INIZIATIVE Per non dimenticare e per valorizzare una pagina rilevante dei nostri tempi andati
Tra sogni e sudore, quell’«oro bianco»
che racchiude il sale della nostra storia
di Kristjan Knez
S
abato 21 aprile 2012, presso il Centro pastorale culturale “Georgios” di Pirano,
non lungi dal duomo di San Giorgio, è stato presentato il progetto
“Vita e lavoro nelle saline di Pirano: la nostra storia”, che, sino
alla fine dell’anno, vedrà coinvolte le istituzioni italiane della città
in un ciclo di appuntamenti dedicato al sale e alle saline per l’appunto. Alla manifestazione inaugurale, tutta all’insegna del bianco cristallo, in passato merce preziosa e contesa, sono intervenuti i
diversi gruppi che operano in seno
alla Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini”: l’omonimo coro
misto diretto da Milly Monica, i
minicantanti seguiti da Dolores
Barnabà, il gruppo filodrammatico guidato da Ruggero Paghi e
la “famea dei salineri”. I membri
di quest’ultima, indossando i costumi tradizionali e con gli arnesi tipici, hanno proposto una serie
di proverbi e di modi di dire legati alla salinatura, annunciando la
loro “partenza” verso i luoghi di
produzione.
Testimonianze
preziose
Dimora nel Vallone
Era consuetudine che, proprio
dopo la festa patronale, moltissime famiglie del centro storico se
ne andassero e prendessero nuova
dimora nel Vallone di Sicciole. Lo
scrittore e giornalista triestino Giuseppe Caprin, nel volume “Marine istriane”, pubblicato nel 1889,
ci offre una preziosa testimonianza: “Partono i battelli e ciascuno
trasporta la mobiglia di una casa:
i paglioni, le sedie, la madonna,
qualche gabbia, boccioni rivestiti di giunchi, la piatteria, le reste
d’aglio, le galline e sino il gatto”.
Giunti a destinazione ogni paron
si sistemava nell’abitazione ossia
in una delle tipiche casette in pietra bianca (se ne annoveravano alcune centinaia).
Tanto fragile
e delicato
Era una realtà che non passava
inosservata. Antonio Madonizza,
nel 1863, in una descrizione della
baia di Portorose, pubblicata nella
“Guida del viaggiatore in Istria”,
scrive: “È un’insenatura superba,
capace a raccettare formidabile
navilio contro l’infuriare de’ venti; e i dossi e i monti che la serrano pompeggiano di festosa e peregrina coltura, mentre nel fondo
biancicano le mille caserelle della superba valle salifera di Sicciole”. A fine aprile, infatti, iniziava
la stagione produttiva.
Nei mesi freddi, i lavori di manutenzione e gli interventi di ogni
tipo servivano in realtà a preparare la nuova campagna salifera, un
detto insegnava chiaramente che
el sal se fa d’inverno.
Segue a pagina 2
IN QUESTO NUMERO
Sudore e sogni hanno spesso accompagnato
l’esistenza degli istriani nei secoli scorsi (e non c’è
motivo di credere che oggi la situazione sia radicalmente diversa). Ne sono una testimonianza le famiglie dei salineri della parte alta della penisola. Per
non dimenticare questa pagina di storia e per valorizzare una lunga tradizione, a Pirano è stato avviato un ampio progetto, che vede coinvolti diversi enti
e istituzioni. Ce ne parla in apertura Kristjan Knez.
A fianco del suo contributo, un articolo di Carla
Rotta su Maclavun, mentre al centro Daniela Jugo
Superina rispolvera la vicenda della Raffineria di
Fiume e dei suoi 130 anni.
In questi giorni in Croazia si è discusso
del ruolo del giornalismo, della libertà
e dignità professionale, dello svincolo da un certo tipo d’informazione al servizio della proprietà, rispettivamente della “sete” di
scandali a tinte forti. Circa
una settimana fa si è tenuto a Perugia il Festival internazionale del
giornalismo, con riflessioni sulle nuove sfide, anche in
riferimento alle
tecnologie sempre più avanzate
e alla forza prorompente dei
social network.
Pensando però
alla “sostanza”, quale dovrebbe essere la
funzione vera
dei mass media – o una delle loro funzioni –
ce lo ricorda Fabio Sfiligoi, citando il caso Watergate
e l’impegno dei cronisti del “Washington
Post”, Carl Bernstein e
Bob Woodward.
In chiusura, una curiosità. Il collega Krsto Babić è
rientrato da Perugia con la co-
pia di un vecchio giornale inglese e una notizia risalente al 1861 relativa a Fiume. La municipalità
fiumana aveva inviato un messaggio a Francesco
Giuseppe I supplicandolo di togliere la città dalla
giurisdizione della Croazia – cui era passata dopo il
rivoluzionario 1848/1849 – e di riannetterla all’Ungheria. Viceversa, gli abitanti slavi della Dalmazia
gli avevano inviato una petizione – in chiave anti-italiana – a favore dell’accorpamento della loro
provincia con la Croazia. Quando di dice l’informazione che fa storia...
LA VOCE
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Ospite particolarmente gradita è stata Elsa Fonda, Maestra
della voce e annunciatrice storica
della RAI, che ha interpretato un
passo tratto dal suo romanzo “La
cresta sulla zampa”, un libro ricco
di memoria storica, con tasselli di
autentica vita piranese. Nelle pagine dedicate alle saline, si legge
che esse “(…) esigevano schiene,
mani e piedi rovinati” e dura era
la vita di chi si guadagnava il pane
grazie a quel lavoro; i salinai “preoccupati delle loro fossette fatali,
spiavano il cielo. Se la riva scura era tagliata da lampi, accendevano il lume a petrolio. Era tutto
un correre sugli argini resi viscidi dal fango, un affannarsi bagnato di pioggia e sudore per salvare
la messe bianca, che li circondava
nella realtà e nei sogni”.
DEL POPOLO
storia
e ricerca
An
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2 storia e ricerca
Sabato, 5 maggio 2012
Dalla prima pagina
In quella parte dell’anno, dunque, nel rispetto degli insegnamenti secolari, uomini esperti curavano ogni singolo segmento di
quell’ambiente così particolare e
al tempo stesso tanto fragile e delicato.
Nomi e procedimenti
Erano particolarmente attenti ai
vari bacini attraverso i quali passa
l’acqua marina, ognuno dei quali
ha uno specifico nome: moraro del
fossado (primo grado di evaporazione), moraro de meso (secondo
grado di evaporazione), soracorbolo (terzo grado di evaporazione), corbolo (quarto grado di evaporazione), servidor (quinto grado
di evaporazione), quindi i cavedini
cioè i bacini di cristallizzazione.
Accanto ad essi vi erano anche
le mesarole, gli arginetti situati tra
i cavedini,in cui si raccoglieva il
sale, la fossa, vale a dire quella sezione all’angolo del bacino di cristallizzazione in cui si conservava
l’acqua madre o salamoia, specie
prima dei temporali estivi, oppure
le verghe o tressi, i piccoli argini, i
cavassai, gli arginetti di passaggio,
o ancora i vari canali di divisione
tra i vari bacini, come la lida dei
cavedini o la lida dei servidori.
L’età d’oro
della Serenissima
Ogni singola parte ha una sua
denominazione, proprio come tutti gli ordegni, gli arnesi utilizzati, i
cui nomi furono acquisiti e perciò
utilizzati anche da chi rimpiazzò i
vecchi lavoratori dopo l’esodo della metà degli anni Cinquanta dello
scorso secolo. Per un lungo periodo la salinatura aveva rappresentato
una delle principali attività economiche del Piranese. Il cristallo prodotto costituiva un introito importante vuoi per i singoli proprietari
degli stabilimenti saliferi vuoi per il
Comune e più in generale contribuì
alla fortuna della Repubblica di Venezia, che deteneva il monopolio sul
commercio dell’“oro bianco”.
Guadagni
ragguardevoli
I guadagni ragguardevoli furono determinanti allo sviluppo in
senso lato della città di San Giorgio, non per nulla un detto ricorda
che essa era cresciuta sul sale. È
una dimensione che dobbiamo debitamente tenere presente, escluderla porterebbe inevitabilmente
a considerazioni errate ossia a una
lettura incompleta del passato. Attraverso il sale e il suo smercio siamo in grado di cogliere l’evoluzione della società e del centro urba-
no, è una spia che ci permette di
analizzare il passato del territorio
in questione. Per un lungo periodo, dunque, sino a una quarantina
d’anni fa circa, l’attività salifera
contraddistingueva l’economia locale.
La parabola
discendente
Certo, l’età per molti aspetti
gloriosa, registrata durante il dominio della Serenissima, non si sarebbe ripetuta, comunque, anche
nella prima metà del Ventesimo secolo continuò a rivestire un ruolo
notevole, malgrado i problemi che
interessarono quel settore tra Otto
e Novecento. Alla fine degli anni
Sessanta del secolo scorso, con la
chiusura delle saline di Fontanigge e di Santa Lucia, queste poi bonificate, la parabola discendente di
quest’attività conobbe un’accelerazione.
I tempi erano ormai mutati profondamente. I metodi di produzione tradizionali non potevano essere concorrenziali a quelli di tipo industriale e di conseguenza il sale
piranese fu rimpiazzato da quello
proveniente dalle altre saline adriatiche dell’allora Jugoslavia o mediterranee, in primo luogo dalla Tunisia. Il secondo dopoguerra ave-
va anche trasformato radicalmente la società del Piranese, l’esodo
e il conseguente assottigliamento
della popolazione autoctona ebbero ripercussioni pure sull’economia. Settori come la cantieristica
e la salinatura per l’appunto, mestieri che richiedevano, per forza di
cose, una specializzazione specifica, che si acquisiva dai più anziani
e quindi si tramandava di generazione in generazione, ne risentirono notevolmente.
Oggi solo un ricordo
La cesura della metà degli anni
Cinquanta non avrebbe tardato a
manifestarsi e determinò una riduzione significativa di quelle attività. La produzione tuttora esistente
in una parte delle saline di Lera e di
Strugnano rappresentano una sorta di ricordo di un settore economico radicato sul territorio. L’interesse, inoltre, si è spostato sul versante
della salvaguardia e della presentazione del mondo dei salinai, che ha
profondamente condizionato la storia piranese.
Per questo motivo una ventina d’anni or sono, a Fontanigge fu
inaugurato un museo interamente dedicato alle saline, curato dal
Museo del mare “Sergej Mašera”.
La Comunità degli Italiani, da parte sua, è da sempre attenta a questa
Foto di Ubald Trnkoczy, di proprietà della Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” di Pirano. Le
immagini (tra cui quella in copertina) rappresentano il lavoro nelle saline – una simulazione da parte
dei membri della “famea dei salineri” (levatura del sale e trasporto del prodotto dai bacini di cristallizzazione) – e dei cumuli di sale al tramonto (saline di Lera, Vallone di Sicciole)
dimensione. Rammentiamo che un
decennio fa ha edito il volume “El
sal de Piran”, che riscosse un ottimo successo.
Rievocazioni annuali
Ogni anno, inoltre, in concomitanza con la festa di San Giorgio e la festa dei salinai, il sodalizio è presente alle varie iniziative,
mentre da due lustri, al suo interno opera la “famea dei salineri”,
un gruppo folcloristico il cui fine
è far conoscere il mondo delle saline e del lavoro intorno alle stesse
e quindi tramandare il ricco patrimonio culturale ed etnografico ad
esse legato.
Per ricordare il decennale a
maggio verrà presentato il cataloghino ad essa dedicato. Quest’anno, sulla scia delle esperienze
passate, è stato ideato il progetto
“Vita e lavoro nelle saline di Pirano: la nostra storia”, curato da chi
scrive, il cui primo appuntamento
è stato proposto proprio in concomitanza con i festeggiamenti del
patrono cittadino.
Le varie tappe
Il ciclo prevede otto incontri dedicati interamente alla vita
e al lavoro, come recita il titolo,
in quell’ambiente così particolare.
Sarà un modo per riflettere su un
mondo ormai scomparso in cui si
coinvolgeranno gli ultimi salinai,
la cui preziosa testimonianza è
degna d’essere registrata e divulgata. Vi sarà spazio per la quotidianità, il ruolo svolto dei singoli
membri delle famiglie, il dialetto
con il suo peculiare gergo dei salineri, con una terminologia, modi
di dire, proverbi, ecc., circoscritti al Piranese, la cucina particolare che utilizzava quanto l’ambiente salino offriva, le operazioni di
incanovo del sale cioè d’immagazzinamento, con il trasporto del
bianco cristallo dalle zone di produzione ai depositi di Santa Lucia
e di Fisine presso Portorose, nonché il sempre esistente contrabbando, un fenomeno costante che
non venne meno malgrado i vari
passaggi sotto governi diversi.
Si tratta di una pagina di storia degna della massima considerazione che, nel corso dell’anno,
cercheremo d’affrontare in collaborazione con gli esperti nei singoli settori e con i salinai stessi,
testimoni diretti e pertanto meritevoli della nostra attenzione.
Gli appuntamenti
Sabato 21 aprile
Centro pastorale culturale
“Georgios”, Pirano: presentazione del progetto “Vita e lavoro nelle saline di Pirano: la
nostra storia”
Venerdì 11 maggio
Parco Naturale delle Saline di Sicciole-Lera: “Pirano e
il sale attraverso i secoli”
Venerdì 15 giugno
Parco Naturale delle Saline
di Sicciole-Fontanigge: “Vivere e lavorare nelle saline”
Venerdì 6 luglio
Parco Naturale delle Saline di Strugnano: “Le saline di
Strugnano”
Venerdì 21 settembre
Spazio espositivo Monfort
(ex magazzino del sale): “Portorose Il contrabbando, il trasporto e l’incanovo del sale”
Venerdì 12 ottobre
Parco Naturale delle Saline di Sicciole-Lera: “La cucina dei salineri”
Venerdì 16 novembre
Casa Tartini: presentazione del libro “Contratti del sale
di Pirano 1375-1782”, curato
da Flavio Bonin.
Venerdì 7 dicembre
Galleria civica, “Pirano
Le saline di Pirano ieri, oggi
e domani”?
I risultati
in un volume
Quanto emergerà dai singoli incontri assieme agli altri materiali
raccolti: esperienze di vita, documenti, fotografie, scritti, ecc, confluiranno in un successivo volume, la
cui cura e stampa avverranno l’anno
prossimo. L’obiettivo è non dimenticare e al contempo valorizzare una
pagina rilevante dei nostri tempi andati. Il progetto è ideato e promosso
dalla Comunità autogestita della nazionalità italiana di Pirano con l’apporto della Comunità degli Italiani
“Giuseppe Tartini” e della Società
di studi storici e geografici di Pirano, in collaborazione con il Museo
del mare “Sergei Mašera” di Pirano,
il Parco Naturale delle Saline di Sicciole, il Parco Naturale di Strugnano
e le Gallerie Costiere di Pirano.
Kristjan Knez
storia e ricerca 3
Sabato, 5 maggio 2012
ARCHEOLOGIA Novità da uno dei siti più importanti dell’età del bronzo nell’Alto Adriatico
Maclavun, si respira aria d’Egitto
tutta colpa (o merito) del Sole
Maclavun
I
di Carla Rotta
l Mediterraneo. Non c’è mare al mondo
così intriso di storia, di civiltà, di misteri,
di domande e di risposte. Da nord a sud,
da est a ovest è stato attraversato da genti,
mestieri, culture. Hanno affrontato e domato
le sue onde grandi navigatori, commercianti
e pirati. È stato teatro di incontri e di sanguinosi scontri. Sui legni che hanno toccato le
sue sponde non solo merci: pittura, scultura,
scienza, architettura, agricoltura, astronomia,
navigazione, coltivazione hanno trovato dimora in ogni punto lambito dalle onde.
E non c’è quindi da stupire se molte parole, con qualche dettaglio sul quale è facile
sorvolare, si assomigliano pur appartenendo
a ceppi linguistici diversi. Non c’è da stupire se in tutta l’area del Mediterraneo bianche
costruzioni a cupola (o quadrate) di pietra costellano la campagna. Non c’è da stupire se
usi e tradizioni uniscono genti che la geografia divide.
Ricerche multidisciplinari
L’archeologia fa nuove scoperte. Sembra
un paradosso: le scoperte sono nuove per derivazione, e quello che l’archeologia porta in
superficie ha un sapore antichissimo. Nuove
conoscenze, nuovi strumenti e non da ultimo
la multidisciplinarità offrono chiavi di lettura
nuove e più complete di quanto non era stato possibile leggere fino ad ora. Archeologia
ed etnografia, etnologia, arte, medicina, chimica... quanta polvere ha tolto da muti reperti, ad esempio, il carbonio... quante domande
hanno trovato risposta grazie alla medicina
forense. L’archeologia ha sposato l’astronomia. L’uomo ha da sempre guardato al cielo,
ha letto i suoi segni per capire il tempo, per
coltivare la terra ed avere il cibo, per calcolare il tempo (in giorni e periodi ben più lunghi), per interpretare gli altri segni della natura, per trovare le vie che lo porteranno in
altri mondi e che lo faranno ritornare a casa.
Questi antichi popoli di commercianti e navigatori, agricoltori e costruttori, per vivere
leggevano il cielo. Interpretavano le stelle, il
loro movimento. E quelle luci lontane hanno
rischiarato il loro intelletto e il loro percorso.
Scambi mediterranei
Quattromila anni fa, mentre in Egitto saliva verso l’infinito la maestosa piramide di
Cheope e dall’Asia Minore giungevano in
Europa i cereali che ancor oggi portiamo
sulle nostre tavole, una civiltà attraversava
il Mediterraneo, da Cipro, per spingersi fino
all’Irlanda. Una civiltà che per attraversare il
mare usava il legno, solide navi di cedro e
conifere, che faceva uso di resine per proteggere i preziosi legni dai morsi del sale e che
proteggeva la prua con lo spago intrecciato.
Ottimi navigatori. Ottimi costruttori.
Ecco, questa civiltà pelagico marinara
giunge nel Mediterraeo per fondare colonie,
per crearsi spazi vitali lontano dal costante
pericolo di orde selvagge.
Una parentesi. Dicevamo dell’Egitto e
delle sue piramidi, dell’Asia Minore e della sua importante agricoltura, di popoli marinari... Che cosa hanno in comune? Perché, se trovano posto una accanto all’altra, in
un’unica proposizione, qualcosa in comune
queste civiltà certamente ce l’hanno. Il Sole.
Hanno in comune il culto del Sole. Non a
caso: il Sole è vita. Ancor più laddove ce n’è
di meno, al Nord. Chiudiamo la parentesi.
Ricchezza e miseria
Ma perché parliamo di storie così lontane, geograficamente e temporalmente? OK:
di tempo ne è passato molto davvero, ma in
quanto ad una distanza geografica, non ci
siamo. Tracce di notevole valore e interesse
di questa civiltà sono riscontrabili sul territorio di un po’ tutta l’Europa. Anche da noi.
Si tratta di imponenti costruzioni, spesso purtroppo ridotte a cumuli di pietre che ad un
passante distratto potrebbero anche non dir
niente. L’Istria ne è ricca: costruzioni sepolcrali, mura fortificatorie, pietre tombali. Moltissime sconosciute, sono giunte a noi perché
spesso coperte da boschi più o meno fitti, o
perché sorte in luoghi oggi quasi inaccessibili. Anzi, ieri inaccessibili.
La febbre dell’olivo ha fatto sì che vaste superfici venissero attaccate da ruspe
e macchinari pesanti, che non hanno avuto pietà delle vegetazione ne tanto meno
di quello che la vegetazione aveva custodito. Molti di questi resti, che certamente non sono stati solo ammassi di pietra,
grazie allo scriteriato intervento dell’uo-
Moncodogno
mo lo sono diventate: semplici e fastidiosi
ammassi di pietre. Quello che l’uomo ha
costruito, l’uomo ha distrutto. Ah, follia!
Quella che guarda al momento senza rispetto per il resto. Molti di questi siti, una
volta scoperti (non dalla scienza) sono diventati supermarket del furto. Ma in molti
casi è stato dimostrato che neanche ai tempi di Roma si era andati per il sottile: vi si
cercava oro, ma soprattutto giada.
La tomba di un dignitario
Quello che, per molti versi, ha fatto spalancare gli occhi agli addetti del mestiere –
archeologi in primis, ma poi arriveranno anche altre discipline – è Maclavun, località
archeologica tra Canfanaro e Rovigno. Una
prima spalancata d’occhi è stata causata dalla
scoperta del sito, poi dalla sua lettura, quindi
da una possibile interpretazione, poi dalla devastazione alla quale è condannato. Purtroppo si trova nei pressi di una cava di pietra;
anzi no, sarebbe più esatto dire che la cava
di pietra si trova vicino al sito, perché Maclavun con il suo sepolcro e il suo fascino è
venuto prima.
Maclavun è uno dei siti archeologici
più importanti dell’età del bronzo nell’Alto
Adriatico. La specificità del tumulo è rappresentata dall’esistenza di un sorta di corridoio
– dromos, e dalla camera funeraria – tholos.
Ha attirato l’attenzione di molti moderni predatori, che lo hanno derubato prima dell’avvio delle indagini archeologiche. I reperti
rinvenuti e i grandi blocchi di pietra della cupola autorizzano a sostenere che a Maclavun
avesse trovato sepoltura un dignitario, o uno
“sciamano/stregone”, qualcuno di importanMaclavun
te, insomma, al quale il suo popolo aveva voluto regalare l’eternità.
A cominciare grossomodo dal 1500-1200
a.C. Sono ipotesi da convalidare, ma già così
sembrano avere abbastanza credito. Una risposta senza “ma” e “però” avrebbe bisogno
della prova che potrebbe venir fornita dalle
pietre megalitiche che circondavano il sepolcro. Un’altra ipotesi ha bisogno di conferma.
Come abbiamo detto, il tumulo ha sia la dromos che la tholos. Ebbene, il corridoio è rivolto a ovest e quindi consentiva di... monitorare il solstizio.
Che Maclavun, prima di divenire dimora
del dignitario o comunque un notabile come
abbiamo detto, fosse stato osservatorio astronomico? Si tratterebbe del primo osservatorio su territorio nazionale, ad essere precisi (ed orgogliosi, naturalmente). Perché no?
All’epoca il calendario non esisteva, e il solstizio d’inverno, quando il giorno cessa di accorciarsi e comincia lentamente a rosicchiare tempo alla notte, veniva determinato con
l’aiuto di questi particolari osservatori. Nella
vita della gente il solstizio d’inverno aveva
un’importanza cruciale: il giorno cresceva, le
ore di luce pian piano superavano quelle del
buio. Si andava verso la rinascita come del
giorno, cosi’ della natura.
Un pizzico di Micene?
Maclavun come Stonehange? O forse come Newgrange? O Micene? Che cosa
c’entra Micene? C’entra eccome. Nel corso di recenti ricerche nel Rovignese (su località dei castellieri) Bernhard Michael Hänsel dell’Istituto per l’archeologia della preistoria dell’Università di Berlino e Biba Terzan di Lubiana hanno avanzato l’ipotesi che
Maclavun potesse essere una tholos micenea
dell’età del bronzo, un importante esempio
di architettura monumentale funeraria preellenica.
La civiltà micenea aveva fatto sue le rotte
del Mediterraneo: lo navigavano alla ricerca
di nuovi commerci, ma a spingerli era certamente anche la conoscenza.
Profuma di Micene anche il sito di Moncodogno, sempre nel Rovignese. Ma è oltremodo interessante anche il sito di S. Angelo Piccolo, nel Parentino, con la sua forma a
ferro di cavallo.
Le risposte le dovrebbe dare l’archeoastronomia, due scienze in una, che oltre a
dare risposte su Maclavun e Moncodogno,
potrebbe spiegare anche la funzione (oltre a
quella religiosa, sacra) delle chiese campestri
del Dignanese (più sono vecchie e migliore è
la loro orientazione Est – Ovest, con una finestrella – fessura sulla facciata rivolta ad Est.
Perché solo questo taglio? Per lasciar passare
un... laser a segnare e misurare il tempo.
Torniamo a Maclavun e all’inizio della
nostra storia. Millenni fa, un popolo marinaro attraversò il Mediterraneo e si spinse fino
all’Irlanda...
4
storia e
Sabato, 5 maggio 2012
ANNIVERSARI Fortemente voluta, i suoi inizi risalgono al 1882, per cui quest’anno celebriamo i
Raffineria fiumana: una storia di pro
di Daniela Jugo Superina
M
entre stiamo vivendo una sorta di crepuscolo industriale di Fiume, è ancora
fresco nelle nostre... narici il “profumo”
della Raffineria in Mlaka. Per decenni abbiamo
maledetto quei miasmi ammorbanti che si diffondevano, specie nelle giornate di scirocco, invadendo una vasta area cittadina, arrivando addirittura fino a Pehlin. Fino alla sua chiusura definitiva, siamo stati testimoni di centinaia di appelli e campagne affinché gli impianti venissero
chiusi e trasferiti altrove.
Tutti volevano che quel “mostro puzzolente”
scomparisse una volta per sempre, perché tutti
preferivano l’aria pulita alla puzza, la brezza che
trasporta la fragranza di mare alle nubi tossiche.
Più di un secolo fa, i nostri antenati desideravano ardentemente – e l’ottennero – una situazione
diametralmente opposta. Come dire, quanto più
fumo dalle ciminiere delle fabbriche. Tra queste
ciminiere, un posto di rilievo lo avevano proprio
i tanto detestati miasmi della Raffineria.
struzione della raffineria a Fiume è partita dalla
società francese “Les Fils du Alexandre Deutsch
de la Meurthe” di Parigi, che aveva rapporti d’affari con la Banca generale di credito ungherese.
Non essendoci nel Paese aziende sufficientemente potenti, la concessione per la costruzione
della Raffineria di Fiume è stata assegnata proprio alla società parigina.
Il progetto dell’architetto
Mate Glavan
Lo sviluppo della situazione fu estremamente
veloce, repentino, perché il capitale non poteva
attendere. In un primo momento si era pensato
di costruire la raffineria nella baia di San Martino
(Martinšćica), ma alla fine ha prevalso la zona,
peraltro poco popolata, di Mlaka, nei pressi degli impianti per la pilatura del riso e del Siluri-
Prodotti con il marchio della Raffineria fiumana
Fiore all’occhiello
del patrimonio industriale
Il Reparto Oli lubrificanti dell’INA, però, è
stato soltanto una pallida ombra degli impianti
pionieristici della prima raffineria fiumana, fiore all’occhiello del patrimonio industriale della
città e coronamento dell’enorme potenza produttiva della Fiume ungarica. I suoi inizi risalgono al 1882, per cui quest’anno celebriamo i
130 anni dall’inizio della lavorazione del petrolio a Fiume.
Anche se il petrolio è conosciuto da diverso tempo, il suo sfruttamento sistematico inizia
appena verso la metà del XIX secolo, quando
negli Stati Uniti vengono effettuate le prime trivellazioni. L’utilizzo su larga scala dei derivati del petrolio si diffuse nella seconda metà del
secolo sia in America che in Europa. Un ruolo
di prim’ordine lo aveva il petrolio illuminante, seguito dalla paraffina, dagli oli lubrificanti
e dal bitume. La diffusione della benzina, che
in un primo momento veniva utilizzata in piccole quantità nel campo della medicina e come
sostanza per le pulizie, non aveva ancora preso
piede. Le prime raffinerie europee erano in effetti delle manifatture, con non più di una decina di
dipendenti. Quella di Câmpina, in Romania, è la
prima grande raffineria in Europa, mentre la raffineria di Oljeön (letteralmente isola del petrolio), in Svezia, viene considerata come il primo
impianto industriale di questo tipo.
Già negli anni Settanta, nel porto di Fiume
giungevano importanti quantitativi di petrolio.
Le autorità ungheresi, svincolate dalla tirannia
austriaca e trascinate dall’entusiasmo di voler
creare una grande nazione e una grande potenza
europea, individuarono nello sviluppo dell’industria la base del proprio rilancio. Il crescente capitale sovranazionale andava alla ricerca di nuovi investimenti e le autorità ungheresi cercavano
di indirizzarlo proprio verso la lavorazione del
petrolio, riducendo le imposte sull’importazione del petrolio e aumentandole sull’importazione dei derivati.
Condizioni ottimali
L’Ungheria importava il greggio principalmente dagli Stati Uniti, naturalmente attraverso
il porto di Fiume, motivo per cui risultava logica l’ubicazione della raffineria a Fiume. Un porto moderno e buoni collegamenti ferroviari assicuravano le condizioni ottimali per accogliere il
greggio e mandare via prodotti finiti. Nell’autunno del 1882, a Budapest è stata fondata la Raffineria oli minerali (nel XIX secolo il petrolio veniva comunemente chiamato “olio minerale”).
Si trattava di una società per azioni che faceva
parte dell’immenso impero della famiglia Rothschild, che deteneva quasi l’80 per cento del
pacchetto azionario tramite varie aziende e banche che erano proprietà di questi magnati. Tanto
per far capire la loro grandezza, si ritiene che nel
XIX secolo, quando facevano il bello e cattivo
tempo nell’Europa degli affari, i Rothschild possedessero la più grande ricchezza privata mai registrata nella storia dell’umanità.
Tra le finalità che si proponeva la neocostituita società, cosa riportata pure nello statuto, c’era
la costruzione di nuove, moderne raffinerie, a
partire da Fiume. L’iniziativa relativa alla co-
La costruzione dei primi serbatoi per il petrolio illuminante
Lo schema del primo agitatore per la raffinazione del petrolio illuminante di Mate Glavan
Il progetto della Raffineria dell’architetto
Mate Glavan nel dicembre del 1882
cessario, pertanto, livellarla e l’unico modo per
farlo era con cariche esplosive, per cui le mine
venivano fatte brillare in continuazione. In poco
tempo è stato estratto mezzo milione di tonnellate di pietra, usata in parte per la costruzione del
porto. Qualche lamentela da parte degli abitanti della zona non è certamente servita a fermare
i lavori, lamentele che sono praticamente scomparse quando la Raffineria ha proceduto all’acquisto dei piccoli appezzamenti di terra attorno
al cantiere.
Nel marzo del 1883, l’architetto Glavan ha
portato a termine il progetto, preciso e particolareggiato, della Raffineria ed è iniziata la costruzione degli impianti. A questo punto entra in scena Milutin Barač, spesso indicato come “padre”
della Raffineria fiumana. Illustre chimico e studioso, agli inizi degli anni Settanta, Barač venne assunto alla Raffineria Petroleum di Vienna,
proprietà di Gustav Wagenmann. Già allora era
apprezzato come un lavoratore valido e capace,
oltre che innovatore. Infatti, Barač ha brevettato il procedimento per l’ottenimento della ceresina pura (cera microcristallina). Forte della sua
posizione, Milutin Barač ha aderito al concorso
per l’incarico di direttore tecnico della Raffineria di Fiume.
Alla domanda ha allegato la bellezza di 14
Entra in scena Milutin Barač tra diplomi
e riconoscimenti e il 13 dicembre del
L’area su cui è stata costruita la raffineria era 1882 ha ottenuto l’incarico, che manterrà per i
tipicamente carsica e piuttosto impervia. Fu ne- successivi quasi quarant’anni. A causa degli im-
ficio. Il lotto è stato acquistato il 18 novembre
1882. Allo stesso tempo, il Governo acquistò il
terreno dell’ex mulino a vapore per costruirvi il
porto petroli.
Soltanto due giorni più tardi, sulle pagine de
“La Bilancia” si potevano leggere lodi sperticate
in seguito a queste importanti decisioni: “Ognuno comprenderà l’immensa importanza e l’utilità
per la città nostra di tale decisione, a mercé della
quale viene ad accrescersi il numero degli opifizi
industriali in Fiume, tra i quali quello della raffineria dell’olio avrà la supremazia per grandiosità
– basti dire che si calcola che approderanno qui
ogni anno, cariche di materia oleosa greggia, per
la nuova fabbrica, non meno di 50 navi”.
Il progetto di massima della nuova raffineria fu elaborato dall’ingegner Mate Glavan, il
primo architetto professionista di Sušak. Il suo
progetto venne allegato alla richiesta di rilascio
del permesso di costruire, inoltrato l’11 dicembre 1882 al Reparto comunale per la sicurezza
pubblica. Come solitamente avviene, l’amministrazione cittadina non aveva poi tanta fretta, per
cui il permesso venne rilasciato appena l’8 febbraio del 1883, anche se l’edificazione del Porto
petroli era già iniziata verso la metà di dicembre
del 1882.
La lettera di Milutin
con lo schema della c
pegni presi nei confronti di Wagenmann, non era
nella possibilità di assumere subito l’incarico a
Fiume. Nonostante ciò, fin dall’inizio dava precise indicazioni relative alla costruzione degli
impianti, e lo testimonia il fitto carteggio tra lui
e Wilhelm Singer, direttore amministrativo della Raffineria. Singer era membro della direzione
della società e direttore della ditta “Steinacker &
C.o.”, che era coinvolta nell’opera di costruzione degli impianti fiumani. Dopo aver risolto tutti i suoi problemi, il 20 maggio del 1883 Milutin
Barač giunse a Fiume con l’intera famiglia e prese alloggio in un edificio che si trovava all’interno del complesso industriale della Raffineria.
Il primo carico
di petrolio greggio
Mentre i lavori erano ancora in corso, verso la fine di luglio del 1883 arrivò a Fiume dagli Stati Uniti, a bordo del veliero “Paragon”, il
primo carico di petrolio greggio. Considerato
che nemmeno il Porto petroli era stato ultimato,
il carico di petrolio – poco meno di cinquemila
barili, sistemati in botti e cassoni – è stato trasbordato dapprima su imbarcazioni più piccole e
poi sulla terraferma. Già verso la metà di agosto,
Barač aveva elaborato un regolamento relativo
alle operazioni di scarico del petrolio. I lavori di
costruzione della Raffineria erano seguiti da una
speciale commissione comunale, i cui membri,
ricerca
Sabato, 5 maggio 2012
5
130 anni dall’inizio della lavorazione del petrolio
ogresso, modernità e forza di una città
La Raffineria di Mlaka al giorno d’oggi
Milutin Barač, il “padre” della Raffineria fiumana
Barač era molto rigoroso e insisteva sulla disciplina, di modo che un operaio che ritardava sul
lavoro più di dieci minuti perdeva un terzo della
diaria. Nel 1886, quando Fiume venne colpita da
un’epidemia di colera, partita proprio dalla vicina fabbrica per la pilatura del riso, Barač e tutti
i dipendenti della Raffineria sono rimasti isolati all’interno del complesso industriale, evitando
così la diffusione del morbo.
Le soluzioni per il futuro
n Barač
cisterna
L’arco costruito con le botti di petrolio in occasione della
visita dell’imperatore Francesco Giuseppe nel 1891
dopo aver compiuto un’ultima ispezione l’ultimo giorno di agosto del 1883, misero a verbale
il proprio responso, ovvero “che nulla impedisce
l’apertura e la messa in funzione della Raffineria”. Era il 12 settembre del 1883 quando Milutin
Barač informò la polizia che il giorno dopo parte
degli impianti della Raffineria avrebbe cominciato a lavorare. L’evento venne posticipato di un altro giorno, in quanto l’ultima parola spettava alla
commissione per l’industria.
“La Bilancia” non mancò di annunciare il
grande evento: “Questa grandiosa fabbrica, eretta nel periodo di soli nove mesi, inaugurerà domani la sua attività, però parzialmente, restando
da completare alcuni lavori... Mentre auguriamo
a questa fabbrica liete sorti, facciamo voti ad un
tempo ch’essa riesca anche di effettivo vantaggio
al nostro paese”.
E così fu: il 14 settembre venne avviata l’attività nella più moderna raffineria europea, che riuniva le migliori soluzioni tecnologiche americane
e francesi per la lavorazione del petrolio. Vi trovarono subito occupazione circa 300 dipendenti, che dovevano seguire il funzionamento di 12
caldaie cilindriche per la distillazione primaria e
sei caldaie per la ridistillazione. Il prodotto principale della Raffineria era il petrolio illuminante,
che veniva raffinato in due grandi agitatori. È interessante rilevare che la raffineria disponeva di
24 storte per la trasformazione dei residui di produzione in coke: si chiamavano “diables” per le
La costruzione della ciminiera e la sistemazione
delle caldaie di distillazione nell’estate del 1883
difficili condizioni di lavoro, in quanto gli operai Nel corso dei primi anni di attività, la Raffineria
erano costretti a frantumare ed estrarre il coke an- ha continuato ad estendere la gamma di prodotti. Infatti, oltre al petrolio illuminante riforniva il
cora incandescente.
mercato di vari tipi di benzine, paraffina, oli luVasta gamma di prodotti brifi
canti, bitume, coke, olio gassoso, fosfati. Nei
Una settimana dopo l’avvio della produzio- primi dieci anni di attività, negli impianti fiumani
ne nella Raffineria, da Fiume sono partiti i pri- venivano lavorate mediamente 57.000 tonnellate
mi cinque vagoni di petrolio illuminante. Questa di greggio all’anno e prodotte 46.000 tonnellate
prima spedizione è stata seguita anche da “La Bi- di petrolio illuminante.
lancia”: “... si deve davvero rimanere meravigliaRigore, disciplina
ti per la sollecitudine straordinaria con cui si fecero le cose, tanto più che nella spianata su cui
e pochi incidenti
sorge la raffineria, nove mesi fa sorgeva un colBen presto la produzione della Raffineria fiule, che fu atterrato a furia di mine e trasportato in
pezzi nel mare, per formare il porto per il petro- mana riusciva a coprire circa un terzo dei fabbilio, già anche questo bene avanzato nella costru- sogni dell’intera monarchia. Alla grande esposizione. Questi sì che si possono chiamare miracoli zione del 1885 a Budapest, la Raffineria ottenne
il riconoscimento più ambito, il Grande diploma,
della scienza, dell’industria e del... denaro!”.
Il Porto petroli, che è stato completato nel feb- mentre Milutin Barač è stato insignito con una
braio del 1884, ha accolto le prime navi già nel medaglia per l’esemplare conduzione della fabnovembre del 1883. Vi potevano attraccare allo brica. Fino alla metà degli anni Novanta del XIX
stesso tempo cinque grandi navi. Lo stoccaggio secolo, gli azionisti sono riusciti a decuplicare il
avveniva in un primo tempo in quattro serbatoi, capitale investito. Il lavoro alle caldaie, agli agimentre successivamente, nel 1884, ne vennero tatori e ai serbatoi era molto difficile e potenzialcostruiti altri due. In quello stesso anno venne- mente anche molto pericoloso. Nonostante ciò,
ro costruiti un agitatore più piccolo per la raffi- gli incidenti in Raffineria rappresentavano una
nazione della benzina e la fabbrica di paraffina. rarità grazie alle precise misure di tutela sul lavoLa fabbrica di oli lubrificanti ha cominciato a la- ro e alla conduzione delle varie operazioni. Oltre
vorare nel 1887. Nel frattempo sono stati eretti i a Barač, nell’ambito del complesso della Raffiserbatoio per i prodotti chimici e l’acqua, nonché neria avevano la propria abitazione anche alcuni
l’edificio per gli uffici e un edificio residenziale. altri esperti, lavoratori e membri della direzione.
La Raffineria è riuscita a sopravvivere alle
guerre mondiali, alle varie crisi politiche ed economiche, ai bombardamenti alleati e alle mine tedesche. La prima ciminiera, costruita nel 1883,
è stata messa nel 2004 sotto tutela preventiva da
parte del ministero della Cultura come prezioso
monumento del patrimonio industriale del Paese.
La Raffineria dava lavoro e manteneva migliaia
di fiumani. È stata oggetto di studi da parte di storici e appassionati del passato della nostra città.
In occasione dei vari anniversari, venivano pubblicate monografie nelle quali si potevano leggere i risultati delle ricerche di eminenti esperti
come Danilo Klen, Marijan Kolombo e negli ultimi tempi Velid Đekić.
Anche se non si è spenta in maniera brusca e
repentina come altri simboli industriali di Fiume,
la Raffineria in Mlaka, alla pari dell’economia
della città nella quale si trova, sta vivendo il suo
crepuscolo. Dal 2008 non si produce più niente e
hanno continuato a lavorare soltanto gli impianti
per la miscelazione degli oli. L’area attualmente
occupata dagli impianti della Raffineria sta aspettando che vengano decise le sue sorti, ovvero venga definito il riutilizzo di questo spazio immenso, per il quale sono in corso dibattiti pubblici e
vengono inoltrate proposte. Sono tante le soluzioni proposte finora. Si va da un centro per l’abilitazione del personale tecnico specializzato per l’industria della raffinazione del petrolio a un grande
centro sportivo, ma si parla anche di una grande
zona commerciale con albergo... Il nostro sindaco
afferma che “125 anni di attività ininterrotta della
Raffineria si sono riflettuti nella pessima qualità
dell’aria e del suolo”, ma esiste anche l’altra faccia della medaglia, che racconta una storia di progresso, modernità e forza di una città nella quale
la Raffineria aveva un ruolo importante.
P.S.: Le autorità dello Stato libero di Fiume
hanno compiuto nel 1922 un gesto vergognoso
cacciando dalla città Milutin Barač, che all’epoca
aveva 74 anni, e la sua famiglia. Barač si è trasferito a Zagabria per poi ritornare nel suo paese natio, Donja Zelina. Morì nel 1938 e venne sepolto nel cimitero locale. Fiume ha voluto rendergli
onore, ribattezzando l’ex via dell’Industria in via
Milutin Barač.
6 storia e ricerca
Sabato, 5 maggio 2012
PILLOLE Quarant’anni fa il «caso Watergate», uno scandalo senza precedenti che sconvo
Per un giornalismo d’inchiesta arb
I veri giornalisti del “Washington Post”, Carl Bernstein e Bob Woodward
P
er gli Stati Uniti, nel biennio 1972-74, quarant’anni fa,
il “caso Watergate” rappresentò uno scandalo politico
senza precedenti (forse il primo di una certa portata in
quella che ancora oggi viene definita la democrazia occidentale più sviluppata al mondo), che sconvolse l’intero Paese,
mettendo sotto accusa la classe dirigente repubblicana e costringendo infine alle dimissioni il presidente Richard Nixon,
il 9 agosto 1974.
Durante un difficile periodo per l’America, mentre la guerra in Vietnam era in pieno svolgimento, alla vigilia della campagna per le elezioni presidenziali (dove però i sondaggi danno come favorito proprio il Partito repubblicano), negli uffici
della Casa Bianca individui senza scrupoli e agenti della CIA
stroncarono con qualsiasi mezzo, anche illegale, ogni forma di
dissenso. Per bloccare una fuga di notizie scottanti sulle operazioni belliche in Vietnam, e screditarne il presunto responsabile, l’analista militare Daniel Ellsberg, venne devastato lo
studio dello psichiatra di quest’ultimo a Los Angeles. Ma il 17
giugno 1972, la squadra degli “idraulici” (i “plumbers”) creata
all’ombra del presidente e incaricata di condurre le operazio-
Il momento dell’annuncio delle dimissioni. Il presidente Nixon con la moglie
ni di sabotaggio e spionaggio, venne sorpresa in flagranza di
reato all’interno degli uffici del Partito Democratico, nel complesso del Watergate a Washington.
Tra gole profonde e idraulici
Lo scandalo scoppiò immediatamente, appena i colpevoli
(in particolare James McCord, ex FBI e CIA) si qualificarono
come agenti governativi, e venne alimentato dall’inchiesta giornalistica condotta da due reporter del “Washington Post”, Carl
Bernstein e Bob Woodward, che pubblicarono le rivelazioni di
una misteriosa fonte, chiamata “gola profonda”, svelando il diretto coinvolgimento dello staff presidenziale nelle attività illegali. I due diventeranno il simbolo del giornalismo d’inchiesta.
Tra gli “idraulici” arrestati, protagonisti di numerose effrazioni, figuravano infatti Howard Hunt e Gordon Liddy,
membri del comitato per la rielezione di Nixon, presieduto dal
Ministro della Giustizia John Mitchell. Nel novembre 1972,
Nixon era stato, come facilmente previsto dai commentatrori dell’epoca, riconfermato alla presidenza, ma i successivi
tentativi di insabbiare le responsabilità sul “caso Watergate”,
comprando il silenzio delle spie catturate, entrarono in contrasto non solo con il procedimento giudiziario nel frattempo indetto, ma anche con il crescente sdegno di gran parte dell’opinione pubblica.
L’evidenza dei fatti e la gravità della minaccia alla vita democratica del Paese spinsero nel 1973 all’istituzione di una
Commissione Senatoriale d’inchiesta, creata con lo scopo di
vagliare il coinvolgimento della Casa Bianca nello “sporco affare” e le colpe dello stesso presidente. Nixon, pur rendendosi
conto che la propria posizione diventava sempre piu precaria
e minacciata, non si rassegnò e, anzi, proseguì con ostinazione
la battaglia contro i suoi accusatori.
Dal 17 maggio 1973 al 27 giugno 1974, durante le udienze
che tutti i cittadini seguirono con intensa partecipazione, furono via via sottoposti alle interrogazioni del senatore Sam Ervin,
presidente della Commissione, tutti gli uomini del presidente: il
capo dello staff Bob Haldeman, il consigliere John Ehrlichman,
il vicedirettore del comitato di rielezione Jeb Stuart Magruder
e il consigliere legale presidenziale John Dean: solo gli ultimi
due, però, ammisero le gravi responsabilità della Casa Bianca.
Quattro decenni fa la morte di John Edgar Hoover: l’uomo che sapeva tutto
Un altro personaggio ambiguo
della recente storia americana, e del
quale la vita è stata riproposta in un
film diretto da Clint Eastwood, con
Leonardo DiCaprio, è John Edgar
Hoover. Sono passati 40 anni dalla sua morte, avvenuta il 2 maggio
del 1972, all’età di 77 anni, mentre
era ancora in servizio. Hoover fu direttore del Federal Bureau of Investigation per circa mezzo secolo,
vedendo susseguirsi durante la sua
controversa carriera ben otto presidenti degli Stati Uniti. Ha dato vita
a reparti dei servizi investigativi federali tuttora molto attivi, i quali si
sono rivelati sin da subito strumenti
efficaci di lotta contro la criminalità, come l’archivio per le impronte
digitali, la cosiddetta “scientifica”,
e l’accademia per agenti federali.
Al nome di Hoover sono stati
accostati, volta per volta, sospetti di
violenza nel corso di alcune indagini molto delicate, come quelle relative all’assassinio di Martin Luther
King. Per anni è stato anche definito il braccio operativo del “maccartismo”, colpevole, a dire di molti, di
aver contribuito a diffondere il clima di “caccia alle streghe”, maturato durante gli anni Cinquanta, quando la guerra fredda era all’apice della sua tensione.
Figlio di un incisore
Figlio di Dickerson Hoover, di
professione un incisore, il giovane
John Edgar deve far fronte fin da
subito alla sua morte, la quale getta
la famiglia in condizioni economiche a dir poco delicate. Il ragazzo
trova un lavoro come fattorino presso la Biblioteca del Congresso. Ambizioso, si dà da fare per conto proprio, studiando privatamente, con il
fine di ottenere comunque la laurea
in legge, presso la George Washington University.
Conseguita la laurea nel 1917,
uno zio di professione giudice lo
aiuta a entrare nel Dipartimento di
Giustizia. Passano una manciata di
mesi e alle soglie del 1920 il neolaureato Hoover viene preso sotto
l’ala protettrice del procuratore generale Alexander Palmer, il quale lo
vuole come suo assistente speciale.
Presso il dipartimento della capitale d’America nasce proprio in
quei mesi una nuova sezione di ricerca, la quale si preoccupa di indagare sui sospetti “rivoluzionari e
ultra-rivoluzionari” vicini al partito
comunista. Questo particolare filone di indagini viene affidato a John
Edgar Hoover, il quale comincia sin
da giovanissimo, durante la sua breve e sfavillante carriera, la propria
opera di lotta al comunismo.
Alle dipendenze di Palmer, Hoover compie un lavoro monumentale. Influenzato dal suo lavoro presso la biblioteca, svolto anni addietro, decide di dare vita ad un enorme archivio, il quale gli consente di
schedare tutti i sospetti comunisti e
i presunti rivoluzionari. Il 7 novembre del ‘19, giorno del secondo anniversario della Rivoluzione Russa,
Hoover fa arrestare più di diecimila
sospettati, tra comunisti e anarchici,
in oltre venti città americane. Ben
presto però si rende conto di dover
rilasciarne la maggior parte, non
avendo prove a sufficienza, ma portandoli in tribunale ha l’intuizione
di inserire nei suoi archivi.
di alto profilo, che Hoover riesce
a vincere nonostante la difficoltà
del caso. Eppure, il “cacciatore
di comunisti” riesce a dimostrare
che Emma Goldman, nonostante
i trentaquattro anni vissuti interamente negli Usa, è da considerarsi tra i potenziali sovversivi rivoluzionari e al termine del processo, la fa deportare in Russia. Il
suo raid, per così dire, ha un effetto devastante sul partito comunista americano. Da oltre 80.000
tesserati, scende a circa 6.000, di
fatto quasi scomparendo dal suolo statunitense. Nel 1921 Hoover viene premiato con la carica
di vicedirettore dell’Fbi e solo
tre anni dopo, nel 1924, quando
Calvin Coolidge è Presidente degli Stati Uniti, viene nominato direttore.
Quando prende in mano le redini dell’FBI, l’ordine conta appena 600 agenti in forza. Al termine
del suo mandato i federali saranno
intorno alle 6.000 unità. Tra le prime disposizioni, Hoover fa piazza
pulita dei raccomandati, instaurando una disciplina ferrea, con metodi rigidissimi di addestramento
e selezione. Nel 1926 dà vita a un
file digitale, sulle orme della passata esperienza, il quale si rivelerà ben presto come il più grande al
mondo. Tuttavia nei primi anni il
dipartimento è più un organismo
di controllo e di osservazione, che
altro. Entro il 1935 Hoover ottiene dal Congresso che l’FBI diventi
una vera e propria macchina di lotta alla criminalità, in grado di po«Cacciatore
ter compiere arresti e anche di disporre delle misure proprie delle
di comunisti»
altre forze di polizia, come le armi,
A coronare il suo discutibile vincolo che viene tolto proprio in
impegno, arriva anche una causa quella occasione.
Ricattato dai gangster,
perché gay?
In questo periodo Clyde Tolson
viene nominato come suo vice e rimane il suo braccio destro per oltre
quarant’anni. L’accoppiata, nota
all’interno del dipartimento con il
soprannome di “J. Edna e Madre
Tolson”, diventa nel corso degli
anni oggetto di non poche dicerie,
incentrate sulla presunta relazione
omosessuale tra i due. A sostenerlo
inoltre molti anni dopo, nel 1993,
è lo scrittore Anthony Summers
in un libro molto accurato e documentato che si intitola “La vita
segreta di J. Edgar Hoover”. Ma
molto prima di lui è il giornalista
Ray Tucker a dare la notizia della
presunta omosessualità del direttore dell’FBI, scrivendolo sulla rivista “Collier”.
Tuttavia, a intimidire il reporter
e tutti gli altri giornalisti dall’approfondire i rapporti tra Hoover
e Tolson, ci pensa il dipartimento stesso, quando inserisce il suo
nome tra i sospettati sovversivi, lasciando trapelare anche alcune indiscrezioni sul suo conto. La stessa operazione non riesce contro il
boss mafioso Meyer Lansky; appare accertato che in questi anni il
criminale tenga sotto ricatto il Bureau, avendo ottenuto le prove fotografiche dell’omosessualità di
Hoover: questa cosa gli dà la possibilità di tenere lontano i federali
da alcune sue attività illecite.
Il «Canale Rosso»
Ad ogni modo, durante gli anni
Quaranta, oltre alle armi, il Bureau si dota anche di un laboratorio scientifico all’avanguardia e di
un’accademia nazionale, altre due
conquiste firmate dal nuovo direttore. Inoltre Hoover ottiene dal
presidente Roosevelt la possibilità di indagare, con il proprio organo, anche nei casi di spionaggio
internazionale, permesso che gli
dà ancor più potere nella sua caccia ai comunisti. Successivamente
il capo dell’Fbi si convince che alcuni membri del governo Truman
siano in realtà membri del partito
comunista russo e quando il Presidente gli intima di lasciar cadere questa indagine, egli si rende
protagonista di una fuga di notizie indiscrete, riguardanti appunto
alti funzionari di Stato. Nel 1950
inoltre, nel pieno del suo potere
e quando ha inizio il cosiddetto
maccartismo, avviene la pubblicazione da parte dell’FBI del “Canale Rosso”: si tratta di un opuscolo
che contiene 151 nomi di artisti,
registi e scrittori considerati come
potenziali sovversivi rossi.
Violazione
dei diritti civili?
L’ossessione di Hoover raggiunge il suo apice nel 1959,
quando i suoi agenti sono divisi in 489 unità che si occupano di
spionaggio rosso, e solo 4 di mafia. Nonostante ciò, il dipartimento da lui guidato passa alla storia
per aver combattuto a lungo il fenomeno del gangsterismo, eliminando dalle scene criminali americane personaggi come John Dillinger e George Kelly detto “machine gun”. Tra gli anni ‘50 e
gli anni ‘60 però inizia il declino vero e proprio del prestigio di
John Edgar Hoover, parallelamente alla nascita e al potenziamento
del così denominato “Programma
storia e ricerca 7
Sabato, 5 maggio 2012
olse gli Stati Uniti d’America
bitro e guardia del potere politico
La reazione dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca
I nastri della Casa Bianca
Dean, licenziato dal presidente per la sua “inaffidabilità”
il 30 aprile 1973, rivelò inoltre l’esistenza di nastri segreti sui
quali Nixon era solito registrare ogni conversazione. La confessione di Dean venne confermata il 16 luglio 1973 da Alexander Butterfield, aiutante alla Casa Bianca: il sistema di registrazione, installato su ordine dello stesso presidente, provò
l’attendibilità delle testimonianze e risultò in effetti determinante negli sviluppi dell’inchiesta, nonostante il ripetuto rifiuto di Nixon si protrasse per circa un anno e mancavano, perché
cancellate, notevoli parti delle conversazioni registrate.
Rigettando la pretesa di un “privilegio dell’esecutivo”, la
Corte Suprema impose la consegna dei nastri che, finalmente
esaminati alla fine del luglio 1974, dimostrarono il consapevole coinvolgimento di Nixon nel Watergate e nella successiva
opera di insabbiamento. Negli stessi giorni (27, 29 e 30 luglio),
il Congresso votò l’avvio della procedura di impeachment contro il presidente per le gravi accuse formulate, ma Nixon, prima
ancora di essere destituito, comunicò le proprie dimissioni in
diretta televisiva, rimettendo definitivamente il proprio mandato il 9 agosto (1974).
La fine di un’era
Si chiudeva così una contestatissima presidenza, ma non
gli effetti dello scandalo: sebbene Nixon, a differenza dei suoi
collaboratori, tutti condannati, ricevette le garanzie del perdono dal suo successore Gerald Ford, le polemiche sul Watergate
si trascinarono per anni, compromettendo il margine di vantaggio elettorale dei Repubblicani e segnando profondamente la
fiducia degli americani nella propria classe dirigente. Un’ombra inquietante finì col gettare discredito sull’operato dell’amministrazione Nixon, sui metodi della Cia e anche sulla politica
estera del segretario di Stato, Henry Kissinger.
D’altra parte, la portata dello scandalo offerì anche lo spunto per un successivo rinnovamento, mirato alla trasparenza
delle istituzioni e dei meccanismi di finanziamento elettorale.
Senza dubbio, dopo la vicenda del Watergate, il giornalismo
d’inchiesta riconquistò un ruolo di primaria importanza e alla
stampa fu restituita la funzione di arbitro, di guardia rispetto al
potere politico: il suffisso “gate”, nel frattempo divenuto sinonimo di “scandalo”, sarà destinato a ripresentarsi con una regolarità impressionante nella storia degli USA.
Dopo la morte di Nixon, il 22 agosto 1994, l’allora presidente in carica, Bill Clinton (un altro andato intorno all’impeachment per lo scandalo simil-sesssuale, con la stagista Monica Lewinsky), ne ricordò la figura e in qualche modo lo difese,
forse in un goffo tentativo per difendere sé stesso, cercando di
riabilitarne l’immagine e l’operato, non solo come statista ma
anche come –, paradossalmente e ciò sorprende, pensando più
al Vietnam che al Watergate – uomo di pace.
Nixon fa discutere ancora oggi: secondo sondaggi di prestigiose e autorevoli riviste di politica, la maggioranza degli americani esprime un giudizio morale negativo su di lui. Non va dimenticato che, oltre al Vietnam e Watergate, sotto la sua presidenza si manifestarono anche i segni tangibili di una crisi economica
profonda: le spese per la guerra, infatti, e quelle destinate alla politica sociale provocarono un forte deficit del bilancio statale.
A cura di Fabio Sfiligoi
La scoperta nella notte del 17 giugno 1972
John Edgar Hoover
Cointelpro”, teso ad identificare
cittadini americani simpatizzanti
con il comunismo. Nella presunta rete cadono nomi come Charlie Chaplin e Martin Luther King:
il capo dell’Fbi viene accusato di
violazione dei diritti civili.
La sua direzione rimane per
sempre la più lunga della storia
americana: l’allora presidente Nixon decide che, dopo di lui, la direzione del Bureau non può essere
affidata alla stessa persona per un
mandato superiore a dieci anni. Alla
luce di questa decisione, c’è anche
la piena certezza del fatto che Hoover abbia utilizzato il suo archivio
per restare alla guida dell’organismo il più tempo possibile, usando
Robert Redford e Dustin Hoffmann in una scena del film “Tutti gli uomini del presidente”
Da Wills a Liddy: l’intera vicenda
le informazioni riservate che riusciva ad ottenere al seguito dei vari
presidenti, come mezzi per tenerli
sempre sotto scacco.
Nel 1979 il Comitato per le indagini sugli omicidi, dopo aver riaperto le indagini sull’assassinio
Kennedy, dichiara che Hoover si
sarebbe comportato in modo non
adeguato sulla “possibile cospirazione tesa ai danni di Kennedy”. È,
in pratica, l’inizio di un forte livellamento verso il basso della reputazione del direttore storico dell’FBI,
evidente anche nel tentativo, non riuscito, da parte di un senatore americano, di cambiare nome nel 2001
alla sede federale di Washington,
tuttora dedicata a Hoover.
La notte del 17 giugno 1972
Frank Wills, una guardia di sicurezza che lavorava nel complesso
di uffici del “Watergate Hotel” a
Washington, notò un pezzo di nastro adesivo sulla porta fra il pozzo delle scale e il parcheggio sotterraneo. Stava mantenendo la porta socchiusa, così Wills lo rimosse,
presumendo che l’avesse messo lì
l’impresa di pulizia. Più tardi ritornò e scoprì che il nastro era di nuovo al suo posto. Wills contattò la
polizia di Washington.
Dopo che la polizia arrivò, cinque uomini – Bernard Barker, Virgilio González, Eugenio Martínez,
James W. McCord Jr. e Frank Sturgis – furono scoperti e arrestati per
essere entrati nel quartier generale
del Comitato nazionale democratico, la principale organizzazione
per la campagna e la raccolta fondi
del Partito democratico. Gli uomini erano entrati nello stesso ufficio
anche tre settimane prima, ed erano tornati per riparare alcune microspie telefoniche che non funzionavano e, secondo alcuni, per
fare delle fotografie.
Il bisogno di tornare nell’ufficio fu solo il più evidente di una
serie di errori commessi dagli scassinatori. Un altro, il numero telefonico di E. Howard Hunt sul blocco note di McCord, si rivelò costoso per loro – e per la Casa Bianca
– quando la polizia lo trovò. Hunt
aveva precedentemente lavorato per la Casa Bianca, e McCord
era ufficialmente impiegato come
capo della sicurezza al Comitato
per rieleggere il presidente (CRP),
al quale ci si riferirà comunemente
come CREEP (avanzare strisciando). Questo suggerì che ci fosse
una connessione fra gli scassinatori e qualcuno vicino al presidente.
Ad ogni modo, l’addetto stampa di Nixon – Ron Ziegler – rigettò
l’affare come un “furto di terz’ordine”. Sebbene lo scasso fosse avvenuto in un momento sensibile,
con la campagna elettorale che appariva all’orizzonte, molti americani inizialmente credettero che
nessun presidente col vantaggio
che Nixon aveva nei sondaggi sarebbe stato così sconsiderato e privo di etica da rischiare la sua associazione in un affare del genere.
Una volta accusato, lo scassinatore McCord si identificò come un
agente della Cia in pensione. L’ufficio del procuratore distrettuale di
Washington iniziò un’indagine sui
rapporti fra McCord e la CIA e finì
per dimostrare che McCord aveva
ricevuto pagamenti dal CRP.
Woodward & Bernstein
I reporter del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl
Bernstein, iniziarono un’investigazione sullo scasso e il rapporto del
primo con una fonte segreta di altissimo livello aggiungeva un livello di mistero in più alla questione.
Il nome in codice di questa fonte
era “Gola profonda” e la sua identità fu tenuta nascosta al pubblico.
Il 23 giugno fu registrata una
conversazione (pratica standard,
ma segreta all’epoca di Nixon) tra
il presidente Nixon e il capo dello
staff della Casa Bianca, H. R. Haldeman, mentre discutevano un piano per ostacolare le indagini, fa-
cendo in modo che la CIA facesse
credere all’FBI che si trattasse di
una questione di sicurezza nazionale. Infatti, il crimine e numerosi
altri “giochetti sporchi” erano stati
intrapresi a vantaggio del CRP, soprattutto sotto la direzione di Hunt
e George Gordon Liddy. La coppia aveva anche lavorato alla Casa
Bianca nell’unità speciale di investigazione soprannominata “gli
idraulici” (“plumbers”). Questo
gruppo investigava sulle fughe di
notizie che l’amministrazione non
voleva fossero conosciute pubblicamente e portò avanti varie operazioni contro i Democratici e gli
oppositori alla guerra in Vietnam.
La più famosa delle loro operazioni fu l’irruzione nell’ufficio
di Lewis Fielding, lo psichiatra di
Daniel Ellsberg. Questi, un ex impiegato del Pentagono e del Dipartimento di stato, aveva fatto trapelare le “carte del Pentagono” al
“New York Times” e come risultato fu perseguito per spionaggio,
furto e cospirazione. Hunt e Liddy
non trovarono niente di utile comunque, e devastarono l’ufficio
per coprire le proprie tracce. L’irruzione fu collegata con la Casa
Bianca solo molto dopo, ma al momento causò il collasso del processo di Ellsberg per evidente cattiva
amministrazione del governo.
L’8 gennaio 1973 gli scassinatori originali, insieme a Liddy
e Hunt, subirono il processo. Tutti eccetto McCord e Liddy si dichiararono colpevoli, e tutti furono
condannati per cospirazione, furto
con scasso e intercettazioni telefoniche.
8 storia e ricerca
Sabato, 5 maggio 2012
CURIOSITÀ Il capoluogo quarnerino e la Dalmazia nel 1861 visti dai giornalisti inglesi
L’appello dei fiumani all’imperatore
Francesco Giuseppe
S
ono incredibili le cose che si possono trovare nei mercatini d’antiquariato. Ad esempio la copia di un giornale inglese vecchio di oltre 151 anni, al cui interno è pubblicata una notizia relativa a Fiume. Sabato scorso prima di lasciare
Perugia, dove avevamo partecipato al Festival internazionale
del giornalismo, abbiamo girato un po’ tra le bancarelle di una
di queste mostre mercato. La nostra curiosità è stata subito attratta da un polveroso volume al cui interno erano rilegate copie di un celebre giornale inglese, il “The illustrated London
news”, risalenti al 1861. Quando ci siamo messi a sfogliare il
tomo, l’antiquario che gestiva la bancarella, indicandoci il monumento equestre dedicato a Vittorio Emanuele II in piazza Italia, ci ha fatto notare che il 1861 è l’anno dell’unità d’Italia.
Una coincidenza interessante, ma non quanto la presenza
in uno dei numeri del giornale di una notizia relativa a Fiume.
Sulla seconda pagina del numero 1.079 della rivista, pubblicato il 16 marzo del 1861 (sabato), nella rubrica dedicata alle
notizie provenienti dall’Austria, scopriamo che la municipalità
di Fiume aveva inviato un messaggio all’imperatore Francesco
Giuseppe I per pregarlo di togliere la città dalla giurisdizione
della Croazia e di riannetterla all’Ungheria. Il giornale riporta,
inoltre, che i fiumani avevano stabilito di non inviare più i propri rappresentanti alla Dieta croata e di non versare più le tasse.
Poche righe più sopra, si legge, invece, che pure gli abitanti di
origini slave della Dalmazia si erano rivolti al sovrano chiedendogli di incorporare la loro provincia alla Croazia, nella speran-
«Gli abitanti slavoni (slavi)
della Dalmazia hanno inviato
una petizione all’imperatore
pregando per l’incorporazione
della loro provincia con la
Croazia, in modo che possano
essere protetti contro la
parte italiana degli abitanti,
che, secondo gli slavoni,
sta cercando di esercitare
un’influenza tirannica su
di loro. Il comune di Fiume
ha deciso di non inviare
deputati alla Dieta croata,
e di sospendere il pagamento
delle tasse, e hanno inviato
un messaggio all’imperatore
pregando per la ricostituzione
con l’Ungheria»
za di porre in questo modo un argine alla repressione alla quale
venivano sottoposti dai loro conterranei italiani.
A Perugia ci siamo recati per fare nuove esperienze e diventare giornalisti esperti. Frequentando le gli appuntamenti del
Festival internazionale del giornalismo abbiamo imparato tantissimo sul modo di fare informazione nel XXI secolo. Curiosando tra le bancarelle polverose di una fiera, abbiamo capito,
che iPad e telefonini multimediali, cinguetti e post, possono
facilitare e agevolare il lavoro di un cronista, ma che non potranno mai sostituirsi del tutto alle vecchie e consolidate tecniche giornalistiche: quelle che implicano l’usura delle suole delle scarpe, lo spirito d’osservazione e il fiuto per la notizia. Ma
abbiamo imparato anche qualcos’altro: la stampa anglosassone
conosceva il significato di par condicio già 151 anni fa.
Il “The Illustrated London News” era un magazine fondato da Herbert Ingram e suo figlio Mark Lemon, l’editore del
Punch. La prima edizione della rivista apparve il 14 maggio
1842, con Lemon come consulente capo. Al prezzo di sixpence, la rivista aveva sedici pagine e trentadue illustrazioni realizzate con tecniche xilografiche. La tiratura iniziale della rivista
era di 26mila copie circa e raggiunse il proprio apice attorno al
1863 (300mila copie). Nel 1971 il settimanale divenne un mensile, nel 1989 un bimestrale. Dal 1994 al 2003 la rivista usciva
due volte all’anno. Attualmente il magazine non è più pubblicato, ma il gruppo editoriale Illustrated London News Group
esiste ancora e la sua attività consiste nella produzione di magazine aziendali, realizzazione di siti web e consulenze. Tra gli
scrittori e giornalisti della testata ricordiamo Robert Louis Stevenson, Arthur Conan Doyle, Rudyard Kipling e Agatha Christie, giusto per citarne alcuni. Alcuni studiosi affermano che la
rivista, ossia le immagine che la contraddistingueva, influenzò
persino la formazione artistica di Vincent van Gogh.
Uno storico di Oxford, Faramerz Dabhoiwala, rivede le «origini del sesso»
Inghilterra, patria di rivoluzioni... anche tra le lenzuola
Non sarà certo la Gioconda, ma il
sorriso di questa bella donna che appare sulla copertina del saggio “Le
origini del sesso” è altrettanto enigmatico. Il suo volto è sereno, mentre
nasconde il seno sotto a uno scialle.
Non c’è nulla di esplicitamente sexy,
o di volgare. Occorre sfogliare il libro per capire che si tratta di una...
cortigiana di epoca georgiana, di una
prostituta – oggi diremmo piuttosto
escort – dei VIP, Kitty Fisher (bella,
intelligente e audace, la sua condotta
disinibita divenne persino oggetto di
ballate popolari e destò l’interesse anche di Casanova il quale, in occasione di una serata di gala londinese, rinunciò a goderne i favori solo perché
l’affascinante fanciulla parlava esclusivamente inglese e lui, essendo abituato ad amare con tutti i suoi sensi,
non poteva certo rinunciare a quello
dell’udito). A confondere le idee è un
acquario, posto in primo piano; immagine che gioca sul suo nome. Ma a
uno sguardo più attento non sfugge il
riflesso della finestra della sua stanza,
con le sagome di una folla di curiosi
al di fuori, a spiare questa donna così
come si guarda il pesce intrappolato
nella sua ciotola. È un’immagine potente, ma ci vuole pazienza per decodificarla. E lo stesso vale per il libro
in questione, “The Origins of Sex: A
History of the First Sexual Revolution” – letteralmente “Le origini del
sesso: la storia della prima rivoluzione sessuale” –, di Faramerz Dabhoi-
wala (edito da Allen Lane, 496 pp.,
per il momento solo in inglese). L’autore, uno storico di Oxford In Inghilterra, si propone di “sfatare” le parole
semiserie dello scrittore, poeta e critico musicale britannico, Philip Larkin, che affermò: “i rapporti sessuali
incominciarono nel millenovecentosessantatre”, “tra la fine del bando a
‘Lady Chatterley’ e il primo ellepí dei
Beatles”. Dabhoiwala, che all’argomento ha dedicato decenni di studio,
sostiene invece che tutto – ossia, per
la precisione, l’idea del sesso, la sua
percezione e il modo in cui di esso
la gente parlava, secondo l’ottica moderna – ebbe inizio nel 1800. Quando cominciò a essere una faccenda da
privacy, tutelata, che lo Stato non doveva né giudicare né tentare di regolamentare (pure nella molto pudica e
disciplinata età vittoriana).
Fino ad allora, viceversa, si poteva finire sulla gogna o frustati per
dei “pensieri lussuriosi”, mandati addirittura al patibolo per adulterio. Infatti, in Inghilterra, tra i secoli XIII e
XVII, il sesso extraconiugale veniva sorvegliato con tanta energia che
fino al 90 per cento delle cause gestite dai tribunali ecclesiastici riguardava i peccari di fornicazione, adulterio appunto, sodomia e prostituzione, con punizioni spesso brutali, da
far invidia al più intransigente mullah. L’ipotesi che adulti consenzienti potessere fare, in privato, ciò che
volevano con i loro corpi, era sem-
plicemente impensabile, un’offesa
a Dio e una minaccia per la società.
Nel corso del Settecento, un’alleanza fortuita di fattori mandò in frantumi questa visione. Come si ruppe
l’unità religiosa così smisero di funzionare i macchinari con cui la Chiesa sorvegliava la vita sessuale; il giudizio individuale usurpò la parola di
Dio come arbitro ultimo della morale. Gli uomini diventavano liberi di
seguire i loro istinti naturali.
Quando e perché le cose iniziano a cambiare? La seconda metà del
XVIII secolo vide l’inizio di una reazione contro il puritanesimo estremo, in particolare tra le classi superiori che avevano accesso a ciò che
di libidonoso avveniva alla corte di
Carlo II. Ma, come Dabhoiwala sostiene, le ragioni della prima rivoluzione sessuale furono complesse e
variegate. E lo studioso cita a esempio i mutamenti di mentalità subentrati alla diffusione della cultura illuministic; quelli legati al fenomeno di
inurbamento di grandi masse rurali –
che sarà legato alla rivoluzione industriale –, con il venir meno dei vincoli della morale tradizionale; l’esplosione dei mass-media, in cui cominciarono a circolare idee più libertine
e scandali a sfondo sessuale; il racconto dei viaggiatori e degli esploratori venuti a contatto con abitudini sessuali di culture molto diverse...
Ma il fattore chiave, ritiene Dabhoiwala, fu la diffusione della tolleranza
religiosa. Samuel Johnson, un alto
tory anglicano, nel 1750 espresse
un’opinione condivisa ormai da tanti, ossia che ogni uomo doveva regolare le sue azioni in base alla propria
coscienza.
Il libro è lucido, ricco di aneddoti,
spassoso – contiene stampe squisitamente oscene e pagine di diari molto intimi –, informativo, che trasmette la fluidità della sessualità, la manipolazione degli standard sessuali
da parte di gruppi sociali e il modo
in cui i nostri atteggiamenti sessuali sono stati plasmati dalla società.
Nel complesso, un saggio stimolan-
te, che mette alla prova molte delle
nostre supposizioni sulla storia del
sesso. Anche se non ci fa conoscere tutti i lati della questione: manca,
tra l’altro, un approfondimento sulla contraccezione – che fu centrale
per la rivoluzione sessuale degli anni
Sessanta del secolo scorso –, manca
la voce delle classi inferiori. Infatti,
la “liberazione sessuale” di cui parla Dabhoiwala rimase all’epoca una
faccenda da “ranghi superiori”. Per
la “massificazione” occorrerà aspettare il secondo Novecento. (ir)
Anno VIII / n. 64 del 5 maggio 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Krsto Babić, Daniela Jugo Superina, Kristjan Knez, Carla Rotta
e Fabio Sfiligoi
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5.5.2012 - EDIT Edizioni italiane