un posto, antecedentemente accaparrato da un altro e lo cedette spontaneamente.
Arrivato a Macerata riprese la sua vita noiosa di guarnigione con i lunghi
Gran Rapporti del Maggiore (che arrivava fino a tre in una giornata) che Mario non poteva soffrire perché erano un inutile perditempo. Il 26 fu però inviato nuovamente a Tolentino con la sua Compagnia per i tiri e siccome era, come
si è detto, l’ufficiale subalterno più anziano, dovette sostituire il Capitano assente per incarichi ricevuti. A Tolentino però non ci si trovava bene e non ci sta-
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va volentieri, perché gli facevano spendere molto in trattoria e mangiava male.
A Tolentino ricevette una lettera assai triste; il cuore avvertiva della disgrazia
che ci minacciava: in fondo ad una lettera, scritta me il 4 Luglio, così rispondeva alla Mamma.
Cara mamma
Ho gradito moltissimo la tua letterina, ma non comprendo il
motivo di tanta tristezza. Coraggio, torneranno giorni più felici e
dimenticheremo il passato.
Ricordati che ti voglio tanto bene. Saluti e baci.
Tuo
Mario
No, figlio mio, il Destino ci aveva votati al sacrifizio! La gloria per te, il dolore per noi!
Terminati i tiri, tornò con la sua Compagnia a Macerata; mentre però era
in sua facoltà di servirsi del treno, non volle abbandonare i suoi soldati e, già
stanco per essersi recato la mattina di buona ora da Tolentino al campo di tiro, distante 4 chilometri dalla città, e dove la sua Compagnia era accasermata, volle fare la marcia di 18 chilometri,con la lunga e forte salita che vi è sotto Macerata; ne fu possibile ai suoi soldati,che dovevano essergli affezionati, liberando dalla borsa zaino, intieramente affardellata, che portava su le spalle:
come aveva risposto al Maggiore che lo avvertiva essere in sua facoltà approfittare della ferrovia! Conversando poi con i colleghi ripeteva spesso, alludendo alla scheggia di granata che gli aveva sfiorato il petto: “ho un conto da saldare con gli Austriaci!”.
In una cartolina scrittaci il 12, ci diceva che data una certa Circolare diramata ai Battaglioni territoriali, vi era probabilità che potesse essere chiamato di
autorità a partire per il fronte. Egli ne era sicuro già ma ci preparava, perché il
colpo non ci arrivasse improvviso!
Il 13 scrisse poche righe ancora, per dirci che partiva nuovamente per Tolentino con tutto il Battaglione, il quale, pare, dovesse avere altra destinazione,
mentre a Macerata si sarebbe costituito un nuovo Battaglione di Milizia Territoriale. Sentivo il bisogno di svagarmi un po’ e di far svagare mia moglie: di villeggiatura non se n’era neppure parlato, la nostra villetta di Terracina era rimasta chiusa; non potevamo, non volevamo muoverci da Roma, per essere sempre a disposizione di nostro figlio per qualunque cosa potesse occorrergli. Eravamo andati a passare una giornata a Castel Gandolfo nel villino della famiglia
Giuliano, il nostro medico di famiglia che aveva cominciato a curare Mario fin
dall’età di 3 anni; per il 15 avevo organizzato una gita a Frascati e Rocca di Papa con la signora Ottier e la di lei famiglia, una compagna di collegio di mia
moglie ed una delle sue migliori amiche. Nel partire da Roma, alla stazione
avemmo l’ingrato incontro con una ventina di soldati ammanettati che veniva-
no condotti dai carabinieri ai vari reclusori a scontare le pene alle quali erano stati condannati: quell’incontro di malaugurio ci fece molta impressione e
ci contristò per tutta la giornata; specialmente mia moglie ne rimase fortemente scossa, poiché si diceva che fossero soldati i quali si erano mostrati vili in faccia al nemico. Il giorno appresso ricevemmo la seguente lettera, scritta il 14 da Tolentino;
Caro Papà
Sono appena giunto a Tolentino che un ordine della Divisione di Ancona mi chiama (d’autorità con altri due ufficiali) per
partire pel fronte. Sono stato destinato al 93° Reggimento Fanteria (Brigata Messina) e domani raggiungerò il Deposito che
trovasi ad Ancona, dove starò fino al giorno in cui dovrò partire.
Il mio nuovo indirizzo perciò è Sottotenente Mario Moderni,
Deposito 93° Reggimento Fanteria-Ancona.
Domanderò subito una licenza di qualche giorno per riabbracciarvi e salutarvi prima di raggiungere il mio posto (credo
a Monfalcone). Sarebbe bene intanto che mi comperate una
certa quantità di lana e tutto quello che credete necessario.
Nel caso che assolutamente non mi facessero venire, vi spedirò la mia divisa buona, i gambali, il berretto e forse anche la
sciabola dato (credo) che a Bologna la facciamo lasciare, ma
speriamo che possa venire io personalmente.
Io parto domattina per Ancona perciò ora le lettere mandamele al nuovo recapito.
State tranquillli sul mio conto che saprò fare il mio dovere
e non mancherò ai nostri consigli.
Scriverò da Ancona, per ora ricordatemi e Viva l’Italia!
Bacioni e saluti..
Mario
Baci a Mamma Rosina
Io e mia moglie ci guardammo in faccia, i nostri cuori provavano una sensazione dolorosissima, un triste presentimento ci inumidì gli occhi, ma decidemmo subito che il nostro dolore, i nostri timori, dovessero essere ignorati
da Mario. Alla fin fine potevamo anche essere esagerati: nelle guerre passatela percentuale dei morti non aveva raggiunto il 10 per cento; supponendo
anche che nella barbarica guerra che si stava combattendo, questa percentuale fosse salita al doppio, cioè al 20 per cento, perché spaventarsi in precedenza, perché supporre che il nostro avverso Destino volesse comprendere
il nostro Mario fra i 20 prescelti per il sacrifizio, piuttosto che fra gli 80 destinati all’apoteosi della vittoria?!
Qualunque tentativo d’impedire la partenza di Mario per il fronte, men-
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tre non presentava nessuna probabilità di riuscita, avrebbe fatto immensamente dispiacere a mio figlio, del quale avrei contrariato l’inclinazione ed il
desiderio, mi avrebbe diminuito davanti agli occhi suoi e di fronte alle autorità militari, perché sarebbe stato un atto in stridente contrasto con tutto il
mio passato, con tutto quanto avevo scritto, con l’educazione costantemente
impartita a quel mio diletto figliuolo; un atto che evidentemente non poteva
essere suggerito che dalla paura e dall’egoismo; sentimenti né belli, né nobili, che ogni cittadino deve accuratamente evitare di accogliere nell’animo suo
e di manifestare nelle sue azioni; sentimenti che avrebbero intaccato addirittura la reputazione di chi, come me, aveva l’onore d’essere rivestito di un
alto grado militare.
Risposi subito a Mario che ci tenesse informati della piega che prendeva
la sua domanda per una piccola licenza, perché qualora vi fosse il pericolo
di un rifiuto, stesse pur tranquillo perché noi, purché avvertiti in tempo, ci
saremmo recati in Ancona per abbracciarlo e stare qualche giorno con Lui,
prima della sua partenza per il fronte.
Un telegramma giuntoci il 17 Agosto, ci annunziava il suo arrivo a Roma, per il domani alle 7; la licenza era stata accordata e Mario veniva per
l’ultima volta a rivedere la sua Roma, la sua casetta, i suoi cari!
La mattina del 18 andai per la seconda ed ultima volta a prendere il
mio Mario alla stazione: Egli venne accompagnato dal suo Capitano, Adolfo Schiavo, il quale partiva anch’esso per il fronte, anch’esso destinato per
lo stesso Reggimento di Mario. Rimarcai subito che nel suo colletto delle
giubbe avevano sostituito le fiamme in scarlatto rosso, distintivo della Milizia Territoriale, con le eleganti mostrine in seta gialla, filettate in rosso
nei bordi superiore e inferiore, distintivo della Brigata Messina (Reggimenti 93° e 94°). Presentatomi da Mario, feci allora la conoscenza di questo suo superiore, del quale nelle sue lettere mi aveva parlato tanto bene
ed al quale si era tanto affezionato. Scambiate poche parole con esso, montai in una carrozza con Mario e ci recammo a casa dove mia moglie lo attendeva impazientemente.
Dopo aver abbracciato e baciato la Mamma, nostro figlio ci disse tutta intera la verità, che nella sua lettera non ci aveva detta che in parte: era stato
chiamato al fronte, ma non di autorità bensì in seguito ad una seconda sua
domanda. Che cosa era avvenuto? Perché si era scostato dai consigli di suo
padre, che pure seguiva sempre con tanta amorosa disciplina? I comandanti dei Battaglioni di Milizia Territoriale, avevano ricevuto una Circolare, nella quale si disponeva che gli ufficiali appartenenti alla milizia i quali avevano le terze categorie delle loro classi di leva al fronte, avrebbero dovuto essere inviati anche essi al fronte ed inquadrati nei Reggimenti di Fanteria,
gradatamente che se ne fosse presentato il bisogno, e che i Battaglioni Territoriali avessero potuto rifornirsi di ufficiali appartenenti a leve più anziane.
Questa Circolare riapriva a mio figlio la carriera militare che i ritardati e poi
abbandonati a studi classici gli avevano chiusa; questa Circolare coloriva un
suo sogno lungamente accarezzato; questa Circolare gli permetteva di to-
gliersi alla noiosa vita di guarnigione e prendere parte, in qualità d ufficiale, alla guerra d’indipendenza: appartenente ad una delle levi più giovani, la
sua chiamata al fronte era inevitabile. Perché attendere di essere chiamato
d’autorità? Perché fare la figura del pusillanime davanti a tutti e principalmente davanti alla sua famiglia, alla sua innamorata, ai suoi compagni di
Battaglione, mentre Egli sentiva di avere il coraggio per sfidare impavidamente qualunque pericolo? Come poteva astenersi dal far la domanda di andare al fronte, Lui, giovanotto di 22 anni, quando la faceva il suo Capitano
ed amico, uomo in su la quarantina? E la probabilità di essere chiamato al
fronte di autorità, non era né immaginaria né lontana, poiché con Lui, partito volontario, partivano altri due ufficiali subalterni del suo Battaglione,
chiamati appunto d’autorità.
Tutto questo ci espose, chiedendoci perdono d’avere inoltrato anche questa seconda domanda senza prima consultarci. Non era davvero il caso di
conturbare l’animo di quel buon figliuolo, con delle recriminazioni inutili ed
intempestive; perché ritardare di qualche giorno la sua partenza per il fronte, non significava salvarlo definitivamente dal pericolo; e poi, a parte la trepidazione che destava in noi la sua partenza, questa sua risolutezza, questo
patriottico coraggio che vedevamo rivelarsi in Lui, non poteva a meno di
renderci orgogliosi e fieri di nostro figlio. Sarebbe stato strano non fosse stato così: il suo avo materno era morto nel 1870 in Francia, combattendo valorosamente per la Patria sua; Giuseppe Gordini, il padre della sua seconda
madre, cospiratore e soldato, che aveva conosciuto da bambino, era stato ferito tre volte sui campi di battaglia delle nostre prime guerre per l’indipendenza d’Italia; suo padre, a 17 anni e mezzo, era partito volontario per la
guerra del 1866, emigrando clandestinamente da Roma e, primo forse fra gli
ufficiali in congedo, aveva fatto domanda d’essere richiamato alle armi fin
dal 19 Agosto 1914, appena cioè scoppiato il conflitto europeo. C’era dell’atavismo nell’operato di quel ragazzo, ed io non avevo il diritto di rimproverargli d’amare la Patria come l’avevo amata e l’amavo io. Lo abbracciammo
e lo baciammo, raccomandandogli di tenere alto il nome della sua famiglia,
di farsi onore, ma di essere prudente, perché coraggio e prudenza sono due
cose, che sui campi di battaglia, devono andare sempre a braccetto.
Però la Circolare di cui mi aveva parlato mio figlio e che ha avuto poi piena ed intera applicazione, è un fatto di un eccezionale gravità che sta producendo dolori inenarrabili, così pietosissimi e danni irreparabili. Per una
lunga serie di anni il Socialismo, questa associazione diretta da dottrinari
ambiziosi, la quale per migliorare le sorti del proletariato non aveva trovato altro mezzo più pratico che quello di far propaganda contro l’amor di
Patria e conseguentemente contro l’esercito e le spese militari, senza che
nessuno riuscisse di far comprendere a questa associazione, a questi dottrinari, che amor di Patria e amore per l’umanità non sono termini necessariamente opposti; che gli eserciti colossali, pur cercando di modificarne
la loro costituzione per renderli meno costosi, erano una necessità dei tempi attuali; che le spese militari per quanto gravose, rappresentavano una
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specie di assicurazione contro i danni della guerra, che rendevano impossibile bilanciando le forze diversi stati o dei diversi aggruppamenti di stati; che spese militari insufficienti sarebbero state del denaro assolutamente gettato senza che nessun utile né morale né materiale si potesse sperare
da esso. Impotente ed incapace in Italia ad assumere il potere, mentre in
paese seminava la discordia e la guerra civile, in Parlamento appoggiava
un partito di opportunisti e di affaristi senza ideali e senza un programma
ben definito, a cui stava a cuore il potere per sete morbosa di comandare
e per fare i loro interessi, mantenendovisi con la corruzione e con losche
manovre parlamentari.
Per queste ragioni l’Italia, fra continui contrasti, si era venuta formando
un esercito che, intieramente mobilitato, doveva essere costituito da un milione e 200 mila soldati, senza che nessuna persona colta o semplicemente di
buon senso si fosse domandata: ma con chi l’Italia farà la guerra con il suo
milione di soldati, se gli Stati confinanti con i quali soltanto può trovarsi in
guerra (Austria e Francia) posseggono ognuno, eserciti di 4 e 5 milioni di soldati?! Qualcuno risponderebbe certamente che l’Italia non aveva bisogno di
un esercito più numeroso, perché facendo parte della Triplice Alleanza, poteva contare sull’appoggio degli eserciti di Austria e di Germania. Questo errore fondamentale, che la mancanza d’amor di Patria e di buon senso avevano
reso possibile, poco è mancato non abbia compromesso l’unità e la libertà della Patria, che tanto sangue generoso erano costate; poiché nella guerra scoppiata nel 1914 si è constato che la Germania e l’Austria non trattavano l’Italia come loro alleata, come loro eguale, ma come loro vassalla, appunto perché il suo esercito era troppo piccolo, ed essa si trovava in completa loro balia. Infatti, non vi è oggi chi veda quali rischi abbiamo corso, e come la vittoria della Marna, riportata dai francesi sui Tedeschi (mercé la nostra neutralità in quel primo periodo della guerra) ci abbia liberati da una situazione pericolosissima e ci abbia permesso di compiere un miracolo, costituendo cioè
quell’esercito che avremmo avuto aver sempre e che forse avrebbe impedito
questa guerra che la Storia ricorderà con orrore. Se i due Imperi di Austria e
di Germania avessero saputo che l’Italia possedeva un esercito, o l’avessero
creduta di costituirsi in pochi mesi un esercito di 5 milioni di soldati, non si
sarebbero cacciati così a cuor leggiero in una guerra che intaccava vitali interessi della loro alleata, la quale perciò poteva con ragione voltarglisi contro ed
ingrossare le file dei nemici.
L’Italia avrà il diritto di scrivere nei suoi fasti il miracolo compiuto, quello cioè di essersi in pochi mesi costituito un esercito imponente ed agguerrito,
abbondantemente fornito di tutto il necessario.
Evidentemente questo esercito lo si dovette improvvisare: mancava il tempo perché il Parlamento potesse studiare un progetto per un esercito più grande restringendo le numerosissime esenzioni dal servizio militare, o semplicemente i passaggi da una categoria all’altra. Non vi era tempo da perdere, si
doveva operare un miracolo; si diedero perciò pieni poteri al Capo dello Stato Maggiore dell’esercito, perché sui ruderi del vecchio esercito scompigliato
e logorato dalla guerra libica, facesse sorgere in pochi mesi un nuovo esercito di 5 milioni di combattenti. Il miracolo fu compiuto, ma lo Stato Maggiore, ma le autorità militari, per far presto, dovevano evitare tutto ciò che richiedeva studi e ricerche, e tutto ciò che poteva dar luogo a discussioni e contestazioni; quindi prendere per base del reclutamento l’età, e per sola ragione
d’esenzione le imperfezioni fisiche e le malattie facilmente accertabili. Così le
terze categorie più giovani furono chiamate al fronte assieme ai soldati di prima categoria, e vi andarono i figli unici, sperdendo i patrimoni che sarebbe
stato meglio per la Patria si fossero conservati; vi andarono figli di madri vedove e capi di famiglia, lasciando, per la loro morte, i loro cari nella miseria
e nella disperazione.
Se questo esercito invece di essere stato improvvisato all’ultimo momento, con l’acqua alla gola, fosse stato organizzato con comodo nel trentennio
di pace che ha regnato in Europa, molto probabilmente questa barbara guerra non sarebbe scoppiata ed avremmo risparmiato il sangue dei nostri figli;
ad ogni modo un progetto di organizzazione militare rigorosamente studiato
dal Parlamento, data l’abbondanza di uomini che ha l’Italia, poteva risparmiare i lutti più dolorosi, esentando dal servizio militare di prima linea, i figli unici, e i capi di famiglia ed uno dei fratelli che ne avesse avuto degli altri al fronte 15.
Chi ha esposto la Patria a così gravi pericoli, chi ha esposto i cittadini a così grandi dolori, dovrebbe essere punito. La pietà, la generosità, in questi casi è
delitto!Io spero, io sono convinto, che gl’Italiani sapranno infliggere la meritata punizione ad un’associazione parricida.
La piccola licenza ottenuta da Mario non era che di tre giorni, ed in quel
primi giorno del suo arrivo, completammo le provviste per il suo corredo da
campo: questa volta ero io che avrei voluto fargli portar via tanti oggetti che
nelle antiche guerre sarebbe stato facile ad un ufficiale portarsi appresso, ma
che nelle guerre moderne è assolutamente impossibile, quali per esempio un
mantello impermeabile ed un sacco impermeabile per dormirci dentro. Dopo
pranzo mia moglie raccontò a Mario, dell’incontro fatto alla stazione di soldati ammanettati, e della grande impressione che ne aveva ricevuto; non gli nascose la sua preoccupazione di vederlo lanciato improvvisamente al fronte,
Lui, così timido, così casalingo, che non si era scostato mai dal fianco nostro,
e che poteva perciò smarrirsi in quell’inferno. Mario la tranquillizzò assicurandola che avrebbe saputo tenere alto il nome della famiglia ed in ogni circostanza avrebbe saputo fare il suo dovere, quindi avendo perduta notte in treno, andò a riposarsi un paio d’ore.
A mia moglie era sembrato però che Mario fosse preoccupato, e non appena si accorse che Egli erasi svegliato, entrò nella sua camera per scoprire che
cosa potesse turbarlo. Tornò poco dopo a riferirmi, che aveva trovato nostro figlio agitatissimo, per il timore di non potere rivedere e salutare la sua Amalia,
la quale trovavasi in villeggiatura a Roviano con sua cognata: le aveva telegrafato contemporaneamente che a noi, ma il non avere ancora ricevuto notizie, gli
faceva supporre, o che il telegramma non fosse giunto a destinazione, o fosse
15: Durante la guerra, con susseguenti Decreti, qualche cosa si è fatto in questo senso, ma i figli unici che erano morti non si potevano resuscitare!
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giunto troppo tardi perché la ragazza avesse il tempo di dargli un appuntamento. Temeva quindi non poterla rivedere, e ne era afflittissimo. Non era più
tempo di fingere d’ignorare questo suo amoreggiamento: mio figlio andava ad
affrontare la morte e non dovevo lasciarlo partire con un dolore nel cuore; bisognava invece restituirgli tutta la sua calma e la sua tranquillità; in quei momenti supremi, bisognava afferrare l’occasione per dargli una prova del mio affetto immenso per Lui e di tutto l’assegnamento che Egli, in ogni occasione, poteva fare su questo affetto. Balzai dal letto, poiché anch’io e mia moglie eravamo
andati a riposarci, corsi nel mio studio dove scrissi un telegramma con risposta
pagata per la sua Amalia; quindi glielo portai nella sua camera e porgendoglielo
gli dissi scherzando: “Possibile che devo insegnarti anche a fare all’amore?!”.
Lesse sorpreso il telegramma, quindi mi chiese: “E poi?”. “Se ti risponderà
che non può venire, domattina prenderai ed andrai a Roviano a trovarla”.
Gli occhi gli sfavillarono per la contentezza: saltò dal letto, mi abbracciò; mi
baciò, si vestì in fretta e corse a fare il telegramma. Mi sarei privato di stare una
notte di quelle tre giornate con Lui, pur di vederlo contento e felice!
La sera giunse un espresso nel quale era annunziato l’arrivo della signorina,
accompagnata da sua cognata, per il domani mattina con il treno di Sulmona.
Allora dissi a mio figlio: “Tu andrai a prenderle alla stazione, la farai salire in
una carrozza e le porterai qui, dove staranno a pranzo ed a cena con noi; così
tu potrai chiacchierare con la tua innamorata tutto il tempo che vorrai, senza
per questo essere obbligato ad allontanarti da tuo padre e da tua madre”.
Mario era raggiante! Il domani si trovò puntuale all’arrivo del treno; la signorina, benché mi conoscesse, si vergognò di venire a casa mia con il suo innamorato, ma Mario, che sapeva oramai di avere il consenso di suo padre, fece
atto di autorità e condusse a casa le due signore. In quel momento io non vi era,
ma arrivai poco dopo e per far sparire la timidezza e l’imbarazzo della signorina me le avvicinai e le chiesi: “Dunque, vuole veramente bene al mio Mario?”.
“Sicuro che gli voglio bene” essa mi rispose.
L’abbracciai e la baciai dicendole: “Faccia voti che Mario torni e, se suo padre non si oppone Mario è suo”.
“Allora mi dia del tu.- mi rispose, chinando il capo”.
“Volentieri, figlia mia!”. Mario esultava!
Prima di sederci a pranzo, mio figlio infilò nell’anulare della fidanzata un
sottilissimo cerchietto d’oro, comperatogli da mia moglie la mattina stessa, la
quale, per il momento, doveva fare le veci dell’anello di fidanzamento.
Mi pare ancora di vederlo contento e felice, mostrare alla sua Amalia, la sua
cassetta, i suoi oggetti, aggirarsi per la casa tenendola teneramente per la mano! Mi pare ancora di udire il cicaleccio innocente di quei due ragazzi, che rassomigliava al bisbiglio di due uccelletti! Lei bianca e bionda, Lui buono e ricciuto; belli e buoni entrambi, di carattere dolce entrambi, idolatrati da genitori
entrambi, parevano destinati a percorrere insieme la vita stretti a una catena di
rose, ed invece!… Ad un certo momento, Mario volle fare dello spirito, come al
solito, ma quel giorno non era in vena: alludendo alla sostituzione delle mostrine rosse della Milizia Territoriale con quelle di seta gialla, della Brigata Messi-
na (regalategli dal comandante del Deposito del 12° Reggimento di Fanteria)
disse alla ragazza: “Vedi, ingiallisco come le foglie e… come le foglie cadrò!”.
Strano presentimento della sua prossima fine, alla quale andava incontro
volontariamente e pieno d’entusiasmo, e che gli era sfuggito dalla bocca, senza
neppure accorgersene, mentre voleva dire una spiritosità!
Dopo cena dovettero separarsi: la signorina andava a dormire con la cognata nella casa di lei, ma fu convenuto che la mattina seguente sarebbero tornate
a casa mia ed avrebbero passata la giornata con noi. La mattina, appena alzati io Mario uscimmo: andammo anzitutto al Verano a visitare e portare fiori alla
tomba di sua madre; poi in un prato di fianco al cimitero, a provare una pistola
tascabile che unitamente ad un bel pugnale gli avevo comperato il giorno avanti, poiché gli era stato ordinato di lasciare a casa la pistola di ordinanza, costituendo un distintivo troppo visibile; D’altra parte si diceva che sarebbero state
tolte le sciabole a tutti gli ufficiali inferiori e sarebbero stati dati dei moschetti di
cavalleria, appunto per rendere assai difficile il distinguerli dai semplici soldati,
dei quali vestivano la stessa divisa, con distintivi non visibili a distanza, e salvarli
così dai tiratori scelti austriaci, i quali avevano su i loro fucili appositi cannocchiali di mira. Tolta la pistola e la sciabola, quando l’ufficiale inferiore16 non era
di servizio, sarebbe rimasto completamente disarmato, pensavo io, e siccome
non mi sembrava prudente, avevo provveduto mio figlio di una piccola ed elegante pistola con relativa fondina, e pugnale con fodero che, portati alla cinta
dei pantaloni, restavano totalmente coperti dalla giubba. Da ultimo andammo
a comperare un paio di scarpe all’alpina, quindi tornammo a casa.
Quell’ultima giornata che mio figlio passò in casa sua, era il Venerdì 25 Agosto 1915; sto scrivendo queste righe il 25 Aprile 1916, sono passati perciò soltanto 8 mesi, e mi pareva già un’epoca tanto lontana! Quel giorno dovetti occuparmi per la terza ed ultima volta di sistemare il suo corredo nella cassetta e
nella borza-zaino, e vi dedicai tutta la mia speciale abilità per farvi entrare più
oggetti possibili. Ogni tanto Mario, accompagnato sempre dalla sua Amalia e da
mia moglie, veniva a portarmi qualche altro oggetto, a vedere come sistemavo
i suoi effetti; poi si rincantucciava in un angolo per chiacchierare con la sua innamorata, quindi veniva da me, per tornare a rincantucciarsi poco dopo. Che
cosa si diranno? Pensavo fra me, guardandoli furtivamente, mentre una visione di pace e di felicità mi sorrideva nella mente e nel cuore! Quanti sogni e
quanti progetti ho fatto quel giorno e nei due mesi che sono passati da quel giorno fino alla morte di lui! Quante gentilezze, quante carezze, quante cortesie
avrei fatte a quella ragazza da lui prescelta! Quanti baci avrei dato ad entrambi! Quanto avrei amato i miei nipotini! Come sarebbe stata felice la mia vecchiezza in mezzo ai miei cari, ai rami giovani della mia famiglia! Come mi sarei spento serenamente in mezzo ad essi!
Quelle ore felici, le ultime della mia vita, passarono presto e ne ho una memoria confusa: so che lo baciavo ogni tanto, come Lui ogni tanto andava baciare la Mamma; so che lo volli tenere qualche minuto su le mie ginocchia, così come facevo quand’era bambino; mi ricordo che quel giorno il mio Mario era
molto nervoso e che avvicinandosi la sera il nervoso cresceva.
16: In seguito poi, la sciabola fu tolta a tutti gli ufficiali.
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Verso notte venne la madre della signorina a salutare Mario di cuoi aveva
saputo la partenza per il fronte: mi scusai con essa se in circostanze così eccezionali avevo sorvolato su ogni formalità ed avevo avuto di mira soltanto la
tranquillità di Mario e la felicità di quei due ragazzi. La Signora Mossolin abbracciò e baciò ripetutamente mio figlio piangendo dirottamente: essa sapeva
che era buono, gentile, affettuoso, indovinava che sarebbe stato un buon marito, un buon compagno della sua figliuola e lo vedeva con dolore partire per il
campo. Se il fidanzamento non si poteva ancora dire ufficiale, era per lo meno
ufficioso. Quei due ragazzi non avevano più bisogno di tenere nascosto il loro
amore, e questo era già un grande conforto per essi: Mario avrebbe indirizzate
a casa mia le lettere alla fidanzata, ed essa, che abitava a pochi passi di distanza, se le sarebbe venute a prendere o gliele avrebbe portate mia moglie.
Dopo cena, tanto la fidanzata quanto sua cognata (la nostra ex-coinquilina,
cresciuta con Mario) espressero il vivissimo desiderio di accompagnare Mario
alla stazione; questo però rendeva necessario che le due donne dormissero in casa mia, perché sarebbe stato assai disagevole andare poi ad ora tarda fino a via
Basento, fuori di Porta Salaria, dove trovavasi l’abitazione della cognata di
Amalia, tanto più che la mattina seguente dovevano partire anch’esse con il primo treno per tornare a Roviano, dove la signora aveva lasciato le sue bambine.
Mentre le due donne si schermivano dell’offerta fattale di restare a dormire da
noi, per timore di arrecare dell’incomodo, udii quel bambinone di mio figlio che
diceva sottovoce alla fidanzata: “Resta e dormi nel mio letto”.
“Si, si dormirà nel tuo letto” - gli risposi ridendo. Poi rivoltomi alla ragazza aggiunsi: “Ti lascio venire ad accompagnare Mario alla stazione, purché tu non ti dimentichi che sei la fidanzata di un soldato romano, e le fidanzate dei soldati romani che partono per la guerra, devono essere forti e
non devono piangere.
“Non piangerò!” Mi rispose la ragazza.
“Sta bene, ci conto”.
Quando fu l’ora di recarsi alla stazione, riflettendo che ci saremmo incontrati con persone che conoscevano la famiglia della ragazza, fra i quali il Capitano Schiavo, dissi ai due fidanzati: “Senza bisogno di far sapere gli affari nostri agli altri, se volete darvi un bacio, datevelo qui invece che alla stazione”.
I due ragazzi non se lo fecero ripetere due volte; si abbracciarono e si baciarono. Però neanche il bacio della fidanzata valse a calmare quello stato di nervosismo in cui trovavasi Mario, che anzi con l’avvicinarsi dell’ora della partenza cresceva di più: se la prendeva con i pantaloni troppo stretti, con le scarpe,
con tutto. Io lo guardavo pensoso e leggevo nel suo cuore: c’ero passato anch’io
prima di Lui, a 17 anni, per quella prova difficile! Si può essere pronti a dare
la vita per la Patria, si può essere pronti a sfidare impavidamente ogni pericolo, ma non si può lasciare con indifferenza e senza soffrire i propri genitori, la
propria casa con tutte le sue memorie, la propria fidanzata! Allora si sente il
cuore battere più velocemente, le forze vacillare, formarsi alla gola un nodo che
v’impedisce il respiro, le lacrime spuntare sul ciglio, mentre la coscienza vi dice: Sii forte! Lo sforzo che bisogna fare per vincersi, per staccarsi senza pian-
gere da tutte le cose care al proprio cuore, richiede più coraggio di quel che non
ce ne voglia per sfidare il nemico al campo; il dolore che si prova al momento
del distacco, è maggiore di quello che può provocare qualsiasi ferita. Tu soffrivi immensamente quella sera, povero figlio mio, il distacco era crudele, più di
quanto, forse, avevi creduto, e perciò lo sforzo che coraggiosamente tu facevi,
non era sufficiente a nasconderci il tuo dolore!
La fidanzata con sua cognata uscirono prima e, salite in carrozza, andarono ad attenderci alla stazione; mentre la domestica portava giù in strada la cassetta di Mario, io e mia moglie lo abbracciammo e lo baciammo; poi, io intesi il
bisogno di benedirlo ancora una volta con tutto l’affetto che mi traboccava dal
cuore. Non so spiegarmi neppure ora perché io, sciolto fin dalla prima giovinezza da ogni superstizione e da ogni vincolo di credenze religiose, in quella circostanza abbia inteso il bisogno di benedire replicatamente mio figlio, con la
maggiore solennità possibile, come se quella benedizione paterna avesse potuto
portare fortuna a quel mio diletto!
Alla stazione incontrammo il Capitano Schiavo: lo presi subito a parte e dopo avergli raccomandato Mario aggiunsi: “Appena arrivati al Reggimento La
prego dire da parte mia al Colonnello, che se mio figlio cadesse, desidero che esso sia possibilmente sepolto a parte ed in modo che possa, dopo la guerra, ritrovarne facilmente la salma”.
“Che dice mai!”. Interruppe il Capitano Schiavo.
“Loro vanno al fronte, quindi è bene guardare freddamente in faccia l’eventualità di una disgrazia tutt’altro che improbabile, e spero che Ella non mi
negherà il favore che Le ho chiesto”.
Il Capitano mi promise formalmente che avrebbe ripetuto al Colonnello
il mio desiderio; allora tornai vicino a Mario. Era giunta l’ora della partenza: se in quel momento avessimo potuto sapere che non ci saremmo più riveduti!… Tutti si scambiarono gli ultimi saluti, gli ultimi abbracci, gli ultimi baci. Nessuno dei partenti piangeva, nessuno della loro famiglia piangeva! Mario, impacciato, guardava me poi guardava la sua fidanzata, poi tornava a guardare me, come se avesse da dire qualcosa e non trovasse le parole. Indovinai il suo pensiero: presolo per le spalle lo spinsi verso la sua
Amalia, mentre gli sussurravo: “E baciala ancora, dopo tutto non c’è nulla
di male!”. Poi lo abbracciammo e lo baciammo anche noi per l’ultima volta; salì in treno, ci salutò con la mano, gridò: “Addio Papà!” e sparì nel buio
della notte correndo verso la gloria!
Mentre tornavamo commossi verso la nostra casa, mi pareva che l’avverso
Destino, mi ripetesse ghignando: Figlio unico di padre sessantacinquenne; terza categoria. Sta tranquillo povero vecchio, che l’hai fatto proprio su misura!!!
Il giorno 23 ricevemmo la seguente sua lettera scrittaci il 22 da Ancona.
Carissimi
Parto Martedì da Ancona per raggiungere il mio destino.
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MARIO MODERNI
LA VITA MILITARE
Andrò prima a Firenze, quindi per Portogruaro e Mestre raggiungerò il mio Reggimento.
Giunti al confine marceremo di notte con molta cautela, dato il
continuo cannoneggiamento ed avanzeremo con prudenza per non
essere scoperti, perché i nemici mandano in aria razzi luminosi.
State tranquilli sul mio conto, poiché farò tutto il mio dovere.
Vi terrò informati di tutto.
Qui ho molto da fare per ultimare l’equipaggiamento dei soldati provenienti da Foggia.
Vi scriverò appena giunto al mio posto,così potrete rispondermi sicuri che riceverò le vostre lettere.
Per ora non ho nulla da dirvi di nuovo;altro non mi resta che
ricordarvi con affetto.
Spero di tornare degno di voi e con la posizione fatta.
State tranquilli e vogliatemi sempre bene.
Del ritratto mio, se sarà venuto bene,vi prego mandarne una
copia ad Amalia avendoglielo promesso.
Saluti agli zii. A voi tanti baci affettuosi dal
Vostro
Mario
E’ rimarchevole in questa lettera la sua risoluzione ferma di fare il suo
dovere a qualunque costo, malgrado le incognite che lo aspettavano nella
sua nuova vita al fronte, e di farlo in modo da ritornare degno di noi e con
la posizione fatta. Con queste ultime parole Egli voleva tranquillizzarci a
proposito del suo avvenire: fin dal primo momento della guerra, Egli mi
aveva inteso deplorare parecchie volte, quale grave danno fosse stato per
Lui, che tanto aveva dovuto faticare negli studi, il dovere andare sotto le
armi proprio alla vigilia di prendere un primo diploma professionale, con
il quale, avrebbe potuto seguire la carriera di professore nell’insegnamento secondario. Partito per il fronte risoluto a distinguersi, Egli diceva con
quelle parole: se la guerra mi ritarda una carriera, me ne se apre però
un’altra. E quest’altra carriera era proprio quella da Lui agognata! Povero figliuolo, hai mantenuto quanto avevi promesso ma tu non sei tornato!
Durante il viaggio verso il fronte mandò alla Mamma ed a me cartoline
affettuose: giunto al Reggimento il 26 Agosto, il 28 mi scrisse una cartolina dandomi il suo indirizzo, naturalmente senza località, e cominciò allora quel periodo angoscioso che durò fino alla sua morte. Necessità di guerra hanno imposto un segreto rigoroso su la dislocazione delle truppe, e perciò, le famiglie che hanno i loro cari di fronte al nemico alla trepidazione
continua nella quale vivono, si aggiunge il dolore di non sapere dove essi
si trovano, e conseguentemente l’impossibilità di potere accorrere subito
presso di loro nel caso di disgrazia.
Soltanto più tardi, quando ne era già partito, seppi che mio figlio raggiunse il 93° Reggimento a Jalmicco, presso Palmanova, dove in quel mo-
mento stava in riposo e ricostituendosi, dopo le perdite subite a Monfalcone. Appena arrivato gli fu affidato l’incarico di sostituire l’aiutante Maggiore del suo Battaglione momentaneamente assente, incarico che però durò poco, con gran dispiacere di Mario che vide sparire le concepite speranze di farsi delle cavalcate. Un’altra speranza, che pure svanì subito, fu
quella di essere assegnato alla Compagnia del Capitano Schiavo: avendo
commesso l’errore di manifestare entrambi il desiderio di restare insieme,
non solo non li lasciarono nella stessa Compagnia, ma neanche nello stesso Battaglione, poiché mio figlio fu assegnato al 4° ed il Capitano al 5°. Per
avere maggiore probabilità di vedere esaudito il loro desiderio, il solo Capitano Schiavo avrebbe dovuto chiedere gli fosse lasciato quell’ufficiale
subalterno, che già conosceva favorevolmente per il servizio prestato sotto
i suoi ordini a Macerata e nel viaggio verso il fronte, nel quale aveva condotto 250 uomini, affidati a loro due soli ufficiali, senza che accadesse nessun inconveniente e senza che se ne perdesse nessuno per la strada.
Fin dalle prime cartoline e dalle prime lettere scritteci dal fronte, notammo in esse una maggiore affettuosità o per lo meno una maggiore
espansività: questo fatto secondo me, doveva essere stato provocato da
due cause. Anzitutto la lontananza: la maggior distanza a Roma alla quale eravamo stati insieme, era Venezia; ma nel viaggio verso il fronte erasi
accorto certamente che il suo Reggimento trovavasi in quel momento ad
una distanza anche maggiore; inoltre, per il ritardo che subiva la corrispondenza, questa lontananza si poteva considerare come raddoppiata,
quindi non più possibilità di corrispondenza giornaliera, non più possibilità, non poche ore di ferrovia, di correre da Papà e da Mamma o di averli facilmente vicini, come poteva farsi a Macerata. In quel luogo, la facilità con cui Papà, sapendolo angustiato, aveva messo da parte qualsiasi
considerazione e, sorvolando su ogni formalità, gli avevo concesso senz’altro la sua Amalia, dovevano avergli prodotto una grande impressione:
data la mia giustificata riservatezza a questo riguardo, Egli probabilmente s’era immaginato chissà quanto tempo avrebbe dovuto aspettare per ottenere il consenso al suo matrimonio di amore, ed invece, improvvisamente, quando meno se lo aspettava, aveva visto il padre stesso che, senza contrasti, ne liti, senza dolori, mettere nella sua mano della ragazza da
Lui amata. Nella sua aumentata espansività, forse entrava anche un altro
coefficiente: il rumore del continuo cannoneggiamento, la visita quasi periodica di velivoli nemici, il sapersi continuamente esposto al pericolo, doveva aver esercitato un’influenza sul suo carattere, influenza che del resto
risentono tutti quelli che si trovano in quelle stesse condizioni; influenza
che dovevamo avere intesa anche noi, per il pericolo che sapevamo esposto nostro figlio, e che doveva, a nostra insaputa, avere aumentata la nostra espansività verso di Lui.
Da Macerata ci scriveva ordinariamente un giorno si ed uno no; dal
fronte invece, specialmente nei primi tempi, scriveva tutti i giorni a noi e
alla fidanzata, malgrado che fosse più occupato e che gli mancassero i co-
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modi per scrivere. Ci sarebbe da riportare tutto un voluminoso epistolario
di letterine, di cartoline, senza altra importanza che la loro affettuosità,
qualche volta quasi infantile, ma basterà qualche esempio.
Zona di Guerra, 29 agosto 1915
Cara Mamma
Il primo momento libero che ho lo dedico a te per salutarti
da queste terre redente.
Ti ricordo sempre,come ricordo i tuoi consigli che metto in
pratica.
Qui mangio di più e sto bene.
Tu come stai? Mi auguro che ti conservi bene,così anche
Papà. Di Amalia hai avuto più notizie?
Avete ricevuto le cartoline da Firenze, Bologna e quelle dal
fronte?
Saluti dal Capitano Schiavo. A voi da parte mia tanti affettuosi bacioni;
Tuo
Mario
Zona di Guerra, 3 settembre 1915
Cara Mamma
Ricorrendo domani il Tuo onomastico, sento il bisogno di
mandarti i miei più affettuosi saluti e baci. Benchè tanto lontano, pur tuttavia non manco di pensarti sempre e mi ricordo i
tuoi consigli. Speriamo rivederci in tempi migliori e ricordare insieme il passato doloroso.
Io sto bene,come spero di voi. Io non ho ricevuto ancora nessuna vostra notizia e ciò mi sorprende, tanto più che scrivo tutti i giorni.
Salti affettuosi a te ed a Papà.
Tuo
Mario
In questa cartolina vi è la confessione esplicita del dolore che provava a
star lontano da noi, malgrado che al fronte ci fosse andato volontariamente,
che si trovasse nel suo ambiente e che avesse visto colorirsi il suo sogno della
carriera militare. Il giorno stesso che scrisse questa cartolina, ricevette la nostra prima lettera, che gli recava le nostre prime notizie: dal 20 Agosto al 3
Settembre, non aveva saputo più nulla di noi, causa il tempo che impiegava
la corrispondenza per giungere a destinazione.
Zona di Guerra, 14 settembre 1915
Caro Papà
In questo momento,mentre assistiamo al bombardamento,che
alcuni cannoni antiaerei stanno facendo contro una squadriglia
di aeroplani austriaci che passeggia sulle nostre teste, mi è giunto il tuo pacco contenente: cappuccio, ventriera e calze di lana.
Ti ringrazio del pensiero gentile che hai avuto, insieme alla mia
buona Mamma.
Io mangio come un lupetto e sto molto bene. (A casa era di
poco appetito).
Non si sa ancora dove andremo a finire….(Allude al nuovo
settore dove sarebbe andato il suo nuovo Reggimento dopo terminato il periodo di riposo e di riorganizzazione).
Salutatemi tutti quelli che mi conoscono: Maria, il
Dottore,ecc.
Sui monti del Carso è già caduta la neve rinfrescando sensibilmente l’aria.
Fortuna che ho un buon attendente (Per Lui erano tutti buoni! Intanto sta di fatto che quando rimase ferito, il suo attendente non se ne curò affatto e da esso non seppi nulla) il quale
mi ha fatto una buona tenda, che spero farti vedere fotografata.
Per oggi non ho nulla di nuovo e addio a domani.
Baci a tutti e due: Brontolone e Gatto, e saluti affettuosi.
Vostro
Mario
Dopo la sua morte ebbi dalla fidanzata la prima lettera scrittale dal fronte e che qui riporto, perché da essa si rileva la gentilezza dell’animo suo, l’elevatezza e la purezza del suo sentire, quello strano presentimento della sua
prossima fine, ed il coraggio, la rassegnazione,il patriottismo con il quale volontariamente era andato incontro a questo fine.
Zona di Guerra, 4 settembre 1915
Mia carissima Amaliuccia
Il primo momento libero che ho, lo dedico a te, per passare
felice qualche minuto, pensandoti e vivendo della tua immagine.
Sono solo, sotto la tenda, mentre il sole tramonta in una porpora d’oro.
Il momento è propriamente nostalgico: il rombo del cannone,
il vocio dei soldati nel campo, producono in me una sensazione,
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MARIO MODERNI
LA VITA MILITARE
una fusione dei ricordi lontani, ed un amaro sentimento di rimpianto… Non credere che sia triste, Amalia,vivo della tua vita e
sono felice.
Solo la tua lontananza mi affligge, il non poterti vedere, per
chissà quanto tempo, il non poterti parlare e dirti tutto quello l’animo mio sente e tutto ciò che il cuore ardentemente suggerisce.
Ora nessuno ostacolo potrà separarci, Amalia, a meno che il
Destino non voglia che io rimanga in queste terre lontane… Ma
non pensiamo a tristezze.
Perdonami, Amaliuccia, se sono partito per un destino ignoto quanto terribile, ma ricordati che il tuo pensiero mi ha incitato a fare tutto quello che ho fatto.
La realizzazione del dolcissimo sogno che nel cuore culliamo
richiede del tempo ancora (per la mia posizione) per farti contenta cercherò di rimanere ufficiale nell’esercito di modo che al
mio ritorno, ciò che poteva sembrare ancora lontano, non sarà
che alla vigilia. Sei contenta, bionda? Certo, rischio la vita, domani il mio piano potrebbe forse fallire, ma sappi che morrò felice di dare la vita per te e per la Patria.
Se ciò disgraziatamente avvenisse, ti rimarrà di me almeno
un caro ricordo, che con l’andare del tempo dolcemente rimembrando ti legherà al passato; l’unica cosa che desidererei in questo caso, sarebbe di dormire il sonno eterno vicino a mia madre.
Io Amaliuccia, ho fatto tutto il mio dovere verso di te, quindi
non mi negherai il tuo perdono ne la tua benevolenza, anche se
domani dovessi abbandonare la vita, su queste terre, dalle quali
attendevo lo sviluppo di un fiore di pace e d’amore.
Scrivimi a lungo Amalia mia, anch’io farò ugualmente quando
mi sarà possibile e per ora addio, e tanti bacioni e pensieri cari.
Sempre Tuo
Mario
P.S. Ho ricevuto la tua lettera e ti ringrazio tanto, scriverò a
Mario (fratello della fidanzata).
Saluti alla tua cara mamma, a te nuovamente addio.
Mario
Io gli leggevo nel cuore e nel cervello: non sapevo che cosa scriveva alla sua
fidanzata, ma riflettendo che ad evitare di fare ancora tre anni di studio al suo
ritorno per ottenere il diploma di Architetto, avrebbe tentato di passare ufficiale effettivo per affrettare il suo matrimonio; ritenendo che economicamente non
gli sarebbe convenuto di continuare la carriera militare, gli scriverò: “Bada che
il Ministero della Guerra non ti accorderà il permesso di ammogliarti finché non
avrai compiuto il 25° anno di età 17 mentre se la tua fidanzata si rassegna a vivere con noi in famiglia ed i suoi genitori acconsentono, tu puoi sposartela an17: Sapevo che la guerra sarebbe stata lunga, ma non potevo prevedere che errori e gelosie degli alleati l’avrebbero allungata
anche di più.
che da studente, appena tornato a casa, quindi per affrettare il tuo matrimonio
tu non hai affatto bisogno di continuare la carriera militare”.
Partito per il fronte, noi ci mettemmo subito a studiare in qual modo gli si
fosse potuta rendere la vita meno disagiata, in qual modo lo si fosse potuto riparare dalla pioggia e dall’umidità nella stagione invernale che si avvicinava;
ma purtroppo tutti i nostri progetti s’infrangevano contro l’impossibilità per un
Sottotenente di Fanteria di trasportare da un luogo ad un altro qualunque oggetto gli avessimo fatto pervenire, sia che si trattasse di un lettino da campo, sia
che si trattasse semplicemente di un sacco impermeabile per dormirci dentro.
D’altra parte il nostro Mario ci sconsigliava dallo spedirgli questi oggetti, tanto
più, Egli ci diceva, che gli ufficiali avevano ricevuto delle coperte imbottite e
presto sarebbero stati distribuiti loro dei pastrani di cavalleria.
A tutte le nostre domande, esso rispondeva invariabilmente che stava bene
e non aveva bisogno di nulla. Gradì però moltissimo, e fu per Lui una lieta improvvisata, il primo pacco di cioccolata che ricevette, il quale gli dimostrava che
il pensiero dei suoi era rivolto costantemente a Lui. Seccato di non potere conoscere i particolari della sua vita materiale al campo, un giorno gli scrissi: “Mi
dici che stai sempre bene e che non ti manca nulla, ma per nostra tranquillità
dovresti mettermi in condizioni di giudicarne da me; scrivimi perciò come mangi e specialmente come dormi”. Mi rispose allora che si era fatta una tenda signorile con lettino di vimini sollevato da terra, sul quale aveva messo un saccone di paglia fatto con due tende; si era fatto un banchetto, un tavolino, un
attaccapanni, insomma stava bene. In quanto al vitto, essendo questo a base
di carne, Egli si trovava benissimo e mangiava molto.
Anima di vero soldato, dalle comodità di casa sua era passato bruscamente ai disagi della vita militare al campo, di fronte al nemico e non si lamentava di nulla, non desiderava nulla. In una lettera scrittami il 9 Settembre mi diceva: “Ho dovuto, con dolore, versare la mia sciabola che ritengo come perduta, avendola vista gettare fra le altre già mezzo arrugginite”.
Ecco i suoi dolori! Aver dovuto privarsi della bella sciabola che era stata
del padre, che gliela aveva regalata il padre! Gli risposi scherzando: “Procura di riportarmi la tua pelle in buono stato, che in quanto a sciabole te ne farò venire un altra da Toledo”.
Desiderò avere un cannocchiale ed benché per la sua leggiera miopia riconoscessi che gli avrebbe potuto essere molto utile, pure esitai un momento per
comperarglielo per timore che in mancanza di altri distintivi il cannocchiale
potesse diventare un distintivo ed un bersaglio per il nemico.
Pure, avendo auto la fortuna di poter trovare un cannocchiale prismatico
piccolissimo, ma che a due chilometri di distanza permetteva di contare un
gruppo di persone, glielo spedii raccomandandogli di tenerlo poco in vista
specialmente durante il combattimento.
Con una cartolina, scritta il 21 Settembre, mi accusò ricevuta del cannocchiale, che era riuscito di suo pieno gradimento, e con la medesima mi annunziava la visita dell’avvocato Enrico Natale, che veniva dal fronte. Con altra cartolina, in data 23 Settembre, mi avvertiva che il suo Reggimento si era
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spostato dalla sua posizione e che aveva raggiunto la nuova con una marcia
di 20 chilometri. Così mentre da un momento all’altro attendevo la visita annunziatami, che mi avrebbe permesso di sapere con precisione la località dove si trovava mio figlio, il Reggimento aveva cambiato posizione ed io restavo all’oscuro come prima, malgrado studiassi la Carta in tutti i versi e su di
essa prendesi tutte le misure possibili ed immaginabili.
L’avvocato Natale venne infatti a portarmi notizie dirette di mio figlio e la
sciarpa da ufficiale, che al campo non gli serviva ed era per Lui un inutile ingombro nella sua cassetta: il Capitano Schiavo non avendo potuto avere Mario con sé, lo presentò e lo raccomandò ad un giovane palermitano, suo concittadino, il sig. Luigi Natale, Sottotenente di Complemento nel 93° Reggimento e nella 14° Compagnia, quella appunto alla quale era stato destinato
mio figlio. L’avvocato Enrico Natale, fratello del Sottotenente Luigi, dopo la
presa di Monfalcone nella quale il 93° Reggimento Fanteria aveva sofferto
delle perdite sensibili, aveva potuto ottenere di andare a trovare il fratello, in
quel momento in cui il Reggimento trovavasi in seconda linea, e si era fermato
al campo due o tre giorni.
Mi parlò assai favorevolmente di mio figlio, mi disse che aveva stretto amicizia con suo fratello con il quale si volevano già molto bene; aveva constatato
essere Egli simpatico a tutti i suoi colleghi e superiori. L’avvocato Natale si era
trovato al campo per la festa del 20 Settembre: in quel giorno, per festeggiare
la patriottica data storica, gli ufficiali del Battaglione di Mario avevano ordinato un pranzo più lauto del solito per onorare il fratello di un ufficiale del Battaglione, loro ospite al campo in quel momento, avevano inviato qualche ufficiale degli altri Battaglioni, fra cui il Capitano Schiavo. Proprio durante il pranzo Mario ricevette l’elegante e minuscolo cannocchiale da campagna con tutti
gli accessori: astuccio in pelle nera con relative cinghie onde poterlo portare a
tracolla, e cordone, pure in pelle nera, per tenerlo appeso al collo senza astuccio. Naturalmente il pranzo fu molto allegro e si bevette più del consueto: si
brindò all’Italia, alla vittoria delle armi italiane ed agli ospiti del Battaglione.
L’avvocato natale mi diceva: “Ad un dato momento la riunione era diventata assai rumorosa ed io osservavo che in mezzo a quella baldoria di una gioventù spensierata ed ardita, eccitata dall’amor di Patria e da libagioni più abbondanti del solito, l’unico che si mantenesse freddamente corretto nei modi e
nel parlare era il più giovane, il suo Mario! Eppure Egli festeggiava anche l’arrivo del bel cannocchiale speditogli dal Babbo, oggetto che aveva gradito immensamente e che tutti avevano trovato bello e pratico per l’uso cui doveva servire! Il domani mattina - continuò l’avvocato Natale - appena giorno uscii di
soppiatto dalla tenda senza svegliare mio fratello, perché mentre a me non riusciva di chiudere occhio, quei giovanotti, quei ragazzi, che da poco tempo avevano lasciato l’ufficio o la scuola 18, si erano già abituati a dormire sopra la paglia e vi dormivano saporitamente come sopra i loro lettini, amorosamente preparati dalle mamme. “Uscito dalla tenda rimasi sorpreso però nel vedere che il
suo Mario, la cui tenda era separata da quella di mio fratello da un’altra tenda
soltanto, unico fra tutti gli ufficiali del Battaglione, era già alzato e stava tran18: Dei 74 o 75 ufficiali che ordinariamente formano i quadri completi di un Reggimento di Fanteria in tempo di guerra, i quadri del 93° Reggimento erano costituiti in quel momento da soli 9 ufficiali di carriera tutti gli altri erano ufficiali di Complemento
o Territoriali, la maggior parte improvvisati con corsi d’istruzione dai 30 ai 90 giorni! Si capisce che tutti i Reggimenti dovevano trovarsi nelle stese condizioni. A questo ci aveva condotto un trentennio di propaganda socialista, di apatia, d’incuria!
quillamente facendo la sua toletta all’aria aperta, con la sua catinella di gomma. Appena mi vide, mi domandò: “Ha inteso questa notte?” alludeva al tuonare dell’artiglieria ed al crepitare della fucileria,che aveva continuato per tutta la notte; musica alla quale essi si erano oramai abituati.
Il Reggimento, dovendo più tardi allontanarsi per una marcia-manovra,
nell’incertezza di potere attendere il suo ritorno, mi congedai da mio fratello
e dagli altri ufficiali che avevo conosciuto in quei due giorni. Allora suo figlio
mi si avvicinò serio serio, e consegnandomi la sciarpa mi disse: - Mi permette di darle un bacio che Lei porterà a mio Padre?”
Caro e gentile ragazzo, amorosissimo figlio mio, tu presentivi la tua fine
vicina e mi mandavi come potevi il tuo ultimo bacio!
L’avvocato Natale, gentilissima persona, si trattenne più ore con noi per
soddisfare a tutte le nostre domande,per dirci di nostro figlio tutto quanto
aveva potuto sapere nel poco tempo che si era trattenuto al campo. Una cosa
non poté dirci, perché mio figlio la teneva gelosamente celata a tutti; ed è che
in quel momento mio figlio sofffriva, per la posizione stupidamente umiliante che gli era stata fatta al 93° Reggimento, grazie alle disposizioni allora in
vigore: il suo confidente era il Capitano Schiavo e da esso lo seppi soltanto dopo la morte del mio figliuolo.
Quando Mario partì con l’82° Fanteria per il campo di Avezzano, mia moglie gli confezionò un berretto e maglia di lana grigio-verde, di quelli chiamati
passa-montagna, che si possono abbassare fino al collo con i fori per gli occhi e per la bocca, perché di notte, fra i monti, stesse caldo; in seguito, essendosi esercitata nel confezionare oggetti di lana per soldati, nell’approssimarsi
dell’inverno gliene fece un altro assai migliore e che lo avrebbe garantito meglio il freddo. Mario la ringraziava con la seguente letterina.
Zona di guerra, 25 settembre 1915
Cara mamma
Ho ricevuto il berretto di lana e ti ringrazio infinitamente del
pensiero gentile che hai avuto di accoppiarvi anche la cioccolata.
Questa però non è troppo fresca, poiché le Fabbriche Riunite
non l’hanno molto buona; quando me ne manderai dell’altra preferirei quella al latte 19.
Non per questo non l’ho gradita, che anzi ha avuto onoratissima sepoltura.
Qui piove continuamente,ma ha una buona tenda e l’acqua
non passa. Ho messo in opera il tuo berretto con il quale mi trovo benissimo.
Hai avuto il mio saluto dall’avvocato Natale? Egli ti avrà potuto dire tutto quello che io vorrei, ma che non posso dire.
Tu come stai? Io mangio tanto, specialmente qui che i piatti
principali sono le bistecche.
19: Gli si era fino a quel momento inviata quella qualità, perché la fabbrica era adiacente alla nostra abitazione.
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LA VITA MILITARE
E Brontolone? Domani scriverò a Lui, così non farò torto a
nessuno.
Salutatemi gli zii e ricevete, te e Papà, tanti bacioni, mentre i
miei più cari pensieri sono per voi.
Tuo
Mario
Qualche notizia inesatta circostante per il campo o qualche ordine veramente diramato e quindi cambiato, il 27 Settembre gli fece credere di
dovere essere condotto al fuoco e perciò mi scrisse la seguente cartolina.
Zona di Guerra, 27 settembre 1915
Caro Papà
Quando tu riceverai questa mia, io forse mi troverò al cimento… Non state in pensiero, specie se non ricevete lettere perché, capirete, sono impossibilitato.
Ricordatemi sempre ed abbiate fiducia in me, che compirò
tutto il mio dovere sino alla fine, qualunque esso sia. Per ora vi
bacio affettuosamente e vi saluto nella speranza di presto potervi mandare i miei saluti e buone nuove.
A Te ed a Mamma ancora bacioni affettuosi.
Vostro
Mario
Viva l’Italia!
Appena si presenta l’eventualità di dovere affrontare il nemico, il suo pensiero vola subito ai suoi genitori e manda loro il suo saluto ed il suo bacio,come lo
avrà mandato certamente anche alla sua fidanzata. La sua preoccupazione maggiore è quella di rassicurarli che Egli farà il suo dovere fino alla fine! E’ una
frase questa che ricorre insistentemente in quasi tutte le sue lettere, tanto era radicato in quell’animo onesto, semplice e buono, il sentimento del dovere.
Nella regione del medio Isonzo, dove trovavasi, era cominciata la stagione
delle piogge, che non doveva essere molto piacevole il campo e sotto la tenda, Lui
così elegantino, così sempre appuntato, Lui che in casa metteva ogni notte i suoi
pantaloni piegati fra i materassi del letto, perché avessero sempre la piega fresca
ed inappuntabile! Eppure Egli sopportava le intemperie con molta filosofia. In
una cartolina scrittami il 29 Settembre si legge:
Piove ininterrottamente da quasi una settimana e l’acqua arriva quasi al ginocchio, in altri punti si affonda fino alla caviglia in
una fanghiglia rossastra (come il terriccio d’Avezzano). Puoi figurarti che pulizia! Ebbi una passatina di febbre leggerissima, dopo
due giorni che, bagnato fino alle ossa non avevo potuto cambiarmi.
Non si trattava di una passatina di febbre, ma ebbe febbri reumatiche per
una settimana e non le accusò mai, continuando a fare il suo servizio, per timore che lo mandassero all’ospedale e perciò via dal fronte.
Una delle mie grandi preoccupazioni era quella dell’abilità professionale di
mio figlio: ci trovavamo ancora al principio della nostra guerra e per quanto già
si sapesse il profondo mutamento che la guerra moderna aveva subito in confronto all’antica guerra, pure chi non era al fronte non poteva immaginare che
la manovra trovava un impiego ben limitato nella guerra attuale, la cui caratteristica è quella dello scambio, fra i due avversari, di migliaia di tonnellate di ferro, slanciate da bocche da fuoco di diversi calibri e da distanze diverse (da 6 a
12 chilometri 20, a 15 a 20 metri) contro bersagli corazzati o contro soldati più o
meno fortemente trincerati. Ed appunto della manovra che m’impensierivo: avevo insegnato a mio figlio le evoluzioni di Plotone e di Compagnia, per abituarlo
a ben comandare il Plotone isolato ed inquadrato; avevo cominciato anche ad insegnargli le evoluzioni di Battaglione perché sapesse, all’occorrenza, comandare
anche una Compagnia inquadrata, ma non era troppo tranquillo circa la sua sicurezza di manovra, specialmente dal momento che l’avevo veduto partire per il
fronte. Per comandare, aveva bella presenza, robusta voce baritonale ed aveva
appreso un bel comando; se la cavava anche abbastanza bene nel comandare il
Plotone e la Compagnia inquadrata, ma…..a casa sul tavolo! Si comprende facilmente, anche da un profano, che comandare un reparto inquadrato, cioè non
avendo libertà di manovra, ma dovendo obbedire ad ordini dati da altri a voce
o con segnali, sotto l’infuriare di ferro e di fuoco slanciata da fucili, mitragliatrici e cannoni nemici, non è precisamente la stessa cosa che comandare tranquillamente quello stesso reparto in piazza d’armi, o meno ancora, sopra un tavolo
con dei pezzetti di legno e sotto il comando di Papà! Mio figlio nel mese passato
all’82° Fanteria, di manovra ne aveva fatta pochissima; nei due mesi e mezzo
che aveva passato nel 139°Battaglione di Milizia Territoriale, non ne aveva fatta molta, di certo, e si capisce, perché il Battaglione doveva organizzarsi ed organizzare i servizi; restava quindi il mio Mario, come fondamento d’istruzione
militare per quel che riguarda la manovra, quello che avevo potuto insegnargli
io in casa. Ed al fronte era poco, molto poco! Poiché per manovrare sotto l’azione del fuoco nemico, oltre al sangue freddo indispensabile, bisogna conoscere
praticamente la manovra per lunga consuetudine, bisogna durante il tempo di
pace avere svolto ripetutamente tutti i movimenti possibili ed immaginabili, perché sul campo di battaglia il menomo suono, il più piccolo segnale, bastino a farvi comprendere il movimento o che deve far fare al vostro reparto o la formazione che per esso dovete adottare; Il minimo errore od anche soltanto la più piccola esitazione del comandante, possono essere la causa dell’eccidio del suo reparto e qualche volta avere conseguenze anche più gravi.
E’ stata una fortuna per l’Italia che in questa guerra feroce, siasi avverato il
nostro vecchio proverbio che suona: Chi inventò la forca ne rimase appiccato!
Poiché la guerra di posizione, la guerra di trincea, adottata dalla Germania, abolendo la manovra, ha permesso all’Inghilterra ed all’Italia di improvvisare i loro
eserciti di milioni di soldati, con ufficiali fatti a macchina in 30 o 40 giorni d’i20: Alla fine della guerra la portata dei cannoni aveva raggiunto i 100 chilometri, come il cannone tedesco che bombardava Parigi.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
struzione! Se questi eserciti invece d’intanarsi nelle trincee, avessero dovuto
combattere manovrando, l’Italia (Governo, popolo ed ufficiali permanenti) si sarebbero amaramente pentiti di non aver provveduto in tempo ad un a numerosa e ben istruita classe di ufficiali in congedo: il Governo per non essersi occupato mai di provvedere dei quadri numerosi di ufficiali in congedo, che al paese
non costavano quasi nulla, accordando loro qualche piccolo vantaggio; il popolo, mettendo in ridicolo le istituzioni che dovevano essere altamente rispettate e
tenute in onore; gli ufficiali permanenti, tenendo cortesemente a distanza, per ragioni professionali, la classe degli ufficiali in congedo, stancando così tante rispettabili persone, che dalla posizione di ufficiali in congedo non ricavavano che
seccature e scherni.
Giunto che fu mio figlio al fronte, scrissi al Capitano Schiavo, che lo aveva
avuto sotto i suoi occhi fin dal primo giorno della mobilitazione, perché mi desse il suo parere circa l’abilità professionale di mio figlio, ed egli mi scrisse in proposito la seguente lettera:
Zona di Guerra, 9 ottobre 1915
Egregio Sig. Colonnello
Domando venia se rispondo con qualche ritardo, ma vorrà
compatirmi perché qui difficilmente si ha un momento libero.
La ringrazio del pensiero gentile e dell’augurio; qui non si pensa più a salvare la vita, ma si lotta per la vittoria che dovrà ridare l’antica gloria e l’antica grandezza alla Patria nostra. Io mi auguro solo di esser degno di coloro che iniziarono e completarono le
prime guerre dell’indipendenza di cui Ella è del bel numero uno e
non degli ultimi.
Mi domanda notizie di suo figlio ed io sono pronto a darle con
tutta la franchezza e la sincerità della mia convinzione. Non Le
nascondo che io sono avvinto a suo figlio da un grande affetto, nato per le sue ottime qualità di mente e di cuore.
Non ho mancato di raccomandarlo al Sig. Colonnello, giusto il
suo desiderio, anzi feci il possibile per averlo nella mia Compagnia. Non essendo a ciò riuscito, sin dal primo giorno l’ho raccomandato vivamente ad un mio caro amico e concittadino, il Sottotenente Natale, che trovasi nella Compagnia di suo figlio. Il Natale, giovane di cuore e di fegato, provato al fuoco, ha fatto già paterna amicizia con Mario e spero che in qualsiasi evento possa trovare in lui l’aiuto ed il conforto di un fratello. Da parte mia fo sempre il possibile per vederlo ed avere notizie e poiché di eguale sentimento è animato suo figlio, non passa giorno che non ci vediamo
ed in questo momento che scrivo siamo assieme.
Suo figlio ha della attitudini speciali per diventare un ottimo ufficiale effettivo ed a mio modesto avviso egli ne è degno per la no-
biltà del suo sentire. Egli ha fatto domanda per essere ufficiale di
Complemento, perché dato il Decreto per la nomina a effettivo,
sembra che soltanto quelli di complemento abbiano questo diritto.
Ciò è veramente un torto che si fa agli ufficiali di Milizia Territoriale
al fronte, che fanno lo stesso servizio e corrono gli stessi rischi. Non
aggiungo che lo stampo degli ufficiali di Complemento è oggi ridotto troppo basso e suo figlio potrebbe fare da maestro a tutti costoro. Aspettiamo quindi il Decreto, che Ella accenna nella lettera a
suo figlio, nella speranza che esse sia una riparazione Suo figlio,
pur accettando i suoi sapienti consigli, ne fa questione di dignità
personale ed io non posso che ammirarlo. Poscia egli dovrà sempre
in tempo di scegliere quella via più confacente al suo avvenire.
Non tutto posso scrivere circa il corso laborioso che sta facendo la domanda da suo figlio prestato al Comando, ma nel momento è forse bene che si fermi ed è per questo che io non ho fatto
ancora nessun passo per sollecitarla. Suo figlio potrà fare la domanda per effettivo soltanto dopo 4 mesi di permanenza nel corpo
di operazione.
Egregio Colonnello stia tranquillo perché il suo Mario ritornerà glorioso a render lieta la sua vita. E’ questo l’unico augurio che
con tutta la mia anima io Le porgo, intendo tutti i palpiti del suo
cuore. Avanti sempre. Viva l’Italia.
Accetti un’affettuosa stretta di mano e sempre disposto ai suoi
comandi mi creda
Dev.mo
Adolfo Schiavo de Borromeo
Comandante la 10° Compagnia del 93° Fanteria
Alcune parti di questa lettera hanno bisogno di chiarimenti. Mentre noi a
Roma andavamo studiando il modo di render a nostro figlio meno disagiata la
vita al campo, lui invece non si occupava di comodità materiali, delle quali non
sentiva il bisogno, ma aveva avanzata subito la sua brava domanda, per via gerarchica, al Ministero della Guerra, per essere nominato Sottotenente di Complemento, e di questa nomina mi parlava immancabilmente in ogni sua lettera,
in ogni sua cartolina.
Nelle mie risposte gli facevo osservare: in primo luogo che dato il suo desiderio (che era anche il mio) di ammogliarsi presto e gli impegni assunto in proposito; dato gli studi artistici già compiuti, i quali mentre stavano per aprirgli
una bella e lucrosa carriera professionale, a nulla gli sarebbero serviti nella carriera militare; dato l’inevitabile ristagno che in questa carriera si sarebbe verificato dopo la guerra, a me non sembrava che a Lui convenisse di seguirla, ma
dovesse contentarsi di fare il suo dovere da buon patriota verso il suo paese, come stava facendo, quindi tornarsene a casa sua e proseguire i suoi studi. In secondo luogo mi sembrava che, a rigor di logica, di questa domanda e di questa
nomina non avrebbe dovuto esserci bisogno, perché gli ufficiali territoriali in-
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MARIO MODERNI
LA VITA MILITARE
viati ed inquadrati nei Reggimenti di Fanteria dell’esercito di prima linea dovevano esercitarvi le stesse e precise funzioni degli ufficiali di Complemento,
quindi giustizia voleva che fin dal primo momento fossero messi nelle stesse
condizioni morali di quelli. Poiché se il Ministero della Guerra avesse ritenuto,
che neppure una scelta fra i migliori ufficiali della Territoriale, fosse stata sufficiente per ottenere lo stesso grado di abilità professionale, supposta negli ufficiali di Complemento, allora prima di inviare al fronte i Territoriali, avrebbe dovuto istituire anche per essi dei corsi speciali accelerati, per essere nominati ufficiali effettivi o di Complemento, a seconda le aspirazioni dei singoli ufficiali;
poiché altissime ragioni disciplinari consigliavano che i soldati non dovessero
giudicare dal colletto della giubba, l’abilità professionale degli ufficiali che li
guidavano al combattimento. Però ho detto già, e dovrò forse ripetere ancora,
che l’Italia nel 1915, per incoscienza e per insipienza, avendo trascurato di prepararsi un grande esercito,quale la sua posizione e gli armamenti colossali degli altri Stati europei richiedevano, questo grande esercito dovette improvvisarlo in pochi mesi: non può quindi per meraviglia se molti problemi furono risoluti in mezzo a mille incertezze ed a forza di espedienti. Si diceva che in questo
o quel Reggimento, degli ufficiali territoriali avevano chiesto ed ottenuto di passare effettivi; in altri Reggimenti invece, e quello dov’era capitato mio figlio doveva essere del numero, non sapevano nemmeno se gli ufficiali territoriali avevano il diritto di passare ufficiali di Complemento. Fatto sta che mentre il buon
senso diceva che questi ufficiali inviati al fronte a riempire i vuoti nei Reggimenti di Fanteria, dovevano essere considerati come veri e propri ufficiali di
Complemento, dei quali facevano le veci, mancava però qualsiasi legge o regolamento, mancava una istruzione qualsiasi, che permettesse ai Comandanti di
Corpo di potersi regolare su questo argomento.
Dato questo stato di cose, la domanda di Mario faceva poca strada, e quando Egli credeva che fosse già arrivata al Ministero, la domanda invece non erasi mossa dal Reggimento, che verso quell’epoca deve aver cambiato il proprio
comandante, causa certamente anche questa del ritardo. Mio figlio me ne scrisse perché assumessi informazioni in proposito e gli facessi sapere quali speranze vi erano di vedere realizzate le proprie aspirazioni: potei rispondergli soltanto che si attendeva da un momento all’altro, un Decreto che disciplinasse
questi passaggi.
Nel pomeriggio del giorno 8 o 9 Ottobre (non ricordo con precisione) vidi
capitare improvvisamente all’Ufficio Geologico (del quale facevo parte) mia
moglie tremante e piangente per una lettera di Mario, arrivata poco dopo la
mia uscita da casa, nella quale chiedeva che mi adoperassi per farlo andar via
dal fronte: con le nostre prevenzioni sulla dolcezza, la mitezza di carattere di
quel buon figliuolo, che ci facevano temere potesse avere dei momenti di debolezza, in mezzo alla lotta selvaggia di questa guerra, a mia moglie sembrò di
vedere in quella lettera, il suo diletto Mario spaventato chiedere il soccorso del
padre per tornare indietro, e siccome intuiva che tornare indietro non doveva
essere così facile come andare avanti, ne era disperata. Lessi la lettera che essa mi porse, suggestionato dallo stato d’abbattimento in cui vedevo mia mo-
glie, da principio ne fui scosso anch’io, ma rileggendola poi nuovamente, dovetti convincermi che non una parola di quella lettera, autorizzava a ritenere
che Mario fosse spaventato; quella lettera diceva soltanto che nostro figlio era
stanco e scoraggiato. La lettera è scritta metà a penna e metà in lapis copiativo ed eccone il contenuto.
Zona di Guerra, 3 ottobre 1915
Mio Caro Papà
Ora mi trovo veramente lontano da voi!… Piove incessantemente senza avere la possibilità di cambiarci!… Ricevo adesso
il pacco della cioccolata con la tua lettera.
Grazie tanto del pacco; mangerò la cioccolata tutte le mattine invece di prendere il caffè che passano… Io mi ricordo dei
consigli vostri 21 (e benché non sia un caffè turco) pur tuttavia
non lo prendo mai. Scusa come scrivo, ma scrivo a terra.
Quanto alla mia domanda l’ho fatta perché un altro ufficiale della Territoriale l’ha fatta ed è passato di Complemento (data la statura) nei Granatieri. Poi il mio Reggimento non avrebbe chiesto informazioni all’82° Reggimento Fanteria ed al 139°
Battaglione di Milizia Territoriale se avesse saputo che la mia
domanda non poteva aver corso 22.
Inoltre, torno ora dall’Aiutante Maggiore, il quale mi ha detto che la mia domanda è partita corredata di tutti i dati necessari, il 15 Settembre, per il Ministero. Qui non mi sanno dir nulla circa la Circolare riguardante ufficiali della Territoriale; ma
credono che le domande si possono fare.
Senti, Papà, io accetto pienamente i tuoi consigli, va al Ministero, informati, e se vedi che è proprio impossibile, fa del tutto per farmi venire via dal fronte e (non appartenendo più, credo, per mobilitazione al Distretto di Ancona) procura per mezzo di qualche tua conoscenza di farmi venire presso un Battaglione che trovasi a Roma. Il mio dovere verso la Patria l’ho fatto e come ci sono tanti che si trovano nella nostra città ci posso
essere anch’io.
Quanto al giornale abbonami pure al Giornale d’Italia.
Tutto è andato bene 23.
Attendo tuoi consigli. Saluti e baci.
Mario
Come vedesi soltanto la seconda parte della sua lettera, quella scritta dopo
aver parlato con l’Aiutante Maggiore, mostra il suo scoraggiamento ed il desiderio di venir via dal fronte, quando però mi fossi assicurato dell’impossibilità per Lui di essere nominato ufficiale di Complemento. Gli ostacoli che in21: Siccome il Prof.De Santis quando lo aveva in cura per l’esaurimento nervoso, aveva prescritto niente caffè, niente liquori e
pochissimo vino, poi gli raccomandavamo sempre di attenersi a queste vecchie prescrizioni, alle quali avevamo aggiunto anche:niente fumo.
22: Qui comincia la parte della lettera scritta in lapis.
23: Allude ad una marcia di avvicinamento alle posizioni nemiche fatte al suo Reggimento, durante la quale, seppi dopo la sua
morte dal Capitano schiavo, essere caduta a poca distanza da Lui una bomba lanciata da un velivolo nemico, senza che Mario
perdesse il suo inalterabile sangue freddo e senza dar segno della minima emozione.
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contrava nel suo desiderio di seguire la carriera militare non erano però una
ragione plausibile per venir via dal fronte; se aveva lasciata la tranquilla residenza di Macerata per il campo di battaglia, lo aveva fatto anzitutto per prendere parte alla campagna di guerra, spintovi da quell’amor di Patria che io gli
avevo ispirato fin da bambino; la carriera militare, in questo suo gesto, c’entrava come un premio agognato, sperato, ma non era stata la causa determinante che lo aveva spinto al fronte.
Dove nella sua lettera mi dice di accettare il mio consiglio e voler venire via
dal fronte, egli, in un momento di scoraggiamento, raccoglieva una mia esclamazione sfuggitami in una lettera precedente, nella quale seccato di tutte le difficoltà che incontrava al fronte, dicevo: pianta tutto e vieni via; esclamazione imprudente, lo confesso, ma sfuggitami perché intuivo che quel ragazzo mio soffrisse. Ad ogni modo perché Mario potesse risolversi a rinunziare all’aureola di
patriottismo guadagnatasi partendo volontario per la guerra, perché potesse rinunziare da un momento all’altro a quella speranza che era stata il sogno di tutta la sua vita, perché quel giovanotto fiero chiedesse di venir via dal fronte, ci doveva essere qualche altra ragione, che io non dovevo sapere che dopo la sua morte, dal suo confidente, Capitano Schiavo.
Nell’Esercito, gli ufficiali della Milizia Territoriale sono stati sempre tenuti
cortesemente a distanza, ragione principale che ha impedito la formazione di un
grosso contingente di questi ufficiali colti e militarmente istruiti, per contentarsi
poi, dopo scoppiata la guerra, di reclutare tutto quanto era possibile, anche la
zavorra. Fin dal principio della guerra il Ministero intese il bisogno di chiamare
al fronte anche gli ufficiali della Territoriale ma ve li chiamò in un modo che più
balordo non si potrebbe immaginare, cioè assegnandoli come soprannumeri ai
Reggimenti. La chiamata di ufficiali territoriali al fronte, significava evidentemente che vi era una grande deficienza di ufficiali; ora data questa deficienza, in
uno stesso reparto esporre alla falle nemiche due ufficiali invece di uno, cioè il titolare e il soprannumero, è un provvedimento che se non l’ha preso un pazzo,
non fu preso certamente da persona completamente sana di mente.
Dunque, il mio Mario parte entusiasta da Macerata, pronto a dare la vita sua
per la Patria, come lo provano i documenti che verranno in seguito; il Comandante del Deposito del 12° Fanteria, che aveva potuto apprezzare le qualità militari (perché soldati ci si nasce, e non ci si diventa! E Mario era nato soldato!)
prima di partire da Macerata, lo invita a pranzo e gli regala un paio di eleganti
mostrine della Brigata Messina della quale andava a far parte. Al Deposito del
93° Reggimento ad Ancona, cominciano per fare osservazioni sull’uso di queste
mostrine, che dicono abusivamente portate e vorrebbero che, tanto mio figlio
quanto il Capitano Schiavo, se le togliessero sostituendole nuovamente con le
fiamme rosse della Territoriale. I due si rifiutano, perché andando a far parte del
93° Reggimento, ritengono avere il diritto di portare i distintivi: d’altronde essi
sapevano che quelle fiamme rosse erano state per tanti anni abbandonate allo
scherno e ai lazzi di gente incosciente e non volevano che di fronte ai loro reparti del 93° Reggimento, quelle mostrine costituissero per essi un documento d’inferiorità. Oggi non sarebbe più la stessa cosa: dopo la splendida prova fatta dai
reparti della Territoriale che sono al fronte, e che ha riscosso l’ammirazione di
tutto l’esercito, dopo la condotta eroica di tanti ufficiai territoriali, inquadrati nei
Reggimenti di prima linea, quelle fiamme rosse sono diventate un distintivo altamente onorifico, non inferiore sicuramente al distintivo di qualsiasi altro corpo. Giunti al fronte, al Capitano Schiavo, che pure proveniva dagli ufficiali di
Complemento, vengono dati degli incarichi, ma non il comando della Compagnia, che ottiene soltanto dopo un certo tempo; a mio figlio, per qualche giorno
gli viene affidato l’incarico di sostituire l’Aiutante Maggiore del Battaglione assente, poi, ritornato questo, fu messo come soprannumero in un Plotone e perciò il suo posto avrebbe dovuto essere in serrafila con i sottoufficiali, Mario però
non volle mai abbassare il suo grado e la sua divisa, e nel mese, in cui dovette
restare in quella posizione umiliante, ogni volta che il Plotone si riuniva, Egli si
collocò sempre a fianco del titolare del reparto, senza che nessuno osasse protestare contro quella dimostrazione di fierezza e di dignità, di cui al Ministero non
avevano tenuto conto. Quanto mi sarebbe piaciuto di poter domandare al geniale inventore di questo soprannumerato, che cosa credeva che mio figlio avesse potuto imparare durante il mese che rimase in quell’umiliante posizione? Una
cosa certamente: a soffrire tacendo!
Ottenuto finalmente il comando del Plotone, un altro genere di sofferenza lo
aspettava: per la sua nomina a Sottotenente ottenuta, come già dissi, il 27 Settembre 1914, Egli era uno dei Sottotenenti più anziani del Battaglione, se non
addirittura il più anziano, ma siccome anche a parità di grado, nell’esercito si
sono venute formando delle norme di precedenza che fanno a pugni con il buon
senso, così Egli proveniente dalla Territoriale si trovava sempre in tutte le circostanze lasciato per ultime.
Nell’esercito italiano era stata sempre invigore la massima che l’anzianità costituisse grado; ora non è più così; l’ufficiale effettivo ha la precedenza su l’ufficiale di Complemento di pari grado, anche se ha maggiore anzianità; e questo ha
la precedenza sugli ufficiali territoriali di pari grado, anche se più anziani. Questo diverso valore che si è voluto dare allo stesso grado nelle diverse categorie, è
dannoso alla disciplina militare e non è fatto davvero per cementare il cameratismo fra le diverse categorie di ufficiali. Infatti, per queste precedenze e per altre cause, che per amor di Patria lascio nella penna, si sono venuti formando dei
dualismi fra le diverse categorie di ufficiali, che potrebbero divenire esiziali alla
compagine del nostro esercito.Tutti gli ufficiali, a qualunque categoria appartengono, dovrebbero possedere quell’istruzione professionale corrispondente al
loro grado, ed il Ministero dovrebbe fornire ad essi i mezzi per acquisirla; quindi quando, come nel caso di questa guerra, ufficiali di diverse categorie si trovano riuniti nello stesso reparto, la sola anzianità dovrebbe dare la precedenza. Che
importa se l’ufficiale effettivo ha fatto un corso teorico speciale ed ha dele cognizioni generali per poter raggiungere i più alti gradi della gerarchia militare?
Questo gli serviva per la carriera, ma a parità di grado, l’anzianità suppone una
maggiore esperienza, un più maturo giudizio, maggiore età, ed è stato un gravissimo errore, anche rispetto alla disciplina, l’averla subordinata alla categoria.
Quell’anima delicata e fiera di soldato, che era mio figlio, quando constatò
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LA VITA MILITARE
che quel suo grado di Sottotenente di Milizia Territoriale valeva così poco, che
qualunque Sottotenente di Complemento, fatto a macchina in pochi giorni, al
quale Lui avrebbe potuto far da maestro, come scriveva il Capitano Schiavo,
aveva il diritto di precedenza; quando si accorse che per la sua provenienza, era
condannato ad essere sempre l’ultimo fra i suoi eguali, malgrado la maggiore anzianità di grado, malgrado avesse già riportato un encomio per incarichi lodevolmente compiuti, malgrado che a Macerata gli fosse stato affidato più volte il
comando della Compagnia; quel bel soldato, a cui la disciplina era istintiva, deve aver sofferto assai in silenzio, per aver trovato tutta quella miseria inventata
dalla Burocrazia e che Egli, ragazzo ingenuo, non sospettava neppure. Questa
sofferenza spiega il grido di dolore che gli era sfuggito in un momento di scoraggiamento: questa differenza fra una categoria e l’altra non l’aveva neppure
sognata, non avrebbe immaginato di essere un Sottotenente, per così dire, a
scartamento ridotto!
Il suo desiderio vivissimo di essere nominato Sottotenente di Complemento,
era dunque motivato principalmente dal bisogno di togliersi da quella posizione
umiliante. Ciò spiega anche la frase contenuta nella lettera del Capitano Schiavo e che sul momento mi rimase oscura: “Suo figlio pur accettando i suoi sapienti
consigli, ne fa questione di dignità personale ed io non posso che ammirarlo”.
Già, si trattava proprio di dignità personale di cui la Burocrazia ha fatto sempre strazio,e che quell’anima nobilissima anteponeva a qualsiasi altra considerazione. Ad ogni modo queste sue sofferenze, le ho conosciute dopo la sua morte,
quando venne a trovarmi il Capitano Schiavo, ed ho potuto avere una spiegazione della sua condotta di allora; ma quando ricevetti la lettera che mi chiedeva di farlo venire via dal fronte e farlo destinare a Roma presso la sua famiglia
(che lo avrebbe riconfortato) se non aveva speranza di essere nominato ufficiale
di Complemento (cioè eguale agli altri) ritenni che quella lettera mi fosse stata
scritta in un momento di scoraggiamento, e perciò che fosse necessario far subito qualche cosa per rialzarne il morale.
Nel 1913, chiamato sotto le armi per prendere parte alle manovre con i quadri a Civitavecchia e nel Viterbese, avevo conosciuto in quell’occasione il Colonnello Vittorio Elia, divenuto poi Generale, ed in quel momento Sottosegretario di
Stato al Ministero della Guerra; per cui credetti approfittare di questa conoscenza e rivolgermi direttamente ad esso, per conoscere la vera posizione di mio figlio e sapere se il suo desiderio avrebbe potuto essere soddisfatto. Il Generale Elia
mi fece gli elogi più lusinghieri dei Battaglioni Territoriali, che aveva veduto al
fronte pochi giorni prima, dei quali nessuno era inferiore a quelli dell’esercito di
prima linea, anzi qualcuno gli era superiore, ma non era ancora a sua conoscenza che vi fossero degli ufficiali territoriali inquadrati nei Reggimenti di Fanteria
al fronte. Mi chiese perciò un pro-memoria a questo riguardo e mi promise di
studiare la cosa. Poco meno di un mese dopo, venne un provvedimento che disciplinava questi passaggi da una categoria all’altra, stabilendo che gli ufficiali
territoriali dopo tre mesi passati al fronte, presso un corpo operante, potevano
essere nominati ufficiali effettivi. Non era tutto quello che si desiderava, ma era
già qualche cosa, vi erano almeno delle norme fisse per tutti: non posso dire pe-
rò se questo provvedimento sia stato o meno provocato dal mio pro-memoria.
Sul momento potei intanto scivere a amrio che stesse tranquilllo, poiché il Sottosegretario di Stato mi aveva promesso di studiare la cosa, e qualunque risoluzione fosse stata presa, questa non poteva che essergli favorevole.
Per tranquillizzarlo maggiormente, gli invia una copia del pro-memoria lasciato al Generale Elia: nella lunga ed affettuosissima lettera che lo accompagnava, fra altre cose gli dicevo: “Accade a tutti quando si è lontani dalla propria
casa, dai propri parenti; quando si è di fronte a dei disagi o a dei pericoli di essere talvolta assaliti da sconforto o da scoraggiamento; ciò è avvenuto anche a
me un paio di volte nel 1866. Se mai ciò ti avvenisse, tu rivolgi subito il tuo pensiero a me, che avrei voluto esserti vicino, principalmente per darti l’esempio del
come i soldati romani stanno stare di fronte al nemico; pensa subito a Roma tua
ed agli obblighi che t’impone l’onore di essere suo figlio,e vedrai il tuo morale rialzarsi immediatamente. Per richiamare poi l’attenzione delle alte autorità militari, su la posizione fatta agli ufficiali della Milizia Territoriale inquadrati nei
Reggimenti di prima linea, pubblicai apposito articolo sul giornale L’Esercito Italiano, di cui ero collaboratore, deciso di farlo seguire da altri, ma non ve ne fu
bisogno perché, ripeto, un provvedimento venne preso poco dopo. Gli mandai
una copia anche dell’articolo, che gradì assai, per mostrargli che non era abbandonato e che il padre si occupava di Lui. Prima ancora che ricevesse la mia
lettera, Egli continuò a scriverci e fin dalla sua prima cartolina, scrittaci il 5, era
sparita ogni traccia dello scoraggiamento e dello sconforto, affatto momentaneo,
manifestato nella sua lettera del 3 e che ci aveva spaventati. Ecco la cartolina del
giorno 5 Ottobre.
Caro papà
Hai ricevuto il vaglia di lire 200?
Quanto manca ancora a ripianare il vuoto fatto nel mio libretto per il corredo militare e quando comincerò a mettere da parte?
Io sto bene e tutto va bene come quando eravamo a Santa
Lucia!…Ti ricordi 24?
In quanto alla mia domanda se ne occuperà anche il Capitano Schiavo…
Parla quindi di altri suoi colleghi inviati al fronte d’autorità e termina con
i soliti saluti e baci
Zona di Guerra, 6 ottobre 1915
Caro Papà
Non avendo tempo di scriverti una cartolina. Grazie dell’articolo che ho letto con piacere e fatto leggere ai miei colleghi.
24: E’ l’unica volta questa che ho procurato di farmi sapere la località dove trovavasi,perché dalle mie lettere aveva veduto che,
fin da quando erasi mosso Jalmicco, io avevo creduto che il suo Reggimento fosse stato sul Carso, cioè dalla parte opposta a quella in cui effettivamente trovavasi.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Non sarebbe il caso di fare la domanda per me al Comando Supremo, poiché in questi momenti il Ministero non fa
niente ed ignora tutto. Dei caporali (di professione ufficiali
postali) sono stati nominati ufficiali.
Credo debba uscire qualche Decreto dato che mandano
d’autorità al fronte ufficiali territoriali, non possono quindi lasciarli in una posizione d’inferiorità.(sempre lì batte!)Fammi sapere qualche cosa. Per oggi tanti baci a te e alla Mamma.
Vostro
Mario
Il 6, dopo avermi scritto questa cartolina per dirmi che aveva saputo finalmente che la sua domanda non era partita ancora perché si attendeva che
il comandante del Battaglione consegnasse le sue Note Caratteristiche.
(Glielo avrebbero potuto dire fin da principio!). Dopo avermi parlato di
altre cose, torna a parlarmi della sua domanda mostrandosi rassegnato ad
aspettare che le cose avessero il loro corso, sicuro che la sua nomina ad ufficiale di Complemento non gli potrà essere negata.Termina dicendo che le
cannonate fioccano come neve, ma che Lui sta benissimo.
Trascrivo la prima cartolina dalla quale potemmo capire che trovavasi
in trincea.
Zona di Guerra, 8 ottobre 1915
Caro Papà
Il cappuccio è di stoffa impermeabile 25, perché con tutta
l’acqua che ha preso non è passata. Quanto alla mia domanda,lasciamo al tempo la decisione, solo informami della nuova
Circolare quando verrà alla luce. La domanda subito per effettivi non la feci perché occorrono 4 mesi di servizio presso i corpi operanti in zona di guerra. Ancora non ho ricevuto il vostro
pacco e grazie di tutto quello che mi avete comperato. Qui piove sempre. Quanto alla mia tenda ora dorme lontana da me.
Ricevo sempre il giornale e lo leggo nei momenti di tranquillità. Salutami Mamma e dille che la ricordo sempre come pure i
suoi consigli. Come richiamo i bagni di casa!! Quando potrò lavarmi? Saluti affettuosi e baci a voi tutti.
Mario
Il timore che la sua timidezza che noi gli conoscevamo, potesse in guerra esser per Lui causa di qualche disrazia, indusse mai moglie a spedirgli
il giorno 8 Ottobre una cartolina illustrata rappresentante un attacco alla
baionetta fatto dai Bersaglieri (cartolina che abbiamo ritrovata nella sua
cassetta) su la quale aveva scritto le seguenti parole: “Saluti e baci infini25: Gli avevo scritto che mi mandasse il modello del cappuccio della sua mantellina, perché così gli avrei spedito un cappuccio
di gomma che dal sarto del Reggimento avrebbe fatto cucire tra la stoffa e la fodera del cappuccio, per mantnersi almeno la testa sempre asciutta.
ti al mio caro soldatino… ricordati il detto romano: chi mena per primo,
mena due volte! Dunque niente esitazione, compi il tuo dovere verso la nostra cara Patria, che in questo momento ha bisogno di figli coraggiosi per
vincere. Tua Mamma”.
Una lettera scrittaci il 10, in risposta alla mia scrittagli dopo la sua del
3 Ottobre, è la prova certa che quel grido di dolore sfuggitogli in quella sua
lettera, era dovuto unicamente alla dignità offesa da tutte quelle piccinerie chinesi della precedenza fra le diverse categorie,escogitate dalla Burocrazia:ecco la lettera:
Zona di Guerra, 10 ottobre 1915
Caro Papà
Mi domandi se sono sconfortato? Tutt’altro:i consigli tuoi
non possono sconfortarmi… solo farmi riflettere.quanto alla
carriera militare lasciamo al tempo l decisione… vedremo
questa Circolare e poi agiremo in proposito.
Passare, se si può, effettivo, non preclude la carriera civile, poiché, finita la guerra, si possono dare le dimissioni;e poi,
passare effettivo, durante la guerra, non cambia la mia attuale posizione. Tu fammi sapere su quale base si fonda questa Circolare e la studieremo prima di agire. Tu mi consiglierai per il mio meglio, ed io ho tanto affetto per voi di nulla anteporre a questo quindi potete stare tranquilli.
Ora il mio libretto è stato rinforzato, quanto possiedo?
Spero di mandare questo mese il resto del prelevamento fatto,più altro danaro da mettervi.Così dopo aver pareggiato i conti del libretto vedremo, fino alla fine della guerra, quanto avrò
potuto mettere da parte, sempre che mi riesca il mio disegno 26!
Qui siamo sui monti fa alquanto freddo: avrei bisogno delle
altre mutande di lana, di qualche paio di calze, ma di quelle
grosse di cotone, non di lana;avrei bisogno anche di una lampada (a candela) tascabile - tipo exelsior - che troverai all’Unione
Militare e costa £. 6.50.
Vuoi sapere come mangio? Ora si mangia alla mensa (per così dire) in una grotta… ma però ho molto appetito, data l’elevata posizione dove mi trovo. Dal nostro posto si vede perfettamente ad occhio nudo la costa istriana, nei giorni più chiari, il caratteristico profilo di Venezia.
Non ho ancora combattuto alla baionetta…solo pochi colpi di
tanto in tanto. Ieri ti scrisse il Capitano Schiavo ed oggi io, perché in due non era possibile scrivere, dato il luogo dove eravamo.
E a Roma? Voi come state? Quanto ai pacchi di cioccolata ancora non li ho ricevuti.
26: Povero figliuolo, pensava a mettere da parte il danaro necessario alle spese del suo matrimonio, ma non era sicuro di riuscire!
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LA VITA MILITARE
Fatemi sapere qualche cosa dell’ambiente dal quale vivo lontano e per oggi ricevete i miei più affettuosi saluti e baci.
Mario
Cara Mamma
Grazie dei tuoi consigli… Quanto al vino ne bevo pochissimo; non fumo abbenchè ci passino due pacchetti di sigarette al
giorno: le regalo un po’ al mio attendente e qualche altra ad
un collega.
Sta tranquilla e ricordami. Bacioni.
Tuo
Mario
Con una carolina in data del 12, mi annunziava che il Capitano Schiavo, il
suo buon amico, di notte era caduto in una fossa e si era fatto male ad una gamba, tanto che gli minacciava una sinovite e perciò aveva dovuto essere trasportato all’ospedale. Era desolato per questo accidente toccato all’amico e nello stesso tempo addolorato di essere rimasto solo.
Il Destino gli preparava l’ambiente, esso non voleva che nessun volto amico
addolcisse l’agonia di quel povero ragazzo!
Mi chiedeva delle fasce e dei francobolli, assicurandoci che il suo morale, come quello di tutti i suoi compagni, era altissimo, benché il suo sistema nervoso
fosso scosso dalla continua tensione e dalle emozioni.Terminava con le solite
frasi affettuose.
Il 18 Ottobre, la vigilia del mio genetliaco, in cui compivo 67 anni, ricevetti da mio figlio la bellissima lettera che segue, bella per forma e per contenuto; lettera che è tutto un profumo di affetti santissimi, quello per il padre
e quello per la Patria.
Zona di Guerra, 14 ottobre 1915
Caro Papà
Presto prenderò parte con la mia Brigata ad un’avanzata,
che avrà un fronte molto esteso. Si attendono ordini da un momento all’altro e ti terrò informato di tutto. Spero che tutto andrà bene: è la mia prima avanzata e quindi sarà anche il mio
primo attacco alla baionetta.
Il 19 prossimo è la tua festa ed io colgo queste poche ore ancora libere che ho, per inviarti dal profondo del cuore tutti i miei
più fervidi auguri.
E’ la prima volta nella mia vita che mi trovo tanto lontano da te,
la prima volta che non posso darti tanti bacioni… con il pensiero!
Auguri sinceri ed infiniti ti giungano da questi monti redenti, dov’io mi trovo, dove, sospinto dal vento, giunge quasi il profumo del Mare nostrum.
Nella stretta trincea l’occhio è fisso, immobile, ma il pensiero è lontano… lontano, a Roma mia, a te, la cui voce più non
odo, né il tuo sguardo più vedo!... Monti, sempre monti: lontana, quasi invisibile, Venezia mi ricorda la terra natia.
Il morale è alto… non sono afflitto se in questo momento, che
pur vorrei trovarmi a te vicino, sono qui; son certo che questo
anno il tuo cuore accoglie e gradisce di più il mio augurio ed il
mio saluto.
Farò il mio dovere sino alla fine se anche questa dovesse avvenire, felice di aver dato il mio modesto aiuto alla causa comune.
Se dovessi cadere, non piangete la mia fine; essa sarebbe il termine della mia famiglia, ma riassumerei tutti gli ardenti ideali da
te ispiratimi e dei miei avi.
Ed ora felicità! Questo tuo giorno di festa ti sia circondato dall’affetto immenso di Mamma e dal mio pensiero che ti è sempre vicino. Felicità per lunghi anni ancora e che tu possa vedere realizzato tutto il sogno nazionale di redenzione e di libertà vittrice.
Ti prego di consegnare a Mamma lire 20 per regolare un antico debito contratto con lei quando ero ancora a Roma.
I saluti più affettuosi ed i miei baci infiniti.
Tuo
Mario
Il giorno 19 riuscì ad inviarmi un telegramma (vincendo certamente delle
difficoltà, perché sembra che non fosse facile spedire telegrammi dal fronte)
con il suo affettuoso saluto augurale e con i miei baci.
Questa sua bella lettera, scritta in una trincea, probabilmente di seconda
linea o meno a contatto con il nemico, merita di essere commentata perché
non a tutti è posibile indovinare da essa anche il suo pensiero recondito, come è possibile a me che gli leggevo facilmente nel cuore.
In una lettera precedente, rispondendo a delle mie domande, mi diceva
che ancora non aveva combattuto; aveva sparato qualche colpo così di tanto
in tanto, ma non aveva fatto ancora nessun’assalto alla baionetta: dunque il
vero combattimento per Lui, era principalmente l’attacco alla baionetta, il
combattimento fuori di trincea. Nella lettera augurale al padre, non sa come
meglio cominciare la lettera, che annunziandogli la probabilità di un prossimo attacco alla baionetta, evidentemente il suo desiderio. Fra le righe delle
sue lettere avevo capito che mio figlio andava a distinguersi e ripetevo spesso
a mia moglie: Mario vuol venire in licenza con il nastrino turchese in petto!
Però, non conoscendo allora le sue sofferenze morali, credevo che fosse un desiderio che è comune ad ogni giovane che ha l’onore di vestire la divisa militare: oggi posso dire che in questo desiderio di correre all’assalto fra i primi e
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poter saltare sopra una trincea nemica, c’entrava il bisogno di vendicarsi nobilmente delle amarezze e delle umiliazioni sofferte. Giovane di poche parole, anche in questa circostanza, guadagnandosi una medaglia al valor militare, senza pronunziare una parola, voleva dimostrare alla Burocrazia che, a riguardo suo, stava sciupando tempo, carta ed inchiostro!
Noi indovinavamo il suo pensiero, lo sapevamo coraggioso e ci aspettavamo da Lui qualche cosa di questo genere; ma restavamo assai perplessi e
paurosi su le conseguenze di questo suo gesto, perchè no lo credevamo capace di servirsi dell’arme bianca, così com’è necessario in questa guerra da
macellari, Lui di carattere così dolce e di cuore così mite! Lui che amava
tanto i bambini! Lui che amava tanto le bestie, al punto che se lo avessi lasciato fare, avrebbe trasformata la nostra casa in un’arca di Noè! Correre all’assalto, sta bene: quando le trombe suonano la carica, quando i soldati urlando – Savoia - in un impeto irresistibile, si slanciano di corsa verso il nemico, non si fa caso di quei che cadono, si scavalcano i morti e si continua
la corsa, eccitati dal pericolo e dalle grida: noi vedevamo col pensiero, l’elegante profilo di Mario nostro precedere nella corsa il suo Plotone ed agile arrampicarsi sul parapetto di una trincea nemica, gridando Viva l’Italia; ma
giunti addosso al nemico bisogna finirlo a baionettate, a cassate di fucile su
la testa e sul petto, spesso non si può avere pietà neanche dei feriti, perché
vi colpiscono a tradimento, ed a questo macello, agli orrori di questa guerra
corpo a corpo, nella quale più si distingue chi ha più il cuore duro, non credevamo troppo adatto nostro figlio. In quelle contingenze la menoma esitazione, si sa, può riuscire fatale, e noi temevamo che in un attacco alla baionetta, il nostro Mario potesse restare vittima degli assassini di S.M. l’Imperatore d’Austria, l’Imperatore degli Impiccati! Ciò spiega la cartolina inviatale dalla madre, nella quale era detto: - non esitare; ricordati il proverbio
romano: chi mena per primo, mena due volte! Un’altra cosa rimarchevole in questa lettera è di avere colto l’occasione del
genetliaco del padre per ripetere ancora una volta, e nel modo il più solenne,
la promessa di fare il suo dovere sino alla fine, qualunque cosa potesse avvenire, promessa poi così eroicamente mantenuta!
E’ strano e non si spiega il presentimento della morte vicina che questo
giovane aveva, come l’aveva avuto sua madre; presentimento che si è accentuato fin dal Maggio 1915, come dimostrerò con documenti che faranno parte del capitolo seguente, quando si vide la guerra divenuta certa, presentimento che non valse però a trattenerlo dal partire volontario per il fronte. Ed
è questo presentimento della nostra vicina che, in questa lettera, gli fa malinconicamente evocare la sua Roma lontana che più non vedrà; è queso presentimento che già fa desiderare di udire ancora la voce del padre, di vedere
il suo sguardo amoroso posarsi ancora su di Lui, per difenderlo, per strapparlo alla morte inesorabile stava per troncare la sua giovane esistenza.
Da ultimo quell’affare delle 20 lire che doveva alla Mamma, quella piccola bugia messa lì per fare un’affettuosa improvvisata al padre, rivela tutta
l’ingenuità infantile di queli mio figliuolo: tutti gli anni mia mogie e mio fi-
glio, mettevano in comune le loro economie per farmi un regalo il giorno della mia festa, così pure per l’Epifania. Quell’anno mio figlio aveva il suo stipendio da ufficiale, del quale risparmiava circa 200 lire al mese, che inviava
a mese perché le mettessi nel suo libretto della Cassa Postale di Risparmio;
quell’anno perciò poteva fare un regalo più grosso al suo Papà, ed aggiunse
ai risparmi già pronti quelle 20 lire, onde completare la somma necessaria per
regalrmi un bel bastone con il mio monogramma in oro.
Quel ragazzo, che fin dall’infanzia era stato sempre aizzato contro la matrigna, perché diceva tutto al Papà, quasi che mettere il padre in condizioni
di potere coscientemente educare il proprio figlio, fosse stata una colpa, quel
ragazzo giunto a 22 anni, credeva possibile che mia moglie potesse imprestargli 20 lire senza che io lo sapessi.
Quel suo ultimo regalo mi parve simbolico, e nel ringraziarlo gli scrissi che
lo avevo gradito moltissimo, ma però per appoggiarmi nei tardi giorni della
mia vecchiaia, nella quale oramai ero entrato, io volevo il suo braccio irrobustitosi su i campi di battaglia. Pur troppo però a sostenere il mio stanco ed ormai inutile il corpo, non mi resta che il suo bastone!
Nella cassetta di mio figlio, che mi fu restituita, fra la poca roba non rubata che vi trovai ancora, oltre alla cartolina speditagli da mia moglie e che
ho già riportata, vi erano anche due mie lettere che Egli aveva conservate;
una scrittagli il 12 Ottobre, nella quale gli dicevo del colloquio avuto con S.E.
il Generale Emilia, termina con le parole seguenti: “…in seguito alle lusinghiere notizie pervenuteci sul conto tuo, da parte del Capitano Schiavo, oggi
ti mandiamo razione doppia: invece di un milione, due milioni di bacioni. Alle notizie mandateci dal Capitano Schiavo, io e Mamma abbiamo pianto di
gioia…Facci piangere sempre così!”.
L’altra mia lettera porta la data del 14 Ottobre ed è quella con la quale gli
trasmisi la copia del promemoria consegnato al Generale Elia: la lettera, come al solito di quattro intere pagine della mia scrittura minuta, si occupava
per la massima parte dell’eterna questione del suo passaggio ad ufficiale di
Complemento e merita di essere riportato il brano seguente, il quale dimostra
che fino alla morte di mio figlio, io ho continuato, senza stancarmi mai, senza scoraggiarmi mai, la mia opera di educatore per la sua elevazione morale
e per la sua posizione sociale.
“come vedi io agisco e non lascio nulla d’intentato per farti
riuscire ad ottenere quello che desideri, ma ti confesso che se la
cosa non la risolvono e presto nel tuo Reggimento, come, abbiamo le prove, è stata risoluta in altri Reggimenti, ho poca fiducia
che il Ministero la risolva in tuo favore, malgrado che, per varie ragioni, ne avresti indiscutibilmente diritto. Questa mia gita
dal Sotto-Ministro è stata fatta per provocare un atto che regoli la tua posizione, ma avrò fatto bene o male?!
Perché se ne venisse una deliberazione che ti fosse contraria,
sarebbe stato meglio se avessi lasciato correre senza occupar-
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mene! E perché la deliberazione ti fosse contraria, basterebbe
che o per passare di Complimento o per passare effettivi, richiedessero titoli di studio eguali a quelli degli ufficiali di Complemento! Prendi nota, figlio mio; è già la seconda volta che i titoli di studio ti si presentano come una minaccia per sbarrarti
a via, ed ora, spero, comprenderai per quale alta ragione, tuo
padre s’intestasse a spingerti avanti negli studi con tutti i mezzi a cui potesse ricorrere, anche a quelli che ripugnavano il suo
cuore, perché il suo grande e previgente affetto per te, avrebbe
voluto riparmiarti danni e dolori. Ad ogni modo quanto sta accadendo, dovrebbe formare il tuo carattere e tu dovresti promettere a te stesso, che qualunque sarà la carriera che seguirai,
tu diverrai uno studioso che salirà in alto: o Accademico di San
Luca 27, od ufficiale superiore!
L’ultima parte di questa lettera era la seguente: “Tu mi domandi notizie di
Roma: ma dunque tu credi che noi ci ricordiamo di essere a Roma? Io e Mamma viviamo con te, ti andiamo continuamente cercando su la carta, non ci occupiamo che di te, non parliamo che di te! So che al Costanzi c’è Zacconi,
perché passo tutti i giorni per Via Torino e vedo il cartellone, ma chi di noi
due potrebbe andare al teatro?! Vedo per Roma una quantità di ufficiali territoriali, ma non so che facciano, dove stiano, dove andranno.
“Tu ci domandi come stiamo? Ti risponderò con Dante: Come color che
son sospesi!”.
Dunque non siete attendati! Me l’hanno detto anche a Roma. Ma non sarà già un segreto dirmi come dormite: sempre all’addiaccio, avvoltolati in coperte? Ovvero parte in trincee e parte in grotte? Le trincee sono coperte o sono scoperte? Rispondimi se lo puoi. La tua sala da pranzo è una grotta. Così
fosse una grotta anche la tua camera da letto! Queste sofferenze, questi pericoli, se tornerai, saranno la gloria di tutta la tua vita. Coraggio, figlio mio
adorato, come vorrei esserti al fianco per riscaldarti con il mio corpo, per fare riposare la tua testa sulle mie ginocchia! Coraggio, figlio mio, ed il giorno
della battaglia ergi fieramente la testa in faccia al nemico e combatti da romano, tua madre ti difenderà! Coraggio e prudenza. Coraggio e astuzia, ti
raccomando! Dobbiamo vincere con minori perdite possibili, non farci scannare da quegli assassini. Oh, perché non posso essere con te! Maledizione!”
Nello stesso giorno il 14 Ottobre e, chissà, forse alla stessa ora, mentre mio
figlio mi scriveva, la sua affettuosa lettera augurale, io gliene scrivevo un’altra altrettanto affettuosa: Egli mi prometteva solennemente di fare tutto il suo
dovere; ed io come se avessi udito da Roma quello che stava scrivendo, lo incoraggiavo, sì, a combattere fieramente da romano, ma nello stesso tempo gli
raccomandavo d’essere prudente, di non fare inutile getto della sua vita; Egli
presentiva la morte vicina, e nello stesso momento la presentivo anch’io, che
avrei voluto essergli vicino per riscaldarlo on il mio corpo, per sorreggere su
le mie ginocchia, la sua bella testa ricciuta; povero mio figliolo, il momento
27: Membri dell’artistica Accademia di San Luca si è nominati dall’Accademia stessa, per non comuni lavori artistici compiuti.
del sacrifizio si avvicinava ed i nostri cuori battevano all’unisono, i nostri
pensieri s’incontravano nello spazio.
Il 17 mi scrive altra lettera, nella quale mi dice essere giunta una Circolare
che permette agli ufficiali territoriali di frequentare come uditori, i corsi degli
allievi-ufficiali di Complemento, per essere poi nominati anch’essi di Complemento. Il Ministero stava per mettersi sulla buona via, ma queste sue buone intenzioni non devono essere state di lunga durata. Quasi tutta la lettera si occupa di questa questione, che ha Lui interessava sopra ogni altra cosa, perché, come abbiamo veduto, ne faceva una questione di dignità personale. Chiude la
lettera dicendoci che sta bene, benché ogni sera abbia una sfumatina di febbre
che però spero di fare sparire con l’Aspirina che prende tutte le sere 28.
Lui invece aspettava proprio il combattimento, perché la lettera terminava
così: “Per ora ancora nulla di nuovo di eccezionale valore… Si attendono ordini improvvisi”.
Una cartolina del 19 dice: “Qui si lavora per il bene comune: non impensieritevi se per qualche giorno non avrete mie notizie!...
Il 20, malgrado abbia avvertito che per alcuni giorni non avrebbe potuto scivere, ci spedisce una cartolina illustrata con i suoi saluti e tanti affettuosi baci.
Con altra cartolina pure del 20, ci avverte di aver ricevuto le mutande di
lana e la lanterna tascabile, ma con una delle lastre di mica spezzata. Ci dice
di trovarsi in posizione avanzata e che ci avvertirà quando avanzerà ancora.
Una lettera del 23 comincia così: “Tutto procede bene e con successo. Però si è verificato un inconveniente, cioè la rottura del cane della pistola dopo solo tre colpi sparati”. Continua poi facendomi sapere che si è comprata
un’altra pistola delle più moderne, una Glisenti, e mi prega di vendergli
quella a rotazione, affatto nuova, lasciata a Roma. Termina la lettera con
queste parole:
“Io sto benissimo, quantunque un poco scosso per la vista di
morti e feriti… Ci faremo l’abitudine!
Per ora saluti e bacioni a voi. Saluti agli zii.
Vostro
Mario
Vedremo fra poco dall’ultima sua lettera che cosa era successo. Questa lettera tardò ad arrivare, e noi che lo sapevamo ormai in faccia al nemico, vivevamo angosciati: tornando a casa una sera, io e mia moglie, incontrammo sul
portone la maestra di piano di Mario, divenuta da poco nostra coinquilina,
ed alla quale raccontammo le nostre trepidazioni. Essa ci rassicurò mostrandoci una cartolina illustrata speditale da Mario e ricevuta in quel momento:
nello stesso tempo la portiera ci venne incontro agitando una lettera che ci
consegnò; era di Mario, l’aprii e mi accorsi che era diretta alla sua fidanzata.
Caro figliuolo dal cuore d’oro non dimenticava nessuno!
Il 25 ci scrisse altra lettera, come poteva, in terra tra i sassi; mi parla di
28: Erano tornate le febbri reumatiche: che bella occasione per un poltrone di farsi mandare all’ospedale, sia pure per pochi
giorni, ed allontanarsi in quel momento dal Reggimento, che evidentemenet si preparava a combattere!
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una nuova disposizione riguardante gli ufficiali territoriali e di altre cose, poi
mi dà la seguente notizia: “Oggi, ultima domenica di Ottobre, abbiamo avuto la visita di una squadriglia di aereoplani nemici, che ha gettato sulle nostre posizioni 5 o 6 bombe delle quali una inesplosa. Nessun danno si è avuto”. Non so di sicuro se veramente non ci siano stati feriti, ma so che Mario
anche questa volta rimase freddo ed impassibile. Dopo avergli spedito gli indumenti di lana, gli dissi di respingermi le mutande di tela ed altro per sbarazzarsi la cassetta: Egli mi fa osservare che non può inviare dal fronte pacchi postali e conclude: “Se avrò la foruna di venire in licenza, le porterò io le
mutande”. Ci sperava poco, il cuore lo avvertiva che non si sarebbe più mosso di là….altro che incassato! La lettera si chiudeva con queste parole: “Il due
Novembre salutami mamma e Nonna per me”. Pensava anche ai suoi morti!
Il 26 ci scrive un’altra lettera, metà indirizzata a me e metà alla mamma:
sentiva la sua fine avvicinarsi, ed Egli si attaccava a noi con tutto l’affetto del
suo cuore. Nella parte diretta a me, mi avvisa che dei due pacchi di cioccolata da me speditagli, non se ne hanno ancora notizie; che non ha ancora ricevuto, e non doveva più ricevere, un mio secondo articolo sulla Milizia Territoriale; che gli era giunta la lastra di mica in sostituzione della rotta, ecc.
Alla madre inviava i saluti del Sottotenente Cornelio dei Granatieri, suo
compagno di scuola alle elementari, il quale a quindici giorni di distanza
doveva seguirlo nella tomba e nella gloria. Le inviava pure i saluti del cugino di Morganti, suo amico intimo e compagno di scuola, che aveva incontrato soldato addetto alla posta della 18° Divisione. Il 31 Ottobre mi
scrisse la sua ultima lettera, che qui sotto riporto; lunga lettera scritta in lapis copiativo, in terra nella stretta trincea, come la descriveva Lui. Gli avevo fatto qualche rimprovero come dirò poi, e lui mi dava affettuosamente,
remissivamente, tutte le spiegazioni necessarie per dimostrarmi che quei
rimproveri non li meritava.
Zona di guerra, 31 ottobre 1915
Caro Papà
Ho ricevuto la tua lettera dalla quale ha saputo che tu metti in dubbio che io mi trovi in trincea.
Quando ricevetti la lettera che mi avvertiva della venuta di
Aureli per vedere il figlio, io ero partito il giorno avanti con un
battaglione del mio Reggimento e due battaglioni del 2° Granatieri. Il resto del Reggimento con il 94° ci ha raggiunti dopo due
giorni. Noi siamo andati ad occupare le trincee lasciate dagli
Alpini ai quali abbiamo dato il cambio. Come vedi non ho nulla esagerato, anzi posso dirti che per quasi ore siamo stati digiuni ed ora abbiamo il rancio dei soldati; e tre settimane che
non mi lavo la faccia e chissà quando me la laverò! Qui fa molto freddo e piove; siamo tutti sporchi di fango e tutti bagnati.
Ho ricevuto il solo pacco di cioccolata con la Carta Geografica e nient’altro.
Per ora si mangia scatolette di carne e gallette ed io mi aiuto con un poco di cioccolata.
La cioccolata ultima era un poco ammuffita e perciò non
tanto di grato sapore. Sarebbe bene che mi mandaste della
cioccolata Toblers al latte. Costa qualche cosa di più, ma è buona e nutriente e qui tutti se la fanno venire.
Quanto alla pistola non te la posso mandare perché la cassetta è lontana e non so quando la potrò riavere; e poi non posso spedire nessun pacco.
Spero presto mandarti il vaglia ed in quanto alla pistola che
ho acquistata non è stata una fantasia come il cannocchiale,
poiché è necessarissima e tutti se ne sono provvisti.
La pistola piccola si è rotta sparando contro alcune vedette
nemiche, non avendo con me il moschetto che ci avevano fatto
lasciare per andare a prendere dei feriti.
Come vedi non dico cose non vere, anzi avrei avuto piacere
immenso mandarti i miei saluti da Aurelì, il quale ha veduto
l’accampamento di due battaglioni, ma… io non c’ero!
Non impensieritevi se per qualche giorno non avrete mie
nuove, poiché qui siamo molto occupati!
Saluti affettuosi e baci infiniti.
Vostro
Mario
Questo sig. Aureli, impiegato nello stesso mio ufficio, conosceva, come conoscevamo tutti in ufficio, lo stato di trepidazione in cui vivevo, dal momento che avevo saputo nuovamente in prima linea, il reggimento al quale apparteneva mio figlio e perciò esposto alla morte questo mio unico e adorato
figliuolo. Il sig. Aureli, andato al fronte a visitare suo figlio, studente universitario arruolatosi volontario in Artiglieria, mi spedì una cartolina in ufficio,
dicendomi di star tranquillo perché il mio Mario non trovavasi ancora in trincea, avendo esso veduto l’accampamento del suo Reggimento in località abbastanza lontana dal nemico. Arrivato dopo un paio di giorni a Roma mi ripetè queta assicurazione, precisandomi che il reggimento di mio figlio trovavasi accampato a Cialla, sei chilometri ad Est di Cividale! Questa testimonianza del Sig. Aureli metteva in cattiva luce mio figlio presso i miei colleghi,
i quali chiedendomi spesso sue notizie, io leggevo loro qualcuna delle sue lettere affettuose ed avevano perciò potuto seguirlo nel suo avvicinarsi al nemico.
Ho conosciuto dei vecchi imbecilli, reduci dalle patrie battaglie, i quali volendo apparire eroi, venivano raccontando un sacco di fandonie ai loro conoscenti, guastando così la parte amorevole da essi rappresentata e, con le loro
invenzioni ed esagerazioni, gettando il ridicolo su fatti che si costituiscono
quella parte recente del patrimonio glorioso del nostro paese. Io non avrei vo-
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luto davvero che mio figlio avesse seguito questi esempi deplorevoli e, spinto
da vanità giovanile avesse sformato la bella pagina di sua vita che stava scrivendo. Dopo avergli riferito quanto mi era stato detto da Sig. Aureli, lo rimproverai di avermi fatto credere d’essere stato già in trincea mentre non vi era
ancora, allungando per noi il periodo angoscioso di trepidazioni, per lo sciocco desiderio di rendersi interessante anzitempo. Lo ammonii che valore senza modestia chiamasi spavalderia; che chi si vanta di fare una cosa, all’atto
pratico non la fa; che i disagi, i sacrifizi, i pericoli a cui è esposto, gli davano
già diritto alla riconoscenza della patria, mentre le invenzioni o le esagerazioni, rendendo grottesca la sua figura, gli facevano perdere quel premio che
si era così faticosamente e con tanto pericolo guadagnato, quel premio che
tante pene erano costate al papà ed alla mamma.
Io facevo severamente il mio dovere di educatore fino alla fine, sino all’ultimo giorno; io era lo scultore non mai soddisfatto dell’opera sua che ogni giorno con un nuovo colpo di stecca cerca di plasmare meglio, sino alla perfezione, la sua creazione artistica. Ma Lui che aveva la coscienza di non meritare
quel rimprovero, non protesta, non perde la sua calma, e cita al padre dei particolari, prima taciuti per non angustiarlo maggiormente, i quali provano luminosamente che Egli non aveva detto che la pura verità, niente altro che la
verità; e se in questa faccenda deplora qualche cosa, non è la leggerezza con la
quale quel signore aveva scritto e detto al padre un inesattezza, che gli aveva
procurato un giusto rimprovero, ma deplora soltanto di non essersi incontrato
con quel signore, al quale avrebbe affidato i suoi affettuosi saluti per il padre
e, chissà, un altro bacio come quello che mi mandò dall’avvocato Natale.!
Lo avevo rimproverato anche d’avere comperata un’altra pistola mentre
ne aveva lasciata una nuova a Roma, che avrei potuto spedirgli quando fosse
stata davvero necessaria, sperperando così del danaro che avrebbe potuto essergli utile in altre occasioni. In casa lo avevo educato ad essere economo, e
temevo che avendo in quel momento uno stipendio mensile di 340 lire, certamente superiore ai suoi bisogni, prendesse delle abitudini spenderecce, assai
difficili poi a togliersele e che possono diventare la rovina economica delle famiglie. Dopo avere ricevuto questa pistola, raccolta dove Esso cadde dal suo
amico Sottotenente Natale, confesso che è più piccola di quella che aveva lasciata a Roma e perciò meno visibile; una bella e moderna arme di difesa che,
se non era proprio indispensabile poteva riuscire preziosa in certi momenti.
Gli avevo domandato perché avesse adoperato quella pistola tascabile con
i suoi nemici, mentre aveva a sua disposizione il moschetto, arme assai più
potente e di precisione, ed è rimarchevole la spiegazione che me ne da: Era
senza moschetto perché aveva accompagnato dei soldati a raccogliere dei feriti ed aveva sparato contro delle vedette, che evidentemente sparavano contro di loro. Ma per sparare contro delle vedette con quella piccola pistola, che
poteva avere la portata utile di una trentina di metri, gli era andato a sparare sotto al naso! E me lo diceva con tanta semplicità! Altro che esagerazioni!
Povero figlio mio, negli ultimi giorni della tua vita hai dovuto quasi soffrire la fame! Lo so, se la razione di carne in conserva e di gallette bastano
per sostenere l’organismo, non sono sufficienti a calmare gli stimoli dell’appetito; in queste circostanze ti doveva riuscire davvero preziosa la cioccolata che settimanalmente ti spedivano Papà e Mamma! Ma proprio in quel momento, dei due pacchi che erano in viaggio, uno si è smarrito ed è tornato a
casa, in buonissime condizioni, un paio di mesi dopo la tua morte; l’altro,
dopo lungo ritardo e dopo essere stato tenuto chissà dove, ti è arrivato ammuffito! A Cristo sulla croce diedero a bere l’aceto per dissetarsi, tu, povero
martire della Patria tua, dovresti calmare gli stimoli della fame con cioccolata ammuffita!
La lettera si chiude con quella raccomandazione più volte ricevutaci, di
non impensierirci se per qualche giorno non vedremo sue lettere. Questa volta il momento è raggiunto davvero, e tutte le sue premure, povero angelo nostro, per risparmiarci delle angustie, non dovevano servire a nulla!
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“Il sepolcro della famiglia
Moderni collocato presso il
cosiddetto “Pincetto”, l’area
monumentale del Cimitero del
Verano, dove sono sepolti la
madre di Mario, prima moglie
del Colonnello Pompeo, la sua
seconda moglie e madre adottiva di Mario Rosa Gordini, il
padre di quest’ultima, carbonaro e garibaldino, e Mario
Moderni”
CAPITOLO VI
LA MORTE
N
ella seconda quindicina del mese di ottobre, un’inquietudine, nervosismo
istintivo, andava impadronendosi di me e di mia moglie, senza che potessimo rendercene conto. La prima tardanza di 4 o 5 giorni verificatasi nella sua corrispondenza, ci aveva allarmati, poi vennero le sue lettere, ma una
completa tranquillità in noi non tornò più. Il 25 ottobre, l’ultima domenica
del mese, giorno in cui Egli mi scrisse che la posizione dove trovavasi, aveva
ricevuto la visita di una squadriglia di velivoli nemici, che avevano gettato
delle bombe, lettera la quale terminava pregandomi di salutarle, il 2 novembre, al Camposanto, la Mamma e la Nonna, la mattina di quel giorno mi recai, infatti al Verano per vedere quali piante di fiori si dovevano rinnovare
perché fosse bene ornata la tomba della nostra famiglia, per la Commemorazione annuale dei defunti. La, davanti alla tomba della mia famiglia, improvvisamente gli occhi mi si inondarono e piansi lungamente; la, davanti a
quella tomba, io che dal giorno in cui, affacciatomi alla scienza e constatati
nella Materia gli attributi della Divinità perdetti la fede, io, quel giorno, mi
rivolsi alla madre e alla Nonna di Mario, e come se quegli esseri che lo ave-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
vano tanto amato avessero avuto poteri soprannaturali, gli pregai caldamente che vegliassero su quel nostro caro, poi che io, lasciato a casa e separato da
Lui, ero stato messo nell’impossibilità di aiutarlo e di difenderlo. In quel momento stesso che io piangevo e pregavo, forse, gli aeroplani nemici bombardavano le posizioni dove trovavasi il figlio mio!… E il pensiero, il magnetismo, questa forza latente in noi, della quale l’uomo conosce alcune manifestazioni che chiama con nomi diversi, ma della quale non è riuscito ancora a
impadronirsi e disciplinare, questo mio pensiero acuto e doloroso, questa forza occulta che si estrinsecava dal mio cervello, dal mio cuore, da tutto l’essere mio, volando nello spazio con una velocità superiore a quella della luce,
raggiungeva mio figlio, e, suggestionandolo, gli faceva scrivere: salutami
Mamma e Nonna… che stavo pregando od avevo pregato poco prima perché
me lo salvassero da ogni pericolo!
Quella stessa mattina, ero tornato allora allora dal cimitero, quando capitò mio fratello, che non vedevamo da una quindicina di giorni. Mia moglie
non si potè dominare e lo rimproverò con parole acerbe che non si curasse di
venire o mandare ad assumere notizie del nipote, del suo unico nipote del sangue suo; lo rimproverò di non inviare a quel suo unico nipote delle lettere affettuose, che ne tenessero alto il morale nei terribili frangenti nei quali poteva trovarsi da un momento all’altro; lo rimproverò di non avere mai inviato
a quell’unico nipote qualche pacchetto di cioccolata, pensiero gentile che a
quel ragazzo sarebbe riuscito graditissimo ed in qualche momento anche assai opportuno: aggiunse con amarezza che questa trascuranza non sarebbesi
verificata se ala campo non ci fosse stato qualche parente di sua moglie! Ne
nacque un battibecco che finì con uno scoppio di pianto di mia moglie, la
quale andò a chiudersi ed a piangere nella camera del nostro Mario. Il fatto
rilevante è questo; che da quel giorno, 25 ottobre, noi sentivamo il bisogno di
piangere, perché una forza misteriosa ci faceva presentire vicina la sventura
che stava per colpirci: a me il pianto fu provocato dalla gita alla tomba di famiglia, a mia moglie dalla presenza di mio fratello, il quale proclamava continuamente ai quattro venti il suo grande amore per quel nipote… ma a parole mai con i fatti!
Ogni anno, la mattina del 1 novembre sono abituato a compiere un sacro
dovere verso i miei morti: perduta la Fede, rinunziato a qualunque forma di
religione che ritengo inutili e dannose, mentre vorrei che, spogliata della parte professionale, fosse meglio insegnata e praticata la morale vera che di ogni
religione è la base, mi è rimasto il culto dei morti, l’affetto per i miei, che perdura dopo la loro sparizione dalla scena della vita. Frequento perciò spesso il
cimitero, ma ogni anno, il 1 di novembre, mi reco immancabilmente al Campo Verano a deporre una grande corona di fiori freschi sulla tomba della mia
famiglia, altra corona di fiori sulla tomba del padre di mia moglie e altra corona sulla tomba della sorella del padre di mia moglie. E’ un omaggio che
rendo ai miei morti, seguendo del resto un usanza generale; ma appunto perché è usanza generale a me fa l’impressione che se non seguissi quest’usanza
gentile, se lasciassi quelle tombe disadorne e neglette, i miei poveri morti do-
vrebbero soffrirne, dovrebbero restarne umiliati, come di una constatazione
di non aver lasciato sulla terra affetto alcuno.
Fin dalla sua infanzia aveva associato Mario nel compimento di questo sacro dovere, e ci indugiavamo poi davanti alla tomba della nostra famiglia ad
osservare se la dimostrazione di affetto fatta ai nostri morti, reggeva al confronto delle tombe vicine, e Mario tornando a casa, correva dalla Mamma e
con gli occhi scintillanti per interna soddisfazione gli diceva: “Sai, la tomba
di Mamma Checchina è sempre la più bella!”. Oltre a ciò per formare il cuore di mio figlio, ho continuato per diversi anni a condurlo al Cimitero anche
il giorno 16 febbraio, anniversario della nascita di sua madre, fatta scoperchiare la tomba, discendevo con lui nella camera sepolcrale, facendogli deporre sulla cassa di zinco che racchiude la salma di sua madre un grosso mazzo di viole mammole, il fiore prediletto da lei. Qualche anno dopo la morte di
mio padre, dovetti rinunziare a questa cerimonia perché era diventato pericoloso il discendere nella camera mortuaria.
Il 1 novembre 1915 Mario non aveva potuto accompagnarmi, come al solito, perché stava su l’Isonzo in faccia al nemico: andai solo. Una pioggia dirotta rendeva più triste la giornata, più malinconica la gita! Da un fioraio
presso il Camposanto, di cui sono assiduo cliente fin da quando morì la giovane madre di Mario, trovai pronte le tre corone; le presi e salii prima al Pincetto dove deposi la corona su la tomba di Teodora Gordini – Pomaroli, zia
della seconda madre di Mario, quindi la grande corona sulla nostra tomba e
da ultimo la terza corona al loculo di Giuseppe Gordini situato in fondo al
Camposanto, al muro di cinta del Nuovo Reparto. Compiuta questa pietosa
cerimonia, sempre sotto la pioggia incessante, sentii prepotente il bisogno di
tornare su al Pincetto davanti alla tomba della nostra famiglia, presso la
Mamma e la Nonna del mio Mario ch’Egli mi aveva incaricato di salutare per
Lui. Mi vi trattenni molto e si ripetè la scena del 25 ottobre, ma in proporzioni più accentuate: un irresistibile commozione erasi impadronita di te e
sotto un diluvio di acqua, che cominciava a passare l’impermeabile, piangendo e singhiozzando, mi rivolgevo ad alta voce alla madre di Mario implorando aiuto per quel mio adorato figliuolo, pregando che fosse risparmiato al mio
povero cuore così crudo dolore. Di tanto in tanto, mi balenava nella mente il
pensiero che qualcuno potesse vedermi, potesse udirmi e prendermi per pazzo; allora mi volgevo a dare un’occhiata ai deserti viali, prossimi alla tomba,
poi una forza superiore alla mia volontà, mi spingeva alla gola i singhiozzi, le
lacrime agli occhi e tornavo a singhiozzare, a piangere ad implorare. Improvvisamente, mentre pioveva sempre dirottamente, un rumore di rami ed un
fruscio strano mi obbligarono ad alzare la testa: un uccello nero, un grosso
merlo forse, facendosi strada tra i rami di due oleandri 29 che stanno dietro al
monumento sepolcrale, sfiorò la testa del busto in bronzo di mia moglie e passò come una saetta.
Rimasi interdetto e muto come sarebbe rimasto un romano antico ai segni
di infausto presagio! Il mio aspetto in quel momento doveva essere commovente e buffo! Un libero pensatore rimare atterrito dall’improvviso apparire
29: Che dovrò fare abbattere perché con le loro radici danneggiano la muratura della camera sepolcrale.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
di un uccello nero sulla tomba della sua famiglia!... Dicono che il dolore non
uccida, io non sono troppo convinto di questa affermazione, ma è certo che
qualche volta il dolore fa impazzire; e se arriva fino a tal segno, può anche
produrre fenomeni momentanei d’altro genere! Fosse il mio stato d’animo o
qualche emanazione di quella forza latente in noi che rende possibile i casi di
telepatia, in quel momento rimasi turbato e poco dopo presi la via del ritorno.
Mentre a passo lento mi incamminavo verso la mia abitazione, sempre sotto la pioggia che continuava a cadere, andavo domandandomi: se il mio Mario morisse con quali parole ne farei la partecipazione? Mi sembrava che lo
strazio che un tale evento mi avrebbe fatto provare, non mi avrebbe permesso di mettere assieme 10 parole! Mi sembrava che non ci fossero vocaboli sufficienti nel nostro idioma, per onorare degnamente quel figliuolo mio diletto,
e dare un’idea del dolore che la sua morte ci aveva arrecato.
Cominciai a provare mentalmente a fare una partecipazione di morte:
mi venne di getto quella che riporterò in seguito, ma avrei voluto qualche
cosa di meglio, eppure non riucivo a modificarla. Arrivato a casa tenni per
le mie esercitazioni funerarie e non ne parlai mia moglie: le dissi però dell’improvvisa apparizione dell’uccello nero, ed essa mi rispose come mi
avrebbe risposto una matrona romana di duemila anni addietro: “brutto segno, Pompeo!”.
Per il domani, 2 Novembre, Commemorazione dei defunti, le associazioni militari avevano inviato la popolazione romana d una esercitazione
patriottica: si trattava di andare a deporre fiori sull’Ara della Patria in onore dei prodi caduti combattendo per essa. Io e mia moglie volevamo andarci, ma poi, prendendo a pretesto il tempo cattivo non uscimmo di casa:
il vero si è che tutti e due eravamo in preda ad un nervosismo, ad un agitazione che non riuscimmo né a dominare, né a nascondere. L’ultima lettera di mario pervenutaci, portava la data del 26 Ottobre: c’era evidentemente un ritardo, ma quel povero figliuolo non stava in villeggiatura! Erano tante le cause che potevano far ritardare le notizie di un ufficiale che trovavasi in trincea, difronte al nemico, che ibsognava attendere con calma
senza subito pensare al peggio! Eppoi, Mario stesso non ci aveva ripetuto
parecchie volte di non impeniserirci se vedevamo tardar le sue letttere?!
Nostro figlio ci aveva oramai dimostrata tanta affettuosa premura, da non
potere più dubitare che se le sue lettere ritardavano, lo erano per cause che
la disciplina gl’impediva di rivelarci.
Tutte queste riflessioni che noi ci ripetevamo più volte al giorno, non avevano però la forza d’ impedire che il nostro nervosismo, la nostra agitazione,
la nostra penosa preoccupazione, crescessero ogni giorno più con l’aumentare del tempo che passava senza che più recenti notizie di Lui ci pervenissero.
Il 3 o 4 Novembre un mio collega di ufficio, mi trovò nella mia camera in tale stato di agitazione e con le lacrime agli occhi che me ne chiese le ragioni:
ma che altra ragione potevo addurre, all’infuori della mancanza di notizie del
mio Mario? E questa sola ragione, da nessuno poteva essere ritenuta sufficiente a giustificare lo sato quasi convulsivo nel quale mi trovavo io, vecchio
soldato! Noi trovavamo giuste tutte le osservazioni che ci si facevano, ma vi
era qualcosa di misterioso in noi, che ci avvertiva dell’immane disgrazia che
aveva colpito la nostra famiglia.
Il giorno 5 non potei più frenarmi ed andai a pregare il mio amico, Colonnello Francesco Accattino del Commissariato Militare, d’assumere notizie
di Mario all’Ufficio Informazioni del Ministero della guerra.
Mi rispose:- perchè non ci vai tu stesso? Potresti saper subito qualche cosa!
-Temo che a me non dicano tutta al verità e perciò ti prego volertene incaricare.
Nel pomeriggio del giorno 6, un biglietto del mio amico mi avvertiva che
all’Ufficio Informazioni non risultava nulla riguardante mio figlio. Respirai;
eppure il cuore non si tranquillizzava! La sera di quello stesso giorno, tornando a casa e con mia moglie, la portiera ci consegnò l’ultima lettera scrittaci da lui il 31 Ottobre e riportata alla fine del capitolo precedente, ci consegnò pure un’altra lettera indirizzata alla fidanzata, la quale venne a ritirarla poco dopo: lesi subito la lettera a me indirizzata ed benché si rilevasse che
nostro figlio trovavasi esposto a mille pericoli, pur tuttavia quella lettera così
calma, così serena, così buona, ci tranquillizzò; mia moglie era esultante. Nel
cominciare a salire le scale mi sfuggì l’esclamazione seguente: “questa lettera
è del 31 Ottobre ed oggi siamo al 6 Novembre, a quest’ora il nostro Mario potrebbe essere anche morto!!!”.
“E taci uccello del malaugurio!” – mi rispose essa.
Eravamo da poco tornati a casa, allorchè la signorina Amalia Mossolin
venne a vedere se vi erano notizie del suo fidanzato, ed anch’essa ebbe la consolazione di trovare una lettera a lei diretta. Quel povero filgiuolo, prima di
morire si congedava da tutte le persone che amava! Incaricammo la signorina stessa di comperarci della buona cioccolata, come desiderava Mario e di
portarcela la mattina appresso. Oramai la corrispondenza era ristabilita, pensavamo noi, il ritardo doveva esser dipeso da qualche spostamento che Mario
aveva dovuto fare per portarsi in un’altra località, da dove la posta impiegava sette giorni per giungere fino a noi, invece di tre o quattro come ne impiegava prima; ma d’ora in avanti, e fino ad un nuovo spostamento, la corrispondenza sarebbe venuta con una certa regolarità, poiché cinque mesi di
esperienza ci aveva provato che il nostro Mario scriveva puntualmente, anhce se non avesse avuto altro modo che in terra fra i sassi. Il giorno 7 gli spedimmo un pacco di cioccolata: speravamo che intanto, sia pure con ritardo,
gli fossero giunti gli altri due pacchi, che da un pezzo stavano in viaggio; come speravamo gli fosse giunto anche un pacco d fave dolci(amaretti) che io
avevo calcolato gli potessero giungere proprio il 2 Novembre 30.
Assieme al pacco gli spedii anche una lettera affettuosissima, per compensarlo degl’ingiusti rimproveri che, su informazioni inesatte, io gli avevo
fatto; il 9 gliene scrissi un’altra nella quale traspirava già nuovamente la mia
apprensione per la mancanza assoluta di sue notizie. Per quanto la sua lettera, arrivataci dopo una settimana di ansie, ci ammonisse che in guerra possono avvenire tanti fatti per i quali un soldato resta segregato completamen30: Questo pacco è tornato indietro dopo un paio di mesi dalla sua morte, indecentemente manomesso, quasi vuoto. Non ci restava dentro che un po’ di tritume.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
te dalla sua famiglia, senza che siagli avvenuta disgrazia alcuna, pur tuttavia
il tempo trascorso era troppo lungo, per ammettere che il nostro Mario non
avesse potuto spedirci neppure una cartolina illustrata. Il tempo massimo impiegato tra la spedizione e l’arrivo di una sua lettera, era stato di sette giorni:
eravamo giunti all’11 novembre e l’ultima lettera da noi ricevuta era sempre
quella del 31 Ottobre; da 12 giorni quindi mancavano sue notizie. Il giorno
11 pensai di spedirgli una raccomandata, onde avere maggiore sicurezza che
l’avrebbe ricevuta: la lettera scritta da me e da mia moglie ci fu restituita dopo un paio di mesi dalla sua morte e la riporto qui sotto come campione delle lettere che tutti i padri e tutte le madri, fra trepidazioni angosciose, scrivono ai loro figli, esposti giorno e notte ai disagi ed ai pericoli enormi di questa
orribile guerra, combattuta dalla Giustizia, dalla Libertà, e dal Diritto, contro l’ambizione e la forza di conquista.
Roma, 11 novembre 1915
Figlio mio caro!
Sono undici giorni che tu non scrivi e per quanto tu abbia avvertito che per qualche giorno non avresti potuto far sapere tue
notizie, per quanto questo ritardo di posta sia generale, pure, capirai, una trepidazione angosciosa sta nuovamente impadronendosi di noi, perché indoviniamo in mezzo a quali e quanti pericoli sei esposto. Noi sappiamo benissimo, siamo certi anzi, che questa mancanza di notizie non dipende da te; perché tu sei un buon
figliuolo, che in questi cinque mesi e mezzo di lontananza da casa, ci hai dato prova del tuo affetto e del tuo attaccamento, riflettiamo che le necessità della guerra possono rendere indispensabile questa irregolarità del servizio postale, ma contemporaneamente la mente pensa, che intorno a te le pallottole possono
cadere fitte come grandine ed il pensiero di una disgrazia ci stringe il cuore come in una morsa!
Ti spedisco questa, raccomandata, perché temo che tu pure
sia privo di nostre notizie ed almeno a questo modo tu sappia che
Papà e Mamma hanno sempre il pensiero rivolto a Mario loro, ed
il loro cuore batte unicamente per Lui; che darebbero volentieri la
loro vita per riparmiargli i disagi ai quali è esposto; che darebbero tutto il loro sangue goccia a goccia, perché il suo non sia versato e, terminata la guerra, possa onorare la Patria in altro campo, e ad essa dare figliuoli buoni, onesti e coraggiosi come Lui.
Ti ho scritto prima di questa, altre due lettere, il 7 ed il 9, le
hai ricevute?
Hai ricevuto il pacco di cioccolata con il lapis copiativo, che
doveva giungerti il primo Novembre? Hai ricevuto la scatola di
amaretti che doveva giungerti il 2?
Domenica 7, ti ho spedito altro pacco postale contenente un
paio di pantofolone 31, mezzo chilogrammo di cioccolata finissima ed una borsetta di confetti dello sposalizio di Amalia Sisti,
pacco postale che dovresti ricevere il 13, ma che temo assai non
giunga, perché è stato proibito agli uffici postali di ricevere pacchi di cioccolata. Se in forma di campioni senza valori, vengono aperti negi uffici postali e restituiti al mittente; se in forma di
pacchi postali, vengono aperti alla stazione e respinti. Quello
che ti ho spedito Domenica portava l’indicazione di Biancheria,
ma temo egualmente che vada perduto. Dicono che la cioccolata abbia fatto male ai soldati, ed è forse per questo che tua zia
amorosissima non te ne ha mandata mai! Era un pezzo che
Mamma gonfiava, anche perché nessuno veniva mai a sentire
tue notizie, quando il 25 Ottobre capitò zio a casa e Mamma se
ne fece sfogata! Zio andò via tutto arrabbiato, però hanno mandato poi un paio di volte a domandare notizie.
Ieri a mezzogiorno ci vedemmo capitare improvvisamete i coniugi Fontana che ci portavano due chilogrammi di cioccolata
finissima con fosfati, specialità Venchi, da spedirsi al loro amichetto Mariuccio, al quale essi desiderano si dica, che gli vogliono tanto bene! Che differenza!!!! Gradimmo immensamente
il dono e ringraziammo commossi. Dal canto tuo appena lo
puoi, invia loro una cartolina di ringraziamento, senza far capire se l’hai ricevuta o no. Te la teniamo da parte perché tu te
la renda alla tua venuta, essendo impossibile spedirla. Per ora
pazienza, tu te la terrai da conto per date circostanze, senza
farne abuso, mentre qualunque tentativo fatto ora, manderebbe inffallantemente perduta 16 lire di buonissima cioccolata.
Ieri sera dopo avere consultato l’ufficio postale di Via Torino, dove sono conosciuto, per vedere se vi era un qualche modo
di eludere la consegna, ed avere saputo che qualunque tentativo avrebbe abortito, passai all’Unione Militare, pure di Via Torino, per vedere se invece di cioccolata avessi spedirti qualche
altra cosa; mi fu assicurato (il Cassiere ha anch’esso un figlio al
fronte) essere impossibile, perché severamente proibita la spedizione di qualsiasi genere alimentare.
La ragione di questa disposizione non te la posso dire perché non la conosco: so soltanto che questa disposizione aumenta il mio dolore, essendomi impedito di inviare settimanalmente
questi piccoli regalucci al mio adorato figliuolo!
Ti ricordi quando al Gianicolo all’inaugurazione dei busti di
Casini e Tiburzi, dissi che l’unità della Patria si era cementata
con il sangue degli eroi e con il pianto delle madri? Guarda tu
adesso, se la mia era retorica o discrezione della pura verità!
Contiamo non le ore, ma i secondi che ci dividono dal gior31: Fatte con vecchi tappeti, da mettersi sopra alle scarpe in trincea.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
no in cui ci sarà dato di riabbracciarti e di coprirti di baci; tu
sta tranquillo, sapendoti circondato sempre dal nostro affettto,
che la lontananza centuplica; fa il tuo dovere calmo e sereno per
onorare la Patria, la famiglia, te stesso. Ti abbraccio e ti bacio
benedicendoti dal profondo del cuore.
Papà
Mario mio carissimo
Sono appena undici giorni che non so tue notizie e mi sembrano mille anni, procura, appena puoi, di scrivere magari una
cartolina, tanto per tranquillizzarci sul tuo conto.
Quando metterai le calze di lana, abbi l’avvertenza di metterle o sopra le calze di cotone o sopra le pezze, perché altrimenti, camminando con le sole calze di lana, ti succederà che ti
andranno tutte in punta.
Informaci, per quanto è possibile, di quello che fai e come occupi il tuo tempo.
Stamane è venuta Maddalena Pompa la quale si incarica di
inviarti tanti saluti: se potessi mandarle una cartolina la gradirebbe assai. Il suo indirizzo è Via Alba N°31.
Ricordati sempre di Mamma Checchina, che ti aiuti, ed abbi tanti abbracci e baci da
Mamma Rosina
Quando sento che qui a Roma, come del resto in ogni città d’Italia, i teatri
sono sempre affollati; quando passando per le strade vedo la gente far ressa per
entrare nelle sale dei cinematografi; quando leggo sui giornali che, prendendo a
pretesto la Croce Rossa, i mutilati, le vedove e gli orfani dei morti in guerra, qua
si balla e la si canta, mi domando: ma tutta questa gente è incosciente? E’ insensibile? Ovvero è possibile che al mondo vi siano tanti egoisti? E’ possibile che
l’egoismo arrivi fino al ributtante cinismo di prendere a pretesto gli orrori e i dolori di questa guerra, per continuare a divertirsi? Né mi si dica che si vuol fare
una dimostrazione di coraggio, di intrepidezza, perché non è a questo modo che
si deve fare una simile dimostrazione nelle attuali contingenze. Quando la Patria
è in pericolo; quando milioni di padri e di madri vivono trepidanti per la vita dei
loro figli, esposti continuamente alla morte; quando centinaia di migliaia di madri e di padri, condannati al dolore eterno, piangendo lacrime roventi, invocano
la morte che li riunisca per sempre ai loro cari; quando migliaia di spose e di orfani, disfatti dalla fame e dal dolore, sono in preda alla disperazione; quando
migliaia di uomini giovani, ridotti avanzi umani sanguinolenti, riempiono le sale di migliaia di ospedali i canti, i balli ed altri divertimenti, sono un’offesa atroce fatta a tutta questa gente che soffre per la Patria, cioè soffre per tutti anche
per gli egoisti. Il coraggio e l’intrepidezza in questo supremo momento, si do-
vrebbero mostrare sopportando rassegnatamente i pesi della guerra e le privazioni che ne sono una conseguenza; mettendo a disposizione del Governo del proprio paese averi e vita; contribuendo con la propria intelligenza con la propria
attività, in tutti i modi possibili alla vittoria. Roma, nella sua storia, ha insegnato al mondo come si serve e si onora la Patria nei periodi di guerra; basterebbe
ricordarsi dei suoi insegnamenti!…
Quando per le strade passa un corteo funebre, tutti si scoprono davanti alla
maestà della morte: giù i cappelli, poltroni ed egoisti perché su per i cieli d’Italia passa un lungo corteo che lascia dietro di sé una larga striscia di sangue, giù
i cappelli, poltroni ed egoisti, perché inneggiando alla Patria, passa il corteo degli eroi che la conducono al tempio della Vittoria! Giù i cappelli, poltroni ed egoisti, perché quegli eroi hanno versato il loro sangue, per assicurare a voi più lauti guadagni ed un più giocondo avvenire!
L’11 Novembre, genetliaco di S. M. il Re, gli uffici si chiusero a mezzogiorno; il nervosismo mio e di mia moglie era cresciuto e non ci permetteva di star
fermi un momento, di occuparci di qualsiasi cosa; di Mario nessuna notizia ancora! Dopo aver scritto nella mattinata la lettera che ho riportato, alle 14 eravamo già fuori di casa, una forza ignota ci sospingeva! Sbrigammo diversi nostri affarucci, poi ci trattenemmo lungamente presso la signora Ottier, vecchia
amica e compagna di Collegio di mia moglie. Alle 19 dovevo trovarmi alla sede della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie, in Piazza Massimi, dove si riuniva la Latina Gens; pregai mia moglie di tornarsene a casa, dove l’avrei raggiunta poco dopo. Preferì restare con me ed accompagnarmi alla riunione della Latina Gens: ripeto, una forza misteriosa ci allontanava dalla nostra abitazione. Alle 19 mi recai in Piazza Massimi, ma non per trattenermi: mi scusai
con i miei consoci di non potermi fermare alla seduta, poiché le preoccupazioni mie e di mia moglie per la mancanza di notizie di nostro figlio, non ci permettevano per il momento di dedicare il nostro pensiero e la nostra attività, ad
altre cose che non riguardassero direttamente quel nostro caro figliuolo. Tornammo a casa alle 20 passate.
Il domani mattina, mentre mi stavo vestendo, vennero in casa mia la signora Vittoria Mossolin con sua figlia Amalia e la nuora, signora Tersilia Budini in
Mossolin, l’amica nostra e di Mario con il quale era cresciuta insieme ed alla quale avevo fatto da testimonio al suo matrimonio, seguite poco dopo dal Commendatore Ettore Mossolin, padre della fidanzata di mio figlio che io non conoscevo
ancora, e piangendo mi dissero che la sera innanzi, era stato due volte in casa
mia l’avvocato Natale per farmi una comunicazione di grande importanza:
uscendo di casa mia la seconda volta, erasi incontrato in Piazza Vittorio Emanuele con la famiglia Mossolin, che accompagnava alla stazione il marito della signora Tersilia, Tenente di Complemento di Artiglieria e compagno di ufficio con
l’avvocato Enrico Natale al Ministero delle Finanze, ad essa aveva perciò affidato
l’incarico di farmi la dolorosa partecipazione. Una cartolina spedita da suo fratello, compagno d’armi ed amico di mio figlio, l’avvertiva che Mario era rimasto
ferito ad un piede. Intesi una fitta al cuore come una pugnalata, ma pensai subito che non era il momento di perdersi in piagnistei, Mario ferito aveva bisogno di
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
avere al più presto vicino a se il conforto, l’aiuto, le premure che solo un padre ed
una madre sanno e possono dare. Questa eventualità dolorosa era così preveduta
in casa mia, che proprio il giorno avanti, mia moglie, sollecitata continuamente
da me, aveva visto terminato un abito speciale da viaggio, che le permettesse di
accompagnarmi presso il nostro Mario, in qualunque luogo fosse caduto. Non vi
era tempo da perdere, presi la cartolina che la signora mi offriva e lessi:
3 novembre 1915
Caro Enrico
Il 31 dello scorso mese di ottobre ti mandai una cartolina
con la quale ti accusavo ricevuta della tua del giorno 27, nulla ho più ricevuto, perché la posta, dato il luogo dove ci troviamo, non può arrivare regolarmente. Ed ora una notizia non
bella: il Capitano Monaco è morto ieri perché colpito da shraponel. Ieri stesso, mentre facevamo fuoco dalle nostre trincee
sul nemico, è rimasto ferito vicino al piede, l’amico Moderni.
Non posso ancora dirti la gravità della ferita, forse non è grave. Lui era molto calmo e dinanzi ai soldati ebbe parole patriottiche. Procura di comunicare, con i dovuti riguardi, tale
notizia al padre ecc…
Luigi
Era tanto il desiderio di correre da mio figlio, che non feci neppure attenzione ad una cancellatura, fatta con il temperino, alle parole non è, che evidentemente erano state sostituite ad altre. Infatti, seppi poi che la primitiva
dicitura era la seguente forse è molto grave, alterata dall’avvocato Natale per
non darmi il colpo tutto in una volta. Dopo tutto, trattandosi di una ferita ad
un piede, per quanto grave, non mi pareva fosse il caso di disperarsi: mentre
terminavo di vestirmi ed ero solo nella mia camera entrò la signorina Amalia
piangente e convulsa; esse, avicinandomisi, mi disse: “Non ci creda, signor
Moderni, che Mario sia soltanto ferito, Mario dev’essere morto!”
“Che cosa ti fa sospettar ciò?”- risposi io.
“Mentre ci recavamo alla stazione, una signora, che era con noi e camminava avanti con mio fratello e con Tersilia, esclamava ogni tanto: povero padre! Povero padre!”.
“E ti pare una disgrazia da poco!” – Replicai io; “se Mario dovesse perdere il piede, la gamba forse! Un giovane a 22 anni rovinato per tutta la vita!
Non ti pare che ce ne sia abbastanza per essere degni di compassione io e
Lui?! Via, calmati, non straziarti inutimente, fra poco sapremo con precisione come stanno le cose”.
Credevo, ingenuo come sono sempre stato e come sarò fino alla morte, che
il mio grado di Colonnello, in questa circostanza mi avrebbe facilitato il modo di avere notizie, come anche di correre presso mio figlio. Mi recai anzitut-
to ad avvertire il mio Ufficio della disgrazia toccatami e della mia imminente partenza per il fronte, onde recarmi da mio figlio. Pregai il signor Aureli,
quello delle notizie inesatte, di volersi incaricare di farmi preparare il passaporto, essendo esso già al corrente delle pratiche da farsi. Andai poscia al Ministero della Guerra dal mio amico Colonnello Accattino, perché mi consigliasse il modo di avere notizie di mio figlio e sapere in quale ospedale era stato trasportato, per domandare poi l’autorizzazione di recarmi da Lui: il mio
amico era andato alla firma e bisognava aspettare un pezzo. Un suo Capitano certo signor Pistolesi, che aveva conosciuto mio figlio e si era anzi adoperato assai per sollecitare la pratica della sua nomina a Sottotenente della Milizia Territoriale, mi fece osservare che sul momento non c’era da fare altro
che chiedere notizie all’Ufficio Informazioni del Ministero della Guerra e spedire tre telegrammi con risposta pagata, chiedendo notizie, al comandante del
Reggimento di mio figlio, al comandante del Deposito di detto Reggimento in
Ancona ed all’Ufficio Informazioni di Bologna.
Accettai il consiglio e senza perdere altro tempo, andai dapprima all’Ufficio Informazioni del Ministero della Guerra: qui non risultava ancora nulla.
Un ufficiale ferito il 2 Novembre, all’Ufficio Iinformazioni del Ministero della guerra non ne sapevano ancora nulla il giorno 12, cioè dopo dieci giorni!
Si vede le notizie gli venivano spedite per mezzo di qualche diligenza !!!
Ovvero l’Ufficio Informazioni non era autorizzato a fare comunicazioni
gravi, ed allora il pubblico ne doveva essere avvisato. Perché con quel sistema sbagliato o molto imperfetto, si facevano concepire delle speranze che, con
il loro sparire, rendevano piu dolorosa la sanguinosa realtà. Infatti, spediti i
tre telegrammi, me ne tornai a casa meno preoccupato, poiché andavo riflettendo: se al Ministero della Guerra non sanno ancora nulla della ferita di Mario mio, vuol dire che si tratta di cosa leggiera.
La signorina Amalia era rimasta a pranzo da noi: io mi proponevo nel pomeriggio di recarmi al Comando della Divisione Militare Territoriale di Roma, ad iniziare la pratica per l’ottenimento del permesso di recarmi presso
mio figlio ferito gravemente. Aggiungevo volontieri quell’aggettivo gravemente per ottenere più facilmente il permesso di partire, ma, per la mancanza di notizie all’apposito uffico del Ministero, venivo persuadendomi
sempre più che la gravità potesse consistere soltanto nella lunga cura che la
ferita, in quella parte, poteva richiedere. Se questa lunga cura inchiodava
per dei mesi il mio povero Mario in un letto di dolore, d’altra parte però me
lo toglieva nella stagione invernale dagli strapazzi e dai pericoli della vita di
trincea. Una lunga cura mi permetteva di sperare, che avrei potuto ottenere di farlo venire a Roma.
Stavamo terminando da pranzo quando tornò da me la signora Mossolin
madre, la sua nuora e, poco dopo, il sig. Mossolin: questo apparato non m’insospettì affatto: il mio Mario era così buono! Tutti gli volevano tanto bene!
Non trovavo quindi nulla di strano che fossero tanto addolorati per la disgrazia toccatagli, e con la loro affetuosa premura facessero del loro meglio per
alleviare il dolore mio e di mia moglie. Verso le 15, il Comm. Mossolin se ne
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MARIO MODERNI
LA MORTE
andò al suo uffico ed io mi apprestavo ad uscire per recarmi al Comando della Divisione: cercavo di mia moglie per farmi dare qualche cosa di cui avevo
bisogno, e la trovai nella sua camera da lavoro assieme alla signora Tersilia
che piangevano entrambe. Rimasi perplesso e chiesi: “C’è forse qualcosa di
più grave ancora? Ditemelo: è inutile che faccia delle pratiche che non dovessero poi servire”.
“No, non c’è nulla, non c’è nulla” - mi rispose mia moglie, continuando a
piangere ed alzandosi, seguita dalla signora Tersilia, per venire a darmi quanto le avevo chiesto. Giunti tutti e tre nel mio studio, la signora Tersilia, come
assalita improvvisamente da una crisi isterica, alzando le braccia in atto di disperazione e guardandomi con faccia stravolta urlò: “Io non sono buona a fare questa parte!”.
“Mi si gelò il sangue nelle vene e guardandola fisso le risposi: - Ho capito
figlia mia; Mario è morto”.
“Si, è dal giorno 3 che Mario non c’è più!” – Mi rispose sempre urlando
nel suo accesso isterico.
Le quattro donne diedero allora libero sfogo al loro pianto mentre a me,
fulminato da questa sciagura, mi s’impietriva il cuore, s’inarridivano gli occhi, ed agli orecchi sentivo nuovamente ripetermi in tono beffardo: - L’avevi
fatto proprio su misura!… Più a tempo di così non lo potevi procreare, perché in questa grande guerra ti fosse ucciso tra i primi!...
Mi fu consegnata allora una seconda cartolina, giunta quasi contemporaneamente alla prima, e della quale soltanto la signorina Amalia ignorava l’esistenza prima di quel momento; mia moglie ne era stata informata dalla signora Tersilia, pochi istanti prima.
5 novembre 1915
Carissimo Enrico
Ieri ti mandai una cartolina dandoti la triste notizia della
morte del Capitano Monaco e delle ferite riportate dal caro amico Moderni, ferite riportate in seguito allo scoppio di una granata. Ora, mio malgrado, debbo comunicarti che il povero Moderni è morto il giorno 3 andante. Lascia fra di noi ricordi vivissimi per la condotta mirabile, tenuta dopo di essere stato ferito. – Lo dovrei comunicare al di Lui padre, però non me ne
sento la forza. Vorrai tu quindi assumerti tale triste compito,
presentando a nome degli ufficiali della 14° Compagnia le nostre più sentite condoglianze. Mi è stato possibile rintracciare il
binocolo e la pistola che aveva il Moderni; tali oggetti per ora li
tengo io nella speranza di poterli spedire, anche a mezzo del Comando, al padre. La presente incominciata ieri alle 15.30, l’ho
completata oggi alle 16!! Ti abbraccio.
Luigi
Mario mio era morto! Ed era morto il giorno 3 Novembre, nel giorno stesso cioè nel quale la sua buona Mamma consegnava alle autorità militari di
Roma 90 paia di calze di lana per i nostri soldati, frutto di parecchi mesi di
lavoro per mettere assieme il danaro per la lana, poi per trovare delle signore volonterose che si unissero ad essa per confezionarle. Il Destino, senza perder tempo, aveva voluto premiare subito il suo patriottismo!!!
Mario mio era morto! Bisognava fare la partecipazione: mi sedetti e scrissi automaticamente la partecipazione composta mentalmente il 1° Novembre,
tornando dal Camposanto, tre giorni prima che Mario morisse.
Il Colonnello Pompeo Moderni e Rosina Gordini in Moderni
con il cuore spezzato, ma saturo di santo orgoglio, partecipano
alla S.V. la morte del loro unico figlio
Mario
Sottotenente di Fanteria di Milizia Territoriale, caduto da forte
destando l’ammirazione dei compagni, il giorno 2 Novembre,
mentre combatteva per la libertà e la grandezza della Patria.
Non preci inutili, ne pianti sterili, ma lauri e fiori sulla tomba
del ventiduenne soldato, che aspetta d’essere vendicato dalla
vittoria delle armi italiane.
Roma,13 Novembre 1915.
Alla partecipazione da me composta per la strada il 1° Novembre, avevo
dovuto aggiungere soltanto le seguenti parole: destando l’ammirazione dei
compagni, il giorno 2 Novembre.
Un paio di giorni dopo, l’avvocato Natale mi portò quest’altra cartolina
del fratello.
8 novembre 1915
Carissimo Enrico
Le mie ultime cartoline sono: uno del 3 corr. nella quale ti
dicevo che era stato ferito il giorno precedente Mario Moderni e
l’altra del 5 and. Nella quale ti davo la notizia che il povero Moderni, in seguito alle ferite riportate, era morto. Ti pregavo di
darne la triste notizia al padre, facendogli a nome di tutti noi le
più sentite condoglianze. Ho consegnato il binocolo, la pistola
ed un pugnale al Comando di Reggimento, il quale ne curerà la
consegna al padre, insieme con altri oggetti e con il portafoglio.
Il Moderni fu regolarmente seppellito con i dovuti onori. Come
già ti scrissi, si mostrò, dopo ferito, di una calma straordinaria
ed ebbe delle parole di entusiasmo. Io, quale comandante di
Compagnia, ho già fatto presente ai superiori quanto sopra.
Luigi
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Al telegramma da me spedito al comandante del 93° Reggimento Fanteria, fu risposto con il telegramma seguente:
Suo Mario cadde dando splendido esempio valore, patriottismo. Proposta ricompensa. Segue lettera
Colonnello Cajani
Al telegramma del Colonnello di mio figlio, risposi con il seguente telegramma:
Ringrazio commosso, benedicendo glorioso estinto che anche
nell’avversa fortuna, seppe, con l’esempio, essere utile patria
adorata.
Colonnello Moderni
Quindi senza attendere l’annunziatami lettera che qui riporto.
Roma, 15 novembre 1915
Illustre Collega
Quando il mio unico ed amatissimo figlio Mario, rinverdendo le patriottiche tradizioni di sua famiglia, chiese di essere
mandato al fronte ed ebbe l’onore di venire assegnato al tuo
Reggimento, avrei voluto mandarti un saluto e dirti che quel mio
figliuolo era nato soldato, che aveva delle spiccate qualità per
diventare un buon ufficiale e che aspirava ad essere nominato
effettivo, a realizzare cioè di entrare in quella carriera, che i ritardati e poi abbandonati studi classici (a causa di una crudele malattia) gli avevano chiusa e che la guerra gli riapriva. Avrei
aggiunto che nessun calcolo economico entrava in questa sua
viivissima aspirazione, poichè da mia madre aveva ereditato già
una rendita di 3000 lire annue, altro doveva ereditare da me ed
altro ancora doveva attendersi da sua madre, figlia unica di
una ricca signora.
Mi astenni dallo scriverti per timore che il mio saluto e la presentazione che volevo farti di mio figlio, avesse potuto essere male interpretato e si fosse potuto anche soltanto lontanamente
pensare, che io cercassi per Lui delle facilitazioni o dei favori.
Una preghiera però ti rivolsi per mezzo del Capitano Adolfo
Schiavo della Milizia Terrritoriale, giunto al fronte assieme a mio
figlio, e cioè che nel caso avessi avuto la disgrazia di perdere quel
mio amatissimo figlio, esso fosse stato seppellito a parte ed in
modo che potessi più tardi ritrovarne la fossa gloriosa per raccoglierne le sante reliquie e trasportarle a Roma nella tomba di famiglia. Oggi che Esso è morto da padre, come tu sai certamente
meglio di me, (perché io non ho ricevuto finora nessuna notizia
ufficiale della mia sventura) rinnovo la mia preghiera.
Avendo conosciuta la sua morte otto giorni dopo che era
avvenuta, non ho potuto prendere nessun provvedimento per
il suo seppellimento. E’ possibile ora esumare la salma per
chiuderla in una cassa di zinco, che spedirei magari a Roma?
Se non questo, è possibile esumare la salma per chiuderla in
una cassa di legno, fatta sul posto, e collocarla provvisoriamente in un loculo del più vicino Camposanto? Se neppure
questo è possibile, ti rivolgo calda preghiera che su la sua
tomba sia solidamente piantato un pilastrino in pietra, sul
quale venga scolpito nome, cognome e grado di mio figlio; ovvero su la tomba venga costruita una piccola piramide triangolare in muratura, alta un metro, su la quale possa essere
murata una targa in ferro smaltato (che spedirei da Roma) indicante il nome ed il grado del morto. Naturalmente tutte e
spese a mio carico.
Inoltre vorrei conoscere nei più minuti particolari le ultime ore di mio figlio: la sua condotta durante il combattimento e dopo essere stato ferito, fino alla sua morte, senza veli,
senza reticenze, senza inutile pietà. Con la scomparsa di mio
figlio, si spegne la mia famiglia, quindi delle mie rendite intendo farne delle Borse di studio per studenti poveri, sotto il
titolo, Fondazione Mario Moderni; vorrei perciò descrivere la
breve e semplice sua vita, della quale soltanto l’ultimo capitolo ha importanza, con la maggiore esattezza nei più minuti
particolari, per tramandare ai beneficati la memoria del modesto e bravo soldato, dell’impareggiabile amorosissimo figlio.
Tu solo, con il possibile riconoscimento della tomba di questo mio adorato figlio, puoi arrecare un qualche conforto al
cuore di un povero padre, di un vecchio soldato delle guerre
d’indipendenza, che ha dato tutto per la Patria , e spero che
tu farai di tutto per accontentarmi, così come avrei fatto io se
la mia domanda di essere richiamato in servizio fosse stata
subito accolta, ed oggi mi trovassi nelle tue condizioni.
Nell’attesa di un tuo riscontro gradisci i miei più distinti saluti e credimi
Dev. Mo
Pompeo Moderni
Per mezzo del Municipio mi pervenne la notizia ufficiale della morte avvenuta del mio Mario.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
Roma, 16 novembre 1915
Pregiatissimo Signore
Interprete del sentimento di rispettosa e solidale partecipazione di tutta la cittadinanza, adempio il doloroso incarico, inerente al mio Ufficio, di comunicarle che, secondo informazioni
pervenute a questo Comune dalle Autorità Militari, suo congiunto Mario Moderni, Sottotenente del 93° Reggimento Fanteria è caduto gloriosamente per la Patria sul campo dell’onore.
Nel porgerle le condoglianze di Roma, orgogliosa dei suoi valorosi figli che offrirono la vita per la grandezza della Patria, le
esprimo i sensi della mia più viva partecipazione.
Per Il Sindaco
Libatte
La lettera di partecipazione del Sindaco di Roma, conteneva copia della
seguente lettera ad esso spedita dal comandante del Deposito del 93° Reggimento.
Sindaco di Roma
S. S. Ancona 3-170 33 15 9/5
1439 R. U. Pregasi partecipare famiglia Sottotenente Milizia Territoriale Moderni Mario costì residente Via Conte Verde 50, sua morte avvenuta Sezione Sanità, seguito ferita riportata combattendo.
Comandante Dep. 93° Fanteria
Maggiore De Cesare
Dal suo compagno di scuola ed intimo amico, Enrico Morganti, con il quale era sempre assieme, ricevetti la lettera che segue.
Frosinone, 19 novembre 1915.
Stimatissimo sig. Colonnello
Dopo aver comunicato la gloriosa morte di Mario alla famiglia Turriziani, che è legata alla nostra da vincoli di parentela
e che intese più volte di portare di Mario dal proprio figlio Renato 32 che anche lui si trovava in Zona di Guerra, all’Ufficio Postale della 13° Divisione, così rispondeva oggi alla mia:
Del povero Mario fin dal 5 Novembre noi lo sappiamo. Renato in una sua ci aveva dato la triste notizia e sapendo quanto ti era caro, non abbiamo avuto il coraggio di comunicartela.
Renato ci diceva che è morto da vero eroe, ha sofferto tanto sen32: Quello del quale, inviava i saluti alla Mamma, avendolo incontrato al fronte.
za emettere un lamento senza un rimpianto. Che animo forte!
Che bell’esempio ha lasciato ai suoi cari amici! Ed infatti nelle sue lunghe lettere che dedicava a me vi si conosceva tutto l’entusiasmo ch’Egli aveva di combattere, tutto intero l’amore che
nutriva per la sua Patria; e quest’entusiasmo e quest’amore lo
preoccupavano solamente quando Egli rammentava i bei giorni
trascorsi insieme, con un dubbioso augurio di poterli rinnovare.
Vogliano queste parole sempre più aumentare l’orgoglio della sua famiglia, e dall’amico affezionato dell’eroico figlio traggano un filo di sollievo.
Con distinti ossequi per Lei e per la sua signora mi abbiano
sempre di
Loro Aff. mo
Enrico Morganti
Da questa lettera risultano due cose e cioè: 1° la previsione della sua morte
che traspariva anche dalle lettere che scriveva all’amico; Egli, povero figliuolo,
sentiva la sua fine vicina, sentiva che il Destino, il quale gli era sato sempre contrario, non gli avrebbe permesso di distingueri e continuare in quella carriera militare che era sempre stata il sogno della sua breve esistenza. Data la sua fine
eroica, si direbbe che vi si era serenamente preparato. 2° La morte affrontata con
tanto stoicismo da un giovane buono, di carattere dolce e mite, aveva fatto tanta impressione, che dopo due giorni, il 5 Novembre, se ne era propagata la notizia verso Sud, fini a 40 chilometri di disanza, cioè fino a Prepotto, piccolo villaggio dove, con l’Ufficio Postale della 13° Divisione si trovava Renato Turriziani, cugino di Enrico Morganti. Il figlio del mio portiere, soldato di Sanità presso
l’11° Reggimento Bersaglieri, in quel momento a Caporetto, 20 chilometri a
Nord del Kamenka, dove era morto Mario, mi raccontava che di questa morte
spartanamente eroica, romanamente bella, se ne parlava tra i Bersaglieri.
Questo Roberto Turriziani per avere più precise notizie della morte di Mario,
conosciuto il nome del di Lui attendente, cosa che, data la sua posizione, non gli
riusciva difficile, gli scrisse una lettera, alla quale rispondeva invece un Caporal
Maggiore di Sanità ( l’altro, forse, non sapendo scrivere) con la lettera seguente:
2 Dicembre 1915
Preg. mo Signore
Avuta nelle mie mani la cartolina che Lei scrisse al soldato Simoncielli Americo, attendente del defunto sottotenente Moderni
Signor Mario, non potendo questi dir niente in riguardo alla morte del soprannominato Tenente, Le scrivo io ciò che posso dire.
Ordinata un’azione dimostrativa, il povero giovane s’accinse a portare in trincea i suoi uomini ed iniziò il fuoco ordinato;
prima un po’ rado, poi più intenso. In risposta a questo l’Arti-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
glieria nemica incominciò un fuoco terribile e da uno di quei
shrapnel fu ferito il Sottotenente Moderni. La ferita fu terribile
e dolorosa avendogli una scheggia asportato completamente un
piede e rotto, quasi staccato anche l’altro. Subito fu provveduto per il suo trasporto durante il quale si mostrò di un morale
sempre altissimo pur comprendendo la situazione. Giunto al posto di medicazione fu medicato ed inviato all’ospedale.
Si voleva rinforzarlo (sic) ma Egli con una calma e serenità
meravigliosa manifestò il desiderio opposto, ed infatti non era
alterata per nulla la pulsazione e sembrava che fosse stata evitata l’emorragia. Ciò che disse durante il trasporto all’ospedale, mentre i portaferiti lo trasportavano non furono che parole
di rammarico per la mutilazione sofferta. Altro non posso dire
in riguardo perché tutto il sopra descritto fu il racconto fattomi
da i portaferiti. In quanto all’ospedale non so come si chiami il
luogo ove si trova e nulla posso sapere ove fu seppellito.
Spiacente non poterle essere più utile di così Le invio i
miei saluti.
Caporal Maggiore furiere
Antonio Faggiotta
In questa interessantissima lettera, vi sono però due inesattezze dovute,
credo, ad una specie di leggenda che si era formata sull’intrepidezza, che non
si sarebbe supposta in quel giovinetto dallo sguardo dolce come quello di una
gazzella, dal corpo esile ma… Gli uomini non si misurino a palmi, suona un
nostro proverbio e la forza quel ragazzo l’aveva nel cuore! Una delle inesattezze è quella di non esser vero che uno dei piedi fosse stato asportato completamente; l’altra che non è vero essere stato trasportato all’ospedale subito
dopo le gravi ferite riportate.
In data 4 Dicembre 1915 ricevetti dal comandante del 93° Reggimento di
Fanteria la risposta seguente alla lettera da me indirizzatagli.
Illustre Collega
Qualunque parola è vana per lenire il dolore atroce di un
padre e di una madre che hanno perduto l’unico figlio! Ringrazio quindi a qualunque tentativo e mi limito a dirti che il tuo
Mario è caduto da eroe!
Onore a Lui e ai suoi genitori che seppero così profondamente educarlo alla religione della Patria!
Il 2 Novembre scorso mentre trovavasi con la sua Compagnia
alle trincee, l’Artiglieria nemica eseguì un vivissimo bombardamento sulle nostre truppe e nello stesso tempo la Fanteria avversaria, dalle vicine trincee lanciò su i nostri bombe a mano.
Il tuo Mario che durante tutto il tempo del bombardamento era stato ammirevole per calma, energia e sangue freddo,
ad un certo punto fu colpito da una bomba a mano che lo ferì gravemente agli arti inferiori. Malgrado ciò Egli continuò
ad incuorare i soldati gridando: Viva la 14° Compagnia!
Fu trasportato al posto di medicazione e poscia alla Sezione di Sanità della 7° Divisione dalla quale venne inviato al
più vicino Ospedaletto da campo, ove morì alle 22,30 del
giorno successivo.
Pel suo eroico contegno è stato proposto per la concessione della medaglia d’argento al valor militare; sulla sua tomba fu apposta una croce portante il nome, la data e il luogo
in cui cadde.
Trovandomi lontano da quella località, perché il 4° Battaglione al quale il tuo figliuolo apparteneva era momentaneamente distaccato dal Reggimento, ho già interessato la Sezione
della Sanità della 7° Divisione a farmi conoscere quale dè i tuoi
giustissimi desideri sarà possibile soddisfare subito. Intanto ho
disposto che la salma sia racchiusa in una cassa di legno che
per le speciali circostanze del momento non fu possibile subito
di provvedere.
Ho inviato a quello scopo sul posto un ufficiale con l’incarico di fare quanto più sarà possibile per corrispondente alla tua
volontà che per me è sacra. Mi riservo d’informarti appena possibile di tutto.
Perdonami, te ne prego, se malgrado la mia buona volontà e
il doveroso intessamento non sono forse riuscito a soddisfarti;
non mi risparmiare, scrivimi ancora ed io procurerò di corrisponderti nel miglior modo possibile.
Gradisci intanto, anche da parte degli ufficiali tutti del Reggimento l’espressione della nostra più grande ammirazione pel
tuo Mario alla cui memoria noi profondamente c’inchiniamo.
A te e alla tua signora i nostri ossequi distinti.
Devotissimo
Bonifazio Cajani Colonnello
Facendo seguito a questa lettera, il Colonnello di mio figlio, un soldato dal
cuore d’oro, in data 17 Dicembre 1915, mi scriveva quest’altra.
Collega illustre
Di seguito alla mia precedente t’informo che la salma del valoroso tuo figlio Mario è stata esumata e rinchiusa in una cassa
di legno 33.
33: Di questa prima esumazione fu incaricato il Sottotenente Forza della 14° Compagnia, quella alla quale apparteneva Mario,
e potè constatare che dopo un mese e sei giorni, il cadavere era ancora quasi intatto. I piedi, amputati e non asportati, erano stati seppelliti con Lui entro dell’ovatta fenicata e così trasportati entro la cassa.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
Alla tomba è stata apposta una croce col nome, cognome,
data e luogo in cui Egli cadde eroicamente.
Di tutto ciò venne redatto apposito verbale che è stato trasmesso al Comando Supremo.
Ora nulla impedisce che sia collocato un piccolo monumento
con targhetta sulla tomba del caro estinto. Qui dove io mi trovo
manca il necessario per la costruzione del monumentino, epperciò occorrerà che tu ti regoli in quel modo che riterrai opportuno.
E’ veramente doloroso per me e per i miei ufficiali che le circostanze non ci diano il mezzo di soddisfare un vivo desiderio
del nostro cuore che è quello di far costruire noi il monumentino al bravo, intrepido, camerata, ma la località in cui ci troviamo (terreno montuoso, lontano da centri abitati) è tale che non
ci consente di far ciò che vorremmo.
Rinnovando a te e alla tua signora, i sensi della nostra ammirazione pel valore dimostrato dal caro estinto, ti esprimiamo i
sensi dell’animo nostro pieno di profonda affettuosa commozione.
Con ogni ossequio
Devotissimo
Bonifazio Cajani Colonnello
Dalle notizie contenute in queste lettere che ho riportato ed in altre che
conservo; dal racconto fattomi a voce dal Sottotenente Natale, compagno ed
amico di Mario, ammalatosi poco dopo la morte di mio figlio e venuto a Roma in convalescenza, e più tardi ritornato a Roma ferito; da qualche altra
circostanza che ho potuto sapre dalla bocca del suo Colonnello; da due rapporti inviatimi più tardi dal Colonnello stesso, e da altro rapporto inviatomi Dal Maggiore Medico Massarotti, della 7° Divisione Fanteria, per incarico del Comando Supremo, al quale avevo chiesto notizie su gli ultimi momenti di mio figlio, da parole dettemi da soldati del Reggimento e della
Compagnia di Mario che ho incontrati per le vie di Roma; ho potuto ricostruire la battaglia, il ferimento e la morte del mio figliuolo diletto, abbenchè in queste sue ultime ore di vita, restano delle lacune che ancora non mi
riesce di riempire e forse non riempirò mai più.
Il suo battaglione distaccato dal 93° Reggimento fu destinato a dare il
cambio agli Alpini, come scriveva Lui, nelle trincee di Santa Maria di Tolmino ed a fare un’azione dimostrativa contro quel campo trincerato, probabilmente in unione ad altre truppe. Quando Mario mi scrisse la sua ultima lettera del 31 Ottobre, trovavasi già distaccato dal suo Reggimento, perché aveva riscosso le indennità, ma non aveva potuto riscuotere lo stipendio di Ottobre, che fu poi pagato a me, quattro o cinque mesi dopo la sua
morte. Trovavasi allora in trincee, probabilmente, di seconda linea: nella
notte tra il 1° e il 2 Novembre, il 4° Battaglione del 93° abbandonò le trincee nelle quali trovavasi, ed alle due del mattinò occupò quelle che gli Alpini contemporaneamente abbandonavano; trincee che si trovavano sul ver-
sante Ovest della collina di Santa Maria di Tolmino, a 15 e 20 metri dalle
trincee austriache, situate sul culmine della collina stessa, in posizione difficilissima, le nostre trincee, perché una parte di esse prese d’infilata dalle
fortificazioni austriache di Tolmino 34, trincee che, poco tempo dopo la morte del mio Mario, si dovettero abbandonare, perché al 93° Reggimento avevano cagionato la perdita di 143 morti e 363 feriti, soltanto fra i soldati che
giornalmente portavano il rancio agli uomini che stavano in trincea!
Appena entrati in trincea i soldati del 93° Reggimento, cominciò subito la battaglia, e la logica mi fa supporre che non siano stati essi a provocarli perché non con i fucili, ma con i cannoni che avrebbe dovuta incominciare, come infatti fu incominciata dagli austriaci con un furioso bombardamento, provocato probabilmente, da qualche circostanza che rivelò
ad essi la presenza di nuove truppe; ovvero provocato dalla nostra Artiglieria, pur sapendosi inferiore a quella austriaca. Infatti, i cannoni di
massimo calibro che avevamo in quel momento a Tolmino erano i 149, e
questi non potevano tener testa ai cannoni austriaci di maggior calibro,
piazzati entro grotte blindate del Pan di Zucchero, come lo prova il bombardamento del 2 Novembre durato per 16 ore, senza che le nostre batterie riuscissero ad arrestarlo.
Nella mattinata rimase ferito ad una coscia il Capitano Monaco, comandante del Battaglione, il quale non volle muoversi dal suo posto malgrado
le sollecitazioni dei suoi subordinati perché si lacsiasse trasportare al posto
di medicazione: questa circostanza fu fatale al valoroso ufficiale, perché poco dopo uno shrapanel lo colpiva in pieno petto incidendolo.
Avendo domandato ad un soldato del 93° Reggimento, non però della
14°compagnia alla quale apparteneva mio figlio, incontrato per le vie di
Roma, se sapeva dirmi come era morto il Sottotenente Moderni, mi rispose:
- era molto coraggioso ed è morto per essere corso a soccorrere il Comandante del Battaglione, ferito gravemente, e così rimase ferito anche Lui, che
tutti dicono fosse tanto buono.
Del resto i quattro o cinque soldati del 93°, che ho fermati ed interrogati per le vie di Roma, sul conto del Sottotenente Moderni, tutti indistintamente hanno cominciato le loro risposte con queste parole: “Era tanto buono! Regalava sempre delle sigarette ai soldati”.
In quanto però al fatto d’essere corso in aiuto del suo superiore, appartiene alla parte leggendaria creata dalla fantasia dei soldati, poiché io
so di positivo dal Sottotenente Natale, che Mario non si mosse e non si poteva muovere dal suo posto; come anche che fu positivamente ferito verso le ore 16.
Come ha scritto il suo Colonnello, Mario, sotto l’infuriare del bombardamento era rimasto durante 14 ore nella sua trincea, ad una quindicina di
metri dalle trincee nemiche, ammirevole per calma, energia e sangue freddo; quando verso le 16, una granata gli fracassava entrambi i piedi, mentre un grosso proiettile riduceva in pezzi 4 suoi uomini, sotterrandoli sotto
un cumulo di macerie, da dove poterono essere estratti soltanto il domani.
34: Il famoso Pan di Zucchero, come ho potuto constatare soltanto nell’Aprile 1921.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
In quelle condizioni, in quell’inferno, sotto il grandinare di proiettili di tutte dimensioni, Mario non perde la sua calma ed il suo sangue freddo; respinge i soldati accorsi per sollevarlo, dicendo loro di non occuparsi di Lui
in quel momento, ed inneggiando alla Patria ed alla 14° Compagnia, ordina s’intensifichi il fuoco onde impedire un possibile assalto alla sua trincea.
Un Sergente essendo corso ad avvertire il Sottotenente Natale, il quale
aveva assunto il comando della 14° Compagnia, delle gravi ferite riportate dal Sottotenente Moderni, ordinava al Sergente di prendere il comando
del Plotone e nello stesso tempo ordinava ai portaferiti di andare a raccogliere l’ufficiale caduto e trasportarlo al posto di medicazione. Non era facile però avvicinarsi alla trincea dov’era caduto Mario, perché la medesima
era bersagliata sempre da proiettili di tutte dimensioni: il Sottotenente Natale, accortosi dopo un poco, che il suo ordine non era stato eseguito, dovette ripeterlo una seconda volta. Andarono allora i portaferiti e lo sollevarono da terra, dov’era stato sbattuto con tanta violenza che si era rotta l’asola di pelle della fondina della pistola nella quale passava la cinta, nonché
la molla della pistola stassa.
Vistolo su la barella l’amico Natale corse a Lui per salutarlo; “Scusami,
Mario se in questo momento mi è impossibile accompagnarti al posto di medicazione, tanto speriamo che non sia niente 35!”
“Già, speriamo che non sa niente!- rispose Mario con un mesto sorriso”.
Poi i due giovani si abbracciarono e si baciarono. Il Natale raccomandò
di far presto per giungere al posto di medicazione, ma nello stesso tempo di
evitare scosse, specialmente nel discendere la ripida collina, per non acutizzare il dolore al ferito. Quando il Natale mi raccontava questi particolari,
gli domandai: “In quel momento, mio figlio era calmo?”.
“Calmissimo!” – Mi rispose esso.
Calma stoica tanto più rimarchevole in quanto che alcuni soldati, e specialmente un Caporale, avevano le lacrime agli occhi, ed il Natale che si
sentiva estremamente commosso e temeva di scoppiare in pianto anch’esso,
per la grave disgrazia toccata all’amico, appena allontanato il ferito, facendo la voce grossa si rivolse bruscamente ai soldati, dicendo loro: “Su, su,
non è questo il momento di piangere”.
I portaferiti partirono con il loro carico doloroso, ed allora si vide una
scena raramente bella: passando davanti alle altre trincee tenuti da reparti
del suo Battaglione, Mario salutando con la mano, gridava ai compagni
“Coraggio! Coraggio!”.
Ridotto in quelle misere condizioni ed indebolito dalla perdita del sangue, perché ferito vero le 16 non aveva voluto e potuto essere raccolto prima delle 16 e 1/2, era Lui che incoraggiava gli altri!
Passando avanti al ricovero ove trovavasi il Capitano Chamard ( Comandante della sua Compagnia) il quale aveva assunto il comando del
Battaglione, questi uscì fuori e gli rispose: “Coraggio a Lei che ne avrà bisogno”.
Fu in questo momento che il mio Mario rispose: “Non ho fatto altro che
35: I portaferiti avevano disteso sopra di Mario una coperta, cosìcchè le orribili ferite del povero figliuolo, restavano nascoste agli
occhi dell’amico.
il mio dovere! Evviva la 14° Compagnia! Evviva il Capitano Chamard! Evviva l’Italia!”. E poi voltosi ai soldati aggiunse: “coraggio, onorate la bandiera del 93°!”. Egli aveva mantenuta splendidamente la promessa, fatta
al padre suo nella lettera augurale!
Il Capitano Chamard essendosi avvicinato a stringergli la mano, Mario
volle abbracciarlo e baciarlo: fortezza d’animo e gentilezza di cuore, ecco le
sue caratteristiche!
Procedendo avanti, giunse al posto di medicazione dove trovavasi il Sottotenente medico Volpini (non so se solo od assieme ad altri ufficiali-medici) e qui avrebbero voluto rinforzarlo (sic), come hanno riferito i portaferiti, ma Egli non volle, e qui senza aver voluto essere addormentato gli furono amputati entrambi i piedi che restavano attaccati alle gambe, soltanto
da brani di carne; piedi che, come già si è detto in una nota, avvolti in ovatta fenicata furono sepolti con lui.
Questa circostanza dei piedi sepolti con Lui, dimostra tutto lo stoicismo
del figlio mio; perché quei piedi amputati al posto di medicazione, situato
nel villaggio di Volzana, non avrebbero potuto essere stati sepolti con Lui
a Kamenka, presso l’ospedaletto da campo, a parecchi chilometri da Volzana, dove fu trasportato e dove morì, se Egli stesso quei piedi non avesse richiesti ed avvolti in ovatta fenicata non avesse portati con sé, probabilmente per offrirli in dono a suo padre, che sperava di rivedere!
Strana fatalità: all’età di 6 mesi, un’operazione chirurgica per l’asportazione di un doppio mignolo del piede destro, gli fece provare il primo dolore fisico; le ferite ai piedi, prodotte da una granata, gli fecero provare l’ultimo dolore, e furono la causa della sua morte! Fatta questa operazione fu
riconsegnato ai portaferiti i quali lo condussero al posto di corrispondenza
per consegnarlo alle truppe di Sanità. Il suo Colonnello volle gentilmente
comunicarmi due rapporti dei portaferiti dai quali si rivela la forza d’animo straordinaria di questo fortissimo figlio di Roma: in essi è detto che durante il lungo tragitto, come durante l’operazione, le sofferenze atroci del
ferito erano rivelate dal suo estremo pallore, ma dalla sua bocca non sfuggì mai un gemito, un lamento, i suoi occhi non versarono una lacrima! Vistosi privato dei piedi disse semplicemente: “Ormai sono un infelice, pazienza, ma voglio rivedere i miei cari; appena sarò all’ospedale farò domanda d’essere inviato a Roma”.
Mentre lo medicavano, continuò sempre a parlare su questo argomento,
sereno e tranquillo. Giunto al posto di corrispondenza, il portaferiti Palmieri Enrico, al quale pure aveva espresso il vivissimo desiderio di rivedere i suoi cari, lo chiamò più volte senza ottenere risposta: aveva gli occhi
sbarrati mentre le pulsazionii si erano fatte lentissime, quasi inavvertibili,
tanto che il portaferiti ritenne che non sarebbe arrivato vivo all’ospedale.
Consegnato svenuto alle truppe di Sanità, queste lo condussero all’ospedaletto da campo situato nel Val Kamenka 36 ospedaletto appartenente alla
Sezione di Sanità delle truppe suppletive al IV Corpo d’Armata.
Tolto alle 16 ? dalla trincea di Santa Maria di Tolmino dove rimase fe36: Kamenka è parola slava che significa pietraia, quindi val Kamenka vuol dire in italiano Val Pietraia o Val Pietrosa.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
rito, per giungere all’ospedaletto da campo di Val Kamenka, distante dal
luogo dov’era stato ferito, circa 7 chilometri, il ferito può avervi impiegato
circa tre ore, un’altra ora avrà richiesto l’operazione, sicchè tutto sommato
difficilmente esso può essere giunto all’ospedaletto prima delle 21.
Mentre le truppe del reparto someggiato di sanità lo conducevano all’ospedaletto da campo di Val Kamenka, il fresco della notte, fece rinvenire
quel povero corpo esausto per il sangue perduto, per l’emozione, per il dolore, per la fatica e per il digiuno; arrivò quindi all’ospedaletto da campo
con perfetta coscienza di se. Appena giunto, chiese in quale ospedale sarebbe stato inviato, evidentemente per fare la sua domanda dev’essere inviato in un ospedale di Roma.
Da questo momento non ho potuto più sapere altro di mio figlio, e non
credo che potrò avere ulteriori notizie sulle sue ultime ore: so che è morto,
altra strana fatalità, alle 22.30 del giorno 3 novembre, alla stessa ora precisa in cui è morta sua madre il 5 novembre 1896; so che ha sofferto assai,
perché lo ha scritto Renato Turriziani, cugino del suo amico Morganti; so
che è morto romanamente, eroicamente da forte; so che durante quelle trenta ore vissute, dopo essere rimasto ferito, dalla sua bocca non è uscito un
gemito, un lamento, un rimpianto, per i suoi 22 anni dati alla Patria; so che
è stato vigliaccamente derubato di quanto aveva indosso e non so altro.
L’amico Luigi Natale, i suoi soldati, i suoi compagni, tutti del battaglione che lo avevano visto sulla barella, ancora così forte, ancora così animoso, ancora così pieno di vita e di energia, avevano temuto che le gravi ferite potessero lasciarlo storpio, mutilato, ma non avevano pensato all’eventualità della sua morte. Furono perciò dolorosamente sorpresi, quando il
giorno 4, al Comandante interinale del Battaglione, giunse l’ordine di inviare un plotone di soldati a rendere gli onori militari alla salma del Sottotentente Mario Moderni che doveva essere sepolta nel piccolo cimitero militare, situato a Sud delle case di Val Kamenka, quasi al di sopra della località dov’erasi impiantato l’ospedaletto da campo.
Il dottor Volpini, Sottotenente-medico, quello che, molto probabilmente,
deve avergli fatto l’amputazione dei piedi, ha dichiarato che possa essere
morto di shoch, e sarà, come potrebbe darsi, che fosse morto per la perdita
del sangue: era così esile! Ne aveva così poco! E’ mio fermo convincimento
anzi che mio figlio sia morto per emorragia perché dopo ferito rimase ancora in trincea una buona mezzora, come mi ha dichiarato il suo amico Natale; per giungere al posto di medicazione non può essere bastata un’altra
mezzora e, con i piedi spezzati in un ora e più di sangue se ne deve perdere assai! I piedi gli furono amputati al posto di medicazione, ed in quei posti, si sa, si fanno le operazioni come le circostanze lo permettono non sempre come si dovrebbe; ma ad ogni modo non vi sarebbe niente di strano che
la sua morte fosse dovuta veramente a causa nervosa, poiché sappiamo che
fin dalla sua entrata al Ginnasio in poi, è stato sempre, più o meno, ammalato di esaurimento nervoso. Durante il combattimento erasi mostrato ammirevole per calma, energia, e sangue freddo; dopo ferito era stato addirit-
tura eroico; la sua calma maravigliosa, la sua straordinaria forza d’animo,
avevano impressionato tutti, anche vecchi soldati, già provati in altri combattimenti; ma nessuno sa a prezzo di quale sforzo su se stesso, quella calma, quel sangue freddo, quella forza d’animo, erano stati ottenuti!
Chi si trova per la prima volta impegnato in un combattimento serio, è
difficile che non ne riceva una certa impressione, la quale svanisce poi durante l’azione, specialmente se la medesima è assai movimentata; ma in
trincea, sotto l’infuriare di un vivissimo bombardamento, mentre vi cadono
attorno i compagni feriti ed i proiettili fischiano da tutte le parti, senza potersi muovere dalla stretta trincea, senza potere ne avanzare ne retrocedere, questa impressione deve essere necessariamente maggiore. Dopo ferito,
il sentimento altissimo del dovere, la soddisfazione, si, mi si lasci dire questa parola, del dovere nobilmente compiuto, la fierezza del suo grado che gli
imponeva di mostrarsi forte davanti ai compagni, d’essere d’esempio ai suoi
dipendenti, gli hanno dato la forza per vincere il dolore materiale, ma dopo coricato sul suo giaciglio o nella sua branda, solo, in una baracca o sotto una tenda dell’ospedaletto da campo di Val Kamenka, nel sapersi così orribilmente mutilato, così rovinato per tutta la vita, che cosa avrà pensato
quel cervello, che sotto un terribile bombardamento per 14 ore era rimasto
freddo e padrone di se?! Quale stretta tremenda avrà provata quel cuore
che non aveva tremato davanti al nemico, che anelava distinguersi in un
attacco alla baionetta, all’assalto di una trincea?! Terminata la sua parte
di ufficiale, visto svanire per sempre il suo sogno della carriera militare,
tolto dalle file dell’esercito sul principio ancora di questa lunga guerra, vedutosi ridotto ormai un povero mutilato, un povero storpio, a 22 anni fatto oggetto di compassione a tutti, quale dolore acutissimo avrà provato
quel giovane buono e fiero?! Come avrebbe potuto aspirare ancora alla
mano della giovane che amava?! Quale posizione avrebbe potuto offrirle?!
Egli che a 18 anni scriveva rispettosamente al padre che non poteva più
permettere che spendesse altro danaro e voleva fin d’allora guadagnarsi da
vivere con il lavoro, quale strazio sarà stato per Lui che d’ora in poi avrebbe dovuto restare figlio d’una famiglia e a carico del padre fino alla morte
di questi, e poi contentarsi di vivere con quel poco che la Nonna ed il Papà gli lasciavano 37?!
Mio figlio è rimasto eroicamente forte fino alla morte, ma chi può ridire lo strazio di quel cuore durante la giornata passata in Val Kamenka?!
Se io e Mamma avessimo potuto essere presso di Te in quella tremenda
giornata, figlio nostro idolatrato, avremmo trovato certamente le parole
per riconfortarti, dai nostri cuori sarebbe uscita tale una vampata d’amore che ti avrebbe investito tutto e riaccesa nell’anima la speranza! Ti
avremmo detto che con degli arti artificiali, che avresti avuto subito, Tu
potevi ancora camminare: non avresti più potuto saltare agilmente sulla
bicicletta, non avresti potuto più, Tu, a piedi, arrivare in un dato punto,
prima di noi in carrozza; non avesti potuto più nuotare come un pesce; non
avresti potuto più arrampicarti su per le montagne con il padre tuo; ma
37: Nelle guerre precedenti, ai poveri mutilati non si era provveduto nella misura con la quale si è provveduto in questa ultima.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
avresti potuto fare ancora i tuoi affari. Ti avremmo detto che all’insegnamento e a diventare un bravo professore di architettura e di prospettiva,
professione onorevolissima e lucrosa, che avresti potuto esercitare anche
con gli arti artificiali, ti avremmo detto che anche mutilato così orribilmente, rimanevi sempre un bel giovane e soprattutto buono, attorno alla
cui testa brillava l’aureola del patriottismo, e sul tuo petto le insegne del
valore, e perciò qualunque donna di cuore sarebbe stata fiera di portare il
tuo nome, da Te illustrato con il sangue tuo sul campo di battaglia. Ti
avremmo detto che Papà e Mamma erano orgogliosi di te, che in un giorno solo avevi, con il tuo contegno, ricompensato tutte le loro premure, i loro sacrifizi ed i loro, sforzi, per fare di Te un buon patriota, un onesto cittadino. Ti avremmo detto che d’ora in avanti saresti stato circondato più
che mai di tutto il nostro affetto, della nostra ammirazione e delle nostre
premure durante tutto il resto della nostra vita, per lasciarti poi circondato dall’affetto e dalla venerazione dei figli tuoi.
Ti avremmo detto che gli uomini come te dovevano vivere per servire
d’esempio agli altri in guerra e in pace; che in quell’orribile, ma gloriosa
mutilazione, ti dava diritto alla riconoscenza della Patria, alla deferenza ed
al rispetto di tutti.
Ma Tu eri solo a Val Kamenka, povero figlio mio diletto! Eri solo con i
tuoi pensieri! Al Tuo capezzale vegliava soltanto il tuo avverso destino! …
Esso che all’età di tre anni ti aveva tolto una madre amorosissima, aveva
veduto con rabbia un’altra donna altrettanto buona ed amorosa correre in
tuo soccorso, raccoglierti fra le sue braccia e dedicarti la vita sua; esso che
con una tremenda e pur quasi inavvertibile malattia aveva frapposto una
barriera insormontabile ai tuoi studi classici, aveva visto con rabbia tuo
padre indirizzarti agli studi artistici, con i quali avresti raggiunto egualmente un onorevole posizione sociale; esso che con la chiamata alle armi
alla vigilia degli esami, t’aveva impedito di conseguire un primo diploma,
quello di professore di disegno, aveva visto con rabbia che per il tuo coraggio, per la tua energia, per la tua calma e sangue freddo, per lo scrupoloso adempimento dei tuoi doveri, per il tuo patriottismo, e per la tua
intelligenza, stavi per ascendere rapidamente e brillantemente i gradi della carriera militare, di quella carriera che era stata la tua prima vocazione
ed il sogno di tutta la tua breve esistenza; esso che aveva creduto di spaventarti il 24 maggio 1915 con una prima scheggia di granata, che Tu invece portassi a tuo padre come caro ricordo di quella giornata, decise di
abbatterti e fosti falciato da un uragano di ferro, senza però che riuscisse
a terrorizzarti come sperava.
Assiso al tuo capezzale, nell’ospedaletto da campo di Val Kamenka,
questo destino crudele, ti vedeva ridotto in quelle misere condizioni, ti vedeva separato dai tuoi, privo di qualsiasi conforto e ti credeva vinto: esso
voleva inebriarsi delle tue lacrime, dei tuoi gridi di dolore, della tua disperazione. Ma esso non conosceva tutta la nobiltà del tuo cuore, tutta la
fortezza dell’animo tuo, tutta la miracolosa resistenza del tuo fisico che,
apparentemente debole, diventava d’acciaio sotto l’impero della tua volontà. Tu in quel giorno fatale, chiusa nel cuore la tenerezza tua, guardando sprezzantemente in faccia quel tuo implacabile nemico, che t’aveva senza tregua ed inesorabilmente perseguitato, gli dicesti: “Tu puoi togliermi la
vita, puoi farmi morire lontano dai miei, senza i loro baci ed il loro conforto, ma tu non hai la forza, il potere di togliermi l’onore, tu non puoi impedirmi di entrare nel tempio della gloria!” e, come un antico soldato romano avvolgendoti nella toga della tua fierezza, moristi da eroe!
Dal giorno della tua nascita, compreso dei miei doveri di padre, io vagliavo, pesavo ogni azione della mia vita, perché Tu, fatto adulto, potessi
trovar sempre in essa un esempio da seguire: se negli ultimi anni ho commesso meno errori, se sono divenuto migliore, lo debbo a te, Mario mio! Il
dolore più forte che ho provato nel non essere chiamato alle armi al principio di questa guerra, te lo scrissi: è stato quello di non averti potuto condurre con me ed esserti d’esempio anche sul campo di battaglia. Con la tua
eroica condotta, hai dimostrato che nel tuo cuore non avevo seminato invano, che, fatto uomo ormai, tu non avevi più bisogno dell’esempio mio,
ma ne lasciavi, morendo, uno splendidissimo a me.
Nel vuoto immenso che la tua morte ha lasciato nel mio cuore, nella mia
casa, attorno ad essa; nello strazio inenarrabile che mi tortura e mi torturerà tutta la vita; obbligato ad assistere alla lenta agonia di una famiglia
che si spegne, alla sparizione sua e del suo patrimonio morale, dal novero
delle famiglie italiane; non trovo altro conforto che pensando a te, non so
dove trovare la forza ed il coraggio che mi abbisognano per non lasciarmi
vincere dalla disperazione, che seguendo l’esempio tuo. Ti vedo ognora,
con gli occhi della mente, bello ed ultimo rampollo gentile della mia famiglia, scintillante di coraggio, di calma e di energia nella trincea di Santa
Maria di Tolmino sotto la pioggia infernale delle bombe, lanciate dall’impotente rabbia barbarica del secolare nemico di nostra gente; ti vedo bello
di fierezza sul tuo letto di dolore, combattere e vincere l’ultima battaglia
contro l’avverso Destino!
Tu sei morto!… Non ho più figli!… Non sono più padre!… Ma tu sei
morto per la Patria, Tu sei morto da eroe ed io ti benedico dal più profondo del cuore e mi inchino severamente alla tua santa memoria. Tu non avesti, morendo, il bacio di tuo padre e della donna che ti fu madre amorosissima, ma la Partia ti baciò in fronte, ti prese nel suo grembo e ti segnò
nella lista dei suoi figli prediletti, nella lista dei martiri che diedero tutto il
loro sangue per essa!
Che tu sia benedetta, Patria mia adorata! Come il figlio mio ti offrì la
sua giovinezza ed il sangue suo, così io ti offro il mio dolore e il pianto
mio!… Con il sangue e con il pianto si cementò l’unità d’Italia, che il sangue di mio figlio ed il pianto mio, contribuiscano ad unire alle antiche le
nuove provincie, ancora schiave dello straniero! Che i gridi di dolore, che
noi, genitori, orbati dei nostri figli, soffochiamo nei nostri cuori, si tramutino per te, o Patria mia, nel canto della vittoria!
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MARIO MODERNI
LA MORTE
Per me che ho vissuto soltanto per la mia famiglia, è terribile il pensare che essa non avrà domani: l’ultimo suo ramo fu spezzato dalla tempesta, non resta che un tronco sterile squarciato dal fulmine! Il mio pianto non cesserà che l’ultimo giorno della mia vita; ma quando penso che se
nel maggio 1915, il popolo d’Italia con un suo scatto generoso non si fosse imposto alla viltà, non avesse messo in fuga l’intrigo, se per risparmiare il nostro sangue ed il nostro pianto, non fossimo scesi in campo per la
riconquista dei nostri confini, per la difesa dei nostri più vitali interessi,
per impedire l’asservimento dell’Europa alla Germania, debbo riconoscere che invece di piangere noi padri, avrebbe pianto la Patria! … però se
il pianto nostro è fatalmente limitato a pochi anni, quello della Patria si
sarebbe prolungato per un numero indeterminato di secoli!… Gloria, gloria eterna a voi, cari ed eroici figli nostri, che con il sacrifizio vostro ed il
pianto delle vostre famiglie, avete risparmiato il sacrifizio ed il pianto alla Patria adorata.
La notizia della morte di mio figlio, del mio Mario, di quest’essere che
era divenuto lo scopo della mia vita, che assorbiva ogni mio pensiero, nel
quale riponevo ogni speranza nell’avvenire della famiglia, che egli avrebbe onorata con le sue azioni, di questo sostegno della mia vecchiaia, di Colui dal quale dipendeva la mia felicità e la mia sventura, mi fulminò e rimasi come impietrito. Per una diecina di giorni gli occhi mi si inaridirono
e non una lacrima potè uscire da essi: vedevo piangere intorno a me, mia
moglie, le sue amiche che venivano a trovarla, e tutte avevano conosciuto
Mario da bambino, la fidanzata e la sua famiglia, ma a me era negato dalla natura il conforto del pianto!
Una notte mi sognai mio figlio, l’unica volta finora che l’abbia visto in
sogno: stava a pranzo con una quantità di ufficiali, in un corridoio d’antico convento, al quale si accedeva da una porta situata all’estremità della
quasi scomparsa Via di Giulio Romano, ed adiacente alla gradinata della
chiesa della Ara Coeli, porta che una vecchiarella insistentemente mendicava. Entrai: era un lungo e largo corridoio di convento, non troppo bene
illuminato da un grande finestrone, situato in fondo al corridoio, dalla parte opposta dalla porta d’ingresso. Una lunga tavola apparecchiata, occupava tutto il lato destro del corridoio, e ad essa erano seduti dalle due parti gli ufficiali. Appena entrato udii un ufficiale dire a bassa voce: “Ecco il
padre!” – Come avanzavo nel corridoio gli ufficiali si alzavano in segno di
rispetto: giunto a metà del corridoio, un ufficiale alzandosi gridò: “Mario,
ecco Papà!” – Vidi allora Mario situato quasi in fondo e dalla parte esterna della lunga tavola, alzarsi in piedi e guardare dalla mia parte. Affrettai
il passo e lo raggiunsi, Egli si voltò verso di me, aveva i piedi fasciati di
garza, lo abbracciai e lo baciai; Lui mi baciò sulla bocca come era suo costume e… mi svegliai piangendo!
Dopo aver pianto potei cominciare a riflettere, e ad occuparmi de miei
affari, dei quali bisognava ben che qualcuno si occupasse, e prima di tutto volli che la volontà di mio figlio fosse rispettata, per quanto dipendeva
da me. Nel dicembre 1914, allorchè feci al Circolo degl’Impiegati delle
Pubbliche Amministrazioni, la Conferenza su la necessità per l’Italia di dichiarare guerra ad Imperi Centrali, Io era talmente convinto di questa necessità, che ritenevo possibile la dichiarazione di guerra da un momento
all’altro. In queste condizioni e nella convinzione che, per le mie Note caratteristiche e per la mia costante attività militaresca, che mi aveva reso
uno degli ufficiali in congedo più in vista, sarei stato fra i primi richiamati alle armi, credetti opportuno sistemare i miei affari e fare testamento.
Mio figlio, che stava attendendo la sua nomina ad ufficiale di Milizia Territoriale, volle invitarmi: stese il suo testamento, lo chiuse e me lo consegnò, perché lo riponessi assieme al mio. Dovevasi dunque aprire il suo testamento, perché la sua volontà fosse da noi rispettata. Per questa operazione era però inutile del Notaio e del Pretore, per delle ragioni che dirò
poi e la mesta operazione fu compiuta da me e de mia moglie, nella cameretta di Lui, divenuta il santuario della nostra casa.
Ed ecco qui riportato il suo testamento, quale poteva attendersi da un
cuore buono e retto quale era il suo.
TESTAMENTO
Roma 8 novembre 1914.
Avendo compiuto 21 anni ed essendo stato nominato Sottotenente di Fanteria di Milizia Territoriale quando si suppone
che da un momento all’altro il mio Paese possa prendere parte
all’immane conflitto che in questo momento devasta l’Europa,
non potendo prevedere qual sorte mi riserba il destino, pur facendo parte delle truppe di terza linea, credo mio dovere sistemare i miei affari, ora che sano di mente e di corpo, di mia spontanea libertà, posso disporre di quanto posseggo.
Se dovessi morire prima di mio Padre, egli è naturalmente
mio erede naturale, ed a lui lascio la mia casa in Via del Boschetto n 87, lasciatami dalla mia Ava paterna e quanto altro
mi appartiene. Se dovessi invece morire dopo di mio padre, ma
prima della mia matrigna, Rosa Gordini in Moderni (che raccoltomi fra le sue braccia all’età di tre anni, allorchè ebbi la
sventura di perdere la mia povera Mamma, ebbe per me tutte
le cure, le premure e l’affetto di una vera madre, tanto da non
farmi accorgere la grande perdita che avevo fatto) in attestato
di filiale affetto la nomino mia erede universale, lasciando ad
essa la casa lasciatami dalla mia Ava paterna, il fondo di Terracina, che mi fosse pervenuto da mio Padre, e quanto altro
m’appartiene. Siccome con la mia morte si estinguerebbe la famiglia Moderni, lascio alla mia matrigna di scegliere se le con-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
viene meglio adottare un bastardo in tenera età, allevarlo, educarlo, imponendo ad esso il nome della nostra famiglia, lasciandogli poi quel poco che posseggo, ovvero lasciare questo
mio piccolo patrimonio ai figli di Luigi e Giuseppe Cappellacci
di Iglesias (Sardegna) perché tra i Moderni ed i Cappellacci vi
è un lontano vincolo di parentela, essendo i figli di Luigi e Giuseppe Cappellacci, pronipoti di Luigi Cappellacci, fratello uterino di Michele Moderni, mio Avo paterno.
Non lascio nulla a mio zio Ernesto, non perché non senta affetto per lui, ma perché non avendo figli, qualunque cosa gli lasciassi andrebbe smarrito; se però egli desiderasse avere per mio
ricordo qualche oggetto che mi ha appartenuto personalmente,
prego la mia matrigna di consegnarglielo.
Mario Moderni
Questo testamento non è stato reso pubblico ed è rimasto un documento privato della mia famiglia per la seguente ragione: dopo la morte di mio
figlio, in una delle due o tre volte che mio fratello venne in casa mia, gli
dissi dell’esistenza di questo testamento, e della necessità di consegnarlo al
Notaio per la necessaria apertura legale, alla quale avrei voluto si fosse trovato presente anche lui. Mi rispose che avessi risparmiato la spesa del Notaio, anzitutto perché io ero l’erede naturale di mio figlio, poi anche perché un articolo del testamento di nostra madre rendeva nulla il testamento di Mario.
Andatosene mio fratello, volli vedere in qual modo il testamento di mia
madre poteva annullare quello di mio figlio: preso la copia che di quell’atto conservavo, copia scritta proprio da mio figlio, me la lessi attentamente. Mio fratello aveva ragione. L’ultimo capoverso era il seguente: “Voglio
poi che al mio Nepote Mario Moderni vada al possesso della casa allorchè
saranno morti il suo padre e lo zio e se premorisse a costoro in stato celibe, ovvero senza figli, la casa suddetta andrà in proprietà ai miei figli Ernesto e Pompeo Moderni”
Questa disposizione avrebbe potuto rendere nullo il testamento di mia
madre, perché conteneva una sostituzione fidecommissaria vietate dalle
nostre leggi, ma per un codicillo del testamento bisognava non denunziarla ed accettarla con il minor dei mali. Ecco il codicillo:
CODICILLO
“Nel caso che uno dei miei figli non accettasse le mie disposizioni contenute nel testamento 17 aprile 1899, egli avrà la quota
legittima in piena proprietà. Se ciò avvenisse da parte di Ernesto,
revoco il legato di rendita vitalizia di lire 50 mensili da me fatto alla moglie nel caso restasse vedova.
Mia madre volendo che tutto il suo patrimonio fosse integralmente trasmesso all’unico nipote che aveva, cioè a mio figlio, e conoscendo la debolezza di carattere di mio fratello, l’ascendente grandissimo che su di lui esercitava la moglie; mia madre che aveva vissuto per tanti anni in famiglia con loro ed avevo visto come la nuora cercasse di aiutare i propri nipoti, bisognosi,
in tutti i modi possibili, certa che se avesse diviso il suo patrimonio fra i due
suoi figli, la parte di Ernesto sarebbe andata a finire sicuramente nelle mani
dei parenti di sua moglie, saviamente decise di nominare suo erede universale il nepote ed usufruttuari i suoi due figli. Anzi temendo che il suo testamento
potesse in qualche modo essere impugnato, stabilì che la quota mensile dell’usufrutto per il figlio Ernesto fosse alquanto maggiore di quella del figlio
Pompeo e vi aggiunse il Codicillo sopra riportato, per modo che il figlio Ernesto non avesse interesse, ma andasse invece incontro ad un grave danno
qualora avesse tentato di impugnare il testamento di sua madre. Ed ecco come quella povera vecchia volendo assicurare tutto il suo piccolo patrimonio
al suo unico nepote, con questo Codicillo, che legava momentaneamente le
mani allo zio, ha finito per legarle al padre, togliendo al monumento civile,
che esso gli ha eretto, la metà del suo patrimonio.
Io e mio figlio avevamo dimenticato completamente la clausola che mia madre, per un sentimento di equità, aveva voluto mettere in fondo al suo testamento per tener conto anche di questa eventualità, che nulla allora faceva credere potesse realizzarsi. La mia attenzione non si era fermata affatto su quella
clausola, che avevo letta e riletta, come si leggono quelle diciture noiose dei notai, delle quali per apprezzarne tutti i periodi, bisognerebbe avere dimestichezza con il Codice e con la Giurisprudenza. Potevo pensare alla morte di mio figlio io, che alla morte di mia madre avevo anche pagato la tassa di successione
che sarebbe spettata a Lui all’atto della morte mia? Io, che stavo preparando
tutto perché dopo la mia morte non avesse dei fastidi? Io, che volevo che si occupasse fin da ora dell’amministrazione del suo patrimonio? Ed appunto perché mi vide preparare il mio testamento, preso per guida il testamento della
Nonna ed imitandomi, stese anche il suo. Ma c’era chi il testamento di mia madre conosceva a memoria, chi a preferenza aveva fermata la sua attenzione proprio su quest’ultima clausola: mia cognata! Il giorno in cui Mario partì per il
fronte fu intesa esclamare: “E se morisse a chi andrebbe quel che gli ha lasciato la Nonna?!”. Quell’esclamazione fatta gesuiticamente in malafede, perché
Mario aveva in me il suo erede naturale, rivelava un suo interno desiderio, la
speranza che la morte di quel povero figliuolo, aggiustasse gli affari assai dissestati dei suoi parenti!
Appena seppi che mio figlio era morto, ed era morto da eroe, appena seppi
che la mia famiglia era condannata a spegnersi, la mia mente ebbe subito la visione netta dei doveri che la mia nuova posizione mi imponeva; il mio cuore mi
mostrò subito la via da seguire: onorare la memoria del valoroso soldato della
Patria, dell’impareggiabile figlio, eternando contemporaneamente il nome suo
e quello della famiglia che si spegneva! A questo fine ideai di creare con il patrimonio che sarebbe spettato a mio figlio, una speciale istituzione di benefi-
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LA MORTE
cenza per concessione di Borse di studio di £ 1200 ciascuna, a studenti poveri
romani, istituzione che avrebbe portato il nome di Fondazione Mario Moderni.
Caratteristica di questa istituzione è quella che la metà della rendita netta
annuale dev’essere ogni anno rinvestita; cosìcchè questa istituzione, che dopo
la morte mia e di mia moglie comincerà a funzionare con un modesto capitale, sarebbe destinata a diventare potentissima attraverso i tempi. Poiché, anche a parere di valenti giuristi, lo Statuto Organico della Fondazione, da me
compilato, contiene delle disposizioni tali da garantire che nessuno mai avrà
interesse di trasformare o sopprimere la istituzione da me ideata per onorare il
nome di mio figlio.
Il mio primo pensiero fu di parlarne a mio fratello: alla morte di mia madre
avevo messo una pietra sul passato; mio figlio non era più un ragazzo, era sempre di carattere dolce e facilmente suggestionabile, ma ormai esso aveva capito
chi veramente lo amava, che veramente pensava al suo bene ed al suo avvenire e da parte di mia cognata non avevo più nulla da temere. Quindi avevano voluto che del passato ( pur non dimenticandolo) non né apparisse più traccia,
perché Esso, povero figliuolo, potesse vivere sereno ed in pace, senza lotte familiari, senza discordie. In questa dolorosissima circostanza, avrei voluto perciò
associare mio fratello alle onoranze a mio figlio ed alla creazione di un’opera di
beneficenza, destinata, se non mi sbaglio, a diventare grandiosa e che perciò
onorerà la famiglia che l’ha istituita. Gliene parlai: dopo tutto non gli chiedevo
nessun sacrifizio. Egli e sua moglie avrebbero continuato a godere la loro parte
di usufrutto e soltanto dopo la loro morte, la loro parte di capitale (pervenutogli in seguito alla morte di Mario) sarebbe andata, assieme alla mia, a costituire il fondo della nuova istituzione. Mio fratello in quel primo momento se ne
mostrò entusiasta, mi abbracciò, mi baciò e mi propose che le due parti di usufrutto si riunissero sull’ultimo superstite di noi quattro ancora in vita. Non solo
accettai la proposta, ma per assicurare al monumento civile che volevo erigere
a mio figlio, tutto il patrimonio lasciatogli da mia madre, dichiarai a mio fratello d’essere disposto stabilire che all’ultimo superstite di noi quattro, andasse
anche la rendita dei miei beni non pervenutimi da mia madre. Mio fratello aveva fretta, se ne sarebbe parlato con più comodo un’altra volta e se ne andò 38.
La Domenica susseguente tornò (aveva fretta anche quel giorno, perché anche quel giorno doveva andare a prendere i biglietti per il teatro!) ma s’indugiò per persuadere prima me e poi mia moglie che l’istituzione non si doveva
fare adesso, ma all’ultimo momento di nostra vita. Capii che a quel debolissimo uomo mia cognata aveva iniettato il suo veleno e che perciò non vi era più
da sperar nulla; la metà del patrimonio di mia madre era perduto! Fondare in
fin di vita, un’opera di beneficenza speciale, che a richiesto sei mesi di studi e
di lavoro, il parere d diversi legali e l’approvazione delle autorità costituite,
sembrava a mio fratello, sotto la suggestione di sua moglie, che fosse la cosa più
facile di questo mondo!
Da quel giorno non ho più veduto mio fratello: il timore che io e mia moglie
con le nostre ragioni potessimo persuaderlo; che l’affetto grande che si sprigionava dai nostri cuori per il povero morto, potesse commuoverlo e spingerlo a
38: Seppi molto tempo dopo, che doveva andare a prendere i biglietti per condurre al teatro sua moglie: ed era appena una settimana che ci era giunta la notizia della morte di Mario!
unirsi a noi, per l’erezione del monumento civile all’eroico nostro figlio; non fece indietreggiare mia cognata davanti all’infamia di togliermi dal fianco, in quei
primi momenti dolorosissimi, l’unico parente che aveva; di togliermi dal fianco
l’unica persona che avrebbe potuto versare un po’ di balsamo sull’orribile ferita che farà sanguinare il cuore per tutto il resto della vita! E passammo le Feste Natalizie il Capodanno e l’Epifania, le feste della famiglia, le feste che noi
eravamo abituati a celebrare con una certa solennità, esclusivamente per il nostro Mario, per vedere sfolgorare dalla contentezza i suoi bellissimi occhi celesti, per educarlo ai santi affetti della famiglia, li passamo assolutamente soli,
passammo queste feste, aggirandoci per il nostro vuoto appartamento, chiamando inutilmente il nostro Mario, che non poteva risponderci con i suoi baci
e con i suoi motti di spirito; ovvero chiusi nella camera di Lui, in mezzo ai suoi
ricordi, piangere io e mia moglie uno nelle braccia dell’altro.
Mia cognata, per la morte di mio figlio, aveva visto improvvisamente cadergli nelle mani metà del patrimonio di sua suocera, di quel patrimonio al
quale da circa 40 anni faceva la caccia, per il quale tante liti, provocate da lei,
erano avvenute tra mio fratello e mia madre. Gli era caduto fra le mani la metà di quel patrimonio, che essa desiderava per i suoi nipoti e pur di non perderlo, quella bigotta che esercitava tutte le sere il Rosario, che compiva inappuntabilmente tutte le pratiche del culto cattolico, sarebbe stata capace di non
indietreggiare di fronte a qualsiasi infamia; il ratto di mio figlio Infami!… Tanto il confessore assolve!
A spiegare questo repentino allontanamento da casa nostra, queste relazioni tra fratelli completamente spezzate da un giorno all’altro, senza nessuna causa apparente, mia cognata raccontava alle sue conoscenze che: siccome noi non
andavamo a casa loro, così essi non venivano a casa nostra. Era proprio il momento di stare attaccati alle regole dell’etichetta! Ma c’era dell’altro: questi
avanzi di sacristia, allevati nell’untuosità gesuitica, sanno sempre sfruttare qulsiasi circostanza in loro favore, per lo meno di fronte alle loro conoscenze. Infatti, dalla partenza di Mario per il fronte, ne io, ne mia moglie eravamo più
stati in casa di mio fratello. Ma eccone la ragione: appena partito Mario, venne
quell’ineffabile uomo di mio fratello a raccomandarmi di comunicare, d’ora in
avanti, con precauzione le notizie di Mario a sua moglie, perché essa lo amava
come un figlio (sic) e soffriva di mal di cuore, avrebbe potuto morire alla minima emozione. C’era dell’umorismo feroce in questa raccomandazione di mio
fratello! Pretendere da noi, che vivevamo davvero in continua trepidazione, che
ci fossimo fatti forza nel nascondere i nostri timori, le nostre apprensioni; chiedere a noi di rappresentare una commedia, per non guastare la digestione di
quell’amorosissima nostra parente! E queste cose venivano dette seriamente a
noi che sapevamo quanto avrebbe fatto comodo a mia cognata la morte di quel
povero nostro figliuolo! Noi che sapevamo da mia madre quanto quella donna
avesse lottato, perché la Nonna non lasciasse direttamente a Lui il piccolo patrimonio!… E’ stato tanto grande il dolore provato da quella donna per la morte del nostro povero Mario, che non ha tralasciato mai di andare la Domenica
al teatro; e dal giorno della morte di mio figlio, mia cognata, la cui salute era
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davvero assai compromessa, si è rimessa in buono stato e si è ingrassata 39!
Più evidenti potevano essere gli effetti di una gioia per un evento, che farà
ereditare ai suoi nipoti, per la debolezza di mio fratello, una bella sommetta! E’
così una parte dell’eredità di un eroe, finirà nelle mani di gente indegna. Ad
ogni modo, siccome ogni cittadino è padrone in casa sua d’imporre quelle regole che più gli piacciono, senza che nessuno abbia il diritto di discuterle, così
io e mia moglie, per non far cosa contraria alla volontà di mio fratello, e nello
stesso tempo per non rappresentare un’indegna commedia, dopo la partenza di
nostro figlio per il fronte, ci siamo astenuti dal recarci in casa sua, dando per
lettera, direttamente ad esso le notizie di nostro figlio, perché le comunicasse alla moglie in quel modo ch eavrebbe ritenuto più opportuno.
Non avendo potuto rendere pubblico il testamento del mio Mario, ho voluto che la sua volontà fosse rispettata nel miglior modo possibile: essendosi
verificato il primo caso da esso previsto cioè quello della sua morte avvenuta prima della mia, io sono divenuto suo erede e tutto sarebbe finito qui. Ma
Egli desiderava che il nome della sua famiglia non cadesse nell’oblio, ed io
ho creato la Fondazione Mario Moderni, che onorando Lui ricorderà ai posteri il nome della nostra famiglia, legato per sempre ad un istituzione benefica, benedetto, spero, da quanti saranno stati beneficati. Io e mia moglie abbiamo dovuto scartare assolutamente l’idea di adottare un bastardo in tenera età, imponendo ad esso il nome di nostro figlio per lasciargli poi il suo patrimonio, perché sarebbe stato un compito superiore alle nostre forze, sarebbe stata una tortura crudelissima per i nostri cuori. No, figlio; nostro adorato, noi vivremo soltanto con la tua immagine nei nostri cuori, soltanto con il
ricordo tuo nella mente, e morremo pronunziando oltanto il tuo caro nome!
Eppoi, chi ci avrebbe assicurato che il bambino adottato, non fosse figlio di
qualche degenerato; e questo bambino fatto uomo, malgrado le nostre cure,
non avesse macchiato il nome che nostro figlio aveva illustrato con il sangue
suo?! Per conservare artificiosamente il nostro casato, avremmo corso un
grave pericolo! Senza contare che il bastardo adottato, avrebbe potuto non
aver figli ed allora il casato si sarebbe spento egualmente, il piccolo patrimonio sarebbe andato a finire chissà come, senza arrecare nessun bene, nesssuna utilità.
Scartata l’idea di adottare un bastardo, ho procurato, per quanto mi è stato possibile, di assecondare il suo desiderio, con l’articolo seguente dello Statuto Organico della Fondazione MarioModerni, che riguardava la concessione
delle Borse di Studio.
Art. 11° Nella concessione delle Borse a giovani di condotta illibata, a qualsiasi raligione appartengano, avranno la precedenza: 1° I giovani d’ambo i sessi, nati a Roma e privi di entrambi i genitori; 2° I giovani d’ambo i sessi, nati a Roma, e che
abbiano soltanto la madre; 3° I giovani d’ambo i sessi, nati a
Roma, da genitori entrambi romani; 4° I giovani d’ambo i sessi, nati a Roma, da genitori uno almeno dei quali sia romano
39: Mia cognata Elettra Pinaroli in Moderni, è morta il 24 Ottobre 1922, all’età di 72 anni.
Il successivo articolo 12° dispone che, mancando richieste di Borse di
Studio da parte di giovani romani, le medesime potranno essere concesse a
giovani studenti poveri della Provincia di Roma, applicando ad essi la stessa graduatoria stabilita dall’articolo 11° per i giovani romani. Come vedesi, con questi due articoli, non un solo sventurato Trovatello, ma moltissimi
di questi infelici potrebbero, attraverso i tempi, essere aiutati a farsi una
buona posizione sociale, con il patrimonio del valoroso soldato morto per la
Patria, senza correre il pericolo che il suo nome possa mai essere macchiato da nessuno.
In quanto all’altra proposta fatta dal nostro Mario nel suo testamento, di
lasciare cioè il suo patrimonio ai Cappellacci d’Iglesias, la medesima non era
conciliabile con la creazione della Fondazione Mario Moderni, con questo
monumento civile che io ho eretto al mio adorato figliuolo e che era un bisogno vivissimo del mio cuore. D’altronde i Cappellacci sono parecchi, perché ai figli di Luigi e di Giuseppe bisognava aggiungere anche i figli di Maria Cappellacci, sorella di Luigi e di Giuseppe, Vedova del nobile Pasquale
Rodriguez, i due figli maschi della quale, in questo momento, sono al fronte
anch’essi a difendere la patria 40.
Il piccolo patrimonio diviso fra tante persone, nessuna delle quali è bisognosa, perché sono tutti propietari, non avrebbe quindi arrecato un vantaggio sensibile a nessuno.
Pochi giorni dopo l’annunzio della morte di mio figlio, la sua fidanzata
mi disse che Mario, prima di essere chiamato alle armi, le aveva consegnato
una lettera da mostrare a me, soltanto dopo la sua morte.
“Portami la lettera – le dissi – ed ubbidirò alla sua volontà, qualunque
essa sia”. Infatti, la signorina Amalia mi portò la seguente letterina:
Roma, 10 maggio 1915
Mia Amalia
Nel momento storico che attraversiamo, nessuno certo può
sapere il proprio destino nell’avvenire ignoto ma… minaccioso.
Se dovrò partire per mobilitazione, non ti rattristare per ciò, anzi, mostrati lieta con animo tranquillo.
Nel caso che dovessi morire, con questa mia, puoi, presso i
miei, ritirare l’oggetto che più ti sarà grato per il mio ricordo.
Non piangermi morto, solo ricordami qualche volta!
Speriamo bene e coraggio… Pensa al nostro Paese… Viva
l’Italia!
Baci affettuosi e saluti.
Tuo
Mario
Mia moglie mi consegnò l’anello più prezioso (uno zaffiro contornato da
40: Si sono poi distinti entrambi ed entrambi sono rimasti feriti: il più grande, Oscar, Tenente nel 94° Reggimento Fanteria, guadagnandosi due medaglie al valore; il minore, Felice, Tenente del 6° Genio, ferito al Mmonte Grappa, restando Mutilato di Guerra.
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MARIO MODERNI
LA MORTE
10 brillanti) esistente fra i gioielli lasciati a Mario dalla Nonna, ed io lo porsi alla signorina Amalia dicendole: “Il mio povero Mario non ha fatto in tempo a compiere la cerimonia del fidanzamento ed ora la compio io per Lui. Tu
sei la fidanzata di un morto!”. Quindi gli mostrai gli oggetti in oro posseduti da Mario, perché essa scegliesse quello che più desiderava: essa scelse una
spilla da cravatta, rappresentante un trifoglio, primo oggetto d’oro regalatogli dal padre suo, e che il mio povero figlio portava sempre.
La visione della morte vicina in questo giovane è qualche cosa di fenomenale! Fin dall’età di 18 anni gli sfugge dalla penna la sua convinzione che
non sarebbe vissuto molto; quindi perfettamente inutile, secondo Lui, che io
avessi continuato a spendere del danaro per fargli acquisire dei titoli che…
Non avrebbe fatto a tempo ad acquisire! Lasciamo pure da parte il suo testamento, preparato un anno prima della sua morte, ritenendo che questo
atto lo abbia compiuto per suggestione mia, che in quel momento compivo
un atto simile; ma questa lettera scritta 13 giorni prima della sua partenza,
quando questa partenza non era ancora decisa, di una partenza che dopo
tutto lo avrebbe condotto a far parte dei quadri di un Battaglione di Milizia
Territoriale, destinata, come credevano tutti, a presidiare città e fortezze,
mai a prender parte alla lotta in prima linea, questa lettera che parla di morte suo malgrado, a certamente un valore psicologico. Egli sentiva vicina la
morte, come l’aveva intesa la sua povera Mamma! Rileggendo le sue lettere
scritte dal fronte, si direbbe anzi che, certo di non fare a tempo di emergere
in altre cose, si fosse preparato stoicamente a distinguersi con una morte
eroica. Questo esclude in modo assoluto che la previsione della morte gli fosse suggerita dalla paura: la calma, il sangue freddo dimostrato in varie contingenze della sua breve carriera militare, sono requisiti che non possono accoppiarsi con la paura, ma ne sono invece la negazione. Mario Moderni, il
giovane timido, mite, buono, era un valoroso che le circostanze hanno rivelato: un valoroso nato per le caratteritiche della calma e del sangue freddo,
un valoroso che il coraggio, il patriottismo e la passione per la carriera militare, hanno spinto in prima linea sul campo di battaglia.
Ed a proposito del suo valore, in questa circostanza ho dovuto constatare un fatto doloramente caratteristico: il nostro paese, anche moralmente,
era talmente impreparato alla guerra si aveva di essa un’idea così evanescente, malgrado la recente guerra libica, che ho udito delle persone di nostra conoscenza domandarci ingenuamente, che cosa avesse fatto Mario, perché tutti parlassero del suo eroismo? Mi ricordo che mio zio, quel tal Luigi
Cappellacci, fratello uterino di mio padre, di cui parla Mario nel suo testamento, mi raccomandava che il 19 Maggio 1849, mentre l’esercito romano
assaliva a Velletri l’esercito borbonico in ritirata da una finestra della sua
abitazione, aveva veduto un artigliere borbonico, che i suoi compagni trasportavano sopra una sedia, ed al quale una palla di cannone aveva sferzato tutte e due le gambe, andare verso il posto di medicazione, urlando e piangendo, raccomandandosi a tutti i santi del calendario e più specialmente alla Madonna del Carmine (specialità napolitana) in un modo così impressio-
nante, da dover chiudere le finestre e fuggire nella parte più recondita della
casa, per non udire quegli urli di dolore e disperazione che facevano rabbrividire. Le ferite dell’artigliere borbonico e quelle di mio figlio sono simili se
non identiche addirittura.
Si faccia un po’ il confronto tra l’effetto deprimente, scoraggiante, che,
sui suoi compagni, deve immancabilmente avere prodotto la disperazione di
quell’artigliere borbonico, e l’effetto opposto ottenuto su i suoi dipendenti,
da quel giovanissimo ufficiale che, vincendo il dolore fisico non curante di
sé, rifiuta ogni soccorso, ed inneggiando alla Patria ed alla sua Compagnia,
provvede con l’intensificazione del fuoco che la sua trincea non possa essere
assalita e presa. Poi, mentre lo trasportavano in barella non piange, non grida, ma sorridente saluta calmo e sereno, incoraggiando i suoi compagni; poco dopo subisce stoicamente una dolorosissima operazione, senza volere essere addormentato, e muore dopo 30 ore senza pianti, senza gridi, dando un
esempio splendido di forza d’animo, di coraggio, di fierezza. Ed ecco l’eroismo! Eroismo semplice come Lui; eroismo nobile, perché materiato di abnegazione e di sacrifizio; eroismo grande, perché senza speranza di alcuna soddisfazione morale; eroismo del quale Egli certamente non si accorgeva nel
momento che lo compiva! Un eroismo però molto apprezzato sui campi di
battaglia, perché tiene alto il morale ed il sentimento del dovere nell’animo
dei soldati, coefficienti indispensabili nel momento della lotta e senza dei
quali si va incontro alle fughe e alle sconfitte.
Per dargli diritto alla medaglia al valore, bastava già aver rifiutato i primi soccorsi ed essere rimasto, così gravemente ferito, al comando del suo reparto! Ed è stato appunto il racconto dei compagni e dei soldati, rimasti ammirati dal contegno intrepidamente eroico del giovane ufficiale, che gli ottenne la gloriosa distinzione data motu proprio al Re, o come suol dirsi anche, concessa sul campo di battaglia. Anzi, se fin da principio fossero stati
meglio conosciuti i particolari dell’amputazione dei piedi, la richiesta dei
medesimi ed il loro trasporto da Esso fattone da Volzano a Kamenka, credo
che invece della medaglia d’argento, il mio Mario avrebbe avuto diritto alla
medaglia d’oro, come fu concessa ad altri ufficiali per consimili atti di eccezionale stoicismo.
Molti invece credevano e credono che l’eroismo consista solanto nello
strappare una bandiera o delle armi a nemico, nel saltare sopra una trincea
o nel distinguersi alla presa di una posizione. Gli atti di valore possono dividersi in due categorie: di valore fortunato e di valore sfortunato; si raggiunge poi l’eroismo tanto nell’una che nell’altra categoria, accentuando con la
propria condotta l’azione valorosa. Si può affermare che ordinariamente negli atti di valore sfortunato si richieda una maggior dose di coraggio, di sangue freddo, di calma, di patriottismo, di quel che non né richiedano gli atti
di valore fortunato. Quando si corre all’assalto; quando il grido Savoia si
sprigiona da mille petti, quando le fanfare squillano la carica; quando il tuonare delle artiglierie stordisce, le pallottole fischiano, miagolano, da tutte le
parti; non sono più individui isolati che compiono una data azione, ma una
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
massa compatta, fusa dall’entusiasmo, dal pericolo, dall’esaltazione, dall’emulazione, una massa che ha una coscienza collettiva; e quando si è presi
dall’entusiasmo, dall’ebbrezza di questa massa, di questa coscienza collettiva si è trascinati da una forza irresistibile verso il nemico, gli si arriva addosso, … si muore o si compiono atti di valore. Un mio conoscente mi diceva che un suo figliuolo, soldato semplice, mentre scrivo già da un anno
al fronte, ha preso parte a 16 attacchi alla baionetta senza riportarne neppure una scalfittura; una volta partiti in 250 per compiere un operazione
tornarono in 40 soltanto! Un’altra volta, partiti in 12, tornò soltanto lui!
Quel soldato è certamente un valoroso che ha fatto nobilmente il suo dovere, eppure in qualche momento deve avere avuto paura! Venuto in licenza, mostrava per tutto il corpo delle piaghe, dovute al sangue contaminato da qualche spavento; ciò che è perfettamente umano. Ma l’individuo
che cade in trincea che non si è trascinato all’ebbrezza collettiva per vincere il dolore fisico, per guardare la morte in faccia senza tremare; l’individuo che in quei terribili frangenti è tanto padrone di sé da continuare a
dare ordini, che ha la freddezza d’animo da poter riflettere che un suo grido di dolore potrebbe avere un effetto deleterio su i presenti ed ha la forza, il coraggio, per vincere il dolore e nascondere le sue sofferenze, che con
i piedi stritolati da una granata ha la forza d sorridere davanti ai suoi soldati e di confortarli con le parole: “speriamo che non sia niente” – Quello
non sa neppure che cosa sia paura, quell’individuo è un eroe! Se la fortuna non gli fosse stata avversa, se non fosse stato colpito, quell’individuo
assai più facilmente avrebbe potuto compiere tutti quegli altri atti di valore, più appariscenti e perciò più comprensibilie generalmente più apprezzati dal pubblico.
La Cultura tedesca ha relegato i nostri eroi antichi nel mondo delle favole; per essa Orazio Coclite, Muzio Scevola, Quinto Curzio, Furio Camillo e tanti altri non sono mai esistiti, mentre la nostra storia ci insegna che
i loro eroismi non sono casi isolati per la razza latina, ma che invece si vengono ripetendo assai di frequente attraverso i tempi, ogni volta che condizioni eccezionali ne offrono le occasioni, e la guerra attuale ce ne ha dati e
continuerà a darcene numerosi splendidi esempi. Non so quanto tempo
Muzio Scevola abbia potuto tenere fermo la sua mano in mezzo al fuoco,
certo non delle lunghe ore, perché ad ogni modo lo avrebbero strappato a
forza di la. Mario Moderni con i piedi spezzati e stritolati da una granata,
ha resistito al dolore per 30 ore senza mandare un gemito!… No, signori
Tedeschi, il coraggio, la forza d’animo e la resistenza al dolore non sono un
mito, ma una caratteristica della razza latina, caratteristica che si rivela
improvvisamente tanto nel vecchio soldato, che nel giovane adolescente,
affacciatosi per la prima volta su i campi di battaglia.
Intanto la proposta onorificenza al mio povero morto, aveva avuto un
corso rapidissimo; nell’ambiente militare la sua condotta era stata apprezzata al suo giusto valore; l’ammirazione destata nel suo Reggimento, da
quella condotta, richiedeva che la ricompensa non si facesse attendere. Il
23 o 24 Gennaio, una lettera del Generale comandante la Divisione Territoriale di Roma, mi avvertiva di avere ricevuto l’incarico dalle superiori
autorità militari di consegnare alla famiglia del Sottotenente Mario Moderni, la medaglia d’argento al valore militare, concessagli di motu proprio
da S. M. il Re; conseguentemente mi chiedeva che gli indicassi il giorno e
l’ora in cui avrebbe potuto recarsi in casa mia per compiere l’onorifico incarico. Fissai la Domenica successiva 30 Gennaio dalle 10 alle 12.
Da principio sembrava a me più opportuno, più rispondente al nostro
stato doloroso nel quale ci trovavamo, che il Generale non trovasse nella
nostra casa, fatta deserta e muta dalla morte, che noi soltanto, derelitti genitori, o tutto al più, unita a noi, la famiglia della fidanzata di nostro figlio: a mia moglie sembrava invece, che la cerimonia della consegna della
medaglia fatta così quasi di nascosto, defraudasse il suo Mario della proclamazione del suo valore, fatta in pubblico perciò essa desiderava fosse
fatta almeno davanti al maggior numero di persone di nostra conoscenza,
poiché per far presto la consegna e dare un carattere di maggior deferenza, per la concessione avvenuta di motu proprio dal Re, le autorità militari avevano preferito di non attendere che vi fossero altre consegne di medaglie da fare, per organizzare una cerimonia pubblica, come se ne erano
già fatte delle altre.
In quanto diceva mia moglie, vi era certamente del vero e mi decisi di
accontentarla invitando alla consegna della medaglia le famiglie con le
quali eravamo in più stretta relazione; una rappresentanza di studenti dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma (al quale aveva appartenuto Mario) con il Presidente ed i Professori; una rappresentanza della Latina
Gens, associazione della quale Mario era uno dei soci fondatori; rappresentanze di altre associazioni alle quali appartenevo io; ed una rappresentanza della stampa militare.
Il giorno 30 Gennaio una di quelle belle giornate invernali, delle quali
Roma ha il segreto, favoriva la cerimonia alla quale, gl’inviti fatti, contribuivano effettivamente a darle una maggiore solennità. Dal giorno della
morte di Mario, mia moglie ha tenuto sempre la sua camera piena di fiori: in
questa circostanza tanto la sua camera quanto il salotto erano trasformate in
due serre. Nel mezzo di una parete del salotto, al disotto del ritratto della
madre, era stato collocato il quadro contenente in grandezza naturale il ritratto in fotografia, somigliantissimo, del nostro Mario; il quadro era fasciato dalla sua sciarpa, quella stessa che ci aveva spedito dal fronte.
Alle 10 il salotto, l’adiacente mia camera di studio e la camera d’ingresso adiacente al salotto ed alla camera di Mario, erano piene d’invitati: fra
questi vi era il Sottotenente Luigi Natale, compagno di Mario a Santa Maria
di Tolmino nella fatale giornata, quello che gli diede e ricevette da Lui l’ultimo bacio, venuto appositamente da Ancona, dove trovavasi in quel momento, per assistere a questa cerimonia e rendere così l’ultimo omaggio alla
memoria del valoroso e soprattutto compagno d’armi. Vi era una larga rappresentanza di studentesse dell’Istituto Superiore di Belle Arti, il Preside ed
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MARIO MODERNI
LA MORTE
il corpo insegnante quasi al completo, piangenti tutti l’allievo buono, irreprensibile, il compagno gioviale e cavalleresco.
Alle 10 e un quarto giunse il Generale Recli, comandante della Divisione
di Roma, accompagnato da un Maggiore di Fanteria, suo aiutante di campo:
introdotto da me nel salotto si arrestò commosso davanti al ritratto del nostro Mario, lo osservò un poco e poi esclamò: “E’ un fiore in mezzo ai fiori?”.
Si era proprio un fiore, non solo di bellezza, ma anche di bontà e di modestia! Un fiore di figlio, di cittadino, di soldato!
Intanto tutte le signore, che riempivano letteralmente l’ambiente, si erano
alzate in piedi ed il Generale sempre più commosso mi fece la consegna della
medaglia leggendomi la seguente motivazione, e nel consegnarmela aggiunse:
“Questa motivazione dovrebbe essere fusa in bronzo, ma ad ogni modo la racchiuda in un quadro perché essa deve renderla fiero ed orgoglioso di suo figlio”.
Comando della
Divisione Territoriale di Roma
Medaglia d’argento al valore Militare
di motu proprio di S. M. il Re
Sottotenente Moderni Mario di Roma: gravemente ferito da
una granata a mano che gli esportava ambedue i piedi, non cessava di rincuorare ed incoraggiare i propri dipendenti, ed al Comandante della Compagnia che gli rivolgeva parole di conforto
rispondeva ad alta voce che non aveva fatto che il proprio dovere, dando così un nobile esempio di grande coraggio e di elevato
sentimento patriottico.
Santa Maria di Tolmino, 2 novembre, 1915.
Dopo aver pregato il generale di decorare egli stesso mio figlio, appuntando la medaglia alla sciarpa da ufficiale che faceva il suo ritratto, cosa che gentilmente fece, risposi a lui nei termini seguenti:
Signor Generale
Avevo educato mio figlio romanamente nella religione della Patria, ed Egli romanamente per la Patria è caduto. Onore a Lui! Eppure quel giovane che è morto eroicamente; Eppure quel giovane ch è morto eroicamente, quel giovane di
cui il suo Colonnello mi scriveva: durante 14 ore di bombardamento intensissimi era stato ammirevole per sangue reddo,
energia e coraggio; quel giovane che dopo ferito gravemente
sì mostrò d’una forza d’animo straordinaria; quel giovane che
morì spartanamente non si era ancor rivelato alla sua fami-
glia. Noi lo credevamo ancora un bambino, perchè stava sempre attaccato al collo della madre, perché aveva bisogno dei
nostri baci e delle nostre carezze: spesso di sera, poggiata la
testa ricciuta su le ginocchia della Mamma, amava restarsene lungamente così a farsi accarezzare come un bambino. Noi
sapendolo di carattere dolcissimo, d’indole buona, gentile,
mite; dimenticando che all’alba del nostro risorgimento, il
poeta-soldato, morto nella difesa di Roma del 1849, aveva
cantato: I bimbi d’Italia si chiaman Balilla! noi temevamo
che quel nostro ragazzo, staccatosi per la prima volta dal nostro fianco, potesse avere qualche momento di debolezza, potesse fallire alla prova suprema, in quell’inferno che sono oggi le battaglie moderne.
La Mamma nelle sue lettere gli raccomandava sempre:
Mario mio fa il tuo dovere; meglio la morte che il disonore! Ed Egli li rispondeva: - Mamma, sta tranquilla che Mario tuo
farà il suo dovere! - Giunto al fronte io gli scrivevo: - Mario
mio, tutti possono avere dei momenti di sconforto e di accasciamento; se mi ti avvenisse ciò, pensa subito a me, pensa
agli obblighi grandi che t’impone l’onore di essere figlio di
Roma e vedrai il tuo morale rialzarsi immediatamente. - In
una lettera scrittami venti giorni prima della sua morte, fra
altre cose belle e patriottiche mi diceva: - Farò il mio dovere
sino alla fine se anche questa volta dovesse avvenire, felice di
aver dato il modesto mio aiuto alla causa comune. Se dovessi cadere non piangete la mia fine, essa sarebbe il termine
della mia famiglia, ma riassumerei tutti gli ardenti ideali da
te ispiratimi e dei miei avi.
Quando il Comandante della Compagnia, saputolo gravemente ferito, corse a Lui per rincuorarlo ed incoraggiarlo, ed
Egli gli rispose modestamente e fieramente: - Io non ho fatto
altro che il mio dovere; - con queste parole Egli non rispondeva soltanto al suo comandante di Compagnia, ma il suo
pensiero volava certo a suo padre e sua madre lontani, per dir
loro: - Vedete che ho saputo fare il mio dovere!
Se nell’immensità della sventura che ci ha colpiti, ci fosse
possibilità di conforto, questo ci sarebbe dato dal sapere che
nella sua breve esistenza, nostro figlio fu un buon cittadino e
valoroso soldato.
Si, figlio mio, Tu l’hai fatto tutto e nobilmente il tuo dovere e perciò che il tuo nome sia benedetto per tutta l’eternità!
Finchè avrò vita io benedirò sempre la tua santa memoria!…
Io piango, signor Generale, perché non ho altri figli da offrire alla Patria, a questa Patria diletta che ora amo ancor più
perché è bagnata dal sangue prezioso del un mio unico figlio!…
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Ma se non ho più figli, mi sento ancora abbastanza forte
per correre a vendicare il mio diletto caduto. Fra poco,
asciugato il pianto, io spero che le autorità militari, mi lasceranno prendere nelle file dell’esercito, il posto lasciato
vuoto da mio figlio.
Intanto, dal più profondo dei nostri cuori, io e mia moglie
ringraziamo Lei, Sig. Generale, e le superiori autorità militari, di questo ultimo omaggio che hanno voluto rendere al valore sfortunato del nostro eroico figlio.
Terminato il mio breve discorso, mentre il Generale mi stringeva la mano,
ripetei il desiderio di essere inviato al fronte a vendicare mio figlio. Il Generale
allora mi disse: “No, no, Ella ha già dato assai alla Patria, ora il suo posto è qui,
vicino alla sua Signora”.
Mia, moglie lo interruppe seccamente dicendole: “No, Sig. Generale, il posto di mio marito in questo momento è al fronte!”.
Io avevo potuto frenare le lacrime fin verso la fine di questo mio breve discorso, che la mia estrema commozione permise al cuore di dettarmi, ma l’aiutante di campo del Generale fu vinto fin da principio e dovette lasciare che il
pianto scorresse tacitamente su la sua faccia di vecchio soldato. Fu per questa
circostanza che appena terminata la cerimonia e rimasto solo, presi nota di queste poche parole pronunziate, onde poterle includere in questo libro, che già
avevo in animo di scrivere non appena terminata la compilazione dello Statuto
organico della Fondazione di beneficenza Mario Moderni.
Ed ora, per la verità storica, un breve commento per la concessione della
medaglia al valore. Questa motivazione dice che Mario fu ferito da una granata a mano che gli asportava ambedue i piedi: evidentemente la dicitura e riassuntiva e vuole indicare che, in seguito alle ferite riportate, perdette i piedi, ma
sta di fatto che i piedi non furono asportati sul posto; furono invece ridotti così
in misere condizioni da dover essere amputati appena giunti al posto di medicazone. Inoltre, che le ferite siano state cagionate da una granata a mano è
un’opinione del medico che lo ha operato, e la sua opinione ha certamente un
valore, perché la pratica, dopo un certo tempo, può aver ammesso ad esso di
poter distinguere le ferire di diversi proiettili che le producono, ma né mio figlio, né alcuno dei suoi uomini, avrebbe potuto dire da che genere di proiettile
fosse rimasto così malconcio. Il Sottotenente Luigi Natale, ch esi trovava anche
lui in una trincea di Santa Maria di Tolmino, mi disse che in quel momento in
cui Mario rimase ferito, vi era una pioggia talmente abbondante di proiettili di
tutte specie e grandezza, che sarebbe stato impossibile precisare quale fosse stato quello che aveva colpito il mio povero figlio. Da ultimo la motivazione della
medaglia dice che Mario rispose al comandante della Compagnia che gli rivolgeva parole di conforto: ho fatto il mio dovere ecc. mentre nella mia narrazione
è detto che che queste parole Egli le avrebbe risposte al comandante interinale
del Battaglione. Il Capitano Chamard era, infatti, il comandante della 14° Compagnia, alla quale apparteneva mio figlio, ma in seguito alla morte del coman-
dante del Battaglione, cadendo il comando della Compagnia, aveva assunto il
comando interinale del Battaglione. Sicchè in definitiva tanto la motivazione,
quanto la mia narrazione si riferiscono alla stessa persona.
Dopo aver avuto la partecipazione della morte di Mario, il mio primo pensiero fu di correre al fronte, per chiudere la sua salma in una cassa di zinco e
possibilmente collocarla provvisoriamente in un loculo del Camposanto più vicino. Ne scrissi in proposito al Generale Vittorio Elia, allora Sottosegretario Generale al Ministero della Guerra, perché mi aiutasse a compiere questo atto pietoso, verso i resti gloriosi della mia creatura: egli mi rispose che mi avrebbe aiutato ben volentieri se la cosa fosse dipesa da lui, ma siccome il permesso doveva essere accordato dal Comando Supremo, aveva ad esso trasmesso subito la
mia lettera, perchè il mio desiderio potesse essere soddisfatto; qualora ragion
d’indole militare non lo impedissero. Contemporaneamente a questa lettera,
spedii al Colonnello del 93° Reggimento Fanteria, la lettera, riportata più avanti, perché si occupasse della salma di mio figlio. Non contento di ciò dopo qualche giorno, visto che il tempo passava e nel timore che l’avanzata putrefazione
della salma, potesse essere poi causa di un rifiuto per la sua esumazione, rinnovai in forma più regolare la mia domanda per andare al fronte, e la inoltrai
per via gerarchica. Lasciai passare qualche altro giorno e poi, veduto le cose
continuavano ad andare per le lunghe, mi decisi di raccomandarmi per lettera
a S. E. il Ministro Salvatore Barzilai, mia vecchia conoscenza, perché mi aiutasse a soddisfare questo imperioso desiderio del mio cuore, che forse avrebbe
portato un po’ di tregua al mio dolore. Con una sua lettera affettuosa, il Barzilai mi dichiarava che di li a pochi giorni, dovendo recarsi al Quartiere Generale, prendeva impegno di parlarne personalmente al Generale Cadorna ed ottenermi il pemesso di soddisfare il mio giustissimo e santissimo desiderio.
Credetti di avere finalmente trovata la via, per sistemare provvisoriamente
le sante reliquie del mio Mario, e cominciai a fare i preparativi per l’imminente viaggio. Barzilai andò, ed appena ritornato mi fece sapere di avere raccomandata la mia domanda al Generale Cadorna in persona e che attendeva una
risposta in merito, da un momento all’altro. Infatti, poche ore dopo, Barzilai mi
rimetteva la risposta ricevuta, nella quale si dice che – alla salma del Sottotenente Moderni essendo stata data conveniente sistemazione dalla pietà dei suoi
colleghi, non vi era più bisogno della presenza del padre sul posto. – Ed io che
credevo che il grado Colonnello, mi potesse in questa circostanza essere utile!…
Sono 35 anni che mi preparo alla guerra e sono 35 anni che con assidua propaganda sulla stampa militare, con una serie di conferenze e con pubblicazioni
di libri, ho procurato, purtroppo inutilmente, di far comprendere al mio paese
la necessità di questa preparazione: la guerra è scoppiata da un anno, ed io sono ancora a casa, malgrado le mie tre domande avanzate per essere richiamato
alle armi! Mio figlio muore ed i miei precedenti patriottici di vecchio soldato, il
mio elevato grado militare non mi servono neppure di passaporto per andare a
sistemare con le mie mani quella salma adorata!… Povero mio grado al quale
tenevo tanto, povere mie insigne da Colonnello, che erano l’orgoglio di mio figlio, non mi sembrate più che ciarpame da comparsa di teatro!
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LA MORTE
Vediamo che cosa era avvenuto: Il Colonnello Bonifazio Cajani, comandante
del 93° Reggimento di Fanteria, dopo avere ricevuto la mia lettera, iniziò subito
le pratiche necessarie per la esumazione della salma di Mario e tale esumazione
potè aver luogo il 9 Dicembre, un mese e sei giorni dopo il suo seppellimento. Al
momento; della sua morte, la salma di mio figlio, era stata sepolta in terra, avvolta in una coperta, nel piccolo Cimitero militare impiantato al disotto delle dirute case di Val Kamenka, quasi al disopra della località dove era situto l’ospedaletto da campo: il suo Colonnello provvide una cassa di legno, inviò sul posto
un ufficiale (il Sottotenente Forza, della 14° Compagnia, alla quale apparteneva anche Mario e che perciò lo aveva conosciuto, come fu già accennato in una
nota) a presenziare la pietosa cerimonia e la salma del mio Mario fu esumata, fu
riconosciuta, e constatato che era quasi ancora intatta, collocata nella cassa di
legno, asssieme ai suoi piedi amputati, avvolti in ovatta fenicata, e nuovamente
sepolta. Sulla sua fossa venne piantata una croce di legno con il suo nome, cognome, grado, numero del Reggimento, della Compagnia e data della morte.
Quel Destino avverso che con inflessibile costanza ha sempre perseguitato
mio figlio nella breve ed innocente sua esistenza, come ha perseguitato me nella lunga, ormai troppo lunga, mia vita, volle che io sapessi che la salma del mio
Mario adorato, dopo un mese di permanenza sotto terra, era ancora intatta,
quasi mi aspettasse per ricevere il bacio paterno prima di sparire definitivamente dalla scena del mondo! Sotto l’azione dei miei baci ardenti, le tue carni
si sarebbero riscaldate, figlio mio diletto, e tu avresti avuto ancora un fremito
d’amore! Tornato per pochi istanti alla luce del sole, ti vedesti circondato da
volti estranei, intenti a compiere un’opera pietosa, ma tuo padre non c’era; tuo
padre che per venire da Te aveva tutto disposto; che sarebbe venuto anche a
piedi da Cividale a Val Kamenka, sfidando la Bora e la neve; da Volzano avrebbe salito con le ginocchia la ripida salita che conduceva alla tua tomba, pur di
avere la dolorosa consolazione di vederti ancora una volta, di coprirti di baci,
di disporti amorosamente con le sue mani nella tua cassa! Il Destino per crudele suo piacere ha voluto ricordarmi che la terra di quella regione, con la sua
proprietà di mummificare i cadaveri, aveva reso possibile tutto ciò se un severo ordine militare non me lo avessse impedito!
Però questa sistemazione della salma di mio figlio non era sufficiente per il
mio cuore: fin dal primo momento io mi persuasi che questa guerra avrebbe
durato degli anni: ed una semplice cassa di legno esposta per anni all’umidità
della terra, non si sarebbe marcita? E mi sarebbe stato poi accordato il permesso, dopo la guerra, di esumare un cadavere in completa putrefazione, chiuso in una cassa di legno, probabilmente in pieno disfacimento essa pure? D’altronde quale garanzia, per ritrovare la salma di mio figlio, mi offriva la croce
di legno, avente il suo nome e grado, piantata sulla sua fossa? Una croce è un
pezzo di legno che, nelle vicende della guerra, e di una guerra eccezionale come questa, può in un dato momento essere trovato utile ad altri usi, da soddisfare altri bisogni, ed essere perciò requisito per forza maggiore; come pure
una semplice croce piantata nella terra, in quella regione dove la Bora ha la
forza di rovesciare i treni ferroviari, può essere strappata dalla bufera e getta-
ta lontano. Tolto quel segno dalla fossa del mio Mario, la sua salma poteva pure essere racchiusa in un sarcofago di bronzo, che tanto per me sarebbe stata
perduta per sempre.
Quella sistemazione dunque era già qualche cosa, era meglio di nulla, ma
non era quanto il mio cuore desiderava, mentre dovevo proprio a questa insufficiente sistemazione, il negatomi permesso di provvedere personalmente alla
conservazione dei resti del mio figliuolo. Scrissi perciò di nuovo al Colonnello
Cajani pregandolo di completare l’opera sua, garantendomi, in modo sicuro il
ricupero di quella salma, unica cosa che mi restava ormai al mondo: ed egli mi
rispose una lettera, che fortunatamente andò smarrita e così mi risparmiò un
altro dolore, nella quale mi diceva che per la località ove trovavasi con il suo
Reggimento, lontano da qualsiasi centro abitato d’una certa importanza, era
nell’impossibilità di provvedere la cassa di zinco ed una stele in pietra per il mio
Mario. Il 20 Dicembre ricevetti però quest’altra lettera del Colonnello Cajani
della quale riporto una parte.
Carissimo Collega
Faccio seguito alla mia precedente ultima per informarti che
un’occasione favorevole mi permette di far costruire in una città, non molto lontana da qui, sia la cassa di zinco come il pilastrino per la tomba del compianto valoroso tuo figliuolo. In proposito ho già dato l’incarico ad un ufficiale (Sottotenente Luzenberger Raul) il quale per risparmio di tempo si metterà in diretta corrispondenza con te. Ti prego quindi di non tener conto
della mia precedente
Devotissimo Collega
Bonifazio Cajani
Dopo due giorni, infatti, ricevetti la cartolina che qui riporto, la quale è una
dimostrazione dell’affettuosa ammirazione che gli ufficiali del suo Reggimento conservano per mio figlio, e nello stesso tempo del cuore nobile e buono di
questo suo collega, che più tardi ebbe la disgrazia di essere fatto prigionero.
Prepotto, 22 dicembre 1915
Illustre Collega
Il Colonnello Cajani ha incaricato me, comandato temporaneamente per servizio a Prepotto, a poca distanza da Cividale,
di occuparmi a Cividale stesso per la cassa di zinco e per il pilastrino che ricordi il posto ove cadde l’eroico suo figliuolo 41.
Sono arrivato qui da qualche giorno, e mi occuperò subito
della cosa, seguendo le sue istruzioni, e gliene darò presto noti41: Il pilastrino doveva servire a segnare la tomba non il posto ove cadde.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
zia, orgoglioso di contribuire a rendere un ultimo omaggio a un
ufficiale di cui il mio Reggimento a ragione si gloria, e del quale io, assieme agli altri, ricorderò la figura con affetto più di collega, di fratello. – Se ha istruzioni a darmi, mi scriva qui e accetti un saluto devoto e commosso dal
Sottotenente Raul Lunzenberger
Il 26 Dicembre mi pervenne un’altra lettera dal Colonnello Cajani, il quale mi
ripeteva quanto mi aveva detto nella lettera andata smarrita e terminava così:
Non può immaginare quanto mi stava a cuore la sistemazione del tuo figliuolo caduto con tanto eroismo. Confido che
tu abbia saputo che il bollettino ultimo delle ricompense contiene la concessione della medaglia d’argento al valor militare al tuo caro estinto, com’era stato proposto da questo comando di Reggimento.
In attesa di ulteriori tue comunicazioni e sempre a tua disposizione per tutto ciò che mi sarà possibile di fare per te e per
la salma del tuo Mario che per me e pel mio Reggimento è oggetto di orgoglio sacro, ti prego gradire i miei cordiali saluti coi
sensi del mio profondo ossequio.
Devotissimo
Bonifazio Cajani
Una lettera del Cajani in data dell’8 Gennaio 1916, della quale qui, sotto
riporto un brano, mi assicurava che la cassa di zinco era in lavorazione. Queste lettere o brani di lettere che riporto, hanno per scopo di documentare la
reverente ed affettuosa ammirazione che gli ufficiali del suo Reggimento, a
cominciare dal suo Colonnello, tributavano alla gloriosa memoria di mio figlio, per la eroica sua condotta di fronte al nemico e di fronte alla morte; eroica condotta che io ho tentato di descrivere in questo libro, con le notizie monche che mi sono pervenute da diverse parti, ricostruendola come potevo, stante la mancanza di molti particolari, specialmente delle sue ultime ore. Queste
lettere quindi completano la mia narrazione, e dall’affettuosa ammirazione di
colleghi e superiori si può avere un’idea esatta del suo eroismo.
8 gennaio 1916
Carissimo Collega
Il sottotenente Lunzeberg ti avrà già scritto che la cassa di
zinco e il pilastrino per la tomba del tuo eroico Mario sono in lavorazione e fra pochi giorni saranno ultimati.
Io provvederò a farli trasportare ove giace il bravo ufficiale, farò mettere tutto a posto e te ne informerò
Aff.mo Collega
B. Cajani
Mentre venivo attivamente occupandomi, come potevo da lontano, della sistemazione provvisoria della salma e della tomba di mio figlio, non trascuravo di raccogliere di notizie di Lui, scrivendo e raccomandandomi a chiunque
avesse potuto darmene. Poco dopo la morte di Mario, era passato da Roma il
Capitano Adolfo Schiavo, di ritorno da Palermo dalla licenza di convalescenza, per quella caduta fatta di notte al fronte e che ho accennata in altra parte
del libro. Ritenendo che sarebbe tornato al fronte, lo pregai di sollecitare la sistemazione della tomba e di raccogliere le notizie che desideravo. Invece dovette fermarsi in Ancona e di la mi scrisse una lettera nella quale m’inviava le
notizie riguardanti mio figlio, che circolavano fra gli ufficiali del 93° Reggimento Fanteria che in quel momento si trovavano al Deposito in Ancona.
Malgrado le inesattezze contenute in queste notizie, riporto un brano della lettera del Capitano Schiavo, perchè anche da questa risulta l’affetto e
l’ammirazione di cui è circondata la sua memoria.
Ancona, 28 novembre 1915
Egregio Signor Colonnello
Poche notizie ho qui potuto raccogliere intorno alla morte
gloriosa del caro Mario. E’ morto serenamente alla Sezione della Sanità della Divisione ed è stato regolarmente sepolto in modo da poterne riconoscere la tomba, quando la fine della guerra lo permetterà.
E’ inutile per ora sperare qualsiasi concessione per la rimozione della salma adorata. Il povero Mario ebbe le gambe spezzate da una granata e la enorme perdita del sangue fu l’unica
causa della sua morte. Qui in Ancona ove mi aggiro, ho sempre
innanzi agli occhi la figura quieta del mio amico ed il suo ricordo nei luoghi ove varie volte siamo stati assieme mi stringe il
cuore. Io non dimentico il suo desiderio ed appena sarò lassù
adempirò a quanto ho promesso, secondando così anche un bisogno prepotente della mia anima.
Caro Colonnello, sia forte e vada orgoglioso della morte per
la Patria del caro Mario; figlio di Roma e romanamente caduto
senza emettere un gemito, anzi avendo parole di fede e d’incoraggiamento per i suoi soldati. In attesa di suo riscontro mi permetta di abbracciarla
Adolfo Schiavo di Borromeo
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MARIO MODERNI
LA MORTE
Avevo pregato di raccogliere notizie di mio figlio, anche Renato Turriziani, soldato addetto alla posta militare della 13° Divisione (quella alla quale
apparteneva il 93° Reggimento di Fanteria), cugino di Enrico Morganti e che
fino dal primo momento aveva spontaneamente raccolta e comunicata le prime notizie sulla morte di Mario. Ricevetti una sua lettera, con la data del 5
Gennaio, nella quale mi dice delle altre sue lettere inutilmente scritte al Caporalmaggiore di Sanità, quello stesso dal quale si era potuta avere una lettera con delle notizie importanti, ed all’attendente di Mario, lettere rimaste senza risposta42.
In questa lettera vi sono le seguenti notizie:
Rivoltomi ad un ufficiale, mio superiore, perché mi aiutasse
a raccogliere notizie, questi potè parlare con vari ufficiali che
avevano conosciuto Mario e mi ha riferito che : “gli ufficiali tutti con cui ha parlato, hanno molte parole di lode pel coraggio
e il valore del caro Mario. In quanto al resto, nessuno sa niente di niente.
Io però ho parlato con un soldato, che non conosco, ma che
ho avuto occasione d’incontrare perché andava in licenza, e
questo mi ha detto, molto vagamente però, che ben si è ricordato Mario, in quei terribili momenti, dei genitori, ed io credo che
appunto per trascuratezza di chi l’assistette, non sono pervenute fino a loro le sue ultime parole.
Dev.mo
Renato Turriziani
Conoscevo troppo bene mio figlio, l’avevo studito per 22 anni con tanto
amore e con tanto interesse, e perciò non ho dubitato neppure un momento che il pensiero di Mario, appena rimasto ferito, non sia voluto subito a
suo padre e sua madre; sono certo che questo pensiero non lo ha più abbandonato fino al momento che è spirato, come ho saputo più tardi dai rapporti comunicativi del suo Colonnello. Dirò anzi che questo pensiero dei
suoi genitori, dai quali si sapeva teneramente amato, lo ha certamente sostenuto in quei suoi ultimi e dolorosi momento; questo pensieri dei suoi cari, di far cosa che potesse ricevere il loro plauso, che potesse (onorare il loro nome, sono sicuro che ha contribuito potentemente, a dare a quel ragazzo la forza di resistere al dolore fisico delle erite, per morire a 22 anni, senza rimpiangere la vita. Se la sua mente si volgeva a noi, se il suo cuore batteva per noi, come avrebbe potuto il suo labbro non pronunziarei nostri nomi?! Da principio non deve aver creduto che le sue ferite potessero essere
mortali ed Egli che, per non spaventarci, ci aveva abilmente nascosti, i pericoli corsi al bombardamento di Ancona, deve aver subito pensato in che
modo avrebbe potuto attenuare la triste verità per comunicarcela; poi, dopo l’amputazione dei piedi deve, in cuor suo, avere desiderata la morte, de42: Eppure mio figlio era buono e generoso con il suo attendente!
ve tacitamente averla invocata; e, se questa non è arrivata improvvisa, le
sue ultime parole, il suo ultimo saluto è stato certamente per noi. Soltanto
che, sfortunato anche in questo, povero figliuolo, chi lo ha visto spirare invece di trasmettere al padre le ultime parole di un morente, non ebbe che
un pensiero… Quello di far sparire il suo portafoglio!… Con tutto ciò continuo ancora a fare ricerche per conoscere particolareggiarmente le ultime
ore del figlio mio, ma purtroppo comincio a perdere la speranza di poter ottenere ulteriori notizie.
Il Sottotenente Raul di Luzenberg con tre sue cartoline ed una lettera in
data del 7, 10 e 13 Gennaio, mi rendeva conto dei progressi che faceva la lavorazione della cassa di zinco e del pilastrino, e nello stesso tempo mi diceva
le diffocoltà che aveva dovuto superare per fare eseguire quei lavori in una
piccola città di provincia, divenuta per la guerra, centro di rifornimento di un
settore, di un esercito, e dove perciò era difficile trovare il materiale e la mano d’opera. Nella lettera del 10 si scusava sé: - non aveva potuto ancora rendere il tributo d’affetto e d’ammirazione al caro compagno ecc.
Finalmente altra lettera in data 9 Febbraio mi da la notizia che cassa e pilastrino sono partiti la mattina del giorno 8 alla volta di Val Kamenka:
Sono stato dolente di non avere compiuto io stesso l’opera pietosa: ma, appena potrò avere un giorno di permesso qui all’ufficio, mi recherò a Kamenka ad osservare tutto per potergliene riferire, e, tempo permettendo, a fare
una fotografia, e a portare qualche fiore di campo al tumulo del valoroso e
buon compagno.
Mi annunzia poi la visita che avrei ricevuto a Roma del Colonnello Cajani, il quale, infatti, venne e mi disse di mio figlio, tante cose belle, tante cose
buone, che me ne fanno più che mai rimpiangere la perdita: mi disse che era
uno dei migliori ufficiali del Reggimento, e che se la fortuna lo avesse assistito lo avrei riabbracciato Capitano! Mi disse che stessi tranquillo poiché ormai
il mio Mario era chiuso nella sua cassa e la sua fossa era distinta da una pesante stele in pietra, con il suo nome, cognome e grado, murata in cemento.
La pietosa cerimonia ebbe luogo, infatti, il 10 Febbraio 1916 e qui sotto
ne riporto il verbale
Sezione Sanità T.S. VIII C.A.
Reparti Someggiati
____
N° 318 di Prot.
Kamenka 10 febbraio 1916
Il giorno 10 febbraio 1916 in Kamenka si è proceduto all’esumazione della salma del Sottotenente Moderni Sig. Mario deceduto il giorno 3 novembre 1915. La salma venne messa in una
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
cassa di zinco, riposta a sua volta in un’altra cassa di legno; e
di nuovo interrata nel cimitero di Kamenka.
Presenziavano alle predette operazioni i Sottotenenti Ufficiali.
Il Capitano medico Valente Dott. Gioacchino
Il Sottotenente del 93 Fanteria
Apreda Sig. Torquato
Il Comandante del Reparto
Valente
OGGETTO
Verbale di esumazione del
Sottotenente
Moderni Sig. Mario
Del 93 Reggimento Fanteria
Al Comando del
93 Reggimento Fanteria
Zona di Guerra
Da una lettera privata si è saputo poi che la primitiva cassa di legno nella quale fu messa la salma di mio figlio, non entrando nella cassa di zinco, la
si dovette aprire, togliere la salma e metterla direttamente nella cassa di zinco, che fu chiusa in altra cassa di legno. Nel fare questa operazione si potè riconoscere la salma di mio figlio, facilmente riconoscibile dal caratteristico segno dell’amputazione dei piedi, e constatare che malgrado fosse sepolto già
da tre mesi, la salma trovavasi ancora in buonissime condizioni. Avrei potuto ancora rivederlo 43!
Debbo al cuore buono ed affettuoso del Colonnello Bonifazio Cajani la sistemazione della salma e della tomba provvisoria del mio adorato figliuolo;
nell’impossibilità in cui fui messo di agire direttamente, di compiere un sacrosanto e pietoso dovere verso la mia creatura, il suo Colonnello, ammirato
dal suo valore, commosso dal mio dolore, ha fatto le mie veci, e noi, mia moglie ed io, gliene serberemo gratitudine per tutto il resto della nostra vita.
Tu eri la nostra giovinezza, il nostro avvenire, giovinezza ed avvenire troncati per sempre! Tu eri il nostro raggio di sole che illuminavi, riscaldavi, ed
allietavi la nostra vita: il raggio di sole si è spento e noi brancolliamo nelle tenebre con il freddo della morte nelle ossa!… Intanto Tu nella boscosa e silenziosa Val Kamenka attendi, figlio mio che mamma e papà vengano a prenderti per ricondurti alla tua Roma, che non vedrai più! Attendi che verranno,
appena lo potranno: non vedrai più la tua Roma, ma le tue sante reliquie saranno esposte nella tomba di famiglia, dove noi ti raggiungeremo presto e dove la rabbia di barbari conquistatori non potrà pù separarci. Là nella Val Kamenka, davanti al campo trincerato di Tolmino, ancora inviolato, tu valoroso figlio di Roma, assieme agli eroici tuoi compagni, fa buona guardia in que43: Da fotografie della tomba di mio figlio pervenutemi in settembre risulta che il pilastrino in pietra non è arrivato a destinazione, e la tomba è distinta soltanto dalla primitiva croce sulla quale però si legge chiaramente, nome, cognome e grado dell’estinto. Nel primo anniversario della sua morte, in seguito alla constatazione che la stele da me ordinata era stata spezzata nel
trasportarla da Cividale a Kamenka, il comando del 93 Reggimento fece sostituire la croce di legno con una semplice ma graziosa lapide in cemento armato.
sto supremo momento in cui, per la potente offensiva austriaca nel Trentino,
la Patria è più che mai in pericolo. Mentre il mio cuore di padre, di soldato,
di patriota, e trepidante per l’avvenire della Patria, per la riconquista della
tua salma, tu sorgi dalla tua fossa gloriosa assieme con i tuoi eroici compagni, e che le vostre ombre insanguinate e minacciose, atterrendo il barbaro
nemico, concorrano alla vittoria delle armi italiane.
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La doppia dedica del Col.
Pompeo Moderni al figlio
Mario nel libro “I Romani
del 1848=49”
CAPITOLO VII
CONDOGLIANZE
D
al numero grande di telegrammi, lettere e biglietti di condoglianza, che
mi pervennero per la bella ed eroica morte del mio Mario, ho voluto riunire qui quelle soltanto che, o per la posizione ufficiale della persona che mi
indirizza le condoglianze, o pechè assieme alle medesime vi è espresso un giudizio sulla bontà, sulla gentilezza, sul dolore di mio figlio, da persone che lo
conobbero intimamente, documentando in certo modo la descrizione che io
ho fatto di Lui, e mostrando che il mio cuore non ha avuto bisogno di dettarmi esagerazioni di nessun genere, nel descrivere delle belle doti, di cui la
natura lo aveva fornito, e che io con una morosa e rigorosa disciplina avevo
coltivato.
Assieme alle lettere di condoglianza ve ne sono altre di ringraziamento per
il mio volume storico “I Romani” da me regalato agli invitati il giorno che mi
fu fatta la consegna della medaglia al valore concessa a mio figlio. Perché il
lettore possa ben comprendere queste lettere di ringraziamento, accennerò
che questo libro pubblicato nel 1911, per la ricorrenza del cinquantesimo anniversario della proclamazione di Roma a capitale d’Italia, fu dedicato al mio
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Mario con le seguenti parole:
Perché il ricordo
Delle sventure della Patria
Delle lotte sostenute e dal sangue versato
Per la sua unità ed indipendenza
Gli facciano amare
Sopra ogni altra cosa
La Patria e la Libertà
Questo libro
A mio figlio
Dedico
Dopo la sua morte alle copie ancora invendute, immediatamente sotto alla
dedica e facendo seguito alla medesima, feci aggiungere questa epigrafe.
E per la Patria e la Libertà
Mario Moderni
Sottotenente di Fanteria di Milizia Territoriale
(a sua domanda inviato al fronte ed assegnato al 93 Reggimento)
Moriva da eroe il 3 novembre 1915
Meritandosi di motu proprio dal Re
La medaglia d’argento al valor militare.
“Così esso rispondeva
alla dedica del padre suo”
Ministero della Guerra
Il Sottosegretario di Stato
Roma, 15 novembre 1915
Egregio Colonnello
La gloriosa morte del suo unico figlio Mario, Sottotenente di
M.T., avvenuta sul campo dell’onore, se è profonda ragione di orgoglio per lei come italiano e come soldato, non può che riuscire
dolorosissima al suo cuore di padre.
Mi associo con animo commosso al suo dolore ed a quello della Sua gentile Signora colpita negli affetti più cari.
Dev.mo Suo
Vittorio Elia
Dal Ministro Barzilai mi pervenne il seguente telegramma:
Roma, 19 novembre 1915
Colonnello Pompeo Moderni
Via Conte Verde n 50
Condoglianze vivissime per la gloriosa sventura che li colpisce.
Salvatore Barzilai
Dai Cappellacci di Iglesias, dei quali parla mio figlio nel testamento, nepoti
di Luigi Cappellacci, fratello uterino di mio padre, condannato a 15 anni di prigione per cospirazione dal restaurato Governo Pontificio dopo il 1849, pena
commutata più tardi nell’esilio perpetuo, e morto di colera in Iglesias, fra le mie
braccia, nel 1867, mentre Garibaldi si batteva a Mentana, mi pervennero il telegramma e le lettere che seguono:
Pompeo Moderni – Conte Verde 50 – Roma
Iglesias, 19 novembre 1915
Con voi nell’immane dolore, con voi nella grande gloria.
Marietta e Peppino Cappellacci
Iglesias, 20 novembre 1915
Carissimi
Abbiamo ricevuto la partecipazione di morte sul campo dell’onore del vostro beneamato Mario con quanta sorpresa e dolore tu puoi immaginare.
Egli è morto, poveretto, nel fiore degli anni da grande, servendo la Patria. Figlio di prode non poteva che morire da prode.
Vi sia questo di conforto, a te e alla povera Mamma, come pure il
sapere che noi pur da lontano prendiamo viva parte al vostro dolore.
Vorrei scriverti a lungo, Pompeo, e dirti quanto il mio cuore
sente, ma la penna in mie mani non è capace di tanto e non posso dire altro che: sento il vostro dolore e piango con voi.
Una stretta di mano e un abbraccio dal vostro sempre riconoscente
Peppino
Iglesias, 20 novembre 1915
Carissimo Pompeo
La morte di tuo figlio ha prodotto nell’animo di tutti noi
grande dolore.
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
Il mio augurio, le mie preghiere, non sono valse a fermare
il ferro e il piombo che l’ha colpito, il suo rantolo è giunto a
noi, e si ripercuote nel nostro cuore, suscitando largo compianto e nuovo per… l’odiato nemico.
Le nobili parole che compongono la partecipazione di
morte, mostrano tutto il cordoglio vostro, e tutta la gloria che
oggi aleggia sulla tomba dell’eroe.
Il parente che noi non abbiamo avuto la fortuna di conoscere 44, oggi si mostra ai nostri occhi di una beltà sublime, irradiato di luce viva, e si svela degno discendente di una famiglia di prodi.
Uniscono le loro alle mie condoglianze il mio Felicetto, che
è sotto il fuoco nemico, il mio Oscar, che partirà fra giorni soldato, a prestare la sua opera per l’onore e la grandezza d’Italia. E tutti vanno verso lo stesso destino, e tutti stringono un
arme per la grande rivendicazione, e tutti seguono il cammino luminoso dei nostri padri, e la giovinezza Italica arde sulla pirra che fuma sulla terra e sul mare.
E’ vanto vostro, cugini carissimi, l’aver avuto un tal figlio;
sia a voi di conforto, il pensiero ch’Egli sarà vendicato e che
il suo nome sarà scritto a caratteri indelebili, sulle pagine de
la nostra storia.
Con grande affetto vostra
Marietta Cappellacci ved. Rodriguez
Dal fronte, 12 dicembre 1915
Illustre e Carissimo Zio
Non posso dirle e tantomeno descriverla, quale tristezza e
quale angoscia mortale arrecò all’animo mio, la notizia dell’irreparabile perdita di quell’anima buona, di Colui che per la Patria
sua, abbandonò volontariamente tutti gli agi della vita brillante,
di quel giovane Eroe che indubbiamente era Mario Moderni.
Quanto nobile e generoso sangue si sparge nel Tuo cammino verso la gloria, o Italia!
L’immane guerra assorbì anche l’unico figlio di Colui che visse unicamente per la grandezza della Patria sua!
Troppo misera cosa è la mia umile parola, perché possa menomamente alleviare il Suo immenso dolore; son certo però, che di
gran conforto Le sarà il pensiero che il Suo Mario, ucciso dal nostro aborrito nemico, glorifica e santifica maggiormente questa
guerra che darà la liberazione a tanti fratelli nostri, che da secoli soffrono più che la morte.
Quell’illustre uomo che è Pompeo Moderni, avrà la forza d’a44: Suo fratello, Peppino Cappellacci lo conosceva.
nimo di consolare quella vera matrona romana che è la Sua Consorte, ne sono certo.
Alle più vive e sincere condoglianze unisco i più rispettosi ed
affettuosi saluti.
Dev.mo Nepote
Felicetto Rodriguez
Soldato volontario 5 Reggimento Genio (Minatori) 45
Vengono ora le lettere dei pochi amici di mio figlio: la prima è del fratello
della sua fidanzata, Tenente di Complemento, ora Capitano d’Artiglieria, quello stesso che partendo per il fronte, ricevette dall’Avvocato Natale, suo compagno d’ufficio, la notizia sulla morte di Mario, ed incaricò sua moglie di comunicarcela. La seconda è del compagno di scuola, intimo ed indivisibile amico di mio figlio.
Piacenza lì 18 novembre 1915
Colonnello Carissimo
Ho avuto solo stamane una lettera di Tersilia, dalla quale ho
appreso che Ella è venuta subito a conoscenza dell’immane sciagura che ha colpito la sua famiglia.
Io vengo, non per colpa mia in ritardo, ad esprimerle i sensi
delle più sentite condoglianze.
La mala sorte toccata al povero Mario, è un fatto di irreparabile gravità. Immagino quindi tutto lo strazio dell’animo suo, di
padre affettuosissimo, che sull’unico figlio tutto sperava!
Mi auguro però che, in un tempo relativamente breve, Ella
possa trovare inizio alla necessaria rassegnazione, ben comprendendo che la grande sventura toccata al povero Mario è stata l’eroica fine di una bella esistenza, allevata e cresciuta nella conoscenza e nell’osservanza dei più puri e sacri sentimenti verso la famiglia e la Patria, alla quale Mario ha dato in olocausto la sua
giovine vita.
Sulla tomba dell’eroe, Ella glorioso soldato della Prima Italia,
noi non degeneri soldati dell’Italia nuova, oltre alle lagrime, spargiamo quindi ghirlande d’alloro.
Al glorioso caduto l’ammirazione e il rimpianto di quanti hanno potuto conoscere l’animo suo mite, gentile e infinitamente buono, a Lei un nuovo augurio di rassegnazione.
Estendo le condoglianze alla sua signora, a Lei mando un bacio ed un abbraccio affettuosissimo.
Suo aff.mo Mario Mossolin
Frosinone 16 novembre 1915
45: Divenuto Tenente è rimasto gravemente ferito sul Monte Grappa (Grande mutilato di Guerra).
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Stimatissimo Sig. Colonnello
Uno schianto al cuore mi ha prodotto la perdita del loro Mario, l’amico che amavo come un fratello.
Le parole capaci ad alleviare alquanto il dolore in questo momento terribile anche per me, mi mancano, e solo posso ripeterne
le sue, con le quali ha partecipato agli amici l’infausta novella,
elevate ai più alti sentimenti d’Italianità.
Il nome di Mario rimarrà indelebile nelle menti di chi ebbe a
conoscerlo, per le sue buone qualità d’animo e di mente e nella
storia rimarrà immortale per il sacrifizio della propria vita combattendo per un’Italia libera e grande.
Mi anima solo il pensare che fra giorni indosserò la divisa e sarò fiero di trovarmi presto alla frontiera a combattere con tutta
l’energia che mi susciterà il ricordo di un essere come quello dell’eroico amico, il dolore perenne della sua perdita mi darà la forza e il coraggio di vendicarlo.
I miei genitori che ebbero a conoscere Mario attraverso le lettere che mi inviava, traboccanti d’affetto, sono rimasti anch’essi
infranti dal dolore, e per mio mezzo inviano a lei e alla sua Signora le loro condoglianze.
Queste mie povere parole e l’immenso orgoglio di aver dato il
loro tributo alla Patria, valgano ad alleviare alquanto il dolore
che li tormenta.
Con i più rispettosi saluti, anche da parte dei miei, mi credano sempre
Aff.mo
Enrico Morganti
Garda (Verona), 21 novembre 1915
Ill.mo Sig. Colonnello
Solo oggi, da una lettera di mia moglie, so che il Suo caro Mario, è caduto al fronte il 2 novembre p.p. e che è caduto come l’alta e squisita educazione da Ella ricevuta, inspirata tutta al suo
sentito amor di Patria, gli aveva insegnato a vivere e a morire.
Certo che il Suo cuore paterno è stato dolorosamente colpito, ed io su ciò mi permette di dire a Lei: coraggio! Conoscendo
che nel suo cuore più forte dell’amore paterno palpita sublime
l’amor di Patria.
Povero e caro Mario!
Essendo io onorato della sua amicizia ed essendo anche un
poco amico del Suo defunto figliuolo, mi permetta, Sig. Colonnello, di essere nello stesso tempo dispiacente ed orgoglioso della caduta di Mario, e mi permetto ancora di esternarle, la speranza di
potere un giorno vendicare il suo caro ragazzo, ucciso dal piombo austriaco, quando più gli sorrideva la vita!
A Lei ed Alla Sig.ra Rosa i miei più cari sentimenti di stima e
di affetto
Dev.mo
Franco Antonio Ottaviani
Tenente 21 Cavalleria, 5 Squadrone
Selva di Cadore, 4 dicembre 1915
Egregio Colonnello
Forse la presente Le giunge in ritardo, voglio augurarmi che
l’accetterà ugualmente avendo or ora la luttuosa nuova.
Le faccio le mie più vive condoglianze per la morte eroica e
gloriosa di Mario al quale ero legato di un affetto fraterno.
Le mie povere parole non sono certo capaci di lenire il suo dolore, ma ben conoscendo il suo forte animo ispirato ai più nobili
ideali di Patriottismo, immagino che saprà ben affrontare tale dolore.
Mai potrò cancellare la bella figura dell’eroe, mai potrò togliere dal mio animo i discorsi, le passeggiate, i leciti divertimenti presi in un’ottima compagnia.
Povero Mario! Mi compatisca; nella viva emozione che provo,
non riesco a trovare la parola, la frase necessaria, ma Lei ben
comprende ciò che vorrei dire, quindi mi scuserà.
Saluti affettuosi alla sua signora, Lei ne riceva altrettanti e me
creda
Dev.mo Virgilio Budini
Soldato Sezione Sanità, 17° Divisione
Zona di Guerra, 20 dicembre 1915
Egregio Sig. Moderni
Avevo visto tempo fa sull’Illustrazione Italiana, la fotografia
del suo povero figliuolo e sperando ancora in un errore, chiesi ai
miei che mi dicessero la verità e mi mandassero dei particolari.
Purtroppo la notizia era vera ed Ella può immaginare quale penosa impressione abbia prodotto in me e quanta parte prendo al
dolore suo e della sua signora.
Le sia solo di lieve conforto il pensiero che il loro amatissimo
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
figliuolo, e mio caro amico, è caduto da prode, combattendo sulla terra per la quale si sacrificano oggi tante giovani vite e tanti
entusiasmi.
Da tutti questi caduti noi apprendiamo ancora meglio come si
muore difronte al nemico, che ci contesta il terreno palmo a palmo, quale sforzo grandissimo dobbiamo ancora esercitare, e da
ciò ci viene nuova forza per vendicare gli amici, i compagni morti, e compiere l’opera da loro iniziata con il sangue loro e con le
lagrime dei genitori. Ed io mi auguro di poter presto compiere
questa vendetta, e se anch’io dovrò lasciare la vita in queste trincee, mi sia concesso di morire combattendo sino all’ultimo, come
il suo Mario, sulla cui tomba La prego di volere porre un fiore anche a nome di un suo compagno d’arme.
Le sarei grato, Egregio Signor Moderni, se Ella volesse presentare le mie più sincere condoglianze alla sua gentile Signora ed
accettare da me ancora una parola di conforto se pur è possibile
confortare un padre per la morte del figliuolo.
Dev.mo Ettore Pettinati
Sottotenente di Fanteria 46
Bari, 28 dicembre 1915
Gentilissimo Sig. Pompeo
Con ritardo, ma con grande dolore, ho appreso la sventura
toccatale.
L’affetto e l’amicizia sincera che mi legavano al baldo giovine,
mi consentono di potere eguagliare al Suo il mio cordoglio.
Con la di Lui dipartita Ella ha perduto un figlio, io un amico!
Ma il suo sangue ha bagnato quelle arze zolle da Dio consacrate alla nostra Patria e che un nemico con viltà ci tolse. Quelle
terre benedette dai nostri fratelli, appartengono oggi e per sempre
alla nostra gran Madre comune, che scriverà a caratteri d’oro il
nome dei Prodi che seppero conquistrle. Suo figlio è vendicato! La
storia lo immortalerà! Reprimiamo le lagrime e ci sia di conforto
il pensiero che Egli non visse invano!
Le ragioni di servizio non me lo avessero vietato, sarei venuto a
Roma in ricorrenza delle feste Natalizie, e con Lei avrei potuto rievocare le doti di animo, d’intelletto e di rettitudine del nostro Mario, parlare tanto di Lui, e del Suo valore di degno figlio latino!
Stante il veto, mi è di sollievo con la presente missiva significarle i miei sensi di dolore e di ammirazione ad un tempo, per il contributo che Ella ha dato alla maggiore grandezza d’Italia, offrendo in olocausto la giovine vita dell’amato Mario.
46: Rimasto prigioniero l’8 Giugno 1916, combattendo nel Trentino.
Mi lusingo che tanto Lei, quanto la Signora Rosa godevano ottima salute, ed al piacere di presto venirla ad ossequiare Le invio
i sensi della più alta stima, estensibili alla sua Signora.
Con ossequi, mi creda di Lei
Aff.mo Bellucci Dante
Ufficio del Genio Civile
per l’Acquedotto Pugliese
Seguono adesso alcune lettere e biglietti di condoglianze dei
suoi professori.
Il Prof. Avv. Giacomo De Juliis Preside dell’Istituto Tecnico.
Pareggiato di Velletri 47 memore delle elette doti di mente e di cuore del caro giovane Mario Moderni, ammirandone l’eroismo – onde sacrificò la vita, fulgida di nobile avvenire sull’ara della grandezza della Patria – partecipa col cuore angosciato al dolore ed
all’orgoglio dei desolati genitori!
Roma, 22 novembre 1915
Illustre e caro Colonnello
Leggo nel Giornale d’Italia di questa sera che Mario, il mio
amato Mario, ha lasciato la giovane esistenza sua sul campo di
battaglia contro gli Austriaci. E’ morto da prode, ha fatto la bella morte che ogni animo palpitante d’amor patrio deve invidiare,
ma io piango lo stesso, piango il giovane amico dall’occhio mite e
dal sentimento generoso che non vedrò più.
Lo vidi nella sua bella divisa alla vigilia della sua partenza; mi
disse che andava ad Ancona e l’abbracciai commosso e lo seguii
con lo sguardo a lungo per la via: era fiero baldo come Suo padre!
Poi fui chiamato anch’io e non seppi più nulla di Lui; ma lo
pensavo spesso e lo rivedevo sereno e fiero in ogni momento.
Ora ha dato la vita per la Patria! – Mi inorgoglisce questo fatto; ma piango lo stesso.
Penso al Suo cuore di padre tenerissimo, caro Colonnello, e
contemporaneamente al suo alto sentire di Patriota. Penso alla
tragedia che si svolge nel suo animo nobilissimo e le lacrime le
sento ancor più calde.
Avrò perennemente vivo nel pensiero e nella parte migliore del
cuore il ricordo del suo Mario! Che il suo sangue generoso dato in
olocausto alla Grande Italia non sia versato invano!
Devotissimo Aff.mo Fausto Vagnetti
Professore Istituto Sup. di Belle Arti
47: Fu professore di lettere di mio figlio al Ginnasio di Velletri, durante i pochi mesi che Mario rimase in Collegio.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Roma, 29 gennaio 1916
Illustre e caro Colonnello
Il Presidente dell’Istituto Superiore di Belle Arti mi ha invitato alla consegna della medaglia d’argento al valore militare decretatat dal Re in onore dell’eroico amatissimo Mario, degno figlio suo, illustre Colonnello, che fece olocausto della vita alla Patria, per una più alta Umanità.
Con entusiasmo commosso verrei a rendere il mio modesto omaggio alla bella memoria dell’amato discepolo e amico (omaggio troppo piccolo per la eroica gesta da Lui compiuta) se imprescindibili doveri di servizio militare non me lo
impedissero.
La prego però di considerarmi presente, poiché domani, nell’ora in cui Ella riceverà il segno d’onore decretato per il suo figlio
(e nessuna mano più degna potrrebbe stendersi verso quel simbolo di gloria) il mio pensiero vibrerà più intensamente del ricordo
di Mario e dell’affetto che a Lui mi legava.
A Lei, illustre e caro Colonnello, i sensi della mia alta stima
e della mia devozione affettuosa; alla sua ottima signora i miei
ossequi migliori
Dev.mo Aff.mo Fausto Vagnetti
Prof. Istituto Sup. di Belle Arti
Roma, 16 novembre 1915
Stimatissimo Sig. Colonnello
Prendo viva parte al suo dolore ed al suo orgoglio per la morte gloriosa del suo caro figliuolo e mio discepolo. Ella dice bene
che Egli sarà vendicato dalla vittoria delle nostre armi. Io lo ricordo buono e gentile e me lo immagino valoroso soldato porgere il suo petto davnti al nemico per il bene della sua Patria. Io ho
fede che Ella ritoverà il suo Mario, e come ora, anche allora sarà
orgoglioso di Lui.
Abbia la bontà di comunicare anche alla Sua gentile signora
questi miei sentimenti.
Con ossequio
Dev.mo Amedeo Autelli
Prof. Di Lingua Latina
Roma, 19 dicembre 1915
Carissimo Moderni
Ho letto la splendida motivazione per cui viene conferita al tuo
eroico Mario, la medaglia al valore.
L’anima di questo figliuolo vi si appalesa veramente grande: io
la direi = spartana =
Attraverso tuttora il tuo acerbo dolore, il tuo cuore di padre,
di patriota e di romano deve pure esultare, perché l’atto compiuto dal tuo grande figliuolo, donando la sua giovine vita alla nostra grande Idea, ti ritorna ad usura forse, tutto quanto di bello,
di grande, di civico tu sapesti, e coll’esempio, e con la parola infondere in Lui.
Mi auguro che la coscienza di ciò, possa porre qualche limite
all’ambascia che ti accorra.
Sei il padre di un eroe; devi giustamente vivere a lungo, saldo
nella comune fede e tranquillo, per il culto di Esso!
Trovo quindi giustissimo che la iscrizione cui tu alludi 48, venga modificata nel senso accennatomi e senza affatto che, perciò,
tu abbia ingrandito il merito dell’opera di Mario, perché non saprei cosa potrebbe esservi di più eroico, della grande serenità da
Esso dimostrata nelle ore solenni del trapasso.
Ti stringo affettuosamente la mano.
Tuo
Giuseppe Guastalla
Professore Istituto Sup. di Belle Arti
Roma, 30 gennaio 1916
Illustrissimo Sig. Moderni
Mi unisco con l’animo e con il pensiero alla famiglia dell’eroico giovane allievo ed ai miei colleghi che questa mattina assistono alla commovente cerimonia. Dolente di essere impedito di presenziarvi, prego vivamente di essere scusato.
Con ossequi
Dev.mo
Modesto Coromaldi
Prof. Istituto Sup. di belle Arti
Roma, 19 febbraio 1916
Gentilissimo Signor Colonnello Pompeo Moderni
La ringrazio di cuore per aver pensato, molto gentilmente, di
inviarmi il suo bel libro = I Romani del 1848-49 : = conserverò così un ricordo del compianto suo Mario, al quale ero molto affezionato per il suo carattere buono e generoso.
Io mi auguro che il suo libro, che indubbiamente ha contri48: Si riferisce alla dicitura di una epigrafe, che deve accompagnare il medaglione in bronzo di mio figlio, che dovrà essere collocato su la tomba di famiglia.
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
buito, insieme all’educazione da Lei impartita a suo figlio, a plasmare un’anima eroica, possa essere letto da molti giovani italiani: sarà bene per l’educazione dell’animo loro e per i destini della nostra Patria.
Gradisca i miei più rispettosi saluti.
Dev.mo
Arch. Arnaldo Foschini
Prof. Istituto Sup. di Belle Arti
Roma, 23 febbraio 1916
Ill.mo Signore
La ringrazio commosso, per l’offerta gentile del Suo volume interessante e prezioso, col quale Ella seppe ricordarmi nella Sua
ora di supremo dolore.
A tale dolore intensamente e profondamente condiviso da me
che onorandomi di essere stato del diletto Suo figlio insegnante,
potei apprezzare le alte virtù morali, sia conforto e vanto la fine
gloriosa dell’Estinto, che ispirandosi a nobili insegnamenti del
Padre suo e portando alto il suo nome, segnò nella storia una pagina indelebile di sacrificio e di eroismo.
Al giovane artista e soldato che della sua giovinezza fece sereno olocausto alla Patria: ammirazione e gloria!!! Al Padre eroico,
che al nobile sacrificio seppe educare il cuore, la riconoscenza di
ogni cuore italiano.
Con deferenza grande della S. V. Ill. ma
Giovanni Costantini
Prof. Istituto Sup. di Belle Arti
Prof. Cav. Uff. Tobia Paoloni49
del R. Istituto Superiore di Belle Arti avendo ritrovato due disegni del compianto suo figlio, ha creduto portarli a Lei facendo
ora le sentite condoglianze. Una sua malattia è stata causa di
tanto ritardo e spera verrà scusato. Ha ricevuto il suo bel libro e
la ringrazia. Si faccia coraggio sig. Colonnello e tanti ossequi. –
Il soprascritto ricorda spesso le tante virtù dell’estinto.
Roma, 5 giugno 191650
Il Cav. Prof. Forchielli
Direttore delle Scuole Comunali di Roma
Compiange la giovane vita perduta, ma sia di conforto ai due
49: Questo biglietto da visita mi fu lasciato non avendomi trovato in casa.
50: Questo biglietto da visita del Direttore delle scuole dove Mario fece le Elementari, dimostra che non
era stato dimenticato neppur là.
derelitti genitori, il sapere che essa è andata ad accrescere la numerosa schiera di coloro, che imprecheranno sempre contro i nostri secolari assassini.
Seguono ora due lettere dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma ed altre
di alcune associazioni.
Roma, 7 dicembre 1915
Ill.mo Sig. Cav. Colonnello Pompeo Moderni
La Sua nobilissima lettera, documento umano di pietà paterna, mi ha recato una commozione profonda.
Gloria al figlio suo, degno cittadino d’Italia, e all’Uomo stoico
che, con fermezza romana accolse lietamente il martirio che la
Patria gli chiese.
L’Istituto si onora altamente di avere avuto fra i suoi allievi un
tale giovane, che ha dedicato così serenamente la sua vita, per le
rivendicazioni giuste e sante del nostro Paese!
Ed io, interpretando il pensiero di tutti i miei colleghi, accolgo con plauso reverente e con animo grato il tributo d’affetto
ch’Ella consacra alla memoria di Lui nel costituire un lascito che
dia modo ai giovani intelligenti e bisognosi di seguire gli studi
che Egli con tanto amore prediligeva. Quest’atto lodevole, esemplare, di V. S. merita tutto il nostro fervido concorso ed io mi metto sin d’ora a disposizione perchè sia raggiunto il fine della sua
nobile iniziativa.
Ben volentieri aderisco, poi, al suo desiderio di accordarle la
visione dei lavori compiuti dal suo Mario nelle nostre scuole, i
quali resteranno, in seguito, all’Istituto gelosamente conservati
come ricordo di Chi all’amore per l’Arte seppe congiungere l’amore per la Patria.
Voglia Ill.mo Sig. Colonnello, accogliere le nostre più vive condoglianze e presentarle a nome dell’Istituto anche alla sua degnissima consorte.
Ossequi particolari
Il Presidente dell’Istituto Superiore di Belle Arti
Ettore Ferrari
Roma, 31 gennaio 1916
Ill.mo Sig. Colonnello Cav. Pompeo Moderni
Il libro oltremodo gradito, di cui Ella volle far dono all’Istitu-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
to su = I Romani del 1848-49, = dedicato al suo figliuolo, sarà
letto con particolare interesse dai giovani e avrà un’influenza benefica perché, scritto per coltivarne e tenerne vivo il sentimento
patrio col racconto del dramma storico che palpitava i quell’epoca a Roma, per una misteriosa concatenazione di fatti diventa l’epilogo commovente di un dramma familiare, conseguenza immediata dell’applicazione degli stessi principii educativi che dal libro emanano.
La esposizione nitida, viva di quelle pagine che non sono l’arido racconto storico, ma il momento storico vissuto nei ricordi dei
superstiti di quelle epiche giornate del risorgimento italiano, quelle pagine hanno la freschezza dell’oggi e potranno avere l’efficacia esemplare per un inesorabile ricordo storico, ma più vasto e
terribile! Ricorso storico di oscurantismo e prepotenza che incombe non più sull’Italia sola, ma sull’Europa tutta e che minaccia la
stessa civiltà e i diritti alla libertà acquisiti con il martirio delle
più nobili individualità.
Io nutro fiducia che quei ricordi lontani, riconsacrati oggi dall’eroismo di suo figlio Mario – nostro allievo – desteranno un eco
gagliarda nell’animo dei giovani a cui la nazione domanda di
concorrere con tutte le energie sane vigorose per fiaccare la tracotanza di imperiali che credono di cooperare con tanta pertinacia ad un anacronismo storico.
Il libro verrà letto qui e mi auguro che i nostri alunni, pur non
arrivando tutti alla sublimazione dell’eroismo attraverso la morte possano rendere onore alla Patria col tributo della loro volontà, della loro intelligenza e con la forza del loro braccio.
Gradisca i più vivi ringraziamenti per l’opera che sarà prezioso acquisto per la Biblioteca dell’Istituto.
Il Presidente dell’Istituto Sup. di Belle Arti
Ettore Ferrari
Addì XV-XI- MMDCLXIX di Roma
(lì 15 novembre 1915 dell’era volgare)
Illustrissimo Signore
Sig. Cav. Pompeo Moderni
Colonnello nella riserva
A. V. S. Ill.mo socio fondatore dell’Unione dei Popoli Latini
membro del Primo Decemvirato e Console oggi della Legione Italica alla Signora Rosina Gordini della S. V. gentilissima e degna
consorte, pure socia fondatrice e componente il Decemvirato della Sessione III di Roma, giungano di sollievo e gradite in questo
momento di sommo dolore le condoglianze della Latina Gens e
mie personali per l’avvenuta immatura morte sul campo dell’onore e della gloria del Loro unigenito Mario, Socio fondatore della
nostra Istituzione.
Il triste annunzio ha riempito di amarezza i cuori di tutti noi,
che nei coniugi Moderni ammiravano i genitori modello, i genitori romanamente forti, i genitori latinamente grandi, i quali
per Roma eterna, per la Patria diletta, per la latinità invitta,
hanno saputo crescere ed educare alle più nobili virtù civili l’unico essere, che doveva un giorno coronare di santo orgoglio la
Loro tarda età.
Mario Moderni è morto virilmente, sempre fiori di nostra terra,
di festose e trionfanti si posino le vecchie aquile romane sull’onorato sacra avello del giovane Eroe, ed ai forti genitori, così duramente provati dal dolore, vadano l’ammirazione, la gratitudine, la
solidarietà del Consolato, che ho l’onore di rappresentare.
Salute. Viva l’Italia.
Il Presidente
Della Legione Italica, Consolato di Roma, della Latina Gens
Giuseppe Leti
Roma, XXIX-I-191651
Ill.mo Sig. Presidente
Latina Gens, Legione Italica, Consolato di Roma.
Con vero dolore debbo ringraziare ad essere presente alla mesta ed insieme fiera cerimonia di domani in onore e in memoria di
un prode, perché costretto a letto da una bronchite.
Ai coniugi Moderni così duramente colpiti, doloranti e superbi insieme della disgrazia che li ha percossi, della gloria che su
loro ridonda, giunga commossa e reverente l’eco del rimpianto
della Latina Gens tutta, orgogliosa di avere avuto un tale Socio
Fondatore.
Voglia Ill.mo Presidente tenermi per scusato. Coll’ossequio più
profondo.
O. Pirelli
Segretario III Sezione Latina Gens, Consolato di Roma
Roma, 16 novembre 1915
Preg. mo Sig. Col. P. Moderni
Appresa la luttuosa notizia che ha colpito anche la Sua Famiglia, sentiamo vivo il dovere di esternarle, in nome nostro ed in
nome di tutti i componenti la Commissione rionale Esquilino, il
più profondo ed affettuoso compianto.
51: Lettera indirizzata al Presidente della Latina Gens e da Lui inviatami.
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
Però se il Suo buon cuore di Padre deve aver dolorosamente lagrimato, deve anche aver provato conforto per la gloriosa scomparsa di un Figlio che seppe così bene ereditare dal Padre suo le più
belle virtù militari = orgoglio ed esempio dell’amata Patria nostra.
Inchinandosi reverenti dinanzi al giovane Eroe, Le offriamo,
sig. Colonnello, i sensi della nostra più grande venerazione.
Il Presidente della Commissione Rionale
Dell’Associazione fra i Romani
Augusto Sterlini
Roma addì 12 gennaio 1916
Illustrissimo Sig. Colonnello Pompeo Moderni
Compio il grato dovere di ringraziare la Signoria Vostra Illustrissima per il dono qui sotto descritto, che Ella ha voluto gentilmente offrire a questa Biblioteca.
Moderni P. – I Romani del 1848-49
Esemplare prezioso per la maggiore Biblioteca Italiana, per la
sua storica aggiunta onde si rileva come gl’Italiani sappiano ancora romanamente operare e morire.
Il Direttore
Della Biblioteca Vittorio Emanuele
Domenico Gnoli
Lì 15 novembre 1915
Egregio e carissimo Commilitone
A nome della Società che ha appreso l’infausta notizia della
vostra gloriosa incontrata sul campo dell’onore del Vostro unico
discendente, mi affretto a porgervi le più vive e affettuose condoglianze, assicurandovi che tutti prendiamo gran parte al Vostro
dolore e ci conforta solo il sapere che un ramo d’alloro si è aggiunto al Vostro patriottico nome.
Gradite la manifestazione di questi nostri sentimenti e annoveratrici sempre fra i Vostri migliori amici.
Il Presidente
Della Società dei Reduci delle
Patrie Battaglie Giuseppe Garibaldi
Gustavo Uffreduzzi
Seguono da ultimo alcune lettere e biglietti di amici e conoscenti, ma ristretti
sempre a quelle persone che conoscevano mio figlio intimamente e da lungo
tempo, anzi la prima è di un vecchio amico di mia madre che ha veduto Mario
ancora in fasce, percui le loro parole hanno valore di testimonianza, per le belle qualità che adornavano il mio diletto figliuolo.
Roma, 13 novembre 1915
Egregio Sig. Ingegnere
Oggi rincasando ho sentito la terribile sciagura che l’ha colpita. Per quanto il pensiero che quello giovane e cara esistenza siasi spenta per la grandezza d’Italia, possa essere d’orgoglio, il dolore per l’immatura perdita non meno grande. Non ho parole di
conforto, ma Le assicuro che divido pienamente il suo grande dolore e ne sento tutta l’immensità. Accetti le mie più vive e sincere
condoglianze coi più sentiti e cordiali saluti anche alla sua gentile signora.
Dev. mo
Fausto Cristini
Roma, 13 novembre 1915
Carissimo Moderni
Passando oggi in Via del Boschetto ho veduto il portone di casa tua52 chiuso a lutto, ed ho immaginato quale ne fosse la ragione dopo che avevo saputo dal Capitano Pistolese ieri, che tu eri
stato a cercarmi qui in ufficio e gli avevi detto che tuo figlio era
stato gravemente ferito negli ultimi scontri.
Io non ho parole per esprimerti quanta parte io prenda al tuo
dolore, specialmente dopo che in questi ultimi giorni e a voce e per
iscritto mi avevi tante volte ripetuto quale immenso affetto tu riponessi in Lui ed in quale ansia ed in quale trepidazione tu vivessi per la sua vita.
Non cerco neanche parole di conforto perché capisco che riuscirebbero vane.
Avere un figlio così amante dei suoi genitori, così amato,
così generoso e tanto valoroso, dev’essere uno schianto perderlo nel fiore degli anni e mentre la vita si schiudeva appena a Lui, uno schianto tale che io posso appena lontanamente immaginarmi, non avendo avuto la gioia di essere padre.
Epperò non cerco parole di conforto.
Nel tuo dolore sentiti però orgoglioso di poter vantare che
tuo figlio è morto da eroe, ha dato la sua giovane esistenza, il
suo sangue per la liberazione della Patria da un giogo odiato, ammirata da quanti amano la libertà e l’indipendenza del
52: Casa di mia proprietà, non di mia abitazione.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
proprio paese; col suo sacrifizio ha accresciuto la lunga lista
degli eroi martiri del dovere, dei patrioti il cui nome non morrà mai, e rimarrà inciso dal sangue nella memoria e nel cuore degli Italiani riuniti alla fine in una sola, grande e gloriosa famiglia, con quello di tanti altri caduti per essa sul campo dell’onore.
Non ti dico altro, mentre con un abbraccio mi confermo.
Tuo Aff. mo Amico
Francesco Accattino53
Colonnello Commissario
Roma, 14 novembre 1915
Carissimi!
Quale schianto ha provato il mio cuore nel leggere la partecipazione della morte dell’ottimo Mario!
Nell’annunzio è detto: non preci, ne pianti… consentiteci
invece di piangerlo e ricordarlo con fede… e noi tutti abbiamo pianto, e la nostra maledizione giunga a chi è diretta.
A Voi, a Voi si che sono inutili le parole di conforto, sarebbe retorica, il dolore è troppo grande! Povero Mario non aveva conosciuto la vita!
Un abbraccio dei più affettuosi e le condoglianze le più
sentite e sincere
Aff.mo
Cav. Emilio De Simone 54
Ministero Pubblica Istruzione
Roma, 14 novembre 1915
Gentilissimi Signori Moderni,
Uno strano presentimento mi faceva temere che qualcosa
di sinistro sarebbe accaduto al povero Mario e mi teneva timorosa e mesta.
Purtroppo il presentimento fu seguito dalla sciagura!
Dal mio dolore arguisco l’immensità del vostro, perchè vi
e’ mancato l’oggetto di tutte le vostre premure, dei vostri affetti, e delle vostre speranze.
Vorrei farvi coraggio, ma come? Ancorchè sapessi trovare
termini sublimi di conforto sarebbero del tutto inefficaci.
Vi ammiro per il sentimento del legittimo orgoglio che vi
investe. Vi ammiro, ma non posso che deplorare le vittime
sacrificate da questa guerra.
53: Questo è quel mio vecchio amico che tanto si adoperò per sollecitare la nomina di Mario a Sottotenente di Milizia Territoriale, ma non riuscì ad ottenere l’assegnazione ad un Distretto dipendente dal Corpo d’Armata di Roma.
54: Anche questo mio amico ebbe poi la disgrazia, nel 1918, di perdere al fronte per tifo l’unico figlio maschio, di appena 18 anni!
Stringo con deferenza la mano a Lei, sig. Cavaliere, e bacio col più sentito affetto Rosa.
La Vostra
Vittoria Dini 55
Roma, 14 novembre 1915
Ill.mo Sig. Colonnello
Nell’inviarle le mie più sentite condoglianze per il grave
lutto Lei e la sua Signora sono stati colpiti non posso esimermi dall’esprimerle tutta la mia ammirazione per la bella condotta del suo Mario, frutto, senza dubbio, dei sani principi di
patriottismo a cui era stato educato.
Con i sensi della mia più profonda stima mi creda
Ragioniere Giuseppe Garrone 56
Roma, 15 novembre 1915
Caro Pompeo
Le parole sono parole ed io te le risparmio.
Sono padre anch’io, e ritengo che solo conforto, nell’irreparabile lutto che ti ha così fieramente colpito sia il sapere
che il tuo dolore e’ diviso dai tuoi amici, che ammirano, ancora una volta, l’Italiana educazione, abnegazione, fino al
sacrificio, che tu hai impartito a tuo figlio.
Sia gloria al tuo Mario, che il suo nome onorerà la redenzione delle terra ancora soggette ai barbari.
Una fiore sulla sua tomba, come tu ben dicesti, e che il suo
sacrificio sia d’esempio agli apostoli della redenzione delle terre italiane.
Coraggio, ed un abbraccio dal tuo vecchio amico.
Gustavo Uffredurzi
Ingegnere Capo R. Corpo del Genio Civile
Terracina, 15 novembre 1915
Gentilissimo Sig. Colonnello
In questo momento ricevo la sua partecipazione della perdita’ di Mario, e subito mi affretto a scriverle, per esprimere
le mie condoglianze veramente sincere.
A cosi’ grave lutto, sia di conforto, tanto a Lei che alla
55: Mia moglie trovavasi in casa di questa Signora, il giorno che il di lei marito portò la notizia della proclamata mobilitazione generale, la quale doveva strapparci per sempre dalle braccia il nostro Mario.
56: Nostro coinquilino e che perciò ha veduto crescere il nostro Mario fin dall’infanzia.
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CONDOGLIANZE
sua gentile Signora, il pensiero che il nome di Mario, rimarrà scritto nella Storia, per la fine gloriosa che Egli ha fatto.
Non e’ certo da tutti morire per la Patria, specie per una
causa cosi’ giusta come la nostra; e, dice bene la partecipazione qui sotto i miei occhi, che, debbono essere bandite le
preci inutili ed i pianti, di per se’ stessi sterili.
La fine di Mario sul campo dell’onore, è un’ammirazione
per gli amici e conoscenti; mia per Lei, costituisce certo un
giusto e un santo orgoglio, sapendo di aver avuto un figlio
che, con la vita, ha concorso alla lotta, contro un popolo barbaro, al fine di rendere l’Italia libera, più forte e temuta.
Io non posso che ammirare tal fine e mi associo al suo cordoglio, rinnovando le condoglianze, che prego rivolgere, a mio
nome, anche alla Signora Rosa.
Aff.mo
Ing. Romolo Viti
Terracina, 15 novembre 1915
Carissimo Moderni
Col più vivo cordoglio apprendo la morte del tuo diletto
Mario, caduto da forte sul Campo dell’onore. Egli ha voluto
cosi’ col sacrificio della sua giovine vita, degnamente rispondere a quell’alto sentimento di amor patrio, che tu sapesti
tanto bene stillargli nel cuore.
Gloria dunque a Lui ed a Voi genitori, che facendo tacere la voce della natura, ben a ragione, vi diceste orgogliosi della sua fine.
Se potessi fornirmi i particolari della sua morte, certo a te
noti, te ne sarei gratissimo. Intanto accetta da me e da mia
moglie le più sentite condoglianze che parteciperai alla tua
Signora; e con la speranza ed augurio che la morte del tuo
Mario, venga presto vendicata col trionfo delle armi Italiane
cordialmente ti stringo la mano.
Tanti rispetti alla tua Signora per parte anche di Elvira.
Aff.mo
Raffaele Fatigati
Tenente Colonnello nella Riserva
Terracina, li 15 novembre 1915
Caro Amico,
Non prima di oggi, e a mezzo della tua partecipazione, ho
appreso la gloriosa morte del tuo Mario.
Divido con te lo strazio e il dolore, ma divido con te anche
il legittimo orgoglio di morte cosi’ ambita.
Si, lauri e fiori sulla sua tomba veramente benedetta e memoria perenne del nome santificato dal più grande dei sacrifici!
Presento alla Signora Rosina il mio devoto e reverente saluto, e a te rinnovo, nella solennità del momento, i più cordiali sensi di amicizia.
Fraternamente
Aff.mo
Cav. Uff. Dott. Ernesto Venere
Medico - Chirurgo
Roma, 26 novembre 1915
Ill.mo Sig. Colonnello
Ricevo la dolorosa notizia della gloriosa fine del giovane
suo figlio: Muor giovane chi al Cielo e’ caro e la Patria scrive
il suo nome tra gli Eroi che preparano le gloriose vittorie.
Auguriamoci che il suo nobile sacrificio redima presto le
vostre terre.
Non oso dirle parole di consolazione, ma mi permetta confermarle la mia più cordiale amicizia.
Con distinti saluti
Dev.mo
Cav. Ing. Edoardo Monaco
Terracina, 17 novembre 1915
Gentilissimi Signori Moderni
La morte del carissimo Mario ci e’ stata dolorosissima ed
ancor più dolorosa ci si rende pensando a loro che non vivevano che per Lui.
Ogni parola di conforto in questo momento e’ inutile.
La gloria a Lui che ha sacrificato la sua giovane esistenza per la Patria.
Tutta la mia famiglia divide il loro profondo dolore ed invia distinti saluti.
Dev.mo
Federico Risoldi
Velletri, 17 novembre 1915
Stimatissimo Amico
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Colonnello Cav. Pompeo Moderni
Seguii con il pensiero la partenza del suo Mario, quando,
allo scoppio della nostra ostilità con l’Austria, Egli fu assegnato ad Ancona e lo seguii quando Egli al momento del bombardamento del 24 Maggio, o era in viaggio per Ancona o vi
ci doveva trovare.
Proprio il 23 Maggio io ricevei da lei per lettera tale annuncio con vera abnegazione patriottica, volle fare subito un
soldato non mi ha meravigliato, perchè troppo coraggioso e
temerario Egli era.
Si consoli egregio amico, della perdita del suo unico figlio,
al pensiero che la corona dei suoi meriti verso la Patria, rifulge ancora di più per avere immolato ad Essa la giovinezza
dell’ottimo Mario.
Accolga con la sua Signora, anche da parte di mia moglie
i sensi della più profonda simpatia.
Dev.mo
Avv. Cav. Biagio Cardinali
Carrara, 18 novembre 1915
Carissimo Sig. Colonnello
Le parole con le quali Ella mi annunzia la morte sul campo della gloria del suo eroico figlio Mario, sono degne dell’Italia nuova ed antica.
Le partecipo insieme il mio più profondo dolore e la mia
più alta ammirazione per la bella, santa, eroica perdita ch’Ella e la Sua Signora sopportano con italiana fortezza d’animo.
L’Italia sale il suo Calvario con un eroismo che non e’ stato superato dai secoli passati e non lo sarà dai futuri.
Con l’animo profondamente commosso, le porgo il mio più
sincero saluto di rimpianto.
Suo Dev.mo
Francesco Granai
Direttore del Giornale Lo Svegliarino
Cividale, li 18 novembre 1915
Egregio Signor Colonnello
A che vale la mia parola dinanzi a tanta sventura, a tanto valore, se non ad esaltare e a rendere più fulgido il sacrificio del suo figliuolo?
Esso cadde serenamente, vittima del proprio dovere, rapito nel fiore della giovinezza al Suo affetto e a quello che dei
suoi compagni d’armi, che a me stesso parlarono con ammirazione e compianto.
Comprendo l’immenso suo dolore, ma Ella non deve piangere, perchè il suo Mario non lo vorrebbe.
Egli combatte’ per un ideale, anzi per qualche cosa di più
di un ideale, per l’umanità. Servi’ l’esercito pieno di entusiasmo, destando l’ammirazione di chi lo vide nei momenti più
terribili, e il suo ricordo resta in chi lo seppe, avvolto da una
limpida aureola di eroismo.
Il suo Mario non e’ più qui sul fronte a combattere l’odiato nemico, ma e’ innanzi a noi, sempre più innanzi a indicarci la via del riscatto e della vendetta.
Inviandole le mie più sentite condoglianze
Dev.mo
Aurelio Aureli 57
Volontario - Allievo - Ufficiale di Artiglieria
Terracina, 5 dicembre 1915
Carissimo Colonnello
Mi son fatto un dovere di partecipare non ai soli amici di
Terracina, ma a tutti che ho potuto il telegramma del Colonnello del povero Mario; e tutti, pur rimpiangendo la morte del
giovine eroe, hanno avuto come hanno parole di ammirazione! Si, con Mario si e’ spenta la famiglia, ma con un atto che
ne eterna la stirpe tra i valorosi dell’Italia!
Non torno a ripeterle le solite frasi di conforto che non so
nemmeno trovare; ma le invidio l’ambita morte del giovinetto
che spari’ con tanto eroismo per quanto era grande la mitezza dell’animo suo.
Mi chino reverente dinanzi al gran dolore, e saluto commosso.
Dev.mo
Cav. Uff. Dott. Ernesto Venere
Terracina, 7 dicembre 1915
Carissimo Moderni
Benche’ tardi, rispondo al tuo pietoso biglietto. Compreso
dalla grave disgrazia, che vi ha fieramente colpiti per la irreparabile perdita del caro Mario, unico figlio amoroso, che era
57: Questo giovane è il figlio di quel signor Aureli che m’invio’ le notizie inesatte circa la posizione occupata del Battaglione di mio figlio al fronte.
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
di sostegno alla vostra vecchiaia, mi ha tenuto finora perplesso, nel vendere a te ed alla tua affezionata compagna, la
mia parola di conforto, tanto quanto possa valere a lenire l’animo vostro addolorato.
A tanta jattura vi sostenga il nobile pensiero, che Mario baldo e coraggioso, giovane entusiasta per la guerra, ha sacrificato
la sua vita per l’onore e la grandezza della Patria nostra. Lidia
e Teresina si uniscono meco nel portarvi parole di sollievo del forte dispiacere, che vi opprime. Esse a grato ed imperituro ricordo
di Mario, che conobbero da giovinetto, hanno voluto conservare
la sua immagine riportata giorni orsono dal Messaggero.
Rinnoviamo dunque a voi, desolati genitori, le nostre più
vive e sentite condoglianze.
Aff.mo Amico
Attilio Assorati 58
Rocchetta Tanaro, 16 dicembre 1915
Gentilissima Signora
E’ con un senso di estrema angoscia che appresi da mia
sorella la sciagura che l’ha colpita.
Quel giovinetto, starci per dire quel fanciullo, che io conobbi
intento ai suoi studi e chi si avviava a conquistare il suo posto
nella vita, posto degno del padre che lo guidava con intelletto
d’amore, a’ lasciato i suoi giovani anni sul campo di battaglia!!
Ma la morte fu degna di Lui!
Non pianga, Signora, non si piange quando un eroe recline la fronte al colpo. Quella non e’ morte che uccide, ma eterna nella memoria dei posteri e incorona la fronte di lauri sanguinosi che si illumina di vittoria!
Cosi a Lui e a suo marito dev’essere di sommo conforto il
pensare che Egli a’ trovato la via della gloria!
Dio darà a loro conforto e rassegnazione.
Pregandola dei miei rispetti a Suo marito, l’abbraccio col
più sincero affetto.
Devotissima
Emilia Savaglia
Dimanche matin, 30 gennaio 1916
Chère Madame
Ma vilaine migraine habituelle m’empèche absolument de
58: Questo signore non ha che una sola figlia femmina, quindi con lui si spegne anche il suo casato, discendente di una delle
cento famiglie di colori che i Romani portarono a Terracina quando la conquistarono ai Valsci. Di quelle cento famiglie a Terracina ne esistono ancora due! E vi sono scrittori italiani e stranieri, i quali con leggerezza ridicola affermano che di antiche famiglie romane non ne esistono più!!!
venir assister ce matin à la glorieuse et triste cèerimonie, qui
devait nous rèumir tous autour du cher souvenir de votre pauvre Mario!!! Mais je suis avec Vous par la pensèe et par le cœur,
regrettant de me pouvoir donner à ce jeune hèros tombè pour
la Patrie ce pieux donner à ce jeune hèros et de la reconnaissance de Tous ; et à Vous deux pauvre et dèsolès parents, cette
petite preuve de tante notre affectuense sympathic…
Victor se joint à moi pour Vous dire qu’il est de cœur au milieu de Vous, et Hector qui est averti du jour de la cèrimonie,
car je lui avais ècrit que je voulais y assister, sera lui aussi de
coeyr avec nous dans ce pieux hommage à son jeune ami.
Mille amitiès a tous les deux, et courage toujours.
Henriette Pettinati 59
Terracina, 16 aprile 1916
Egregio Colonnello Ing. Moderni
Più volte ho letto l’eroica fine del caro Mario, inserita nel
giornale Pro-Patria che Ella mi ha inviato.
Alla lettura di tanta fierezza d’animo per amor di Patria,
non si può fare a meno di rimanere commossi e nello stesso
tempo entusiasmati.
Il dolore della perdita e’ immenso, ma e’ indiscutibile che,
specialmente per lei, e’ un orgoglio sapendolo immolato alla
Patria, con atti eroici, che rimarranno nella storia.
Lessi sul giornale quando in casa sua le venne consegnata la medaglia al valore conferita al caro Mario, ma non le
scrissi perchè già da parecchio tempo era avvenuta la cerimonia. Lo ricordo ora, per esprimerle le mie congratulazioni
sincere. Come conservo quel brano di giornale nel quale viene descritta la consegna della medaglia al valore, cosi’ conserverò il Pro-Patria ricevuto oggi. E nell’esprimerle i miei
sentimenti di ammirazione, che non possono andar disgiunti
di rammarico per la fine gloriosa di Mario.
Gradisca i miei saluti estensibili alla sua Signora anche
da parte di mia moglie.
Dev.mo
Ing. Romolo Viti
Amico Carissimo,
Un impegno preso col Capodivisione di andare domenica a Ci59: Questa Signora nativa francese, maritata con un italiano e’ la madre di Ettore Pettinati, amico di Mario, del quale ho riportato una lettera.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
vita Castellana, per una ispezione a quel forte, ove ora sono i prigionieri austriaci, m’impedisce di assistere alla grande e meritata
cerimonia della consegna della medaglia al valore, che il Fato crudele non ha voluto far brillare sul petto del buono ed indimenticabile Mario.
Vi partecipo pero’ con lo spirito e con la commozione profonda
del ricordo.
Alla gentile signora Rosina i miei devoti saluti; a lei un abbraccio.
Aff.mo
Cav. Emilio De Simone
Ministero Pubblica Istruzione
Mio Caro Colonnello
Ero sempre in attesa di potermi recare da Lei, ma purtroppo le
tante occupazioni, compreso il servizio all’Ospedale Militare, me lo
impedirono, e d’altra parte non sapevo nei primi giorni trovare le
acconce parole che potessero sembrare un conforto a Lei ed alla
buona Signora nella crudele sciagura.
Eppure compartecipo del suo dolore con tutta la sincerità, perchè chi ha conosciuto la bontà ed apprezzato tutte le doti del suo
giovane Eroe, non può capire il vero valore della perdita! Posso fin
dove può esserle di conforto la santità della causa, e più ancora la
prova di sereno coraggio, e di generosa dedizione compiuta dall’ottimo, indimenticabile Mario.
Io non posso scrivere, perchè non so scrivere quanto sento di
poterle e doverle dire: solo le assicuro che il mio dolore e’ grandissimo, è il ricordo sarà eterno.
Di qualunque cosa possa aver bisogno, signor Colonnello, Ella
approfitti di me che con affetto di figlio, più che di amico, sarò
sempre pronto a qualunque cosa potessi essere utile.
Cordialmente mi creda.
Dev.mo
Dottor Francesco Sabatucci
Cav. Rag. Romolo Reboa
Fa vive fraterne condoglianze all’antico amico Pompeo Moderni e non sa chi più ammirare se il figlio caduto gloriosamente per
la grandezza d’Italia, o il padre spartano che sereno, orgoglioso ne
partecipa la morte.
Sopporta orgoglioso siffatta sventura, ed insieme a te piangeran-
no i tuoi amici. Abbiti caro Pompeo un saluto di cuore dal tuo aff.mo.
Comm. Giovanni Giulio Baldovino
Tenente Colonnello onorario Alpini
Roma, 29 novembre 1915
Caro Moderni,
Accogli le mie più commosso condoglianze per la grande sciagura che ti colpisce nel più caro dei tuoi affetti e ti sia di qualche
conforto il pensiero che il tuo Mario, morendo, si mostro’ degno di
te, che, sovra ogni altro, gli sapesti inspirare il culto per la Patria.
Abbraccio con affetto.
Tuo
Giusto Barzilai 60
Emilia Melloni
Inneggia alla santa memoria del valoroso Mario, caduto
da prode per la più grande Italia.
Terni (Perugina) 29 novembre 1915
Maria Cicerchia Martinelli
Pur ammirando l’eroica morte del carissimo Mario, ne deplora la perdita pensando al dolore dei Genitori, del quale
prende vivissima parte, unendo le sue alle loro lagrime. Il marito Angelo e la figlia Giulia porgono anche loro le più sentite condoglianze. Saluti affettuosi.
Alfredo e Mario Zoami
Ammirando l’eroica e gloriosa morte del buon Mario, fanno sentite condoglianze.
Costantino e Carolina Falconi
Mentre prendono viva parte al dolore degli amici Moderni
per la perdita del loro Mario augurano che l’olocausto della
60: Fratello del Ministro Salvatore Barzilai.
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
giovine vita produca a mille a mille i vendicatori che all’odiato nemico vendano, dente per dente, occhio per occhio.
Ai genitori sia di conforto ed orgoglio di aver dato alla Patria più di se stessi.
Roma, 15 novembre 1915
Il Dott. Giuseppe Quattrociocchi
Prof. della Università
Deplora la perdita immatura di un tanto degno figliuolo.
15 novembre 1915
Cav. Uff. Leone Falletti
Chi per la Patria muore vissuto e’ assai.
Ricorderemo sempre con vivo affetto il glorioso Estinto.
Nel Marzo 1917, dopo i combattimenti furiosi sostenuti
dal 93° Reggimento Fanteria su la Vertoiba ad Oriente di Gorizia, scrissi una cartolina augurale al Colonnello di quel
Reggimento, che tanto affettuosamente mi aveva aiutato per
la sistemazione provvisoria della salma di mio figlio, ed egli
che, promosso Generale, aveva abbandonato il comando del
93°, mi risponde con una lettera della quale qui sotto riporto
il brano riguardante mio figlio.
Arona, 19 marzo 1917
Carissimo Moderni
La tua cartolina dell’8 corrente mi ha raggiunto qui’ soltanto oggi.
Come vedi non sono più dove tu credevi; sono qui al comando della Brigata Pallanza. Ho lasciato con vivissimo dispiacere il 93° che ho comandato per un anno e mezzo di guerra ed il mio pensiero e’ sempre rivolto a quel Reggimento, ai
suoi prodi, ai gloriosi caduti tra i quali spicca il tuo Mario, il
valorosissimo tuo figlio. Alla sua memoria, al suo eroismo io
m’inchino sempre riverente.
Aff.mo Amico
Bonifazio Cajani
Nei primi mesi della nostra guerra, i giornali riportavano
volentieri lunghi elenchi dei nostri morti, descrivendone le
gesta gloriose; cosi’ fu che anche la morte eroica del mio Mario venne riportata da molti giornali. Per un mese, e forse
più, io non potei leggere giornali e quindi non potei raccogliere tutte le necrologie del mio figliuolo; ma gli amici si incaricarono di raccogliermene gran parte che qui appresso riporto per ordine di data, ritenendo che anche queste necrologie, malgrado le inevitabili inesattezze, possono essere dai
documenti interessanti e sicure, per il libro di cui fanno parte. L’illustrazione Italiana di Milano pubblico’ il ritratto del
povero e glorioso morto, inviatole da me, perchè volli che anche il mio adorato figliuolo figurasse nella collana dei morti
per la patria, che la rivista veniva pubblicando: pero’ senza
biografia, perchè non mi parve corretto inviare una biografia fatta da me.
Il Progresso Italo - Americano di New York, riprodusse il ritratto di Mario preso probabilmente dall’Illustrazione Italiana.
Dall’Evangelista del 18 novembre 1915
GENITORI EROICI
Il Dott. Amedeo Autelli 61 mi comunica la partecipazione di
morte del suo giovine amico Sottotenente Mario Moderni, figlio
del Colonnello Pompeo. Vi sono in questa partecipazione parole che rivelano l’aspro dolore e insieme l’eroismo dei genitori
che hanno fatto olocausto del loro unico figlio sull’altare della
Patria. Essi ne danno l’annunzio = col cuore spezzato ma saturo di santo orgoglio. = E poi invocano = non preci inutili, ma
lauri e fiori sulla tomba del ventiduenne soldato che aspetta ad
essere vendicato dalla vittoria delle armi Italiane. =
E l’amico Augelli mi scrive: = questo annunzio di morte sembra piu’ uno squillo di vittoria che una nenia funebre. Il Colonnello Moderni, vecchio soldato e scienziato, di spiriti liberi, non
piange il suo figliuolo, ma lo addita all’ammirazione d’Italia.
E non mi sembra fuori luogo additare Lui e la sua buona
e forte Signora alla stessa ammirazione come esempio d’essere imitato in quest’ora d’alti sacrifizi e di supremi dolori. =
E noi chiniamo reverenti la fronte dinanzi al dolore austero di questi nobili genitori che, pur nello spasimo del loro animo, sentono tutta la nobile altezza del sacrifizio compiuto per
la Gran Madre Italia.
Dall’Idea Democratica del 27 novembre 1915
Ai nostri carissimi amici Ingegnere G. B. Del Buono e Co61: Il Dott. Amedeo Autelli e’ stato uno dei diversi professori privati per la lingua latina di Mario.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
lonnello Pompeo Moderni la nostra più affettuosa parola di
condoglianza per la morte gloriosa dei loro figliuoli. Omero
Del Buono, Capitano nel Reggimento Fanteria, ebbe tale modestia nelle sue grandi virtù, tale semplicità nel suo eroismo
che quanti lo conobbero non ne rimpiangeranno abbastanza
la perdita. Mario Moderni si preparava ad entrare in Massoneria, su l’esempio del padre, Massone di antica tempra, ed è
caduto; presago della sua fine luminosa, e alla fidanzata scriveva: = Non piangermi morto, solo ricordami qualche volta.
Coraggio! Pensa al nostro paese. Viva l’Italia! =
Con Lui si spegne la sua famiglia che nelle ultime generazioni ha dato alla Patria cospiratori e soldati, torturati nelle
prigioni raminghi nell’esilio e versanti sui campi di battaglia
il loro sangue generoso.
Dal Messaggero del 29 novembre 1915 62
Mario Moderni nato il 20 Luglio 1893, morto il 3 Novembre 1915.
Studente dell’Istituto Superiore Di Belle Arti di Roma del
quale aveva compiuto il 4° anno. Giovane di vita esemplare,
amorosissimo della famiglia, buono, gentile, mite.
Appassionatissimo della vita militare della quale non aveva potuto seguire la carriera a causa di una malattia che ritardò, poi lo obbligo’ a troncare gli studi classici, fu nominato Sottotenente di Milizia Territoriale il 27 Dicembre 1914.
Il giorno della mobilitazione si trovava in un treno che fu
bombardato presso Ancona e poco mancò non restasse ferito
da una scheggia di granata.
Chiese replicatamene di andare al fronte e gli fu concesso:
fu assegnato al 93° Reggimento Fanteria.
Ferito dallo scoppio di una granata si mostro’ calmo e rivolse patriotticamente entusiaste parole ai suoi soldati; mori’
il giorno appresso, soffrendo assai, senza mandare un lamento, senza un rimpianto, lasciando ammirati i compagni per la
sua mirabile ed eroica condotta, per la sua forza d’animo
straordinaria che non si sarebbe creduta albergata in quel
corpo gracile, in un individuo così mite e buono!
All’egregio patriota Colonnello Moderni ed alla Mamma
desolata vivissime condoglianze.
Dal Giornale d’Italia del 19 novembre 1915
Riporta la nota delle ricompense al valore e fra le medaglie
d’argento concesse di motu proprio dal Re vi e’ pure quella di:
Mario Moderni, da Roma, Sottotenente Milizia Territoriale
62: In testa all’articolo pubblicava anche il ritratto dell’estinto.
Fanteria. Gravemente ferito da una granata a mano, che gli
asportava ambe due i piedi, non cessava di rincuorare ed incoraggiare i propri dipendenti, e, al comandante della Compagnia che gli rivolgeva parole di conforto; rispondeva ad alta voce che non aveva fatto altro che il proprio dovere, dando
cosi’ nobile esempio di grande coraggio ed elevato sentimento
patriottico. (Santa Maria Di Tolmino, 2 Novembre 1915)
Dal Giornale Il Piccolo Giornale D’Italia
del 30-31 gennaio 1916
PER UN EROE ROMANO
Una triste e nobile cerimonia è stata celebrata stamane del
Colonnello Pompeo Moderni, padre del valoroso Tenente Mario Moderni, morto eroicamente a Santa Maria Di Tolmino.
Il comandante la Divisione militare, Generale Rechi, ha
voluto recarsi personalmente a consegnare alla famiglia la
medaglia d’argento meritata dal glorioso caduto.
Erano presenti alla cerimonia il prof. Ettore Ferrari, presidente dell’Istituto di Belle Arti di cui il Tenente Mario Moderni faceva parte, numerosi professori dell’Istituto stesso, tra
i quali professori Chialvo, Cellini, Guastalla e Foschi, e molti
studenti e studentesse colleghe dell’eroe caduto per la grandezza della Patria.
Mario Moderni nacque a Roma il 20 Luglio 1893, studente di Architettura, all’Istituto Superiore Di Bella Arti, Sottotenente di Fanteria di Milizia Territoriale a sua domanda fu
inviato al fronte ed assegnato al 93° Reg. Fanteria.
Il 2 Novembre, in una trincea di Santa Maria di Tolmino,
nella quale, sotto un tremendo bombardamento che durava da
sedici ore, si era reso ammirevole per calma, energia e sangue
freddo, veniva perito da una bomba a mano che gli asportava
tutti e due i piedi, mentre contemporaneamente altra grossa
granata riduceva a pezzi quattro suoi uomini sotterrandoli fra
le macerie. In quell’inferno ed in quelle condizioni, Egli non
perdè il suo sangue freddo, ma seguitò a comandare il suo Plotone e ad incuorare i suoi soldati con parole patriottiche.
Al comandante della Compagnia, corso ad elogiarlo, rispose modestamente: Non ho fatto altro che il mio dovere. Ad
un amico corso ad abbracciarlo (quando ai portaferiti fu possibile andarlo a raccogliere) e che non vedendo l’orribile mutilazione subita, egli diceva: speriamo che non sia niente, rispondeva con calma stoica e con un mesto sorriso: Speriamo
che non sia niente!
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
Morì dopo trenta ore senza aver versato una lacrima, senza aver emesso un gemito, lasciando ammirati colleghi e superiori per cosi’ spartana forza d’animo.
Il suo Colonnello scrivendo al padre dice: la salma del tuo
eroico figliuolo è oggetto di orgoglio sacro del mio Reggimento.
Ci pare interessante la pubblicazione della seguente lettera scritta dal Moderni venti giorni prima della
sua eroica morte;
(Qui il giornale riporta la lettera che mio figlio mi scrisse in occasione del mio genetliaco e che ho già riportato al
suo luogo nella descrizione della sua vita; quindi il giornale conclude):
Prometteva il suo dovere sino alla fine ed ha mantenuto la
sua parola, e come!
Dal Giornale d’Italia del 31 gennaio 1916
Il Gen. Rechi consegna la medaglia alla famiglia del Tenente Moderni.
Il Generale comandante la Divisione Militare Grande Di
Roma, Comm. Rechi, col suo aiutante di campo, si è recato
oggi in casa del Colonnello Moderni per fare ad esso la consegna della medaglia d’argento al valor militare, conferita di
motu proprio dal Re al suo figlio Mario, Sottotenente di Fanteria di M.T. caduto eroicamente il 2 novembre 1915 in una
trincea di Santa Maria di Tolmino e morto il giorno susseguente in seguito alle gravi ferite riportate.
Erano presenti alla cerimonia Ettore Ferrari presidente ed
altri professori dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma,
di cui il valoroso giovane era allievo; parecchi studenti dell’Istituto stesso, i quali hanno voluto rendere un ultimo
omaggio al Presidente della loro Associazione studentesca.
La = Latina Gens = di cui il caduto fu socio fondatore assieme ai suoi eletti genitori, è stata rappresentata dall’Avv. Cosimo Buono, dallo scultore Guastalla, dal Dott. Mario Berardo di Ferro e da Ferdinando Bilotti. Per il giornale l’Esercito Italiano è intervenuto il Colonnello Serpieri. Venuto appositamente da Ancona, vi era il Sottotenente Luigi Natale
che trovatasi quel giorno in trincea assieme al collega Mario
e fu testimonio del suo valore. L’Ing. Angelo Tagliacozzo rappresentava i veterani delle patrie battaglie. Presenziavano la
cerimonia molte gentili signore e signorine ed altri signori
amici della famiglia!
Il Generale con elevate parole ha fatto la consegna della
medaglia ai desolati genitori del valoroso. Frenando la pro-
pria emozione, ha risposto il Colonnello Moderni, ringraziando con patriottiche parole ed augurandosi che gli venga concesso di correre fra poco a vendicare il figlio caduto.
Dalla Tribuna del 1 febbraio 1916
La consegna della medaglia al valore alla famiglia del Colonnello Moderni
Il Generale Rechi comandante la Divisione Militare di Roma, col suo aiutante di campo, si è recato oggi 30 gennaio in
casa del Colonnello Moderni per fare la consegna della medaglia d’argento al valore militare, conferita di = motu proprio =
dal Re al suo figlio Mario, Sottotenente di Fanteria di M.T. caduto eroicamente il 2 novembre in una trincea di Santa Maria
di Tolmino e morto il giorno susseguente in seguito alle gravi ferite riportate.
Il Generale con elevate parole ha fatto la consegna della medaglia ai desolati genitori del valoroso. Frenando la propria
emozione, ha risposto il Colonnello Moderni, ringraziando con
patriottiche parole ed augurandosi che gli venga concesso di
correre fra poco a vendicare il figlio caduto.
Lo stesso Generale si è compiaciuto di appuntare la medaglia sulla sciarpa, che ornava il grande ritratto dell’estinto.
Molti fiori, molti attestati di affetto e di ammirazione.
Dall’Esercito Italiano del 1 febbraio 1916
Consegna della medaglia al valore del Sottotenente Mario
Moderni
Domenica mattina si reco’ in Via Conte Verde in casa del
Colonnello Moderni, nostro esimio collaboratore, il comandante la Divisione di Roma, Tenente Generale Rechi per consegnare alla famiglia la medaglia d’argento al valor militare concessa di motu proprio. Di S.M. il Re al figlio di lui, Sottotenente
Mario Moderni.
Attendevano in casa la famiglia Moderni, una rappresentanza dell’Istituto Superiore di Belle Arti col presidente Ettori
Ferrari; numerosi studenti e studentesse di quell’istituto; l’avvocato Taddei per i Reduci; il Dott. Mario di Ferro per la Latina
Gens; i redattori della stampa militare; e il sottotenente Natale
Luigi che comandava la compagnia a cui apparteneva il Moderni; poi numerosi amici e conoscenti della famiglia.
Le ore 10, il Ten. Gen. Rechi giunse con il suo aiutante di
campo e con parole improntate alla piu’ sincera ammirazione
ricordo’ il valore del figlio e confortò il padre a lenire il dolore e
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
l’esse la seguente motivazione della concessa medaglia:
Gravemente ferito da una granata a mano, che gli asportava ambe due i piedi, non cessava di rincuorare ed incoraggiare
i propri dipendenti, ed al comandante della Compagnia che gli
rivolgeva parole di conforto, rispondeva ad alta voce che non
aveva fatto altro che il proprio dovere, dando cosi’ un nobile
esempio di grande coraggio e di elevato sentimento patriottico.
Santa Maria di Tolmino 2 novembre 1915
Dopodiche’ appese la medaglia sotto il ritratto (sic) del valoroso caduto.
Alle parole del generale rispose commosso il Colonnello Moderni ricordando la qualità del figlio e disse: - l’avevo educato
romanamente e romanamente e’ caduto -.
Ecco un breve cenno sul giovane officiale:
Mario Moderni nato a Roma il 20 Luglio 1893 lascio’ gli studi classici e quindi si dedico’ alle belle arti delle quali seguiva il
corso di architettura. Nominato Sottotenente di M. T. il 27 Dicembre 1914 fu destinato al 139° Battaglione (distretto di Ancona). Il giorno della mobilitazione si trovava che fu bombardato presso Ancona e una scheggia di granata gli sfioro’ il fianco sinistro.
Chiese ripetutamente di andare al fronte e gli fu concesso:
venne assegnato al 93° Reggimento Fanteria; raggiunse il suo
Reggimento il 26 Agosto 1915; il 2 Novembre fu ferito gravemente ai piedi in una trincea di Santa Maria di Tolmino ed il
giorno seguente moriva, in seguito alle ferite riportate, in un
ospedaletto da campo.
La cerimonia riuscì molto solenne e commuovente, e il Colonnello Moderni fece dono agli intervenuti di un suo libro storico su i Romani Grande del 1848-49, libro dedicato al valoroso suo figlio.
Dall’Idea Nazionale del 1 febbraio 1916
La consegna della medaglia alla famiglia del Tenente Moderni
Il Generale Rechi, comandante la Divisione Militare di Roma, col suo aiutante di campo si è ieri recato in casa del Colonnello Moderni per fare la consegna della medaglia d’argento al valor militare conferita di motu proprio da S. M. il
Re al suo figlio Mario, Sottotenente di Fanteria di M. T. caduto eroicamente il 2 Novembre in una trincea di Santa Maria di Tolmino.
Erano presenti alla cerimonia molti professori dell’Istituto
Superiori di Belle Arti di Roma, di cui il valoroso giovane era allievo; il Colonnello Serpieri, lo scultore Giuseppe Guastalla, il
Dott. Mario Berardo di Ferro de il Rag. Ferdinando Bilotti, una
rappresentanza di studenti dell’Istituto stesso, i quali hanno voluto rendere omaggio al Presidente della loro Associazione Studentesca.
Il Generale con elevate parole ha fatto la consegna della medaglia ai desolati genitori del valoroso. Frenando la propria
emozione, ha risposto il Colonnello Moderni, ringraziando con
patriottiche parole ed augurandosi che gli venga concesso di
correre fra poco a vendicare il figlio caduto.
Lo stesso Generale si è compiaciuto di appuntare la medaglia sulla sciarpa, che ornava il grande ritratto dell’estinto.
Dal Pro Patria del 29 Febbraio 1916
Come combattono e come muoiono i nostri ufficiali di Milizia
Territoriale
Mario Moderni
Figlio unico dello storiografo illustre, Colonnello Mario Moderni, che ha dato alla patria letteratura opere egregie, il giovane eroe immolatosi per una più grande e possente Italia, apparteneva, quale Sottotenente, alla milizia territoriale; quella
milizia che, per quanto riguarda gli ufficiali, fino a pochi giorni
dalla nostra dichiarazione di guerra, si discuteva, se e quanto
potesse riuscire utile.
Ventiduenne, studente di architettura, colto, amante dello
studio, mite, gentile, e ad un tempo fiero e coraggioso, aveva davanti a se un promettente avvenire.
Proclamata la mobilitazione, parti’ entusiasta e trovandosi
in treno fra Chiaravalle e Falconara, venne sfiorato da una
scheggia di bomba lanciata da aeroplano nemico.
Era il battesimo del fuoco! Rimase imperturbato. E poichè la
incursione austriaca aveva ucciso sulla pubblica strada un signore e ferita la moglie, incurante di sè, corse a confortare la
derelitta, che accompagno’ ad Ancona dove altri attentati si
perpetravano. Queste brevi note ne caratterizzano l’animo e
l’indole, che si manifestarono superbamente più tardi.
Comandato a Macerata, si distinse nei compiti affidatigli,
cosi’ da meritare il plauso della stampa locale. Si sentiva tuttavia insoddisfatto e, dopo ripetute domande per essere inviato al fronte di battaglia, fu destinato al comando del 2° Plotone, 14° Compagnia del 93° Fanteria. Si fece subito notare
per lo straordinario sangue freddo in momenti di grave pericolo. Il 2 Novembre, alle ore 2 di notte, nelle Trincee di Santa
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MARIO MODERNI
CONDOGLIANZE
Maria di Tolmino, rimpiazzava con il proprio reparto gli Alpini che dovevano operare altrove e subito sui nuovi arrivati si
scateno’ un fuoco infernale sotto il quale cadde, fra i primi, il
comandante del Battaglione. Si contenne eroicamente coraggioso per tutta la giornata, quando, verso le 16, una bomba a
mano gli sfracellava i piedi, e un grosso proiettile riduceva a
pezzi quattro suoi uomini, sotterrandoli sotto le macerie. Comandante non solo il Plotone ma anche elementi di trincea
hanno un più di venti metri da quelle nemiche, Mario Moderni non si sgomenta, respinge i soldati accorsi a sollevarlo e con
vibrate parole inneggiando alla Patria ed alla sua Compagnia, ordina di intensificare il fuoco e di correre all’attacco. Al
comandante la Compagnia, sopraggiunto a prestargli assistenza e ad elogiarlo risponde semplicemente: Non ho fatto altro che il mio dovere.
Allorchè venne, quasi a forza, trasportato al posto di medicazione, dalla barella salutava i compagni gridando loro: Coraggio! Coraggio! Era Lui, che confortava gli altri!
Il giorno seguente, dopo l’amputazione, senza un rimpianto,
senza un lamento per la tragica sorte, serenamente spiro’.
Di motu proprio del Re gli fu conferita la medaglia d’argento al valore.
La salma del valoroso riposa in un piccolo cimitero militare
di fronte a Tolmino, amorosamente composta dagli ufficiali del
corpo, il cui Colonnello, scrivendo al padre, per rassicurarlo, in
proposito, la qualificava: orgoglio sacro del Reggimento.
Dorme la salma di tra il fragore della battaglia in attesa
della vittoria delle armi nostre la trasporti alla sua Roma nella tomba di famiglia, circondata dalle aureole del valore e della bontà.
In una lettera affettuosissima al padre, non molti giorni prima di chiudere tanto luminosamente la suo giovane esistenza,
Mario Moderni cosi’ si esprimeva: = faro’ il mio dovere fino alla
fine, se anche questa dovesse anche avvenire, felice di aver dato il modesto mio aiuto alla causa comune. Se dovessi cadere
non piangete la mia fine, essa sarebbe il termine della mia famiglia, ma riassumerei tutti gli ardenti ideali da te ispiratimi e
dei miei avi = e terminava: = che tu possa vedere realizzato tutto il sogno nazionale di redenzione e di libertà vittrice. =
Scrisse e mantenne, educato romanamente nella religione
della Patria, romanamente per la Patria, e’ caduto.
Onore alla di Lui memoria!
Il Pro Patria
Fin qui fu terminato di scrivere il 26 Giugno 1916
Io ero pronto per andare al fronte a vendicare mio figlio, e ne feci per
la terza volta domanda, che, come le altre, non fu esaudita.
Fin dal principio del conflitto mondiale, la guerra di posizione adottata dagl’Imperi Centrali, sviluppatasi specialmente dopo la battaglia della
Marna, vinta dai Francesi, per la nostra neutralità, mi aveva fatto nascere
la convinzione che la guerra sarebbe durata a lungo e che la vittoria sarebbe stata afferrata da chi avesse avuto l’ultimo boccone di pane per opporre la più lunga resistenza. Morto il mio adorato figliuolo al principio
della nostra entrata in guerra, compresi che il trasporto a Roma della sua
salma e le onoranze funebri alla medesima, non avrebbero potuto aver luogo che di li a qualche anno. Ordinai subito un suo ritratto in bronzo, in altorilievo ed a grandezza naturale, in forma di medaglione romano, da apporre sul nostro monumento sepolcrale al Verano, al di sotto del busto della madre, e feci coincidere l’inaugurazione di detto medaglione, con il primo anniversario della sua morte per farne una solenne commemorazione e
così intanto onorarne la santa memoria in quel modo che le circostanze mi
permettevano.
Alla commemorazione, fatta al Verano in Roma, nel pomeriggio del 3
novembre 1916, primo anniversario della morte gloriosa di Mario Moderni, il Ministro della Pubblica Istruzione si fece rappresentare dal Comm.
Alberto Parisotti; intervenne il Comm. Eugenio Popovie, Console Generale del Montenegro; venuta appositamente da Ancona, intervenne una rappresentanza del 93° Reggimento al quale il glorioso estinto apparteneva,
composta del Capitano Maglietto Eugenio, del Tenente Rocca Torello, del
Sottotenente Mattioli Giovanni Battista; venuta appositamente da Pesaro,
intervenne una rappresentanza del 139° Battaglione di Milizia Territoriale, al quale aveva appartenuto Mario Moderni nei primi mesi di mobilitazione, composta dal Tenente Vicario Edoardo e del Sottotenente Bellilli; intervenne pure una rappresentanza del 81° Reggimento di Fanteria ed una
del 82°, nel quale Reggimento Mario Moderni aveva cominciato la sua breve vita militare, facendo in esso il mese di servizio obbligatorio per gli ufficiali di M.T. ed il campo ad Avezzano; intervenne pure una rappresentanza del 245° Battaglione di M.T. di guarnigione in Roma. Intervennero
inoltre una rappresentanza della Società degli Ufficiali pensionati; una
rappresentanza con bandiera dei Reduci delle Patrie battaglie Giuseppe
Garibaldi, che aveva nominato Mario Moderni suo socio onorario; una
rappresentanza con stendardo della Federazione Nazionale fra le Associazioni dei Reduci delle Patrie battaglie e dei militari in congedo. Inviaro anche rappresentanze le seguenti Associazioni: della Latina Gens di cui Mario era stato una dei soci fondatori, del Circolo Universo, del Circolo Tusculano di Frascati, dell’Associazione fra i Romani, della Dante Alighieri,
della Lega Navale e della Trento e Trieste. Oltracciò intorno alla tomba
della famiglia Moderni erasi raccolta una folla di Signore e Signori, tutti
amici della famiglia che avevano conosciuto bambino, il buono, mite ed
eroico giovane che si commemorava.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Alla commemorazione mancava una rappresentanza dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma, di cui Mario Moderni, era alunno, il quale benchè invitato non aveva voluto intervenire alla commemorazione. I professori Fausto Vagnetti e Giuseppe Guastalla, intervennero come amici personali di Mario e miei.
Sotto al medaglione che si doveva inaugurare, la famiglia aveva deposto una corona di alloro con bacche dorate e nastro tricolore, ricoperta da
un velo nero, ed altra grande corona di fiori freschi; la fidanzata dell’estinto vi aveva deposto una grande e bellissima corona tutta bianca di rose, garofani e tuberose con nastro bianco; una splendida e grande corona,
altra quasi tre metri, di fiori freschi con nastro nero, vi aveva deposto la
rappresentanza del 93° Reggimento Fanteria; una grande e bellissima corona di alloro con bacche dorate e nastro viola, vi aveva deposto la Federazione Nazionale dei reduci delle Patrie battaglie e dei Militari in congedo; altra grande e splendida corona di fiori freschi, palme e rami di lauro
con nastro viola, vi aveva deposto la famiglia Ottier; un artistico ramo di
rose bianche con nastro viola, vi aveva deposto la famiglia Fontana; due
grandi mazzi di rose bianche, garofani rossi e foglie verdi, formanti i colori della nostra bandiera, uno, con gentile pensiero, vi aveva fatto deporre
il tenente Luigi Natale, fratello d’armi e combattente con Mario Moderni a
Santa Maria di Tolmino, in quel momento giacente ferito al policlinico di
Roma, l’altro vi aveva deposto la famiglia Reibaldi. Tutti gli intervenuti
poi avevano portato manate di splendidi fiori sciolti: grandissimi crisantemi d’ogni colore, rose, garofani, giunchiglie, tuberose, una vera valanga
profumata, che ricoprì interamente tutta la parte inferiore del monumento sepolcrale.
Dopo aver fatto la commemorazione del figlio mio, nella quale era accennato per sommi capi la sua breve esistenza, ed avere illustrato il suo atto di valore per il quale era stato decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore; prese la parola il Comm. Parisotti; rappresentante il Ministro della Pubblica Istruzione; seguì l’Ing. Cav. Gustavo Uffreduzzi, Presidente della Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie Giuseppe Garibaldi;
a questo fece seguito il cav. Dott. Angelo Ponti, rappresentante della Lega
Navale e della Trento e Trieste; uno smagliante discorso fece l’Avv. Cav.
Romeo Colombo, Vice-Presidente della Latina Gens; interessante il discorso del Prof. Fausto Vagnetti, professore del mio Mario all’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma, perché conoscendo assai bene il suo allievo potè
delinearne con verismo assoluto il cuore e la mente, il carattere, il Patriottismo e la sua educazione cavalleresca. Da ultimo prese la parola il Prof.
Roberto Pellissier, per ringraziare a nome della Famiglia Moderni le rappresentanza ed i numerosi intervenuti.
I discorsi furono riuniti e stampati in un opuscolo commemorativo, ornato del suo ritratto e largamente distribuito fra amici e conoscenti.
Nel 1917 il Prof. F. Italo Giuffrè, che era stato professore di lettere di
mio figlio, al primo e al terzo anno Ginnasiale, pubblicò un suo volume di
versi intitolato I Mille, la meravigliosa epopea Garibaldina, il quale aveva
questa dedica:
A Bruno Garibaldi
Già mio discepolo nel R° Ginnasio Umberto I di Roma
Ed al fratello Costante
Entrambi degni del gran nome
Come gli antichi cavalieri erranti
Caduti eroicamente nelle Argonne
Per la libertà e solidarietà dei popoli
A Mario Moderni
E a tutti gli altri miei ex-alunni
Morti combattendo contro l’eterno assassino d’Italia
O.D.C.
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Il testamento di Rosa Gordini
in favore della Fondazione
Mario Moderni
Particolare delle tombe della
famiglia Moderni
CAPITOLO VIII
LA SALMA DELL’EROE
C
inque anni dopo aver terminato il capitolo precedente scrivo l’ultimo
capitolo della vita di mio figlio, che dovrà chiudersi con il trasporto
della sua salma a Roma e il trasporto della medesima nella tomba della
nostra famiglia al Verano.
L’immane disastro di Caporetto, avvenuto il 24 ottobre 1917, che gettò nel lutto, ma non nella disperazione, la Patria mia, fece doppiamente
sanguinare il mio cuore di italiano e di padre. La salma adorata del mio
povero Mario era rimasta nelle mani del nemico!… Anzi fu proprio da
Tolmino che i nemici trovarono più facile e meno contrastata la via, fu
proprio per l’indifesa Val Kamenka che una colonna di invasione, passando al di sotto del cimitero dove mio figlio attendeva ch’io andassi a
prenderlo, si diresse su Cividale, mentre il suo copro in disfacimento avrà
avuto dei sussulti di rabbia e di dolore, nel sentire nuovamente in possesso del barbaro straniero, quel lembo di territorio della Patria, santificato
con il suo sangue generoso.
Fin dal principio della nostra guerra un secreto presentimento, che an-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
davo spesso ripetendo a mia moglie, mi aveva fatto nascere la convinzione che proprio l’Italia avrebbe vinta la Grande Guerra Mondiale; che proprio l’Esercito Italiano, trattato con tanta ridicola superiorità dall’Esercito Francese e tanto sprezzantemente dall’Esercito Austriaco, sarebbe stato quello che, schiacciato quest’ultimo, avrebbe messo fine al gigantesco
conflitto Mondiale. Così, dopo il disastro di Caporetto, io non ho dubitato neppure un minuto (e le conferenze da me fatte durante l’anno di invasione del nostro territorio stanno a provarlo) che l’Esercito Italiano
avrebbe vendicata la sua sconfitta, dovuta principalmente a cause politiche, ed avrebbe riconquistato il territorio perduto.
Non pertanto una grande preoccupazione mi ha torturato il cuore durante tutto quel disgraziato anno: avrei ritrovato ancora la salma del mio
Mario? Avrei potuto appagare ancora l’ultimo desiderio del figlio mio,
quello cioè di dormire il sonno eterno vicino alla madre sua? Si era sparsa la voce in Italia che il bigottismo di quelle orde di villani feroci, ci garantiva il rispetto delle tombe dei nostri morti gloriosi; ma a me questa
voce, non mi rassicurava affatto, perché temevo che quel piccolo monumento che decorava e rendeva facilmente riconoscibile la tomba del figliuol mio, monumento da me tanto desiderato, fosse per il nemico un indice rivelatore. La presenza del monumento, che indicava una cura speciale della famiglia verso il caro perduto, poteva facilmente far pensare,
specialmente essendo il defunto un Ufficiale, che quella salma fosse stata
subito chiusa in cassa di zinco, Data la penuria di metalli in cui si sono
trovati i nostri nemici durante la Guerra, le casse di zinco dei nostri poveri morti potevano essere una preda assai utile per essi e, messo da parte ogni scrupolo religioso, io temevo che, per impossessarsi della cassa,
avessero gettato in una buca qualunque il mio glorioso morto, rendendomi così impossibile di più ritrovarlo.
Finalmente quell’anno passò; un anno intero esattamente, ne un giorno di più, ne un giorno di meno! Il nostro comando supremo con rinnovata fierezza romana, con rinnovata fierezza latina, scelse l’anniversario
del disastro di Caporetto per vibrare il colpo decisivo al secolare nemico!
Il subito riordinarsi sul Piave del nostro Esercito sconfitto ed inseguito, e
far arginare superalmente con i loro petti al feroce nemico imbaldanzito;
la Resistenza eroica opposta dai nostri maravigliosi soldati al poderoso attacco austriaco del giugno 1918, e poi subito il travolgente contrattacco
che rigettava nel Piave l’insanguinato esercito nemico, avevano rivelato al
mondo che all’esercito austriaco, abbenchè più numeroso di quello italiano, mancava oramai la forza morale per afferrare la vittoria: Vinto 11
volte di seguito sull’Isonzo dall’Esercito Italiano, inquadrato da giovani
ufficiali improvvisati e sprovvisto di artiglieria, l’esercito austriaco, aiutato da Tedeschi, Turchi, Bulgari e dai nemici interni d’Italia, aveva potuto vincere la 12 battaglia a Caporetto, ma il suo fato era segnato. L’Esercito Italiano completamente riorganizzato, superalmente sicuro di sé,
non aiutato da nessuno, perché le truppe alleate che stavano al nostro
fronte erano meno numerose di quelle italiane che stavano in Francia, in
Macedonia, in Palestina, nell’anniversario di Caporetto, guadava risolutamente il sacro Piave, ancorchè fosse in piena, ingaggiava una terribile
battaglia, ideata con genialità italiana, manovrata con precisione ammirevole, e combattuta con il solito valore insuperabile, terminava a Vittorio Veneto con ,lo sfasciamento completo del esecrato e maledetto esercito austriaco.
Il 3 novembre 1918 la vittoria italiana era completa. La partecipazione da me fatta, il 3 novembre 1915, agli amici e conoscenti, della morte
gloriosa del mio eroico Mario, era stata una profezia, perché appunto nel
3° anniversario della sua morte, la medesima veniva vendicata dalla vittoria delle armi italiane!… anche l’augurio che il mio Mario avevami fatto, per il mio genetriaco, venti giorni prima erasi avverato, poiché io assistevo, infatti, alla realizzazione del sogno nazionale di redenzione e di
libertà vittrice, ottenuto con il sangue di circa seicentomila morti; ma che
veniva poi menomato, con la cessione della Dalmazia, per il tradimento
dei nostri alleati e per la viltà ed insipienza della nostra Diplomazia.
La tomba di Mario era libera, io potevo correre ad inginocchiarmi su
quelle zolle, sotto le quali dormiva il figlio mio ma mi frenò la speranza
di potere, di li a poco, ottenere il permesso di andarlo a prendere per trasportarlo a Roma ed attesi, tanto più che dai Carabinieri di Volzana e da
Ufficiali che si trovavano a Tolmino, avevo potuto sapere che la tomba era
intatta ed il piccolo monumento in cemento armato che la distingueva, in
perfetto stato di conservazione.
Disgraziatamente per il nostro Paese, nel giugno del 1919, si formò il
Ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti, un volgarissimo ambizioso, il quale ritenendo di poter governare appoggiato dal partito Socialista, indisse i comizi con una nuova forma elettorale (la famigerata Proporzionale) e favorì con tutti i mezzi possibile l’elezione dei Socialisti. Venuti questi alla Camera in numero di 156 (fra cui eravi qualche vilissimo
disertore e traditore del proprio Paese), in mezzo ai partiti borghesi divisi e suddivisi da interessi di parte, divennero gli arbitri della situazione:
trasformata l’aula legislativa italiana in una bettola dove il turpiloquio si
alternava con il pugilato vollero che fosse cancellato anche il ricordo della splendida vittoria italiana, che si rinunziasse anche ai confini storici
della Patria nostra.
Circa il trasporto delle salme dei nostri caduti, si rispose con una formola infame: tutti o nessuno! Siccome era materialmente impossibile trasportarli tutti, così si negava alle famiglie dei caduti, che avevano potuto identificare la salma del proprio caro, il triste conforto di portarselo al cimitero del
luogo nativo; così si trasgrediva sacrilegamente all’ultima volontà di molti
eroici combattenti, i quali mentre davano generosamente la loro giovane vita alla Patria, disponevano di essere sepolti assieme alle loro madri.
Le famiglie dei caduti in guerra addolorate, ma non rassegnate a questa tirannica imposizione, costituirono diverse associazioni regionali, che
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
poi finirono per raggrupparsi in una grande federazione nazionale, e si
misero alacremente al lavoro per influire sull’opinione pubblica e sui pubblici poteri, esponendo per mezzo della stampa e dei loro rappresentanti
ai Consigli Comunali ed al Parlamento, le loro ragioni ed i loro diritti. Alcune di queste famiglie più danarose, si ribellarono addirittura all’infame
divieto e di nottetempo, trafugarono i loro morti, opponendo alla violenza partigiana e demagogica, la violenza del cuore. Dal canto mio, mentre
entravo a far parete dell’Associazione romana delle famiglie dei caduti in
guerra, per mezzo di un Capitano del Genio, residente a Tolmino, potevo
essere messo in relazione con una contadina slava, certa Angela Fon, abitante in una baracca di legno, regalatale dai nostri soldati, adiacente al
cimitero militare di Val Kamenka, dov’era sepolto il mio Mario, e la incaricavo della sorveglianza e manutenzione della sua tomba. Contemporaneamente, per mezzo di una Signorina di Alessandria, cognata del Dott.
Giuliano, medico di famiglia, entravo in relazione con il Maggiore Eugenio Buscaroli di Alessandria, il quale aveva perduto anch’esso un figlio
nelle stesse trincee di Santa Maria di Tolmino, e gli scrivevo onde metterci d’accordo per un eventuale trasporto delle salme dei nostri figliuoli.
Il Maggiore Buscaroli non potè aderire alla mia proposta, perché suo
figlio, Sottotenente nel 3° Reggimento degli Alpini, appartenente al Battaglione Susa che, se non erro, fu quello sostituito dal Battaglione del 93°
Fanteria a cui apparteneva il mio Mario, nel suo testamento aveva disposto di voler essere sepolto in mezzo agli altri soldati, nel luogo ove fosse
caduto; ma la conoscenza fatta del buon Maggiore, fu per me una vera
fortuna, poiché di li a poco si recò con sua moglie e sua figlia in pellegrinaggio al cimitero di Val Kamenka, depose fiori sulla tomba anche sulla
tomba del mio Mario, raccomandò alla Fon anche la tomba di mio figlio,
ed al ritorno in Alessandria mi fece un resoconto particolareggiato della
sua escursione, tranquillizzandomi completamente su lo stato della tomba del mio Mario e su la sorveglianza continua ed amorosa di cui era oggetto da parte della Fon.
Visto però che l’azione della federazione delle Associazioni tra le famiglie dei caduti in guerra sarebbe stata lunga, poiché non si trattava più,
per le famiglie dei caduti, di ottenere soltanto il permesso di trasportare
a proprie spese, nel cimitero del luogo nativo, la salma del proprio congiunto, ma la maggior parte di queste famiglie, per togliere ogni valore
partigiano alle ostilità socialiste, avevano chiesto risolutamente, di voler
gratuitamente il trasporto al cimitero del luogo nativo, di tutte le salme
dei caduti riconosciute e richieste; cosicchè io decisi intanto di soddisfare
intanto un bisogno del cuore, recandomi nella primavera del 1920 accompagnato da mia moglie, in pellegrinaggio alla tomba del nostro amato ed indimenticabile Mario.
Il 9 gennaio 1920 però fui vittima di un furto per me ingente, poiché
mediante chiave falsa della porta di casa e scasso di un mobile, mi furono rubate 35.000 lire in cartelle al portatore 5%, tutta l’argenteria, tutti
i miei oggetti preziosi e quasi tutte le gioie di mia moglie, un insieme che
si avvicinava alle 60.000 ire di valore! Privato di 1750 lire di rendita annua, di oggetti di valore con i quali avrei potuto far denaro in caso di bisogno, rimasto con poco denaro in mano, dovetti rinunziare il mio pellegrinaggio, ed assoggettarmi risolutamente, malgrado la mia età, alla più
rigorosa economia per ricostituire almeno in parte il capitale rubatomi,
indispensabile per tante eventualità della vita, specialmente al momento
della mia andata in pensione, ed a mia moglie, al momento della mia morte, per pagare la tassa di successione.
Verso la fine del 1920 però, il Maggiore Eugenio Buscaroli, per essere
vicino a suo figlio, riusciva a farsi traslocare al Distretto Militare di Tolmino che si era impiantato in quell’antico e minuscolo campo austriaco, e
nel dicembre vi si trasferiva con la famiglia. Da quel momento la tomba
del mio Mario, oltre alle cure della Fon, ebbe le visite ed i fiori che la famiglia Buscaroli portava ad entrambe le tombe, riunite in un solo affetto
nei loro cuori buoni ed affettuosi. Intanto, il lavoro continua, assiduo, delle famiglie dei caduti, aveva fatto breccia, conquistando simpatie in tutti
i campi, perché in tutte le classi sociali vi erano cuori che sanguinavano e
madri che, in mezzo alla letizia dei ritornati, piangevano la lontananza
dei loro poveri morti. Il Ministero presieduto dal cinico Francesco Saverio
Nitti non potè esimersi di accordare il permesso di trasporto delle salme
da una determinata zona, mentre si venivano rastrellando tutti i campi di
battaglia del nostro estesissimo fronte, per riunire in alcuni cimiteri speciali, le salme dei nostri caduti, disseminate un po’ da per tutto nell’infuriare dei combattimenti. La zona per la quale era stato accordato il permesso di trasporto era assai ristretta, ma il principio della restituzione
delle salme aveva trionfato; le salme che erano state trasportate costituivano per le altre un precedente, un diritto acquisito, e quando al Ministero Nitti subentrò il Ministero Giolitti, contrario anch’esso al trasporto delle salme, com’era stato contrario alla guerra, dovette rassegnarsi davanti
al precedente ed al diritto acquisito. Mentre la Commissione speciale, veniva studiando il progetto della riconsegna gratuita di tutte le salme riconosciute e richieste dalle loro famiglie, la zona nella quale era permesso il
trasporto delle salme a spese delle rispettive famiglie, veniva ampliata.
Nel marzo 1921, mentre mi trovavo in letto ammalato di bronchite,
una lettera del Maggiore Buscaroli mi avvertiva che, essendo stati soppressi i due cimiteri militari di Val Kamenka, le salme dei nostri figliuoli
dovevano essere trasportate nel nuovo cimitero militare di Tolmino. Risposi dicendogli l’impossibilità nella quale, in quel momento mi recavo di
recarmi a Tolmino, che per conseguenza facesse di tutto onde ottenere che
la translazione della salma di mio figlio, fosse rimandata alla metà di
aprile e nel caso che ciò fosse stato assolutamente impossibile, pregavo lui
di rappresentarmi alla pietosa cerimonia non nascondendogli che sarebbe
stato per me un gran dolore non potermi trovare presente neppure a questa terza esumazione.
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Nonostante fossi certissimo che il Maggiore Buscaroli mi avrebbe rappresentato degnamente; pure essendo sicuro che anche senza di me, alla
salma del mio Mario sarebbero state rese solenni onoranze e la medesima
inumata nel migliore modo possibile nella sua nuova tomba provvisoria;
malgrado mi dispiacesse di dover spendere del denaro per un viaggio che
speravo di dovere rifare tra non molto, per trasportare a Roma, la salma
di mio figlio, pur tuttavia una voce misteriosa mi chiamava a Kamenka,
qualche cosa che non sapevo spiegare mi spingeva a fare questo viaggio,
che per le suddette considerazioni avrei potuto risparmiarmi. Quando mi
giunse la lettera del Maggiore Buscaroli, con la quale mi assicurava di
avere ottenuto tutto quello che desideravo cioè: un loculo per la salma di
mio figlio nel nuovo cimitero militare di Tolmino, ed il ritardo fino al 19
aprile per la translazione della medesima, una grande letizia inondò il mio
cuore come se una grande fortuna mi fosse capitata. Oggi, dopo essere
stato a Kamenka, posso affermare, che come in vita, durante i cinque mesi di lontananza, dovuti alla guerra, io ed il mio Mario ci suggestionavamo a vicenda, così pure adesso, quel che rimane di quel povero figliuolo,
ha ancora il potere di suggestionarmi!
La sera del 15 aprile partii per Gorizia, mentre cominciava a piovigginare e arrivai il domani fra le 15 e le 16 che pioveva dirottamente: la
pioggia non aveva cessato neppure un minuto. Dopo una primavera precoce in marzo, l’inverno si riaffacciava ancora e, mentre in pianura pioveva, su i monti nevicava fino al di sotto di 500 metri sul mare. Un fitta
cortina di nubi nere e minacciose, mi aveva impedito di godermi il superbo spettacolo delle nostre Alpi, mi aveva nascosto il Monte Grappa,
trasformato dal valore italiano e dal sangue italiano, nel più grande monumento nazionale che esista al mondo. Al passaggio del treno sul piave,
sul fiume sacro per ogni italiano, scattai in piedi e mi scoprii, mentre una
coppia di Austriaci (moglie e marito o sorella e fratello) mi guardavano
con curiosità. Se in quel momento essi avranno pensato che quella ecatombe di italiani di cui io salutavo riverentemente le umili e gloriose fosse, era stata fatta dai loro compatrioti, nonn avranno potuto fare a meno di riflettere che una maggiore ecatombe di Austriaci era stata fatta su
quello stesso fiume dagl’Italiani; che quel piccolo fiume difeso da eroi,
aveva salvato la libertà e l’indipendenza d’Italia; che su le rive di quel
fiume, l’Esercito Italiano aveva schiacciato completamente l’Esercito Austriaco, ed abbattuta la più vecchia monarchi d’Europa; un superbo impero di oltre 50 milioni di sudditi, che fino allora aveva guardato altezzosamente l’Italia, era stato da questa ridotta ad un povero e piccolo
Paese di soli sette milioni di abitanti! … poco dopo il treno traversò il
Tagliamento, in piena anch’esso come il Piave. Panorama grandioso ed
imponente: in quel momento le acque, correndo vorticose, occupavano
tutti i 40 archi del ponte che si vedeva dal treno, ed il fiume era assai più
largo del Po.
Avevo letto di Gorizia la bella, descrizioni lusinghiere, qualche amico
che vi era stato me ne aveva parlato assai bene, ed invero, abbenchè l’abbia traversata sotto la pioggia, non posso dire che sia brutta, anzi muovendo dalla stazione i suoi villini si presentano bene; ma a appena arrivato a Gorizia mi sono inteso prendere da uno strano abbattimento, il mio
cuore è stato stretto come in una morsa. Mario provò qualche cosa di simile, quando il suo Reggimento si spostò da Jalmicco presso Palmanova
e, per Cialla presso Cividale, finì per venire a prendere posizione su l’Isonzo, non so bene se di fronte a Plava o di fronte a Canale. Egli scrisse
allora una lettera che rivelava un abbattimento dell’animo suo e nella
quale vi era questa esclamazione: ora si che sono lontano da voi! Questa
specie di ripugnanza che entrambi abbiamo provato per quella regione,
mi fa pensare che il proiettile che causò la morte di mio figlio, deve essere stato lanciato da uno slavo!
Attraversata Gorizia in carrozza per recarmi alla stazione Nord, li rimasi fino alla partenza del treno che doveva condurmi alla stazione di
Santa Lucia di Tolmino, infastidito, annoiato, dalla presenza di uomini e
donne slave che parlavano la loro barbara lingua. Quando, finalmente, alla stazione di Santa Lucia di Tolmino m’incontrai con il Maggiore Buscaroli, che era venuto a prendermi in biroccino, mi slanciai nelle sue braccia come se avessi trovato un fratello. Poco dopo entrato in casa sua a Tolmino, dove esso provvidenzialmente mi aveva offerto ospitalità, circondato dalla gentilissima Giuseppina Buscaroli, dalla dolce figliuola Eugenia e
dalla graziosa nipote, intesi allentarsi la morsa che mi aveva stretto il cuore a Gorizia. In quell’ambiente dove battevano cuori italiani, dove sanguivano cuori italiani per ferita eguale a quella che faceva sanguinare il
mio, l’abbattimento scomparve e mi sembrò di essere in casa mia.
La Domenica 17 aprile, il comandante del Presidio e il Direttore dei
cimiteri della zona di Tolmino, presero le disposizioni necessarie perché
il domani 18 si potesse fare l’esumazione e la translazione della salma di
mio figlio. Il tempo era incerto e minaccioso; ogni tanto veniva giù una
folata di pioggia, mentre su i monti, che si potevano vedere, la neve si
manteneva sempre al di sotto dei 500 metri. Sembrava assai dubbio che
il 18 si sarebbe potuta compiere l’operazione per la quale ero venuto fin
da Roma!
Approfittai di quella giornata per visitare, accompagnato dal Maggiore Buscaroli, il nuovo cimitero militare di Tolmino, e vedere come si potevano sistemare le due doppie rame di palme in bronzo, legate da nastri
pure in bronzo, su i quali erano rispettivamente incisi i nomi di Mario Moderni ed Alessandro Buscaroli, che avevo portato da Roma per i due valorosi. La salma del figlio del Maggiore, era stata trasportata a Tolmino verso la fine di marzo e deposta definitivamente nel loculo dove dormirà il
suo sonno eterno. Vicino a questo loculo era preparato quello che doveva
accogliere la salma del mio Mario, gli unici loculi per Ufficiali, fino a quel
momento occupati in quel cimitero.
Nel mio programma vi era una giornata di fermata a Tolmino, desti-
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
nata esclusivamente alla collina di Santa Maria di Tolmino, dove il mio
Mario era caduto da eroe, dove erasi fatto ammirare per il suo stoicismo,
che ricordava gi eroi di Roma antica. Non vi fu bisogno però di questa
giornata di fermata, perché a sud del cimitero si elevava a poca distanza,
ripidissima, boscosa ed in qualche punto dirupata, la collina di Santa Maria. Dal cimitero si vedevano distintamente i reticolati ancora quasi intatti: passando a Ponente ed un poco al di sotto della sommità della collina,
il reticolato, venendo da sud, era diretto verso nord, scendendo per la generatrice della collina; questo tratto era preso d’infilata dal famoso Pan
di Zucchero che gli stava di fronte, ed era forse il tratto che al nemico importava maggiormente di distruggere, poiché ci avrebbe obbligati di scendere dalla collina di cui i nostri stavano per raggiungere la sommità: per
la narrazione fattami da Luigi Natale, compagno di trincea con Mario, devo ritenere che proprio in questo tratto più esposto, siasi trovato il mio
povero Mario. Il reticolato, dopo un tratto di circa centocinquanta metri,
piegando quasi ad angolo retto, con direzione est-ovest si manteneva orizzontale per circa duecento metri; poi discendeva giù dalla collina e volgendosi nuovamente più o meno verso nord, passava per Volzana, oltrepassandolo per circa un chilometro, mantenendosi sempre al piede dei
monti, su la destra dell’Isonzo; quindi con direzione N.E-S.O l’allineamento dei reticolati tagliava il fiume e si arrampicava su per il fianco ripidissimo della montagna fra il monte Mazli ed il monte Vodile che s’innalza a Nord del Pan di Zucchero, il quale è quasi un’appendice di questo monte. Il reticolato italiano aveva circondato da Sud, da Ovest e da
Nord il Pan di Zucchero, principale e terribile fortificazione del Campo
trincerato di Tolmino, costituita da una collina di forma conica, isolata,
ripidissima e boscosa, situata a N-O di Tolmino, nella quale erano state
scavate, a diverse altezze, numerose caverne, che restavano nascoste, e
nelle quali si trovavano disposti i cannoni di grosso calibro che battevano
in tutte le direzioni. Io penso che quel tratto di reticolato intorno al Pan
di Zucchero, ci dev’essere costato assai caro!
Lunedì, 18 aprile, alle 7 di mattina, partimmo per il cimitero militare
di Val Kamenka, distante circa sette chilometri da Tolmino: mi accompagnavano il Maggiore Buscaroli e la sua Signora; essi che non avevano avuto la forza di assistere all’esumazione della salma del loro Alessandro e si
erano fatti rappresentare, per non lasciarmi compiere da solo questa dolorosa operazione, si erano fatti forza e mi accompagnavano abbenchè,
specialmente per la Signora, l’escursione fosse assai arrischiata, il tempo
mantenendosi sempre minaccioso.
Al ponte su l’Isonzo, in piena e vorticoso anch’esso, ci attendevano 3
Alpini con 3 muli: montammo a cavallo ed attraversata Volzana cominciammo la ripida salita della Val Kamenka (in italiano Val Pietraia come
fu già avvertito in una Nota) nome assai appropriato, poiché detta valle
essendo costituita da un intercalamento di rocce diverse dell’Eocene, fra
le quali ve ne sono di quelle assai franose, la superficie, specialmente nel
fondo della valle, è disseminata di pietrame sciolto. La valle è stretta,
quasi una gola, i suoi fianchi sono ripidissimi e coperti di boscaglia, un
insieme tetro e selvaggio: la mulattiera che percorrevamo passa quasi in
fondo alla valle, dove in quel momento correva soltanto un torrente impetuoso, alimentato ed ingrossato continuamente da rigagnoli, solcanti
per ogni dove i ripidi fianchi della valle, e dovuti allo scioglimento della
neve che ricopriva i monti circostanti ed i fianchi della valle stessa. Passammo davanti al primo cimitero della Val Kamenka, situato al di sotto
della mulattiera e già completamente sgombro; poco dopo il Maggiore mi
mostrò su la sinistra della valle, di fianco alla mulattiera, gli avanzi di
una piccola costruzione, nella quale erasi impiantato l’ospedaletto da
campo e dove il figlio mio, lontano da tutti, senza baci e senza conforti,
aveva esalato il suo ultimo respiro, dove il suo cuore buono e coraggioso
aveva cessato di battere per la famiglia e per la Patria!
Pochi altri metri ancora di salita, poi scendemmo dai muli; eravamo
giunti: al di sopra della mulattiera, in un tratto meno ripido di superficie,
erano sepolti i nostri morti. Mi arrampicai fino al cimitero e corsi alla
tomba del mio Mario, che il piccolo monumento faceva distinguere anche da lontano. Vicino ai resti del figlio mio, io che non so pregare, restai muto, come stordito. Intorno, tutte le tombe sconvolte, al di sotto
della tomba di Mario una salma era stata trafugata dai parenti; molte
salme aspettavano ancora di essere trasportate a Tolmino; la neve erasi
ritirata fino ai margini superiori del cimitero, per lasciarci compiere la
nostra opera pietosa.
La tomba di mio figlio era molto ben tenuta: con 4 pali di legno, piantati ai quattro angoli, su i quali si avvolgeva un doppio e grosso cordone
di ferro zincato, la Fon aveva recinto la tomba in modo che sopra non potessero andarvi animali; su questi cordoni di ferro, durante l’inverno, disponeva delle lamiere per riparare la tomba dalla pioggia e dalla neve.
Eravamo stati preceduti l cimitero di Val Kamenka da un Plotone di
Alpini di 45 uomini, comandato da un Tenente; dal Direttore dei cimiteri
della zona di Tolmino, Tenente Cappellano Don Aimino con i suoi soldati di sanità scavatori e portatori.
Il Tenente Cappellano diede ordine di cominciare ed i scavatori, si misero all’opera: appena tolta un po’ di terra, tutti rimasero meravigliati
dalla cura speciale, dalla cura fraterna, con cui era stata fatta l’inumazione della salma di mio figlio e non dovevamo tardare molto ad averne
la spiegazione. Al di sopra della cassa di legno, ad impedire il contatto
della terra con la medesima, era stata sepolta su di essa anche la barella
su la quale il mio Mario era stato ivi trasportato; tutto intorno ai fianchi
della cassa; allo stesso scopo, erano stati disposti grossi rami d’albero.
Liberata la cassa di legno, con lungo lavoro e molta fatica, questa apparve assai ben conservata; si provò di sollevarla ma né in due, ne in
quattro uomini vi s riuscì: si tentò di far leva con dei ferri ed allora la cassa di legno si squarciò nei fianchi. Sollevata la parte superiore della cas-
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
sa di legno, avemmo la spiegazione di quella cura meticolosa con cui era
stata disposta nella fossa, poiché ci apparve il coperchio della cassa di
zinco non saldato. La cassa era stata costruita a Cividale e sul posto in
quel momento non dovevano esserci stagnai! Sollevato anche il copechio
della cassa di zinco constatammo che terra non v e ne era penetrata affatto, ma però era totalmente riempita di acqua; probabilmente da cinque
anni e mezzo la salma del mio povero Mario era immersa nell’acqua!
L’avverso Destino continuava a perseguitarlo anche nella tomba!
Ecco perché una voce misteriosa mi chiamava a Kamenka, ecco perché
un segreto istinto mi aveva spinto a fare il lungo viaggio! Mio figlio mi attendeva e potevo ancora rivederlo, in ben misere condizioni, è vero, ma
potevo rivederlo! Esso aveva bisogno dell’opera mia, della mia presenza,
perché quando restava di quel povero corpo, fosse finalmente conservato
nelle migliori condizioni possibili! Oh, se non mi fosse stato negato, dopo
la sua morte, il permesso di correrre a Kamenka, per sistemare convenientemente la sua salma, questo non sarebbe avvenuto.
Diedi subito ordine che fossero praticati dei fori nella parte della cassa
corrispondenti ai piedi, ed essendo questa sensibilmente inclinata da quella parte, l’acqua uscì con forza e in una mezz’ora la cassa si vuotò. Da prima l’acqua che usciva dai fori praticati nella cassa, era limpida ed inodore, m giunti in fondo, l’acqua uscì nerastra, ed avente forte odore cadaverico: sciolta in quell’acqua vi era la carne del figlio mio che, in quelle condizioni, ero costretto di lasciare scolare ed abbandonare per sempre.
La salma era avvolta nella coperta con la quale da principio mio figlio
fu sepolto in terra; la sua testina lievemente reclinata sulla spalla destra;
le tibie delle gambe, che uscivano dalla coperta, erano completamente
scheletrite e rivelavano lo stato generale della salma; i piedi, stati sepolti
con Lui, si erano totalmente disfatti, ma se ne vedevano le ossicine sul
fondo della cassa, e primo a segnalarmele fu il Tenente-Cappellano. Avrei
voluto sollevare la coperta che l’acqua aveva lasciata aderente alla salma
come una maglia, per baciare il teschio di mio figlio, ma me ne astenni
per timore che lo scheletro potesse disfarsi.
La presenza dei piedi assieme alla salma, era un documento prezioso
che rievocava tutto l’eccezionale stoicismo dell’eroico figlio mio: se Egli
fosse morto sul posto dove gli furono amputati i piedi, la loro presenza
nella cassa assieme alla salma, sarebbe stata affatto naturale; ma sappiamo invece che l’amputazione fu eseguita subito al posto di medicazione, che trovavasi a Volzana, quindi il ferito fu inviato all’ospedaletto da
campo di Val Kamenka dove morì il giorno appresso. Dunque i piedi staccati, avvolti nell’ovatta fenicata, viaggiarono con Lui nella barella, dal
posto di medicazione all’ospedaletto; né si può ammettere che il Sottotenente-medico Volpini, che lo operò gli abbia fatto di sua iniziativa, lo
strano dono dei due piedi staccati, avvolti nell’ovatta fenicata, dei quali
fin dalla prima esumazione, quando la salma fu collocata nella primitiva
cassa di legno, ne fu constatata l’esistenza.
E’ chiaro perciò che non può essere stato che il ferito stesso a rihiedere la consegna dei piedi amputati, che furono certamente trovati presso di
Lui al momento della sua morte e che per conseguenza vennero sepolti assieme alla salma. Quando si riflette che Egli si sapeva mutilato, orribilmente stroncato, ma certamente non credeva di morire, perché da quelle
ferite poteva guarire, viene spontanea alle labbra la domanda: - che voleva farne dei suoi piedi? –
E la risposta non può essere che una: voleva portarli a Roma dove aveva chiesto o voleva chiedere d’essere inviato; voleva farne un dono a suo
padre, che sperava di rivedere, quale testimonianza del suo eroismo, allo
stesso modo che da Ancona gli aveva portata la scheggia di granata che
gli aveva sfiorato il petto.
Portata la cassa di zinco sulla barella, io stesso la legai con una legatura speciale, la quale mi garantiva che la medesima non potesse scivolare dalla barella, nel pendio ripidissimo tra il cimitero e la mulattiera.
Il Plotone di Alpini erasi schierato sullla mulattiera e, dopo aver presentato le armi, s’incamminò precedendo la barella, seguita da me e dal
Tenente-Cappellano. I coniugi Buscaroli seguivano a cavallo perché essendosi la mulattiera trasformata in un torrente anch’essa, sarebbe stato
impossibile per la signora Buscaroli percorrerla a piedi.
Il Tenente-Cappellano un sacerdote della Val d’Aosta, bella figura di
filantropo, fraternizzante con i suoi soldati di sanità, con i quali era sempre in giro per i monti, alla ricerca di salme ed ossami per dare loro decorosa sepoltura nel cimitero militare di Tolmino, mi veniva raccntando
che gli Slavi, con barbarie inaudita, avevano cancellato da molte croci i
nomi dei nostri poveri morti, che la pietà dei compagni aveva consegnato appunto a quelle croci, perché fossero di conforto alle loro famiglie desolate. Maledizione ai barbari feroci che hanno privato di questo conforto tante povere madri! La mia affettuosa preveggenza aveva avuto ragione di non accontentarsi di una croce di legno!
Allo sbocco della Val Kamenka ci attendeva il Capitano degli Alpini,
Sig. Luigi Abbona, che ci era venuto incontro perché a Tolmino si era in
pensiero del nostro ritardo di oltre un’ora. Ci attendeva anche un soldato
con una bandiera tricolore che distendemmo sul feretro; su questa appuntammo la sciarpa da ufficiale di mio figlio, che avevo portata da Roma, e su la quale brillavano la medaglia d’argento al valore militare, la
Croce di Guerra ed il nastrino della compagna. Il Plotone degli Alpini si
era disposto per quattro; una punta di Alpini di 2 uomini, aveva l’ordine
di far togliere il cappello a tutti i borghesi che si incontravano con il corteo funebre; 6 Alpini ( 3 per parte) fincheggiavano la barella; i coniugi
Buscaroli scesi da cavallo, seguivano anch’essi la salma del mio Mario. Ci
rimettemmo in cammino, attraversando subito il villaggio di Volzana ed a
mezzogiorno si giungeva al cimitero militare di Tolmino, dove fin dalle
dieci e mezza, con gentile e patriottico pensiero si era riunita e ci attendeva la piccola colonia italiana di Tolmino.
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
Vi era il Comm. Giovanni Giordano, Commissario Civile (Sindaco) di
Tolmino con la sua Signora; il Colonnello Alessandro Cunietti, Comandante del Presidio; al Maggiore Buscaroli del Distretto di Tolmino, e la sua
signora, giunti con il corteo, si unirono la loro figliuola e la loro nipote;
del Distretto Militare vi erano anche il Capitano Alfonso Comune e signora, il Tenente Guido Di Matteo e Signora, il Tenente Antonio Lorigiola; del
Battaglione Alpini di Vicenza oltre al Capitano Luigi Abbona, giunto con
il corteo, vi erano i Tenenti Gabrio Balzarini, Tiziano Cigalin, Piero Palazzi; vi era anche il Tenente dei R. R. Carabineri Vincenzo Caserio con la
sua signora, ed infine la signora Pallotti.
Deposta la barella nel centro del nuovo cimitero, mentre gli Alpini
schierati rendevano gi onori militari, la gentile figliuola del Maggiore Buscaroli depose su la cassa di zinco un mazzo di garofani legati con nastro
tricolore, quindi io presi la parola per spiegare al mio adorato Mario, come se fosse vivo, le ragioni per cui avevo tardato tanto a recarmi da Lui.
Fra la commozione generale, io dissi:
Mario, figlio mio adorato svegliati ed ascoltami. Cadendo tu dichiarasti di aver fatto nulla di più che il tuo dovere verso a Patria; ed io ho tardato di venire quassù dove tu dormivi assieme agli altri nostri eroi, nella
speranza di poter compiere il mio dovere verso di te, appagando il tuo ultimo desiderio, quello cioè di dormire il sonno eterno vicino a tua madre.
Il tuo desiderio però non può essere appagato ancora, perché si è tentato
di impedire che le vostre salme gloriose fossero disseminate per tutti i cimiteri delle nostre cento città; si è avuto paura che le vostre tombe divenissero delle are, e da esse si sprigionasse irresistibilmente, e si propagasse nuovamente fra le folle ingannate, quel santo amor di Patria per il
quale deste serenamente la vostra giovine esistenza.
I nemici interi d’Italia, i bastardi d’italia, quelli che hanno disertata
la loro bandiera e tradito il loro paese; quelli che hanno irriso al vostro
sacrifizio, ed hanno voluto svalutare la nostra grande vittoria; quelli che
ci hanno impedito di raccogliere interamente i frutti di questa vittoria,
costringendoci ad abbandonare nel pianto e nella schiavitù, fratelli nostri che avevano sperato, che avevano creduto d’essere finalmente liberi;
quelli che bestemmiano la Patria ed avrebbero voluto imporle la più esosa delle tirannie, non avevano pensato che i vostri parenti, i vostri compagni d’armi, sarebbero corsi alla riscossa ed abbattuto il loro effimero
potere, li avrebbero ricacciati nelle loro tane, da dove erano usciti con
l’aiuto dell’oro straniero 63.
Fra poco, spero, io rifarò questo doloroso pellegrinaggio per ricondurti alla tua Roma, che tu hai onorato con la tua bella morte romanamente stoica, e collocarti vicino alla madre tua; poi, compiuto anch’io il mio
dovere, mi collocherò vicino a te e dormiremo assieme per tutta l’eternità;
cessato allora ogni dolore, le mie ossa fremeranno di santo orgoglio,
quando i posteri, passando davanti alla nostra tomba, li udirò ripetere: Qui riposa uno degli eroi dellla grande e terribile guerra, dagl’italiani
63: Queste parole profetiche si avverarono un anno e mezzo dopo, con la vittoria completa del Fascismo, alla fine dell’Ottobre 1922.
combattuta e vinta, che diede i confini terrestri, storici e geografici, alla
Patria nostra, qui, in questa tomba, dormono tre generazioni di combattenti volontari per l’unità ed indipendenza d’Italia!
Attendi, o Mario, ancora per poco, qui ai confini del tuo paese, che hai
bagnati del tuo sangue generoso; attendi, o Mario, ancora per poco, fra i
tuoi eroici compagni, finchè tuo padre possa venire a prenderti. E verrò a
prenderti sicuramente, perché se da una parte, il dolore immenso che ho
nel cuore, va consumando rapidamente le mie forze, dall’altra, l’orgoglio
d’essere il padre d’un eroe, me ne lascierà a sufficienza per compiere il
mio dovere.
Dormi in pace, Mario mio diletto, figlio e cittadino esemplare, soldato
valoroso, dormi in pace e che la tua santa memoria sia benedetta, benedetta, ora e sempre.
Dopo di me prese la parola il Colonnello Cunietti, comandante del Presidio, il quale citò ad esempio la condotta eroica del valoroso giovane, il
cui sacrifizio era doppiamente meritevole, poiché Sottotenente di Milizia
Territoriale, si recò volontariamente al fronte a fare olocacusto della propria vita alla Patria. Terminato il suo incisivo e militarmente efficace discorso, il Colonnello inchinossi a baciare la sciarpa deposta su la bara.
Anche il Comm. Giovanni Giordano, Commissario civile di Tomino,
volle prendere la parola dopo il Colonnello Cunietti e, con un elevato e patriottico discorso, onorare la memoria del glorioso caduto.
Da ultimo il Maggiore Buscaroli, a nome mio, ringraziò sentitamente le
autorità, gli ufficiali, le signore ed i signori italiani di Tolmino che, spontaneamente, avevano voluto con la loro speranza e con la parola onorare
la memoria del mio valoroso figliuolo.
Terminata la cerimonia, la salma venne trasportata in una specie di
camera mortuaria e lasciata in custodia di due soldati di sanità. Alle 14 e
mezza mi recai nuovamente al cimitero, raggiunto poco dopo dalla famiglia Buscaroli e dal Tenente-Cappellano; più tardi, anche dal Colonnello
Cunietti e da qualche altro ufficiale, per la inumazione della salma dell’eroe nella sua tomba provvisoria: la cassa di zinco però oltre che della
saldatura del coperchio, aveva bisogno anche di essere scorciata. Costruita a Cividale fu fatta lunga due metri perché potesse entrarvi la cassa di legno, entro cui, in quel momento, trovavasi la salma; se però la
cassa era stata costruita sufficientemente lunga non era stata atta sufficientemente larga, ed allora si dovette togliere la salma dalla cassa di legno e metterla nella cassa di zinco, e questa in altra cassa di legno, costruita espressamente.
Scorciata quindi la cassa di zinco dalla parte della testa e ridottala a
metri 1,80; saldata accuratamente la nuova testata, il coperchio, e chiusi
i fori, fatti per l’uscita dell’acqua, con una lastrina di zinco, pure saldata, la cassa di zinco, riconoscibile sempre per la targa di ottone contenente il nome di mio figlio, fu deposta, assieme al mazzo di garofani della Signorina Eugenia Buscaroli, in una nuova cassa di legno, di forma ret-
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LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
teangolare, e quindi collocata nel loculo vicino a quello di Alessandro Buscaroli, ossia il secondo della fila inferiore da Ovest a Est. Murato il loculo in mia presenza, su la sua facciata è stato murato il ramo bronzeo di
palma ed una targa di ottone con il nome di mio figlio, la data della sua
nascita e quella della sua morte.
A Tolmino la salma del mio Mario ora attende che nostro Governo ne
permetta il trasporto a Roma.
Il domani di buon ora il Maggiore Buscaroli mi riaccompagnava alla
stazione di Santa Maria di Tolmino, dove, appena lasciatomi, si manifestava nuovamente lo sconforto che mi aveva assalito all’arrivo; Giunto a
Trieste alle 10,20, malgrado la vedessi per la prima volta, ne ripartivo con
il direttissimo delle 17.35, e non riacquistai la mia forza d’animo che dopo aver versato qualche lacrima tra le braccia di mia moglie.
Scrivo il paragrafo del trasporto della salma del mio adorato Mario da
Tolmino a Roma, più presto che non avessi creduto: pochi giorni dopo il
ritorno da Tolmino, il 7 Maggio 1921, un Decreto Ministeriale permetteva, fino al prossimo Ottobre, il trasporto dalla zona di guerra, a spese delle rispettive famiglie, delle salme già racchiuse in cassa di zinco, e relativa cassa di legno d’imballaggio. Dopo l’Ottobre sarebbe stato vietato il
trasporto a spese delle rispettive famiglie, ed incominciato invece il trasporto gratuito delle salme, con quelle regole che intanto la Commissione
Reale, appositamente nominata, stava studiando 64. A rendere meno sensibili le spese ferroviarie, era stata accolta una mia proposta, fatta in seno
al Consiglio dell’Associazione Nazionale tra le famiglie dei cadurti in
guerra, e per via ufficiale giunta al Governo, e cioè che in un vagone invece di trasportare una sola salma, se ne trasportassero quante il vagone
era capace di contenere, e ciò per eliminare l’opposizione che l’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato faceva al trasporto delle salme, per
mancanza di materiale rotabile.
Il Decreto succitato del 7 Maggio 1921, stabiliva che in un vagone si
potessero trasportare fino a 10 salme: di queste, una doveva pagare il
prezzo intiero fissato dalle tariffe ferroviarie per quel dato percorso, le altre pagavano soltanto il 25 per cento del prezzo fissato da tali tariffe; si
capisce che le famiglie interessate, avrebbero diviso in parti uuguali l’intiera somma pagata facendo una non disprezzabile economia, mentre a
qusto modo lo Stato, malgrado l’agevolazione concessa, veniva a guadagnare un sopraprezzo sul trasporto dei gloriosi morti per la Patria!
Scrissi subito a Tolmino al Maggiore Buscaroli, perché dal TenenteCappellano mi facesse avere la nota delle salme dei Romani sepolti nei cimiteri della giurisdizione di Tolmino e l’indirizzo delle rispettive famiglie
a sua conoscenza. Pochi giorni dopo ricevetti una nota di 7 salme con 5
indirizzi ben definiti delle rispettive falmiglie e due assai incerti ( diceva:
impiegato al Ministero). Scrissi a quei 5 indirizzi onde mettermi d’accordo per il trasporto delle 6 salme, ma non, riuscii a concretare nulla.
Ero dolorosamente rassegnato ad attendere il trasporto gratuito, poi64: Il trasporto delle salme a spese delle rispettive famiglie è continuato anche dopo l’Ottobre 1921, mentre del trasporto gratuito non se ne sente più parlare!
ché il mio povero Mario era morto, forse, nel punto ferroviario più lontano da Roma e perciò il più costoso. Il vagone, unicamente per la sua salma, da Santa Lucia di Tolmino a Roma, richiedeva una spesa di duemila
e ventuno lire, aggiungendovi il mio viaggio e tutte le altre spese inevitabili in tali circostanze, calcolavo che in complesso, la spesa totale per il
trasporto della salma di mio figlio a Roma dovese superare le tremila e
cinquecento lire. A causa del furto ingente fatito l’anno avanti, ed al quale ho accennato nel paragrafo precedente di questo capitolo, tale spesa, in
quel momento, mi sarebbe riuscita non impossibile, ma certamente gravosa non solo, ma anche imprudente, perché data l’eventualità di poter
essere messo in pensione da un momento all’altro, mi sarei privato di una
somma, in tale evenienza, indispensabile per me.
Non avendo potuto quindi dividere, come tanti altri, la spesa ferroviaria in quel numero di famiglie possibilmente maggiore, avevo dovuto rassegnarmi ad attendere ancora un paio d’anni e forse più, il trasporto gratuito. Improvvisamente un colpo di scena, capovolgeva addirittura la situazione, rendendo possibile l’immediato trasporto della salma di Mario.
Il Destino doveva essersi stancato di perseguitarci entrambi!
Il Tenente-Colonnello Romualdo Birri, Presidente dell’Associazione
Nazionale tra le famiglie dei caduti in guerra, di cui facevo parte, mi invitava in casa sua, e mi comunicava che nel cimitero di Tolmino, vi era la
salma di un ferroviere romano ( a me non data in nota dal Cappellano militare di Tolmino, forse perché trattavasi di un caso speciale), la quale stava per esser ricondotta a Roma. E siccome ai ferrovieri, dalla loro amministrazione, era stato concesso il privilegio di poter avere gratuitamente
un vagone per il trasporto dei loro figli morti in guerra 65 e siccome era loro concesso anche di potere accordare il permesso, che altre salme di caduti viaggiassero nello stesso vagone, pagando, s’intende, il 25 per cento
del prezzo intiero della tariffa, così egli aveva chiesto al ferroviere Ponzi
Ernesto, il permesso che, assieme alla salma di suo figlio, potesse viaggiare anche la salma del Sottotenente Mario Moderni, e tale permesso era
stato accordato. Quindi a me non restava che compiere che alcune formalità, che m’indicava, presso la Direzione Generale delle Ferrovie, e disporre per il trasporto della salma di mio figlio. Stando così le cose, io potevo risparmiarmi benissimo anche un secondo viaggio a Tolmino, tanto
più che i vagoni contenenti le salme dei caduti, non potendo viaggiare con
i treni diretti, ma soltanto con gli accelerati, ed a meno quindi di fare un
viaggio lungo e disagiato per lunghe fermate e relativi cambiamenti di
treni diretti, non avrei potuto viaggiare con la salma di mio figlio, era
molto meglio rinunziare a questo viaggio, che consideravo un dovere, poiché era una promessa che il mio cuore aveva fatta alla memoria santa del
figlio mio, ed occuparmi invece qui a Roma dei suoi funerali.
Compiute le formalità presso la Direzione Generale delle Ferrovie, nei
primi giorni di Luglio furono spedite a Tolmino la domanda mia e quella del ferroviere Ponzi, onde ottenere dal Commissario Civile ( Sindaco)
65: Per questa classe privilegiata così cara ai Socialisti, non vi era penuria di materiale rotabile!
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LA SALMA DELL’EROE
il nulla-osta necessario per l’ottenimento del vagone dall’Amministrazione delle ferrovie. Avendo pregato poi il Maggiore Buscaroli, di sollecitare la pratica questi rispose che i due Decreti erano partiti per Roma, in
piego raccomandato, fin dal 14 Luglio. Nell’attesa che queste carte arrivassero da un momento all’altro, ci avvicinavamo alla fine di Luglio,
mentre per ricerche fatte, di queste benedette carte si era perduta ogni
traccia. Allora, con l’intervento del Tenente-Colonnello Birri, chiedemmo un duplicato dei due nulla-osta, che ci vennero spediti per la fine di
Luglio: però con i nulla-osta non era stato possibile rinnovare anche i
documenti che ai medesimi erano allegati, e questo fatto avrebbe potuto
procurarci delle seccature.
Finalmente il 5 Agosto, il Tenente-Colonnello Birri, nella sua qualità
di Presidente dell’Associazione Nazionale, tra le famiglie dei caduti, ricevette i due nulla-osta e relativi documenti annessi, che gli venivano trasmessi da un’altra società cattolica di madri, vedove ecc.ecc. , costituitesi troppo abbondantemente, la quale aveva ricevuto, per un disguido postale, fin dalla metà di Luglio le due pratiche, ed aveva aspettato fino al
5 Agosto a farne la dovuta consegna al destinatario!
Questo ritardo mi aveva messo in una posizione imbarazzantissima:
tutte le nostre conoscenze più intime con il1° Agosto erano partite per il
mare o per i monti e la maggior parte vi si sarebbero trattenute fino ad
Ottobre, però per la fine di Agosto qualche famiglia dei nostri amici sarebbe tornata. Bisognava oramai ritardare il trasporto della salma di Mario, almeno fino alla fine di Agosto, per non correre il pericolo di doverci
trovare dietro al carro di quel povero figliuolo, io e mia moglie soltanto,
oltre i pochi ufficiali comandati. Ne parlai al Birri, il quale si assunse lui
l’incarico di trattenere con qualche pretesto il Ponzi.
Intanto però venivo preparando quanto occorreva perché i funerali del
mio diletto figliuolo, malgrado la stagione nella quale Roma si spopola,
non restassero del tutto ignorati. Cominciai a spedire in tempo il denaro
necessario al Maggiore Buscaroli, sia per pagare il vagone ferroviario da
Santa Lucia di Tolmino a Roma, sia per tutte le altre spese eventuali che
si dovessero fare a Tolmino. M’intesi con il Tenente-Colonnello Birri perché al momento opportuno mi aiutasse per le inserzioni su i giornali; lo
stesso feci con il Comm. Francesco Cisotti, Segretario Generale della Federazione Nazionale delle Società Militari, per assicurarmi l’intervento
delle medesime ai funerali; prevenni del prossimo arrivo della salma di
Mario, la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie Giuseppe Garibaldi,
che lo aveva nominato socio onorario, perché rendesse ad essa le maggiori onoranze possibili.
Finalmente il 25 Agosto, il ferroviere Ernesto Ponzi, al quale avevo
consegnato un biglietto di presentazione per il Maggiore Buscaroli, partì
per Tolmino dove arrivò la sera del 26. Mercè la preparazione da me fatta a mezzo del buon Maggiore Buscaroli, il Ponzi nella giornata del 27 potè sbrigare tutte le pratiche, esumare le due salme e prepararle perché po-
tessero partire subito. Infatti, il giorno stesso del 27 Agosto, la salma del
mio Mario, tolta dal loculo alla presenza del Maggiore Buscaroli, e quella
del figlio del ferroviere Ponzi, alle 15,30 dopo aver ricevuto gli onori militari, posta sopra una carretta da battaglione e ricoperta da una grande
bandiera della Patria, guidata da soldati ed accompagnata da un parente
del Ponzi, partito assieme a lui, presero la via di Santa Lucia di Tolmino,
distante 7 chilometri. Il Maggiore Buscaroli, accompagnato dal Ponzi,
aveva preceduto le salme, in biroccino, alla stazione per riceverle e per
perpararne la spedizione, ed alle 18, circa, partivano per Roma.
In una lettera scrittami il 18 Settembre, il Maggiore Buscaroli così mi descrive la partenza della salma di mio figlio dalla stazione di Santa Lucia:
Ma il suo Mario è certamente ora assai più contento perché dal Babbo e dalla Mamma riceve i fiori della città che lo
vide nascere, dopo avere ricevuto da ignote ma affettuose
mani, quelli dei luoghi redenti che lo videro morire.
Egli volle abbandonarli questi luoghi, egli volle ritornare
alla sua Eterna Roma ed io fremo alla stazione di Santa Lucia, dopo averlo composto nel suo vagone, lo vidi muovere, lo
seguii con lo sguardo finchè mi fu possibile vederlo e in quell’istante provai una stretta al cuore simile a quella che un
genitore sente allorchè si distacca da un figlio. Ma questo
mio dolore era necessario per la di Lui tranquillità e per quel
tanto di oscura felicità che può arrecare una sventura del genere della nostra.
Le salme dovevano arrivare a Roma il giorno 30 Agosto alle ore 24, ma
la salma del figlio dl ferroviere fece il miracolo di farle arrivare invece alle ore 13! Conseguenza di ciò fu che nessuno si trovò alla stazione a ricevere il mio Mario: seppi del suo arrivo in Roma, il domani mattina quando le salme erano già state trasportate da un’autoambulanza all’Ospedale Militare del Celio.
Nel pomeriggio del 31 Agosto, io e mia moglie, ci recammo al Celio a
visitare la salma di nostro figlio ed a fargli un pò di toilette. Le due salme erano state trasportate nella piccola cappella annessa alla camera incisoria dell’ospedale militare. Svitata la bella targa romana d’ottone, che
avevo fatto apporre sul suo loculo a Tolmino e che il Maggiore Buscaroli
aveva fatta avvitare su la cassa d’imballaggio, aprimmo quest’ultima e,
dopo avere tirata fuori la cassa di zinco, su di essa, al disotto della piccola targa di ottone messavi nel 1916, facemmo saldare l’artistica targa romana di ottone. Coprimmo la cassa di zinco con una bandiera tricolore,
su la parte della cassa corrispondente a piedi, ponemmo i due rami di palme in bronzo che avevo portato a Tolmino e che ritornavano a Roma con
lui; su la parte corrispondente alla testa della salma, ponemmo un vaso
contenente un mazzo di fiori freschi a rimpiazzare quelli che il buon Bu-
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scaroli aveva deposto su la cassa al momento della partenza da Tolmino.
Il 1° od il 2 Settembre, la salma del figlio del ferroviere Ponzi sarebbe stata portata via; quella del nostro Mario dovendo restarvi fino al
giorno 4, noi demmo tutte le disposizioni perché la salma di nostro figlio,
rimasta sola, fosse collocata nel mezzo della cappella trasformata in camera ardente.
Il giorno 2 Settembre, tutti i giornali di Roma pubblicavano l’avviso
seguente, diramato dalla Presidenza dell’Associazione Nazionale tra le famiglie dei caduti:
LA SALMA DI UN ALTRO EROE ROMANO CHE RITORNA
E’ giunta a Roma la salma di Mario Moderni, figlio unico
del Colonnello Moderni, veterano delle patrie battaglie. –
Studente all’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma, andò
volontario al fronte; Sottotenente nel 93° Reggimento di fanteria, combattè intrepidamente e cadde da eroe davanti a
Tolmino il 2 Novembre 1915, meritandosi di motu proprio
dal Re, la medaglia d’argento al valore militare.
S’invitano gli amici, i studenti, la associazioni militari e
patriottiche a volere onorare la memoria del valoroso socio
onorario della Società dei Reduci delle Patrie Battaglie =
Giuseppe Garibaldi = intervenendo con le loro bandiere al
trasporto della di Lui salma, che avrà luogo domenica 4 Settembre alle ore10, partendo dall’Ospedale Militare principale il Celio.
Il giorno 3 Settembre, la Società dei Reduci delle Patrie Battaglie =
Giuseppe Garibaldi = diramava quest’altra Circolare, che tutti i giornali
romani pubblicavano:
SALME DI EROI CHE TORNANO
Domani mattina, alle 10, verranno rese solenni onoranze
alla salma del giovane ufficiale Mario Moderni, figlio del Consigliere della Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, Colonnello Pompeo, vecchio garibaldino e figlio di garibaldino 66;
Mario Moderni sottotenente del 93° Fanteria, il 2 Novembre 1915 combattè intrepidamente per 14 ore nelle trincee di
Santa Maria di Tolmino; colpito da una granata che gli fratturava entrambi i piedi, respinse i portaferiti che volevano
trasportarlo e continuò a comandare il plotone. Condotto poi
al posto di medicazione, i piedi gli furono amputati ( durante l’operazione non volle essere addormentato) . Morì il giorno seguente tra spasimi atroci, senza avere emesso un gemito,
66: Questa è un’inesattezza, mio padre non essendo stato garibaldino. E’ mio suocero invece Giuseppe Gordini, che ha appartenuto alle famose Legioni Romane, le quali prima che si formasse il corpo dei garibaldini, si batterono a Cornuda, Treviso,
Vicenza , venezia;e poi assieme ai garibaldini a Palestrina, Velletri Roma.
senza avere versato una lacrima, inneggiando alla Patria.
Il corteo muoverà dall’Ospedale Militare del Celio scortato dai pochi Garibaldini superstiti della società dei reduci
dalle Patrie Battaglie = Giuseppe Garibaldi.=
S’invitano tutte le Associazioni militari e liberali ad intervenire con i rispettivi vessilli.
Nel pomeriggio del giorno 3 settembre, io e mia moglie, portammo altri fiori al nostro Mario, andando a verificare se la camera ardente era stata preparata secondo le nostre istruzioni; nei giorni uno e due, ci fu impossibile di recarci all’Ospedale Militare e fummo dispiacentissimi di non
poter passare, presso la salma adorata del nostro figliuolo, la maggior
parte di quei cinque giorni di sua permanenza nella piccola cappella dell’Ospedale Militare, ma ne fummo impediti dalla preparazione dei suoi
funerali e specialmente dalla durezza burocratica dell’Uffico muniicipale
di polizia mortuaria, il quale mi fece correre diversi giorni, per ottenere
l’assegnazione del carro mortuario onde potere con sicurezza diramare
gl’inviti per i funerali; assegnazione che finalmente ottenni 48 ore prima
del suo trasporto! Alcuni nostri amici, uomini e donne, dovetttero incaricarsi di dover recapitare a mano gran parte delle Circolari stampate per
l’invito ai funerali, perché non v’era più tempo a spedirle per la posta; La
Circolare era la seguente:
Il Colonnello Pompeo Moderni e Rosina Gordini in Moderni partecipano alla S. V. che proveniente da Tolmino è
giunta a Roma la salma del valoroso loro figlio.
MARIO
Sottotenente del 93° fanteria.
Saranno grati alla S. V. se vorrà prendere parte al trasporto funebre che avrà luogo il 4 Settembre ( Domenica) alle
ore 10 partendo dall’Ospedale Militare principale del Celio.
La piccola cappella era una Camera ardente ben modesta: alcune piante ornamentali, 6 candelieri con ceri, 2 lampade elettriche; ma questa semplicità non mi dispiaceva, perché si addiceva all’austerità del carattere militare, quello che mi ha dispiaciuto invece si è che quella povera salma sia
stata obbligata a restare 5 giorni e mezzo deposta in un locale destinato
agli usi di culto di una religione, poco importa quale, continuando a dovere sopportare le violenze usategli per 6 anni, prima a Kamenka dove, naturalmente, fu sepolto con gli onori religiosi e su la sua tomba furono messi emblemi religiosi, mentre a Lui ed a me sarebbero bastati gli onori militari; e poi a Tolmino dove fu sepolto ancora con gli onori religiosi e ribenedetto certamente dal prete prima di partire per Roma.
Comprendo e convengo che in questa guerra si dovesse tenere il debito
conto dei sentimenti religiosi delle masse ignoranti ed analfabete, ma non
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
si dovevano per queto violentare le coscienze dei non cattolici e dei liberi
pensatori; c’era modo di rispettare i sentimenti di tutti; dal canto mio credetti prudente lasciar fare e non protestare per i così detti onori religiosi di
Kamenka e di Tolmino, per timore di non più ritrovare quella salma adorata; non ho protestato a Roma, perché nessun locale era stato preparato
per ricevere le salme dei nostri gloriosi che tornavano al luogo nativo: o in
chiesa o niente! E la libertà di coscienza dov’è andata a finire, temo assai
che a questo proposito, l’ultima guerra ci abbia riportato indietro di un bel
tratto di strada, su la via della libertà e della civiltà!
Infatti, fra un mese vi sarà la funzione del milite ignoto che sarà un
monumento d’incoscienza! Si è cominciato a sbagliare nel simbolo e si
sbaglierà necessariamente fino in fondo. Per la smania della novità, non
si doveva onorare l’esercito vittorioso nella salma di un soldato ignoto,
che potrebbe essere anche quella di un vile o un traditore, morto fucilato con sei palle nella schiena, ma invece (lasciando urlare i Socialisti)
concedendo gli onori del trionfo, come facevano i nostri antichi, ai reduci della guerra, e raccogliendo poi in ossari monumentali i resti gloriosi dei caduti. Per accontentare il sentimento intransigente dei cattolici, si renderanno al soldato ignoto anche solenni onori religiosi in una
chiesa cattolica, senza riflrettre che quegli onori diventano una violenza inaudita, pur che si affacci il dubbio che quella salma potesse esser
quella di un individuo non cattolico o non credente. Dal momento che si
era adottata la strana proposta di festeggiare la nostra vittoria non con
un trionfo, ma con un funerale, si poteva fare benissimo questo funerale senza la salma, come usano spesso i preti cattolici ( e forse anche i
non cattolici) nelle loro chiese, e così evitare il pericolo di tributare solenni onoranze militari a ci forse era morto fucilato, e solenni onoranze
religiose a chi forse, se avesse potuto alzare la testa dal suo feretro,
avrebbe protestato energicamente contro tale fenomenale violenza, fatta ad un povero morto!
Ad ogni modo io avevo provveduto che alla salma del mio Mario, qui
in Roma, all’infuori della permanenza in un locale adibito al culto cattolico, nessun altra violenza fosse ad essa fatta, ed i suoi funerali, le ultime
testimonianze di affetto e di rimpianto da parte di parenti ed amici, rivestissero il carattere rigorosamente civile.
Nel pomeriggio del giorno 3, trovammo sul feretro del nostro Mario, la
carta da vista del Comm. Attilio Monaco, fratello del Capitano Monaco,
comandante del 93° Battaglione al quale apparteneva Mario, morto eroicamente Tolmino la mattina del giorno 2 Novembre 1915, lo stesso giorno cioè dl pomeriggio del quale cadeva mio figlio.
Con la sua carta a visita mi chiedeva un appuntamento, per avere notizie da me onde ritrovare la salma di suo fratello, come infatti ha potuto
poi ritrovare.
Il giornale l’Esercito Italiano, uscito la era di sabato 3 Settembre aveva questo articoletto:
LA SALMA DI UN VALOROSO
Proveniente da Tolmino è giunta la salma del Sottotenente Mario Moderni, figliuolo del Colonnello Pompeo Moderni,
nostro collaboratore ed amico carissimo.
Domenica la salma di questo valoroso, spento nel fiore
degli anni, rapito dall’affetto di suoi e di quanti avevano già
potuto apprezzare le di lui doti di mente e di cuore, sarà
composta nel sepolcreto famigliare al Verano.
Anche se assenti, con l’animo commosso assistiamo, noi
tutti della redazione del giornale, alla mesta cerimonia.
I resti di questi valorosi che ritornano in Patria in questi
giorni burrascosi, in cui sembra che gl’Italiani abbiano
smarrito il senso della giusta via, ci siano di monito che soltanto con il lavoro e con la pacificazione degli animi, l’Italia
potrà raccogliere i frutti della grande vittoria.
Alla salma del Tenente Mario Moderni il nostro giornale
invia un comosso e riverente saluto.
Il mattino del giorno 4, appena alzato, misi alla finestra del mio studio la bandiera tricolore abbrunata. Alle 9 venne il Colonnello Giuseppe
Cagno in grande tenuta a prenderci ed io lo avevo pregato di volere, in tale circostanza, rappresentare la mia famiglia, ed in unione ad Enrico Morganti, l’amico intimo del mio Mario, incaricarsi dell’organizzazione del
corteo. Alle 9 e mezza montammo in carrozza dirigendoci al Celio: ad
onorare il mio amato figliuolo, anch’io avevo indossato, probabilmente
per l’ultima volta, l’alta uniforme anteguerra.
Al Celio, abbenchè non fossero ancora le 10, vi era già folla ad attendere l’ora del trasporto funebre; questa prima constatazione riconfortò
l’animo mio, il quale temeva che, per l’assenza da Roma delle persone
conle quali eravamo in più stretta relazione, la salma del mio figliuolo dovesse essere condotta alla sua ultima dimora, senza quella dimostrazione
di affettuosa ammirazione, che la sua bella condotta erasi meritata. Quel
giorno però oltre a gradevoli sorprese mi attendevano: sotto il pronao della cappella del Celio incontrai il Comm. Ettore Mossolin e, nella camera
d’ingresso, che precedeva la cappella, seduta in un angolo, piangendo il
suo Mario, la signora Vittoria Mossolin padre e madre della fidanzata di
mio figlio; che molto inopportunamente avevano troncata ogni relazione
con me e con mia moglie, dal giorno del matrimonio della loro figlia, perché noi, e se ne comprende facilmente la ragione, non avevamo voluto
stringere una relazione con chi aveva sostituito nostro figlio nel cuore della sua Amalia, né prendere parte alcuna a quella cerimonia nuziale. Per
questo fatto non avevo inviato alla famiglia Mossolin la Circolare d’invito al trasporto funebre, ma avendo saputo dai giornali di questo funerale, erano venuti ed avevano deposto sul feretro del buono ed affettuoso
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
giovane, che avrebbe dovuto diventare loro stretto congiunto, un bel cuscino di fiori.
Entrato nella piccola Camera ardente, nella quale oltre il cuscino di
fiori della famiglia Mossolin, erano state deposte la corona di alloro con
nastro tricolore, che avevo fatto fare per il mio eroico figlio, e quella di
fiori che mia moglie aveva ordinato per il suo Mario buono, mi trovai faccia a faccia con Ettore Ferrari, Presidente dell’Istituto Superiore di Belle
Arti di Roma, del quale, come si è detto nei capitoli precedenti, Mario Moderni era alunno, ed al quale neppure avevo inviato la Circolare d’invito,
per la condotta addirittura ostile (per ragioni che lascio nella penna) tenuta nel 1916, in occasione della commemorazione da me fatta al Verano, nel primo anniversario della morte di mio figlio; All’annunzio, dato
dai giornali, dell’arrivo della salma del Sottotenente Mario Moderni, allievo dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma, la presidenza dell’Istituto non aveva creduto potersi esimere d’intervenire, ed era intervenuta
con una Commissione formata dal Presidente, dal Segretario, da vari professori, probabilmente vi saranno stati anche degli alunni, come vi erano
degli uscieri che portavano la bandiera dell’Istituto ed avevano deposto
nella camera d’ingresso una grande e splendida corona d’alloro a bacche
dorate con ricco nastro tricolore. Mescolato tra la folla e piangente come
un coccodrillo, eravi pure mio fratello, che aveva portato una bella corona di fiori con ricco nastro di crespo nero. Molto meglio avrebbe fatto a
non separarsi da me per assicurare ai nipoti di sua moglie, contro la volontà di nostra madre, la metà dell’eredità da essa lasciata a mio figlio e
che io desideravo andasse per intiero, dopo la nostra morte, a costituire il
fondo della Fondazione Mario Moderni, che sarà spero non solo un monumento civile eretto alla memoria del giovane eroe morto per la Patria,
ma anche un monumento che ricordi il nostro casato, che si spegne appunto per amor di Patria.
Fin dalle 7 del mattino una squadra di miei compagni Garibaldini,
della Societa dei Reduci delle Patrie Battaglie Giuseppe Garibaldi, vestiti
della loro camicia rossa, si erano recati al Celio per far guardia di onore
alla Camera ardente: ve ne erano due nell’interno della Camera ardente e
due nella Camera d’ingresso, che venivano di tanto in tanto sostituiti da
altri. Nella camera d’ingresso erano state deposte le cinque grandi corone
inviate da mio fratello, dall’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma, dalla Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, dai coniugi Fontana e dall’Ingegnere Baraffael.
Entrando all’Ospedale Militare del Celio in divisa da Colonnello di
Fanteria, fui ricevuto dal Maggiore-medico Aiutante-Maggiore, che mi accompagnò fino all’ingresso della camera ardente; poi venne a presentarsi
un Tenente di Fanteria, del quale disgraziatamente mi sfugge il nome, che
il Comando della Divisione Militare Territoriale di Roma aveva messo a
mia disposizione per l’organizzazione e direzione del corteo, compito che
questo bravo ufficiale disimpegnò con tanta cura e competenza che, mer-
cè sua e del Colonnello Cagno, l’accompagno funebre di mio figlio, così
militarmente ordinato, dato il numero ragguardevole d’intervenuti, riuscì
una grande dimostrazione non solo affettuosa, ma anche imponente.
Gli inviti all’accompagno funebre erano stati diramati per le ore 10,
tenendo conto dei probabili ritardatari, ma effettivamente il carro funebre municipale avrebbe dovuto arrivare alle 10 e mezza precise; però nè
alle 10 e mezza, nè alle 10 e tre quarti il carro non era arrivato, si che io
cominciai a temere seriamente che la folla di signore e signori che attendeva già da un pezzo, si fosse stancata e dispersa; invece gente continuava sempre a giungere.
Finalmente alle 11 suonate giunse il sospirato carro e la cerimonia cominciò.
I miei vecchi Garibaldini vollero assolutamente avere essi l’onore di
portare a spalla la cassa di zinco, ricoperta dalla bandiera tricolore, dalla camera ardente al carro funebre; sul medesimo venne deposta la sua
giubba militare grigio-verde, il berretto e la sciarpa da ufficiale; sul carro venne pure deposto il cuscino di fiori della famiglia Mossolin ed i due
mazzi di fiori portati da mia moglie; dietro al carro fu attaccata la mia corona di alloro, quella di fiori di mia moglie e quella grande di alloro dell’Istituto Superiore di Belle Arti. Le altre corone, sistemate su due carrozze, seguivano in coda il corteo. Attraversati i giardini e l’androne dell’Ospedale Militare del Celio, quando il corteo uscì su la via Celimontana, il
medesimo era già ordinato perfettamente: precedeva la musica dell’81°
Fanteria, seguita da un Plotone di Fanteria (i Plotoni assegnati erano 2,
ma essendo quel giorno tutta la guarnigione consegnata per i 30 mila pellegrini cattolici venuti a gridare Evviva il Papa-Re per le vie di Roma, intervenne al funerale un solo Plotone) dietro il Plotone di Fanteria erasi
formata una squadra di garibaldini in camicia rossa; seguiva il carro funebre i cui 8 cordoni erano retti da altrettanti ufficiali subalterni delle varie armi in alta tenuta; il carro era fiancheggiato da Carabinieri pure in
alta tenuta. Dietro al carro venivano due bambine biancovestite, una delle quali portava le due palme in bronzo che erano ritornate da Tolmino,
l’altra recava un cuscinetto di raso bianco sul quale erano appuntate le 5
decorazioni del defunto. Dietro alle bambine eravamo io e mia moglie; ad
una certa distanza seguivano le autorità; di seguito ad esse il gruppo delle 12 bandiere e dei labari delle diverse associazioni intervenute ai funerali; poi la folla di signore e signori, un insieme di un migliaio di persone,
che avevano voluto rendere questo ultimo tributo di affetto al giovine
eroe; chiudeva il corteo una squadra del Fascio Romano di Combattimento con il suo gagliardetto. Il corteo per la quantità di associazioni intervenute, per il concorso di autorità e conoscenti della famiglia, e per la
sua ordinata compostezza riusciva imponente. Da Via Celimontana il corteo voltò per lo stradone di San Giovanni in Laterano, poi all’angolo della chiesa di S. Clemente voltò ancora e si distese per via Labicana, voltò
ancora per via Merulana che avrebbe dovuto percorrere fino a via dello
Statuto, ma visto che per il ritardo del carro erasi fatto già mezzogiorno,
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
giunto il corteo al’altezza di Via Alfieri, ordinai che voltasse per questa
via e, per Piazza Dante e via Cairoli il corteo sboccò in via Conte Verde,
proprio davanti alla mia abitazione dove il carrò sostò. Qui un’altra folla
attendeva fin dalle 10, ed appena giunto il carro lo circondò si che a pochi di quelli che facevano parte del corteo riuscì di avvicinarsi al carro.
Fattosi silenzio, presi la parola e pronunziai il discorso seguente:
Con coscienza di patriota con amore di padre, volevo fare di Te, o figlio mio, un cittadino esemplare, ed invece gli eventi ne fecero un soldato
valoroso, un soldato eroico, per il Tuo stoicismo, degno dei più bei tempi
di Roma antica.
Il tuo Colonnello ammirato del Tuo coraggio, della Tua energia, del
Tuo sangue freddo, durante 14 ore di combattimento e del Tuo satoicismo
dopo l’orribile mutilazione, volle farmi dono del rapporto dei portaferiti
che, respinti da Te una prima volta, poterono al fine condurti via dalla
trincea di Santa Maria di Tolmino, consigliandomi di farlo fondere in
bronzo. Esso dice: durante il lungo tragitto, come durante l’amputazione
dei piedi (per la quale non volle essere addormentato) le sofferenze atroci del ferito erano rivelate dal pallore estremo del volto, ma dalla sua bocca non uscì mai un gemito, i suoi occhi non versarono una lacrima.
E così, fra spasimi atroci Ti mantenesti per 30 ore, incitando i soldati
ed inneggiando alla Patria!
Non potendo altrimenti Ti affermasti eroicamente nella Tua morte romanamente stoica!… Grazie, grazie, o fortissimo figlio mio, Tu ricompensasti le mie cure, in quel solo modo che per Te si poteva e, pur nell’avverso destino, riuscivi a far brillare un ultimo raggio di luce, su la Tua famiglia che si spegneva con Te.
Ma che schianto nei nostri cuori!… Che dolore infinito!… Quanto pianto!… Se Tu potessi alzare, dal Tuo feretro, la bella testina ricciuta, non
potresti riconoscere i tuoi cari che dalla loro voce; tanto li ha trasfigurati
il dolore!… Ti ricordi, Mario, quando sul Gianicolo, quando le gesta di
Casini e di Tiburzi, dissi che l’unità d’Italia erasi cementata con il sangue
degli eroi e con il pianto delle madri?! Chi avrebbe pensato in quel momento, che il sangue tuo ed il pianto nostro avrebbero contribuito a saldare alle antiche province d’Italia, quelle di Trento di Trieste e di Zara!
Quando accennai alla madre del Casini, la quale, dopo la morte del
figlio, trasformata la di lui camera in una cappella, ogni notte vi passava lunghe ore pregando; chi avrebbe potuto immaginare quel giorno, che
anche noi eravamo destinati a doverci rifugiare spesso nella Tua cameretta conservata intatta, e divenuta il nostro Santuario, non per pregare,
ma per cercarvi un sollievo al nostro dolore senza fine!
Nella calma e nel silenzio di quella cameretta deserta, che ci sembra conservi ancora il profumo della Tua persona, noi abbiamo potuto riflettere che
se per risparmiare il sangue di voi giovani ed il pianto di noi vecchi, nel Maggio 1915, l’Italia non fosse entrata risolutamente nel grande conflitto, oggi
invece di piangere noi avrebbe pianto la Patria! Ma, nel mentre il pianto no-
stro avrà, provvidenzialmente, la durata ancora di pochi mesi, il pianto della Patria avrebbe avuto la durata di secoli!… Ed è su questa riflessione, che
abbiamo trovato una base alla nostra dolorosa rassegnazione.
Presago della Tua fine, o Mario mio, avevi desiderato di dormire il
sonno eterno nella tomba della Tua famiglia, vicino a Tua madre: il Tuo
desiderio era un dovere sacro per me e per la Patria, ed eccoti, dopo tentativi di antipatriottica e barbarica opposizione, finalmente a Roma; eccoti ricondotto sulla soglia della Tua abitazione, da dove uscisti baldo e
fiero, pieno di coraggio e di fede, per correre volontario in difesa del Tuo
paese. Tu compisti eroicamente il Tuo dovere verso la famiglia e verso la
Patria, ed io ho compiuto il mio dovere verso di Te; ora non mi resta che
ricongiungermi a te nell’eternità della tomba.
Il Tuo compito però non è finito ancora: al fronte Tu stavi, assieme ai
tuoi compagni, ombra sanguinante e minacciosa, a ricordare allo straniero che 600 mila giovani italiani una primavera sacra, erano caduti per
riconquistare alla patria i suoi confini geografici ed è perciò che nè per
intrighi, nè per minacce, l’Italia indietreggerà mai più da quei confini,
che furono ribattezzati e santificati dal vostro sangue generoso.
Qui, assieme ai compagni che tornano, disseminati in tutti cimiteri d’Italia, voi ricorderete agli Italiani che una parte dei fratelli redenti con il
vostro sacrifizio, sono ritornati schiavi ed attendono!… voi ricorderete ai
nemici interni rossi e neri agli artefici primi di Caporetto, che voi avete
dato le vostre giovani esistenze indistintamente per bene di tutti, cioè per
la grandezza e la prosperità della Patria, mentre le frazioni, le lotte intestine da essi provocate, stanno riducendola, come altra volta la ridussero, misera e schiava!
Ed a te, Patria divina, a cui il figliuol nostro offrì il sangue Suo, noi
offriamo il nostro grande dolore. Accettalo, e che questo sangue e che
questo dolore di una famiglia si spegne per la grandezza tua, possano
contribuire a far comprendere ai tuoi bestemmiatori, che l’amor di Patria
è il sentimento più alto e più nobile di cui si onori l’umanità perché è materiato di altruismo, di sacrifizio, di abnegazione.
Avevo appena terminato di pronunziare questo breve discorso che, di
tra la folla sbucò fuori il Prof. Italo Giuffrè, quello che era stato professore di Mario quando entrò al Ginnasio dopo tre mesi dovette sospendere
gli studi, causa il gravissimo esaurimento nervoso da cui era stato colpito; era stato poi nuovamente suo professore quando ottenne il passaggio
dalla 3° alla 4° Ginnasiale e dopo di ciò abbandonò gli studi classici, troppo faticosi per lui, per quelli artistici.
Il Prof. Giuffrè lesse il seguente sonetto, che poi mi regalò con l’intestazione e con i due brani di prosa che la precedevano.
Sulla tomba di Mario Moderni caduto eroicamente
Sulle trincee di Santa Maria di Tolmino
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Se avessi dodici figliuoli e tutti cari del paro, vorrei che
undici morissero nobilmente per la loro Patria piuttosto che
vederne uno vivere in codardia voluttuosa!
Shakespeare
Quale disgrazia non poter morire che una volta sola per
servire la nostra Patria!
G. Addison
Ti fui maestro, e pur col mio rimpianto,
Abbi, giovine eroe, l’alta parola
Del poeta, che al suo fervido canto
Ebbe la Patria e luce e meta sola.
Non più lagrime, no, nel luogo santo
Della tua pace eterna! Ti consola
O Genitor illustre, tergi il pianto
Tu, sua seconda Madre e nobil scola:
Scuola di fede e amor, di patriottismo
Che per li rami scende, e si trasmette
Come la lampa del cursor romano,
Che ci salva dal duro dispotismo,
Dell’ideal ci adduce all’auree vette
Al bello della Gloria astro sovrano.
Roma 4 Settembre 1921
F. Italo Giuffrè
Prese quindi la parola la Professoressa, Avvocatessa Teresa Labriola
che aveva voluto portare alla salma del giovane eroe, l’omaggio della donna italiana. Essa svolse magistralmente il tema = La bellezza del sacrifizio compiuto da Mario Moderni = e fu un orazione altissima, piena di bellezze che mi duole non potere riprodurre, perché fu totalmente improvvisata. Essa prese le mosse dal fatto che Mario Moderni andò volontario al
fronte e nel combattimento e nella morte si condusse da eroe. La sua esaltazione non era quindi quella di un ignoto (alludeva forse alle vicine onoranze alla salma del milite ignoto) ma di chi si conosceva la nobile gesta.
Volle quindi prendere la parola il prof. Ettore Ferrari, Presidente dell’Istituto Superiore di Belle Arti di Roma di cui mio figlio era allievo. Non
ricordo molto del breve discorso, assai lusinghiero della memoria del mio
Mario: mi ricordo soltanto che egli disse, essere stato Mario Moderni uno
dei migliori allievi dell’Istituto ed una promessa per l’arte.
Estremamente commosso, parlò poi, singhiozzando, il Tenente, Prof.
Enrico Morganti, compagno di scuola di mio figlio e suo amico indivisibile, come si è più volte accennato; egli disse:
nel turbamento doloroso di quest’ora, che fa trepido il labbro, io mi
prostro qui, idealmente, dinanzi all’immagine di Lui, fatta sacra, mentre
vorrei che la mia parola sapesse dare degno tributo così a Lui che nella
gloria assurse, come ai Dolenti che la via luminosa gli aveva additata.
Perché tra Essi e Lui la mia fantasia vede schiuso alla mia persona legittimo varco?
Disse il padre: Ebbe pochissimi amici… lo piangono come fratello.
Io dei pochissimi allora e poi, quando la casa fu deserta io, restai
prediletto, quasi in me una tenuissima luce riverberasse del gran sole
scomparso.
Io… perché? Compagni di studi eravamo: è già molto; ma noi fummo
nello studio fratelli.
E via via accomunammo, nell’impaziente desiderio le trepidanze e i
compiacimenti; e comuni avemmo le prime indagini negli allori della giovinezza; comuni ebbero le nostre anime le nostre soste davanti alla realtà della vita; e ci parve che sempre, che sempre avemmo proceduto così;
e mentre crescevano le affinità nostre spirituali i genitori di Lui si compiacevano.
Quand’ecco uno squillo; un appello inusato… la Patria! La Patria!
Oh, come gli animi nostri giovanili apparvero subito terreno già pronto a
ricevere la semente nuova!… uno stesso fervore, uno stesso ardore ci invase.
Le nostre anime si intesero, si strinsero, si congiunsero ancor più nel
nome della Gran Madre, ma ognuno di noi prese la sua via67.
Quale Egli percorse, rapida, audace, luminosa e bella, come anelante
ascensione verso le più alte ragioni dell’etere, i nostri cuori ben sanno; e
il Padre, e gli amici, e gli ammiratori già dissero.
Oggi Egli ritorna. Ritorna!!
Ritorna colui che ad Ancona onorato del battesimo del fuoco nelle ore
primissime della nostra guerra, raccatta la scheggia di granata che gli
aveva sfiorato il petto: un ricordo da portare a Suo Padre!
Ritorna Colui che insofferente di far la guardia ai monumenti di Macerata (è delle sue parole l’umorismo fine) saluta come una benedizione,
come una grazia, la possibilità di esser chiamato ad un Reggimento di
prima linea. E chiede di esser chiamato; ed è chiamato; e ne esulta.
Ritorna colui che la trincea di Tolmino vide forte, bello, consapevole e
calmo; e poi … colpito, stroncato! Sdegnoso del soccorso… sublime.
Colui che dalla barella, lungo il pendio della collina, mentre la carne
Sua sanguina e spasima, erge tutto il fervore dell’anima in una voce: soldati onorate la bandiera!…
Colui che le sofferenze indicibili della lacerazione rivela con pallore
estremo soltanto senza un lamento - dissero i portaferiti.
Il martire di Kamenka ritorna!
Se la Sua storia di soldato non avesse altra pagina = la giornata di
Kamenka = sarebbe tal sintesi da farlo degno di epopea.
Eccolo! Noi lo vediamo. Noi lo vediamo lassù nel suo Lettuccio.
67: Il Morganti più giovane di tre anni, fu chiamato alle armi più tardi. Fu assegnato all’Artiglieria da campagna nella quale divenne Tenente e fece coraggiosamente il suo dovere, arrischiando la vita parecchie volte.
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
Il bello, il forte, il rigoglioso, già cullato dai sogni dell’amore, si sente,
si sa stroncato in modo orrendo, senza rimedio! Ed è solo… solo… solo!
E a un punto, con lo spegnersi della luce di quel giorno cupo tremendo, Egli vede approssimarsi la fine; e vede la morte che vuol ghermirlo…
e il soffrire è atroce ed è solo!
Il figlio bamboleggiato, l’amico ricercato, il combattente ammirato…
eccolo, anelante nella Sua angoscia estrema in solitudine.
Quasi velario che copra il sole, via via, come in nebbia ogni or più densa, le immagini dei cari suoi, i ricordi degli anni primi, i sogni d’Arte,
l’oggetto stesso del suo amore, la luce dell’intelletto, la soavità dell’anima… Svanirono!… svanirono!… svanirono!… E si spense senza un gemito, senza un rimpianto!
Il cuore non ci regge… assorgiamo! Ecco Egli torna.
Non Tu stesso, o Mario diletto, con le voci solenni che a noi vengono
dall’immortalità, non Tu stesso dici ai genitori tuoi: - Oh, amatissimi! Eccomi, io fui degno di voi? –
Non Tu stesso fai oggi il saluto delle armi al benemerito valoroso Tuo
padre, con quella spada ch’egli fece simbolo già ad altre glorie e che gli
riconsegni temprata in nuovi cimenti e più fulgida?
Non Tu stesso esulti di questo compiersi solenne di questo tuo estremo
anelito di nostalgia, che mentre eri olocausto di ferite e di rassegnazione
Ti faceva chiedere dolorando: a Roma!?
Si, eccoti a Roma o caro! Eccoti, onesto di martirio e di gloria, invulnerabile di bellezza ideale, il bel volto raggiato di un limbo fulgente di
viola e di oro!
Eccoti a Roma!
Nel turbamento doloroso di quest’ora che fa trepido il labbro, prostrato, qui, idealmente dinanzi all’immagine Tua, fatta sacra, come tributo a Te che assorgesti e insieme ai dolenti che restarono, quasi promessa in un rito Solenne, io Ti fo reverente l’offerta mia estrema!
Finchè la vita mi duri, alta sarà sul mio labbro l’osanna per la Tua
gesta, o Prode, o Martire, o Amico, o dilettissimo Mario!
Terminato il discorso del Prof. Morganti, vi sarebbero stati ancora altri oratori, ma l’ora era tarda: mentre parlava ancora la Labriola si dovette lasciare in libertà la truppa; la folla si era diradata di molto, perciò
il mio amico Colonnello Giuseppe Cagno, il quale avrebbe voluto fare anche lui un discorso, si limitò con poche parole, si limitò con poche parole
a ringraziare gl’intervenuti a nome mio e di mia moglie.
Così ebbe fine la cerimonia funebre: saliti quindi in carrozza io e mia
moglie, assieme al Colonnello Cagno ed al Prof. Morganti, accompagnammo la salma preziosa del nostro diletto, al Verano, ove la deponemmo provvisoriamente nella camera mortuaria, ricoperta dalle splendide corone.
Al domani, 5 settembre, io e mia moglie, accompagnati dalla signora
Giuseppina Caldera, nostra coinquilina, ci recammo nuovamente al Verano,
dove alle 9:30 fummo raggiunti dal Colonnello Cagno e dal prof. Morgan-
ti. Alle 10, trasportata la salma alla tomba, da me fatta costruire dalla mia
famiglia, fu calata nella camera sepolcrale, e deposta proprio sul feretro
della Sua madre. Il Suo desiderio era soddisfatto, il mio dovere verso la mia
creatura compiuto. Quando morrò sul feretro di mio figlio sarà deposto il
mio, così Esso dormirà per tutta l’eternità fra Sua madre e Suo padre!
Avevo compiuto il mio dovere verso il figlio adorato, ma Egli oramai
riposava per sempre vicino a Sua madre, nella tomba della nostra famiglia, riquadro 84 (Pincetto) nella grande necropoli romana, bella per la
vastità dei suoi Campi 68, per le linee monumentali della Sua Certosa, per
il suo bosco di cipressi, per i suoi giardini sempre fioriti, per le sue umili
fosse e per i superbi mausolei, per tutto nell’insieme vario ed armonico da
cui emana alta e sublime la poesia Morte! I Suoi funerali erano riusciti
imponenti al di la di ogni mio desiderio, erano riusciti un’affettuosa dimostrazione di ammirazione per Lui, di simpatia per me e per mia moglie, ed io sentivo il mio cuore confortato da una grande calma.
L’avverso Destino volle però amareggiarmi fin questo piccolo conforto
che avevo provato; volle che assieme a tante lodi un ingiuria volgare scendesse pure nel sepolcro a turbare il sonno dell’eroe: gl’imponenti funerali 69
e le lodi pronunziate sul Suo feretro dal Suo amico e dai Suoi professori,
devono aver fatto dispiacere a qualcuno, e quest’essere ignobile, quest’essere abietto ed incosciente, m’indirizzò una cartolina anonima mettendo in
ridicolo le esagerate (sic) onoranze rese al povero morto, immeritevole
(sic) di tanto, e dando del pagliaccio a me che le avevo provocate; come se
io non avessi compiuto altro che il preciso mio dovere! Sono dolente di non
potere riprodurre questo monumento di vigliaccheria umana e di non averlo fatto riprodurre su tutti i giornali di Roma, perché la cartolina anonima
venne recapitata a mia moglie ed essa, in un accesso di indignazione e di
nausea, malauguratamente la fece in pezzi la gettò nel cesso.
Turiamoci il naso e passiamo oltre.
Fra telegrammi e lettere che in questa circostanza mi furono indirizzati, scelgo quelli di persone che conoscevano intimamente il mio Mario,
e primo fra tutti il telegramma speditomi da Palermo, dal Capitano Luigi Natale, Sottotenente con Mario nella trincea di Santa Maria di Tolmino, quello che dopo la morte del Comandante del Battaglione, aveva preso il comando della Compagnia, in sostituzione del Capitano Chamard,
che aveva dovuto prendere il Comando del Battaglione, quello che infine
aveva dovuto fare il rapporto del Sottotenente Moderni, in seguito al quale fu fatta, dal Comandante del Reggimento, la proposta per il conferimento della medaglia d’argento al valore. Ecco il telegramma:
Dolente non trovarmi costì per deporre fiori sulla salma caro Mario e riaffermare solennemente quel che di Lui apprezzai
in trincea, invio alla sua gloriosa memoria reverente saluto
Capitano Luigi Natale
68: Campi si chiamano i riquadri delimitati da viali, fiancheggiati da filari di cipressi, nella parte bassa del cimitero, dove si
seppelliscono coloro che non hanno tombe di loro proprietà e dopo un certo numero di anni, le ossa vengono scavate e deposte
in un grande ossario, mentre i Campi servono nuovamente ad altre inumazioni.
69: un Capitano dei Bersaglieri, che io non conoscevo, ammirato del corteo, ne fece un istantanea mentre usciva dall’Ospedale
militare, un’altra istantanea mentre si svolgeva per la Via Celimontana, ed un’ultima quando il carro era fermo davanti alla mia
abitazione, circondato dalla folla. Di queste fotografie venne poi spontaneamente in casa mia a farmene omaggio.
256
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Altro telegramma, proveniente pure da Palermo, mi fu spedito dall’Avv.to Enrico Natale, Caposezione al Ministero del Tesoro, fratello del
Capitano Natale che in settembre si trovava in congedo presso la sua famiglia. Come ho narrato in un capitolo precedente, l’Avv.to Natale essendo andato al fronte a trovare suo fratello, mentre il 93° Reggimento, dopo
i combattimenti di Monfalcone, si era ritirato a Jalmicco, in seconda linea,
per riordinarsi, vi conobbe mio figlio e da Esso fu incaricato di portarmi la
sua sciarpa ed un bacio, e fu il suo ultimo bacio! Ecco il telegramma:
Onorando gloriosa memoria caro Mario rinnovo affettuoso bacio da Lui confidatomi con raro sentimento figliale accampamento Jalmicco.
Enrico Natale
Dall’Avvocato Alfredo Pinci, che si trovava in villeggiatura nella sua
villa in Marcellina presso Tivoli, mi pervenne quest’altro telegramma:
Impossibilitato compartecipare onoranze eroe, commosso
saluto salma gloriosa.
Alfredo Pinci
Nel diramare gl’inviti a stampa per le onoranze funebri alla salma di
mio figlio, inviai due di questi inviti a due compagni di Mario all’Istituto
di Belle Arti, Confetti e Marulli, che erano stati pure suoi buoni amici e
che, da prima della guerra, avevo perduti di vista. Da Olindo Confetti,
impiegato ferroviario, non ebbi nulla, perché chissà in che punto d’Italia
egli si sarà trovato, ed il mio invito non dev’essergli pervenuto. In un album di mio figlio, scritte da Olindo Confetti il 25 maggio del 1912, trovo le seguenti parole:
= Non come compagno,
non come amico ti considero,
ma come fratello. =
Il 17 settembre, mi pervenne dal Marulli la seguente lettera, la quale
unita al discorso del Morganti ed alle parole scritte sull’album dalle parole del Confetti (i soli tre amici intimi che ebbe il mio Mario) sono una risposta, alla nauseante cartolina anonima scritta da un ignobile persona.
Pregiatissimo Signore
Da Roma, respintami, mi giunse la triste partecipazione
annunciante il trasporto della salma del suo caro Figliuolo,
del mio amato e compianto amico.
Creda, che, se presente, non sarei mancato al numero di
coloro che accompagnarono chi solo materia lucente non è
più, è, pur sicuro di dover imporre all’animo mio dolorante,
l’indispensabile coraggio, avrei portato a compimento il sacrosanto dovere.
Non Le dedico parola alcuna, per l’irreparabile perdita
che L’ha colpita: so bene che essa non varrebbe a lenire il dolore; ma, se conforto può darle, sappia che il nome del figliuolo suo rimarrà sempre impresso in coloro che gli furono
e amici e compagni, in tutti quanti sanno apprezzare la dedizione di una vita, data al compimento della più sublime,
eccelsa, radiosa Causa.
Il nome del suo Mario, non avrà mai morte.
La prego, Signore, a gradire i sensi del mio più dovuto rispetto.
Raoul Marulli
Senigallia (Marche) Villa propria
Dalla maestra di piano di mio figli mi pervenne la seguente cartolina:
Courmayer (Aosta), 4 settembre 1921.
In questo giorno Le sono vicina col cuore e accanto alla
salma del mio caro e buon allievo invio il mio ricordo e un
fiore di questi monti.
Costanza Caldera
Dall’Ing. Cav. Giuseppe Barra Caracciolo ex direttore della Bonifica
Pontina, che conobbe Mario fin dall’età di cinque anni, quando cominciai
a portarlo alla nostra villetta di Terracina, per i bagni di mare, ebbi la lettera seguente:
Roma, 15 settembre 1921
Carissimo Colonnello
Per la mia assenza da Roma dal 13 agosto u.s. al 13 settembre, non ho potuto prendere parte al trasporto funebre
del povero e valoroso suo figliuolo Mario.
Ne sono dolenti; ma Ella non potrà dubitare che se pure
assente, ho preso viva parte a questo altro tributo, certo non
ultimo, alla cara salma di un eroe ed a Lei, oggi, che trovo la
sua partecipazione, rivolgo le espressioni del mio ringrazia-
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MARIO MODERNI
LA SALMA DELL’EROE
mento, ma ancora quelle della mia ammirazione pel giovane
estinto e per Lei che non ha nulla trascurato perché la Sua
memoria sia viva ed irradiata della meritata aureola della
gloria. Riceva egregio Colonnello, con la sua distinta Signora
i sensi della mia stima ed amicizia. Con i più cordiali saluti.
Suo Aff.mo Giuseppe-Caracciolo
Ancora un’ultima lettera del capitano Costanzo Premuti:
Francavilla a mare, 5 settembre 1921
Caro Colonnello
Con animo fraterno avrei partecipato alle onoranze dell’eroico Suo figliuolo, ma le ragioni di salute che qui mi tengono, non mi hanno permesso adempiere a questo dovere. Le
parole di conforto a nulla giovano oggi, come non potevano
sollevare, nel primo momento, il terribile lutto; ma il pensiero che Suo figlio morì da soldato prode, per la più santa delle cause, all’animo del vecchio e glorioso soldato deve certamente essere balsamo all’atroce ferita.
Mi tenga, caro Colonnello, fra i più umili dei suoi ammiratori ed amici, e si compiaccia ricordarmi alla gentile sua
Signora.
Dev.mo
Premuti
Tutti i giornali di Roma, riportarono la descrizione delle solenni onoranze funebri tributate al Sottotenente Mario Moderni: fra le diverse, riporto soltanto quella del Messaggero, uscita la mattina del 7, perché la
più completa.
I FUNERALI DEL TENENTE MARIO MODERNI
Come era stato pronunziato dai giornali, domenica mattina ha avuto luogo il trasporto funebre per il Sottotenente
Mario Moderni, caduto eroicamente a Santa Maria di Tolmino il 2 novembre 1915 e morto il giorno appresso in seguito
alle ferite riportate. Fin dalle ore 10 le seguenti associazioni
con la bandiera erano già all’Ospedale Militare del Celio per
rendere omaggio al giovine valoroso:
Associazione Reduci Patrie Battaglie = Giuseppe Garibaldi, = che già aveva nominato socio onorario l’eroe defunto;
Ufficiali pensionati di terra e di mare, Federazione Grande
Italia, Ufficiali in congedo, Fascio di Combattimento, Regio
Istituto di Belle Arti, Associazione famiglie dei caduti in
guerra, Società Dante Alighieri, Le Galatina, Associazione
fra i Romani, Comitato Veterani.
Si notavano parecchie personalità tra le quali: S.E.Generale Mambretti in rappresentanza del Municipio di Roma,
Generale Francesco Pais e Signora, Generale Mattioli, Generale Schiarini, Colonnello Cagno, Colonnello Grillo, Avvocato Guerzoni e Avvocato Brofferio, Capitano Baracchini (Medaglia d’oro) e Signora, Capitano Patrignani, Tenente Fabbri
e Signora, Professore Ettore Ferrari, Professore Guido Chialvo, Professore Giuseppe Cellini, Commendatore De Vecchi,
Commendatore Popovich, Tenente Colonnello Birri, Commendate Mossolin, Commendatore Carta, Ingegnere Commendatore Giovanni Aichino Direttore dell’Ufficio geologico,
Dottoressa Ione Cortini, Ingegnere Commendatore Angelo
Tagliacozzo, Commendatore Francesco Cisotti e tante altre
signore e signori.
Inviarono bellissime corone oltre i coniugi Moderni, gli
zii, il Comm. Mossolin, l’Istituto Superiore di Belle Arti, la
Società dei Reduci dalle Patrie Battaglie, Coniugi Fontana e
Ing.Cav.Uff. Angelo Baraffael.
Mezza Compagnia con musica dell’81° Fanteria precedeva il corteo. Seguivano una squadra di garibaldini in camicia
rossa. Avanti ai parenti vi erano due bambine vestite di bianco, portanti, una le decorazioni del defunto su un grazioso
cuscinetto bianco, l’altra due palme intrecciate in bronzo.
Per espresso desiderio del padre, il corteo ebbe per meta
l’abitazione del defunto.
In onore del defunto parlarono prima il padre, il quale
esaltando le virtù del figlio spronò i giovani ad imitarne l’esempio, stigmatizzando con parole roventi coloro che tentano con spirito fazioso deprimere il santo amore di patria. Seguì il Professore di belle lettere Italo Giuffrè, già maestro del
giovane Moderni, e che in di Lui onore lesse patriottici versi.
Parlò dopo con parola alata la Professoressa Teresa Labriola, inneggiando alla bellezza del sacrificio compiuto dal
giovine eroe in pro della Patria. Portò un saluto alla salma
dell’eroe il Professore Ettore Ferrari, Presidente dell’Istituto
di Belle Arti di cui il Moderni era stato allievo. In ultimo aggiunse parole commosse ed affettuose, il suo compagno di
scuola ed amico indivisibile Professore Enrico Morganti, Tenente d’Artiglieria.
Finalmente il Colonnello Cagno, in nome della famiglia
Moderni, ringraziò i convenuti.
260
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MARIO MODERNI
LA SUA VITA NARRATA DAL PADRE
Il giorno 8 settembre, il giornale Esercito Italiano riportava il seguente resoconto della cerimonia funebre;
LE ONORANZE
ALLA SALMA DI UN EROICO CADUTO
Come abbiamo preannunziato, Domenica scorsa hanno
avuto luogo i funerali del tenente Mario Moderni, figlio del
Colonnello Moderni, nostro collaboratore e amico carissimo,
la manifestazione è stata veramente grandiosa e commovente; giustamente il Colonnello Moderni, all’Avvocato Graziosi
che gli porgeva i sensi della sua profonda commozione a nome dell’intera redazione del suo giornale, diceva che la pietosa cerimonia prendeva il carattere di una manifestazione
patriottica, dato il numeroso intervento di associazioni e di
personalità civili e militari.
Il corteo si è formato all’Ospedale del Celio. Precedeva la
musica dell’81° Fanteria: reggevano i cordoni del carro funebre tutti i subalterni di varie armi, commilitoni dell’estinto.
(Qui il giornale ripete la stessa nota delle Associazioni e
delle personalità che facevano parte del corteo stata pubblicata dagli altri giornali), quindi prosegue:
la Redazione del nostro giornale era rappresentata dal nostro collaboratore Avvocato Francesco Graziosi.
La mesta cerimonia si svolse fra la venerazione del pubblico che al passaggio del corteo esprimeva con parole commoventi il suo dolore: l’anima del nostro popolo è buona, essa sente la solidarietà di chi soffre.
Belle parole pronunziò il Colonnello Moderni all’atto in
cui il corteo si sciolse: seguirono altri oratori sino a che il Colonnello Cagno in nome della famiglia ringraziò tutti i convenuti.
Rinnovate condoglianze giungano alla famiglia Moderni
da parte del nostro giornale.
(Qui il giornale riporta il sonetto letto dal Professore Italo Giuffrè, in onore del suo eroico allievo)
BENEFICIARI DELLE BORSE DI STUDIO CONFERITE DALLA
FONDAZIONE MARIO MODERNI
1928
Bruno Brandizzi - Accademia Belle Arti
1930
Vincenzo Piccini - Scuola di Architettura
1932
Mario Fuganti - Accademia Belle Arti
Lidia Bona - Conservatorio di Santa Cecilia
Maria Luisa Stefani - Facoltà di Lettere e Filosofia
Mario Procopio - Facoltà di Scienze
Mario Cataldi - Facoltà di Giurisprudenza
1933
Siro Garroni - Scuola di Architettura
Lucia Giannini - Accademia Belle Arti
1934
Isabella Carchella - Accademia Belle Arti
1947
Paolo Parisi - Facoltà di Ingegneria
Fernando Barbaliscia - Facoltà di Architettura
Sergio Perticaroli - Conservatorio di Santa Cecilia
1950
Enrico Melillo - Facoltà di Medicina
Wladimiro Della Sbarba
1951
Alberto Tozzi
1952
Giuseppe Fullani
Lagromante Alessio - Facoltà di Medicina
Romolo Barlattani - Scuola di Architettura
Guido Raimondi - Scuola di Architettura
Annamaria Bailetti - Conservatorio di Santa Cecilia
Aldo Veronesi - Facoltà di Medicina e Chirurgia
Valeria Stefani - Facoltà di Scienze
1953
1935
1954
Cesare Ridolfi - Accademia Belle Arti
Francesco Saverio Ferraro - Facoltà di Ingegneria
Genni Angelici - Facoltà di Lettere
1936
Baldassare Zaffiro - Facoltà di Ingegneria
Raffaele Esposito - Facoltà di Ingegneria
Giorgio Fullani
Gabriella Lagromante - Facoltà di Lettere
Fernando Bernardini
1957
Maria Teresa Gregorini - Santa Cecilia
Carla Bresciani - Liceo Artistico
Lina Proia - Facoltà di Scienze
Zaira Castellini - Accademia Belle Arti
Gustavo De Rosa - Facoltà di Ingegneria
Sergio Marchesini - Conservatorio di Santa Cecilia
1959
1937
1960
Gastone Simbolotti - Scuola di Architettura
Maria PiaMiege - Accademia Belle Arti
Aldo Gentili - Conservatorio di Santa Cecilia
Arnaldo Raimondi - Facoltà di Medicina e Chirurgia
Giuseppe Checchi - Facoltà di Lettere e Filosofia
Valeria Caravacci - Scuola di Architettura
1938
Manlio Barbaro - Facoltà di Ingegneria
Ferdinando Onori - Accademia Belle Arti
Guido Raimondi - Regia Scuola di Architettura
1939
Lionello Cappoli - Scuola di Architettura
Giancarlo Micheli - Liceo Artistico
Maurizio Raimondi - Conservatorio di Santa Cecilia
Gian Paolo Bracali - Conservatorio di Santa Cecilia
1961
Maria Pioppi - Conservatorio di Santa Cecilia
1962
Ernesto Palmarini - Conservatorio Santa Cecilia
Antonio Lo Porchio - Conservatorio di Santa Cecilia
Laura Reina – Accademia Belle Arti
Stefano Mariani – Liceo Artistico
1964
Franco Ferrante – Conservatorio di Santa Cecilia
1965
1940
Antonio Corradi – Accademia Belle Arti
Silvia Silveri – Conservatorio di Santa Cecilia
Roberto Cortese – Facoltà di Ingegneria
1941
1966
Luigi Cavallari – Facoltà di Architettura
Liliana Frisaldi – Accademia Belle Arti
Mauro Iori – Accademia Belle Arti
Vittorio Orsi - Facoltà di Ingegneria
Dall’Olio Claudia - Scuola di Architettura
Attilio Nispi Landi - Scuola di Architettura
Massimo Marsili - Facoltà di Ingegneria
Alberto Pasquini - Facoltà di Medicina e Chirurgia
Bruno Baccari - Accademia Belle Arti
Mario Caporaloni - Conservatorio di Santa Cecilia
1943
Paolo Cappello - Facoltà di Giurisprudenza
Pietro Monaco - Facoltà di Medicina e Chirurgia
Giuseppe Persichetti - Facoltà di Architettura
Carla Vanni - Conservatorio di Santa Cecilia
1944
1967
Letizia Zeppetelli – Accademia Belle Arti
Antonio De Maio – Facoltà di Ingegneria
Aldo Ratti – Facoltà di Ingegneria
Alessandro Del Vescovo – Facoltà di Architettura
Pietro Fazio – Facoltà di Giurisprudenza
1968
Lucio Bianchini – Conservatorio di Santa Cecilia
Giovan Battista Montironi - Facoltà di Ingegneria
Paolo Santini - Facoltà di Ingegneria
Fernando Barbaliscia - Accademia Belle Arti
1969
1945
1970
Silvana Pierangelini - Accademia Belle Arti
Vittorio Tani - Accademia Belle Arti
1946
Franco Ramella - Facoltà di Ingegneria
Tommaso Marullo - Facoltà di Medicina
Enrico Melillo - Facoltà di Medicina
Sandra Semproni - Conservatorio Santa Cecilia
Giuseppe De Cesaris - Facoltà di Ingegneria
Luciano Bove - Facoltà di Ingegneria
Carlo Alfredo De Vita – Facoltà di Ingegneria
Franco Centaro – Facoltà di Ingegneria
Maria Spina – Facoltà di Architettura
Michela Bandini – Facoltà di Architettura
1972
Patrizio Lupi – Accademia di Belle Arti
Patrizio Feliciani – Conservatorio di Santa Cecilia
262
263
A cura di Massimiliano Monnanni
Trascrizione del manoscritto e correzione delle bozze a cura di Antonello Tanteri
Foto di Andrea Catoni
Progetto grafico, impaginazione e stampa
SALLUSTIANA EDITRICE
00187 Roma - Vicolo Doria, 7
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Finito di stampare Agosto 2003
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Istituzione Pubblica di Assistenza e
Beneficenza ed ha sede in Roma.
La Fondazione è stata istituita dai
coniugi Colonnello Pompeo Moderni
e Rosa Gordini per conservare il
nome della famiglia ed eternare
quello dell’eroico loro unico figlio
Mario, caduto a 22 anni nel compimento del proprio dovere di soldato durante la I
Guerra Mondiale sul fronte del Carso.
La Fondazione trae origine dalle disposizioni contenute
nella donazione fatta dai coniugi Moderni, con atto rogato
dal Notaio Bellini di Roma, in data 17 novembre 1925 e
nel testamento olografo della Signora Rosa Gordini ved.
Moderni, in data 17 maggio 1926, pubblicati per atti dal
notaio Colapietro di Roma in data 5 novembre 1930, ed è
stata eretta in Ente Morale con Regio Decreto 16 maggio
1926, n.1116.
La Fondazione ha per scopo l’erogazione di borse di studio, intitolate al nome di Mario Moderni, a favore di studenti meritevoli e nati nella città di Roma o nella Provincia
di Roma ed opera quindi nell’ambito delle attività di sostegno scolastico, prevenzione e recupero della dispersione
scolastica e più generalmente nell’ambito delle attività
educative e post scolastiche, sia della scuola dell’obbligo
che degli studi superiori ed universitari.
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