Pierpaolo Bellucci COMUNICAZIONE E MASS MEDIA PROSPETTIVE PER OGGI E DOMANI 2008 1. LA COMUNICAZIONE NELLA STORIA Nel recupero storico dell’evoluzione tecnologica dei media e del loro impatto antropologico, è necessario guadagnare una prospettiva: ogni innovazione tecnologica nel mondo comunicativo non si è mai sottratta alla fatica di ridisegnare le modalità di presenza dei media già esistenti. In altre parole, l’ultimo arrivato non elimina coloro che popolano la scena da decenni, ma ne ridisegna la collocazione. L’epoca dell’oralità In una cultura ad oralità primaria una conoscenza concettualizzata che non venga ripetuta ad alta voce, svanisce presto, e le società che su di essa si basano devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente imparato nel corso dei secoli. Tra le caratteristiche della cultura orale, possiamo annoverare che si tratta di una cultura nella quale il sensorio predominante è l’orecchio. Nella Bibbia abbiamo un primato dell’uso del verbo “ascoltare” sul verbo “vedere”. Altro elemento che contraddistingue la cultura orale è la ripetizione. Si evince che questa cultura tendeva ad essere conservatrice e tradizionalista. L’epoca della scrittura Per trovare le prime testimonianze di un sistema di scrittura, dobbiamo risalire al IV millennio a.C. in Mesopotamia con i Sumeri, e nel 3000 a.C. con gli Egizi. I primi avevano un sistema detto cuneiforme, e fu il risultato di un procedimento che col tempo enfatizzò l’elemento fonetico a discapito di quello figurativo. Inizialmente abbiamo il pittogramma, ovvero un segno per indicare una cosa. Successivamente si sviluppò l’ideogramma, ovvero un sistema comunicativo basato su simboli in grado di esprimere un concetto. Un esempio contemporaneo sono i cartelli stradali. Infine abbiamo i fonogrammi, ovvero segni che rappresentano suoni. Riguardo gli egizi, il loro sistema era basato sui geroglifici, utilizzati inizialmente per le iscrizioni religiose e monumentali. Si trattava in tutti e tre i casi di sistemi di scrittura a immagini. Se ci spostiamo nel territorio dei Fenici, l’attuale Siria, abbiamo il caso del “sillabario senza vocali”, inventato tra il XV e il XIV secolo a.C. Non si assegnava più un segno ad ogni suono, bensì prendeva piede un sistema stenografico, che raggruppava le sillabe in serie, ciascuna delle quali aveva un denominatore comune nella consonante di riferimento. La vera rivoluzione si ha con l’avvento dell’alfabeto greco: i greci sciolsero le sillabe in componenti fonetiche astratte: consonanti e vocali. La fortuna dell’alfabeto greco venne data dal fatto che soddisfece tre presupposti teorici: 1. tutti i fonemi devono essere resi nel linguaggio in modo esauriente; 2. il numero dei segni deve essere contenuto entro una cifra oscillante tra i 20 e i 30; 3. i segni non devono essere suscettibili di un doppio o triplo impiego. L’efficienza fonetica dell’alfabeto greco fu superiore a tutti i sistemi di scrittura allora esistenti, e questo spiega l’influsso della cultura greca in tutto il bacino europeo. Questo alfabeto venne introdotto attorno al VII secolo, ma inizialmente veniva utilizzato solo per le iscrizioni, venendo diffuso solo successivamente. Le caratteristiche della cultura chirografica (ovvero: scritta) furono una perdita di memoria da parte dell’uomo, che depositava il suo sapere sui libri, senza affaticarsi nella trasmissione orale. Inoltre, non essendo più impegnando nella trasmissione della memoria, poteva dedicarsi ad attività maggiormente creative. E’ proprio del V secolo a.C. la critica di Platone alla scrittura, 2 all’interno del “Fedro”, in quanto porta gli uomini all’oblio intellettuale, attingendo alla cultura non più dal proprio interno ma da una fonte esterna. Con la scrittura si avvia il processo di ampliamento del lessico dovuto all'ausilio di un archivio di memoria fisico, per cui si è passati dalle 5.000 parole dei dialetti delle culture orali alle oltre 150.000 parole del Dizionario della lingua italiana del 1990. L’epoca della stampa Sappiamo che l’invenzione della stampa si deve al torchio di Gutenberg. Il metodo di lavoro per l'invenzione di Gutenberg non richiede, almeno apparentemente, molti elementi. Erano semplicemente quattro gli elementi necessari: la carta, l'inchiostro, il torchio a vite e i caratteri mobili. Sviluppo economico, università e fermento culturale della fine del Medioevo sono gli elementi che predispongono la grande accoglienza della nuova tecnologia di scrittura. Nel giro di trent'anni l'Europa è un pullulare di tipografie. Con l'avvento della stampa nascono nuove figure professionali: gli editori, gli stampatori, i correttori di bozze e i librai. Anche il pubblico cambia: non più solo ecclesiastici e intellettuali ma anche la classe emergente, la borghesia. Gli editori e gli stampatori si orientano al pubblico, pongono attenzione ai consumatori. I primi libri stampati, detti incunaboli, somigliano ai libri manoscritti. Tale fatto è fisiologico rispetto ad ogni nuova invenzione. Certamente il passaggio dall'epoca chirografica a quella tipografica rappresenta la maggiore democratizzazione del sapere, anche se è necessario precisare che ciò è vero relativamente all'epoca degli amanuensi, e non in assoluto. Gli amanuensi sia per la necessità di velocizzare la ricopiatura dei testi sia, forse, per lasciare tracce di sé nel testo che obliavano l'autore, procedevano per abbreviazioni ed erano soliti unire le parole. Tale sottocodice poneva gli amanuensi in una posizione di radicale importanza: era necessario continuamente rivolgersi a loro sia per leggere che per procedere a ricopiare senza errori. A volte la lettura di tali libri richiedeva di mettere in uso il sensorio dell’udito, per meglio distinguere le parole che a vista erano unite. La stampa, separando le parole ed eliminando le abbreviazioni rende, almeno a livello ideale, il sapere accessibile a chiunque. Non dimentichiamo che tale democratizzazione del sapere è bene considerarla primariamente come un processo lento e non sempre facile. Non solo perché inizialmente i libri stampati assomigliavano a quelli degli amanuensi con tutti i problemi appunto dei loro antenati, ma anche e soprattutto per i costi elevati e l'ancora troppo iniziale alfabetizzazione delle persone. Con il passare del tempo si giunse alla qualificazione di alcuni elementi come la grafica sempre più chiara, la precisione nella composizione ed eventualmente l'errata corrige e soprattutto la distinzione non solo tra le parole, ma anche un’articolazione con titoli, capoversi ed illustrazioni: elementi che saranno decisivi nella concorrenza tra editori, che non tarderà a farsi sentire. Altro elemento importante è la nascita del reato di plagio. I testi non sono più orfani come nell'epoca chirografica degli amanuensi; ora hanno un padre che difende il proprio figlio a costo anche di intraprendere una battaglia in tribunale. Vediamo in sintesi alcune caratteristiche della nuova cultura tipografica. Accanto alla purificazione del latino, la stampa contribuì allo sviluppo delle lingue nazionali. Infatti gli editori, attenti alla possibilità di vendita delle proprie opere, privilegiarono la pubblicazione di opere in lingua nazionale. Così la stampa, a servizio di un pubblico sempre meno d'elite, accentuò e diede forza alle lingue nazionali e le cristallizzò. Un dato importante è la normalizzazione ortografica che la stampa provocò. Ciò che non poté la cultura 3 manoscritta, lo poté quella tipografica; mentre la prima «non aveva alcun potere di fissare una lingua o di trasformare un vernacolo in un mezzo di comunicazione di massa per la realizzazione dell'unità nazionale», la seconda rese meno fluidi i cambiamenti a livello linguistico, arricchì il lessico e si fece portatrice di vere e proprie unità nazionali. L'introduzione della scrittura alfabetica aveva portato ad una certa uniformità, continuità, ripetibilità ed omogeneità. Questi elementi con l'introduzione della stampa si enfatizzano e se ne aggiungono di nuovi come la sinteticità, l’analiticità, il pensiero astratto. Anche l'andamento formulaico perde definitivamente terreno e il nuovo sensorio, l'occhio, diviene capace di uno sguardo di insieme. Importanti cambiamenti furono introdotti anche relativamente all'autore e al lettore. Nella cultura manoscritta di chi fosse la paternità letteraria di un manoscritto poco contava. Gli stessi studiosi medioevali non erano molto interessati a chi fosse l'autore dei libri su cui studiavano e d'altra parte gli stessi scrittori non avevano attenzione a dichiarare la paternità delle cose prese da altri. Inoltre è da sottolineare che il testo dell'autore e le note o le glosse del lettore godevano dello stesso status. La figura dell'editore ha trasformato la parola in una merce, in modo tale che l'autore percepisse uno stipendio. Si fece strada dunque, seppure lentamente, il diritto d'autore. La situazione esplose quando i libri stampati divennero molti e soprattutto quando s’iniziò a stampare le opere dei contemporanei. Ha inizio un lento cammino passato dapprima dai privilegi regali, successivamente alle prime disposizioni di legge nel 1709 con il Copyright Act seguito dalla Francia e dalla Germania. Si dovette attendere però fino al 1886 con la Convezione di Berna, in cui fu stabilita la reciprocità internazionale dei diritti. Nel frattempo i libri andarono miniaturizzandosi, rendendosi così facilmente consultabili e leggibili in qualsiasi luogo. L'avvento della stampa permise di produrre libri con costi assolutamente inferiori rispetto ai costosi libri che gli amanuensi copiavano. L'accesso al sapere dei libri stampati diede impulso alla costruzione di biblioteche di privati. L'espandersi del libro offre una grande possibilità al sapere scientifico: la raccolta dati. Anche all'epoca degli amanuensi esistevano testi scientifici la cui validità però era sempre sotto tutela, per la facilità delle imprecisioni e degli errori che nella fase di copiatura potevano avvenire. Ora il libro diviene un bagaglio di dati corretti, con mappe, disegni e diagrammi che con il tempo andavano assumendo forme sempre più precise. Questo condusse ad una vera e propria rivoluzione scientifica: gli uomini di scienza non solo potevano contare su un sapere fissato e verosimilmente corretto, ma potevano anche avere a disposizioni biblioteche molto ricche e fornite che, per lo scienziato, diventavano vere e proprie mappature di sapere. Il via alla stampa del giornale È questo un ulteriore contributo dovuto all'invenzione di Gutenberg. Come sempre ogni innovazione tecnologica trasforma qualche cosa che già esisteva. Così nel Trecento esistevano delle forme di fogli d’informazione tra filiali di grandi compagnie commerciali. Erano poco più che lettere sulle quali si potevano trovare informazioni circa i prezzi delle merci, i movimenti delle navi e i principali fatti che erano avvenuti nelle maggiori corti europee. Si dovette attendere il 1513 per giungere al primo libro di notizie a stampa. I media elettronici Tra gli avvenimenti che hanno segnato il ventesimo secolo occupano un posto di rilievo l'avvento e la rapida e capillare diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. La 4 nozione di mass media si basa su un’assunzione di fondo, che nasconde sotto di sé un altro presupposto. L'assunzione è che la società industriale sia una società di massa: il presupposto è che essa abbia come caratteristica fondamentale la produzione in serie, di merci come beni informativi o culturali. La produzione in serie genera la massa, la massa caratterizza tutti i prodotti culturali generati specificamente dalla società industriale, e soprattutto quelli che non possono vantare una tradizione preindustriale (e quindi esercitare una resistenza alla democratizzazione). Ecco dunque che i mezzi di comunicazione tecnologica fondati sulla distribuzione ad un grande pubblico sono mezzi di massa, e come tali, a partire dalla definizione stessa, confermano con la loro presenza il presupposto della loro descrizione. I mass media hanno cambiato la modalità di lettura e di scrittura, hanno cambiato tempi e caratteristiche del divertimento e hanno rimodellato anche il sensorio oltre che rimodellare in qualche modo i processi educativi. Se molto tempo fu necessario per introdurre la scrittura e ancora molto ne dovette trascorrere per giungere all'invenzione della stampa, dalla metà del XV secolo lo sviluppo tecnologico presenta una crescita con intensità esponenziale: nel giro di 500 anni infatti, siamo passati dal torchio di Gutenberg alla comunicazione satellitare. Il telegrafo, la fotografia, il cinema, la radio e la televisione Possiamo indicare il 1844 come data d’inizio della rivoluzione elettrica ed elettronica. Si tratta dell'anno in cui Samuel Morse inaugurò un collegamento telegrafico tra Washington e Baltimora. Ed è con il telegrafo, afferma Marshall McLuhan, che l’uomo “entrò in un mondo nuovo di zecca fatto di subitaneità”, ovvero capace di far pervenire subito un messaggio in tempo reale. Se fino a quel momento le notizie camminavano insieme alle gambe dell'uomo, a cavallo, attraverso i fiumi o con le locomotive e tutti i tentativi precedenti di trasmissione istantanea fallirono, ora il mondo presentava una possibilità del tutto inedita: la subitaneità. Soltanto con l'avvento del telegrafo i messaggi poterono viaggiare più in fretta del messaggero. Il termine comunicazione è stato ampiamente usato con riferimento alle strade, ai ponti, alle rotte navali prima di trasformarsi, con l'era elettronica, in movimento di informazione. Così negli anni in cui Morse modificava il modo di trasmettere notizie, in Francia, Louis-Jacques Daguerre, con la fotografia, andava sviluppando un nuovo modo di rappresentare e percepire la realtà. Quali, dunque, le conseguenze dell'introduzione della riproduzione fotografica della realtà? La fotografia influisce anzitutto sulla nostra percezione di realtà. Lo sguardo della macchina, infatti, si organizza in funzione del punto di vista, dell’angolazione, dell'inclinazione, compromettendo il rapporto immediato di chi osserva con l'oggetto della sua osservazione. Anche dal punto di vista informativo poter contare su un supporto visivo modifica la gestione della notizia stessa che può far leva non solo sulle parole ma anche sulle immagini. Figlio naturale dell'invenzione della fotografia è il cinema. Il cinema ha una data ufficiale ben precisa: la sera del 28 dicembre 1895 al Salon Indien del Café in Boulevard des Capucines a Parigi avvenne la prima proiezione pubblica con alcune decine di spettatori rigorosamente selezionati. Vennero proiettati sette cortometraggi che i fratelli Louis e Auguste Lumière avevano girato qualche mese prima: la reazione del pubblico fu di sorpresa, meraviglia, sbalordimento, perché, per la prima volta nella storia dell'umanità, si potevano ammirare immagini in movimento di una realtà oggettivamente rappresentata senza trucchi o artifici. Il cinema dei Lumière non è un'invenzione casuale o fortuita: al contrario, come abbiamo visto, rientra piuttosto in un discorso sulla fede ottimistica nel progresso tecnico-scientifico che pervade tutta la 5 seconda metà del XIX secolo, quando ricercatori di tutto il mondo tentano di animare la fotografia inventata cinquant'anni prima da Nièpce e brevettata da Daguerre. Infatti Marey e Muybridge rispettivamente in Francia e negli Stati Uniti inventarono una sorta di sequenza fotografica in grado di riprodurre, ancora staticamente, il movimento di una persona o un animale, preludendo quasi alla fondamentale scoperta dei Lumiere di una pellicola che mette in sequenza 24 fotogrammi al secondo, riproducendo e dunque rappresentando il movimento reale del mondo circostante inquadrato da una macchina da presa (o cinecamera). Con l'avvento del cinema, in breve tempo muteranno sia la cultura sia l'esperienza dell'uomo moderno, dalla percezione del mondo esterno all'impiego del tempo libero, dal modo di raccontare le storie al sistema di concepire l'arte e l'estetica. La storia della radio ha radici molto remote. Possiamo giungere fino al 1535 con il telegrafo simpatico, una sorta di apparecchio basato sul fenomeno dell'attrazione magnetica destinato alla trasmissione di messaggi. Dopo tre secoli, nella prima metà dell'Ottocento, a Londra Michael Faraday conclude i suoi lavori circa il fenomeno dell'induzione elettromagnetica. Il passo decisivo però si compirà in Germania ad opera di Heinrich Rudolph Hertz per mezzo dell'oscillatore, apparecchio formato da due parti; una che trasmette ed una che riceve le onde elettromagnetiche. A fine Ottocento le condizioni tecnologiche per una trasmissione via radio già esistono. Molti sono stati i contributi e le scoperte scientifiche che hanno condotto alla nascita della radio, ma sarà il bolognese Guglielmo Marconi ad essere eletto padre della radio, chiamato successivamente da Pio XI a progettare la Radio Vaticana (12 febbraio 1931). In Italia nel 1924 l’URI – Unione Radiofonica Italiana – inaugurava la sua prima trasmissione con notiziari di borsa, trasmissioni per bambini e inni ufficiali. La radio, il cui fascino non attese a farsi sentire proprio per la sua capacità di creare una vicinanza, per il suo utilizzo privato, quasi intimo, ha accompagnato, e anche segnato, le tappe più importanti della nostra storia, dalla propaganda fascista alla cronaca della Liberazione su Radio Londra. Con l'avvento della radio per la prima volta il mezzo di comunicazione acquista un'altra dimensione, diviene un oggetto, un elemento di arredo nelle case, in grado di determinare lo status di una persona e di rappresentare qualcosa di più e di diverso, rispetto al semplice veicolo d’informazioni. In pratica la radio diviene, al pari di altri elettrodomestici che seguiranno, uno status symbol, capace di innescare potenti meccanismi imitativi. La TV fin dall'inizio usa e sfrutta le strutture già esistenti del sistema radiofonico: pubblico in Europa, privato in America. E anche come linguaggio la TV si modella sul sistema radiofonico, nel senso che non diventa soltanto un linguaggio di fiction, come accaduto di fatto per il cinema (salvo rare eccezioni), ma segue, aggiungendo le immagini al sonoro, il linguaggio radiofonico modellato su tre grandi macrogeneri: informazioni, cultura, spettacolo. A livello di spettacolo la televisione può proporre il cinema teletrasmesso, ma fin da subito preferisce essa stessa creare nuovi formati specifici; ecco quindi i telefilm, le soap opera, le telenovela, gli sceneggiati, i teleromanzi, insomma una narrazione con spazi e tempi televisivi, talvolta lontanissimi come estetica dai codici filmici e cinematografici in genere. Più che al cinema la TV guarda ad esempio, durante le proprie origini (epoca della paleotelevisione) al modello teatrale: esiste un teleteatro di stampo culturale, ma anche il cosiddetto varietà e tutta la programmazione leggera deriva in fondo dalle forme popolaresche d'arte scenica. Per l'informazione invece la TV preferisce rifarsi all'immediatezza del linguaggio radiofonico, con una sorta di giornalismo più attento ad essere sul posto nel minor tempo possibile, piuttosto che a commentare scrupolosamente i fatti. Anche lo sport (fiore all'occhiello della programmazione 6 televisiva) è figlio dell'informazione radiofonica. Ma la televisione può accogliere davvero di tutto, fino ad inventare veri e propri microgeneri, dai quiz alle tribune politiche, alle nuove forme di spettacolarizzazione di massa, come ad esempio ciò che gli americani chiamano infotainement, programmi che stanno appunto a metà tra l'informazione e l'intrattenimento. Quest'ultimo però è il prodotto di ciò che dagli anni Ottanta viene chiamato neotelevisione, per distinguere il linguaggio televisivo dal precedente modello più rigoroso, pedagogizzante, fondato sulla severa ripartizione nei tre grandi macrogeneri sopraelencati. Con la proliferazione della TV privata in Italia il palinsesto diventa un flusso indifferenziato, a rischio di compromettere il già precario equilibrio del rapporto tra emittenza e utenza. In poco più di un secolo l'umanità dà vita ad una nuova forma di cultura, caratterizzata da una grande quantità di trasmissioni comunicative e dal sorgere di nuove e importanti questioni riguardo alla stessa percezione della realtà. Si registrano modalità nuove d’approccio alla realtà da parte dei bambini, grandi consumatori di televisione. Dalle nuove tecnologie all'ipertesto Nel secondo dopoguerra in America l'industria bellica, grazie ad un’accurata ricerca scientifica, mette a punto sistemi sempre più elaborati di calcolo elettronico: nascono nuove scienze come la cibernetica (robot, intelligenza artificiale) e soprattutto l'informatica, destinata a sconvolgere l'assetto comunicativo del secondo Novecento. Dagli anni Sessanta sentiamo sempre più parlare di computer che nel giro di un trentennio riducono velocemente le loro dimensioni. Tra gli anni Cinquanta e Settanta si fanno i primi usi pubblici di computer sia nell’industria, sia nelle redazioni dei giornali. Poi, dagli anni Ottanta vengono commercializzati i personal computer (Pc) per uso domestico: è quella che viene chiamata rivoluzione elettronica, che con gli anni Novanta aggiunge un ulteriore tassello alla comunicazione globale. Rendendo pubblico anche Internet, dalla tastiera di casa nostra possiamo comunicare con il mondo intero, trasmettere e ricevere miliardi di informazioni. Tutto questo comporta anche uno sconvolgimento nella tradizionale comunicazione di massa: siamo immersi in un'alluvione informativa, una sorta di bulimia della comunicazione che porterà a patologie antropologiche tanto più radicali, quanto minore sarà la responsabilità nei confronti di una seria riflessione etica. Del resto se si osserva la penetrazione sulla popolazione di età superiore ai 14 anni dei nuovi media, non è possibile immaginare che nulla sia cambiato non solo in termini di strumenti tecnologici quanto piuttosto in termini di costruzioni sociali. Anche la lettura si trasforma, diventando interattiva. 7 2. BREVE STORIA DEL GIORNALISMO IN ITALIA I primi passi Le prime gazzette a stampa, quindicinali o settimanali, compaiono all’inizio del Seicento e coabitano a lungo con gli avvisi e fogli di notizie manoscritti. Anversa, Augusta e Strasburgo sono le città nelle quali si compie lo straordinario evento tra il 1605 e il 1609. Nel giro di una dozzina d’anni seguono Amsterdam, Parigi, Vienna e Londra. In Italia Firenze e Genova sono le prime ad avere una gazzetta: nel 1636 e nel 1639. Avvisi e fogli di notizie circolano anche a Venezia e Roma. Il tempo che intercorre tra un evento e la diffusione della notizia è di una ventina di giorni. Lo spazio è esiguo. Le prime gazzette hanno il formato dei libri (15x23) ed escono a due o quattro pagine. Le otto pagine e la periodicità settimanale arrivano nella seconda metà del Seicento. Stabilire durata e diffusione di quei primi giornali è praticamente impossibile. Quasi tutti durano poco, e la tiratura va dalle 200 alle 1.000 copie. Il sistema del privilegio, di cui sono impregnati i nascenti Stati nazionali, comporta sovvenzioni, agevolazioni e il monopolio dell’informazione politica. Il primo quotidiano della storia esce a Lipsia nel 1660: la testata scelta è tutto un programma: “Notizie fresche degli affari della guerra e del mondo”. La stampa inglese è la prima che può affrontare abbastanza liberamente temi politici in una contrapposizione già netta tra conservatori e liberali. In Italia, a cavallo tra Seicento e Settecento, si amplia la rete delle gazzetta privilegiate. Ne escono a Torino, Bologna, Mantova, Messina, Parma, Modena e anche in piccoli centri come Rimini. All’inizio quasi tutte sono prive di titolo e molte anche di numerazione. Tra le gazzette del Seicento i cui esemplari sono giunti fino a noi meritano di essere menzionate “Il Sincero” di Genova, “I successi del mondo” di Torino e il “Rimino”, che esce appunto a Rimini. Quest’ultima è la prova che le gazzette dei piccoli centri sono spesso meno paludate e conformiste di quelle delle capitali. Alla fine del Seicento e nella prima parte del Settecento si stringono i lacci della censura o si inventano altri interventi per rendere difficile la vita dei giornali o per scoraggiare i propositi di farne dei nuovi. Alla fine del Settecento i quotidiani delle maggiori città italiane viaggiano già sopra le 2.000 copie al giorno. La Rivoluzione francese e la stampa italiana La Rivoluzione segna una tappa fondamentale nella storia della stampa e dà al giornalismo un impulso straordinario. L’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 dice: “La libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”. Con la nascita del giornalismo politico si forma l’opinione pubblica. In Italia le notizie che arrivano dalla Francia provocano eccitazione e curiosità: quasi tutte le gazzette danno conto delle decisioni dell’Assemblea nazionale e della Costituente e pubblicano i documenti rivoluzionari. Grande fortuna, inoltre, incontrano gli opuscoli che riassumono le vicende della Rivoluzione, scritti da intraprendenti pubblicisti italiani o tradotti dal francese. La voce più importante dello schieramento papale è il “Giornale ecclesiastico di Roma”, che esce dal 1785 al 1798 ed è diffuso in tutta Italia. Per il suo carattere ideologico e propagandista, l’Austria ne vieta la circolazione nei territorio controllati. La novità più curiosa è la comparsa dei primi periodici femminili: nel 1791 esce a Firenze il “Giornale delle dame”, poi “La donna galante ed erudita di Venezia” e il “Giornale delle nuove mode di Francia ed Inghilterra”, che esce a Milano. 8 Arriva la libertà: l’esperienza napoleonica Napoleone Bonaparte entra a Milano nel maggio 1796: con la sua venuta in Italia, cadono le restrizioni sulla stampa. Nel triennio giacobino escono a Milano 40 giornali, 20 a Genova e 10 tra Venezia, Roma e Napoli. Nascono le prime forme di giornalismo politico: temi di discussione continua sono la libertà di stampa e lo sbocco da dare al movimento patriottico rivoluzionario. Ben presto, però, anche Napoleone fa un passo indietro, riservandosi di reprimere i giornali più ardimentosi. Nell’agosto 1799, le truppe francesi sono costrette alla resa dalle forze austro-russe: le Repubbliche crollano, e con loro tutti i giornali democratici. Tornato nel 1804, con la proclamazione del Regno d’Italia, il regime napoleonico, ritorna il pullulare di giornali, anche se non più liberi, ma orientati alla politica francese. Nei territori aggregati alla Francia le autorità impongono il bilinguismo, e in alcuni casi ordinano l’edizione di giornali scritti solo in francese. Intanto, i giornali si evolvono anche da un punto di vista stilistico: quello più in uso nei primi anni dell’Ottocento è il 26x40. In molti casi la pagina viene suddivisa in tre colonne: è con l’introduzione della macchina a fabbricazione continua di carta che crescono i formati (più pagine) e aumentano le tirature. Il giornalismo del Risorgimento Per tutto il periodo della Restaurazione, fino alla promulgazione degli editti del 1847-48, non esiste in Italia un giornalismo politico nel senso completo del termine. Le idee nuove vengono comunque espresse attraverso i fogli letterali e culturali. Nelle capitali e nei maggiori centri urbani di ogni Stato, i sovrani e i governi fanno uscire un foglio ufficiale, che quasi sempre si chiama “Gazzetta”. Milano conferma il proprio ruolo di capitale culturale e giornalistica, sopravanzando definitivamente Venezia, che era stata il suo alter ego al tramonto del Settecento. La situazione comincia a sbloccarsi in occasione dei moti rivoluzionari del 1848, ma ancora l’attività censoria, messa in atto soprattutto dalle autorità papaline (che si preoccupavano di mantenere la calma generale per non peggiorare la già difficile situazione) non permette una stampa completamente libera. La fioritura di giornali che si era verificata nelle fasi rivoluzionarie, si ripete in misura molto più ampia e intensa nel biennio 1848-49: la scena giornalistica diventa tumultuosa per l’importanza degli eventi. Nel clima della guerra d’indipendenza, compare nel giugno 1848 a Torino un quotidiano, la “Gazzetta del Popolo”, che si rivelerà una grande novità editoriale. Prezzi popolari, distribuzione al mattino, molte notizie date con tempestività, linguaggio semplice. L’operazione riesce, e nel giro di quattro anni raggiunge i 10.000 abbonati. Nel 1858 escono 117 periodici negli Stati sardi, 68 nel Lombardo-Veneto, 27 in Toscana, 16 a Roma e 50 nel Mezzogiorno. Sono cifre rispettabili, se si tiene conto che la libertà di stampa esiste solo negli Stati di Vittorio Emanuele II, ed in più si registra un divario abissale tra Nord e Sud della penisola. In Italia, gli analfabeti superano il 75%, e la popolazione è di circa 25 milioni di anime. Le 10.000 copie della “Gazzetta del Popolo” restano un primato solitario, per il resto la media è sulle 2.000 copie. In Francia, Germania e Inghilterra la tirature stazionano tranquillamente sulle 3040.000 copie. I quotidiani che hanno buone possibilità di durare si contano sulle dita di una mano. Alcuni hanno il formato grande alla francese, con la pagina suddivisa in quattro colonne anziché in due. La pubblicità è per ora molto scarsa. In conclusione, il giornalismo italiano del periodo risorgimentale si è sviluppato con una forte connotazione politica, e manca la spinta imprenditoriale. La figura del giornalista comincia ad assumere lineamenti peculiari, ma sono rari i casi nei quali l’impegno politico non abbia il sopravvento su quello professionale. 9 Dall’Unità alla svolta di fine secolo Con l’Unità d’Italia (1860) migliora la situazione socio-culturale del Paese: diminuisce sensibilmente l’analfabetismo (68% nel 1871, con punte minime in Lombardia e Piemonte al 42-45%). Sulla scena milanese, capofila delle questioni socio-politiche italiane, quattro quotidiani dominano la scena: il primo è la “Gazzetta di Milano”, che non interrompe le pubblicazioni neppure per un giorno. Il secondo è “La Lombardia”, il terzo “Il Pungolo” e il quarto “La Perseveranza”. A livello di tiratura, siamo tra le 15 e le 25.000 copie per i giornali maggiori. Quando cade il governo della Destra, nel 1876, i giornali ufficiali del Regno sono 65 (28 quotidiani e 37 periodici). La legge prevede il sequestro in caso di attività politica non conforme agli interessi dello Stato: a farne le spese sono soprattutto i giornali di sinistra, così come i primi fogli destinati alle classi popolari. Ai giornali amici, governo e prefetti sono disposti a dare incentivi economici, che cominciano ad arrivare in questi anni anche sotto forma di sovvenzione statale. Un’altra forma di aiuto, sempre da parte dello Stato, è la fornitura gratuita di notizie: in sintesi, si tratta di una delle prime forme di ufficio stampa. La scena del giornalismo politico-artigianale comincia a mutare alla metà degli anni Sessanta, quando Milano è già una città di 250.000 anime: il patriottismo è spinto ai limiti estremi, e soprattutto nasce la cronaca cittadina. Avvicinandosi il 1871, l’anno di Roma capitale, il giornalismo comincia a crescere e formarsi anche nell’Urbe. A muovere l’anima del giornalismo sono sempre le battaglia politiche: la Sinistra sta cercando di fronteggiare lo strapotere della Destra, cominciando ad impossessarsi di alcuni mezzi d’informazione, soprattutto a Roma. Questo gli varrà il governo alle elezioni del 1876. Sempre nel 1876, nasce a Milano il “Corriere della Sera”, quotidiano del pomeriggio: il progetto del giovane direttore (appena 34enne), Eugenio Torelli Viollier, è dare alla borghesia un giornale che sia la versione destroide de “Il Secolo”, fino a quel momento il giornale più avanzato del capoluogo lombardo. L’avvio è molto stentato: il Corriere stampa poco più di 3.000 copie, il Secolo 40.000. Tra i settimanali, sale alla ribalta nel 1885 “Le forche caudine”, capace di stampare 150.000 copie, che poco dopo sarà però costretto a chiudere per volere della magistratura. Nel decennio Ottanta, accanto al trionfante “Secolo” e al “Corriere della Sera”, mettono radici vari quotidiani che hanno, in genere, una forte impronta politica ma anche una veste editoriale ed imprenditoriale. I modelli a cui si guarda sono in prevalenza quelli di stampa francese. Per il Corsera una svolta decisiva arriva nel 1885 quando il cotoniere Benigno Crespi, convinto che un giornale possa essere un buon affare, entra in società con Torelli Viollier sborsando 100.000 lire. Nel 1889 la tiratura arriva a 60.000 copie, mentre “Il Secolo” è già sulle 100.000. A Torino, la “Gazzetta del Popolo” si riassesta dopo gli sbandamenti degli anni Sessanta ed è incalzata dalla “Gazzetta Piemontese”, che nel 1895 si trasformerà ne “La Stampa”. Nella capitale sta salendo “Il Messaggero”, lanciato nel 1878. Abbandonata la formula iniziale del “giornale dei giornali”, perché realizzato con forbici e colla (un fiasco con meno di 3.000 acquirenti), il giovane direttore Luigi Cesana punta sulla cronaca cittadina, sui resoconto dei processi e sui romanzi d’appendice. Origini diverse hanno altri due quotidiani destinati a durare, che escono tra il 1885 e il 1886. Il “Resto del Carlino” di Bologna nasce in piccolo formato (prezzo due centesimi) come foglio locale di tendenza democratica. Nonostante un successo iniziale lusinghiero per la piazza bolognese (6.000 copie), i promotori devono presto passare la mano perché i conti non tornano. Lo rileva l’avvocato Amilcare Zamorani, esponente delle forze laiche e progressiste della provincia, che gli dà un taglio editoriale migliore, portandolo alle 20.000 copie di tiratura. “Il Secolo XIX” compare a Genova nel 1886 e si colloca come 10 sostenitore degli interessi protezionistici, creando un collegamento diretto con le forze economiche e politiche, ed in particolare con la borghesia industriale ed agraria. In campo cattolico, le direttive per lo sviluppo della stampa si imperniano sul localismo. Nel Congresso cattolico italiano del 1887, si raccomanda di aderire alle necessità ed ai gusti delle popolazioni di ogni piccolo centro, affinché il giornale divenga un elemento indispensabile del buon cattolico, sia esso contadino, coltivatore diretto o esercente. In quell’anno i quotidiani cattolici sono 26, la maggior parte dei quali è schierata sulla linea dell’intransigenza. Le tirature sono, in genere, molto basse. I fogli più influenti sono “L’Osservatore cattolico” di Milano, “L’Avvenire” di Bologna, “Il Cittadino” di Brescia” e “L’Eco di Bergamo”. Giornali e giornalisti agli inizi del Novecento Nel momento in cui, per l’Italia, si aprono prospettive di progresso civile, sociale ed economico – che saranno realizzate in gran parte sotto il governo di Giolitti – la situazione dell’editoria giornalistica presenta notevoli disparità ed è, nel complesso, ancora fragile. La popolazione cresce a ritmo sostenuto (32 milioni nel 1901) e il processo di urbanizzazione si sta accelerando (Milano 491.000 abitanti, Roma 460.000, Napoli supera il mezzo milione), anche se il 48,7% degli italiani, nel 1901, è ancora analfabeta. I giornali di impronta liberale sono usciti dalla battaglia contro il disegno reazionario con un prestigio rafforzato. Ora anche in Italia c’è chi guarda alla stampa come il “Quarto potere”. All’inizio del secolo, molti editori affrontano la nuova fase del processo di industrializzazione della stampa, che, come si è detto, viene vissuta sempre più come un’esigenza. Dal censimento delle pubblicazioni in circolazione, condotto nel 1905, in Lombardia, Lazio e Piemonte si stampano rispettivamente 544, 421 e 400 tra quotidiani e periodici di varia importanza. Ma la sparizione dei fogli più deboli è un fenomeno incipiente: si passa dall’11,5% al 4,8% nel giro di dieci anni. Ai costi di produzione più alti, si devono aggiungere cospicui investimenti per dotare le tipografie dei nuovi macchinari inventati negli ultimi decenni dell’Ottocento. L’industrializzazione richiede una maggiore diffusione, per coprire i costi utilizzando appieno i macchinari. La fisionomia e la struttura del quotidiano cambiano all’inizio del secolo. La tendenza generale è al formato grande, con la pagina suddivisa in cinque colonne. Nel 1904 la foliazione normale diventa di sei pagine, ma già nel 1906 i quotidiani più forti, come il Corriere della Sera, cominciano ad uscire con otto pagine. Si delineano le suddivisioni per argomenti con testatine apposite: la cronaca cittadina, giudiziaria, le notizie teatrali, le recentissime. La prima non diventa la pagina vetrina che presenta le informazioni più importanti, ma di ogni genere. I modelli restano il londinese “Times” e i parigini “Le Matin” e “Temps”, giornali seri ma anche seriosi. In prima pagina c’è posto soltanto per le informazioni e gli orientamenti politici, per uno spunto culturale e, quando l’occasione è buona, per la corrispondenza di un inviato. Ma i titoli sono sempre ad una colonna: i primi titoli di taglio a due colonne compaiono verso la fine del primo decennio del Novecento, quando le pagine vengono spartite in sei colonne. Nelle redazioni dei maggiori quotidiani, che ormai sono una decina, procede la razionalizzazione dei compiti e degli orari: solo nei giornali di provincia i redattori si improvvisano tuttofare. Il settore che conta il maggior numero di giornalisti è la cronaca cittadina: ci sono i cronisti di bianca e di nera, che si battono tutti i giorni tra municipio, questura, ospedali, teatri e caffè. I fermenti e le attese che si manifestano nel paese dopo la svolta di fine secolo, si riflettono nella stampa più propriamente politica in modi più diretti e acuti che nei giornali d’informazione e d’opinione. La stampa socialista, a cominciare dall’Avanti, interpreta i contrasti ideologici e politici che si sviluppano all’interno del partito e del movimento operaio italiano ed europeo. L’Avanti ha un’andatura oscillante 11 ed un deficit cronico, con un numero di copie tra le 10 e le 25.000. Col trasferimento da Roma a Milano e il cambio di società editoriale, l’Avanti riprende quota balzando a 30.000 copie: il partito socialista si muove anche con giornali minori, come “Il Tempo” e “Il Lavoro”. Sul fronte cattolico, “Il Momento” e il “Corriere d’Italia” sono giornali che cercano di superare la formula del “Non expedit”. Questo atteggiamento di moderazione si nota anche in giornali come “L’Avvenire d’Italia” di Bologna e “L’Osservatore cattolico” di Milano. La Grande Guerra e l’avvento del fascismo Con l’avvento della Grande Guerra, i giornali si dividono tra fronte neutralista e fronte interventista: ne guadagnano gli editori, che vedono crescere i propri guadagni, visto che la gente, sentendo l’esigenza d’informarsi, fa più riferimento ai quotidiani. La Grande Guerra e le sue implicazioni politiche, economiche e spirituali incidono profondamente nella stampa: nei mutamenti e negli assetti proprietari e nelle operazioni di controllo dei giornali, nell’intonazione dei quotidiani, condizionati dalla censura (in vigore fino al giugno 1919: le notizie erano filtrate dall’Ufficio stampa del Comando supremo. Tutto ciò per volere di Luigi Cadorna, che non aveva simpatia per la stampa) e influenzati dall’onda del patriottismo e poi dalla crisi politica e dal mito della forza. Le tirature dei maggiori erano cresciute nel periodo infuocato della neutralità, ed erano aumentati gli investimenti pubblicitari. La diffusione era cresciuta nelle prime fasi belliche, poi era diminuita per il crescere dei costi di produzione e la crisi economica. Tra il 1920 e il 1922 nascono nuovi giornali di partito, o filo-partitici: ogni forza politica ne ha almeno uno. Nelle prime settimane del governo Mussolini le prime pagine dei giornali appaiono politicamente spente oppure danno la sensazione dell’ufficiosità o della soddisfazione. I giornali socialisti, comunisti e repubblicani tentano la replica, quelli liberali sperano nella normalizzazione politica: l’intenzione di Mussolini di giungere ad una concreta limitazione della libertà di stampa era chiara. Il direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini, dopo numerosi attacchi squadristi è costretto alle dimissioni. Intanto Mussolini si adopera per restringere la libertà di stampa, che cessa con la legge del 31 dicembre 1925. I cardini di questa legge sono gli articoli 1 e 7, con i quali si crea rispettivamente la figura del direttore responsabile e si istituisce l’Ordine dei giornalisti (poi ci si limiterà all’Albo, gestito dal Sindacato fascista) al quale occorrerà essere iscritti per esercitare la professione. Le due norme lasciano spiragli molto esigui, perché per essere iscritti all’Albo si dovrà ottenere dal prefetto un certificato di buona condotta politica, e il direttore responsabile deve avere anche il riconoscimento del procuratore generale presso le Corti d’appello. I criteri ispiratori della legge fascistissima sono quel senso di responsabilità di cui aveva parlato Mussolini alla prima riunione dei giornalisti fascisti, e la prevalenza della libertà dello Stato su quella del cittadino. Nel corso del 1926 i fogli dell’opposizione sono continuamente sottoposti ad intimidazioni e sequestri, fino a quando, in seguito ad un attentato a Mussolini, il ministro dell’Interno Federzoni ordina la sospensione di tutti i giornali d’opposizione. Comincia il regime mussoliniano, con la fascistizzazione integrale della stampa e l’irreggimentazione dei giornalisti. La stampa del regime fascista Nelle scelte di Mussolini sul problema della stampa due sono gli aspetti preliminari. Il primo è il modo con cui procede alla fascistizzazione integrale dei maggiori quotidiani appena conquistati all’obbedienza. Il secondo aspetto è rappresentato dagli strumenti messi in opera per dare ai giornali un’impronta dottrinaria, ed inserirli nella macchina dell’organizzazione del consenso, senza farne dei 12 giornali di Stato. I veri fiduciari di Mussolini diventano i direttori responsabili. Da abile e appassionato giornalista, il capo del fascismo non vuole disperdere il prestigio e la diffusione che le testate più importanti hanno accumulato in Italia e all’estero. Non rimane che asservirli, come fece, d’altra parte, con la monarchia, la Chiesa, la casta militare e la classe imprenditoriale. Verso la stampa cattolica il regime adotta un particolare tatto, contraddetto però in alcune città dai ras fascisti. Nel complesso i fogli cattolici assecondano, in diversa misura, le propensioni della Chiesa ad un dialogo col regime, in virtù della firma dei Patti Lateranensi del 1929. Le disposizioni ai giornali riguardano fin dall’inizio gli argomenti più disparati: dalla costruzione del mito del Duce alle questioni politiche, dalla cronaca nera (pallino di Mussolini) a cose marginali. Il processo di modernizzazione tecnica e giornalistica dei quotidiani si è ormai esteso anche tra le testate di provincia, mentre il settore dei periodici s’irrobustisce e si articola maggiormente. Le pagine dei quotidiani, in particolare la prima, sono più vistose per la presenza delle fotografie e per i titoli più alti e più neri, che lo stesso Mussolini richiede. La penuria di carta, presentatasi dalla guerra d’Abissinia in poi, induce i giornali ad uscire ad otto pagine solo due volte a settimana. Nei quotidiani più ricchi, accanto alle firme dei commentatori più accreditati, spiccano quelle dei giornalisti-letterati impiegati come inviati speciali, come Orio Vergani e Curzio Malaparte. All’inizio del 1939, la tiratura globale si aggira sui quattro milioni e mezzo di copie, con punte più alte in occasione delle frequenti edizioni straordinarie. Nel frattempo era nato il Ministero per la stampa e la propaganda, poi mutato in Ministero per la cultura popolare, soprannominato Minculpop. La stampa della Resistenza Non è sbagliato considerare la stampa del movimento di liberazione come un fenomeno di proporzioni considerevoli, oltre che di grande valore politico. Due sono i filoni. Il maggiore è quello della stampa clandestina prodotta dai partiti e da altri gruppi antifascisti, tra il settembre de 1943 e la fine della guerra. Il secondo filone è quello dei fogli delle formazioni partigiane, compilati senza i rischi della clandestinità, ma in mezzo a molte altre difficoltà. Caratteristica comune dell’attività editoriale dei partiti è la presenza di sedi nelle principali città e la cadenza quindicinale. Inoltre, le forze politiche si sforzano di far uscire fogli diretti a singole categorie sociali: operai, donne, artigiani. La stampa comunista è la più numerosa e la più diversificata: l’organo del Pci, “L’Unità”, esce a Roma, Milano, Torino e Genova, con tirature tra le 10 e le 15.000 copie. “L’Italia libera” è l’organo del Partito d’Azione, esce a Roma e Milano con una tiratura di 20.000 copie in ciascuna città. I fogli delle formazioni partigiane vedono la luce a partire dalla primavera-estate del 1944. La loro esistenza è precaria, la periodicità molto irregolare. All’origine di questa pubblicistica c’è la voglia di raccontare le proprie esperienze in questa guerra così particolare, aspra ed esaltante, condotta soprattutto da giovani usciti dal fascismo. Il dopoguerra: prima fase Prima della fine della guerra, l’attività della stampa dipende dal controllo del Pwb, un organo dipendente dal Governo militare alleato, creato sia per la propaganda sia per pilotare il ritorno della libertà di stampa nei territori via via liberati dai tedeschi. E’ il Pwb che rilascia le autorizzazioni necessarie per stampare i giornali: i primi fogli escono in Sicilia e in Calabria subito dopo la ritirata delle truppe tedesche. Sono di piccolo formato, due facciate in tutto, e sono stampati con mezzi di fortuna. Vanno ugualmente a ruba perché l’attesa della gente è grandissima. Nei primi mesi, quando l’attività dei partiti è limitata dai veti alleati, i 13 giornali sono terreni e strumenti di lotta politica. La questione monarchia o repubblica domina i dibattiti, e contrappone i partiti del rinnovamento a quelli moderati e ai vecchi gruppi di potere. Dopo il 25 aprile 1945, le richieste degli Alleati perché compaiano anche i quotidiani indipendenti sono pressanti: soprattutto a Milano e Torino, città guida della lotta partigiana e con forti insediamenti operai. Gli italiani, però, sono stanchi di ascoltare richieste straniere: in effetti, con la fine della guerra, non appare più giustificato condizionare la libertà con misure speciali. Il 22 maggio 1945 ricomincia ad uscire il Corriere d’Informazione, ovvero il Corriere della Sera sotto altro nome, per evitare commistioni con la precedente linea fascista del postAlbertini. La linea tenuta dal Corrierone è fedele alle indicazioni del Comitato di liberazione. Nella seconda metà del 1945 escono molti giornali: un nuovo mutamento della mappa dei quotidiani avviene con la cessione di alcune testate del Pwb, importanti perché ben radicate nelle rispettive zone. Si tratta de “Il Resto del Carlino” (che cambierà nome, chiamandosi “Giornale dell’Emilia”, fino al 1953), “Il Secolo XIX”, “La Nazione”, “Il Messaggero” e il “Giornale d’Italia”. Circolano, inoltre, con successo due quotidiani sportivi: la “Gazzetta dello Sport” a Milano e il “Corriere dello Sport” a Roma. Nel settore dei settimanali, Milano riprende il suo vecchio ruolo di capitale del rotocalco. Rizzoli nel luglio 1945 ottiene l’autorizzazione di pubblicare “Oggi”, 16 pagine formato tabloid. Il dopoguerra: la Costituzione e la disciplina sulla stampa La Costituzione del 1948 tutela la stampa all’articolo 21, che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. In soldoni, la libertà di esprimere il proprio pensiero trova un limite nel rispetto dei diritti altrui. Il codice penale punisce pertanto l’offesa e la calunnia. In nessun caso la stampa, però, può essere censurata preventivamente. Il dopoguerra: seconda fase A Bologna, il gruppo di imprenditori che aveva rilevato “Il Giornale dell’Emilia” completa l’acquisto della vecchia azienda che stampa “Il Resto del Carlino”, e dal 1953 l’antica testata ricompare nelle edicole al posto di quella del dopoguerra. Lo stesso gruppo, un anno prima, ha comperato “La Nazione”, il tradizionale giornale fiorentino, che era ricomparsa prima del 18 aprile. Sono i quotidiani dominanti in due regioni rosse. Dal canto suo, Confindustria riesce ad acquistare i due quotidiani economici che escono a Milano, il vecchio “Sole” e “24 Ore”, fondato con criteri più moderni nel 1946 da un operatore finanziario, Piero Colombi. Dalla metà del 1949 i quotidiani escono a sei pagine più volte alla settimana: le otto-dieci pagine arrivano dopo la Guerra di Corea del 1950, che determina difficoltà nel commercio delle materie prime necessarie per fabbricare la carta. Lo stile giornalistico è ancora quello degli anni Trenta, pur depurato da certe logiche di regime. L’attenzione per il mondo dello spettacolo è molto scarsa, se si escludono le critiche teatrali e dell’opera lirica. Considerata l’omogeneità politica, la concorrenza tra i grandi quotidiani continua a basarsi sulle firme degli inviati, dei corrispondenti e dei collaboratori. I quotidiani di partito accusano una flessione, fatta eccezione per “L’Unità”: dal 1952 anche il Movimento sociale ha il proprio 14 organo d’informazione, “Il Secolo d’Italia”, palese copia de “Il Secolo XIX”, organo d’informazione del regime fascista. All’immobilismo che caratterizza l’editoria quotidiana, fa riscontro il crescente dinamismo dei settimanali in rotocalco. Anche per quelli che si dedicano all’attualità, alla politica e alla cultura, si può parlare, dal 1950 in poi, di vero e proprio fenomeno. Ecco alcuni dati sul periodo 1959-55: Domenica del Corriere 600.000-900.000 copie Oggi 500.000-760.000 copie Epoca 200.000-500.000 copie Tempo 150.000-420.000 copie L’Europeo 100.000-130.000 copie I rotocalchi soddisfano sia il desiderio di favole moderne, sia l’aspirazione ad un’esistenza di benessere. Alcuni, come “Oggi”, guadagnano un numero straordinario di copie, con articoli riguardanti famiglie reali regnanti o spodestate, miliardari e divi del cinema. Anche le rievocazioni di personaggi del passato, come Mussolini, “fanno leggere”. Oppure si specula sulla fede, con storie di miracoli e visioni. I rotocalchi, infine, hanno un linguaggio più immediato rispetto ai quotidiani. “L’Espresso” esce a Roma il 2 ottobre 1955. Benedetti è rimasto fedele al formato grande. Sedici pagine, 50 lire. Accanto a Benedetti si ritrovano vecchi e nuovi collaboratori. Il più importante è Scalfari, il quale ha scelto di entrare a tempo pieno nell’attività editoriale, oltre che nel giornalismo. Così Benedetti riprende il discorso interrotto con toni più impegnati (in questi anni nasce il Partito Radicale), e lo riprende a Roma, capitale della politica. Passando ad un altro fronte, le vistose parzialità e omissioni dell’informazione inducono “Il Mondo” a lanciare un appello per la libertà di stampa: fra i molti punti dolenti c’è quello della responsabilità penale del direttore. In base all’articolo 57 del Codice penale la responsabilità del direttore è oggettiva, mentre la Costituzione dice che la responsabilità è personale. Dopo un dibattito lungo e contrastato si arriva ad un compromesso: la nuova norma, entrata in vigore il 4 marzo 1958, distingue meglio la responsabilità del direttore da quella dell’autore di uno scritto, e stabilisce che il primo è punito solo a titolo di colpa. “Il Giorno” compare a Milano il 21 aprile 1956: tre sono le circostanze che ne hanno determinato la nascita, vale a dire l’intraprendenza di Gaetano Baldacci (inviato speciale del Corsera), la necessità che Enrico Mattei, presidente dell’Eni, sente di poter disporre di un proprio strumento giornalistico, ed il desiderio che anima l’editore Cino Del Duca, di ritornare in Italia con un’iniziativa di prestigio. Dalla combinazione di questi fattori nasce un quotidiano di battaglia politica, e con un nuovo profilo editoriale e giornalistico, che si pone in stretto antagonismo con il Corsera. In politica “Il Giorno” punta alla collaborazione fra democristiani e socialisti, difende l’intervento pubblico nell’economia, in contrapposizione al conservatorismo ed allo strapotere di Confindustria, e sostiene la politica della distensione e le aspirazioni d’indipendenza dei paesi del Terzo Mondo. Si presenta con un’impaginazione molto vivace, ha una prima pagina a vetrina, cioè con molti titoli e notizie anche di varietà. Al posto dell’articolo di fondo c’è una breve “Situazione”, nella quale Baldacci riesce ad esprimere grande talento. La tradizionale terza pagina è abolita: gli articoli di intrattenimento culturale vanno nell’inserto in rotocalco, completato da quella che è la novità più ardita per un foglio del mattina: una pagina di fumetti e giochi. Completa l’ambizioso progetto, oltre al rotocalco settimanale allegato, anche un’edizione del pomeriggio. Il problema arriva quando è ora di fare i conti: i costi superano abbondantemente i ricavi, anche perché “Il Giorno” raccoglie poca pubblicità per la sua dichiarata contrapposizione alla politica dell’industria privata. Inoltre, la tiratura 15 arriva complessivamente a 100.000 copie. Già nell’estate del 1956 si deve rinunciare all’edizione del pomeriggio, e avviene la rottura tra Mattei e Del Duca: il primo prosegue da solo, riuscendo a restare nell’ombra. Il ruolo di primo piano è nelle mani di Baldacci, che porta il suo giornale alle 150.000 copie del 1959. Baldacci terminerà alla fine di quell’anno la sua avventura al Giorno. Contribuisce al favore di questa nuova stampa la crisi dei regimi comunisti, dovuta alla destalinizzazione a al Rapporto Kruscev del 1956, che affosseranno i giornali del Pci, primo fra tutti “L’Unità”. Il dopoguerra: sfida tra giornali e Tv La radio, per il suo fare formale e bacchettone, non aveva messo in crisi l’industria giornalistica. Diversamente fece la televisione, arrivata in Italia nel 1954. Al termine di quell’anno la popolazione che poteva captare il segnale era pari al 48,3%: in un biennio si realizza l’informazione di massa perché il Tg è la trasmissione più seguita. Gli argomenti delle prime telecronache sono, in genere, cerimonie ufficiali. Soltanto all’inizio del 1958 comincia una serie di dibattiti su questioni d’attualità, mentre bisogna attendere il 1960 per veder nascere “Tribuna elettorale”. Quando entra in funzione la seconda rete televisiva, il Tg resta prerogativa della prima rete, in base a quei criteri di controllo accentrato che hanno da sempre contraddistinto la gestione dell’informazione radiofonica e televisiva. Significativa l’esperienza di Enzo Biagi alla guida del Tg1, durata circa un anno, e terminata per l’enorme serie di condizionamenti (a quei tempi la rete pubblica era controllata dalla Dc) a cui era sottoposto, tanto che preferì tornare alla carta stampata. L’Italia si popola di antenne. Nel 1963 gli abbonati sono 4.300.000, e si calcola che circa 15 milioni di italiani la sera guardino la Tv. All’inizio, è molto diffusa la convinzione che la Tv abbia effetti politici immediati, per esempio sulle scelte elettorali, ma i fatti dimostreranno invece che l’influenza sensibile del medium elettronico è di lunga durata, perché incide sull’evoluzione della vita sociale, della mentalità e dei gusti della gente. Inoltre, la televisione popolare produce e sviluppa il germe dell’informazione-spettacolo e della politica-spettacolo. I quotidiani più forti e ricchi entrano, tuttavia, in una fase di relativa espansione per due fattori concomitanti: l’aumento del numero delle pagine e dei servizi e lo svecchiamento della formula da un lato, le tensioni e le aspettative suscitate dall’evoluzione della situazione politica dall’altro. Dal 1° gennaio “Il Giorno” è diretto da Italo Pietra: il nuovo direttore imprime alla linea del giornale – sostenitore deciso del centrosinistra – maggiore coerenza e chiarezza. Inoltre “Il Giorno” cerca una più consistente affermazione attraverso il miglioramento della qualità, della ricchezza e della diversificazione dei contenuti. Ai tre inserti settimanali (per ragazzi, lettrici e il domenicale) se ne aggiungono altri due dedicati alla televisione e ai motori. Infine, si presenta come un quotidiano in parte di qualità ed in parte popolare. Arriva a 300.000 copie, ma il deficit è sempre più largo, e questo porterà alla crisi. Si accentua quel processo di “settimanalizzazione” dei quotidiani che si svilupperà, in varie forme, negli anni Settanta e Ottanta. Lo svecchiamento del Corriere della Sera porta il maggiore quotidiano italiano a dare più spazio alle cronache locali e a sport, spettacolo e varietà. Il risultato sarà lo sfondamento del tetto delle 500.000 copie giornaliere. Accanto alle fusioni di testate quotidiane appartenenti allo stesso proprietario, si profilano le prime concentrazioni. Una la realizza l’imprenditore petrolifero e zuccheriere Attilio Monti, acquistando nel 1966 “Il Resto del Carlino”, “La Nazione”, “Stadio”, il “Giornale d’Italia” e il “Telegrafo” di Livorno. Le prime due testate hanno una posizione dominante in Emilia-Romagna e Toscana. Inoltre, Carlino e Nazione hanno un’edizione della sera. Nel complesso i quotidiani della catena Monti hanno una 16 tiratura di 600.000 copie. La seconda concentrazione è opera dell’imprenditore chimico Nino Rovelli, il quale compera nel 1967 “La Nuova Sardegna” e “L’Unione Sarda”. La Federazione nazionale della stampa (Fnsi) appare preoccupata dalla scomparsa delle testate perché porterà disoccupazione. Nel frattempo, la categoria giornalistica viene regolata con legge del 3 febbraio 1963, che prospetta la creazione di un ordine corporativo (l’Ordine nazionale dei giornalisti). Nel campo dei settimanali due sono le novità salienti della fine del decennio: l’estensione dell’impiego del colore e la trasformazione di Panorama da mensile a settimanale. Negli anni Sessanta si sviluppa il fenomeno delle agenzie di stampa: anche i media più ricchi sono compilati in gran parte dalle notizie di queste agenzie. L’Ansa rinsalda il proprio primato: il suo sviluppo giornalistico e il calo dell’ufficialità coincidono con la prima fase della lunga direzione di Sergio Lepri, che comincia nel 1961. Nel 1964 nasce Agenzia Italia (Agi), mentre nel 1968 Adn Kronos. Gli anni Settanta: un giornalismo d’attacco Nel biennio 1968-69, la contestazione giovanile, la riscossa dei sindacati, le bombe di Milano, le passioni suscitate dalla guerra del Vietnam, la nascita e lo sviluppo del movimento femminista scuotono il mondo dei media. Dal movimento studentesco e dai gruppuscoli della sinistra extraparlamentare nasce una pubblicistica molto aggressiva. Le parole d’ordine di questi fogli sono: “abbattere il sistema”, “controinformazione”, e tra questi emergono nuovi periodici, come “Lotta continua” e “il manifesto”. Dimostrazioni di studenti e di operai contro la stampa borghese e contro la Rai avvengono in varie città. Le azioni più decise sono contro il “Corriere della Sera”, considerato l’emblema della manipolazione capitalistica dell’informazione. La prima e singolare novità è la comparsa dei quotidiani della sinistra extraparlamentare. Sono fogli di battaglia politica e ideologica, vessilliferi di utopie rivoluzionarie. Il primogenito è “il manifesto”, esce a Roma nel 1971, con un’impostazione grafica sobria, quasi austera, che ricalca modelli ottocenteschi. Non pubblica fotografie ed è volutamente privo di pubblicità. All’inizio le vendite sono brillanti, ma dopo alcuni mesi scendono a 23.000 copie, cosicché deve rinunciare al prezzo di vendita inferiore (50 lire anziché 90) e alla pregiudiziale sulla pubblicità. Il secondo quotidiano di questo filone è “Lotta continua”, un tabloid squillante e aggressivo, con titoli slogan, vignette e fotografie. E’ composto con scritti brevi di taglio giovanile. Nasce nel 1972, e durerà fino al 1981. Il giornalismo d’inchiesta e di denuncia, che prende di mira anche il malgoverno, gli scandali e le arretratezze del sistema sociale, diventa vigoroso anche al di fuori del campo dell’opposizione. L’affermazione definitiva della formula “newsmagazine” avviene nel 1974, quando “L’Espresso” la adotta e vede quasi triplicare le proprie vendite. Per dare un quadro delle vendite dei quotidiani dell’epoca, vediamo in testa il Corsera con 500.000 copie, seguito dalla Stampa con 361.000, l’Unità con 239.400, mentre il Messaggero è a 227.000. Volutamente lasciamo perdere il fenomeno, tipico di tutta la parabola degli anni Settanta, dei giornalisti “gambizzati” dalle due sfere brigatiste, in quanto questo elaborato sulla storia del giornalismo intende focalizzare l’attenzione sull’evoluzione dei mass media cartacei, lasciano perdere notizie che hanno più a che fare con la cronaca. Lo scandalo Rizzoli-P2 Andrea Rizzoli aveva ereditato dal padre la voglia di possedere un grande quotidiano: così, quando l’alleanza Crespi-Agnelli-Moratti va in crisi, si fa avanti e compra tutto il gruppo di via Solferino (ovvero il Corriere). L’accordo è raggiunto nel luglio 1974, e il factotum è il 17 figlio di Andrea, Angelo Rizzoli. I Rizzoli promettono ai sindacati una politica di tutela dei giornalisti, e stringono accordi con tutti i partiti, compreso il Pci. Il problema vero, fin dall’inizio, è il bisogno di soldi, perché la situazione del maxigruppo è pesante e la sua gestione difficile. Rizzoli bussa alle porte dell’Imi e di altri istituti pubblici, preannunciando alcuni progetti tra i quali il varo di un quotidiano popolare, ma riceve risposte negative. Direttore del Corsera è ancora Piero Ottone, che era subentrato prima del passaggio del gruppo nelle mani di Rizzoli. Nel gennaio 1976, Angelo Rizzoli annuncia la politica di espansione editoriale, acquisendo testate: si tratta di un impero basato sui deficit e gli intrecci politici. Nel 1977 avviene una svolta, attraverso un’operazione di ricapitalizzazione. Chi ha fornito i quattrini? Si fa il nome, tra gi altri, di Roberto Calvi, boss del Banco Ambrosiano, e del finanziere Umberto Ortolani. Non si parla, invece, né di Licio Gelli, capo della Loggia segreta P2, né dello Ior (Istituto opere di religione), i veri protagonisti dell’affare. Ottone si dimette improvvisamente nell’ottobre 1977: il nuovo direttore è Franco Di Bella, ex direttore del Resto del Carlino e cresciuto in via Solferino. Di Bella rende più vivace il foglio milanese, che si è arricchito con l’inserto settimanale sull’economia, con la corrispondenza da Pechino e con alcune interviste di Oriana Fallaci. Il Corriere tenta due strade per rimpinguare le proprie tasse, che accusano, nel 1979, un passivo di 150 miliardi: in entrambe c’è la firma di Maurizio Costanzo. La prima mossa è la nascita del tabloid “L’Occhio”, sullo stile anglosassone, che dopo l’entusiasmo iniziale scende sotto le 100.000 copie e poi chiude. La seconda mossa è una rete televisiva con un telegiornale condotto dallo stesso Costanzo, poi bloccato dalla magistratura. Gli eventi precipitano, fino all’arresto di Calvi e alla pubblicazione, da parte del presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, dell’elenco degli iscritti alla P2. Compaiono i nomi di 28 giornalisti (tutti del gruppo Rizzoli, tra cui Di Bella), quattro editori (uno è Angelo Rizzoli) e sette dirigenti editoriali, capitanati da Tassan Din. Lo scandalo è enorme. Il Corriere ne esce screditato e il calo diffusionale si accentua. Si calcola che nel 1980-83 il maggior quotidiano italiano abbia perduto circa 100.000 copie. Perde inoltre alcune firme: Biagi, Ronchey e Scardocchia passano alla Repubblica, che sta andando a gonfie vele. Per sfuggire al baratro vengono chiusi “L’Occhio”, il “Corriere d’Informazione”, i supplementi settimanali e la rete televisiva; inoltre vengono cedute tre testate locali. Per il salvataggio, il Tribunale di Milano dispone l’amministrazione controllata dall’ottobre 1982. Due fenomeni editoriali: il “Giornale” e “la Repubblica” La nascita di questi due quotidiani va vista nel contesto della crescita di partecipazione politica e sociale da parte dei lettori. La sfida di Indro Montanelli è creare l’anti-Corriere: con una linea politica moderata il Giornale si rivolge ai cittadini che non ne possono più degli intrighi di potere in cui è coinvolto il Corsera, che temono che il Pci prenda il sopravvento attraverso il compromesso storico. Montanelli si getta nell’impresa con vigore, pur avendo, nel 1974, 65 anni. Il primo numero va in edicola nel giugno 1974: l’impostazione e la veste sono classiche, e viene dato ampio spazio alle lettere dei lettori. La tiratura nei primi giorni è sulle 280.000 copie, calando poi a 140.000. Le tendenze e gli aspetti del Giornale si rafforzano con la comparsa de “la Repubblica”, che esce nel gennaio 1976: a questo progetto si associa la casa editrice Mondadori, e le redini del progetto sono nelle mani di Eugenio Scalfari. La sua idea è di fare un quotidiano leggero di pagine e molto diverso da quelli in circolazione, diretto a coloro che seguono la politica, l’economia, cultura e spettacolo, senza cronaca locale e con pochissimo sport. Nell’insieme, Repubblica appare un Espresso che esce tutti i giorni. Il primo anno vende 80.000 copie, che salgono a 145.000 nel 1979, grazie all’eco della tragedia 18 Moro. Nel 1977, aumenta la dose di settimanalizzazione, varando il primo degli inserti di varietà che s’intitola “Weekend”, e impianta redazioni locali nelle principali città. Nel 1981, grazie alla crisi del Corsera, vede aumentare vertiginosamente i propri lettori, cresce la foliazione a 40 pagine, aumentando lo spazio sportivo. Nel 1985 arriva a quota 373.000 copie. Il fenomeno Berlusconi All’inizio degli anni Ottanta nascono le reti televisive commerciali, mentre la legge per l’editoria salva molti quotidiani e consente di compiere le indispensabili riconversioni tecnologiche. I primi network sono Canale 5 di Silvio Berlusconi e Prima rete del Gruppo Rizzoli. Berlusconi ha capito le potenzialità della televisione ed ha intuito che in Italia sta crescendo il bisogno di pubblicità commerciale. Di essere abile come impresario di spettacoli, ne aveva dato prova acquistando nel 1979 uno stock di 300 film. Prima rete fa parte di un gruppo editoriale in difficoltà e con idee poco chiare. Canale 5 parte nel 1980 e attira rapidamente un buon numero di telespettatori ed inserzionisti. Subito dopo si muove l’editore Rusconi con Italia 1 e l’anno dopo debutta Retequattro, fondata dalla Mondadori. Le emittenti che si raggruppano in queste reti, però, non possono usare la diretta, dunque si devono limitare ai telegiornali locali. Nel 1984 Berlusconi compra Italia 1 e Retequattro, creando un oligopolio in grado di contrastare la Rai. Berlusconi è favorito anche dalla mancanza di una legge sulla disciplina dell’attività televisiva. Il braccio di ferro stampa-tv Dal 1986 si consolidano i due poli televisivi, il pubblico e il privato, e comincia l’era dell’audience. I maggiori quotidiani battono la strada del gigantismo (più pagine, contenuti più variati e maggiore spettacolarizzazione), e quella del marketing. La stampa quotidiana, superata la barriera dei sei milioni di copie giornaliere, conquista lettori anno dopo anno. Nel 1990 è a quota 6.800.000. Quanto alle scelte di marketing – già coltivate da tempo dai settimanali con i gadget più disparati – per i quotidiani sono, in un primo tempo, di carattere editoriale, poi cadono sui giochi a premio. La vicenda di primo piano è la gara ai sorpassi fra la Repubblica e il Corsera. Il primo sorpasso si verifica nel 1986: 515.000 copie di Scalfari, contro le 487.000 del foglio milanese. Repubblica rimane in testa fino al 1989, quando il Corriere, diretto ora da Ugo Stille, lancia una lotteria molto semplice con 10 milioni di premi al giorno, di nome “Replay”. In questi anni soccombono due testate storiche: la “Gazzetta del Popolo” e “Roma”. Tra i fogli più noti sono in crisi “Il Giorno”, “Il Tempo” e “Il Lavoro”. In questi anni, l’Ordine dei giornalisti passa dai 10.000 iscritti del 1985 ai 12.000 del 1990. Sullo scorcio del decennio Ottanta nasce un secondo gruppo editoriale, dopo la formazione di quello Rizzoli-Corriere della Sera (Rcs): la Mondadori, controllata da Carlo De Benedetti, incorpora l’altro 50% della Repubblica e la catena di quotidiani locali “Finegil”, oltre alla totalità delle azioni de “L’Espresso”. Abbiamo questo quadro: Mondadori vende 1.100.000 copie di quotidiani, 2.700.000 settimanali e 1.400.000 mensili. Rizzoli 1.200.000 quotidiani, 2.300.000 settimanali e 1.500.000 mensili. Fra gli azionisti di Mondadori c’è anche Berlusconi, proprietario della Fininvest, de “Il Giornale” e del settimanale “Tv-Sorrisi e Canzoni”, che ha esteso le sue fortune anche in Francia, Spagna e Germania. Negli anni a cavallo tra Ottanta e Novanta, diversi eventi politici ed economici hanno conseguenze rilevanti nella vita dei paesi democratici. Si sviluppa il fenomeno dei giornalisti inviati in guerra, in misura maggiore che negli anni precedenti. Alcuni perdono la vita, come Ilaria Alpi. L’informazione gridata, le dosi di cronaca nera e rosa e, sovente, il prendere partito, sono le prime risposte alla 19 concorrenza delle Tv e al calo degli introiti pubblicitari. Più preoccupante è la diminuzione dei lettori, che comincia nel 1992. Gli editori provano a rispondere in vari modi, in primis col ringiovanimento dei direttori: nel 1990 alla Stampa vediamo Paolo Mieli (poi direttore del Corsera), affiancato dal vice Ezio Mauro (poi direttore di Repubblica). In grave difficoltà sono i quotidiani di partito, come “L’Unità”. Si forma una nuova concentrazione per mano dell’editore Andrea Riffeser, che riunisce Carlino, Nazione e Giorno, quest’ultimo sul punto di chiudere. Si sviluppa il fenomeno del giornale panino, per la moda d’inserire gadget nei quotidiani. Si tratta dell’ennesimo tentativo di riguadagnare lettori. Con l’avvento del satellite, l’andamento delle vendite diventerà ancora più critico, fino ad arrivare alle previsioni di alcuni sociologi, secondo cui entro i primi 50 anni del XXI secolo, l’informazione cartacea sparirà. 20 3. ETICA DELLA COMUNICAZIONE L'etica è l'indagine sull'agire dell'uomo. Il termine "etica" deriva dal greco "ethos". Indica un comportamento individuale o collettivo, un costume. Il termine "morale", a sua volta, deriva dalla traduzione latina di "ethos", che è appunto "mos, moris", costume. Può essere dunque considerato come un sinonimo di "etica". L'etica non è solo l'indicazione di un comportamento, individuale o collettivo, ma è la riflessione sui criteri che guidano il nostro agire, che può essere considerato buono o cattivo, moralmente approvabile o riprovevole. L'agire morale, è dunque governato da criteri che permettono di orientarci nelle nostre scelte concrete. Le tre domande fondamentali dell'etica sono: 1. Che cosa sto facendo? 2. Che cosa debbo fare? 3. Qual è il senso di ciò che sto facendo? C'è differenza tra etica generale ed etiche applicate: i progressi attuali di scienza e tecnica e la cancellazione, vera o presunta, dei limiti dell'azione umana, fanno sorgere la necessità di creare nuove discipline etiche, come la bioetica, l'etica ambientale, l'etica economica, l'etica sociale e, appunto, l'etica della comunicazione. Per definizione, l'etica applicata si riferisce a quell'ambito di discipline che affrontano i problemi connessi agli sviluppi della scienza e della tecnica, e alla loro incidenza sull'agire dell'uomo. La prima forma dell'etica: la deontologia professionale. Le tre forme della comunicazione oggi possono essere così sintetizzate: 1. deontologia professionale; 2. l'etica della comunicazione intesa in senso proprio; 3. l'etica nella comunicazione, vale a dire la messa in luce dei principi etici che si ritiene siano insiti negli stessi processi comunicativi. L'approccio deontologico è quello che riguarda le varie categorie professionali di comunicatori. Con l'emergere dell'aspetto deontologico si delinea l'esigenza di una regolamentazione dei processi comunicativi. E riconoscere questa esigenza è certamente fondamentale se si vuole favorire la nascita di un'etica della comunicazione. Possiamo dare la seguente definizione di deontologia: il complesso dei doveri relativi ad una certa professione o ad una particolare attività. Essa stabilisce ciò che bisogna o meno fare in un certo ambito, nella misura in cui ciò risulta prescritto da un'istanza riconosciuta come normativa. L'approccio deontologico, relativo alle varie categorie professionali di comunicatori o a specifiche loro attività, si esprime attraverso i codici. Un codice è il luogo in cui viene raccolto, enunciato e perciò reso pubblico l'insieme dei doveri riguardanti una determinata attività. Di solito esso indica, oltre che particolari doveri, anche le sanzioni cui va incontro chi trasgredisce quanto stabilito dal codice. Il codice solitamente indica le regole che sovrintendono al riconoscimento della trasgressione e all'applicazione delle sanzioni. Il carattere proprio dei codici è quello dell’autoregolamentazione. Per salvaguardare la libertà di espressione e comunicazione in un contesto democratico, i codici non possono essere imposti da un'istanza esterna alla categoria professionale interessata. I codici quindi sono di auto-regolamentazione, che viene compiuta all'interno degli ambiti professionali coinvolti. In questo modo, dunque, risultano conciliate, per un verso, la necessità di salvaguardare la libertà di espressione e, per altro verso, la consapevolezza che non si può dire tutto, facendo in modo, cioè, che quanto si può dire venga fissato proprio da coloro che lo possono o che lo debbono dire. Il limite dei codici è che troppo spesso l'applicazione di questi documenti risulta difficile e farraginosa, e le sanzioni comminate sono spesso di modesta entità. I codici, poi, sono relativi a particolari categorie professionali. E all'interno di queste organizzazioni di categoria, sovente, controllore e controllato finiscono per coincidere. I codici sono utili come richiamo alla correttezza di certi 21 comportamenti professionali, ma sono pur sempre limitati a certe categorie di professionisti. Inoltre richiedono di essere assunti con senso di responsabilità. La seconda forma dell'etica: l'etica della comunicazione. A livello di definizione, possiamo dire che l'etica della comunicazione propriamente detta è quella disciplina che intende stabilire che cosa è buono, giusto, virtuoso all'interno di un contesto comunicativo, e che intende fondare l'opzione che fa adottare un simile comportamento. L'etica della comunicazione raggiunge i suoi obiettivi in quattro modi, che corrispondono ad altrettanti modelli: 1. Teoria di Aristotele sul logos, che non significa solo ragione, ma anche parola e discorso. E’ buono tutto ciò che nell'esercizio della parola e del discorso si rivela conforme a questa natura comunicativa. Cattivo è invece ciò che la mette in crisi, la mette in discussione, ovvero utilizza la comunicazione per scopi che sono contrari alla promozione della natura umana. 2. Paradigma dialogico: il dialogo è il modello di un corretto agire comunicativo. Condizioni di questo dialogo sono la disponibilità di ciascun interlocutore a riconoscere le buone ragioni dell'altro, l’apertura e la disponibilità a cambiare idea. Il rischio di questo atteggiamento dialogico è di vedere intaccata, se non addirittura perduta, la propria identità. 3. Modello audience: la tesi della retorica in questo ambito stabilisce che è buono tutto ciò che salvaguarda l'audience, il pubblico, gli interlocutori, rispettando comunque la verità. Si parla invece di cattiva retorica quando si scende a compromessi. 4. Paradigma dell'utilitarismo: il riferimento per le proprie scelte comunicative, al criterio dell'utilità. Stuart Mill afferma che gli uomini sono spinti nelle loro azioni dal perseguimento di un utile: individuale o egoistico (Bentham), oppure collettivo o sociale (Mill). La tesi dell'utilitarismo finisce per considerare valori di riferimento, l'efficacia e l'efficienza dei processi comunicativi, che in questo modo potrebbero essere funzionali ad un utile specifico. Da questi quattro modelli ricaviamo una particolare definizione di ciò che è buono in ambito comunicativo (ciò che corrisponde alla natura dell'uomo; ciò che corrisponde al paradigma dialogico, ciò che va incontro alle esigenze dell'audience; ciò che risponde al criterio dell'utile). Inoltre ricaviamo anche una giustificazione di ciò che significa "comunicare bene" (a partire dalla natura dell'uomo, a partire dall'esperienza del dialogo, a partire dal rispetto dell'interlocutore, a partire dal raggiungimento dell'utile, individuale o collettivo). La terza forma dell'etica: l’etica comunicativa. L'etica nella comunicazione è un'indagine sul linguaggio che ritiene di essere in grado di ritrovare, nella comunicazione stessa, particolari principi etici, che ciascun parlante si troverebbe indotto ad applicare. Questa è la tesi elaborata da Apel e Habermas. Il loro progetto è caratterizzato dall'intenzione di rinvenire all'interno dello stesso ambito comunicativo, criteri e principi etici che pretendono di avere una validità universale. Già nel discorso stesso vi sono aspetti decisivi, implicitamente messi in opera, che assumono, di fatto, il carattere di obblighi morali. Ecco perché, nella misura in cui tali obblighi sono riconosciuti da ogni soggetto razionale, diviene possibile ricavare, da questi elementi insiti nella prassi comunicativa, le condizioni che consentono di elaborare un'etica generale. Apel enuncia i principi di giustizia, solidarietà e corresponsabilità. Habermas ha invece elaborato la dottrina dell'approfondimento. Vi è una differenza tra l'agire comunicativo strategico, il quale mira semplicemente a promuovere l'affermazione di sé e della propria tesi, rispetto all'agire comunicativo nell'ambito dell'etica del discorso, che si configura per la sua aspirazione all'intesa e per l'identificazione del linguaggio come luogo in cui una tale intesa si può realizzare. All'interno dell'etica del discorso si possono enunciare due principi: 22 1. Principio di universalizzazione: ogni norma valida deve ottemperare alla condizione che le conseguenze e gli effetti collaterali possano essere accettati da tutti gli interessati; 2. Formula dell'etica del discorso: ogni norma valida dovrebbe poter trovare il consenso di tutti gli interessati, purché questi partecipino ad un discorso pratico. Apel e Habermas mostrano che non si può comunicare senza agire eticamente. Etica qui vuol dire qualcosa di ben preciso, che ritroviamo in maniera chiara nella concezione di Apel: etica è sinonimo di giustizia, solidarietà e corresponsabilità. Le etiche dei mass media Stampa. I codici dei giornalisti riguardano il trattamento della privacy, delle notizie relative ai minori (Carta di Treviso), il rapporto tra attività giornalistica e pubblicità, l'utilizzo dei sondaggi come fonte d'informazione giornalistica. La responsabilità del giornalista riguarda l'assunzione di quanto prescritto dai codici, e soprattutto, nei confronti dei fatti e delle notizie di cui scrive. Tv. Ci sono codici deontologici anche sui programmi televisivi, soprattutto riferiti alla tutela dei minori. Per questa categoria di utenti si mobilitano anche le associazioni di genitori, delle famiglie e dei consumatori. Ma c'è un altro discorso, altrettanto importante: si tratta del rapporto esistente nel panorama televisivo tra realtà e finzione. Tutto in Tv appare vero, e il giudizio morale implicito in questa reazione è di credere che sia buono, importante e valido ciò che si vede in televisione. Invece ciò che si vede in Tv è sempre limitato ad una prospettiva. Il reality show è l'emblema dello slogan “tutto può essere esibito, tutto deve essere trasmesso”. Questo porta alla confusione tra notizia e spettacolo, tra informazione e intrattenimento. Sono necessarie risposte etiche a tutto questo: recuperare il rispetto per la realtà; avere consapevolezza della capacità di coinvolgimento propria del mezzo televisivo; assumersi la responsabilità delle conseguenze che sono proprie dell'uso della televisione. Web. Per quanto concerne la rete internet, va posta una precisazione metodologica: 1. Etica di internet: gli atteggiamenti dell'uomo che la Rete favorisce: questione della libertà; questione dell'ordine e del senso; questione del virtuale e del suo rapporto con la realtà; questione delle conseguenze e la possibilità di un controllo. 2. Etica in internet: i 10 comandamenti nell'uso del computer: 1. non userai un computer per danneggiare altre persone 2. non interferirai con il lavoro al computer di altre persone 3. non curioserai nei file di altre persone 4. non userai un computer per rubare 5. non userai un computer per portare falsa testimonianza 6. non userai o copierai software che non hai dovutamente pagato 7. non userai le risorse altrui senza autorizzazione 8. non ti approprierai del risultato del lavoro intellettuale altrui 9. penserai alle conseguenze sociali dei programmi che scrivi 10. userai il computer dimostrando considerazione e rispetto 23 4. LA DEONTOLOGIA DEL COMUNICATORE Le norme che regolano il comportamento del giornalista sono contenute nel Codice della Privacy (2003), nel codice di deontologia dei giornalisti (1998) e, con riferimento alla cronaca su minori, nella Carta di Treviso. Sono norme di legge e attengono al rapporto tra il giornalista e la collettività. La loro violazione può portare alla responsabilità civile e/o penale del giornalista. Accanto a queste norme ve ne sono altre, che però sono prive di “forza di legge”. Riguardano l’etica della professione e attengono al rapporto tra il giornalista e la categoria d’appartenenza. La loro violazione non comporta di per sé una responsabilità civile o penale del giornalista, ma solo disciplinare, accertata da appositi organi (Consigli regionali e Consiglio nazionale) e prevede la comminazione di sanzioni disciplinari. Le sanzioni disciplinari, in ordine crescente di gravità sono: avvertimento, che viene comminata “nei casi di abusi o mancanze di lieve entità”; censura, applicata “nei casi di abusi o mancanze di grave entità”; sospensione dall’esercizio della professione da un minimo di due mesi a un massimo di un anno, quando la condotta del giornalista abbia “compromesso la dignità professionale”; radiazione, che origina da un comportamento che abbia “gravemente compromesso la dignità professionale”. Alcune delle norme disciplinari contenute nella Carta dei Doveri, siglata nel 1993 dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana, sono poi diventate “norme di legge” con l’emanazione del codice di deontologia del 1998, perché in esso trasfuse: si pensi al divieto di discriminazione, alla tutela della riservatezza, al divieto di identificare le vittime di reati sessuali, alla tutela dei minori e dei soggetti deboli. Il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del diritto di cronaca è il dovere di verità. Gli organi d’informazione sono l'anello di congiunzione tra il fatto e la collettività. Essi consentono alla collettività l'esercizio di quella sovranità che secondo l'art. 1 Cost. “appartiene al popolo”. Un'informazione che occulta o distorce la realtà dei fatti impedisce alla collettività un consapevole esercizio della sovranità. In più punti la Carta dei Doveri pone l’accento su quelli che, al pari del dovere di verità, vanno considerati valori etici inderogabili: l’autonomia e la credibilità del giornalista. L’autonomia del giornalista serve a garantire l’obiettività dell’informazione. L'informazione obiettiva serve unicamente la collettività, ossia persegue un interesse generale. Il dovere di autonomia vuole impedire che la funzione giornalistica venga subordinata ad interessi particolari. E’ evidente, quindi, che particolari rapporti del giornalista con soggetti interessati ad un’informazione compiacente sono visti come il fumo negli occhi. Tuttavia, non basta qualsiasi tipo di contatto a gettare un’ombra sulla professionalità del giornalista. Anzi, rapporti con i più disparati ambienti sono indispensabili per poter acquisire le notizie e garantire un’informazione dettagliata. La Carta dei Doveri vuole stigmatizzare quegli elementi che indicano uno stato di sudditanza del giornalista o un interesse in conflitto con il dovere di verità. Insomma, casi il cui verificarsi ingenera il dubbio sulla reale capacità o volontà del giornalista di dare vita ad un’informazione obiettiva. Ma la Carta dei Doveri tenta una “tipizzazione” di quelle situazioni in presenza delle quali si presume che l’autonomia e la credibilità del giornalista vengano meno. Innanzitutto, stigmatizzando l’adesione del giornalista “ad associazioni segrete o comunque in contrasto con l’articolo 18 della Costituzione”. Poi, vietandogli di “accettare privilegi, favori o incarichi che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità professionale”, nonché pagamenti, rimborsi spese, vacanze gratuite, regali, inviti a viaggi, facilitazioni, che provengano “da privati o enti pubblici”. Ciò in quanto l’accettazione di 24 questi vantaggi porterebbe il giornalista a sentirsi in debito nei confronti di chi glieli ha procurati, mettendo così ad alto rischio di violazione la norma che gli impone di accettare “indicazioni e direttive soltanto dalle gerarchie redazionali della sua testata”. In generale, la Carta dei Doveri pone l’accento sulla “responsabilità del giornalista verso i cittadini”, specificando che tale responsabilità non può dal giornalista essere subordinata “ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”. Collegate all’esigenza di autonomia e credibilità del giornalista sono quelle norme che lo vogliono estraneo ad iniziative di carattere pubblicitario. Altra norma di comportamento è quella che vieta al giornalista di “pubblicare immagini o fotografie raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di cronaca, o lesive della dignità della persona”. La Carta dei Doveri ha depurato la norma degli anacronistici riferimenti al “comune sentimento della morale” e all’“ordine familiare”, sostituendoli con il parametro della “dignità della persona”. Storicamente la norma ha avuto un’applicazione pressoché univoca. Ha riguardato qualsiasi immagine scioccante, a prescindere dall’esigenza informativa che la pubblicazione era destinata a soddisfare. Si censura un comportamento che può turbare chi apprende la notizia, ma che per il giornalista costituisce la forma più esemplare di adempimento del dovere di verità, che è il caposaldo del diritto di cronaca. Per questo sarebbe un errore scartare a priori la legittimità della pubblicazione dell’immagine raccapricciante. Va quindi privilegiata una soluzione che tenga conto della sensibilità del lettore medio, ma anche del diritto della collettività a ricevere un’informazione il più possibile fedele ai fatti. E la soluzione non può che passare attraverso l’analisi dell’altro requisito del diritto di cronaca: l’interesse pubblico. Il diritto di cronaca Il fondamento del diritto di cronaca è nell’art. 21 Cost., in quanto libera manifestazione del pensiero. La cronaca si manifesta attraverso la narrazione dei fatti, e si rivolge alla collettività indiscriminata. Essendo la cronaca narrazione di fatti rivolta alla collettività, se ne deduce che la sua funzione è informare la collettività. Quella collettività il cui ruolo, nella società democratica, è inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità appartiene al popolo”. La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica” (res publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento: deve quindi avere un quadro dettagliato sia di ciò che accade nel Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità. Ma, non disponendo di mezzi idonei, ecco che gli organi d’informazione s’incaricano di puntare i riflettori su quegli aspetti la cui valutazione determina la scelta del delegato. Di qui l’insostituibile funzione della cronaca: la raccolta d’informazioni e la loro diffusione, in virtù del rapporto privilegiato che gli organi d’informazione vantano con la realtà, allo scopo di consentire al popolo un corretto e consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost. gli attribuisce. Tuttavia, vi sono articoli di cronaca riguardanti aspetti che non presentano punti di contatto con la gestione della cosa pubblica, ma che per vari motivi destano l’interesse della collettività. Si pensi agli artisti, ai campioni dello sport, agli argomenti culturali. Anche su questi personaggi e argomenti la collettività va tenuta informata. Qui la funzione della cronaca è mantenere saldo il legame che unisce la collettività al personaggio, nonché di agevolarne la crescita intellettuale. Sotto questo aspetto si può dire che la collettività vanta un vero e proprio diritto all’informazione. Un giornalista non può essere costretto a pubblicare una notizia, né può essere ritenuto responsabile nei riguardi della collettività per non averla informata. E’ evidente come la cronaca assuma una posizione di netto privilegio rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero garantite dall’art. 21 25 Cost. Si tratta dunque di scoprire in cosa consiste esattamente questo privilegio. Di norma, i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono rappresentati dal rispetto di quei diritti inviolabili che l’art. 2 Cost., fin dalla sua nascita si è incaricato di garantire: a cominciare da concetti come onore, decoro, reputazione. Diritti della persona che l’ordinamento tutela attraverso la previsione di reati come l’ingiuria e la diffamazione. E, nel conflitto tra manifestazione del pensiero e diritto inviolabile, è sempre quest’ultimo a prevalere. Non così per il diritto di cronaca. Costituendo al tempo stesso espressione della libertà di pensiero ed insostituibile strumento d’informazione al servizio esclusivo della collettività, il diritto di cronaca vanta una tutela rafforzata. La verità Il primo requisito che la cronaca deve rispettare nel momento in cui entra in conflitto con un diritto inviolabile garantito dall’art. 2 Cost., è rappresentato dalla verità dei fatti. Bisogna prima chiarire in che termini il rispetto della verità dei fatti rappresenta, nella cronaca, un avanzamento dei limiti tradizionalmente imposti alla libertà di pensiero. E’ utile un esempio. Se un quotidiano locale scrive che il sindaco è indagato o è stato condannato per truffa, avrà senz’altro agito nell’ambito del diritto di cronaca se quella notizia è vera. Ma se uno di noi viene a sapere che per truffa è stato condannato un proprio condomino, non potrà comunicarlo agli altri condomini affiggendo all’ingresso del palazzo il dispositivo della sentenza. Insomma, al di fuori di un contesto propriamente informativo, fatti lesivi non possono essere resi noti nemmeno quando sono veri. Ciò in quanto i reati d’ingiuria e diffamazione prescindono dalla verità dei fatti. Insomma, chi attribuisce ad una persona fatti offensivi, in un eventuale giudizio non potrà cavarsela dimostrando che sono veri. Invece, in un contesto informativo, la prova della verità dei fatti narrati è indispensabile per escludere la responsabilità. Un avanzamento dei limiti che trova giustificazione nella stessa funzione della cronaca, fondamentale in un sistema democratico, dove “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1 Cost.). Per ovvi motivi, qualsiasi persona troverebbe grosse difficoltà se dovesse personalmente apprendere i fatti. Gli organi d’informazione, invece, vantano un rapporto privilegiato con la realtà. E’ come se possedessero un gigantesco specchio da orientare di volta in volta dall’alto, consentendo così alla collettività di cogliere fatti la cui visione diretta le è impedita da ostacoli insormontabili. La cronaca è il tramite tra la collettività e la realtà. Raccoglie le informazioni, le seleziona e le restituisce alla collettività sotto forma di notizia. E’ naturale, quindi, che si debba escludere qualsiasi responsabilità, sia civile che penale, quando i fatti oggetto di cronaca siano veri. Questa è la ragione per cui la cronaca deve basarsi sulla verità dei fatti. Il sacrificio dei diritti del singolo individuo è giustificato soltanto dall’esigenza di informare la collettività. Il diritto alla riservatezza Il diritto alla riservatezza è una creazione della giurisprudenza, che lo ha collocato tra quei diritti inviolabili menzionati dall’art. 2 Cost. Ha la funzione di delimitare il concetto di interesse pubblico alla notizia, escludendo l’esistenza di un diritto della collettività a penetrare nella sfera privata di un individuo al solo scopo di soddisfare una curiosità morbosa. In generale, un fatto deve ritenersi privato quando la sua diffusione non ha utilità sociale. Non possono invocare il diritto alla riservatezza lo stupratore e l’omicida, il truffatore e il medico abusivo, così come l’anonimo funzionario arrestato per corruzione. Qui il soggetto è trascinato al centro della scena pubblica unicamente a causa della gravità o 26 eccezionalità dell’azione. Tuttavia, non ogni particolare in qualche modo ricollegabile ad un evento di interesse pubblico va considerato parte integrante di una “notizia”. E’ il cosiddetto principio di essenzialità dell’informazione, secondo cui “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. La cronaca scandalistica Nel conflitto tra diritto all’informazione e diritto dell'individuo, l’interesse pubblico alla notizia è dato dall’utilità che la collettività trae dalla sua conoscenza. Quando il fatto riguarda un personaggio noto, il presupposto dell’interesse pubblico non è più la gravità o eccezionalità dell’avvenimento, ma la sua capacità di incidere sul rapporto tra il personaggio stesso e la collettività. Incidenza che può derivare anche da un fatto lieve. Vi è poi un’altra categoria di “fatto privato”: quella che rientra nell’area del cosiddetto gossip. Riguarda fatti sempre riferiti a personaggi noti, ma assolutamente insignificanti, privi di un obiettivo interesse e divulgati al solo scopo di rispondere alle istanze voyeuristiche di un certo pubblico. Fatti che non possono incidere sul rapporto che lega il protagonista alla collettività; o perché non hanno attinenza con l’attività pubblica svolta dal personaggio, o perché riguardano soggetti dalla rilevanza pubblica evanescente, ossia soggetti il cui rapporto con il pubblico è scarsamente definito, essendo privi di particolari meriti o competenze. L’interesse pubblico alla conoscenza di quei fatti è pari a zero. I fatti che rientrano in questa categoria formano l’oggetto della cronaca scandalistica. La cronaca scandalistica si situa all’estrema periferia del diritto di cronaca. Non soddisfando il requisito dell’interesse pubblico, implica sempre una violazione del diritto alla riservatezza. Pertanto, è legittima solo se vi è il consenso, esplicito o implicito, dell’interessato alla divulgazione del fatto privato. Sul consenso esplicito c’è poco da dire. Una “liberatoria” con la quale il personaggio autorizza una testata a descrivere fatti privati che lo riguardano gli inibisce qualsiasi futura pretesa di risarcimento basata sulla lesione del diritto alla riservatezza. La continenza formale La continenza formale è il requisito che attiene alle modalità di comunicazione della notizia. Questa deve riportare il fatto nei suoi elementi oggettivi così come appresi dalla fonte. Il giornalista non deve essere altro che un tramite tra la fonte e il lettore. Qualsiasi artificio adoperato dal giornalista che, eccedendo lo scopo informativo, condizioni la genuinità della notizia, viola il requisito della continenza formale. L’artificio può consistere nell’uso di un linguaggio colorito ed incauto, nel porre l’accento volutamente su un particolare aspetto del fatto, nell’adoperare termini tali da comunicare un messaggio sottinteso diverso, nell’accostare l’evento narrato ad altro evento in modo da attribuire al soggetto un fatto diverso e ulteriore rispetto a quello originario. Tutto questo può indubbiamente produrre un effetto lesivo. E in qualunque forma si manifesti, la violazione del requisito della continenza formale va a scapito dell’obiettività della notizia. La violazione del requisito della continenza formale può avvenire in due modi. La prima categoria è rappresentata dalla violazione palese. E’ una violazione che si verifica raramente e che non pone problemi di individuazione. Attiene principalmente al tono adoperato nella narrazione del fatto. E’ una violazione diretta, che non necessita di uno sforzo intellettivo per essere individuata. Il tono è scandalizzato e vi è un'eccessiva 27 drammatizzazione della vicenda, oppure risulta fuori luogo l’inserimento di aggettivi estremi e peggiorativi come “impressionante”, “sconcertante”, “incredibile”, “terribile”, “stranissimo”, “pazzesco”, “vergognoso”, “deplorevole”, etc. E’ una violazione grezza, tipica del giornalista inesperto ed ingenuo. E’ la meno pericolosa, perché il lettore riesce con relativa facilità ad isolare il fatto-notizia dal soggettivismo del giornalista. La seconda categoria è quella caratterizzata da un premeditato difetto di chiarezza. Qui il giornalista, nel narrare il fatto reale, vuole attribuire al soggetto un fatto diverso o ulteriore. E’ uno strumento subdolo al quale il giornalista, fermi i suoi cattivi propositi, deve necessariamente ricorrere perché la rappresentazione chiara, espressa, inequivoca del fatto diverso o ulteriore lo porterebbe ad una violazione diretta del requisito della verità. A questa categoria appartiene il cosiddetto sottinteso sapiente. Un classico caso è l’uso delle “virgolette” o degli eufemismi. Qui il giornalista usa i termini sapendo che il lettore li interpreterà in maniera contraria o diversa da quanto suggerirebbe il dato formale letterale, stimolando un giudizio negativo e amplificando così gli effetti lesivi. Altra tecnica riconducibile al premeditato difetto di chiarezza è quella degli accostamenti suggestionanti. Oltre a narrare il fatto attribuito al soggetto, il giornalista cita altri fatti che si riferiscono a soggetti diversi e più gravi, creando un collegamento implicito senza minimamente esteriorizzarlo. E’ il lettore che metterà in relazione il primo con i secondi. A questa categoria appartengono anche le insinuazioni. Qui il fatto diverso o ulteriore, ovviamente peggiorativo, viene attribuito al soggetto comunicando espressamente al lettore che la relativa ipotesi “non è improbabile”, o “non si può escludere”, o che “si potrebbe azzardare”, o affermando che “quanto appreso fa pensare a”, nella totale assenza di qualsiasi elemento obiettivo che possa permettere di affermarlo esplicitamente. In ognuno di questi casi, l’informazione che ne deriva perde la sua originaria obiettività. Il diritto di critica Attraverso la tutela del diritto di cronaca, ogni ordinamento democratico garantisce la libertà di informazione nella sua duplice veste di diritto ad informare e ad essere informati. Con la tutela del diritto di critica, l’ordinamento garantisce quell’aspetto della libertà di pensiero che più di ogni altro è funzionale alla dialettica democratica. Diritto di cronaca e diritto di critica sono entrambi emanazioni dall’art. 21 Cost. Tuttavia, la loro diversità è enorme. La cronaca riferisce una realtà fenomenica (fatto o comportamento). Essendo informazione, è obiettiva. La critica, essendo valutazione, è soggettiva. La cronaca nasce con il fatto e lo descrive, la critica segue la descrizione del fatto e lo valuta. La cronaca esprime l’identità tra una realtà fenomenica e l’informazione che la veicola, la critica esprime un dissenso verso quella realtà fenomenica. In realtà, quando si parla di diritto di critica, si vuole legittimare qualcosa che va ben al di là della mera opinione. Le potenzialità dell’art. 21 Cost. sono ben altre. Sarebbe frustrante per l’art. 21 Cost. sapersi in grado di tutelare soltanto un generico, umile ed innocuo “secondo me”. La libertà di opinione permette di esprimere la propria idea su una questione, giusto per aggiungere una voce alle altre. Il diritto di critica, invece, è dura contrapposizione, è mettere a nudo l’inadeguatezza, l’inaffidabilità, la falsità, gli errori altrui. E’ voler scuotere, provocare una reazione. La critica è fondamentalmente un attacco. E’ il giudizio soggettivo a caratterizzare la critica rispetto alla cronaca. In teoria la critica dovrebbe incontrare gli stessi limiti previsti per il diritto di cronaca: verità, interesse pubblico, continenza formale. Solo se rispetta tutti e tre i requisiti la critica è legittima. La verità è riferita al fatto: ossia la critica deve poggiare su basi veritiere. Deve rivestire un interesse pubblico, che è poi riferito allo stesso fatto: non si potranno, 28 quindi, esprimere pubblicamente valutazioni critiche su fatti privati o privi d’interesse per la collettività. Infine, la critica deve rispettare il requisito della continenza formale. Il diritto di satira Saldamente ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più graffiante delle manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo, ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso, verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come bersaglio privilegiato i potenti di turno. Anzi, più in alto si colloca il destinatario del messaggio satirico, maggiore è l’interesse manifestato dal pubblico. Quella politica, infatti, è il tipo di satira che raccoglie maggiore interesse e consenso presso ogni collettività. Essendo una forma d’arte, il diritto di satira trova riconoscimento nell’art. 33 Cost., che sancisce la libertà dell’arte. Ma è una forma d’arte particolare. Il contenuto tipico del messaggio satirico è lo sbeffeggiamento del suo destinatario, che viene collocato in una dimensione spesso grottesca. La satira mette alla berlina il personaggio al di sopra di tutti, l’intoccabile per definizione. Esalta i difetti dell’uomo pubblico ponendolo sullo stesso piano dell’uomo medio. Da questo punto di vista, la satira è un veicolo di democrazia, perché diventa applicazione del principio di uguaglianza. Non a caso è tollerata persino nei sistemi autoritari, fortemente motivati a mostrare il volto “umano” del regime. Ma proprio perché trova la sua ragion d’essere nello sminuimento del soggetto preso di mira, il messaggio satirico può entrare in conflitto con i diritti costituzionali all’onore, al decoro, alla reputazione. Dunque anche qui, come per la cronaca e la critica, occorre procedere ad un bilanciamento degli interessi in conflitto. Il termine “interesse pubblico” viene qui adoperato al solo scopo di identificare il problema, poiché mal si concilia con la funzione della satira, che non è quella di fornire “notizie”. La qualità della dimensione pubblica del personaggio, va vista come un enorme contenitore dal quale l’artista può liberamente attingere per creare il contenuto dell’opera satirica. In questo contenitore sono raccolti i frammenti che compongono il personaggio, ossia le informazioni di sé che il personaggio, volente o nolente, ha visto fornire al pubblico: le sue fattezze fisiche, la sua mimica facciale, la sua voce, i suoi tic, le sue dichiarazioni, i suoi comportamenti in pubblico, le sue gaffes, i suoi guai giudiziari; e persino i pettegolezzi sul suo conto, se di dominio pubblico. Ebbene, la satira restituisce al pubblico quelle informazioni, dopo averle interpretate, enfatizzate e distorte. In questo modo il contenuto del messaggio satirico è in coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira. E’ irrilevante che alcune delle informazioni che confluiscono nel contenitore del personaggio pubblico siano false: la satira non agisce su fatti, ma sulla dimensione pubblica acquisita da un personaggio, che potrebbe non corrispondere a quella reale. Giornalismo e democrazia Alle origini della tradizione occidentale sta la convinzione che la comunicazione tra gli esseri umani si fonda su ciò che Aristotele chiama logos, un termine greco che si può tradurre “parola”, ma anche “ragione”. Proprio per questo la politica è capace di esprimere non solo bisogni soggettivi, ma valori universali, e quindi di accomunare i singoli intorno a questi valori. Applicato al nostro discorso, questo indica da un lato l’estrema importanza di una comunicazione pubblica, dall’altro la necessità che questa comunicazione segua le regole della riflessione razionale, sollevandosi al di sopra del gioco delle reazioni immediate e degli interessi particolari, per far emergere il giusto e l’ingiusto. Attraverso i mezzi di comunicazione il giornalista può voler dire qualcosa, oppure soltanto condizionare, 29 aggirando i controlli razionali con spregiudicate operazioni di persuasione occulta. Da quanto detto risulta che sono costitutive dell’agire comunicativo soltanto quelle azioni linguistiche con le quali il parlante avanza pretese di validità criticabili. Solo chi mette gli altri in condizione di valutare le proprie affermazioni può fare opera di comunicazione e non solo di suggestione. Sono qui riassunti i tre profili sotto cui la comunicazione giornalistica deve essere valutata: la conformità del messaggio alla realtà, la correttezza della scelta di diffonderlo, le intenzioni del giornalista nel diffonderlo. Opinione pubblica e giornalismo. Se dal rapporto tra giornalismo e politica si passa a quello tra giornalismo e democrazia, è indispensabile affrontare il tema dell’opinione pubblica. Un ruolo fondamentale nel rapporto tra Stato e opinione pubblica lo hanno avuto, storicamente, i giornali, anche se ormai l’attività giornalistica si esercita anche attraverso altri mezzi di comunicazione. Quest’attività contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica, dandole ciò di cui essa ha più bisogno, ovvero una corretta informazione. Ma la funzione conoscitiva del giornalismo non si riduce a quella di informare l’opinione pubblica, contribuendo così a formarla. Essa è anche quella di farsene portavoce, esprimendo così la ricchezza e la varietà dei suoi punti di vista e delle sue esigenze, e consentendo loro d’incontrarsi e scontrarsi non solo privatamente, ma in pubblico. Tra questi due momenti vi è un’incessante circolarità, la quale fa sì che i messaggi trasmessi dalla stampa, dalla radio e dalla tv non siamo notizie asettiche, ma vengano elaborati secondo le tendenze di quella stessa opinione pubblica. Il problema dell’obiettività. Quando si discutono il ruolo e i problemi del giornalismo, s’insiste abitualmente sul problema dell’obiettività dell’informazione. Indicativa la dura polemica condotta da un giornalista americano, nei confronti dello stile giornalistico italiano: “Per il giornalismo italiano i fatti non esistono. In Italia, la realtà viene guardata attraverso le lenti deformanti dell’ideologia”. In questa prospettiva, l’obiettività del giornalista dovrebbe manifestarsi nel riportare i fatti omettendo ogni commento. Non si può pretendere che il giornale o la redazione del notiziario televisivo non abbia opinioni, ma solo che queste non figurino nei suoi resoconti. Veramente è possibile eliminare da un resoconto l’interpretazione? Basta guardare a problema più elementare del giornalismo, quello della scelta delle notizie da pubblicare o trasmettere. Come si fa a scegliere i fatti che è giusto riferire, senza una griglia interpretativa che ci consenta di stabilire una gerarchia di valori? La verità è che la varietà delle prospettive può sottrarre l’informazione al rischio dell’unilateralità, e garantire la sua relativa completezza. Quello che è da rifiutare, nell’attività del giornalista, non è lo sforzo di interpretare i dati, ma la mancata considerazione di quelli che possono essere rilevanti ai fini di interpretazioni diverse dalla propria, e che costituiscono una potenziale smentita, o potenziale difficoltà, alla propria visione dei fatti. Un simile atteggiamento non implica in alcun modo relativismo. Al contrario, lasciando che la propria visione delle cose venga interpellata e messa in questione dagli elementi che non si lasciano integrare in essa, si apre lo spazio della ricerca, in un’incessante tensione verso la verità, e si evita che la propria convinzione si trasformi in dogmatismo, l’idea in ideologia, l’impegno in fanatismo. Pluralismo e libertà. Strettamente legato al problema dell’obiettività dell’informazione, perché ne costituisce una condizione e una garanzia, è quello di un effettivo pluralismo. Soltanto là dove si dà una reale pluralità di voci, l’opinione pubblica ha buone probabilità di disporre della più ampia gamma possibile di interpretazioni dei fatti. Ciò pone la questione concreta del controllo dei mezzi di comunicazione. Infatti, nella misura in cui questi si trovano in mano ad un numero troppo limitato di soggetti, privati o pubblici, il 30 condizionamento da essi operato appare inevitabile. Il problema esiste per tutti i mezzi di comunicazione, anche se oggi il dibattito tende a lasciare in secondo piano il mondo della carta stampata per polarizzarsi sempre più sul mezzo televisivo. I motivi sono diversi. Uno è che la tv raggiunge un numero maggiore di persone. Non solo: il coinvolgimento dello spettatore è superiore a quello del lettore, il quale è più in grado di mantenere una distanza critica dal testo che ha di fronte. Il giornalismo televisivo innesca nei suoi destinatari un nuovo rapporto con la realtà, molto meno distaccato, ma anche molto meno critico, che accresce il rischio di una manipolazione. Da qui l’influenza che il mezzo televisivo è in grado di esercitare anche dal punto di vista politico: a maggior ragione si richiede che il controllo delle reti televisive sia sottratto ad ogni regime di monopolio e che, al loro interno, viga un regime di libertà d’informazione che consenta ai giornalisti di essere effettivamente a servizio della verità, e non del padrone di turno. Da entrambi questi punti di vista il caso italiano è esemplare in senso negativo. Quando, a metà degli anni ’50, iniziarono le trasmissioni, in Italia c’era un unico canale televisivo (Rai), dove il telegiornale veniva considerato l’organo ufficiale del Governo. Quando, in seguito, la Rai acquisì altri due canali, in ossequio al principio della lottizzazione i tre canali divennero l’organo della Dc, del Psi e del Pci. In Rai, i giornalisti venivano assunti sulla base delle rispettive tessere partitiche. Per la stragrande maggioranza dei giornalisti televisivi (come i colleghi della carta stampata), il concetto del giornalismo come un servizio pubblico era sconosciuto. Né le cose sono andate meglio con l’avvento, a partire dagli anni ’80, della tv commerciale di Berlusconi. Anzi, al principio perverso della spartizione partitica è subentrato un ancor più perverso sistema di semimonopolio, che si è consolidato quando il proprietario di Mediaset è entrato in politica. Prima ancora che politiche, però, le conseguenze della diffusione della tv commerciale sul giornalismo sono state culturali. Fino a quel momento aveva avuto un ruolo esclusivo la c.d. “Tv pedagogica”. Gli amministratori cattolici della Rai erano convinti che la tv dovesse avere una duplice funzione: educare e intrattenere gli italiani. L’avvento della tv commerciale, che mira ad essere la vetrina luccicante della società consumistica, ha determinato una radicale trasformazione di questo stile. L’esigenza di acquisire quote sempre maggiori di pubblicità, ha comportato un’impostazione dei programmi in funzione dell’audience e quindi della loro capacità di attirare l’attenzione degli spettatori. Purtroppo questo modo di pensare ha coinvolto anche la Tv di Stato, eliminando così il pluralismo. Si è affermato, così, il c.d. “giornalismo spettacolo”, che cerca di combinare due concetti che in passato erano ritenuti alternativi, quello di informazione e quello di invenzione creativa. Ma l’invenzione è una cosa diversa: il rischio del nuovo tipo di giornalismo è di creare una realtà virtuale, in funzione dei gusti degli spettatori. In questa maniera, i destinatari non sono più messi in condizione di valutare criticamente quanto viene loro propinato. Risulta chiaro che il giornalismo può essere al servizio della democrazia solo se si rispettano alcune condizioni: 1. si abbia coscienza del ruolo politico dell’opinione pubblica. 2. Si rinunci al successo che deriva dall’uso della comunicazione strumentale, puntando su quella autentica. Il giornalista non deve essere un persuasore occulto, bensì informare in modo da mettere i suoi destinatari in condizione di esercitare un giudizio critico su quanto viene loro comunicato. 3. Nella nostra società frammentata, il ruolo della comunicazione è ricostituire un mondo comune, facendone emergere la molteplicità prospettica. E’ questo l’originario significato del termine logos, che abbiamo visto inscindibilmente connesso con la politica. Alla logica dello scontro e dell’indifferenza, estranee all’ascolto, potrebbe subentrare uno stile conviviale dove ricostruire gli spazi del dialogo. 31 SOMMARIO 1. La comunicazione nella storia: passaggio oralità-scrittura-nuove tecnologie Bibliografia Jean-Noel Jeanneney, “Storia dei media”, Editori Riuniti, 1996. 2. Breve storia del giornalismo italiano Bibliografia Paolo Murialdi, “Storia del giornalismo italiano”, Il Mulino, 2000. 3. Etica della comunicazione Bibliografia Adriano Fabris, “Etica della comunicazione”, Carocci, 2007. Adriano Fabris, “Guida alle etiche della comunicazione”, Edizioni Ets, 2004. Silvia, Costantini, Andrea Scorzoni, Fabio Silvestri, “Verso un’etica dei mass media”, Edizioni Art, 2007. 4. La deontologia del comunicatore Bibliografia Giuseppe Costa, Angelo Paoluzi, “Giornalismo”, Edizioni Las, 2006. Anonimo, “E’ la stampa, bellezza! Manuale di sopravvivenza per chi scrive sui giornali e per chi li legge”, Orme editori, 2007. 32