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ALLA SCOPERTA
DEI SUONI PERDUTI
canti suoni e musiche antiche
Atti del convegno tenuto a CastelBrando di Cison di Valmarino
nel settembre 2003
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Progetto di ricerca nell’ambito delle rievocazioni a carattere storico
L.R. 5.9.1984, N. 51 - art. 11 - Iniziative regionali dirette
Iniziativa promossa dall’Assessorato regionale alle Politiche per la Cultura
e l’Identità Veneta, Segreteria regionale Cultura e Istruzione,
Direzione regionale Cultura
Progetto grafico
Stefano De Vecchi
Impaginazione e stampa
C&D Litografia di Conegliano
Coordinamento redazionale
Claudio Sartorato
copyright© 2003 Regione del Veneto / Associazione Claudia Augusta
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uante volte abbiamo assistito a rievocazioni storiche nelle
nostre città murate o nei borghi o nelle contrade, ammirato
costumi medievali o rinascimentali particolarmente curati nella
loro esecuzione, danze ritmate da minuetti barocchi, finti duelli animati
dall’intensità musicale dei Carmina Burana, tornei equestri ove i cavalli
si muovevano al suono di qualche musica western. Certamente le musiche erano piacevoli, sapevano trasmettere al pubblico le emozioni che gli
organizzatori speravano.
Ma non sarebbe stato possibile ottenere lo stesso risultato se ad
accompagnare le rappresentazioni fossero state musiche d’epoca, suonate con strumenti d’epoca e riferite a tradizioni musicali delle nostre
terre, cioè se i suoni e i canti che accompagnano queste nostre feste storiche fossero stati gli stessi che udirono i Veneti che queste rappresentazioni intendono evocare?
Attorno al quesito si concentrerà l’attenzione degli studiosi ed esperti
che nel settembre 2003 si incontreranno a Cison di Valmarino, nelle antiche sale di Castelbrando, per dare vita al secondo seminario annuale sul
progetto regionale per la qualificazione e la valorizzazione delle tante
rappresentazioni storiche diffuse in terra veneta.
Chissà che allora non si scopra che non è un falso far accompagnare le
feste da Trovatori provenzali, quei personaggi che con la loro lirica e la
loro poesia, cantarono i nobili valori dell’amore ideale; si capirà l’importanza che la tradizione di questi trovatori ebbe nelle città e nelle corti
venete fra il XIII e il XIV secolo, tanto da essere conservata, manoscritta, studiata e diffusa per ben due secoli. Ma si potrà capire anche l’importanza della musica sacra e dell’esperienza del Gregoriano nella tradizione musicale della gente comune e le sue influenze sulla musica profana popolare.
Le giornate di studio di CastelBrando nascono con l’idea di dare un
ulteriore contributo ai tanti volontari, organizzatori di queste manifestazioni, e di aiutarli ad approfondire, ogni aspetto, sociale, culturale, religioso, quelle vicende che amano rappresentare.
La Regione vuole essere al loro fianco per valorizzarne il lavoro, per
sostenerne la qualità del lavoro e permettere loro di ricavare le soddisfazioni che meritano per l’impegno profuso.
Un caloroso saluto quindi rivolgo a tutti i partecipanti al convegno “Alla
scoperta dei suoni perduti - canti suoni e musiche antiche” e ringrazio fin
d’ora gli organizzatori e gli studiosi che hanno accolto l’invito regionale a
portare il loro contributo di conoscenze e di esperienze a favore del sistema veneto delle rappresentazioni storiche.
Q
On. Dott. Giancarlo Galan
Presidente della Regione del Veneto
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a Giunta Regionale ha come principio ispiratore quello di sostenere,
in sintonia con le diverse realtà del nostro territorio, l’originale e
variegato mondo della cultura veneta favorendo la sua capacità di
vivere in un costante processo dialettico con il proprio passato. La centralità del Veneto nel mondo dell’arte e della cultura mondiale è infatti tale
da fare della nostra regione un esempio unico per tutta l’umanità, motivo
per cui come Assessore regionale alla cultura e identità veneta ho investito in specifici progetti culturali finalizzati alla diffusione della nostra storia e delle nostre tradizioni e al recupero e salvaguardia dell’eredità artistica e architettonica. Nell’ambito del vasto e articolato progetto di ricerca rivolto a qualificare e valorizzare le tante rappresentazioni storiche del
Veneto avviato lo scorso anno dalla Regione del Veneto, nel settembre
2003 verrà riproposta, in collaborazione con l’Associazione Claudia
Augusta, l’edizione 2ª del grande evento “Una Piazza per la Storia
Veneta. Cultura e tradizioni della Terraferma”.
L’iniziativa, sviluppata su più settori distinti ma strettamente correlati –
convegno musicale con mostre tematiche, seminario formativo con festival di musiche antiche, rievocazione a carattere storico – si propone infatti l’obiettivo di studiare e ricostruire, sia con rigore scientifico, che in un
momento di rievocazione festosa, la tradizione e la storia veneta. Il
Convegno sulle musiche antiche, con rassegna musicale, o meglio ricerca musicale storico scientifica, dove i relatori saranno accompagnati da
artisti e gruppi di musica antica che si esibiranno con strumenti d’epoca
sarà anche occasione per una ricerca sugli strumenti e melodie protagonisti della cultura europea tra XII e XVI secolo. Operatori ed appassionati del settore delle rievocazioni storiche potranno godere, nel seminario
formativo dedicato alla musica, delle appassionate e profonde relazioni di
illustri studiosi in materia e apprezzare una rassegna di concerti antichi.
Le rievocazioni storiche con la “Festa in Armi” avranno il loro culmine
nella ricostruzione dei festeggiamenti che sicuramente animarono il
castello per il rientro vittorioso degli armati guidati dal Conte Brandolino
nel 1510, all’epoca della guerra di Cambrai.
Come avvenuto lo scorso anno, il grande evento che ha l’intento di
creare un punto d’incontro, o meglio un luogo di studio e di analisi regionale destinato a valorizzare e diffondere la nostra grande storia e le
nostre antiche tradizioni, si svolgerà a Cison di Valmarino nella splendida
cornice di CastelBrando, l’antico Castello dei Veneti con oltre duemila
anni di storia.
L
Prof. Ermanno Serrajotto
Assessore alle Politiche per la Cultura e l’Identità Veneta
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opo l’edizione zero dello scorso anno che ha visto la partecipazione di oltre 20000 persone, nel settembre 2003 verrà riproposto il
progetto pluridimensionale “Una Piazza per la Storia Veneta.
Cultura e Tradizioni della Terraferma”.
L’appuntamento – incentrato nell’edizione dello scorso anno sull’attività
minieraria e le lavorazioni del ferro, attività che interessò per secoli gran
parte del nostro territorio – quest’anno avrà per tema la musica antica nel
suo rinnovamento dal Medioevo al Rinascimento. L’obiettivo è di dare un
contributo di alto livello scientifico-culturale ai tanti volontari e organizzatori di rievocazioni storiche, per sostenerli nell’approfondire i tanti e poliedrici aspetti che caratterizzano gli eventi che rappresentano. Un uso dunque strumentale della competenza di tanti insigni relatori con un duplice
obiettivo. Il primo è quello di riversare il frutto di tante fatiche anche al di
fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori - in cui sono spesso confinate per farle apprezzare, una volta rese facilmente comunicabili, ad un pubblico più vasto; il secondo è quello di fare un uso strumentale della ricerca storica coniugandola con una nuova offerta di attività intese a consolidare ed aggiornare l’offerta del turismo culturale della nostra regione –
anche al di fuori delle città d’arte - sotto il segno del rigore del metodo di
lavoro e della riscoperta di valori legati ad una profonda identità.
L’evento inizierà con un Convegno accompagnato da una rassegna musicale. Le relazioni saranno accompagnate dall’esibizione di artisti e consort di musica antica che useranno strumenti d’epoca e copie funzionali di
questi. Seguirà un seminario formativo dedicato a chi opera nel settore
delle rievocazioni storiche con la partecipazione di appassionati e cultori,
con proposizione di musiche antiche, danze e recitazione di brani letterari, e da percorsi iconografici. La parte spettacolare dell’evento proseguirà
con la rievocazione storica del rientro di Giovanni Brandolino, Conte della
Valmareno, che nel 1510 liberò le terre prealpine del Veneto dagli imperiali di Massimiliano d’Austria. L’evento si articolerà tra battaglie, scalpitii
di zoccoli, giostre cavalleresche e scontri contornati da musiche ad effetto. La rievocazione sarà anticipata dal Palio delle Prealpi, spettacolo agonistico equestre con la partecipazione dei Comuni della Comunità
Montana delle Prealpi Trevigiane, accompagnato dal Trofeo dei Comuni
che verrà svolto con le classiche prove di forza ed abilità radicate nella
tradizione locale: corsa a piedi, corsa coi sacchi, equilibrio sul palo, tiro
alla fune ed altre ancora.
Un grande evento – sviluppato in due intense giornate di studio, mostre e
spettacoli rievocativi – promosso e sostenuto dalla Giunta Regionale del
Veneto e in particolare dal Prof. Ermanno Serrajotto, Assessore alle
Politiche per la Cultura e l’Identità Veneta, per meglio conoscere la nostra
storia e le nostre tradizioni.
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Prof. Massimo Colomban
Presidente dell’Associazione Claudia Augusta
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Sacro e Profano.
La musica tra il
Duecento e il
Cinquecento
nel Veneto
Giulio Cattin
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hiunque si trovi a visitare una qualsiasi città veneta
che conservi tracce del passato nei suoi monumenti,
non mancherà di osservare un numero rilevante di raffigurazioni nelle quali la musica gioca un ruolo di pari importanza a quello delle arti visive in quanto componente insostituibile della medesima civiltà. Quasi non c’è edificio pubblico
o privato dell’epoca ancora medievale che non conservi una
rappresentazione di momenti musicali. Ed è difficile immaginare che nel visitatore non sorga il desiderio di conoscere
quali musiche fossero eseguite e in quali contesti.
Purtroppo, l’ampiezza del tema non consente di soffermarsi
su particolari troppo dettagliati, poiché nel Veneto quattro
secoli
interessati
dalla
transizione
dal
Medioevo
all’Umanesimo e al Rinascimento cinquecentesco sono talmente ricchi di eventi, personaggi e, in definitiva, di Storia,
che alcuni volumi non basterebbero. Si tratta d’un cambio di
civiltà così radicale anche nell’ambito della musica che gli
estremi divengono davvero tra loro incomparabili.
Non sono soltanto le immagini pittoriche a darci un quadro
di quella civiltà e del suo sviluppo: dati preziosi ci sono stati
conservati altresì dai documenti letterari in prosa e poesia, da
cronache, lettere, ecc. Anche le immagini del suono, per quanto indirettamente richiamate da questi documenti, possono
essere fatte rivivere da chi oggi immagina e descrive la vita di
un centro veneto di quel periodo. Cito, a titolo di esempio, la
celebrità acquisita da una pagina dettata dal collega Reinhard
Strohm che ci fa assistere al risveglio della città di Bruges (ma
potrebbe trattarsi d’una qualsiasi città italiana in una qualsiasi giornata del Quattrocento) 1 . Gli scampanii che annunciavano la preghiera mattutina e che si rispondevano da chiesa a
chiesa, dalle più vaste e ricche fino alle minuscole cappelle (e
si potrebbero aggiungere anche gli squilli dei trombetti comunali nella loro funzione di banditori) attraverso questa pagina
sembrano entrare per la prima volta nell’orizzonte di studiosi
C
L’autore ringrazia vivamente il prof. Francesco Facchin per il determinante
aiuto che gli ha dato.
1 R. Strohm, Music in Late Medieval Bruges, Oxford, 1985 (rist. 1990); Si
veda anche R. Bordone, Il “paesaggio sonoro” delle città italiane, in Id. Uno
stato d’animo. Memoria del tempo e comportamenti urbani nel mondo comunale taliano, III. Rumori d’ambiente, E-Book, <www.retimedievali.it>; si veda
anche Id. Campane, trombe, carrocci nelle città del Regno dItalia nel
medioevo. Il “Paesaggio sonoro” delle città comunali, in Formen der
Information, Kommunication und Selbstdarstellung in den mittelalterlichen
Gemeinden Deutschlands und Italiens, Kolloquium von 10. Bis 13. Juli 1995
(München), her. von A. Havenrkamp.
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che avevano stretto la ricerca sulla musica alla pur necessaria analisi delle partiture o alla interpretazione dei testi dei
teorici. Fortunatamente, oggi fare storia della musica significa
sforzarci di diventare contemporanei dei nostri avi e prendere
parte con loro degli eventi che animavano la città: eventi civili, religiosi, pubblici o privati, mesti, luttuosi o scherzosi, nei
quali la musica aveva il suo spazio e la sua funzione.
È impressionante constatare per quanto tempo si siano reciprocamente ignorate discipline come Storia della letteratura
italiana (meglio, della poesia italiana) e Storia della musica:
eppure – oggi sembra un’ovvietà – la parola che diventa
“verso” è la stessa parola che è intonata dalle note; si rifletta
ancora sull’assoluta incomunicabilità (inevitabile, questa
volta, a causa della quasi inesistenza d’uno dei due termini
della comparazione) tra Storia delle tradizioni popolari e Storia
della musica popolare. In questo settore, l’Italia in generale e,
più in particolare, il Veneto soffrono d’una carenza ancora più
endemica: soltanto da anni recentissimi è presente nelle
Università venete un insegnamento di etnomusicologia. E soltanto da poco tempo, fatta eccezione per qualche solitario e
ammirevole pioniere, si va raccogliendo materiale sonoro che
gli anziani, divenuti fortunatamente più longevi, riescono
ancora a ricordare e a registrare.
Correttezza vuole, per converso, che siano denunciate con
obiettività anche le ragioni di rimorso imputabili a noi stessi:
se questa è la situazione, una parte della colpa ricade sulla
musicologia ufficiale. La disciplina, il cui statuto fu creato dai
grandi studiosi tedeschi, colleghi ed emuli dei fondatori della
filologia classica, portò perfino nella denominazione l’eco
d’una concezione ferreamente chiusa in se stessa:
Musikwissenschaft la chiamarono; ed essa rimase rigidamente fedele all’etichetta elaborando metodologie di studio parallelele a quelle filologiche: teoria della musica, paleografia,
inventario ed esegesi delle fonti, critica testuale, regole ecdotiche, ecc. Disgraziatamente, neppure dal passato venivano
spinte capaci di portare in direzione diversa: basti dire che i
primi libri editi nel Settecento come “Storie della musica”, in
realtà erano “Storie della teoria musicale”.
Né la situazione mutò in meglio quando prevalse il sintagma
inglese musicology, diffuso soprattutto da quando gli studi del
settore ebbero negli Stati Uniti d’America una rapidissima e
formidabile ascesa. Con l’avvento in italiano del termine
“musicologia” si distinsero meglio le articolazioni interne,
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ossia la musicologia storica, la sistematica e l’etnomusicologia. Ma il mutamento fu solo nominale, perché i tratti fondamentali della Musikwissenschaft rimasero, per esempio, a
modellare la musicologia storica. Peraltro nella tradizione
accademica italiana v’è da segnalare almeno un punto a vantaggio: nel settore musicale le prime cattedre accese nelle
nostre università si chiamarono sempre “Storia della musica”.
E se, di fatto, la nostra “Storia della musica” ereditò il marchio
e il metodo delle varie “musicologie” (del resto dato l’inguaribile ritardo con cui venne alla luce, come avrebbe potuto competere con le altre scuole?), va anche detto che proprio in
questi anni riaffiora la tendenza primigenia, che impone un’attenzione più vigorosa agli eventi sonori e pretende che la
dimensione storica torni ad essere al centro della ricerca. Non
a caso il titolo d’un recente periodico italiano suona appunto
“Musica e storia” 2 . Probabilmente, nel pubblico qui presente le
precisazioni come quelle finora enunciate non possono avere
una immediata risonanza, ma erano una doverosa premessa
per comprendere l’attuale situazione degli studi storico-musicali in Italia e, in particolare, nel Veneto.
Le ipotesi sulle origini
In alcuni volumi della Storia della cultura veneta sono già
stati abbozzati a grandi linee l’origine e lo sviluppo, per quanto è possibile oggi conoscere, d’una vita musicale nella nostra
regione. Era inevitabile che le memorie esplicite più antiche
provenissero dal versante religioso, dove la ritualità fissò ed
impose ben presto condizioni atte a creare una tradizione. È
quindi d’obbligo prendere il via da Aquileia e dal Patriarcato
che ne assunse il nome: le diocesi venete via via formatesi
furono tutte suffraganee del Patriarcato e da esso ebbero
sicuramente il primo avvio a consuetudini liturgiche comuni,
tra le quali non poteva mancare la componente musicale.
Purtroppo non abbiamo documentazione diretta di tale realtà,
anche se congetturalmente alcuni testi, di sicuro redatti
nell’Italia settentrionale, sono stati assegnati da vari studiosi
all’area aquileiese. Lo si è potuto fare per il periodo successivo all’epoca carolingia, durante la quale fu patriarca di
Aquileia Paolino II, inviato da Carlo Magno, presso la cui corte
2
È pubblicato dal 1993 presso il Mulino di Bologna, in collaborazione con
la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia.
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aveva soggiornato in qualità di poeta e, forse, di musico.
Rientrato nella sua Aquileia, probabilmente non poté non
assecondare la volontà unificatrice dei sovrani franchi, che
volevano che tutto l’impero divenisse conforme a Roma negli
usi e nel canto della liturgia. Se questo è vero, un nuovo
repertorio dovette sovrapporsi alle primitive tradizioni locali
per lasciare spazio alle consuetudini romane: è l’ipotesi più
verosimile. Qualche barlume di maggiore chiarezza si fa strada successivamente, a partire dai secoli XI e, soprattutto, XIIXIII, ossia dai secoli ai quali risalgono i primi libri liturgici conservati nelle biblioteche di Gorizia (Seminario), Udine (Bibl.
Arcivescovile e Archivio del Capitolo); Cividale (Museo
Archeologico); S. Daniele del Friuli, Gemona, ma anche
Venezia (Bibl. Marciana), Lubiana, ecc.
Com’è noto, questo è soltanto uno dei filoni del repertorio
diffuso nel Patriarcato e consegnato nelle scritture dei codici;
il secondo repertorio è costituito dal canto cosiddetto “patriarchino”, che non fu mai posto per iscrittto e fu tramandato per
secoli oralmente nelle singole comunità. Da alcuni anni esso è
oggetto d’intense ricerche che si propongono di studiarne la
natura, i rapporti con la tradizione romana, l’estensione sul
territorio, l’originalità nei singoli centri, (dall’Ungheria alla
Lombardia, soprattutto la tradizione di Como, diocesi pure
soggetta al Patriarcato), ecc. Purtroppo, l’indebolimento e la
scomparsa del latino dalla liturgia dopo il Concilio Vaticano II
ha trascinato nell’oblio questa ancor florida tradizione, della
quale ci si affretta ora a raccogliere le residue testimonianze. 3
Non possiamo tacere che siamo ancora lontani da una definizione inequivoca di questo patrimonio, anche perché l’area
geografica interessata sembra estendersi molto al di là dei
confini del Patriarcato e frange inattese si vanno scoprendo
assai lontane. 4 Un dato sembra inaspettatamente certo: più si
approfondisce lo studio del repertorio cosiddetto patriarchino,
più nebulosa appare la sua identità. Anche per questo non è
azzardato dire che si tratta d’uno dei temi più appassionanti
3 Anche per la bibliografia precedente si vedano: Il canto “patriarchino” di
tradizione orale in area istriana e veneto-friulana, a cura di Paola Barzan e
Anna Vildera, Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Levi di
Venezia, 6-19 maggio 1997, Venezia, Regione del Veneto e Neri Pozza,
2000 (Cultura Popolare Veneta, n. s. 17). Per la tradizione nell’area bellunese, cfr. P. Barzan, Canti liturgici agordini di tradizione orale, diss. di laurea, Padova, Univ. di Padova, 1995; Id., Toni di lezione “patriarchini”. Ipotesi
sulle formule e la trasmissione di un dialetto musicale, diss. di dottorato,
Bologna, Univ. di Bologna, a.a. 2000-2001.
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della medievistica musicale in Italia.
E in effetti il repertorio patriarchino è oggi al centro di
discussioni e ricerche che si sono intersecate con iniziative
che si proponevano finalità del tutto diverse: ricercatori interessati a quelle che un tempo si denominavano polifonie “primitive” testimoniate con innegabile abbondanza nei manoscritti del cosiddetto patriarchino, organizzarono su questo
tema uno storico convegno a Cividale del Friuli nel 1980. 5
Sulla scia di quel primo incontro, presso la Fondazione Levi
di Venezia si svolse nel 1996 un seminario di approfondimento, che servì a riportare il tema delle polifonie – che nel frattempo ci si era accordati d’indicare con l’etichetta di “polifonie
semplici” – al centro dell’attenzione dei medievisti; l’interesse
fu poi ribadito nel corso d’un convegno promosso ad Arezzo
nel 2001, durante il quale furono studiate a fondo alcune
tematiche relative alla natura e ai confini geografici e cronologici del fenomeno. 6 Attualmente non si può ignorare che il
tema si è ulteriormente complicato per gli esiti delle ricerche
sui Libri Ordinarii di alcune cattedrali toscane e di Padova, dai
quali viene la certezza che l’abitudine ad amplificare la monodia liturgica – abitudine che risulta attestata in proporzioni
inattese – avveniva secondo due modalità: 1) la continuazione
della polivocalità con i medesimi criteri con i quali fin dall’epo4 Cfr. Angelo Rusconi, Atlantide musicale: il canto patriarchino fra mito e
realtà, in Melodie dimenticate. Stato delle ricerche sui manoscritti di canto
liturgico, Firenze, Olschki, 2002 (“Historiae Musicae Cultores”, XCI), pp. 5367. Un nucleo d’interessanti ricerche concerne il patrimonio liturgico-musicale di Como, a partire da Como e Aquileia. Per una storia religiosa della
società comasca, Atti del Convegno (Como, 15-17 ottobre 1987), Como,
Società Storica Comense, 1991 (“Raccolta Storica, 19”; A. Rusconi, Il rito e
il canto patriarchino nelle aree periferiche: fonti e bibliografia, “status quaestionis”, prospettive di ricerca, in Aquileia e il suo Patriarcato, Atti del convegno (Udine, 21-23 ottobre 1999), a cura di S. Tavano, G. Bergamini e S.
Cavazza, Udine Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia – Deputazione di
Storia Patria per il Friuli, 2000 (“Pubblicazioni della deputazione di Storia
Patria per il Friuli”, 29), pp. 165-205; per Como è indispensabile il
Sacramentarium Patriarchale secundum Morem Sanctae Comensis
Ecclesiae , a cura di A. Rusconi, 2 voll. (I: Facsimile, II: Scritti introduttivi e
indici), Como, Editrice Nani – Aquileia, Gruppo Archeologico Aquileiese,
1998.
5 Le polifonie primitive in Friuli e in Europa, Atti del Congresso
Internazionale, Cividale del Friuli 22-24 agosto 1980, a cura di C. Corsi e P.
Petrobelli, Roma, Torre d’Orfeo, 1989 (Miscellanea Musicologica, 4).
6 Un millennio di polifonia liturgica tra oralità e scrittura, Atti del Seminario
di Venezia, Fondazione Levi, 2-4 maggio 1996, a cura di G. Cattin e F. A.
Gallo, Bologna-Venezia, Fondazione Levi-il Mulino, 2002 (Quaderni di
“Musica e Storia”, 3); Polifonie semplici, Atti del Convegno Internazionale di
studi, Arezzo, 28-30 dicembre 2001, a cura di F. Facchin, Arezzo,
Fondazione Guido d’Arezzo, in corso di stampa (Quaderni di “Polifonie”, 1).
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ca carolingia si intendeva solennizzare il canto monodico tradizionale; 2) la creazione di nuovi contrappunti secondo le
regole via via elaborate dai teorici. 7 La riflessione sul tema
non può ancora dirsi conclusa, se anche sulla natura di quest’ultima tradizione un nuovo convegno tenuto ad Arezzo nel
dicembre 2002 ha inserito un ulteriore elemento di discriminazione che ha identificato, da un lato, una linea che coincide
con la nostra attuale nozione di “polifonia semplice”, quale
risulta dalle appendici dei manuali storici del canto monodico;
dall’altro, collega una parte della produzione con una dimensione più alta e contrappuntisticamente sviluppata secondo la
trattatistica della polifonia tardo quattrocentesca (si legga la
testimonianza di Johannes Tinctoris 8 ), pur rimanendo nell’ambito della tradizione orale. 9 È doveroso precisare che si tratta
di materiali ancora incandescenti che prenderanno forma più
definita con il procedere delle ricerche in atto.
Mi auguro che il modo di affrontare questo argomento renda
chiari i criteri che saranno da me seguiti nell’esposizione dei
successivi capitoli di questa relazione: dapprima, l’analisi diacronica dei fondamentali eventi e movimenti musicali nel loro
venire alla luce, accompagnata da riflessioni possibilmente
esaurienti circa il loro sviluppo o trasformazione; poi le riflessioni sul corrispondente sforzo di conoscenza e di valutazione da parte degli studiosi fino ai nostri giorni.
Nella regione parigina si era aperto – e nel corso del secolo
XIII si consumerà – il periodo dell’“Ars antiqua” o, meglio,
7 Per una bibliografia aggiornata sui Libri Ordinarii si veda G. Cattin,
“Secundare” e “Succinere”. Polifona a Padova e Pistoia nel Duecento,
“Musica e Storia”, III, 1995, pp. 41-120; Id., Novità dalla cattedrale di
Firenze: polifonia, tropi e sequenze nella seconda metà del XII secolo, ivi,
VI, 1998, pp. 7-36.
8 Egli è testimone del “suavissimus concentus” che si ottiene con queste
musiche, ma – cosa per noi più interessante – insiste sulla necessità che
gli esecutori della voce aggiunta (l’antica vox organalis!) possiedano un
buon orecchio per procedere in perfetta sintonia con coloro che cantano il
tenor; dopo alcuni interventi di F. Facchin e A. Lovato (Uso del “Cantus firmus” tra pratiche “fiamminghe” e “italiane” e Uso del “Cantus firmus” tra pratiche “fiamminghe” e “italiane”: la trattatistica, in Il Cantus Firmus nella
Polifonia, Convegno Internazionale di Studi, Arezzo, 27-29 dicembre 2002 –
atti in corso di stampa); ha ripercorso la cittazione di Tinctoris anche A.
Rusconi, La polifonia semplice: alcune osservazioni, “Musica e Storia”, XI,
2003, pp. 7-50: 34-35
9 Le problematiche connesse con la natura di questo repertorio sono state
discusse da A. Lovato, Polifonie semplici in fonti e trattati italiani dei secoli
XVII-XIX, in Un millennio cit., pp. 291-309, nel convegno di Arezzo, 28-30
dicembre 2002.
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della “Scuola di Notre Dame”, che aveva introdotto la polifonia
soltanto nelle sezioni solistiche dei brani liturgici, e usava una
notazione sicuramente diastematica, ma che, per il ritmo, si
fondava su schemi determinati dalla diversa successione delle
figure proprie del canto che ormai possiamo dire ‘gregoriano’.
Che cosa avvenisse in Italia e nel Veneto in corrispondenza
con questo fenomeno parigino (non si dimentichi che si trattava di musica scritta, che consentiva di cantare anche complessi brani a quattro voci, come i celebri quadrupla di
Perotino), l’abbiamo già raccontato in precedenza: anche i
veneti e gli italiani cantavano a più parti, ma la dialettica tra le
voci era tale da consentire l’esecuzione prevalentemente
improvvisata o mnemonica. Si ripensi alle innumerevoli scene
a fresco o in miniatura raffiguranti ecclesiastici intenti al canto
in momenti liturgici (messa o ufficio), sia davanti al badalone
sul libro aperto dei salmi, sia anche senza. In modo analogo
avveniva pure l’esecuzione di musiche profane da parte dei
giullari e menestrelli che nelle piazze e per le vie intrattenevano il loro pubblico.
Del resto la compenetrazione tra genere sacro e profano era
un fatto di assoluta normalità.
Per il secolo XIII nel Veneto, e a Padova in particolare, sono
numerose le testimonianze che la musica liturgica era parodiata (questo termine non aveva allora l’accezione fortemente
negativa che lo connota oggi). Si pensi al ritmo Vinum dulce
gloriosum, che fa il paio con Verbum bonum et suave e che, al
dire del frate francescano Salimbene de Adam (meglio noto
come da Parma), fu composto dal “Magister Morandus, qui
Padue in gramatica rexit”; 10 oppure all’altro ritmo 11 attribuito
sempre da Salimbene al ben più celebre Boncompagno da
Signa, il “princeps dictatorum”, maestro a Padova tra il 1222 e
il 1227 (o 1226), quando lesse in cattedrale l’edizione riveduta della sua Rhetorica antiqua, dopo aver dato il giusto spazio
alla musica nelle Artes. 12
10 Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari, Laterza, 1966, p.
314-315. L’accenno al “Magister Morandus” e, più sotto, a Boncompagno da
Signa inviterebbe ad aprire il capitolo della musica nell’insegnamento universitario a Padova. Sfortunatamente, io non sono in grado di recare notizie
più precise di quante si leggono già in precedenti studi, come – ad esempio
– in N.G. Siraisi, Arts and Sciences at Padua. The Studium of Padua before
1350, Toronto 1973 (dove peraltro la trattazione si fa più concreta a partire
dal Trecento).
11 Salimbene de Adam, Cronica cit., p. 109: “Et Johannes (= fra Giovanni da
Vicenza) iohanniçat / et saltando choreizat ...”.
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La musica profana colta nel secolo XIII
Per quanto concerne la musica profana in Italia, si prenda
atto che la tradizione monodica continuava senza indicazioni
ritmiche precise; si dovrà attendere gli inizi del ’300 per assistere all’affermazione delle prime forme di polifonia misurata.
Nel Veneto del secolo XIII è importante la presenza della lirica provenzale. Diamo per conosciute la storia e le caratteristiche del fenomeno trobadorico e trovierico. 13 Vari saggi di
Gianfranco Folena 14 ne hanno offerto le coordinate in questo
Veneto che, com’egli scrive, fu il “centro della formazione dei
grandi canzonieri”. 15 Anche se in Italia sembra venir meno l’interesse per la raccolta delle melodie, non abbiamo motivi per
negare che alla corte di Calaone i planhs composti da Aimeric
de Peguilhan per la morte di Azzo VI d’Este e del conte
Bonifacio di Sambonifacio nel 1212 fossero eseguiti musicalmente. Di Aimeric ci sono pervenuti oltre cinquanta componimenti, ma soltanto sei sono musicati. 16 Purtroppo, dei trovatori italiani che hanno contribuito agli elogi della Beata Beatrix
(Beatrice d’Este) o di Giovanna, che le successe come ispiratrice di poeti e cantori, non possediamo una sola nota. Del
resto, anche di Uc de Saint Circ diviso tra Este e Treviso,
abbiamo solo tre melodie su 43 componimenti pervenuti. 17
Eppure perfino di Sordello, del quale nessuna nota ci è pervenuta, si scrisse che “fo bons chaintaire e bons trobaire e grans
12 Cfr. G. Vecchi, Teoresi e prassi dei canto a due voci in Italia nel Duecento
e nel primo Trecento, in L’Ars Nova Italiana del Trecento, III, a cura di F. A.
Gallo, Certaldo, Centro di studi sull’Ars Nova italiana del Trecento, 1970
(Secondo Convegno Internazionale 17-22 luglio 1969) p. 203-214. Della
Rhetorica antiqua di Boncompagno si dovrebbero leggere il capitolo De cantoribus dal libro I e il capitolo VIII del libro VI (De remunerationibus ioculatorum), ove sono ricordati anche vari strumenti; per quest’ultimo testo, cfr. il
volume Le origini, Milano-Napoli 1956 (La letteratura italiana, Studi e testi,
1), pp. 756-759.
13 Rinvio a G. Folena, Culture e lingue nel Veneto Medievale, Padova,
Editoriale Programma, 1990, ove è illustrata la tradizione veneta dei canzonieri provenzali e sono enumerate le corti venete (estense, dei Da Romano,
Da Camino) presso le quali furono ospiti trovatori sia d’oltralpe sia di origine italiana, che diedero vita ad un vasto repertorio poetico in lingua occitana.
14 G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Storia della cultura veneta, I, Vicenza, Neri Pozza, 1976, pp. 453-562;
si veda inoltre G. Peron, Immagini e stile della poesia trovadorica nel
Veneto, in S. Antonio 1231-1981, pp. 348-367.
15 G. Folena, Tradizione e cultura, p. 456.
16 Si veda, per la bibliografia, s.v. Aimeric, in The New Grove Dictionary 2 (in
seguito New Grove 2 ), London, 2000, 1, p. 251.
17 Cfr. alla voce, in New Grove 2 , 26, p. 24.
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amaires”: ciò induce a rivalutare perfino l’attività musicale di
quei giullari dalla cui risma gradatamente Sordello riuscì ad
allontanarsi; ma solo grazie a un contrafactum 18 è possibile
forse conoscere la melodia d’un suo componimento. Delle loro
abilità nel comporre o nell’eseguire, così come sulle caratteristiche della loro voce ci resta memoria nelle Vidas, dove non
mancano, oltre alle notizie biografiche, anche valutazioni circa
l’attività professionale dei personaggi. Perfino di Bartolomeo
Zorzi la seconda biografia reca: “e saup ben trobar e cantar”. 19 Sarà un topos o una realtà? Ma se non li intonava lui
stesso i suoi carmi, sembra che altri lo facesse per lui: ad
esempio, il suo plahn per la morte di Corradino e di Federico
d’Austria nel 1268 è stato rivestito di note gioiose: “ab gai
sonet, coindet e d’agradatge”, altrimenti non si potrebbe cantare né udire “tan mou de gran dampnage”. 20
La cultura trobadorica fu espressione per eccellenza delle
classi nobili o alto borghesi. Esercitò notevole influsso sulle
tradizioni culturali contigue al territorio franco, influenzando,
oltre che le corti italiane, quelle catalane e spagnole e le città
della Germania (Minnesang). A Parigi, ove era prevalente
l’uso della lingua d’oïl, i trovatori lasciarono posto ai trovieri,
che vantavano una produzione meno interiore e spirituale, ma
più attenta ai fenomeni politico-sociali e ai fatti esterni della
vita.
Del collegamento tra i testi francesi (trovierici) e musica è
più difficile giudicare; ma non sembra infondato ritenere che
anche l’epica francese fosse recitata su moduli melodico-narrativi assai sobri e svelti e di scarsa varietà, se non sempre
ripetuti identici, secondo l’abitudine dei cantastorie e dei giullari, i quali solevano accompagnarsi su uno strumento. Del
tutto in linea con simili affermazioni è la lettera in versi diretta, presumibilmente verso la fine dei Duecento, da Lovato dei
Lovati al padovano Bellino Bissolo. “L’autore – commenta
Lorenzo Renzi – 21 rappresenta “dal vero” una scena in una
piazza di Treviso:
.....cum...
Karoleas acies et Gallica gesta boantem
18 Cfr. E. Paganuzzi, Medioevo e Rinascimento, in La musica a Verona,
Verona, Cassa di Risparmio di Verona e Vicenza, 1976, pp. 26-28.
19 Folena, Tradizione e cultura cit., p. 537.
20 Ivi, p. 550.
21 L. Renzi, Il francese come lingua letteraria e il franco-lombardo. L’epica
carolingia nel Veneto, in Storia della cultura veneta cit., I, p. 569.
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cantorem video. Pendet plebecula circum
auribus arrectis, illam suus allicit Orpheus...”.
Ma v’è di più: possediamo anche una testimonianza diretta
dell’antico francese con musica: un foglio di guardia del ms.
XXII. 544 della Biblioteca Antoniana databile alla seconda
metà del Duecento, descritto e studiato da Alberto
Limentani. 22 Esso conserva tre chansons pieuses: la prima è
acefala e senza musica e per questo non individuata, la
seconda (“Chanter m’estoit saintement”) è rifatta su una canzone di Jehan Nuevile; la terza, di cui sono conservati i primi
versi musicati (“Je ne chant pas par baudor”) è il travestimento di “Je ne chant pas pour verdour” di Perrin d’Angicourt, uno
dei più prolifici trovieri, identificabile forse con un rector capelle che era al servizio del re francese Carlo di Sicilia e Napoli
nel 1269. 23
Dai testi francesi alla poesia volgare italiana: per questa è
più che doveroso dubitare che sia stata mai associata alla
musica. Tuttavia la canzone veneta (trevigiano-orientale?) studiata dal Baldelli (“Eu ò la plu fina druderia”) 24 potrebbe forse
essere un’eccezione. Un sospetto potrebbe essere sollevato
anche per il cosiddetto “Lamento della sposa padovana”.
Ancora più risoluto in questa direzione sarei a proposito della
lauda. È vero che il Veneto non possiede monumenti come il
cod. Cortonese 91, ma sarà azzardato pensare che, oltre alle
acclamazioni con le quali le folle dei devoti rispondevano a fra
Giovanni da Vicenza (o da Schio) nel 1233, non risuonasse
qualche altra cantilena? Nella Cronaca ezzeliniana di Gerardo
Maurisio 25 leggiamo lo stupore di vedere
quot et quantos sub occasione pacis fiende ipse
congregavit in unum unanimiter Yhesum Christum
laudibus et ympnis magnificantes.
Il pensiero corre anche alla cosiddetta lauda veronese
“Beneta sia l’ora e’l çorno”. 26 Ma dobbiamo confessare che il
22 A. Limentani, Reliquie anticofrancesi nella Biblioteca Antoniana,
“Memorie della Accademia Patavina di SS.LL.AA.”, LXXIV, 1961-62.
23 Cfr. s.v. Perrin d’Angicourt in Ngrove 2 , 19, pp. 455-456.
24 I. Baldelli, Una canzone veneta provenzaleggiante del Duecento, “Studi
di filologia italiana”, XVIII, 1960, p. 19-28.
25 Gerardi Maurisii Cronica..., a cura di G. Soranzo, Città di Castello 1913
(R.I.S., VIII, IV), p. 31.
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richiamo è frutto d’una mera congettura. Più concreta è l’ipotesi che il tempestivo giungere dei Disciplinati in terra veneta
abbia portato con sé i canti penitenziali che accompagnavano
le loro processioni.
Rinvii espliciti alla musica e alla prassi esecutiva figurano
invece nelle opere di Giacomino da Verona, specialmente nel
De Ierusalem Celesti. 27 Il suo paradiso è immaginato in termini di canto e luce e “cantator” o “ “cantaturi” sono i beati (vv.
159-185).
Kalandrie e risignoli
çorno et noito canta
façando li versi
ke no fa viole,
et altri begi oxegi
sovra quigi arborselli,
plu precïosi et begi
rote né celamelli
(vv.113-116)
Con ulteriore determinazione, preziosa per il riferimento alla
prassi polifonica, egli continua:
Ké le soe voxe è tante
ke l’una ascendo octava
e l’altra ge segunda
ke mai oldia no fo
e de gran concordança
e l’altra in quinta canta,
cum tanta deletança
si dolcissima dança.
E ben ve digo ancora
ke, quant a le soe voxe,
oldìr cera né rota,
né sirena né aiguana
en ver, sença bosia,
el befe ve paria
organ né simphonia
né altra consa ke sia:
emperçò ke’l Re
sì ge mostra a solfar
ke se’ su lo trono santo
et a suir quel canto …
(vv. 161-170).
Per completare la panoramica delle testimonianze duecentesche, osserviamo che perfino i cronisti, pur nella loro preoc26 Cfr. G. Varanini (ed.), Laude dugentesche, Padova, Antenore, 1972
(Vulgares eloquentes, 8), pp. 9-19. Anche la lauda Laudata et benedicta sia
è linguisticamente afferente all’area settentrionale orientale; cfr. S. Orlando,
Assaggi duecenteschi: la lauda escorialense, “Studi di filologia italiana”,
XXXIX, 1981, pp. 5-21.
27 G. Contini (ed.), Poeti del Duecento,Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, I, p.
631-637.
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cupazione di narrar guerre, scaramucce e beghe, hanno spesso fuggevoli riferimenti a eventi musicali. Cominciamo dal più
celebre Rolandino da Padova, 28 l’orgoglioso discepolo di
Boncompagno a Bologna. La sua prima esplicita testimonianza concerne il magnus ludus celebrato a Padova nella Pentecoste del 1208 (I, X). 29
Anche a Treviso nel 1214 si celebrò un ludus per la
conquista di un allegorico castrum (1, XIII), ma non vi si fa
cenno di musica, per quanto essa debba essere verosimilmente ritenuta presente; gli Annales patavini aggiungono che
ne scoppiò una lite tra Padovani e Veneziani. 30
Sempre a Padova, nel 1239 l’incontro con Federico Il si trasformò in un’occasione di esultanza:
Occurrerunt ei obviam Ecelinus et Paduani bene per
V miliaria foras a civitate, cum multa leticia exultantes
milites et pedites cum cymbalis et citharis et instrumentorum diversis generibus (IV, IX).
Fu occasione di feste anche la permanenza in S. Giustina
dell’imperatore (il quale si dilettava di vari solacia; IV, IX),
specialmente il 20 marzo, giorno delle Palme, quando i
Padovani si raccolsero in Prato della Valle, “quoniam mos est
in tali die quod Paduana gens illic totaliter congregatur”; nella
festa di Pasqua poi Federico si mostrò “capite coronato” (ivi).
Nel 1256, mentre l’esercito del legato pontificio (Philippe
d’Alençon, arcivescovo di Ravenna) si avviava verso Padova,
il comandante “cecinit, et omnes alternatim et alta voce inceperunt ymnum illum in honorem venerabilem sancte crucis:
Vexilla Regis procedunt. / Fulget crucis misterium ... ” (VIII,
IX).
Come in Francia l’ultimo dei trovieri, Adam de la Hale, concluderà le sue composizioni in polifonia – segno di un nuovo
periodo musicale che si stava inaugurando e diffondendo:
quello della “polifonia misurata” – , l’ultimo dei trovatori veneti, “maistre Ferrari de Feirara” – dopo essere stato presso la
corte di Gherardo III da Camino a Treviso (è il “buon
Gherardo” di Dante, Purg. XIV, 13) –, concluderà a Padova la
28 Rolandini Patavini Cronica cit.
29 Per varie interpretazioni, cfr. V: De Bartholomaeis, Origini della poesia
drammatica italiana, Torino, SEI, 1952 p. 134.
30 Annales Patavini, Città di Castello 1907 2 (R.I.S., VIII, I), p. 200.
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sua vita dopo il 1330 – in un’epoca nella quale la polifonia
misurata era oramai coltivata anche nei centri italiani.
Il secolo XIV
Se per il secolo XIII sembra che il centro della vita musicale colta sia il palazzo, con il XIV secolo l’ago della bilancia
appare spostarsi nuovamente all’interno delle chiese cattedrali. Come nei secoli precedenti i monasteri avevano visto la
nascita e lo sviluppo del repertorio e della notazione, ora le
scuole legate alle grandi cattedrali sono le sedi deputate per
l’apprendimento della musica che serve simultaneamente per
il culto e per la vita sociale che si intreccia nelle corti e nelle
istituzioni comunali. Basta richiamare alcuni nomi perché la
situazione si presenti nitida alla nostra memoria: Scaligeri a
Verona, Carraresi a Padova, Da Camino a Treviso; e dove non
c’era una corte, erano le istituzioni comunali che provvedevano.
Due casi sono emblematici: Verona con la famiglia dei Della
Scala diventa il centro musicale per la musica di corte, legata
anche alla politica del momento. La testimonianza di ciò rimane nel primo e più antico codice di musiche profane del primo
Trecento conosciuto come Codice Rossi, redatto in area veneta e forse a Padova durante il periodo della dominazione scaligera. 30bis Tutto vi è nuovo: la morfologia e i temi dei testi poetici, gli aspetti formali delle composizioni, madrigali, cacce e
ballate in forma monodica o polifonica anche politestuali, la
notazione musicale. Questo manoscritto è anche la prima
testimonianza di quel movimento che, sulla scia di quanto
stava avvenendo in Francia, prese il nome di Ars Nova. È noto
che il centro propulsivo dell’Ars Nova fu Firenze, ma Padova
con il suo Studium – ecco il secondo caso eccezionale – offrì
le condizioni per quel dibattito teorico sulla notazione e teoria
della musica che occupò l’intero secolo XIV. La scuola della
stessa cattedrale padovana ospitò all’inizio del secolo quel
magister Marchetus che elaborò il sistema italiano di notazione mensurale accolto pure a Firenze.
Va subito osservato che a Verona spetta la priorità della
menzione poiché è la città ove è presente un cospicuo nucleo
di compositori di musica ‘moderna’ di valore. Provenivano da
Firenze, come Paolo; da Bologna, come Jacopo, ecc. La corte
di Cangrande era fortemente interessata alla loro attività com30bis Nuove ed. a cura di T. Sugato, Pisa, Ed. ETS, 2003.
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positiva al punto da favorire una tenzone fra loro, che restò
mitica: si trattava di musicare uno stesso testo, un madrigale.
Tuttavia era Padova ad offrire le condizioni politico-culturali
più simili a quelle che poteva incontrare un musicista approdando a Parigi; a prescindere da un episodio celebre, che si
colloca quasi ad apertura del secolo, cioè la consacrazione
della cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto: 31 comune,
cattedrale, monastero, università, con la basilica di S. Antonio,
erano i luoghi musicali più significativi del secolo, testimoni
delle diverse attitudini verso l’elaborazione, la produzione, la
riflessione e l’esecuzione.
Durante la signoria dei Carraresi la coesione istituzionale fu
ancora più solida, dato che alla guida delle due principali istituzioni religiose, il monastero benedettino di S. Giustina e la
chiesa cattedrale, furono posti membri della famiglia signorile,
la quale, a sua volta, occupò lo spazio del comune. Gli stessi
docenti universitari non potevano muoversi che in questo scenario; ne sia esempio Francesco Zabarella, canonico della
cattedrale di Padova e docente nello studio, poi arcivescovo di
Firenze e inviato al Concilio di Costanza dove morì.
Nella basilica di S. Antonio fu il centro della tradizione ufficiale del canto monodico romano-francescano: ne sono testimonianza i preziosi libri corali tuttora conservati. Bisognerà
attendere fino al 1480 – oltre quarant’anni dopo che papa
Eugenio IV aveva istituito e regolarizzato nelle cattedrali delle
città venete le cappelle musicali 32 (a Padova nel 1438) – perché il capitolo conventuale decidesse quod fiat cappella cantorum in conventu cantus figurati, ossia decidesse di dar vita
ad un gruppo di cantori esperti nel canto polifonico. Tuttavia
nella basilica già esisteva l’organo costruito nel 1438 da
Bernardo di Alemagna e presumibilmente destinato all’improvvisazione sul canto fermo, al suo accompagnamento o all’esecuzione corale secondo la prassi dell’alternatim.
L’Università, per sua natura luogo di confluenza e scambio
di culture, fu la sede dell’elaborazione teorica e filosofica:
31 Cfr. G. Cattin-F. Facchin, La musica a Padova nell’epoca di Giotto, in
Giotto e il suo tempo, Catalogo della mostra, Milano, Federico Motta
Editore, 2000, pp. 283-294, dove è presente la bibliografia aggiornata
32 G. Cattin, Formazione ed attività delle cappelle polifoniche nelle cattedrali. La musica nelle città, in Storia della cultura veneta, vol. 3/III: Dal primo
Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 267-296;
O. Gambassi, “Pueri cantores” nelle cattedrali d’Italia tra Medioevo e età
moderna. Le scuole eugeniane: scuole di canto annesse alle cappelle musicali, Firenze, Olschki, 1997 (“Historiae musicae cultores”, Biblioteca, LXXX).
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dalle riflessioni del medico Pietro d’Abano (1305-1306), a
quelle di Biagio Pelacani (a cavaliere fra Tre-Quattrocento),
fino all’importante sintesi teorica del matematico e astronomo
Prosdocimo de Beldemandis (circa 1380-1428). Egli, pur nel
tentativo di salvare una lingua scritta “italiana” della musica
misurata che stava dissolvendosi “nel prevalente dominio
delle quattro misure del sistema francese”, 33 accettò un sistema contaminato di notazione, che sostanzialmente sopravvive
ancor oggi, superando così il dualismo della notazione francese dovuta a Philippe de Vitry e quella italiana creata da
Marchetto da Padova. La corte carrarese e la cattedrale, con
il monastero benedettino di S. Giustina, rappresentano il luogo
della produzione musicale più moderna, spesso legata alle
situazioni politiche del momento. Furono pertanto le sedi che
favorirono lo sviluppo della pratica polifonica documentata ad
esempio dai mottetti: O proles Yspanie, di Johannes Ciconia
in onore di s. Antonio di Padova; O Maria virgo Davitica – O
Maria Maris stella, anonimo, dedicato alla Vergine; Hic est
precursor in onore di s. Giovanni Battista; Gratiosus fervidus –
Magnanimus opere, anonimo, per s. Giorgio; o la lauda-ballata di Graciosus de Padua Alta regina de virtute ornata. 34
Ma la città di Padova sul finire del secolo XIV fu testimone
di un altro grande avvenimento: nel settembre del 1399 la
devozione dei Bianchi ebbe per scenario anche la città antenorea. Vestiti di bianco, i piedi scalzi, i fedeli percorrevano il
territorio urbano cantando alta voce oraciones devotissimas in
honorem Crucifixi et beate Marie e lo Stabat Mater. 35
Non solo le vicende biografiche dei musicisti attivi a Padova,
ma anche i testi poetici da loro intonati, recano traccia delle
movimentate vicende tra Scaligeri, Visconti e Carraresi per il
possesso della città.
Nel 1332, durante la signoria padovana degli Scaligeri
(1329-1351), fu dedicato ad Alberto della Scala – al quale
“piacevano li litterati, musici e corteggiamenti galanti” – il trattato “Summa artis rithimi vulgaris dictaminis” del notaio padovano Antonio da Tempo. L’opera costituisce il primo saggio
33 F. A. Gallo, La polifonia nel Medioevo, Torino, EDT, 1991 2 (“Storia della
Musica”, 3), p. 65.
34 Per questi brani si vedano rispettivamente i seguenti manoscritti della
Biblioteca Universitaria di Padova: Pu 1106, f. 3v[r]; Pu 1106, f. 1; Pu 1106,
f. 2v; Pu 1475, f. 3 [47]; Pu 1106, f. 2v.
35 Cfr. A. F. Marcianò, Padova 1399, le processioni dei Bianchi nella testimonianza di Giovanni da Conversino, Padova, 1980, pp. 17, 20.
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relativo alle forme poetiche e poetico-musicali e fu ampiamente diffuso grazie a numerose volgarizzazioni successive.
Le forme musicali in voga erano madrigali, ballate e cacce,
fino alla ripresa, sul finire del secolo, del mottetto profano a
soggetto prevalentemente politico-celebrativo. La stretta connessione della poesia con la musica ci fa oggi parlare di forme
di ‘poesia per musica’, alcune delle quali nel territorio veneto
si protrarranno, pur con alcune varianti, sino agli inizi del XVI
secolo.
Come esempio di madrigale che si riferisce alle tradizioni
dell’area padovana possiamo ricordare Sì come al canto della
bella Iguana di Jacopo da Bologna, che sappiamo attivo presso la corte scaligera. Nel testo il canto della ‘bella Iguana’,
ninfa abitatrice delle grotte che si aprono nei colli che dal suo
nome furono chiamati Euganei, viene associato ad una donna
di nome Margherita.
Sì come al canto de la bella Iguana
obliò suo cammin più tempo el greco,
prendendo suo piacer con forma umana,
così per esser, donna, sempre teco
faresti la mia voglia esser lontana
da ogn’altro piacer, sendo ’l tuo meco;
però che se’ d’ogni virtute unita,
tu sola cara gemma Margherita.
La musica e i musicisti si inserirono come componente di
rilievo sia nelle strutture della creazione artistica, sia nel tessuto sociale della città. Ma non è tutto, perché tramite
Marchetto è confermato altresì il legame con la cultura parigina. La lettura dei documenti presenti negli archivi cittadini
(Università, Biblioteca civica, Archivio di Stato, Biblioteca
capitolare) permette di verificare la presenza e il passaggio di
studenti e musicisti anche d’oltralpe più o meno noti, che a
Padova vissero, studiarono o operarono. La biografia di
Marchetto è tuttavia ancora povera di notizie: magister cantus
a Padova nel triennio compreso tra l’aprile del 1305 e il
1307/1308, passò a Cesena e a Verona, dove stese il suo trattato Lucidarium. A lui sono riconosciuti due mottetti celebrativi: Ave regina celorum – Mater innocencie e Ave corpus sanctum gloriosi Stefani. Exaudi, protomartir – Adolescens proto-
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martir, composto per la celebrazione veneziana in memoria
della traslazione del corpo di s. Stefano; il “Francisci Ducis”
invocato nel testo del triplum potrebbe essere il doge
Francesco Dandolo che governò Venezia dal 1329 al 1339. 36
Secondo recenti documenti rintracciati a Udine, nel 1317 si
farebbe il nome di Marchetto in una proposta di nomina a magister cantus nella cattedrale di Cividale del Friuli; candidatura
non andata a buon fine se, come sembra, dovette recarsi ad
Avignone per sostenerla, infruttuosamente, davanti al novello
vescovo udinese Pagano della Torre. 37
Con Marchetto Padova entrò nella grande scena “internazionale”: le fonti successive testimoniano di compositori e musicisti che operarono in città, con essa intrattennero rapporti stretti, o da essa dovettero fuggire in esilio a seguito delle note
vicende politiche fino alla definitiva caduta in mano veneziana
(1405). Le biografie di alcuni personaggi lentamente stanno
oggi assumendo contorni più precisi, in forza dei quali si chiarifica il ruolo della città veneta nel panorama trecentesco al
punto di fare di Padova non solo la città che rappresenta una
delle sedi più feconde dell’Ars Nova, ma un centro di convergenza e di irradiazione della produzione musicale d’oltralpe
(francese, fiamminga e inglese). Ricordiamo che a Padova
questo ruolo di accoglienza, uso ed elaborazione e trasmissione dei repertori stranieri aveva radici lontane e diede frutti che
solo ora ci sono più evidenti: sequenze, tropi, planctus, uffici
drammatici, ecc. provenienti anche dalle regioni germaniche vi
furono accolti e trasferiti poi nell’area nord-orientale del patriarcato. 38
In cattedrale non pochi nomi di maestri si sono avvicendati
nell’insegnamento del canto ai pueri e nella guida della cappella. Nel 1306 un tale Gerardus da Bologna, mansionario o
custos, è citato per un breve periodo a Bordeaux quale cantor
a servizio del cardinale G. Ruffati; successivamente, tra 133538, è ricordato il presbitero Jacobello pro officio sive magiste36 si veda F. Alberto Gallo, Marchetus in Padua und die “franco-venetisch”e
Musik des frühen Trecento, “Archiv für Musikwissenschaft”, XXXI, 1974, p.
43; Id., La polifonia cit., pp.62-64; F. A. Gallo-K. von Fischer (ed. by), Italian
Sacred Music, Monaco, 1976 (Poliphonic Music of the Fourteenth Century,
12), p. 203, trascr. n. 38.
37 L. Gianni, Marchetto da Padova e la scuola capitolare di Cividale. Un
documento inedito del 1317 conservato a Udine, “Musica e Storia”,VII/1,
1999, pp. 47-57.
38 Cfr. G. Cattin, Tra Padova e Cividale: nuova fonte per la drammaturgia
sacra nel medioevo, “Il saggiatore musicale”, I, 1994, pp. 7-112.
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rio cantus scolarum clericorum, mentre sconosciuto resta
ancora il pulsator organorum, sebbene nel 1361 sia stato
costruito un organo da un Magister Laurentius. 39
Dal 1388 il numero di musicisti presenti nei libri di pagamento della cattedrale si fa più frequente; tra loro non mancano nomi di personaggi testimoniati nelle fonti musicali polifoniche giunte fino ai nostri giorni, nonché, per alcuni, nelle cronache dei novellieri toscani Giovanni da Prato e Simone
Prudenzani: Zanin de Peraga de Padua, Jacobus Corbus de
Padua, Gratiosus de Padua e frater Bartolinus de Padua tradiscono la loro appartenenza alla comunità cittadina. 40
Incerta è la provenienza padovana di Rentius de Ponte
Curvo (il cui nome ricorre anche come Laurentius, Rentius o
Nicolai de Cartono de Pontecurvo); il suo nome è ricordato
ancora nel 1410, allorché gli vengono assegnati un canonicato e una prebenda a Cividale del Friuli. 41 Sconosciuto invece
risulta quel Dactalus de Padua, al quale viene erroneamente
ascritto il madrigale Imperial sedendo che, in altra più sicura
fonte, è assegnato a fra Bartolino da Padova. 42
Anche di Grazioso, ovvero del presbiter Antonius Gratiosus,
figlio del notaio padovano Mundo abbiamo scarse notizie; fu
monaco a S. Giustina 43 e operò nella cattedrale tra il 139091. A lui sicuramente appartengono le composizioni conservate nei fogli della Biblioteca Universitaria (Pu 684): Gloria,
Sanctus, e la già citata lauda Alta regina de virtute.
Del frate carmelitano Bartolino da Padova (magister frater
39 Nel 1391 Andreas Augerii, familiare del cardinale Philippe d’Alençon, è
capellanus e canonico a Piove di Sacco. Tra i personaggi che attraversarono il territorio padovano con Philippe d’Alençon, incontriamo Egidius
Ledouille (Ledouwre), magister in artibus – ma anche scriptor e abbreviator
– del quale è attestata la sosta a Monselice nel 1386 e che morì a Tivoli nel
1390; cfr. G. Di Bacco-J. Nádas, The Papal Chapels and Italian Sources of
Polyphony during the Great Schism, in R. Sherr (ed. by), Papal Music and
Musicians in Late Medieval and Renaissance Rome, Oxford-Washington,
1988, p. 49.
40 Se Zanin de Peraga è stato identificato nel nobile cavaliere morto nel
luglio del 1374 che fu l’autore della ballata Se le lagrime antiche citata da
Simone da Prato nel suo Sollazzo, Jacobus Corbus, autore della ballata
Amor m’à tolto, è stato riconosciuto in un doctor gramatice citato nei documenti.
41 Di Bacco-Nádas, The Papal Chapels cit., p. 49.
42 Dactalus de Padua in Modena, Biblioteca Estense, ms. a M 5.24.
43 A. Hallmark, Gratiosus, Ciconia, and other Musicians at Padua Cathedral:
somefootnotes to present knowledge, in Cattin- Dalla Vecchia (a cura di)
L’Ars nova italiana del Trecento, VI (Atti del Convegno “L’Europa e la musica del Trecento”, Cataldo, 19-21 luglio, 1984), Cataldo, 1992, pp. 69-84: 74,
80-81.
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Bartolinus de Padua) ci è pervenuto un cospicuo numero di
composizioni (27 ballate e 12 madrigali) attraverso varie fonti;
seppure ancora incompleta, la sua biografia è più ricca di notizie, in parte anche per l’interpretazione in chiave politico-sociale di alcuni testi da lui intonati. 44
A lato della pratica compositiva non si può tacere la diffusa
attività didattica che era impartita sia all’interno delle istituzioni
ufficiali, sia per opera di singoli maestri, come Francesco di
Vanezio e il suo socio Giovanni Razio, nelle case private. 45
Il panorama della Padova musicale trecentesca non sarebbe
completo se non ricordassimo un altro settore di estrema importanza per la trasmissione del repertorio. Ci riferiamo alla stesura in territorio veneto, se non padovano, di gran parte delle più
esclusive e ricche fonti che conservano i brani più in voga all’epoca nelle corti italiane o presso le istituzioni ecclesiastiche.
Centro esecutivo principale fu lo scriptorium dell’Abbazia di
Santa Giustina. Il lavoro silenzioso e devoto di alcuni suoi
monaci continuò nonostante la grave crisi che impoverì la
comunità monastica negli anni precedenti la nomina come
abate del nobile veneziano Ludovico Barbo (1409), 46 dopo la
presa della città da parte della Serenissima (1405) e la drammatica fine della famiglia Carrarese.
Come testimoni dell’intensa attività musicale padovana nel
Trecento, rimangono i pochi fogli che gli studiosi denominano
‘frammenti musicali padovani’, oggi conservati parte a Padova
(Biblioteca Universitaria e Archivio di Stato), parte a Stresa
(Biblioteca Rosminiana) e parte a Oxford (Bodleian Library),
scarne schegge di ben più cospicui codici. Di origine veneta
sono altresì alcune fonti musicali di più ampia e artisticamente
vistosa rilevanza. Padovano-veronese della prima metà del
secolo XIV è il citato codice Rossi 215 della Biblioteca
44 Per una bibliografia relativa all’ordinamento cronologico delle sezioni che
compongono il manoscritto si veda in J. Nádas, Il codice Squarcialupi: una
‘edizione’ della musica del Trecento (ca. 1410-1415), pp. 21-86: 21; e per una
datazione sulla base dell’analisi delle miniature ivi contenute in L. Bellosi, Il
Maestro del Codice Squarcialupi, pp. 147-57, entrambi gli studi in Il codice
Squarcialupi, ed. in facsimile e studi raccolti da F. A. Gallo, Lucca-Firenze,
1993, pp. 147-57.
45 Padova, Archivio di Stato, Notarile, t. 14, c. 386: 13 gennaio 1372.
46 Si vedano P. Sambin, Ricerche di storia monastica medioevale, Padova,
Antenore, 1959; G. Cattin, Tradizione e tendenze innovatrici nella normativa
e nella pratica liturgico-musicale della Congregazione di S. Giustina ,
“Benedictina”, XVII, 1970, passim; e G.Cattin, Il copista Rolando da Casale.
Nuovi frammenti musicali nell’Archivio di stato, “Annales Musicologiques”, VII,
1964-1977 (Ricerche sulla musica a S. Giustina di Padova all’inizio del
Quattrocento, I), pp. 17-41
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Apostolica Vaticana (con i fogli di Ostiglia che lo integrano);
una parte del cosiddetto codice Mancini conservato
nell’Archivio di Stato di Lucca (ms. 184, a cui si devono aggiungere i frammenti di Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, ms.
3065); il ms. Can. Class. Lat. 112 della Bodleian Library di
Oxford, che conserva il mottetto Ave regina celorum – Mater
innocencie di Marchetto da Padova, fino alle ampie, e già quattrocentesche sillogi, quali il cosiddetto codice Reina
(Bibliothèque Nationale di Parigi, ms. 6771) e i codici Q15 e
2216 (Bologna, rispettivamente Civico Museo Bibliografico
Musicale e Biblioteca Universitaria). 47 Negli ultimi anni, in
aggiunta a queste maggiori fonti, ne sono emerse altre pure
provenienti dallo scriptorium di Santa Giustina. 48
Sullo sfondo di questa fertilissima opera di compilazione di
manoscritti musicali spicca l’umile figura, ma per noi preziosa,
del monaco di S. Giustina Rolando da Casale († 1448). 49 Nel
monastero padovano ‘traghettatore’ dal regime di corte al
nuovo corso intrapreso dal Barbo, lasciò con inusitata profusione la sua firma sia in raccolte di canti polifonici profani e sacri,
sia nei rinnovati libri destinati alla nuova comunità monastica di
S. Giustina, emblema della continuità e dell’avvento di una
nuova epoca culturale che avrebbe profondamente segnato
anche musicalmente la Padova quattrocentesca. Tuttavia, già
con la morte di Ciconia (estate del 1412), si era chiuso per
Padova il periodo di più intensa e autonoma vivacità musicale,
alla quale contribuirono personaggi di primissimo piano, le cui
opere figurano non solo nelle raccolte musicali qui sopra citate,
ma anche in non pochi documenti che oggi affiorano addirittura
in regioni dell’est europeo, come la Polonia e l’Ungheria.
Indicare dunque Padova come uno dei maggiori centri nel
47 F. A. Gallo, Musiche veneziane nel ms. 2216 della Biblioteca Universitaria
di Bologna, “Quadrivium”, VI, 1964, pp. 107-30; Id., Il codice musicale 2216
della Biblioteca Universitaria di Bologna, 2 voll., Bologna, 1968; per una
prima indagine sul repertorio e sulla fattura del codice Q15 si veda M.Bent, A
Contemporary Perception of Early Fifteenth-Century Style: Bologna Q15 as a
Document of Scribal Editorial Initiative, “Musica Disciplina”, 41, 1987, pp.
183-201; per una prima bibliografia generale relativa a queste fonti si veda A.
Hallmark, Some evidence for French influence in northern Italy, c. 1400, in S.
Boorman (edited by), Studies in the performance of late mediaeval music,
Cambridge – London – New York – New Rochelle – Melbourne – Sydney,
1983, pp. 193-225: 196-197; per un aggiornamento in F. Facchin, Le fonti di
polifonia trecentesca italiana alla luce degli ultimi ritrovamenti. Parte prima in
Fonti Musicali italiane, 2/1997, CIDIM-SidM, 1997, pp. 7-35.
48 M. Gozzi, Un nuovo frammento trentino di polifonia del primo
Quattrocento, “Studi Musicali”, XXI, 1992, pp. 237-251.
49 C ATTIN , Il copista Rolando cit., p. 41.
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panorama musicale europeo del ’300 non è soltanto un’ipotesi azzardata o gonfiata.
Di fronte alla ricchezza di notizie relative a Padova, spicca
la povertà della nostra conoscenza sulla storia musicale nelle
altre città del Veneto. Ma si sa che ciò è condizionato principalmente dalle fonti che ci sono state tramandate e che ora
siamo in grado di studiare.
Per Belluno, le fonti a noi note tacciono circa la musica e la
notizia dell’esistenza di un foglio superstite recante un brano
mensurale rimane monca poiché il documento è ora perduto. 50
A Vicenza le memorie si sono conservate più numerose, 51
pur essendo limitate ai sontuosi corali miniati e alla presenza
di fogli di guardia recanti neumi sangallesi, ascrivibili ai secoli XI-XII nella cinquecentina della biblioteca del Seminario
vescovile segnata D magg. 1.15, e a poche altre, ma pur
importanti, carte. A questo materiale appartiene un prezioso
manoscritto, che conserva documenti collegati col dono della
reliquia d’una spina della Corona di Cristo da parte del re di
Francia Luigi IX a Bartolomeo da Breganze nel 1260. Nel
manoscritto, oggi conservato sotto il titolo Monumenta reliquiarum, nella Biblioteca Civica Bertoliana (Gonz. 24.9.16)
(133), ai fogli 48r-63r una mano assegnabile alla fine del
Duecento, o ai primi decenni del secolo seguente, copiò
l’Ufficio e la Messa della Santa Spina, comprese alcune
Sequenze e Inni di creazione locale, per la festa della Sacra
Spina 52 che nella chiesa di S. Corona, dei frati Predicatori, si
celebrò con solennità annuale fin dalla sua fondazione avvenuta per custodire il dono ricevuto dal re francese. A questa
più alta testimonianza seguono alcuni frammentari testi notati
50 Pergamena contenente l’intonazione a due voci della terzina iniziale del
canto XXXIII del Paradiso di Dante: Vergine madre, figlia del tuo figlio, |
umile e alta più che mai creatura, | termine fisso d’etterno consiglio; segnalato in J. Wolf, Handbuch der Notationskunde, Hildesheim, Georg Olms,
1963 2 [Leipzig 1913-19], p. 289, cfr. F. A. Gallo, Per un repertorio delle fonti
perdute, “Schede musicali”, 3, 1982, pp. 289-296: 290. Qualche nuova briciola si può raccogliere dal volume recente Umanisti Bellunesi fra Quattro e
Cinquecento, Atti del convegno di Belluno, 5 novembre 1999, a cura di P.
Pellegrini, Leo S. Olschki ed., MMI (Biblioteca dell’”Archivum romanicum”,
Serie I, 299), soprattutto nel contributo di P. Da Col, “In montibus nutritus”:
il compositore Cristoforo da Feltre, pp. 259-277.
51 G. Cattin, La musica nelle istituzioni fino alla caduta della Repubblica, in
Storia di Vicenza, coord. G. Arnaldi, Vicenza, Neri Pozza, III/2, 1990, pp.
163-182.
52 G. Cattin, Canti per la festa della corona di spine del Signore, in I
“Monumenta reliquiarum” di S. Corona di Vicenza, a cura di F. Lomastro
Tognato, Padova, Antenore, 1992, pp. XLIII-LXXI.
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che si leggono sugli ampi margini della grande Bibbia dugentesca in quattro volumi, conservata sempre nell’Archivio
Capitolare di Vicenza, ora presso la Biblioteca del Seminario
con segnatura U. VIII.1-4. La Bibbia, copiata tra il 1250 e il
1252 dal mansionario Manfredo su commissione di Torpino da
Breganze, canonico della cattedrale, fu utilizzata certamente
quale Lezionario liturgico, come documentano le note aggiunte a margine: nel Libro delle Lamentazioni sono conservate
con notazione anche alcune lettere ebraiche, specialmente
“Aleph”, da cantarsi a due voci che, inaspettatamente, sono
scritte l’una di seguito all’altra secondo le norme della notazione diastematica, ma senza rigo, con i tratti tipici del cantus
planus binatim, modalità che ci riconduce alla polifonia semplice e che è databile non oltre il sec. XIV. Da ultimo, merita
una segnalazione la versione del tropo Virgo mater ecclesie,
che si inserisce nell’antifona Salve Regina del volume M.IV.9
dell’Archivio Capitolare. 53 È peculiare di questa versione la
completezza del testo che include anche stanze ignorate dalle
altre fonti.
Quanto ai musicisti della cattedrale non possiamo affermare
una situazione finanziariamente soddisfacente dato che i
benefici ecclesiastici erano stati occupati da fruitori inadempienti al punto che il vescovo Francesco Temprarini fu costretto nel 1329 ad abolire la dignità capitolare del canonicus cantor. Le cronache di Conforto da Costozza riportano anche la
descrizione della sacra rappresentazione detta della “Santa
Osela” che ricordava la discesa dello Spirito Santo a
Pentecoste. È singolare che la rappresentazione fosse accompagnata da profezie bibliche in tedesco, in francese e in altre
lingue, e che si alternassero due cori. 54
La situazione a Treviso, secondo le notizie raccolte da
Giovanni Netto, 55 sembra più vivace per la presenza di una
fraternita ricca anche di iniziative come, analogamente a
53 Sulla storia e la diffusione di questo tropo si veda G. Cattin, Virgo mater
ecclesie: un tropo alla Salve Regina nelle fonti monodiche e polifoniche dei
secc. XIV-XV, in L’Ars Nova italiana del Trecento, IV, a cura di A. Ziino,
Certaldo, Centro di studi sull’Ars Nova italiana del trecento, 1978 (Atti del 3°
Congresso internazionale sul tema “La musica al tempo del Boccaccio e i
suoi rapporti con la letteratura”, Siena-Certaldo 19-22 luglio 1975), pp. 149176.
54 G. Mantese, Storia musicale vicentina, Vicenza, Banca Cattolica del
Veneto, 1956, pp. 8-14; A. Gallo-G. Mantese, Ricerche sulle origini della
cappella musicale del duomo di Vicenza, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1964, pp. 11-12.
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quanto avveniva nelle altre città venete, l’organizzazione
della sacra rappresentazione del 25 marzo festa di Maria
Annunciata. Sappiamo che i ruoli dei vari personaggi erano
designati di anno in anno e i prescelti vi si preparavano con
senso di orgoglio e responsabilità. Alle cerimonie religiose
erano spesso affiancati riti civili come il 13 dicembre 1389,
quando si cominciò a celebrare con una processione e la
corsa del palio il ritorno del dominio veneziano dopo la caduta di quello carrarese. Benché sia documentata la presenza
di joculatores e trombetti nelle varie occasioni, manca tuttavia
la memoria dei nomi di singoli personaggi.
Non sfugge, anche per tale motivo, il caso singolare del pittore Tommaso di Buonaccorso. Il 3 marzo 1344, ossia poco
dopo la sua morte, egli risultava aver posseduto, oltre agli
strumenti del suo mestiere, un liuto, una “violla fracta”, un
“liber ad cantandum” e vari altri libri, carte e scritture pure “ad
cantandum”, e un “officiollum beate Marie Virginis”, oltre ad
alcuni manoscritti di contenuto letterario. Per quanto concerne le opere “ad cantandum” si può legittimamente presumere
che si trattasse di libri con canti monodici, da usare personalmente nei riti o nelle processioni: Tommaso, infatti, apparteneva alla ‘Compagnia di Santa Maria dei Battuti’, la stessa
della quale abbiamo fatto cenno sopra. 56
Il Quattrocento
Il cambio di secolo coincise approssimativamente con una
svolta politica da parte della Serenissima che si trova per la
prima volta a governare le città venete della terraferma con
l’abbandono di molti ruoli sostenuti in Oriente. La svolta si
esprime essenzialmente con la sostituzione dei governi locali
mediante rappresentanti della Dominante, non escluse le cariche episcopali nelle diocesi e abbaziali nei monasteri principali. La presenza di presidi veneziani ha dato il vantaggio di
lunghi periodi di pace interna, in contrasto con le precedenti
lotte intestine che caratterizzavano la vita delle singole città.
Tutto sommato ne trassero vantaggio le popolazioni, le arti e
55 G. Netto, Nel ’300 a Treviso. Vita cittadina vista nell’attività della “scuola” Santa Maria dei Battuti e del suo Ospedale, Treviso, Ospedale regionale, 1976.
56 Cfr. L. Gargan, Cultura e arte nel Veneto al tempo di Petrarca, Padova,
Antenore, 1978, pp. 262-264. Gargan, in quest’opera, dà un’immagine rappresentativa della consistenza e tipologia delle biblioteche private trevigiane nel Trecento.
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la vita culturale. È pur vero che Venezia non concedeva nulla
gratuitamente, ma i vantaggi furono superiori agli obblighi,
specialmente per le classi sociali produttive, aprendo nuove
vie di mercato e quindi la possibilità di un livello di vita meno
disagiato.
Se Treviso festeggiò il ritorno dei veneziani al governo della
città e Vicenza rinunciò ad ogni difesa e si concesse alla città
lagunare, ben diversa situazione si creò a Padova anche per
la reazione vendicativa con la quale Venezia oppresse la città
del Santo.
Ciò nonostante i centri della produzione musicale non subirono forti modifiche, come è provato dalla continuità con la
quale sono raccolti e confezionati i manoscritti contenenti
buona parte del patrimonio polifonico dei paesi europei.
Con la fondazione della nuova Congregazione benedettina –
che sarà per lunghi anni chiamata Congregatio de observantia
e, più tardi, S. Iustinae de Padua – Lodovico Barbo, inviato da
Venezia per sostituire Andrea da Carrara, pose fine alla decadenza del monastero, che già aveva conosciuto rovinose conseguenze a causa del governo dei commendatari, tra i quali
interessa qui ricordare il card. Philippe d’Alençon (13901402), che tuttavia governò sempre per interposta persona. 57
Per gli stessi anni gli archivi continuano a fornire ai ricercatori nuove notizie sui maestri di cappella o altri cantori-compositori attivi nella cattedrale padovana, in particolar modo su
Melchior de Brissia (Prepositus Brixiensis) e Johannes
Ciconia. 58 Il profilo biografico di Ciconia, divenuto cantor e
custos della cattedrale di Padova (1403-1412), oggi è meglio
tracciato per più precise ipotesi relative sia ai suoi trascorsi a
Liegi, sua città natale, sia alle notizie sul suo soggiorno romano – familiare nel 1391 del cardinale Philippe d’Alençon come
57 In realtà il monastero fu guidato da Andrea da Carrara, fratello di
Francesco Novello, sotto la cui guida (estate 1402-1405) si trasformò in una
dépendance della corte carrarese, assumendo l’aspetto di una corte principesca popolata da “gran treno di staffieri, camerieri, paggi, cavalli”. Il nobile commendatario, divenuto abate non mancò di magniloquenti atti di generosità, come il restauro di parte dell’edificio, l’acquisizione di nuovi arredi e,
particolare per noi importante, musica organa fecit. Cfr. Cattin, Il copista
Rolando cit., p. 30.
58 Cfr. M. Bent, Marchin de Civilibus, Prepositus Brixiensis, in P. Dalla
Vecchia-D. Restani (a cura di), Trent’anni di ricerche musicologiche. Studi in
onore di F. Alberto Gallo, Roma, 1996, pp. 115-123. G. Di Bacco-J. Nádas,
Verso uno ‘stile internazionale’ della musica nelle cappelle papali e cardinalizie durante il Grande Scisma (1378-1417): il caso di Johannes da Liège, in
Collectanea I, Città del Vaticano, 1994, pp. 7-74.
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clericus capelle – antecedente al suo arrivo a Padova. 59 Tra i
membri del Capitolo della cattedrale di Padova all’epoca di
Ciconia troviamo Francesco Zabarella, docente di diritto presso l’Università e principale artefice della soluzione del grande
Scisma della Chiesa d’Occidente, concluso nel 1417 durante il
Concilio di Costanza. Ciconia, che lo riteneva suo protettore,
gli dedicò due mottetti: Doctorum principem - Melodia suavissima - Vir mitis e Ut te per omnes celitus - Ingenitus alumnus
Padue. Nel primo il carattere acclamatorio è enfatizzato da
un’apertura in tipico stile di fanfara, mentre nella parte finale
un hoquetus prepara la ripresa con le due voci superiori che
declamano il nome del dedicatario “Francisce Zabarelle”.
L’altro mottetto esalta la personalità di Francesco Zabarella
accostandolo alla figura di s. Francesco.
Accanto a Ciconia era presente un gruppo di esperti cantori: nel 1391 essi erano Guillelmus, Gratiosus (de Padua?),
Johannes de Riveriis, Orpheus e Christoforus da Vicenza;
successivamente, il gruppo includeva Matheus, Guillelmus,
Johannes de Riveriis, Christoforus e Batista e nel 1410 figurano ancora Ciconia, Melchior de Brissia, Orpheus,
Guillelmus, Cristoforus e Batista. Si tratta dunque di un organismo solido e ben collaudato. D’altronde le opere di Ciconia,
non potevano essere eseguite se non da professionisti.
Ciconia fu uno tra i primi maestri franco-fiamminghi a trasferirsi in Italia aprendo così un’epoca caratterizzata da schiere
di provetti maestri che non solo portano la loro dottrina, ma
sono in grado di assimilare pienamente il gusto e il linguaggio
italiano. Tra le sue opere, infatti, si notano composizioni in
perfetto stile liturgico (di ascendenza più nordica) e brani,
come O rosa bella, non lontani dal melodiare italico. 60 Accanto
alla musica destinata all’esecuzione, Ciconia produce, non
59 Da S. Clerx, Johannes Ciconia – Un musiciens liégeois et son temps
(Vers 1335-1411), 2 voll., Bruxelles, 1960 (Académie Royale de Belgique –
Classe des Beaux-Arts. Mémoirs: Collection in 4° - Deuxième Série. Tome
X); a D. Fallows, Ciconia padre e figlio, “Rivista italiana di musicologia”, IX,
1976, pp. 171-77 e The Works of Johannes Ciconia, M. B ENT-A. Hallmark
(ed. by), Monaco, 1985 (Poliphonic Music of the Fourteenth Century, 24), a
G. Di Bacco-J. Nádas, Verso uno ‘stile internazionale’ cit., pp. 24-27 e 53.
60 N. Pirrotta, Ricercare e variazioni su O Rosa Bella, “Studi Musicali”, I,
1972, pp. 59-77; D. Harràn, Nouvelles variations sur O rosa bella, cette fois
avec un ricercare juif, in Johannes Ockeghem. Actes du XL Colloque international d’Études humanistes, ed. Ph. Vendrix, Paris, Klinksieck, 1998,
unendo insieme Rosa come nome di persona e “iudea” di Leonardo
Giustinian, ne valuta l’identificazione e la realtà storica con una fanciulla
ebrea.
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esimendosi dal ruolo di musicus, due trattati di teoria e non
esita a dedicare nel dicembre 1411 il suo trattato De proportionibus a Johannes Gaspari de Castelgomberto (o
Leocornis), pur noto canonico e cantore della cattedrale
vicentina: 61
Venerabili viro et egregio domino presbytero Jo.
Gasparo canonico vicentino bene merito necnon cantori preclaro, Johannes Ciconia de civitate leodiensis
canonicus paduanus […].
Non sfugga il senso di stima quasi affettuosa che lega i due
personaggi e che ci permette di vedere un Ciconia bene inserito nella comunità musicale veneta.
I nomi dei successori di Ciconia sono riuniti in massima
parte nelle grandi raccolte che vedono la luce dopo la sua
morte, nelle quali il suo nome continua ad occupare un posto
di rilievo. Tra i cantori troviamo: un altro nordico, Gulielmus de
Alemania, magister cantus, Luca de Lendenara, e Melchior
prepositus de Brixia. 62 Nel 1421 fu eletto maestro dei pueri
Biagio da Este e, negli stessi anni era tenorista Iohannes de
Francia. 63
Della situazione padovana dopo Ciconia in modo fortuito
siamo informati anche dal testamento di un prete addetto alla
cattedrale padovana datato 1463. Nella biblioteca che egli
lascia in eredità sono ancora presenti le opere teoriche di
Ciconia assieme ai testi ormai classici per la formazione dei
musicisti. 64 Tra coloro ai quali sono destinati i beni del testatore sono enumerati alcuni dei cantori della cattedrale:
Stefano cappellano, Jacobeto e Ricio. Ma altri cantori emer61 Gallo-Mantese, Ricerche cit., pp. 14-15; M. Bent, The Manuscript Q15
and the Council of Basel relazione al convegno Manoscritti Polifonici nel
Quattrocento Europeo, Trento, 18-20 ottobre 2002.
62 G. de Van, Inventory of Manuscript Bologna Liceo Musicale, Q15 (olim
37), “Musica Disciplina”, II,1948, pp. 231-257; M. Bent, A contemporary
Perception of Early Fifteenth-Century Style cit., pp. 183.201; Id. Music and
Early Veneto Humanists, in Proceedings of the British Academy, 101 (1998
Lectures and Memoirs), Oxford, Oxford Univ. Press. For the British
Academy, 1999, pp. 101-130; Id., The Manuscipt Q15 and the Council of
Basel, Atti del Convegno di Trento. 2002.
63 R. Casimiri, Musica e musicisti nella cattedrale di Padova nei sec. XIV,
XV, XVI, Roma, Psalterium, 1942 (lo studio era apparso in “Note d’archivio
per la storia musicale”, XVIII, 1941, pp. 1-51 e 101-214; XIX, 1942, pp. 4992).
64 G. Cattin-F. Facchin, Il lascito musicale di un prete della cattedrale di
Padova (1463), in Studi in onore di Agostino Ziino, Roma, 2003, in corso di
stampa.
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gono: Gulielmus de Francia, eletto cantor nel 1456; negli anni
1489-91 è ricordato come magister cantus il prete Rayanaldus
francigena, proveniente forse da Treviso e che lasciò Padova
probabilmente per la cappella pontificia. 65 Per un anno esercitò il magistero Giovanni Marescalli (1491-92), ma il compositore e maestro più famoso in questo scorcio di secolo fu
indubiamente “Crispinus” (Crispin van Stappen); eletto maestro il 7 ottobre 1492, si recò subito a Roma per tornare a
Padova nel 1498 e solo per un anno; di lui va ricordato lo
strambotto Vale, vale di Padoa o santo coro, ossia il commosso saluto lasciato alla città. 66 Durante gli interstizi delle
assenze di Crispino, ressero il coro Nicasio Miloth di Cambrai
e il veronese Pellegrino Cesena (1495-97), del quale Petrucci
stampò non meno di dieci composizioni frottolistiche. Maestro
supplente e cantore alla fine del secolo fu un non meglio identificato Giovan Domenico, al quale successe nei primi anni del
Cinquecento una personalità sulla quale torneremo più oltre:
Ruffino Bartolucci di Assissi.
I legami tra Padova e Vicenza sono assicurati dal fatto che
i vescovi di origine veneziana si limitano a qualche breve visita alla sede vicentina e vivono con il seguito dei loro cappellani prevalentemente a Padova. Per una casualità inaspettata
siamo a conoscenza dei famigliari del vescovo vicentino
Pietro Emiliani, fortemente interessato a raccogliere e a far
copiare, a Vicenza e a Padova, nuove musiche in alcuni fascicoli dell’attuale codice Q15, dei quali si è servita la collega
Margaret Bent per ricostruire il processo di formazione del
manoscritto. 67 Tra i cappellani dell’Emiliani c’era anche quel
Bartolomeo Rossi da Carpi, che lasciò in eredità al capitolo
vicentino un manoscritto contenente tra le monodie liturgiche
pure un fascicoletto anonimo con le lamentazioni per il triduo
pasquale. 68 In Q15 sono riportate opere scritte per la diocesi
di Vicenza, tra le quali troviamo il mottetto Excelsa civitas
Vincencia 69 di Bertrand Feragut, la cui datazione oscilla, a
65 Per i problemi relativi all’identità del Rinaldo padovano si veda K.
Jeppesen, La frottola (I), København, 1968 (Acta Jutlandica – XL: 2), p. 162.
66 Cfr. B. Haggh, Crispijne and Abertijne: Two Tenors at the Church of St
Niklaas, Brussels, “Music & Letters”, 76, 1995, pp. 325-344.
67 M. Bent, A contemporary Perception cit.
68 M. Bent, Pietro Emiliani’s Chaplain Bartolomeo Rossi da Carpi and the
Lamentations of Johannes de Quadris in Vicenza, “Il Saggiatore Musicale”,
II, 1995/2, pp. 5-16.
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secondo dell’interpretazione degli studiosi tra la data di
ingresso del vescovo Pietro Emiliani (1409) e quella del suo
successore Francesco Malipiero (1433). Non è certo che l’autore del mottetto sia stato a Vicenza dove manca ogni documentazione sul suo conto. Diverso è il caso di Matheus de
Brixia: sappiamo con certezza che fu canonico della cattedrale dal 1412 al 1419 e che compose il mottetto Ihesus postquam monstraverat trádito in Q15. 70
A Treviso il primo maestro straniero (Nicolaus Frangens o
Frages) di Liegi, giunse da Cividale del Friuli nel 1411 ma,
appena dopo un anno se ne andò a Chioggia per ritornare a
Cividale, dove morì nel 1433. Nel 1420 due preti francesi
Egidio e Giovanni (Zannino) ne presero il posto e vi rimasero
fino al 1424 e 1432. Quindi si susseguirono Zanfranciscus de
Francia (1422-24); Iohannes de Leodio (1425-27) e Giorgio de
Flandria, divenuto poi cantore del papa Eugenio IV. Nel 1426
arrivò Randulfus (o Rodulfus) de Roma e vi rimase fino al
1463; di lui il codice ora conservato ad Oxford (Bodleian
Library, can. misc. 213) ci trasmette la ballata Perche la vista.
Anche Pietro Rosso (Rubeus) fu presente a Treviso dal 1418
al 1448-49, 71 dove sono attivi dal 1437 al 1439 anche un
Raynaldus tenorista (del quale non conosciamo i rapporti con
l’omonimo cantore di Padova) e Nicolaus de Traconibus tenorista da Capua, che non sappiamo se coincida con l’autore del
noto trattato. Nel 1437 Eugenio IV provvide a devolvere parte
delle rendite di un ospedale cittadino al mantenimento e all’istruzione di dodici chierici trevisani, a seguito della richiesta
del vescovo Ludovico Barbo, una vecchia conoscenza dai
tempi di San Giorgio in Alga. Dopo la presenza di Iohannes
Brit(h) (1448-49), finito poi a Mantova nel 1460 e a Udine nel
1474, la cappella trevisana ebbe dal 1463 in Gerardo da Lisa
(Gand) un cantore famoso anche per la sua cultura umanistica e per aver introdotto a Treviso e nel Friuli l’arte tipografica;
stampò tuttavia un’unica opera di interesse musicale: il volu69 Ch. van den Borren, Polyphonia sacra: Continental Miscellany of the
Fifteenth Century, Burnham Bucks, 1970 2 , pp. 249-52; Gallo-Mantese,
Ricerche cit., pp. 69-72.
70 Trascr. ivi, pp. 23-27. È notevole quanto egli scrive nel suo testamento,
dove afferma di lasciare “meam musicam et librum de cantu”, anche se sulla
natura di tali lasciti è difficile pronunciarsi.
71 Di lui rimangono quattro composizioni nei codici Q15 e Ox 213. Sulla sua
identità si veda G. Cattin, Formazione e attività delle cappelle polifoniche
nelle cattedrali cit., pp. 267-296: 283.
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me Terminorum musicae diffinitorium di Iohannes Tinctoris. A
Treviso si fermò in due periodi: dal 1473 al 1476 e dal 1488 al
1496, per morire ad Aquileia nel 1499. Dopo la partenza di
Gerardo venne Zanin Bisan (ca. 1474-1554), del quale
Petrucci stampò la frottola O dispietato tempo nel suo Libro
settimo (1507). Gli successe un altro personaggio illustre:
Francesco patavino o Santacroce (1478-1556).
Mons. Giovanni D’Alessi ebbe il merito d’illustrare precocemente l’importanza della tradizione polifonica nella cattedrale
di Treviso 72 . Oggi non solo è in corso, con la prospettiva di
buoni frutti, il recupero dei resti dei manoscritti solo parzialmente bruciati a séguito del bombardamento del 1944 73 , ma si
è pure attivato o riacceso l’interesse per la storia della fase
monodica nella liturgia trevisana. Fortunatamente, alla mancanza di documenti diretti (sono i libri liturgici ampiamente
presenti negli inventari editi da Angelo Campagner 74 ) supplisce in modo soddisfacente l’Ordinarium che il mansionario
Clemens a Stadiis (Clemente dalle Stazze) ha compilato sì in
epoca molto tarda (1524), ma rifacendosi ai precedenti libri
corali del duomo e, in ogni caso, prima dell’adozione dei libri
post-tridentini. Se si detraggono le incrostazioni che via via si
sono aggiunte al repertorio primitivo e delle quali è facile stabilire la cronologia, ci troviamo di fronte alla splendida testimonianza d’una nuova variante della liturgia romano-franca,
che viene a collocarsi a lato di quella marciana e di quella
padovana. Ovviamente non possiamo che offrire qualche rapidissimo cenno: ad esempio, l’introito della messa per la prima
domenica di Avvento è preceduto dal tropo Sanctissimus namque Gregorius 75 . Questa è già un’informazione preziosa: nessuno degli specialisti del settore fino ad oggi sapeva dell’esecuzione di tropi a Treviso; per il caso specifico posso aggiun-
72 G IOVANNI D’A LESSI , I manoscritti musicali del sec. XVI del Duomo di
Treviso, “Acta Musicologica”, III, 1931, pp. 148-155; I D ., La Cappella musicale del Duomo di Treviso, Vedelago, Ars et religio, 1954.
73 Cfr. B. J. Blackburn, Music for Treviso Cathedral in the Late Sixteeenth
Century. A Reconstruction of the Lost Manuscripts 29 and 30, London, 1987;
si veda anche il volume di D. Bryant- M. Pozzobon, Musica devozione città.
La Scuola di Santa Maria dei Battuti (e un suo manoscritto musicale) nella
Treviso del Rinascimento, Treviso, 1995, che completa il recupero del ms.
29 gravemente danneggiato nell’incendio seguito al bombardamento del 7
aprile 1944.
74 A. Campagner, Cronaca capitolare. I canonici della Cattedrale di Treviso,
Treviso, 1991,1, pp. 83-90; a p. 84 sono menzionati “dodici quaderni per il
canto nelle processioni in Chiesa”, ossia 12 processionali.
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gere che il tropo citato non era cantato nel Patriarcato, né a
San Marco, né a Padova; c’era tuttavia a Verona. La mia speranza di trovare qualche espressione corrispondente al verbo
“secundare” di Padova sembra delusa. Vediamo un altro esempio, concernente in questo caso l’ufficio: nella domenica IV di
Avvento si leggeva il sermone dello pseudo-Agostino (in realtà
del vescovo Quodvultdeus) Vos inquam convenio, o Iudei, che
convoca a un certo punto anche la Sibilla perché testimoni la
venuta di Cristo. Il mansionario Clemente scrive:
“Nota quod antequam finiatur VI a lectio, cum ipse lector pervenerit ad locum ubi dicit “Audite hic quid dixerit”,
tunc cantores canunt versus Iudicii signum [e poi l’aggiunta soprascritta: “cum stantiis que sunt (?) in fine predicti omeliarii”]. Et cum finiti fuerint omnes predicti versus, tunc idem lector prosequitur totam lectionem”.
Ebbene, quel sermone, sia pure in giorni diversi, era letto ad
Aquileia; l’omeliario di San Marco introduce addirittura la musica che era intonata a Venezia; a Padova l’esecuzione era affidata a una complessa alternanza tra gruppi di esecutori e tutto
il coro rispondeva sempre con il ritornello Iudicii signum, terra
sudore madescit, e precisa “secundando”, ossia a due voci. Per
ora il panorama veneto si chiude con la testimonianza trevisana. Una particolarità che nella nostra regione sembra appartenere solo a Treviso appare l’abitudine di farcire con interpolazieni le letture del Mattutino di Natale; inoltre nel nono responsorio dello stesso Mattutino si cantava il versetto Quem ethera
et terra, che è una delle notissime prose testimoniate a
Cividale del Friuli e a Padova a due voci 76 . Sarà stato davvero
diversamente a Treviso?
Tutti sanno che la Biblioteca Capitolare di Verona è uno dei
più preziosi scrigni librari d’Italia. Per quanto ci concerne, essa
contiene stratificazioni di materiale cronologicamente assai dif-
75 Su questo prologo all’Antifonario si veda Tropes du Propre de la messe. I:
Cycle de Noél, ed. Ritva Jonsson, Stockholm, 1975 (Corpus Troporum, 1), p.
195, dove si constata ch’esso è presente in poche fonti dell’Italia settentrionale (Verona CVII, manoscritti di Nonantola; e, più a sud, nel Graduale della
Biblioteca capitolare di Pistola, cod. 121).
76 Cfr. Le polifonie primitive di Cividale, a cura di P. Petrobelli, Cividale del
Friuli, 1980 (ed. in occasione del Congresso internazionale “Le polifonie primitive in Friuli e in Europa”, Cividale 22-24 agosto 1980), pp. 34-37.
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ferenziato: per alcuni periodi essa è incredibilmente ricca, per
altri non è per nulla utile. Purtroppo, il Quattrocento, in contrasto con la vivacità del panorama musicale trecentesco, è
uno dei periodi piuttosto poveri. Enrico Paganuzzi, benemerito studioso veronese, 77 non ha potuto per questo secolo che
approfondire due argomenti: la fondazione presso la cattedrale della scuola degli Accoliti e la formazione d’una societas tra
suonatori di fiati.
Troppo importante, e non solo per Verona, la scuola degli
Accoliti per non rammentare che la sua fondazione ebbe un
iter tormentato da equivoci e fraintendimenti che costrinsero il
papa Eugenio IV a intervenire con un nuovo documento nel
settembre 1442, dopo la bolla istitutiva del 15 agosto 1440. Ci
vollero decenni prima che il vescovo e il capitolo da una parte
e le autorità civili dall’altra convergessero nell’attuazione di
quello che, in fondo, era un traguardo comune: creare uno
strumento che fornisse a dei giovani la formazione letteraria e
musicale idonea ad assicurare un decoroso servizio liturgico
nella cattedrale. Il lungo processo preparatorio fu completo
soltanto dal 1480, anno nel quale un elenco di beneficiati della
cattedrale registra: quarantadue accoliti; il loro praeceptor
Iacobus Lunensis (maestro di grammatica); il prete Hilarius
cantor e l’organista frate Luchesius. Tuttavia lo statuto fu
approvato soltanto nel 1495 e nel 1500 il regolamento applicativo. Si deve in ogni caso riconoscere che tante discussioni e incertezze furono seguite da esiti eccezionalmente positivi. Basterà ricordare quale titolo di merito fosse per gli allievi
la dimostrazione di aver frequentato quella scuola: in una
parola, l’intera nuova classe di compositori del secondo
Quattrocento veronese uscì da quell’esperienza. Tra le figure
dei maestri è da ricordare la probabile collaborazione di
Franchino Gaffurio, che rimase a Verona per un biennio dai
primi mesi del 1476; il suo insegnamento agli Accoliti tuttavia
è solo ipotetico, poiché non è pervenuta una esplicita documentazione al riguardo. Certissima invece fu l’attività di Biagio
Rossetti, autore d’un apprezzato Libellus de rudimentis musices, nel quale sono recepite varie norme di natura liturgicopastorale approvate in seguito dal Concilio di Trento, ma che
il vescovo veronese Giberti aveva avuto il merito di anticipare;
77 AA. VV., La musica a Verona, Verona, Cassa di Risparmio, 1976;
Paganuzzi ha curato i cinque capitoli dedicati al Medioevo e Rinascimento,
pp. 3-215.
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il Rossetti fu organista a lungo, a partire dal 1495. Sul piano
dei risultati musicali, si deve ricordare anche l’importante
ruolo giocato dalla Scuola nella formazione di compositori attivi anche in campo profano e sui quali torneremo quando
accenneremo alla produzione frottolistica. Collegate con l’insegnamento impartito nella scuola sono anche le importanti
antologie di polifonia liturgica appartenente a noti compositori
franco-fiamminghi; non è certo che siano stati confezionate
all’interno della scuola, ma di sicuro vi furono usate, poiché un
codice conserva due esempi di Salve regina firmati da
Marchetto Cara e Giovanni Brocco. 78 Fra l’altro, tali codici
documentano il passaggio dall’assetto a tre voci (cod.
DCCLIX) a quello orami prevalente delle quattro parti (codd.
DCCLVIII-DCCLX).
La seconda vicenda studiata da Paganuzzi (il consortium
tibicinum) svela una pagina viva di storia locale e la nascita di
uno spirito di corpo negli strumentisti con relativi diritti da pretendere. In tema di strumenti, va menzionata l’attività di una
scuola organaria da parte di laici ampiamente riconosciuta
anche fuori Verona. 79
Il 1420 segna il passaggio sotto il governo della Serenissima
dei centri friulani, ma sotto il profilo dei rapporti culturali con
le città venete la data è semplicemente una conferma di una
realtà da molto tempo esistente. La storia della cappella musicale del duomo di Udine fu studiata da Vale che, tra le altre
notizie, ricorda l’assunzione nel 1395 di pre Domenico da
Buttrio a condizione che egli imparasse “ad tenendum tenorem”, da intendere forse come esecutore della vox principalis
nelle esecuzioni polivocali di cui si è parlato sopra. 80 La cappella era costituita da non pochi compositori, come il maestro
Nicolao de Capua (del quale si ricordano anche i controtenori
da lui aggiunti ad opere polifoniche originariamente a due
voci), Cristophorus de Monte (un Credo nel codice monacen78 Le hanno edite S. Zanus Fortes e S. Bussolin, Bologna, Ut Orpheus,
1999. Ad opera di questi due giovani studiosi sono usciti tre altri fascicoli di
brani liturgici trascritti dal cod. 759, sempre presso l’editrice Ut Orpheus,
Bologna, 1999: Messe di Tinctoris, Martini e Barbingant; e ancora un volume miscellaneo è in stampa presso la stessa casa editrice. Inoltre si veda:
Raccolta di musiche corali del 1400 per 4 voci miste, Milano, Ed. Curci,
1998 (Frye, Despres, Brumel, Agricola, Compère, van Werbecke, ecc.).
79 L. Rognini, Organi e organari a Verona, in La musica a Verona cit. pp.
430-32.
80 G. Vale, La cappella musicale del duomo di Udine, “Note d’archivio per la
storia musicale”, VII, 1930, p. 88.
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se Bayerische Staatsbibliothek, Mus. 3224), pre Natale (ci ha
lasciato un Gloria in Q15), il già noto Giovanni Brit e, infine, il
citato maestro Gerardo da Lisa (1488), al cui magistero seguì
un periodo di decadenza concluso nel 1531 dall’arrivo di
Francesco Santacroce.
Ad altri centri minori del Friuli Giuseppe Vale dedicò numerosi contributi ancor oggi indispensabili per la conoscenza
della storia musicale friulana; 81 anche Gilberto Pressacco,
precocemente scomparso, ha lavorato intensamente e con criteri innovativi su una vasta gamma di temi relativi alle origini
cristiane della musica in Friuli e alle tradizioni popolari religiose e profane. 82 Cividale fu nel Quattrocento sede di uno
sfortunato concilio (1409) la cui traccia rimane forse nei fogli
contenenti composizioni polifoniche (tra le quali figurano i
nomi di Antonio Zàcara da Teramo e del frate domenicano
Antonius de Civitate ) del Museo Archeologico Nazionale. 83
Nel panorama dei compositori veneto-friulani del tardo
Quattrocento non può essere dimenticata l’opera di Pietro
Capretto (umanisticamente Edo) da Gemona, cappellano della
locale fraternita dei Battuti, al quale dobbiamo numerosi testi
umanistici (compresi due trattati di teoria musicale non pervenuti) e compositore d’una dozzina di laude, in maggior parte
traduzioni di testi liturgici latini. 84
E finalmente qualche cenno sulla vita musicale a Venezia.
Non entro di proposito sulla storia della musica liturgica a S.
Marco dove continuò l’antica tradizione veneziana, interrotta
per le altre chiese della città nel 1456, quando fu concesso
l’uso del rito romano . 85
81 Ricordiamo in particolare G. Vale, Vita musicale nella chiesa metropolitana di Aquileia (343-1751), “Note d’archivio per la storia musicale”, IX,
1932, passim.
82 Tra i numerosi contributi di Gilberto Pressacco rinvio a La musica nel
Friuli storico, in Enciclopedia monografica del Friuli-Venezia Giulia, III parte
IV, Udine, 1983, pp. 1947-2042, con abbondante bibliografia sulla storia
musicale sacra e profana della regione. Lo stesso testo ricompare ora in
L’arc di San Marc, I, 1978-1985, Pordenone, ed. Biblioteca dell’Immagine,
2002, pp. 47-228, primo dei volumi dedicati ai suoi opera omnia in corso di
stampa.
83 P. Petrobelli, Nuovo materiale polifonico del Medioevo e del
Rinascimento a Cividale, “Memorie storiche forogiuliesi”, XLV, 1962-63.
84 G. Cattin, La lauda in ambiente veneto e le composizioni di Pietro
Capretto, in La letteratura, la rappresentazione, la musica al tempo e nei
luoghi di Giorgione, a cura di M. Muraro, Roma, Jouvence, 1987, pp. 245257; Id. I testi delle laude di Pietro Edo e un inedito musicale, in Il
Quattrocento nel Friuli Occidentale, Pordenone, ed. della Provincia, st.
Biblioteca dell’immagine, I, 1993, pp. 167-190.
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Se per il Trecento si hanno notizie soltanto sugli organisti
della basilica (ricordiamo Mistro Zucchetto dal 1316), la cui
serie continuerà per tutto il secolo successivo contando nomi
come quello di Francesco D’Ana (20 agosto 1490-1502/03),
primo compositore tra gli organisti di S. Marco e del quale
possediamo 20 composizioni profane e una Passio sacra a 4
voci, su testo non biblico, stampati da Petrucci nei primi anni
del 1500, rispettivamente nei libri di frottole sotto la sigla F.V.
(Franciscus
Varoter,
ossia
il
pellicciaio)
e
nelle
Lamentationum Ieremiae prophetae. Liber primus.
L’alba del secolo XV si aprì con la delibera del governo
veneziano (18 giugno 1403) di istituire una scuola di canto per
“octo pueri veneti originarii diaconi” che sarebbero stati istruiti dai cantori della basilica. La motivazione del decreto è interessante perché esprime la consapevolezza del prestigio che
sarebbe venuto alla Serenissima (“quia cedit ad honorem et
famam nostri dominii”) dalla presenza di “boni cantores” nella
“principalior ecclesia” di Venezia.
Tra i primi magistri cantus è da ricordare Antonius de Roma,
citato in un documento del 1420, al quale le fonti riconoscono
la paternità sia di mottetti celebrativi in onore dei dogi
Tommaso Mocenigo (7 gennaio 1414), Francesco Foscari (4
aprile 1423), e per la visita a Venezia di Gian Francesco
Gonzaga signore di Mantova, sia di sezioni polifoniche di
messa (due Gloria e un Credo). 86 Dopo di lui, fino a non molti
anni fa, gli unici nomi di musicisti attivi a S. Marco erano quello di Albertus Francigena, assunto nel 1485 “in magistrum
puerorum nostrorum” e quello di Petrus de Fossis, eletto
magister cantus nel 1491 e attivo fino al 1527 quando gli successe Willaert.
Johannes de Quadris
Con riferimento al lungo periodo di silenzio, erano di imbarazzo le date apposte ad alcune composizioni del codice di
85 Per la storia generale della cappella musicale marciana cfr. F. Caffi,
Storia della già cappella ducale di San Marco in Venezia dal 1318 al 1797,
2 voll., Venezia, 1854-55 e successive ristampe; sulla musica liturgica particolare della basilica, si vedano G. Cattin e coll., Musica e liturgia a S.
Marco, 4 voll., Roma, Fondazione Levi, Torre d’Orfeo, 1990-92.
86 Le sue opere sono raccolte a cura di F. A. Gallo, Antonii Romani Opera,
Bologna, AMIS, 1965; l’edizione moderna a cura di G. Reany, Early
Fifteenth-Century Music, VI, CMM, 1977, pp. 149-84
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Oxford (Can. misc. 213); tra queste vi era l’assegnazione al
1436 di un Magnificat composto, o copiato, a Venezia dal presbiter Johannes de Quatris. L’incertezza fu risolta quando nei
Registra Supplicationum dell’Archivio Segreto Vaticano, 87 in
data 1450, il prete Johannes de Quadris si autodefiniva “musicus et cantor diu in ecclesia Santi Marci de Veneciis”. Il
Magnificat con la sua indicazione temporale (“1436, nel mese
di Maggio, in Venezia”), e il fortunato ritrovamento vaticano,
confermarono che il suo lungo servizio a San Marco doveva
essere durato non meno di due decenni, almeno fino al 1456,
ultima data leggibile nei Registra vaticani.
Che un prete, quale egli era, proveniente da una diocesi
dall’Italia centro-meridionale (Valva-Sulmona) fosse presente
a Venezia, tra i secoli XIV e XV, non può essere motivo di
meraviglia poiché un’ampia documentazione attesta la consistente presenza nelle Venezie di chierici (probabilmente
attratti dall’Università di Padova) e preti che partivano dalle
diocesi meridionali alla ricerca di possibilità di incardinazione
tra il clero prebendato del Nord.
L’opera musicale di de Quadris, il cui nome compare solo in
due fonti musicali cronologicamente lontane: Oxord 213 e la
stampa petrucciana del 1506 1 , attirò, pur nella sua ridotta
dimensione, l’attenzione di studiosi che vi individuarono tratti
d’una significativa diversità stilistica. Da una parte brani,
come il Magnificat e il mottetto Gaudeat ecclesia, che sono
riconducibili allo stile del periodo immediatamente successivo
all’attività dei compositori della cosiddetta Ars subtilior (ca.
1390-1430), le cui opere figurano nei manoscritti redatti nel
primo quarto del Quattrocento (tra essi figura il già nominato
Q 15 del Civico Museo Bibliografico di Bologna). 88 Dall’altra le
‘Lamentazioni’, costruite secondo una forma strofica, nella
quale lo schema è costantemente ripetuto, pur adattandosi
alle dimensioni del versetto biblico come un recitativo liturgico. Esse apparvero nella citata stampa petrucciana e solo il
ritrovamento di un manoscritto a Vicenza (VIs U VIII 11), presumibilmente lasciato al Capitolo della cattedrale da
87 L. Lütteken, “Musicus et cantor diu in ecclesia Sancti Marci de Veneciis”:
note biografiche su Johannes de Quadris, “Rassegna veneta di studi musicali”, V-VI, 1989-90, pp. 43-62
88 Il Magnificat è anche uno degli arcaici esempi polifonici e forse il primo
a 4 voci), rivela vari trattamenti compositivi del cantus firmus che appartiene al 3° tono salmodico. La struttura prevede l’esecuzione alternatim (sono
in polifonia solo i versetti pari).
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Bartolomeo Rossi da Carpi, cappellano del vescovo Pietro
Emiliani, ha permesso di ricondurle agli anni ’30 del secolo. 89
Gli altri lavori per la Passione, la Processio in die Veneris
Sancti 90 e, specialmente, il planctus: Cum autem venissem,
riprendono strettamente lo stile delle Lamentazioni.
De Quadris è certamente compositore colto, di cultura musicale in buona parte di matrice franco-fiamminga, come le composizioni a 3 e a 4 voci dimostrano. Tuttavia la sua origine ed
educazione musicale italica è rivelata dallo stile delle ultime
composizioni citate. Sono opere a due voci che raggiungono
nelle Lamentationes la prova più alta: ne è indizio significativo l’ampia diffusione geografica e la persistenza nell’uso,
come dimostrano i libri fiorentini di Santa Maria del Fiore (processionale Fd 21) e dell’Ospedale di S. Maria Nova (Fn
II.I.350 = Magl. XXXVI.113). 91 Le intonazioni delle lamentazioni furono sostituite nell’uso liturgico a San Marco di Venezia
solo da quelle di Giovanni Croce pubblicate nel 1603 e
1610; 92 mentre i testi della Processio – derivati dai Battuti
della Fraternita di S. Stefano in Assisi (sec. XIV) – ebbero
nuove intonazioni fino agli inizi del secolo XVII dai composito89 G. Cattin, Johannes de Quadris musico del secolo XV, “Quadrivium”, X/2,
1969, pp. 5-47 (ristampato in ‘Biblioteca di “Quadrivium”, serie
Musicologica’, 12, Bologna, Forni, 1971); Id., Uno sconosciuto codice quattrocentesco dell’Archivio Capitolare di Vicenza e le Lamentazioni di
Johannes de Quadris, in L’Ars Nova italiana del Trecento, Atti del II
Convegno di Studi 1969, Certaldo, 1970 (L’Ars Nova italiana del Trecento,
III); M. Bent, Pietro Emiliani’s Chaplain Bartolomeo Rossi da Carpi cit., pp.
5-16. L’edizione delle opere è in G. Cattin, Johannis de Quadris Opera,
Bologna, A.M.I.S., 1972 (Antiquae Musicae Italicae Monumenta Veneta
Sacra, 2).
90 Nel “Primo libro delle Lamentazioni” stampato da Ottaviano Petrucci nel
1506, si trova attribuita al ‘presbyter Johannes de Quadris’ tutta la
Processio in die veneris sancti, che appare anonima e in notazione bianca,
anche nel Processionale padovano C 56.
91 G. Cattin, Un processionale fiorentino per la settimana santa: studio liturgico-musicale sul MS. 21 dell’Opera di S. Maria del Fiore, Bologna, 1975,
pp. 80 ss.; Id. Testi melici e organizzazione rituale nella processione fiorentina di “depositio” secondo il manoscritto 21 dell’Opera di S. Maria del Fiore,
in Dimensioni drammatiche della liturgia medioevale, Atti del convegno di
studio, Viterbo, 31 maggio-2 giugno 1976, Roma, Bulzoni, 1977, pp. 243265. La fonte di S. Maria del Fiore contiene una versione adattata della
Processio in die Veneris Sancti; il ms. magliabechiano reca l’intera serie
delle lamentazioni.
92 J. Bettley, “La composizione lacrimosa”: Musical Style and Text Selection
in North-Italian Lamentations Settings in the Second Half of the Sixteenth
Century, “Journal of the Royal Musical Association”, CXVIII, 1993, pp. 167202: 193-4; Id., The Office of Holy Week at St Mark’s Venice, in the Late
16th Century, and the Musical Contributions of Giovanni Croce, “Early
Music”, XXII, 1994, pp. 45-60.
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ri veneti quali Matteo Asola, o l’ancora sconosciuto “Don
Dominico Borgo Veronese” (Venezia, A. Vincenti, 1622). 93 Il
lamento della Vergine sotto la croce Cum autem venissem
divenne il più diffuso nel secondo ’400 in Italia e in alcuni
paesi d’Europa. La presenza del lamentum e della Processio
nel manoscritto padovano Ps 359, attesta che tali musiche
erano in uso anche presso i Canonici regolari di S. Giorgio in
Alga che le importarono a Padova, dove avevano sede nel
monastero di S. Maria in Vanzo. Con la sua duplicità di atteggiamenti, l’uno di esplicita derivazione franco-fiamminga, l’altro in continuità e perfezionamento dei modelli italiani derivati dalla pratica improvvisatoria 94 Johannes de Quadris si pone
come elemento di cerniera tra due diverse concezioni e pratiche polifoniche. L’ultima pratica, quella di gusto italiano, continuerà a lungo anche dopo di lui e riaffiora, accresciuta nel
suo organico delle quattro voci, nella scrittura della lauda e
del repertorio profano fino all’affermazione del madrigale. Il
nome di de Quadris emerge non solo per la scarsità dei maestri di cui abbiamo notizia, ma per l’originalità e per il continuato apprezzamento della sua opera, in un’epoca come il
Cinquecento, nella quale si dà ancora valore alla produzione
del presente e al massimo si ricorda l’opera della generazione immediatamente precedente.
La lauda polifonica
Tra i rimatori veneziani quattrocenteschi spicca fortemente
il nome del patrizio Leonardo Giustinian (ca. 1383 - + 10
novembre 1446). Poeta, umanista e uomo di stato, egli fu
autore di canzonette a soggetto amoroso, strambotti e laude
che andarono a stampa a partire dal 1472. Proprio quest’ultimo genere di poesia devozionale trovò a Venezia un terreno
particolarmente ricettivo e fu coltivato soprattutto a partire dal
Quattrocento nelle fraternite, nelle scuole (tipica istituzione
veneziana di devozione ed educazione) e negli ambienti conventuali. Una delle più cospicue testimonianze musicali è il
codice di provenienza francescana oggi nella Biblioteca
Nazionale Marciana, Ital. IX, 145, attribuibile alla metà circa
del secolo. 95 Esso consta di due parti di disuguale origine e
93 D. C AVALLARIN , Giovanni Croce Chiozotto. Devottissime lamentationi et
improperii (1603). Magnificat omnium tonorum (1605), diss. di laurea, a.a.
2001-2002, Univ. di Padova, pp. 110-112
94 G. Cattin, “Secundare” e “succinere” cit., passim.
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valore: entrambe contengono brani liturgici anonimi in notazione nera a due e tre voci; l’anonimato è infranto soltanto dall’attribuzione di alcuni inni a Binchoys e Benoyt. Le laude sono
numerose e quasi tutte e due voci, in notazione perfettamente
mensurale e di buona fattura nella prima parte; mentre nella
seconda sono in partitura, con le due voci distinte dal colore
rosso e nero, in una notazione solo imperfettamente mensurale. La quantità di codici laudistici compilati nel ’400-’500 e
conservati nelle biblioteche venete è assai alta, ma le melodie
trádite sono pochissime. 96 Bisogna attendere i due libri di
laude stampati da Petrucci nel 1508 per trovare ampia messe
di melodie, che già rinviano dal punto di vista morfologico, alla
letteratura melica profana della quale diremo subito appresso.
È noto che il primo dei due libri riserva un problema di datazione (la data è posteriore a quella del libro secondo) che può
essere risolto in vario modo, ma probabilmente si tratta dell’unica copia a noi pervenuta d’una ristampa della prima edizione del tutto scomparsa. Ma vi sono anche altre particolarità
che distinguono questo volume: tutte le laude sono musicate
da un medesimo autore, Innocentius Dammonis, Canonico
regolare di San Salvatore in Venezia, che lo dedica al suo
superiore. Il nome Dammonis è forse una scelta d’arte e
nasconde una persona di difficile identificazione, che sapeva
comporre con diversità di scritture polifoniche. La candidatura
più probabile è quella di un fra Innocenzo da Isola (Vicentina)
ed è stata proposta da Francesco Luisi. 97 Nel secondo volume
appaiono invece più compositori, parecchi dei quali figurano
anche nei libri petrucciani di frottole.
Prima di toccare quest’ultimo argomento, merita un cenno il
contenuto d’un codicetto conservato nella biblioteca veneziana di S. Maria della Consolazione, più comunemente detta
della Fava, che fu la chiesa officiata per secoli dai padri
95 G. Cattin, Il manoscritto venet. Marc. Ital. Ix, 145, “Quadrivium”, IV, 1960,
pp. 1-61.
96 Per un’ampia antologia delle laude attribuibili alla cerchia e al seguito
del Giustinian, Cfr. F. Luisi, Il laudario giustinianeo, 2 voll., Venezia,
Fondazione Levi, 1983.
97 Le motivazioni di tale candidatura sono esposte nella introduzione dettata da Luisi per l’edizione anastatica del volume di Dammonis, con la quale
si è voluto celebrare il cinquecentesimo anniversario della prima stampa
d’un intero volume di musiche polifoniche (Harmonice Musices Odhecaton
A, Venezia, Ottaviano Petrucci, 1501); cfr. Innocentius Dammonis, Laude
Libro Primo, Venezia, rist.anast., Fondazione Levi 2001.
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Filippini, i quali vi raccolsero una ragguardevole quantità di
partiture di oratorii. 98 Il contenuto del codice Lit. 4 della Fava
risalente al Tre- Quattrocento è miscellaneo (vi sono addirittura pagine con neumi di tipo sangallese) e le mani sono
numerose, ma spicca per la sua novità una diversa versione
(purtroppo incompleta) del celebre planctus Mariae conservato nel ms. CI di Cividale del Friuli. La scoperta permette di
disegnare una diversa mappa dei drammi sacri nell’area veneto-friulana e aiuta a capire meglio l’origine e il carattere del
planctus cividalese 99 e conferma che Padova fu il riconoscibile centro d’irradiazione di alcuni testi drammatici che si spinsero fino ad Aquileia e a Cividale. Lo provano sia l’ufficio
drammatico per la festa dell’Annunciazione (25 marzo), sia, in
modo particolare, il citato planctus per il venerdì santo, che
deriva dalla sequenza nordica Flete, fideles anime. 100 Si
hanno buone ragioni per ritenere che questo lamento giunse
a Padova dal nord della Francia e molto presto fu inserito nei
libri padovani come parte integrante dei riti del venerdì
santo 101 . Ora il manoscritto della Fava non solo reca una versione tardo duecentesca del pianto Flete, fideles anime con
rubriche simili a quelle di Cividale (vorrei ricordare solo la
potenza dell’ultima scena, nella quale la didascalia prescrive
a Maria: hic se proiciat in pavimentum), ma attesta altresì una
versione parallela a quella del grande pianto cividalese, nella
quale lo stesso materiale dialogico è disposto secondo una
diversa successione degli interventi. Questo fatto impone di
forza l’ipotesi che la versione di Cividale e quella della Fava
dipendano da un antigrafo comune e che i redattori di Cividale
siano copiosamente intervenuti sul loro testo con raschiature
98 Cfr. C. Bacchi, Il fondo musicale della chiesa di S. Maria della
Consolazione di Venezia, Venezia, Fondazione Levi, 2002.
99 G. Cattin, Tra Padova e Cividale cit., pp. 7-112; per le melodie si può
vedere l’opuscolo edito dalla Sezione-musica della Biennale di Venezia e
dalla Fondazione Levi, Il pianto della Madonna e la visita delle Marie al
sepolcro, a cura di G. Cattin, Venezia, 1994.
100 Per l’ufficio drammatico dell’Annunciazione basti dire che nella città
venete esso ebbe piena cittadinanza: si identifica con le due processioni
descritte da Martin da Canal nelle Estoires de Venise per l’anno 1267; a
Treviso la locale Scuola di Santa Maria dei Battuti vi si preparava di anno
in anno (come hanno documentato Pesce, Bryant e Pozzobon); a Vicenza
si ripetè fino agli inizi dell’Ottocento, dal momento che si conservano in
Archivio capitolare le musiche polifoniche dei maestri Grotto e Canneti.
101 Se ne veda la trascrizione dal Processionale della capitolare ms. C 56
a cura di G.Vecchi, Uffici drammatici padovani, Firenze, 1954 (“Biblioteca
dell’”Archivum Romanicum””, s. I, 41), pp. 214-219.
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e modifiche atte a rendere più scopertamente patetiche le
melodie (il caso più clamoroso concerne la ripetuta esclamazione della Vergine: Heu me, heu me, misera Maria che, a differenza del ms. della Fava, è spostato di altezza a seconda
dell’intensità emotiva). La conclusione più rilevante è che
nella zona veneto-friulana vi fu una intensa circolazione di
testi dialogati sul tema della passione di Cristo, la cui matrice
regionale è da ricercare in Padova; non abbiamo agio di sviluppare qui le prove di tale fioritura, ma tra i secoli XIV e XV
la produzione di questi drammi dialogati interessò le nostre
comunità e produsse esiti di corale partecipazione ricordati
dalle cronache di varie città.
La letteratura frottolistica; la “poesia cortigiana”
Un altro tema resta da affrontare e lo faremo nel modo più
rapido possibile. Si tratta della ripresa, in forme diverse, del
comporre da parte degli italiani. Le scuole hanno dato i loro
frutti, i musicisti stranieri nelle corti, nuove esigenze di teorici,
gusti imposti da personaggi come Isabella d’Este: tutto concorre a spingere verso la novità. Ed ecco la nascita delle composizioni cosiddette, per brevità, frottolistiche. Evito d’imboccare la strada dell’emulazione e della competizione: Mantova,
Ferrara, o Verona, Padova,Venezia. Guardo piuttosto alla
koiné che ne risulta: nuove forme poetiche, nuovi moduli esecutivi, nuovi temi. Se a Firenze sono i canti carnascialeschi a
imporsi secondo la forte tradizione locale, non molto diversi
sono i moduli compositivi che regolano i nuovi generi
dell’Italia settentrionale. 102 Vi sono dapprima i teorici delle
poetiche e delle forme poetiche; insieme nascono i contenitori musicali; e nascono liberi, nel senso che ogni forma di esecuzione è accolta ed apprezzata per quello che può dire ed
esprimere. Gli scambi sono intensi; i poeti veri, di vaglia, non
sono necessari; la lingua è quella d’uso abituale, appena resa
acconcia a formare il verso. Gli aspetti formali delle poesie
sono multipli; qui basti citare quella figlia della ballata, chiamata barzelletta dai letterati e frottola dai musicologi. Ma il
movimento creativo andava ben oltre la singola forma e, seminando per via esempi e stimoli, attraversò la penisola.
102 Una valida sintesi, informata sui vari aspetti del tema e con aggiornata
bibliografia è la voce firmata da Don Harrán (bibliografia con apporti di
James Chater) in New Grove 2 , 9, pp. 294-300.
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A testimonianza cito un caso clamoroso che non ammette
dubbi: la vicenda dello strambotto. Scodellato in due schemi
differenti, a seconda della sua nascita nel nord o del sud
d’Italia, esso pellegrina in città e regioni e si mescola e si riforma accettando apporti linguistici che non tornerebbero sul
conto inziale; ma le contaminazioni sono accolte, anzi gradite.
Basta aprire il famoso codice dell’Estense æ F.9.9 per averne
la prova: 103 a briglia sciolta, ossia senza un ordine precostituito, su un fondo meridionale s’innesta il processo di settentrionalizzazione; e, per converso, su una base settentrionale
si stendono lembi di meridione. I tratti linguistici parlano chiarissimo. Ho citato il genere degli strambotti, ma potevo parlare delle parallele forme poetiche che si vanno moltiplicando e
sono spesso destinate all’esecuzione musicale. Tra i compositori va ricordato il manipolo dei veronesi: Michele Pesenti,
Marco Cara, Bartolomeo Tromboncino, Brollo, 104 ma, seppure
meno folti, si possono elencare nomi di padovani e veneziani,
che sono contigui anche con il movimento detto della “poesia
cortigiana”, che toccò profondamente tutte le corti dal sud al
nord. Anche perché si ricollega al genere degli strambotti mi è
facile accennare a uno degli esponenti più celebri: Serafino
Aquilano, alla cui figura e opera sono stati dedicati numerosi
contributi.
L’edizione dei suoi strambotti nel 2002, curata con la consueta acribia da Antonio Rossi, si apre con alcune precisazioni interessanti gli aspetti esecutivi della sua produzione:
“Serafino Ciminelli dell’Aquila – scrive Rossi – ebbe, in vita
una fortuna insolita per un poeta volgare del secondo
Quattrocento, propiziata in buona parte dal fatto che egli cantava i propri testi accompagnandosi col liuto”; e aggiunge
citando un passo del biografo del poeta, l’umanista Angelo
Coloci: “Non componeva improviso, ancor che fusse di celere
ingegno, …” 105 È vero quello che scrive Rossi: luogo comune
della critica era che l’Aquilano fosse un improvvisatore; ma
103 Preceduta da un severo lavoro per sceverare i testi, l’edizione anche
musicale è in G. La Face Bianconi, Gli strambotti del codice estense æ
F.9.9, Firenze, Olschki, 1990.
104 Interessanti i legami tematici che hanno talora coinvolto questi e altri
musicisti; ad esempio, si veda G. Filocamo, Poesia e musica alle corti di
Mantova e Ferrara, 1: “Il ciclo dell’uccello”. Musiche di Marchetto cara,
Michele Pesenti, Baetolomeo Tromboncino, Bologna, Ed. Ut Orpheus, 2003
(Odhecaton, Musica vocale, 16); a questo fascicolo si aggiunga di L.
Boscolo, “Son passaro solitario tornato…” . Postscriptum al ciclo dell’uccello, “Musica e storia”, XI/2, 2003 (in stampa).
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qualcuno aveva già introdotto, sulla base di alcuni indizi pervenuti, che insieme con lui un contratenor cantasse una terza
voce. Siamo davvero ad una svolta: negli ultimi decenni del
Quattrocento Pietro Edo scriveva in Friuli le sue laude e
l’Aquilano era conteso dalle corti italiane perché cantasse
strambotti e ternari perfino a tre voci, dei quali aveva scritto la
partitura.
Per l’ambito profano dobbiamo veramente affermare che il
nuovo secolo avrebbe trovato nella penisola un altro mondo. Il
comportamento di Petrucci è signficativo: dapprima dedica le
sue edizioni ai nordici, poi, a partire dal 1504 fino al 1514 stampa undici libri di frottole. Sono anni di fervore creativo reale, di
cui Petrucci è testimone e depositario. Da parte degli studiosi
moderni il giudizio su tale patrimonio poetico-musicale è sempre stato assai cauto per non dire tendenzialmente negativo,
perché – si diceva – incapace di profonda espressione e quasi
sempre ripetittivo. Soltanto ora, dopo una più frequentata consuetudine esecutiva si vanno scoprendo, sotto l’apparente grigiore privo di pretese, varietà di atteggiamenti armonici e contrappuntistici che richiedono negli esecutori sottili doti di sensibilità interpretativa. 106
Il Cinquecento
Tutti sanno quali vertici abbia raggiunto la musica a Venezia
e nel Veneto in questo secolo (numero e fama di nomi gloriosi,
varietà dei generi, autonomia della scrittura musicale nel novero dei grandi centri musicali europei, ricchezza della musica
strumentale, nuove conquiste formali e timbriche, moltiplicazione dei centri di produzione, ecc.). Sarebbe perfetta incoscienza pretendere di dirne ora alcunché. D’altronde, poiché tale
secolo rientrava nel programma fissato, non vorrei passarlo del
tutto sotto silenzio. Per questo chiedo qualche minuto per
accennare a due eventi verificatisi nei primi decenni del secolo
XVI, il primo sul versante sacro, l’altro sul quello profano. Per
ambedue gli episodi le ricerche impostate ex novo in epoca
105 Cfr. Serafino Aquilano. Strambotti, ed. A. Rossi, Varese, Fondazione
Pietro Bembo-Ugo Guanda Ed. in Parma, 2002, p. IX (alle pp. LXVII-CXIX
tutta la bibliografia concernente l’Aquilano e la “poesia cortigiana”).
106 Dopo vari tentativi di riedizione in tempi moderni, alcuni volumi (11°, 8°
e il 9°) sono ora pubblicati dal Comitato per l’edizione e lo studio dei monumenti musicali veneti. Sarebbe impresa meritoria riuscire a completare in
veste moderna l’intero corpus dei libri petrucciani pervenuti.
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recente sono pervenute ad acquisizioni capaci di modificare
valutazioni storiche ormai accreditate e apparentemente
incrollabili.
Dalla frottola al madrigale
Nella storia della musica profana era ormai verità vulgata
che il genere frottolistico avesse gradualmente elevato il suo
stile musicale sotto la pressione degli avvenimenti letterari, in
primis la riforma linguistica imposta da Pietro Bembo (14701547) e dai suoi seguaci. Secondo questa concezione, formulata e sostenuta nella misura più completa da Alfred
Einstein, 107 il petrarchismo e altre spinte avrebbero elevato il
livello della scrittura musicale fino a quando nel ’30 sarebbe
uscita la prima stampa recante nel titolo la magica parola:
Madrigali de diversi musici: libro primo de la Serena, Roma
1530.
Recenti ricerche hanno posto in luce che l’approdo a quel
traguardo avvenne in modo molto diverso, forse meno apportatore di gloria per gli italici, tuttavia: magis amica veritas. In
breve: già durante il ventennio che precedette il ’30 il mondo
della composizione profana era in movimento: lo hanno dimostrato in un aureo libretto James Haar e Iain Fenlon 108 enumerando tutta una serie di manoscritti dove i prodromi al
madrigale emergevano chiari e la distanza dal mondo della
frottola diveniva incolmabile. Responsabili del mutamento
furono alcuni musici d’oltralpe che adeguarono la loro tecnica
compositiva ai testi italiani di tipo frottolistico o villottistico (mi
si perdoni se, pur parlando nel Veneto, non ho trovato spazio
per accennare alla villotta e alle forme consimili), dando prova
di perfetta acclimatazione e assimilazione dei gusti italiani. La
via non fu unica: dapprima Firenze con Arcadelt, Francesco de
Layolle, Bernardo Pisano. Non mancò dunque il contributo italico: Sebastiano e Costanzo Festa operarono quasi sempre a
Roma: anche la geografia, in questo caso, è segnale importante.
107 A. Einstein, The Italian Madrigal, 3 voll. Sia per quanto concerne la
bibliografia, sia per una equilibrata valutazione dei fatti mi permetto rinviare alle voci rispettive in New Grove 2 , 15, pp. 547 ss., ed MGG 2 , con bibliografia copiosissima.
108 I. Fenlon and J. Haar, The Italian Madrigal in the Early 16 th Century:
Sources and interpretation, Cambridge Univ. Press, 1988.
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Poi anche Venezia trovò la sua strada; ed è certo che, oltre
alla presenza di Verdelot e all’azione collettiva degli stampatori veneziani (Gardane/Gardano, Scotto, ecc.), vi influì molto
più che altrove la vitalità del precedente panorama della musica locale (villotte, canzoni villanesche). L’arrivo di Adrian
Willaert nel 1527, fortemente voluto dal doge Andrea Gritti
anche contro il parere dei Procuratori di San Marco, fu il colpo
d’ala che aprì la via anche a un gruppo ammirevole di allievi:
Girolamo Parabosco, Antonio Barges, Francesco de la Viola,
Perissone Cambio, il Vicentino e Giuseppe Zarlino, e infine
Cipriano de Rore, dei cui madrigali si poteva già esprimere un
giudizio significativo: malgrado la distanza – si diceva - erano
più veneziani che fiorentini.
L’esordio della policoralità
Il vecchio schema collocava Willaert alla base della policoralità veneziana, esendo ritenuto l’inventore della tecnica dei
cori spezzati, complice l’architettura della basilica marciana.
Tuttavia, già D’Alessi aveva pubblicato un famoso articolo,
ristampato a forza nel Journal statunitense, sui precursori di
Willaert nella pratica del coro spezzato 109 . In questo caso, a
differenza del precedente, gli italici ottennero un avanzamento, poiché anche altri sudiosi, sulla scia di D’Alessi, confermarono che sia il francescano Ruffino Bartolucci di Assisi (colui
che inaugurò la serie cinquecentesca dei maestri di cappella
nella cattedrale di Padova) 110 , sia il padovano Francesco
Santacroce attivo a più riprese a Treviso 111 , e altri meno legati ai confini regionali come Gasparo de’ Alberti 112 , avevano
sperimentato da decenni la nuova tecnica prima che Willaert
pubblicasse i suoi salmi. Si deve tuttavia ammettere non solo
109 Si veda A. F. Carver, Cori spezzati. The Development of sacred polychoral Music to the Time of Schütz, 2 voll., Cambridge etc., Cambridge
University Press, 1988.
110 Cfr. V. Ravizza, Ruffino d’Assisi fondatore della policoralità veneziana,
“Rassegna veneta di studi musicali”, IV, 1988, pp. 5-25; R. Bartolucci
d’Assisi, Opere sacre e profane, Introduzione e trascrizione di G. Cattin e F.
Facchin, ed. a cura di L. Bertazzo, Padova, Centro di Studi Antoniani, 1991.
111 Cfr. D. Princivalli, Francesco Santacroce, “Musica e storia”,, IX/2, 2001,
307-374: Ead., Francesco Santacroce. Opera omnia, Padova, Comitato per
la pubblicazione di fonti musicali venete, 2003.
112 V. Ravizza, Frühe Doppelchörigkeit in Bergamo, “Die Musikforschung”,
XXV, 1972, pp. 127-142; Id., Gasparo Alberti; Ein wenig bekannter komponist und dessen Portrait, in Festschrift Arnold Geering, ed. V. Ravizza, Bern
und Stuttgart, Verlag Paul Haupt, 1972, pp. 63-80.
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che alle spalle di questi sperimentatori italici affiora qualche
maestro francese (Jean Mouton a Ferrara?), ma che la maestria di Willaert impresse indelebilmente la scelta policorale fin
nelle radici del patrimonio marciano. Mancava ancora l’esperienza del doppio organo, ma i Gabrieli, zio e nipote, erano
pronti a farne un altro punto di forza per tutta la tradizione
marciana.
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La ricostruzione
degli strumenti antichi:
la ricerca delle fonti
Paolo Zerbinati
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l presente contributo riguarda i problemi relativi alla ricostruzione degli strumenti musicali antichi a corda, con particolare riguardo per quelli del Medioevo e del Rinascimento;
gli strumenti di altri periodi storici presentano problemi in parte
diversi, anche se le finalità e criteri della loro ricostruzione
sono i medesimi.
Con la locuzione ‘strumenti antichi’ si intende generalmente
indicare l’insieme degli strumenti musicali della tradizione occidentale, dall’antichità al barocco, mentre la locuzione ‘strumenti storici’ indica non solo quelli anzidetti, divisi per singoli periodi storici, ma anche quelli delle età neoclassica e romantica.
Per affrontare il problema degli strumenti musicali antichi è
necessario anzitutto distinguere nettamente tra restauro, ricostruzione documentale e fac-simile o copia funzionale. Per
quanto riguarda il restauro, non oggetto di questo scritto, valgono - o dovrebbero valere - le stesse regole oggi comunemente accettate in occidente per le opere d’arte: carattere prevalentemente conservativo dell’intervento, reversibilità, individuabilità e quindi l’intento di tramandare il maggior numero
possibile di informazioni tecniche e storiche. La ricostruzione
documentale, eseguita con gli stessi materiali e con le stesse
tecniche dell’originale, serve a proporre un’immagine completa
dell’originale stesso, colmandone le lacune, e quindi a favorire
una sua migliore comprensione.
La copia funzionale, di cui in particolare ci occuperemo, ha
finalità in parte diverse da quelle strettamente scientifiche, in
quanto è destinata ad essere utilizzata per l’esecuzione di
musica; anche nel caso in cui siano disponibili strumenti originali in ottime condizioni, la loro fragilità e il loro valore ne sconsigliano l’uso – spesso la tensione delle corde è pericolosa per
la struttura – e soprattutto il trasporto per l’attività concertistica. Le incisioni discografiche possono talvolta avvalersi di originali, per lo più barocchi, ma le registrazioni avvengono normalmente negli stessi locali in cui sono conservati gli strumenti.
I
LA RICOSTRUZIONE
Aspetti teorici
Gli strumenti musicali hanno accompagnato l’intera storia
delle culture umane e sono stati ideati, perfezionati, abbandonati e riscoperti in funzione di necessità espressive, ma sistematicamente hanno a loro volta imposto o permesso modalità
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esecutive e quindi un linguaggio. Il rapporto tra mezzo e contenuto della comunicazione artistica è strettissimo e ineliminabile: il massimo delle possibilità espressive reali, e quindi delle
emozioni suscitate dalla musica in chi suona e in chi ascolta,
non può prescindere dall’uso di strumenti congruenti agli intenti e ai significati propri dell’epoca cui appartengono le musiche
eseguite, poiché oggi non vale più l’assunto romantico di un’arte assoluta che si realizza superando e negando il mezzo materiale, con i suoi limiti e le sue possibilità.
L’uso di strumenti adeguati al repertorio è richiesto dalla cultura contemporanea, che necessita di una prospettiva storica:
non si tratta di fingere che il tempo non sia trascorso, ma di
ricrearlo correttamente come momento del presente. Il presente ha una propria sensibilità con la quale interpreta ogni fatto
del passato, artistico e non, e contemporaneamente riconosce
in questo le sue radici e il suo stesso significato.
L’esecuzione della musica antica oggi svolge su un piano
emozionale e suggestivo lo stesso compito che la musicologia
svolge su di un piano scientifico: l’interpretazione del presente
attraverso la ricerca consapevole della continuità di una storia
millenaria.
Una delle obiezioni che più spesso ricorrono contro la ricostruzione e l’uso di strumenti musicali medievali o rinascimentali, riguarda l’impossibilità di conoscere il loro ‘suono originale’ e in generale il gusto e le abitudini sonore, oltre che le tecniche esecutive, di quei periodi storici.
A questo proposito sono possibili alcune considerazioni: 1) gli
strumenti moderni sono comunque certamente inadeguati e
fuorvianti, così come lo è, peraltro, la voce impostata liricamente; 2) il suono inconsueto di uno strumento ‘antico’, per
quanto ipotetico, ed anche il suo aspetto, contribuiscono a
chiarire quella prospettiva storica di cui si è detto; 3) l’obiezione si fonda sull’assunto che sia esistito un ‘suono originale’,
che questo si sia perso con la scomparsa degli strumenti che lo
producevano e sia quindi del tutto irrecuperabile, ma in realtà
non è possibile pensare a un ‘suono originale’ in quanto,
soprattutto nel Medioevo, non è affatto esistita una standardizzazione paragonabile a quella odierna.
Soffermandoci su quest’ultimo punto, possiamo ricordare che
la tavolozza timbrica medievale era maggiore di quella disponibile oggi, in quanto le tipologie strumentali erano molto più
numerose; all’interno di queste tipologie ogni singolo strumento costituiva un unicum, o quasi, la lunghezza delle corde e la
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loro intonazione non avevano determinazioni canoniche, ogni
esecutore poteva - e doveva - adattare il suo strumento alle
necessità del momento e ai propri gusti.
Tutto ciò non comporta ovviamente un arbitrio indifferenziato
nella ricostruzione degli strumenti medievali; ci troviamo piuttosto di fronte ad una gamma di possibilità all’interno della quale
si devono compiere scelte determinate dalla ricerca sulle fonti,
dalla tradizione costruttiva, dalle leggi della fisica acustica, dai
materiali e dall’estetica musicale. Per il periodo rinascimentale
valgono considerazioni solo in parte diverse; mentre non sono
sopravvissuti strumenti medievali sufficientemente integri, ci
sono pervenuti numerosi strumenti rinascimentali che possono
essere studiati, come meglio si dirà in altra parte di questo
scritto. La disponibilità di originali permette in teoria non solo di
eseguire copie esatte, ma soprattutto di confrontare in qualche
modo il suono dell’originale con quello della copia, anche se
non senza problemi.
Il numero relativamente elevato di reperti conservati copre
abbastanza bene la vasta gamma dello strumentario rinascimentale, rinnovato e razionalizzato dopo il Medioevo con la
definizione delle famiglie strumentali, articolate in soprano,
alto, tenore e basso, con la determinazione del numero delle
corde o delle chiavi, e la formazione di scuole nazionali ben
individuabili.
Tutti i problemi della ricostruzione di strumenti rinascimentali
sembrerebbero dunque risolti, ma, almeno per quanto riguarda
quelli a corde, mancano quasi del tutto alcuni dati essenziali
proprio per la ricreazione del ‘suono originale’ e cioè i diametri
e le indicazioni sulle caratteristiche fisico-chimiche delle corde
e quindi sulle loro tensioni, che determinano precisamente il
‘suono’.
Un altro problema che pone serie ipoteche sulla confrontabilità reale tra il suono di una copia e quello dell’originale è costituito dal cambiamento di massa che il legno subisce nel corso
dei secoli e di cui meglio si dirà nel paragrafo dedicato agli originali come fonti. Lo strumento originale, quindi antico, oggi ha
una massa inferiore rispetto alla sua copia e in genere una
sonorità più piena, più rotonda, più forte. Paradossalmente è
assai probabile che una copia moderna ben fatta abbia adesso
un suono molto più simile a quello che l’originale aveva all’atto
della sua costruzione.
I problemi esposti – il carattere altamente ipotetico e l’interpretazione delle fonti, l’impossibilità di conoscere i gusti sonori
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del Medioevo e le sue abitudini acustiche ed anche le difficoltà
nel passare dalla notazione musicale sopravvissuta all’esecuzione reale – hanno portato ad affermare che la ricostruzione di
strumenti medievali è in fondo priva di senso, ma il mercato
della musica - concerti e dischi - non ritiene l’esecuzione di
musica medievale priva di senso e di fatto ha riservato a questo repertorio una nicchia che non è poi tanto piccola, se si
tiene anche conto di corsi, festival e valorizzazione di luoghi
storici. L’esecuzione e l’incisione del repertorio antico non sono
più immaginabili con l’uso di strumenti moderni, ma richiedono
strumenti adatti che, se per la musica barocca possono in qualche caso essere originali restaurati, per la musica medievale
sono sempre ricostruzioni, più o meno fedeli.
E’ necessario suggerire qualche traccia che possa, almeno in
parte, permettere di superare il nichilismo e spiegare la stessa
domanda di musica antica, cresciuta costantemente negli ultimi
tempi. La costruzione di strumenti ‘antichi’ deve essere posta in
parallelo non solo con le ricerche dell’organologia, ma anche
con le altre branche della musicologia ed in particolare con le
ricerche sulle prassi esecutive; quello che emerge è una tradizione ininterrotta, dall’antichità classica all’età contemporanea:
ogni momento, ogni strumento, nella diversità del cambiamento, si pone comunque in rapporto con una sostanziale continuità, con antecedenti e conseguenti, in una catena millenaria
che è una linea razionale.
L’arbitrarietà di una ricostruzione è massima quando il campo
di osservazione è ristretto e il progetto non contempla il maggior numero possibile di informazioni, analisi, suggerimenti dati
dalla conoscenza delle tradizioni, delle caratteristiche proprie
dei materiali, dei rapporti tra le misure e soprattutto del divenire storico.
La tradizione culturale nella sua accezione più ampia è
comunque continua e unitaria; l’aspetto costituito dalla cultura
popolare può essere considerato un museo vivente di prassi e
cognizioni superate da quella alta, ma questa ha sempre guardato e riflettuto su quella e viceversa, in uno scambio continuo
di appropriazioni.
In campo organologico è interessante notare che molti strumenti sono passati da una cultura all’altra, con forti cambiamenti di status, ma sempre nel rispetto del rapporto tra caratteristiche tecniche specifiche e richieste estetiche ed espressive di un determinato ambito culturale. Molti strumenti medievali da un parte si sono evoluti trasformandosi negli strumenti di
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età successive, dall’altra si sono conservati con le loro forme
originali nell’uso popolare.
Per concludere questa sezione si può aggiungere una considerazione al tema già affrontato del senso storico della ricostruzione. In molte occasioni si sono sostenute tesi che interpretano il rinnovato interesse per la musica antica, o per altre
forme d’arte, come una moda o peggio come una sorta di ‘fuga
nel passato’ causata da una crisi generale di valori, che contraddistinguerebbe il mondo di oggi, e dal carattere estremamente elitario dell’arte contemporanea, ben poco consolatoria
e spesso poco comprensibile. A fronte di questo, mostre,
musei, città d’arte e concerti hanno visto crescere in modo rilevante il numero dei visitatori.
La crisi di valori, se c’è, non è recente: è stata annunciata
dalla filosofia più di centocinquant’anni fa e la morte dell’arte
ha solo imposto agli artisti dal secondo Ottocento di cercare
altre strade. Piuttosto è opportuno rilevare che il mondo contemporaneo è caratterizzato da una diffusione della cultura una
volta impensabile; il nostro senso storico si è molto allargato e
sappiamo apprezzare - in tanti e non più in pochi - produzioni
artistiche collocate in un arco temporale molto ampio. Fino ad
una ventina di anni fa l’attività concertistica riguardava in modo
assolutamente preponderante la musica romantica; oggi nel
mercato della musica classica c’è posto per l’Ottocento, per il
Novecento e molto per la musica barocca, accanto alla quale
trova spazio la musica rinascimentale e medievale, anche perché il repertorio complessivo anteriore al Romanticismo è
immenso ed ancora parzialmente inesplorato.
LA RICOSTRUZIONE
Qualche esempio pratico
A titolo di esempio possiamo ricordare la storia della ghironda, strumento di origine europea non documentato prima del
XII secolo; è uno strumento a bordoni, non polifonico, incapace
di vere modulazioni. Nel Medioevo è utilizzata nella musica
colta, nel Rinascimento, con l’evoluzione della polifonia, passa
alla musica popolare, ai mendicanti ed ai merciai ambulanti;
con la moda culturale dell’Arcadia e fino al Classicismo viene di
nuovo utilizzata dalle classi alte e le viene dedicata una letteratura specifica che culmina con i Concerti ed i Notturni di
Haydn. Nell’età romantica la musica colta la esclude totalmente, e la ghironda ritorna alla musica popolare ed è presente nel
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folklore di Francia, Spagna e Paesi dell’Est.
Un altro aspetto, del tutto diverso, emerge dalla storia degli
strumenti appartenenti alla famiglia del clavicembalo, mai utilizzati per ovvie ragioni di costo nella musica popolare, ma che
dimostrano una sorprendente continuità. Le prime testimonianze risalgono al XIV secolo; dal XV secolo in poi, senza modifiche sostanziali, vengono prodotte molte migliaia di esemplari,
dei quali l’ultimo noto è stato costruito da Alessandro Riva nel
1839; intorno al 1890 Arnold Dolmetsh inizia in Inghilterra a
ricostruire questi strumenti, seguito da molti altri. In quasi settecento anni di storia la produzione dunque si è interrotta solo
per una cinquantina d’anni, anche se il periodo più recente va
tenuto distinto; il fatto è spiegabile soprattutto per l’esistenza di
una grande letteratura – almeno da Frescobaldi a Bach – che
non si è mai smesso di eseguire.
la storia dell’organo è ancora più emblematica dal punto di
vista della continuità: lo strumento si è mantenuto concettualmente inalterato, nonostante alcune innovazioni nella meccanica, attuate tra il XIII e il XIV secolo, dall’antichità classica ad
oggi, dotandosi di una letteratura immensa, ecclesiale e non,
sempre studiata ed eseguita.
Per quanto riguarda invece il problema del confronto tra il
‘gusto sonoro’ contemporaneo e quello medievale e rinascimentale, si può prendere in esame l’esempio seguente, abbastanza significativo. Con l’avvento del periodo gotico e fino al
barocco l’arpa presenta due caratteristiche: la cassa armonica
ha una sezione ovale e ridotta, quindi poco adatta ad amplificare e trasmettere le vibrazioni delle corde, contemporaneamente compaiono gancetti ad ‘L’ capovolta che sfiorano una
estremità delle corde producendo uno strumento ronzante e
distorto, ma forte, penetrante e scandito. Questo tipo di suono
non risulta oggi molto gradevole, ma lo è stato sicuramente in
passato tanto che altri strumenti si sono dotati di artifici adatti
ad ottenere suoni distorti, come il registro di ‘arpa’ nei clavicembali o la trompette nella ghironda. Nel ricostruire oggi arpe
gotiche non si omettono ovviamente i ganci ad ‘L’, ma i musicisti non li usano mai nell’esecuzioni di musiche medievali o rinascimentali, mentre nelle esecuzioni di musiche ‘celtiche’, con
arpe abbastanza simili, i musicisti folk li usano volentieri, così
come nella musica rock è corrente l’uso di distorsori acustici o
elettrici.
Per concludere con gli esempi sullo stesso tema, posso ricordare un altro fatto ampiamente riscontrato nella pratica di rico-
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struzione. Le corde filate per i bassi – corde in budello avvolte
da una spirale di filo metallico che le appesantisce – non
appaiono prima della metà del Seicento. Anteriormente a questa data le ricerche indicano l’uso di corde intrecciate o appesantite chimicamente con sali di metalli pesanti. Gli strumenti
medievali e rinascimentali vengono ricostruiti con misure adatte a corde non filate e con queste vengono consegnati ai musicisti, che invariabilmente le sostituiscono dopo poco tempo con
corde filate, il cui suono è ‘migliore’ e più intenso.
Il fatto è che dal Rinascimento in poi il nostro gusto sonoro ha
privilegiato negli strumenti i suoni bassi, concepiti come rinforzo armonico delle voci all’ottava inferiore, mentre il Medioevo
aveva privilegiato i suoni acuti, raddoppiando in alto le voci.
Questo ‘imporre’ alla musica medievale gusti sonori attuali
deriva in parte dal fatto che gli esecutori di oggi, attentissimi
per altro ai problemi filologici dell’interpretazione, provengono
per lo più da altri tipi di musica; un po’ alla volta, come è avvenuto per il clavicembalo e il fortepiano, le abitudini sonore si
raffineranno e si riuscirà a gradire non più solo il timbro nasale
della ribeca o quello penetrante della bombarda, ma anche
quello distorto delle arpe gotiche o quello delle corde antiche.
LE FONTI ARCHEOLOGICHE
Sono pressoché inesistenti strumenti musicali a corda anteriori al XV secolo, conservati in buone condizioni e quindi non
reperiti in scavi archeologici 1 . In Europa sono disponibili solo
una ventina di reperti incompleti e deteriorati, ma tali comunque da permettere la ricostruzione della loro forma, delle
dimensioni e di determinare i materiali originali. Sono stati
invece trovati in scavi numerosi reperti di singole parti, come
caviglie d’accordatura, cordiere, ponticelli, etc. Gli strumenti a
corda medievali sono di norma costruiti in legno, quindi estremamente deperibili, specie se sepolti; le lire altomedievali ritrovate parzialmente integre in Germania e Inghilterra devono la
loro sopravvivenza al fatto che il legno di quercia e di acero si
conservano bene nei terreni torbosi delle sepolture principesche in cui erano collocate. Possiamo facilmente ipotizzare che
con i grandi cambiamenti dello strumentario operati dal
1 L’unico strumento a corda sopravissuto integro dal Medioevo, risalente al
Quattrocento, è probabilmente la così detta ‘Violetta di Santa Caterina’, conservato nel convento del Corpus Domini a Bologna come reliquia della Santa.
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Rinascimento, gli strumenti medievali siano stati via via abbandonati e distrutti, anche perché non esistevano motivazioni culturali per la loro conservazione.
Le fonti archeologiche, prese in considerazione comunque
solo in tempi recenti, presentano, pur nella loro parzialità, un
notevole interesse perché integrano le altre fonti, che si rivelano carenti riguardo ai materiali utilizzati nella costruzione degli
originali, alle tracce d’uso e nei particolari.
Senza entrare troppo nei dettagli possiamo ricordare che le
caviglie ritrovate sono in osso, in quercia o in bronzo; le cordiere sono in osso, ma nelle lire sono anche in bronzo; i ponticelli possono essere in osso, in acero, in sorbo, ma nelle lire
anche in bronzo o in ambra.
Le casse armoniche sopravvissute sono in acero, in quercia,
ontano o salice (nelle arpe), mentre le tavole armoniche sono
per lo più in abete bianco, abete rosso o acero (nelle lire). Gli
archetti sono in tasso (lo stesso utilizzato per gli archi da tiro)
o in corniolo.
Si noti che le testimonianze archeologiche sui legni utilizzati
a partire dall’epoca altomedievale coincidono molto bene con le
prescrizioni della moderna liuteria, che ha semplicemente continuato la tradizione, individuata già nell’alto Medioevo come la
più opportuna, di costruire la cassa in legno duro e omogeneo
e la tavola in legno tenero, leggero e fibroso.
LE FONTI DOCUMENTARIE
Trattatistica e letteratura
Nel corso del Medioevo gli strumenti musicali si trovano in
una condizione sostanzialmente contraddittoria: da una parte si
assiste ad una continua creazione o importazione di nuovi strumenti, alla loro costante evoluzione e proliferazione; dall’altra,
iniziando dall’età classica e per tutta l’era cristiana, si nota una
profonda differenziazione tra la musica teorica, degna degli
esponenti di alta cultura, e la musica pratica, relegata a persone di basso status 2 . A tutto ciò si aggiungono le ripetute proibizioni dell’uso degli strumenti, con l’eccezione dell’organo, nell’esecuzione di musica in chiesa. Non deve pertanto meravigliare che la trattatistica medievale sulla teoria musicale sia
2 E’ interessante notare che qualche traccia di questa impronta culturale è
sopravissuta fino ad oggi: un clavicembalista, ad esempio, ha a sua disposizione decine e decine di trattati moderni relativi ai temperamenti, ma nessuno completo riguardante la regolazione del cembalo.
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vastissima, mentre quella specifica sugli strumenti sia relativamente ridotta, ma non certo esigua, e privilegi quegli aspetti
matematici che da Pitagora in poi appartengono alla nostra cultura.
I primi accenni a strumenti musicali si trovano nel “De
Musica” di S. Agostino (354-430), in Severino Boezio (480 ca.524) e in Cassiodoro (485 ca.-580), mentre descrizioni più
accurate, con calcoli e misure, appaiono a partire dall’VIII
secolo in alcuni trattati anonimi. Fino al X secolo i trattati che
contengono parti specifiche sugli strumenti sono circa una trentina; dal X secolo al XIV secolo sono invece molto più numerosi.
Le informazioni fornite dalla trattatistica riguardano praticamente tutti gli strumenti principali, con predilezione, soprattutto
nell’alto medioevo, per l’organo, per il monocordo e i suoi derivati e per le campanelle, cioè gli stessi strumenti privilegiati
nelle opere dell’antichità classica. A puro titolo di esempio delle
informazioni reperibili in tali trattati valga la citazione seguente,
tratta dal “De diversis artibus” del monaco tedesco Teofilo
(secolo XII): “Si volueris cymbala altius habere, in ora inferius
limabis; si vero humilius, circa ora in circuitu”. L’informazione è
tecnicamente esatta e segue, nel trattato, una vasta spiegazione sul modo di fondere i cymbala, cioè le campanelle, intonate
secondo una scala di ‘La’ con il Si bemolle; la scala veniva
ottenuta variando il peso della cera che serviva a separare due
forme di argilla, una esterna ed una interna; la cera veniva poi
sciolta dal getto di bronzo fuso.
In generale si può notare che la trattatistica medievale non
solo integra le fonti letterarie, ma tende a confermare sistematicamente le ben più numerose fonti iconografiche; in generale
l’impressione che si ricava dalla lettura dei testi in questione è
che gli autori conoscano molto bene gli strumenti musicali,
nonostante appartengano ovviamente sempre alla grande cultura e spesso siano membri della Chiesa.
Le fonti letterarie - poesie, racconti e romanzi - raramente
descrivono gli strumenti con criteri organologici, ma sono
comunque preziose soprattutto per le informazioni sull’uso pratico degli strumenti stessi, sulla loro collocazione sociale, sugli
insiemi strumentali e sui gusti musicali delle varie aree geografiche nel corso del tempo.
Un tipo particolare di fonte documentaria, particolarmente
importante per la sua oggettività, è costituita dagli inventari
notarili, anche se gli strumenti musicali vengono solo elencati o
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sommariamente descritti. In un precedente lavoro, riguardante
il Friuli occidentale nel basso medioevo, ho potuto dimostrare
la notevole congruenza di una cinquantina di inventari con le
altre fonti, in particolare quelle iconografiche, sia per la tipologia strumentale che per la diffusione dei singoli strumenti.
Con il Rinascimento si viene affermando un nuovo interesse
per la natura ed i suoi aspetti materiali; gli strumenti musicali
ed il loro uso pratico sono visti in modo pienamente positivo e
giudicati degni di analisi e descrizioni accurate nella trattatistica. Si dedicano loro ampie sezioni specifiche, corredate da
tavole con immagini in scala, indicazioni precise sull’ambito di
ciascuno – cioè la gamma di note che uno strumento può emettere – sulle accordature e talvolta anche sul tipo di suono ottenibile.
Nei grandi trattati di Tinctoris (1487), Agricola (1529),
Praetorius (1619) gli strumenti vengono descritti e illustrati per
famiglie, in tutte le loro taglie e in modo tecnicamente puntuale
per dare al lettore una informazione completa ed esauriente. 3
LE FONTI ICONOGRAFICHE
Per quanto riguarda lo strumentario medievale, le fonti iconografiche rappresentano il punto di partenza per ogni ricostruzione, anche se non possono, e non devono, costituire mai
la sola documentazione utilizzata.
L’iconografia musicale è molto vasta, molte migliaia di raffigurazioni, e comprende miniature, affreschi, tavole e sculture 4 .
Dall’analisi comparata con altre fonti, possiamo affermare che
generalmente nelle arti figurative, dal Medioevo al primo
Cinquecento, gli strumenti musicali sono raffigurati con precisione anche nei dettagli: in qualche caso, ad esempio, viene
utilizzato un codice di colori per differenziare i diversi materia3 Ho provato a svolgere per esteso la formula proposta da Vincenzo Galilei
nel “Dialogo della Musica Antica et della Moderna” (Firenze 1581) per calcolare le lunghezze decrescenti delle porzioni di corda vibrante corrispondenti
ai toni e ai semitoni di una scala temperata equabile (al tempo già nota) ed a
confrontarle con quelle che si ottengono con la formula moderna, di calcolo
alquanto complesso senza l’ausilio di una calcolatrice elettronica: le due successioni hanno un discostamento minimo e sempre inferiore al grado di
imprecisione della loro applicazione pratica nella costruzione di liuti, viole,
clavicordi o ghironde.
4 In un mio lavoro in corso di pubblicazione ho preso in esame la sola iconografia toscana del XIV secolo, individuando oltre mille strumenti raffigurati, la
loro distribuzione in gruppi, sempre organica e congruente, la loro evoluzione ed anche, in qualche caso, le diverse tecniche esecutive.
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li (giallo per il legno, che questo periodo preferisce chiaro,
azzurro per il metallo, rosso per le corde di budello, etc.); le
proporzioni di solito sono accurate e spesso lo è anche la posizione delle dita dell’esecutore.
I motivi che giustificano le frequenti raffigurazioni di strumenti nelle arti figurative del periodo in questione sono molteplici:
in primis possiamo ricordare che la Chiesa, il principale committente fino al Rinascimento, non proibiva le immagini di strumenti nelle opere d’arte; in secondo luogo che gli strumenti
musicali, spesso citati nell’Antico Testamento, servivano ad
individuare alcuni personaggi - Re Davide o i ventiquattro
Vegliardi dell’Apocalisse - o ad esaltare la gloria di Dio; infine
che la musica caratterizzava anche gli angeli (Concentus
Angelorum), dipinti spesso con strumenti per suggerire la presenza di musica in modo migliore rispetto alla raffigurazione di
angeli cantori.
Un altro intento evidente degli autori delle opere è quello
didascalico: si illustrano le caratteristiche degli strumenti musicali, il loro utilizzo in insiemi e talvolta si cerca di rendere noti
in un luogo strumenti appena introdotti o costruiti in luoghi lontani.
Anche in questo ambito la prospettiva medievale è astorica
nel senso che tende a riportare al presente del pittore o dello
scultore tutte le vicende raffigurate; gli strumenti, come le vesti,
le case o le suppellettili, sono quelli che l’autore vede e conosce perché li suonano altri a lui vicini o perché li suona lui stesso (emblematico il caso dei grandi pittori del Rinascimento
veneto, tutti anche musici, o quello di Leonardo da Vinci).
Proprio questa deformazione storica diventa per noi documento storico, in quanto permette di individuare con precisione le
tipologie strumentali utilizzate in un determinato periodo.
Dipingere strumenti musicali in opere di vario soggetto ha per i
pittori un valore di testimonianza di prassi a loro coeve, di gusti
del proprio tempo e degli interessi dei committenti, come nel
caso delle Compagnie dei Laudesi, che sia assumevano strumentisti di professione per accompagnare le laudi, sia probabilmente pittori per dipingere quelle tavole di devozione mariana, che sistematicamente presentavano il maggior numero di
raffigurazioni di strumenti. 5
5 Ricordo che il primo grande ciclo di miniature dedicate alla musica strumentale è contenuto nelle Cantigas de Sancta Maria, dipinte nel 1248 per
Alfonso el Sabio, re di Castilla.
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Ritornando a quanto prima accennato, è evidente che i pittori considerano gli strumenti musicali un importante arricchimento figurativo delle opere, si impegnano in dettagliate
descrizioni degli stessi e tendono a dimostrare di conoscerne
una grande varietà. 6
Dopo la metà del Cinquencento l’interesse didascalico e
documentario per gli strumenti musicali nelle opere figurative
cade, mentre cresce quello puramente ornamentale e suggestivo: le raffigurazioni diventano meno precise, appaiono strumenti fantasiosi che vogliono alludere, più poeticamente che
storicamente, all’età classica dei miti e degli eroi; in altre parole il manierismo si affaccia anche nell’iconografia musicale.
Parallelamente nascono, nella realtà, gli strumenti da teatro,
cioè strumenti non destinati ad essere suonati, ma da utilizzare solo sulla scena e infatti sono particolarmente ornati e appariscenti. D’altra parte, ai fini della ricostruzione, questa mancanza di informazioni precise da parte dell’iconografia è ben
compensata dal notevole numero di originali sopravvissuti e
dalla vasta trattatistica; per quanto riguarda l’organologia, quel
che non dicono le immagini ce lo illustrano gli scritti coevi.
L’iconografia medievale, per quanto spesso accuratissima,
costituisce la base per la ricostruzione dello strumentario, ma
non ci può minimamente informare sulla struttura interna degli
strumenti, fondamentale per il suono; possiamo portare in scala
l’immagine, ricavare la forma e le dimensioni di uno strumento
raffigurato confrontandole con quelle della testa, del braccio e
della mano dell’esecutore, ottenendo una buona approssimazione, ma la struttura interna può essere ipotizzata solo integrando altre fonti: la tradizione costruttiva, le leggi fondamentali della fisica acustica e, in generale, il più vasto numero possibile di cognizioni organologiche e di storia della tecnologia. 7
GLI ORIGINALI COME FONTI
Strumenti musicali costruiti a partire dal XV secolo sono conservati in collezioni pubbliche e private; questi strumenti sono
giunti fino a noi in condizioni molto diverse, alcuni più o meno
6 Tra i tanti desidero ricordare l’affresco della cupola del Battistero di
Padova, dipinto nel 1376-78 da Giusto de’ Menabuoi, che raffigura una cinquantina di strumenti.
7 La cassa armonica di una viella medievale, ad esempio, dovrà sempre essere monoxila in quanto la costruzione con fasce e fondi distinti non appare
prima del Quattrocento.
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integri, altri lacunosi o alterati, ma offrono comunque attendibili, spesso ottime, occasioni di analisi oggettive. Gli originali del
XV secolo sono piuttosto rari, quelli del XVI secolo molto più
numerosi e quelli del XVII e XVIII secolo sono invece numerosissimi anche se non è possibile un conteggio globale, in quanto gli strumenti musicali sono spesso oggetto di scambio tra
privati e le catalogazioni sono incomplete; si può comunque
ipotizzare che gli esemplari conservati nelle sole collezioni
pubbliche siano complessivamente molte migliaia.
Con le dovute cautele, e dopo un complesso iter burocratico,
gli strumenti conservati nei musei italiani possono essere talvolta esaminati, misurati, analizzati; in qualche raro caso sono
disponibili dati di laboratorio ricavati in corso di restauro, particolarmente nel caso di violini, relativi alle tipologie dei legni
impiegati, alle colle, alle vernici e alle precedenti operazioni di
restauro o alle alterazioni. Per quanto riguarda invece gli strumenti conservati nelle grandi collezioni straniere, europee e
statunitensi, risultano disponibili una grande quantità di informazioni scientifiche, radiografie in scala 1:1, misurazioni fotogrammetriche, disegni tecnici in scala reale, una amplissima
documentazione fotografica nonché pubblicazioni specifiche
relative a singoli strumenti, da integrare ovviamente con osservazioni dirette.
In qualche caso sono disponibili per lo studioso vari esemplari di strumenti costruiti dal medesimo autore, anche se spesso locati in musei diversi; risulta decisamente opportuno esaminare e studiare tutti, o quasi, gli strumenti superstiti di un
autore, anche se poi la copia riguarderà uno solo di essi, perché le differenze possono essere spesso più istruttive delle
somiglianze. I grandi maestri del passato, anche se hanno prodotto centinaia di strumenti nella loro bottega, non ne hanno
mai realizzato uno esattamente identico all’altro e le diversità
riguardano spesso elementi decisivi per il suono, come l’andamento degli spessori della tavola armonica. D’altra parte è
necessario tenere presente che in natura non esistono due
pezzi di legno identici e quindi la lavorazione deve compensare le loro differenze per ottenere il miglior risultato acustico
possibile.
L’esistenza di originali da copiare non risolve però tutti i problemi del costruttore contemporaneo, in quanto non è mai possibile una riproduzione meccanica ed immediata dell’originale.
Innanzitutto, dopo le analisi e le comparazioni, è necessario
arrivare ad una completa comprensione di ogni scelta compiu-
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ta dall’autore dell’originale, anche in presenza di eventuali
‘errori’. In ogni caso bisogna tenere presente che una copia è
sempre comunque un’interpretazione e ci deve essere dunque
la piena consapevolezza degli eventuali cambiamenti che si
andrà ad operare. 8 L’atteggiamento mentale di chi costruisce
copie di antichi strumenti dovrebbe essere improntato all’umiltà
e al rispetto, poiché ogni originale importante è comunque il
prodotto di una tradizione di bottega secolare; è l’oggettivazione del pensiero, della ricerca, della volontà espressiva e delle
esperienze accumulate da generazioni di artigiani. Noi che
viviamo nel periodo che segue le rivoluzioni industriali dobbiamo, in questo campo, recuperare una tradizione non certo
persa, ma sicuramente dimenticata.
Da quanto detto fino a questo momento si potrebbe pensare
che gli originali – tutti – costituiscano un modello assoluto, un
punto di riferimento inarrivabile; in realtà, anche se la conservazione ha operato probabilmente in modo selettivo, privilegiando gli originali migliori, è necessario evidenziare il fatto
che esistono molti originali scadenti, altri buoni, alcuni eccelsi
e che in qualche caso questa diversità viene riscontrata anche
tra le opere di uno stesso maestro, come peraltro accade per
tutte le produzioni artistiche, e quindi anche in questo campo è
necessario compiere scelte consapevoli.
In qualche caso per gli strumenti rinascimentali, in molti casi
per gli strumenti barocchi, l’originale è attualmente in condizioni tali da poter essere suonato e quindi è possibile sentire ‘il
suono originale’ e cercare di riprodurlo nella copia: questo è
certamente una cosa positiva e una guida importante, ma è
necessaria molta cautela. E’ opportuno segnalare che nessun
originale è giunto fino a noi integro, cioè senza interventi di
restauro, riparazioni e, molto spesso, modifiche; nessun originale ha conservato le corde originali con le loro caratteristiche,
ma soprattutto, come si è già detto, nessun originale ha mantenuto la massa originale, e questa influisce notevolmente sul
suono.
La stagionatura normale del legno, anche di qualche decina
di anni, comporta prevalentemente la perdita di acqua; con i
secoli avviene invece una perdita per sublimazione di sostanze
solide che appesantiscono il legno senza contribuire in modo
8 Una corrente di pensiero abbastanza diffusa pretende che vengano utilizzate oggi le stesse tecniche e le stesse attrezzature che sono state usate per
produrre gli originali.
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consistente alle sue caratteristiche di resistenza, anche se
comunque questa tende a diminuire per effetto di altri fattori. E’ stato verificato che un clavicembalo originale del
Seicento pesa circa il 40% in meno di una sua copia
costruita con le stesse misure e con gli stessi tipi di legno
ben stagionato. E’ ovvio che all’atto delle due costruzioni la
massa era quasi identica, ma oggi non è più così.
Differenze notevoli peraltro possono essere rilevate anche
su campioni provenienti da alberi diversi, ma della stessa
specie botanica e di pari stagionatura. In altre parole anche
quando si sceglie un blocco di legno tra altri dello stesso
tipo si sta compiendo una interpretazione.
Il punto fondamentale rimane comunque la comprensione
dell’originale nella sua corretta prospettiva storica, attraverso il confronto e l’analisi di tutta la documentazione possibile; infine anche la decorazione, in parte non estranea al
suono, deve essere appropriata perché comunque lo strumento musicale comunica con noi prima con il suo aspetto,
poi con il suono.
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La ghironda:
un interessante
compromesso
Paolo Coriani
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l soffio del vento tra gli alberi del bosco e il fremere
costante delle foglie sotto il suo alito vitale nel silenzio; il
calmo e pacifico borbottio e lo scorrere costante dell’acqua del ruscello o il tumultuoso, impetuoso scendere dell’acqua di un torrente in piena; l’infrangersi continuo delle onde
sulla costa ed il loro riconfondersi col mare.
Ma anche l’assordante ronzare delle api nell’alveare durante il giorno o l’incessante canto notturno dei grilli o l’incerto
prima e poi preciso ritmico, monotono canto delle cicale.
Bordoni, semplicemente bordoni naturali, semplicemente
rumori di fondo più o meno costanti e a volte insopportabili
sopra i quali la vita svolge il suo cammino, la natura si esprime in un universo sonoro di uccelli che creano melodie sul
fruscio del vento ed interrompendosi ad un improvviso rumore “ fuori dal coro” per poi riprendere a poco a poco in una
nuova evoluzione canora.
Come di trote che con le loro evoluzioni e salti interrompono il monotono scorrere dell’acqua.
Come di gabbiani che librandosi più o meno silenziosi sull’acqua si tuffano interrompendo il sommesso brusio delle
onde.
Esempi di finestre sonore, di esperienze uditive sviluppate
in verticale su una base più o meno costante, comunque un
bordone. Di questi esempi sonori “naturali” l’uomo nella sua
vita evolutiva ne ha avuti infiniti, fino a quando egli stesso ha
avuto la necessità di potere creare da solo, a suo piacimento, lo stesso effetto. Allora, il costante ritmo di percussioni,
battute anche fino all’ossessione, sulle quali si dispiega un
canto o si instaura una danza - come vera e propria evoluzione di movimenti - fino alla creazione di zufoli, flauti piccoli strumenti ad ancia accoppiati (con due canne) per essere
adatti uno a produrre una melodia ed un altro a ricreare quell’effetto di base che sostiene la melodia stessa, fino ad arrivare ad aggiungere agli “zufoli” doppi una sacca (cornamusa) per contenere l’aria per non servirsi esclusivamente
della bocca come fonte dell’energia sonora. Fino a quando
verso la fine del primo millennio d.C., per ricreare lo stesso
effetto sonoro, si è arrivati anche ad uno strumento a corda
dove una corda poteva essere utilizata per la melodia ed un
altra poteva ricreare un bordone, un suono fisso continuo,
costante. Le corde messe in vibrazione non da un arco ma da
una ruota: in realtà un vero e proprio arco, un arco continuo,
un arco infinito. Questo strumento è la Ghironda, o meglio lo
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strumento che ne è stato storicamente il predecessore:
l’Organistrum. A questo punto, come anche coi vari aerofoni
doppi, i due suoni si sono prima sovrapposti, poi organizzati
tra di loro non solo come base informe o indefinita, ma legati ad un preciso rapporto armonico, con un intervallo musicale definito, un accordo preciso, una nota dalla quale la melodia si stacca, si separa, si evolve per poi a quella nota la
melodia si riavvicina, si ricongiunge, si confonde annullandosi in un tutt’uno: l’accordo di partenza. Il mio primo incontro
con la ghironda è avvenuto nel 1976 ad un concerto durante
il quale Bruno Pianta, etnomusicologo ricercatore attivo in
Italia dall’inizio degli anni sessanta, si accompagnava al
canto con un oggetto per me sconosciuto che faceva uno
strano suono, qualcosa tra un rumore quasi meccanico e
musica: una Ghironda. Da allora è iniziata la mia passione e
sono iniziate le mie ricerche per avere più notizie possibili su
questo strumento, appigliandomi ad ogni più incerta e confusa informazione su libri, riviste, cataloghi di musei, copertine
di dischi, riproduzioni di dipinti antichi.
All’epoca facevo parte di un gruppo di teatro di strada
all’interno del quale suonavo la chitarra ed iniziavo ad interessarmi di liuteria di strumenti musicali a pizzico. L’idea di
potere annoverare la Ghironda tra gli strumenti usati e
costruiti dal gruppo, mi allettava decisamente.
Ad un certo momento le mie ricerche approdarono in
Francia dove conobbi alcuni liutai e da allora è proseguito
un lavoro di ricerca più costruttivo, legato alla tecnica e alla
“tecnologia” della costruzione che ancora oggi è in evoluzione.
Il bordone, la musica a bordone
Le origini, il rivelarsi della polifonia, sono gia decantate da
Platone nel Timeo“ di questa impressione unica e insieme
fusa che è composta dall’acuto e dal grave” .
Apuleio ci dice più tardi come “Iagnide” creò L’aulos bicalame: “duas tibias uno spiritu animavit”, un unico soffio da
vita a due oboi “acuto tinnitu et gravi bombo concentum musicum miscuit” e con mescolanza di suoni acuto e grave, produce l’accordo musicale.
Importante nel testo la presenza del bordone grave, gravi
bombo, queste parole definiscono chiaramente quello che
poteva essere l’effetto sonoro e musicale dell’aulos greco
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che in tanta iconografia è raffigurato, tra vasi e bassorilievi.
Il suono grave continuo del più lungo bordone e la melodia
che si sviluppa suonata dall’altra più corta canna. Ma un’altra
notizia si ha dall’antico Egitto con l’Argoul tripla ancia, tre
canne, ad ancia come il moderno clarinetto, in tutto e per
tutto simile alle Launeddas ancora oggi usate in Sardegna.
Nelle Launeddas una più ricca evoluzione della stessa
musica a bordone, presenta sì un bordone di sostegno alla
melodia di una prima canna, ma anche una seconda canna di
“canto” utilizzata per dialogare direttamente con la prima.
Ancora con diversa diffusione si riscontra l’esistenza di
diversi flauti d’accordo o armonici che permettevano una
esecuzione di terze parallele, caratteristica peculiare che
prenderà la Ghironda, tipica della musica polifonica occidentale, cioè l’esecuzione di melodie parallele e ritrovabili in
diverse forme di accordatura.
L’apparizione dell’archetto permetterà poi la polifonia e la
presenza del bordone sulle viole come si pratica ancora
all’interno delle varie forme delle viole cinesi o ancora nella
Nickelhrpa scandinava.
Lo stesso sistema musicale esisteva di già nel canto, il
canto armonico come l’Ison bizantino dove una voce tenuta
fa da bordone attorno alla quale si sviluppa una voce melodica. Una nota fondamentale armonica che ancora oggi si può
trovare in forme musicali in Pakistan e Radjasthan dove un
bordone vocale diviene da contraltare alle evoluzioni melodiche di un flauto.
Altro esempio limite di Bordone il Galoubet della Provenza
ed un altro simile flauto a tre fori presente ancora oggi nei
Paesi Baschi dove il bordone questa volta è costituito da
tamburo che accompagna il flauto; in questo caso abbiamo
un vero e proprio bordone ritmico.
Ai flauti o agli strumenti ad ancia, clarinetti nelle varie
fogge, fu poi aggiunto un serbatoio di aria che ne permetteva
il suono continuo, la sacca, che nelle sue varie forme ha trasformato questi strumenti in cornamuse. La sacca che sostituisce la bocca che con la piccola quantità di aria che può
conterere, ad intervalli, deve di nuovo essere riempita di aria,
causando quindi l’interruzione della emissione sonora. Ora si
trovano diverse culture dove comunque anche alcuni strumenti a bocca: flauti e oboi di diverse etnie arabo-orientali,
launeddas sarde, eseguono un suono continuo, senza interruzioni, attraverso una tecnica particolare di respirazione e
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insufflazione continue che permettono il suono continuo.
Tecniche che dagli anni ‘60 sono state apprese ed usate
anche da diversi musicisti della scena del Jazz internazionale più vicini alle forme musicali di diverse culture etniche.
L’essenza stessa quindi della Ghironda, il Bordone, la cui
esistenza ne è permessa dalla ruota, applicazione “tecnologica” allo strumento musicale, ma niente più di un archetto
continuo, infinito, in grado di continuare a fare risuonare un
bordone mentre la tensione creativa ed esecutiva dello strumentista può permettersi le più ampie evoluzioni melodiche
che lo strumento nella sua interezza consente.
La stessa Trompette, la corda ritmica della ghironda, sicuramente in origine era utilizzata più come bordone ritmico
prima di diventare vera e propria possibilità espressiva e di
virtuosità come sarà dal 18° secolo ad oggi.
Cos’e la Ghironda
La Ghironda è uno strumento musicale a corda costruito
tradizionalmente quasi completamente in legno, costituito da
una cassa armonica di risonanza, che può avere varie forme
determinate dalla sua evoluzione nel corso del tempo, da un
manico-tastiera all’interno della quale passano oggi normalmente due corde.
La tastiera è terminata, verso l’esterno dello strumento, da
un cavigliere che regge i piroli per tendere ed accordare le
corde e nel tempo ha avuto anch’esso forme diverse.
Dalla parte opposta della tastiera versi i 3/4 della cassa di
risonanza è presente una ruota di legno in posizione perpendicolare rispetto alla cassa che fuoriesce dalla cassa stessa
per circa la metà del suo diametro e sul bordo della quale
sfregano le corde per essere messe in vibrazione.
La ruota è azionata da una manovella e sulla cassa si trovano poi applicate altre piccole parti dello strumento, ponticelli e cordiera che permettono il montaggio delle corde.
La tastiera e composta da una “scatola” ed al suo interno
da una serie di tasti che permettono, con il loro azionamento, la determinazione della lunghezza delle due corde e
quindi lo sviluppo del suono della melodia. Altre corde presenti sullo strumento sono disposte, sempre a contatto con la
ruota che le mette in vibrazione, fuori dalla tastiera e hanno
la funzione di bordoni.
La Ghironda si caratterizza anche per la presenza di un
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meccanismo particolare collegato ad uno dei bordoni che
permette l’esecuzione di un suono ritmico, oltre ai suoni di
melodia e bordoni, usato per ritmare a tempo la musica o
comunque scandire il tempo e eseguire figure ritmiche più o
meno legate alla esecuzione musicale complessiva.
Storicamente è presente dopo la sua nascita in gran parte
dell’Europa: dalla penisola Iberica fino alla Russia ed
Ucraina ad est e dall’Italia fino alla Scandinavia a nord, con
fasi di diffusione alterna ma tuttora viva in molti paesi.
Nei secoli, dalla sua origine, è stata chiamata in molti modi
Roda, Rota, Organistrum, Sinfonia o Synfonia Chifonie,
Vihuela de roda, Kinkerne. Nei vari paesi ha avuto differenti
nomi: Viela de rueda o Lira de rueda, Zanfona o Sanfona,
Gaita nella penisola Iberica; Vielle a roue in Francia; Lira
tedesca, Lira rustica, Llira mendicorum, Viola da orbo,
Stampella, Ghironda in Italia; Leier, Drehleier, Radleier,
Bettlerleier, Bauern leyer, Veiber leyer nei paesi di lingua
tedesca; Hurdy-gurdy, Crank-lire, Beggar’s lyre nell’arcipelago Britannico; Vivlira, Bondlira, Juudgiga, Hjulhrpa nei paesi
Scandinavi; Forgolant, Nyenyere, Tekero, Tekerolant in
Ungheria; Synfony, Fon in Norvegia e Islanda; Zarrabete nei
paesi Baschi; Llira korbowa in Polonia; Relia in Ucraina;
Draaiolier, Tiesse di dj’va, Vierlette nei Paesi Bassi Benelux
e Vallonia; Lirja, Koljosnaja lira, Lera, Ninera rispettivamente
in Russia, Bielorussia e Boemia-Moravia.
Le origini
Esistono differenti ipotesi sulla nascita, sulla provenienza
asiatica della Ghironda, dell’Organistrum, della Synfonia
suoi predecessori. Si parla di un antico strumento a corde
azionate da un arco dalla antica Cina dove una corda esegue
la melodia ed un’altra resta di bordone, o quantomeno ipotesi che trattano di origini medio orientali. Pertanto la G. sarebbe quindi di importazione Araba come liuti e ribeche in
Spagna in seguito alle loro invasioni. Un paio di fonti arabe la
citano in una lista (sembra comunque che una attenta traduzione metta dubbio su questa informazione) di strumenti in
grado di produrre un suono continuo.
Anche le decorazioni arabeggianti degli intagli che alcune
fonti iconografiche mostrano nell’Organistrum del Portico
della Gloria a S.Giacomo di Compostela, prima fonte iconografica certa di datazione con raffigurazione del nostro stru85
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mento, e di alcune Synfonie. Lo stesso stile di decorazione
comunque, presente in tutta l’Europa nello stesso periodo
storico non avvalorerebbe l’ipotesi di un origine precisamente orientale.
Anche il fatto che, pur essendo presenti ed usati strumenti
in grado di produrre suoni continui o lo stesso uso musicale
del bordone, non si trova ai nostri giorni in Asia uno strumento dove il suono è prodotto da un archetto circolare, da
una ruota mossa da una manovella. L’essenza tecnica pura
della Ghironda è appunto la ruota mossa dalla manovella.
Allora si può dire che all’esigenza musicale di avere uno strumento musicale che possa produrre un suono continuo assieme ad altri più modulabili, si è risposto con l’applicazione
della manovella. Quindi la nascita della Ghironda, dei suoi
predecessori, sarebbe dovuta, ovviamente in seguito ad una
esigenza musicale precisa, ad una applicazione tecnologica
di quel momento storico. Fonti scritte parlano della mola circolare azionata da una manovella come primo esempio di
tecnologia del tempo e come secondo proprio uno “strumento a corde sfregate da una ruota mossa da una manovella”.
C’è da notare che il meccanismo della manovella, poi associato alla biella, sta alla base di molte importanti realizzazioni della tecnica medioevale.
Seguendo questa prospettiva si evince come la Ghironda
possa avere visto la luce nel quadro più generale della
nascente tecnologia medioevale.
“Se si inventa qualche cosa è perchè lo si cercava e lo si
cercava perche se ne aveva bisogno” dice Renè Zosso musicista e suonatore di Ghironda in una vecchia intervista. Le
prime fonti iconografiche dell’Organistrum, così ricche in territorio Iberico, dimostra comunque il privilegio che ha fatto
della corte di Spagna il luogo di incontro delle culture occidentale e orientale dell’epoca, luogo che è stato il crogiuolo
di ciò che è diventata la nostra cultura occidentale.
Non bisogna anche dimenticare ciò, che la nostra liuteria
occidentale deve al mondo Arabo: tutta la famiglia delle viole
e del liuto.
Molto schematicamente si potrebbe quindi dire che il passaggio da una viola “araba” ad arco, da un monocordo ad
arco, ad uno strumento dove è stata applicata una ruota per
avere un suono continuo dove le corde comunque venivano
tastate dalle dita, si è arrivati all’Organistrum, ancora per
l’applicazione di un artificio tecnico, i tasti. Una citazione da
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“Summa Musice “recita” ...monocordium et synfonia qui dicitur organistrum” .
La prima versione
del nostro strumento quindi,
l’Organistrum, strumento di grandi dimensioni, più di un
metro di lunghezza, era suonato da due persone, una che
faceva vibrare le corde azionando la ruota e l’altra che sunava propriamente azionando i tasti.
La storia, l’evoluzione
Quando verso l’anno mille l’Organistrum appare, esiste un
mondo musicale già determinato, una musica “colta” ed una
“profana” ed hanno una vita pressochè autonoma .
Lo studio e la ricerca musicale è essenzialmente religiosa,
partecipe di una liturgia che oltre a dovere molto al mondo
arabo ha legami con le altre culture che si incontrano
nell’Europa del tempo, tradizioni Ebraiche, Greche Celtiche .
La presenza della musica si basa essenzialmente sull’uso
della voce umana.
Gli strumenti musicali ne sono quasi completamente banditi in quanto figli di quella cultura musicale pagana che prende l’avvio dall’Aulos, strumento dionisiaco per antonomasia,
poi dalla cornamusa, strumento che anche nella forma, quando come sacca per l’aria era utilizzata la pelle intera della
testa della capra, ricorderà l’immagine del demonio.
Solamente l’organo era usato nella sua forma prima che
accompagnava il canto o come generatore di note “polari”
attorno alle quali si sviluppa il canto stesso; una caratteristica particolare, è che l’organo funzionava non attraverso l’uso
dei tasti come noi li conosciamo, ma piuttosto attraverso un
sistema di chiavi o “rubinetti” che si dovevano ruotare per
permettere l’arrivo dell’aria nelle canne, un sistema quello
della rotazione che sembra essere usato anche su alcuni
Organistrum, ancora una testimonianza della possibile “origine tecnologica” della Ghironda.
Dello stesso periodo il primo manuale di musica conosciuto, il Musica enchiriadis che codifica la nascente polifonia
“unione congrua di voci diverse” ancora “cantilena synfoniaca” che usa il termine Organum per chiamare la polifonia.
Dobbiamo tenere presente che a questo punto si hanno
diversi vocaboli molto molto simili ed anche legati tra loro,
appunto Organun e Organistrum ma anche Organa, Organon
che dal greco hanno il significato di misura certa, matemati87
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camente sicura e di strumento, utensile, ed anche Organo, e
che tutti hanno un significato nel mondo dell’epoca, all’interno dello studio della musica.
E così come il monocordo fu importante per l’apprendimento della musica in forma monodica così l’Organistrum diventa importante e indispensabile per lo studio e l’esecuzione
della polifonia.
Si ha poi una evoluzione dello strumento che porta a ridurne le dimensioni pur mantenendo inalterate le caratteristiche
organologiche, cosi che potrà essere suonato da una sola
persona ed ecco che il nome muta in Synfonia e poi in
Chifonie e ancora la troviamo per alcuni secoli utilizzata nella
musica religiosa, ma l’evoluzione della polifonia stessa ne
sancirà l’allontanamento dalla musica colta quando la necessità porterà ad utilizzare tre e poi quattro voci, quando il principio essenziale del bordone modale sarà definitivamente
passato nell’uso corrente di fronte alla nuova polifonia che
esigerà delle modulazioni non possibili da uno strumento a
bordone. Sarà così che, abbandonata dal mondo religioso in
quanto strumento, ritornerà esclusivamente alla musica profana.
Resterà quindi in mano ai suonatori ambulanti, menestrelli
trovatori e trovieri che continueranno l’opera di diffusione
portandola agli estremi orientali dell’Europa.
Le varie corti si circonderanno allora di menestrelli e trovatori e sarà una gara per avere il meglio della produzione
musicale anche in contrapposizione con il mondo musicale
religioso. Ancora nella Spagna dell’epoca avremo un esempio
della forza culturale dell’incontro di diverse culture quando,
sotto la spinta del re di Castiglia Alfonso X soprannominato
Alfonso il Saggio, si arriverà al punto che la corte di Spagna
rivaleggerà per preparazione e studi, direttamente con la
Scuola musicale di Notre Dame di Parigi.
Al di là della diffusione e presenza dello strumento in tutta
Europa, testimoniata dalla ricca iconografia presente dai libri,
miniature raffigurazioni pittoriche e scultoree che troviamo
diffuse un po’ ovunque, indubbiamente il maggior numero di
notizie e informazioni le abbiamo decisamente localizzate in
Francia e Spagna.
Un’altra trasformazione linguistica avviene, il nome diventa
Vielle a roue e vieller diventa sinonimo di suonare la ghironda come vieler del suonare le viole ad arco. L’evoluzione
sociale che porta alla istituzione delle corporazioni porterà
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perfino ad avere a Parigi un “vicus viellatorum” o rue des vielleux che diventerà poi rue des Menetiers.
In questa epoca un’altra innnovazione, viene applicata alla
ghironda. Probabilmente mutuata dalla tromba marina viene
aggiunta una corda che poggiando su di un ponticello mobile
permette di ottenere quel suono percussivo così caratteristico della ghironda quando degli impulsi ritmici sono dati al
movimento della manovella. Questo sarà un apporto decisivo
per la ghironda che permetterà di farla diventare, dopo essere stato lo strumento ideale per l’accompagnamento del
canto, uno strumento altrettanto ideale per l’accompagnamento delle danze. Più raffigurazioni esistono di suonatori di
ghironda che accompagnano danze campestri e più o meno
macabre nei dipinti di George De La Tour, di Jeronimus
Bosch di Peter Brueghel e altri.
Ancora un declassamento avviene: lo strumento passa
definitivamente dalle mani del mondo colto al mondo più
socialmente basso. Diviene lo strumento di mendicanti, ciechi e anche comunque di quelle persone che non rispettano i
dettati della chiesa che bandisce le danze.
Mendicanti, ciechi questuanti, miserabili diseredati praticamente dal XIII secolo traghettano la ghironda fino alla fine
del ‘600.
Sotto il regno di Luigi XIV la ghironda comincerà ad avere
altri estimatori. Verso la metà del 600 da una parte la nascita dell’Illuminismo umanistico con l’interesse verso il pastorale e anche la fortuna artistica di alcuni artisti di strada dall’altra contribuirono a risvegliare l’interesse della aristocrazia
e a poco a poco alcuni tipi di cornamuse e la Ghironda
divennero strumenti molto presenti all’interno della vita musicale di corte.
Sarà così che la chitarra, lo strumento fino ad allora preferito da Luigi XIV, subirà delle modifiche per essere trasformata in ghironda nel periodo d’oro della ghironda barocca. Il
liutaio parigino C. Baton, fratello di Henri, virtuoso della G., si
permetterà di tagliare manici da chitarre e da liuti e di trasformare in Ghironde strumenti che cominciavano ad essere
in declino, ma anche di apportare quelle modifiche tecniche
che aumenteranno le possibilità musicali della Ghironda e
che arriveranno poi fino ai nostri giorni.
E’ dell’epoca l’interesse verso la ghironda di compositori
come Haendel, Haydn e Vivaldi che scriveranno opere
espressamente per lo strumento ed il titolo “Il Pastor Fido”
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dell’opera XIII di Vivaldi è chiaramente indicativo della poetica del periodo.
Molti altri compositori “minori” ebbero attenzione per la
Ghironda. Jean Hotteterre con La noche champetre, cronologicamente il primo di tanti compositori, Jaques Hotteterre,
fratello del primo, publicherà anche un metodo per musette,
cornamusa molto in voga all’epoca spesso in formazioni di
duo con la G..
Una vera dinastia, la famiglia Chedeville avrà una produzione molto ampia di musiche a carattere descrittivo e di vari
tipi di danze di società, Michelle Corrette, sciverà anche un
altro metodo e la G. diventa uno strumento da concerto per il
rigore, la struttura, la complessità delle sue opere. C.
Buterne organista comporrà poche ma significative opere
dove la G. è trattata nella composizione alla pari degli altri
strumenti che fanno parte dell’organico.
Ancora la famiglia Baton già citata, Jean Baptiste Anet violinista comporrà alcuni brani, Joseph Bodin de Boismortier
rinomato per le sue opere in forma di “concerto italiano” e
Jean Philippe Rameau.
Dei grandi della storia della musica il già citato A.Vivaldi,
Haydn che compose nel 1790 per il re di Napoli alcuni
Notturni per Lira Organizzata, praticamente un G. alla quale
è stato aggiunto un gioco di canne d’organo comandate dagli
stessi tasti che comandano le corde, W.A. Mozart nel Kochel
601 e 602 inserisce la G. nella formazione strumentale. E’
veramente questo periodo storico un’epoca d’oro per la ghironda con la sua più alta partecipazione alla storia della
musica e anche molto importante per gli artigiani liutai che si
dedicano alla sua costruzione.
Tecnicamente viene raggiunto il più alto risultato qualitativo: da una parte l’affinamento che avviene nella sonorità
dello strumento che deve entrare a stretto contatto con gli
altri strumenti musicali già presenti nelle corti e dall’altro raffinamento che avviene per il funzionamento meccanico vero
e proprio. La tastiera raggiunge un grado di precisione che
solamente 100 anni prima era impensabile, l’estensione
viene aumentata verso l’acuto della gamma, vengono trovate
soluzioni per modificare l’intonazione delle corde di bordone,
vengono aggiunte le corde di risonanza già presenti sulle
viole d’amore.
Vengono veramente definiti e codificati modelli, dimensioni
e aspetto esteriore, la prassi di modificare in G. chitarre
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barocche e liuti, in voga all’inizio di questo periodo fortunato,
lascia il posto ad una costruzione molto raffinata e lussuosa
di strumenti sempre in alcune forme di chitarra e di liuto che
sono utilizzate poi fino ad oggi. Le G. che entrano nelle corti
e negli ambienti economicamente più importanti, si arricchiscono dei legnami nobili ed esotici della liuteria tradizionale,
le decorazioni abbondano, in avorio in smalti in madreperle.
E’ anche del periodo la norma della presenza della testina
scolpita a decorare il cavigliere che addirittura in alcuni casi
arriva fino ad avere un intero busto scolpito come decorazione.
Tra i più conosciuti costruttori di questa epoca sono da
ricordare oltre alla famiglia Baton, Fleury e Lambert a Parigi,
Pons a Grenoble prima di trasferirsi a Parigi, la famiglia
Louvet a Parigi, che con Jean raggiunge i più alti livelli
costruttivi, considerato lo Stradivari della G., poi Colson a
Mirecourt.
Da ricordare anche Joubert a Parigi, Joseph Brun a Lione
e Berge a Tolosa, conosciuti per avere costruito ghironde
organizzate.
Sono di questo periodo alcuni strumenti che oggi si trovano in Italia in musei a Milano al Castello Sforzesco, a
Firenze nella collezione del conservatorio Cherubini oggi
nella Galleria dell’Accademia, al museo di Capodimonte
(dovrebbero essere gli strumenti che ispirarono la composizione dei Notturni di Haydn) in alcuni musei Romani ed in
alcune collezioni private.
In tutto questo periodo comunque la G. non cessò mai di
essere anche strumento del popolo, continuava in forme tecnicamente anche più semplici ad essere utilizzata da mendicanti, musicisti di strada, i Piccoli Savoiardi figure popolari
che hanno anche ispirato una sorta di letteratura dedicata,
Fanchon La Vielleuse altro personaggio popolare molto conosciuto, e comunque non cessò di essere strumento di accompagnamento del ballo nelle campagne.
La rivoluzione francese decreterà la fine della vita di corte
della G., il suo uso all’interno della musica colta.
La G. si ritirerà letteralmente nelle provincie ed il suo uso
tornerà ad essere esclusivamente popolare, venendo a poco
a poco a caratterizzarsi però in modo via via più legato alle
tradizioni regionali specifiche.
Le diverse tradizioni musicali regionali porteranno ad avere
repertori specifici, stili musicali diversi e perfino accordature
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diverse. Fino ad allora si era utilizzato l’accordo classico in
tonalità di DO con le corde di melodia accordate all’unisono
mentre nel centro Francia, per permetterne l’uso insieme alle
grandi cornamuse lì utilizzate, si sposterà l’accordo in SOL e
con le corde melodiche in intervallo di ottava, venendo ad
avere una sonorità, una voce molto diversa, e anche venendo ad assumere differenti forme in diverse regioni. Anche se
non è possibile generalizzare, le G. saranno tendenzialmente
con cassa armonica piatta a forma di chitarra nel sud della
Francia e in Bretagna, mentre conserveranno la forma a liuto
anche se diversa dalle forme del periodo nobile e barocco
nel centro Francia.
Più legata al regionalismo, se da una parte la G. subirà un
impoverimento musicale, inteso come semplificazione strutturale e compositivo del repertorio, dall’altra si avrà indubbiamente una più ampia produzione musicale testimoniata
dalle varie raccolte di repertori regionali. Gli stessi primi studi
sulla musica folklorica oltre a rendere noti i vari repertori,
tenderanno a consolidare gli stessi repertori tanto da avere
quasi una chiusura verso tradizioni di altri luoghi. Tutto questo grande movimento porterà altresì alla nascita ed al consolidamento di altrettante tradizioni regionali nella costruzione con ad esempio la situazione che si verra a trovare nella
regione del Bourbonnais-Berry, vicino al centro geometrico
della Francia, nella seconda metà dell’ottocento, dove si avrà
una concentrazione altissima di costruttori specializzati in G.
Tra alcuni di questi artigiani da ricordare Bechonnet, CaillheDecante, Nigout, la famiglia Pajot, la famiglia Pimpart e Tixier
che lavoreranno tutti nel raggio di un centinaio di chilometri.
Il regionalismo, gli studi folklorici con la costituzione di
tante società folkloristiche porteranno ad un grande sviluppo
sul territorio della G. in nome della affermazione di tradizioni
locali strenuamente ricercate e difese fino, si può dire, alla
internazionalizzazione della vita sociale che avverrà con la
prima guerra mondiale.
Quello che era un mondo ben strutturato, protetto e protettivo, e comunque chiuso ad esperienze culturali diverse, crollerà con l’incontro di altre conoscenze sociali e tradizioni di
popoli diversi. La rete delle socità folkloristiche ben diffuse
su tutto il territorio Francese comincerà a sfaldarsi per lasciare il posto a nulla o a più spiccate tendenze autonomistiche.
Le ultime notizie di presenza vitale della G., si hanno verso
gli anni ‘20, questo in Francia ma anche in Italia, dove a
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Milano e Torino si ricordano gli ultimi musicisti ambulanti che
suonavano la G.. Una tradizione di uso e anche costruttiva,
l’unica certa in Italia, si trova fino alla fine dell’800 in val Taro
(PR).
La vita della G. ricomincia ancora una volta,negli anni ‘50 e
‘60 ancora in Francia, dove qualche episodio non è mai
scomparso, intellettuali che si interessano nuovamente al
mondo popolare più dal punto di vista sociale che folklorico,
i nuovi chansonnier della canzone d’autore, sotto la spinta
dello studio della musica antica in Europa in genere.
Ricomincia un interesse verso lo strumento che ne sancisce
una vera e propria rinascita.
Il movimento folk che nasce in quegli anni e che arriverà
all’apice negli anni ‘80 ha quasi come strumento principe proprio la G. arrivando ad avere quasi 40 liutai che si occupano
della sua costruzione nella sola Francia ed un’altra trentina
in tutta Europa. Ridiffuso in tutta Europa, praticamente in
tutte quelle che sono state le varie forme che ha assunto
durante tutta la sua lunga vita, nelle sue forme più moderne
e innovative assume carattere di uno strumento veramente
“contemporaneo”. Alcuni liutai mettono a punto meccanismi,
sistemi per l’esclusione quasi automatica delle corde, (tradizionalmente le corde si mettono a contatto con la ruota
manualmente, tastiere con un numero di corde di canto maggiore del tradizionale), tastiere che permettono l’esecuzione
di accordi, numero di corde di bordone superiore arrivando
a“contaminarla” con sistemi di amplifiazione e con ibridazioni
elettroniche legate alla più moderna tecnologia digitale.
Musicalmente a fianco dell’uso più tradizionale legato all’esecuzione del repertorio della musica antica, sotto l’interesse
dell’esecuzione dei repertori medioevali, rinascimentali e
barocchi, ed alla rinascita per una forma di musica folk intesa questa volta come incontro di culture diverse più che
come affermazione della propria, la G. trova un suo spazio
anche in mondi musicali come quello jazzistico, della nuova
musica di composizione e del rock.
La contaminazione tecnica che la investe le permette oggi
di essere suonata in formazioni con i più disparati strumenti
della musica contemporanea senza dimenticare le sue caratteristiche musicali, un bordone sul quale la melodia si evolve
ed il ritmo.
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Alti e Bassi:
strumenti a fiato
tra Medioevo e
Rinascimento
Alberto Ponchio
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umerose testimonianze, già a partire dal XII secolo,
segnalano chiaramente una netta divisione tra strumenti dalla sonorità intensa e strumenti dal suono più delicato e ridotto, distinzione che assume un peso importante
durante il secolo successivo e che riflette una ben più generale suddivisione della musica di questo periodo. Non si tratta di
una mera classificazione di strumenti più o meno sonori, ma
innanzitutto di una distinzione di funzioni e ruoli musicali.
Abbiamo così due generi di musica: la musica alta e la musica
bassa, ogni genere si espleta in seno a precise occasioni della
vita musicale e dispone dello strumentario che gli è proprio.
I complessi di musica bassa, eseguono i loro brani sempre
all’interno di palazzi o comunque in luoghi chiusi, e utilizzano
strumenti dal suono intimo e raffinato, principalmente a corda
come liuti, viole, salteri, ma anche qualche strumento a fiato
come i flauti diritti o traversi, l’organo portativo, a volte anche
qualche strumento ad ancia. I ruoli non erano, comunque, sempre rigidamente stabiliti: si conoscono testimonianze di cornamuse utilizzate in ensemble “bassi”, come pure i flauti da tamburo e i piffari militari venivano regolarmente utilizzati all’aperto.
La musica suonata in ambienti aperti viene denominata alta:
si tratta molto spesso di musica cerimoniale, eseguita appunto
durante avvenimenti pubblici e privati, tornei, banchetti, anche
in battaglia e quasi sempre durante le feste di corte per accompagnare i balli. Anche in questo caso, in particolari circostanze,
l’utilizzo degli strumenti alti poteva non essere limitato ai soli
ambienti esterni: Gerson, ad esempio, un ecclesiastico di Notre
Dame vissuto a cavallo del XV e XVI secolo, scrive che generalmente solo l’organo veniva utilizzato in chiesa, ma che talvolta si aggiungesse la tromba e gli strumenti ad ancia, oppure
nel 1523 a Londra durante un’importante cerimonia nella cattedrale di San Paolo si videro impegnati nientemeno che le trombe e i pifferi del Re. A partire dal tardo Quattrocento, infatti, vi
fu nelle chiese europee un tale dilagare di strumenti musicali
da indurre una reazione ostile da parte di Erasmo, che osservò
come tutti questi strumenti (tubae, litui, fistulae e sambucae)
contrastassero con le voci in ogni luogo di culto.
Il complesso strumentale più tipico di questo genere musicale è conosciuto con il termine “Alta Cappella” o “piffari” che
definisce, fin dalla fine del XIV secolo, la formazione utilizzata
in queste occasioni. Dalla numerosa iconografia coeva risultano impiegati strumenti come la ciaramella, la bombarda e la
N
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cornamusa per l’esecuzione dei repertori monodici e a due
voci. Dal XV secolo, con la diffusione della polifonia a tre voci,
si assiste all’inserimento della tromba da tirarsi che verrà poi
soppiantata dal trombone, sua naturale evoluzione. Sovente
altri strumenti come le trombe, il flauto da tamburo, i naccheroni (piccoli timpani) e percussioni di vario genere potevano
affiancarsi a questo nucleo.
In seguito, con la diffusione della scuola fiamminga e la sua
scrittura vocale a quattro parti (discanto, alto, tenore e basso),
si sviluppano i concerti ovvero complessi di strumenti della
stessa famiglia costruiti in taglie diverse in grado di coprire l’intera estensione delle diverse voci. La netta distinzione tra complessi di musica alta e bassa si può osservare in numerose
fonti iconografiche: per esempio, nei concerti angelici del XV
secolo i due insiemi strumentali sono in genere divisi anche
all’interno dello stesso dipinto. Non bisogna dimenticare,
comunque, che molte rappresentazioni di strumenti musicali
contenute all’interno dei dipinti, celano spesso una funzione
simbolica o più semplicemente estetica, e non vengono quindi
curate dall’artista con una precisa intenzione realistica, pertanto non sempre possono essere interpretate come fonti attendibili. Inoltre, per quanto riguarda gli strumenti a fiato, la forma
esterna e addirittura il materiale con cui sono costruiti hanno
ben poca influenza sul suono prodotto, invece le parti dello
strumento di maggior impatto nel funzionamento acustico dello
stesso sono generalmente poco o per niente visibili: la presenza o meno di un’ancia in uno strumento imboccato da un angelo, ad esempio, può far confondere una ciaramella per un cornetto o viceversa e le errate proporzioni tra i fori e la cameratura interna trasformerebbero un rumoroso piffaro militare in un
flauto traverso da consort dal suono esile e raffinato.
Ogni strumento musicale, infatti, è il risultato di un giusto
equilibrio tra i vari elementi che lo compongono, ognuno dei
quali deve soddisfare precisi requisiti acustici. Dal punto di
vista fisico, gli strumenti a fiato sono costituiti da tre componenti fondamentali: un produttore di suono, un risonatore e un
dispositivo per variare la lunghezza acustica.
Il risonatore è il foro longitudinale che attraversa tutto lo
strumento entro il quale l’aria è obbligata in quel regime vibratorio che produce il suono, quasi sempre tubolare, può avere
una conformazione cilindrica oppure conica, e le sue dimensioni variare grandemente sia nel diametro sia nella lunghezza.
Da questo “foro” dipende in misura determinante il timbro, l’e-
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stensione e, in buona parte, anche l’intonazione dello strumento; è detto “cameratura” ma forse non è un caso che venga
chiamato anche “anima” proprio in virtù della sua vitale importanza. Il risonatore può terminare, infine, con una svasatura più
o meno pronunciata chiamata campana (o padiglione, nel caso
degli ottoni) che ha la funzione di “amplificare” e intonare i
suoni dello strumento.
All’estremità opposta si trova il sistema di produzione del
suono che serve a mettere opportunamente in vibrazione a la
colonna d’aria contenuta nella cameratura; la numerosissima
ed eterogenea famiglia degli strumenti a fiato può essere suddivisa secondo un criterio che individua come elemento discriminante proprio il principio fisico che sta alla base della produzione sonora dello strumento; avremo dunque tre grandi sottoinsiemi:
1 gli strumenti ad ugnatura: in cui il suono viene prodotto
grazie ad una superficie spigolosa, ricavata generalmente
sul corpo dello strumento, posta in prossimità di un risonatore. L’instabilità che si crea quando un flusso d’aria si
frange contro questo spigolo genera dei vortici in grado di
mettere in vibrazione l’aria contenuta nella cameratura. E’
il caso di tutti i flauti, diritti o traversi.
2 gli strumenti ad ancia: i quali suonano in virtù di due sottili lamine elastiche le quali, sotto la sollecitazione di un
adeguato flusso d’aria, sono in grado di entrare in rapidissima vibrazione aprendosi e chiudendosi in maniera regolare e con frequenza acustica, instaurando così all’interno
del tubo sonoro un regime vibratorio stabile. Le “lamine”
che costituiscono un’ancia vengono costruite da sempre
utilizzando canna da fiume stagionata. A questa famiglia
fanno parte strumenti come le bombarde, i fagotti o le storte.
3 gli ottoni: o più precisamente strumenti “labiofoni” in
quanto sono le stesse labbra del musicista che, comportandosi in modo analogo a quello di una comune ancia, producono le vibrazioni necessarie al sostentamento del
suono. Gli strumenti più rappresentativi di questa famiglia
sono la tromba e il trombone.
Ultima caratteristica comune degli strumenti a fiato (tranne
qualche rara ma importantissima eccezione) è il sistema capace di variare la lunghezza acustica dello strumento consentendo di modulare suoni ad altezza diversa. Questo fine può essere raggiunto allungando fisicamente lo strumento come avviene
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movendo la coulisse di un trombone oppure aprendo o chiudendo i fori opportunamente disposti lungo la cameratura di un
flauto. L’unica eccezione è rappresentata dalla tromba che,
almeno durante il periodo in esame, non dispone di alcun
mezzo per variare la propria lunghezza acustica ma riesce ad
ottenere suoni diversi sfruttando il principio dei suoni armonici
ovvero la proprietà di alcuni tipi di tubi sonori per cui, aumentando la pressione del fiato o, nel caso specifico, la tensione
delle labbra, si possono ottenere una serie di note più acute la
cui frequenza è un multiplo della nota più bassa. Molti degli
strumenti in uso tra medioevo e rinascimento fanno uso di questa proprietà limitatamente al primo o tutt’al più al secondo
armonico, non tanto per poter eseguire suoni ad altezza diversa quanto per ampliare l’estensione tonale.Gli strumenti illustrati in seguito, sono solo una piccola parte dell’enorme strumentario in uso in questo lunghissimo ed eterogeneo arco di
tempo che abbraccia culture e tradizioni estremamente diverse,
pertanto molti strumenti non verranno presi in esame in questa
sede, altri nemmeno citati.
I flauti diritti
Il mezzo di produzione sonora di questa grande famiglia di
strumenti è l’ugnatura, ricavata sul corpo stesso dello strumento chiamata labium.
L’estremità superiore dello strumento è chiusa parzialmente
da un blocco di legno in modo da ricavare un canale accuratamente realizzato, che ha la funzione di dirigere con precisione
il flusso d’aria contro il labium. Le più antiche fonti letterarie e
iconografiche relative al flauto diritto fanno pensare ad uno
strumento utilizzato prevalentemente in ambito popolare, di fattura cilindrica, dotato di sei fori di intonazione, e dalla cameratura piuttosto stretta, quanto basta per ottenere il salto di registro per sovrainsufflazione: aumentando opportunamente la
pressione del fiato si ottiene, pur mantenendo invariata la posizione delle dita, l’ottava più acuta della nota fondamentale
ovvero il primo suono armonico.
Nel corso del XV secolo, al fine di ottenere un suono più
ricco nel registro grave, viene aumentato considerevolmente il
diametro della cameratura che diventa più ampia in corrispondenza del labium e si restringe nella parte inferiore. Poiché
questo cambiamento creava maggiori difficoltà per ottenere il
cambio di registro si rese necessario introdurre un foro supple-
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mentare azionato dal pollice chiamato portavoce, che, chiuso a
metà favoriva la produzione delle note più acute.
Con l’aggiunta del settimo foro per il mignolo, il flauto diritto
raggiunge, nel primo Cinquecento, una conformazione che
verrà mantenuta senza grossi cambiamenti fino alla metà del
XVII secolo e viene costruito in numerosissime taglie, dal
sopranino al grande basso. Tutti gli strumenti vengono costruiti in un sol pezzo (tranne quelli di maggiori dimensioni che
potevano essere realizzati in più sezioni e poi incollati), le
taglie più gravi, e che hanno quindi dimensioni maggiori,
dispongono di chiavi per poter chiudere i fori altrimenti irraggiungibili dalle dita del suonatore; tale semplice meccanismo
veniva celato da una protezione in legno chiamata “fontanella”
da cui fuoriesce solo la porzione di chiave che deve essere
tastata; la sua forma caratteristica a “coda di rondine” permetteva l’utilizzo dello strumento anche dai “mancini”.
Della stessa famiglia fa parte anche il flauto da tamburo:
strumento cilindrico, dalla cameratura molto stretta in rapporto
alla sua lunghezza, conta solamente tre fori per le dita - due
anteriori e uno posteriore per il pollice – viene suonato utilizzando la mano sinistra. Questo particolare tipo di flauto è concepito per produrre molto facilmente suoni armonici ottenendo
da una sola posizione delle dita una serie di note ad intervalli
ben precisi (ottava, dodicesima, seconda ottava …).
Tralasciando la nota fondamentale il cui debole suono e la
grande distanza dal primo armonico non la rendono musicalmente praticabile, tutte le note comprese tra il secondo armonico e quelli successivi possono essere prodotte per mezzo dei
tre fori di intonazione. In questo modo il flauto da tamburo
dispone di un’estensione assai ampia, superiore ad una dodicesima tale da consentire agilmente l’esecuzione di una melodia; poiché l’esecuzione melodica richiedeva l’uso di una sola
mano, il musicista era in grado di produrre un accompagnamento ritmico per mezzo di un tamburo a cordiera fissato alla
spalla o al polso e percosso con un apposito mazzuolo.
I flauti traversi
Sono strumenti cilindrici, sia nella parte esterna, sia nella
cameratura interna; contano sei fori di intonazione e un foro di
insufflazione laterale. Le testimonianze più antiche fanno risalire la sua comparsa in Europa già dal sec. XII, doveva essere
uno strumento di ridotte dimensioni e dalla cameratura stretta,
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il cui suono deciso e penetrante gli consentiva di suonare insieme a timpani e tamburi durante le fanfare militari.
In epoca rinascimentale questo strumento si evolve per
adattarsi alle nuove esigenze estetiche, la cameratura diventa
più ampia, viene costruito in molteplici taglie, il suono diviene
molto più dolce e, al pari dei flauti diritti viene realizzato in
diverse taglie, dal discanto al basso. Grazie alla possibilità di
modificare a piacere il flusso d’aria diretto contro l’ugnatura, i
flauti traversi riescono a produrre il piano e il forte senza compromettere l’intonazione e possono disporre inoltre di un’estensione assai maggiore dei flauti diritti in cui la geometria del
canale dell’aria viene stabilita dal costruttore e quindi non può
variare.
È interessante notare come le traverse rinascimentali non
abbiano affatto soppiantato il vecchio piffaro militare ma, in
ambiti ben distinti, siano stati utilizzati entrambi fino a tutto il
XVII secolo, a testimonianza del fatto che gli strumenti difficilmente vengono “migliorati”, semplicemente mutano al mutare
dei nuovi contesti in cui vengono utilizzati.
Le ciaramelle e le bombarde
Il termine ciaramella designa genericamente un tipo di strumento ad ancia doppia dalla cameratura conica che termina
con una campana piuttosto pronunciata. Derivate dalla tibia
romana le ciaramelle scompaiono in seguito alle invasioni barbariche per poi ricomparire attraverso la cultura islamica
durante il periodo delle crociate e della dominazione dei Mori
nella penisola Iberica; il termine ciaramella in tutte le sue
varianti sia italiane (cennamella, celimela, cialamello…) o straniere (schalmay in tedesco, shwam in inglese, chalemele in
francese, chirimia in spagnolo), sembra derivare sempre dal
latino calamus (canna) e designa esclusivamente la taglia dello
strumento soprano; per le taglie più gravi viene utilizzato il termine Bombarda, probabilmente mutuato dal nome dell’arma da
fuoco che ne ricorda la forma.
Questi strumenti presentano sette fori di intonazione, nella
ciaramella il foro del mignolo è doppio per poter consentire
l’uso dello strumento anche a mani invertite, nella bombarda
questo foro non può essere diteggiato direttamente dalle dita
del musicista a causa della posizione troppo lontana rispetto
altri fori. È presente, dunque, una chiave a coda di rondine
simile a quella utilizzata negli strumenti bassi dei flauti a
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becco. Le taglie più gravi possono disporre di un sistema composto da 4 chiavi (due per il mignolo e due per il pollice) che
consente di aumentare l’estensione dello strumento verso il
basso. Tra l’ultimo foro tastato e la fine della campana sono
presenti inoltre alcuni fori di risonanza i quali, oltre a intonare
la nota pedale, hanno la funzione di irradiare maggiormente il
suono dello strumento.
Al capo opposto, nell’imboccatura, l’ancia sporge solo parzialmente dalla pirouette, un cilindretto cavo di legno che funziona da piano d’appoggio per le labbra del suonatore, aiutando a mantenere una forte pressione del fiato per produrre suoni
molto intensi (oltre a consentire la respirazione circolare). È da
sottolineare, inoltre, l’esistenza di una famiglia di strumenti, in
tutto simili alle bombarde, che presentano all’estremità superiore una capsula d’insufflazione al cui interno l’ancia poteva
vibrare liberamente. Questi strumenti vengono chiamati generalmente Rauschpfeiffen oppure nicolo ma la loro distinzione
risulta spesso difficoltosa dato che strutturalmente non sono
affatto diversi dalle normali bombarde e ciaramelle. In più non
è improbabile che il sistema di insufflazione fosse addirittura
intercambiabile come succede per molti altri strumenti di questo periodo.
L’utilizzo delle bombarde è testimoniato sin dal XIII secolo
e, per il loro suono forte e penetrante, secondo solo alla tromba, vennero subito utilizzate a fianco di strumenti a percussione e degli ottoni dai complessi cittadini per accompagnare
manifestazioni civili, cortei.
La cornamusa
È uno strumento ad ancia incapsulata dotato di più canne
sonore, alcune tastate, altre ad intonazione fissa. Quelle tastate, sono dette “canti” e sono fornite internamente di un’ancia
doppia e una cameratura conica, quelle fisse invece si chiamate “bordoni”, suonano grazie ad un’ancia semplice su cameratura cilindrica e fungono da accompagnamento per la melodia.
Un sacco, spesso ottenuto grazie al contributo del tutto involontario di una giovane capra, viene gonfiato per mezzo di un
piccolo tubo munito di una valvola di non ritorno: in questo
modo l’aria soffiata all’interno non può più uscire se non attraversando le ancie delle varie canne sonore. Oltre a garantire
una buona scorta d’aria, questo sacco, consente al suonatore
di controllare la pressione dell’aria tramite la forza esercitata
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dal braccio ma non offre alcuna possibilità di articolare le note
rendendo impossibile l’esecuzione, per esempio, delle note
ribattute. Per ovviare a questa mancanza i suonatori di cornamusa avevano escogitato alcuni ingegnosi espedienti per
simulare l’effetto di uno staccato sviluppando una tecnica raffinatissima che faceva uso di rapidissimi abbellimenti oppure
alternando le note della melodia con la nota pedale della
canna, confondendola al suono del bordone principale cui era
generalmente accordata all’unisono o all’ottava. L’ascoltatore
percepiva così una breve interruzione di suono tra le varie note
della melodia. La sostanziale autonomia di questo tipo di strumenti, che consentiva ad una sola persona di eseguire una
melodia insieme ad un accompagnamento armonico, ne evidenzia il carattere principalmente popolare anche se non sono
rare le testimonianze che li vedono all’interno delle varie corti
europee.
Le storte
Agli inizi del 1500 comparve una famiglia di strumenti ad
ancia adatti per la musica bassa, dalla cameratura cilindrica e
dalla caratteristica curvatura dell’estremità inferiore. L’ancia
doppia che gli permette di suonare non viene imboccata direttamente ma è racchiusa all’interno di una capsula nota in Italia
con il nome di bussola. Il suonatore soffia attraverso un’apertura praticata all’estremità superiore della capsula e non ha
modo di intervenire direttamente sull’ancia per modificare il
volume di suono o l’intonazione generale. Il suono è caratterizzato da un timbro nasale e ronzante, di potenza ridotta
rispetto agli altri strumenti ad ancia libera; esistono testimonianze che vedono l’intera famiglia impiegata nell’accompagnamento delle danze, o in concerti di musica bassa insieme
ad altri tipi di strumenti in cui il suonatore, dopo aver rimosso
la bussola, imbocca l’ancia direttamente, in modo da controllarne le vibrazioni e produrre una sonorità che si fondesse al
meglio con gli altri strumenti. Viene impiegato tanto in ambito
sacro quanto in circostanze profane, comunque sempre all’interno di ambienti chiusi.
La cameratura molto stretta e cilindrica impedisce alla storta di cambiare registro, ne risulta, quindi, un’estensione tonale
abbastanza ristretta che viene però leggermente ampliata per
mezzo di alcune chiavi aggiuntive. Gli strumenti che non sono
in grado di “ottavizzare”, infatti, possono modulare tante note
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quanti sono i fori a disposizione più, ovviamente la nota fondamentale; in questo caso sette fori anteriori e uno posteriore per
il pollice (che non ha, ovviamente la funzione di portavoce)
garantiscono l’estensione di una nona a cui si aggiungono una
o due note supplementari quando lo strumento viene dotato
dello stesso numero di chiavi.
La caratteristica curvatura dello strumento non ha effetto
alcuno sulla resa sonora dello strumento, né, tantomeno,
avere una qualche funzione pratica per cui la giustificazione di
tale fattura deve essere ricercata altrove, forse un retaggio di
caratteri arcaici relativi ad altri strumenti ormai in disuso.
Molti altri strumenti dalle caratteristiche acustiche simili
(ancia doppia, cameratura cilindrica con fori di intonazione)
furono introdotti nel XVI secolo; tra questi ricordiamo i bassanelli, i doppioni, lo schryari e il Kortholt.
Il fagotto
Verso la metà del XVI secolo fa la sua comparsa un nuovo
strumento ad ancia dalle caratteristiche innovative: il fagotto o
dulciana. Ha una cameratura conica spezzata in due sezioni
scavate parallelamente e congiunte all’estremità bassa, in questo modo imboccatura e campana vengono a trovarsi entrambe alla estremità opposta; per essere suonato agevolmente
richiede l’impiego di cannello curvo tipicamente formato ad “S”
su cui era montata un’ancia doppia imboccata senza l’ausilio
della pirouette. Ripiegando la cameratura, si ottegono tre
grandi vantaggi: in primo luogo vengono dimezzate le ingombranti dimensioni di uno strumento esteso che, come nel caso
della taglia più grave delle bombarde, poteva raggiungere i 290
cm di altezza, secondariamente, sfruttando lo spazio tra le due
camerature era possibile praticare dei fori di intonazione molto
inclinati in grado di raggiungere punti della cameratura molto
distanti tra loro pur mantenendosi sulla superficie dello strumento sufficientemente vicini da poter essere tastati agevolmente e senza stancare la mano; infine i fori di intonazione
delle note gravi possono essere chiusi con facilità dai pollici di
entrambe le mani senza richiedere la presenza di lunghe e
poco agili chiavi meccaniche.
Il fagotto apparteneva alla famiglia degli strumenti alti, ma
poteva essere impiegato anche in complessi di musica bassa,
in particolare questo strumento aveva la possibilità di suonare
sostituendo la campana con un tappo traforato che aveva la
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funzione di una sordina. Applicando il percorso opposto a quello che era avvenuto per le bombarde, in cui uno strumento inizialmente concepito per suonare in un registro acuto veniva
modificato ed adattato in epoca successiva per poter raggiungere le note più gravi, anche il fagotto venne costruito in taglie
diverse per formare una famiglia completa. Tuttavia, essendo
stato ideato con lo scopo ben preciso di ottenere uno strumento basso agile e maneggevole non deve stupire il fatto che le
taglie più acute fossero usate assai più raramente: il fagotto si
rivelò ben presto molto più adatto e più versatile nel fungere da
basso ad altri strumenti. Col passare del tempo la tendenza al
grave portò alla realizzazione di versioni sempre più basse
come testimonia, ad esempio, lo strumento costruito dal berlinese Hans Schreiber intorno ai primi anni del XVII secolo,
capace di raggiungere il Fa a sedici piedi, oltre un’ottava e
mezza al di sotto dell’ultima nota del fagotto ordinario.
Il sordone
Utilizzando lo stesso principio costruttivo del fagotto, vennero creati, nel corso del XVI secolo, nuovi strumenti ad ancia
tutti caratterizzati dalla presenza di canneggi paralleli ricavati
in un singolo massello di legno. La cameratura del sordone è
formata da due tubi cilindrici comunicanti tra loro nella parte
bassa dello strumento, ad una estremità dei quali viene montata un’ancia doppia. Il comportamento acustico tipico dei tubi
sonori cilindrici eccitati da un’ancia è quello di produrre un
suono molto più grave (circa il doppio) di quanto le dimensioni
esterne farebbero supporre, principio che esalta ancora di più
la tendenza verso i suoni gravi di questo strumento e, al pari
della storta, non può giovare del salto di registro per cui l’aumento delle note disponibili va di pari passo con un aumento
dei fori da comandare con le dita. I pochissimi esemplari che
sono giunti sino a noi si discostano un poco dalle descrizioni
fatte dai trattatisti dell’epoca, sono tutti di taglia grave o gravissima e contano un numero di chiavi decisamente inusuale
per gli strumenti dell’epoca: ben sei e venivano azionate, oltre
che dai polpastrelli anche dalle falangi delle dita. Come si intuisce dal nome stesso il suono di questo strumento non prevale
per intensità e il timbro caratteristico risulta in qualche modo
soffocato, mai aspro; seguendo un suggerimento di Michael
Praetorius, compositore e teorico tedesco della fine del XVI
secolo, possiamo immaginare uno di questi strumenti raddop-
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piare all’ottava grave la linea del basso di un altro concerto di
strumenti.
Il cervellato
Comparso verso la metà del XVI secolo, questo piccolo e
curioso strumento porta alle estreme conseguenze i principi
costruttivi del sordone contando non due, ma addirittura nove
camerature parallele.
Similmente a quanto accade per fagotti e sordoni tutte le
camerature sono collegate tra loro, in successione, alternativamente nella parte superiore e inferiore dello strumento formando una lunga serpentina che scorre ripetutamente da un capo
all’altro ed esce senza particolari variazioni di diametro dalla
lato opposto a quello di entrata. Otto forature sono disposte
simmetricamente attorno alla nona che si trova al centro sulla
quale viene montata una pirouette ampia, adeguata a contenere un’ancia di grosse dimensioni, che fosse in grado di sostenere frequenze bassissime; un cervellato alto circa trenta centimetri dispone infatti di una cameratura lunga oltre 2,7 metri,
concepita per generare (ricordiamo le proprietà dei tubi cilindrici) i suoni più gravi tra tutti gli strumenti rinascimentali. I fori
di intonazione seguono una disposizione del tutto singolare,
sono variamente inclinati per poter intersecare esattamente la
giusta porzione di cameratura e poter, al contempo essere
tastati con disinvoltura; sono numerosi, da 10 a 13, garantendo
una buona estensione e coinvolgono tutti i polpastrelli e alcune
falangi senza richiedere l’ausilio di alcuna chiave meccanica.
La tromba
La tromba naturale, chiamata modernamente in questo modo
per distinguerla dagli strumenti moderni dotati di pistoni, è
forse lo strumento concettualmente più semplice tra tutti quelli
elencati: è, infatti costituito da un singolo tubo metallico dotato
di bocchino che termina con una campana esponenziale.
Questo lungo canneggio cilindrico può rimanere esteso,
oppure ripiegato in vario modo pur senza provocare alcuna
conseguenza sulla resa acustica dello strumento.
La tromba diritta fu, probabilmente, introdotta dagli arabi
attraverso la penisola iberica intorno la metà del X secolo, la
cui diffusione fu facilitata e stimolata anche dalle Crociate; il
canneggio è prevalentemente cilindrico e mostra i caratteristici
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pomi ornamentali. In realtà, dalla banda militare saracena, derivano, non solo le lunghe trombe di metallo, ma anche i naccheroni e i piffari.
Purtroppo non si è conservata alcuna tromba medievale, ma
si ritiene che fosse suonata soprattutto in modo monotonale,
con un estensione che non doveva superare facilmente i primi
quattro armonici. Cronache del primo Quattrocento narrano di
feste in cui le danze venivano accompagnate dalla musica fragorosa di trombe e pifferi suonati assieme: è probabile che le
poche note a disposizione di questi strumenti servissero da
bordone alla melodia delle bombarde. Già dalla fine del secolo
XIII, la tromba accompagna regolarmente le attività cavalleresche nelle battaglie, nei tornei, nelle cavalcate e nei banchetti.
A partire dalla fine del XIV secolo iniziano a svilupparsi le
trombe piegate a forma di S la cui maggiore lunghezza e il canneggio più sottile concede una maggiore produzione di armonici. In questo periodo avviene l’ associazione sempre più frequente dei complessi di trombe con i naccheroni e contemporaneamente si assiste alla nascita di quelle potenti corporazioni di trombe e timpani che resteranno attive fino al XVIII secolo.
Verso la fine del secolo XV secolo la vecchia tromba estesa comincia a cadere in disuso restando un modello antiquato,
riservato a particolari processioni e parate ecclesiastiche o cittadine. Infine, nel corso del secolo XVI, il diametro interno del
canneggio della tromba viene ridotto sensibilmente, e la campana assume ora la caratteristica forma esponenziale; questi
cambiamenti possono aver comportato un leggero calo di
potenza sonora dei segnali militari, con il vantaggio, però, di un
maggior equilibrio e di un timbro più raffinato nell’esecuzione
d’insieme. Per quanto riguarda l’utilizzo di questi strumenti
Mersenne spiega che
“… servono in tempo di pace e di guerra e per tutti i
tipi di solennità pubbliche, come matrimoni, banchetti, tragedie e giostre: ma il loro uso principale è
destinato alla guerra, nella quale la maggioranza
delle azioni è caratterizzata dai suoi diversi
suoni…ed è da sottolineare che senza dubbio le
trombe di Mosé facevano gli stessi intervalli delle
nostre, per cui è facile concludere che è in quella
stessa maniera che i preti convocano le genti, si presentano ai principi, si celebrano le solennità e si pre-
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parano i cuori e gli spiriti dei soldati ad andare alla
guerra”.
Pochissime informazioni sulle musiche suonate dai complessi di trombe del XVI secolo sono oggi disponibili, dal
momento che queste venivano tramandate oralmente, ma si
può asserire con una certa sicurezza che nell’Italia del nord in
questo periodo si definì uno “stile italiano” che venne successivamente esportato nelle corti di tutta Europa dove i trombetti
ingaggiati molto spesso erano di origine italiana.
La tromba a tiro e il trombone
In molte raffigurazioni quattrocentesche di origine francese
che ritraggono complessi di bombarde, mostrano una tromba a
forma di S, il cui bocchino appare premuto contro le labbra dall’indice e dal medio di una mano mentre l’altra afferra la parte
di tubo che scorre lungo la canna d’imboccatura. Questi complessi erano noti con il nome di haute ménestrels la cui formazione tipica comprendeva solitamente una ciaramella, una
bombarda e una tromba del tipo appena descritto. Tra i compiti degli haute ménestrels vi era tra l’altro quello di marciare alla
testa delle processioni, di suonare durante i banchetti e per
accompagnare le danze di corte; l’impiego usuale di tre strumenti diatonici fa pensare ad un’esecuzione polifonica, difficilmente conciliabile con uno strumento privo di possibilità diatoniche come le normali trombe naturali. Questo strumento compare negli inventari dell’epoca sotto il nome trompette des
ménestrels o trompeta bastarda e viene sempre distinto dalle
usuali trombe militari, il che lascia supporre che si tratti effettivamente di strumenti diversi. In effetti la tromba dei menestrelli era munita di un segmento iniziale telescopico: il suonatore
con una mano premeva il bocchino contro le labbra, mentre con
l’altra faceva scorrere in su e in giù l’intero corpo dello strumento lungo il segmento iniziale riuscendo quindi a produrre
una serie di suoni diatonici.
Il trombone fece la sua comparsa qualche tempo dopo ottenendo un immediato e duraturo successo. A differenza della
tromba a tiro il nuovo strumento disponeva di due tubi telescopici paralleli tenuti insieme da un supporto trasversale sui quali
un tubo ripiegato a U chiamato coulisse era libero di scorrere
avanti e indietro mentre il resto dello strumento rimaneva
fermo. Furono proprio questi due rami estraibili che consentiro-
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no di ridurre della metà lo spostamento necessario per abbassare un armonico e fecero del trombone uno strumento estremamente agile e preciso. Inoltre era dotato di una grande dinamica e di un’estensione enorme se paragonata agli altri strumenti a fiato del periodo tanto da rendere superflua la costruzione di molte taglie diverse come invece avveniva gli altri strumenti a fiato. La famiglia completa infatti conta appena tre
strumenti: il contralto, il tenore (lo strumento più diffuso) e il
basso. Già intorno alla prima metà del Quattrocento compaiono
i primi documenti che attestano come l’antico ruolo assegnato
alla tromba a tiro nei complessi di bombarde era stato subito
ereditato dal trombone, che lo manterrà fino a tutto il XVII secolo.
Il cornetto
Il cornetto è uno strumento costruito il legno duro, la cameratura notevolmente conica, dotato di un piccolo bocchino
anch’esso di materiale ligneo o eburneo e dotato di sei fori per
le dita più uno per il pollice che non ha funzione di portavoce.
Si colloca tra la famiglia degli ottoni e quella degli strumenti a
fiato in legno, in un equilibrio instabile ed affascinante. Il cornetto riveste senza dubbio un ruolo di primissimo piano nel
panorama musicale rinascimentale che lo ha visto protagonista
sia nella musica sacra, sia in quella profana. Gli strumenti più
antichi sono costruiti in maniera analoga a quella degli altri
strumenti a fiato: alesati e torniti , mentre il cornetto curvo, che
venne elaborato con tutta probabilità nei primi anni del XVI
secolo, a causa della sua forma doveva necessariamente essere diviso longitudinalmente in due alvei, sui quali veniva poi
ricavata una scanalatura che, una volta unite ed incollate le
due parti, formava la cameratura conica. Il tutto veniva poi
avvolto da una pelle di cuoio per sigillare ogni eventuale trafilo
d’aria. Per questo motivo i cornetti curvi sono detti anche negri,
mentre quelli realizzati al tornio, non avendo bisogno di essere
ricoperti con il cuoio, mantenevano il colore chiaro del legno e
per questo erano detti cornetti bianchi o anche cornetti muti a
causa del suono leggermente velato che li caratterizzava. Il
cornetto, insieme ai tromboni veniva impiegato sovente nelle
cappelle e nelle cattedrali dove, nella musica vocale poteva
fungere da sostegno per le voci acute.
Aspirazione massima dell’estetica rinascimentale è l’imitazione della voce umana; a questo proposito il cornetto sembra
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lo strumento che più riesce a soddisfare questo canone estetico grazie al timbro chiaro e brillante, ad una dinamica ampia
ma soprattutto alla possibilità di imitare la pronuncia dei cantanti grazie ad un’articolazione precisa e pulita. Mersenne eloquentemente scrive al riguardo:
“Quanto alle proprietà del suono che ha, sono simili
al brillare di un raggio di sole che splende nell’ombra
o nelle tenebre, allorché lo si sente tra le voci nelle
cattedrali o nelle cappelle”.
Il lento declino che coinvolse il cornetto verso la fine del XVII
secolo seguì l’ascesa di un nuovo strumento dalle qualità
espressive e duttilità tecniche eccezionali: il violino, già proiettato verso il nascente stile barocco e destinato a condizionare,
nei secoli successivi l’evoluzione delle nuove forme musicali.
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Stili e strumenti
della musica
nel Medioevo
Giuseppe Paolo Cecere
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l tema del recupero della musica storica ha attraversato,
nel secolo appena trascorso, diversi momenti, segnati di
volta in volta da finalità, modalità e scelte politico- culturali di diversa natura.
Generato in prima istanza dalle tematiche romantiche, ed
oggetto di una ricerca molte volte superficiale e disorganica, l’interesse per la musica dei secoli precedenti al XVIII è
venuto progressivamente delineando modalità di approccio
via via più mirate e specialistiche che hanno dato origine a
nuove “categorie” di pensiero musicale e musicologico.
La crisi di una certa concezione che vede la musica come
fenomeno “in divenire”, soggetto ad un “progresso” inesorabile e necessario che a partire da forme elementari viene
via via sviluppando modelli di volta in volta più complessi,
articolati e “soddisfacenti”, piuttosto che come lo stratificarsi di poetiche solo in una certa misura legate al momento
culturale contingente e, per buona parte, coerentemente
leggibili e fruibili come momento artistico in se, ha contribuito non poco a porre lo studio dei fenomeni musicali del
passato (ma anche del presente di quelli legati ad universi
musicali diversi da quello occidentale o trasversali ad esso
come la musica cosiddetta “etnica” o di tradizione orale)
sotto una luce diversa, non più legata alla ricerca delle
forme semplici o archetipe di un progresso che trova, in
qualche misura, il suo compimento nella sinfonia romantica
o nelle scuole della prima metà del Novecento,
L’emancipazione da una concezione “evoluzionistica”
della musica ha portato la ricerca sulla musica antica nella
prospettiva della “riscoperta” di forme e modelli poetici non
necessariamente “esauriti” o assimilati all’interno di formulazioni più complesse elaborate successivamente, rendendo così alla musica del passato lo status di musica “tout
court”, esauriente in se e prodotto di modelli socio-comunicativi non esausti o completamente desueti.
Per tentare un parallelo esemplificativo, anche se sicuramente semplificativo e non esauriente dei diversi e complessi aspetti del problema: chi oggi potrebbe affermare in
tutta tranquillità la superiorità artistica, o solamente la maggiore consapevolezza linguistico-poetica, dell’opera di, ad
esempio, Sanguinetti rispetto a quella del Petrarca. Penso
che pochi si sentirebbero di affermare a cuor leggero anche
la semplice maggiore modernità di un discorso artistico
rispetto all’altro. L’argomento non può certamente essere
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ridotto e semplificato a questo livello ma, credo, l’esempio
possa mettere in evidenza quanto semplicistica possa risultare una concezione, tutt’ora ancor ampiamente diffusa tra
molti musicisti, operatori culturali o semplici fruitori, che
vede nella musica antica più un fenomeno di interesse
“museale” che artistico, o che ascrive le valenze dello studio e dell’interpretazione del patrimonio musicale antico a
“stravaganze” culturali di dubbia utilità oppure a furbeschi
ripieghi artistici.
Ritornando all’argomento principale, l’interesse crescente
per la musica cosiddetta “antica” (termine ancora vago che
ci riserviamo di delimitare in seguito) si è quindi dotato di
strumenti specifici e segnatamente scientifici, distinguendosi in branche di interesse diverse e dotando quindi gli interpreti di musica “antica” di quegli strumenti concettuali
necessari ad un approccio atto a consentire un atteggiamento interpretativo consapevole e adeguatamente documentato.
Si è così venuta distinguendo una “classe” di interpreti
strettamente legata al dato storico, che si è distinta per lo
sforzo di associare all’attività strettamente musicale e concertistica una parallela azione nel campo della ricerca e
dello studio delle fonti musicali storiche.
Questo atteggiamento viene solitamente individuato
e usualmente designato come approccio interpretativo di
tipo “filologico”. Una certa tradizione non scritta vuole che
l’approccio “filologico” nell’esecuzione pubblica, leggi “concerto”, del repertorio musicale storico carichi di eccessiva
piattezza l’evento musicale, caratterizzandolo per una dose
impagabile di noia, e fortemente segnato dalla rinuncia ad
un approccio interpretativo “creativo” ed “artistico”.
Tale opinione spesso, e dobbiamo ammetterlo, potrebbe
quasi essere condivisibile se non fosse che la radice della
noia viene erroneamente individuata come una “qualità”
imprescindibile dell’approccio filologico , come se fosse
proprio questo atteggiamento a rendere la materia musicale paurosamente carente di “premio di seduzione”, e non
piuttosto la rinuncia ad una creatività interpretativa che la
filologia certo non vanifica o ostacola.
E’ comunque mia modesta opinione che lo studio del
materiale musicale originale, una coerente scelta interpretativa rispettosa dei canoni desumibili dalle informazioni
storiche, una adeguata scelta organologica rispettosa dei
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momenti storici e delle aree geografico-culturali di provenienza del “reperto” musicale, un atteggiamento vocale non
imitativo di modelli posteriori e, per farla breve, tutta quella
serie di piccole limitazioni ed indicazioni derivanti dalla
ricerca storica e musicale, non disgiunta dal ricorso ad un
proprio atteggiamento artistico e da un approccio critico,
non possa che giovare alla esecuzione di un repertorio
spesso remoto solo da un punto di vista cronologico.
Ragionare sulla validità artistica di repertori così lontani
nel tempo sarebbe sicuramente interessante ma imporrebbe una riflessione a tutto tondo sul “significato” della musica, renderebbe necessario l’indagare una presumibile o
presunta semanticità della musica come fenomeno o il chiederci quale senso diamo al nostro fare, o ascoltare, musica medievale; ma sicuramente un discorso di questo tipo
non sarebbe riducibile ad un breve intervento convegnistico
e, con buona probabilità, si correrebbe il rischio di uscire
dal tema dato.
La musica del medioevo occuperebbe storicamente l’arco
di almeno sei secoli, ma quella a cui qui intendo riferirmi è
quella delimitata storicamente nel cosiddetto “basso
medioevo”, ed il repertorio al quale intendo rivolgere particolare attenzione è quello profano o quello di ispirazione
devozionale , lasciando la trattazione di quello liturgico e
paraliturgico agli specialisti del settore.
La musica occidentale, quale oggi la conosciamo, ha origini lontane che però appartengono quasi per intero al
regno dell’ipotetico, ed una storia della musica non avrebbe
dignità se prescindesse da dati documentari. Questa necessità di documenti ci pone però di fronte ad alcune difficoltà;
sappiamo che tra le forme d’arte e tra quelle della comunicazione delle idee e dei concetti la materia attraverso la
quale queste si “fissano” nel tempo ha una componente
fisica tramandabile (le statue, gli elementi architettonici, i
dipinti , la parola scritta e l’insieme di segni e simboli che
ne permettono la trasmissione). Per la musica, arte immateriale per eccellenza, che ha come oggetto espressivo primario il tempo, è stato solo ieri che la tecnologia ha reso
possibile la registrazione di un evento musicale, dotandoci
della possibilità di fissarlo adeguatamente su un supporto
più duraturo e meglio definito del semplice ricordo, ma questo è stato per lo meno impensabile per tutto il resto della
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storia dell’umanità. L’indagine storica sente la necessità di
rivolgersi ad oggetti materiali tangibili ed indagabili e la
musica del passato ha potuto lasciare traccia di se solo
attraverso il mezzo della notazione musicale, ovvero attraverso un sistema di segni grafici più o meno adeguato alla
rappresentazione di un’idea musicale. La notazione della
musica occidentale trova una prima definizione sufficiente
(cioè in grado di trasmettere un evento musicale attraverso
la rappresentazione di almeno una parte delle sue caratteristiche salienti) solo dopo l’anno mille dell’era cristiana,
quindi l’unica musica che siamo realmente in grado di leggere e rieseguire, e quindi riascoltare, è quella che, a partire dal Basso Medioevo, è stata notata mediante un adeguato, ed in continua progressiva definizione, sistema di
segni grafici.
Risulta evidente, anche ad una analisi superficiale e
disattenta, che la quasi totalità del repertorio musicale compreso tra X e XV secolo è essenzialmente concepita per
un’esecuzione vocale, e quanta di questa musica sia stata
concepita anche per un’esecuzione strumentale è difficile a
dirsi. Per molto tempo sono coloro che utilizzano musicalmente la voce a potersi fregiare del titolo di cantores, unica
categoria “pratica” concepita dal complesso mondo musicale medievale, che vede nella figura del musicus, filosofo e
teorico, la sua massima espressione.
Se la musica in S. Agostino è “… la scienza della giusta
modulazione (ars bene modulandi) conforme al suono ed al
canto…”,asserzione questa che potrebbe anche lasciare
intuire una qualità generica chiamata suono che potrebbe
essere diversa dal canto (e quindi forse prodotta dagli strumenti musicali), nel X secolo Hucbald de Saint Amand nel
suo (attribuito) Musica Enchiriadis, scritto in forma dialogica, alla fatidica domanda del Discepolo:“ Che cos’è la musica?“ fa rispondere al Maestro: “La scienza per cantare in
modo giusto (ars bene canendi), la strada più facile per la
perfezione del canto” ed è solo da un punto di vista strettamente pedagogico che alla domanda del Discepolo “In
che modo?” si sente di poter menzionare uno strumento
musicale: “Così come il maestro dapprima mostra le lettere
su una tavola (le lettere della notazione secondo la tradizione greco-romana) così il musicista pone i suoni di una
melodia sul monocordo“.
Allo strumentista non sarebbe pertinente altro, quindi,
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che la speranza di poter imitare le doti espressive, naturali
ed acquisite, del cantore attraverso espedienti meccanici,
oggetti sonori che però difficilmente potranno essere in
grado di ricompensarlo dello sforzo con risultati imitativi
perlomeno apprezzabili. L’elemento vocale, nella musica
del medioevo, è assolutamente primario ed è quindi dalla
scelta di una “vocalità” che dovrebbe partire un serio
approccio al repertorio. Il dibattito sulla vocalità adeguata
al repertorio medievale è a tutt’oggi aperto, anche se una
serie di indicazioni possono essere sicuramente rintracciabili. La ricerca di una “naturalità” della voce dovrebbe essere il primo passo verso la definizione di questa, sempre
individuale, vocalità adeguata al repertorio; e non mi riesce
di condividere quanti pensano che la strada di questa ricerca passi attraverso la imitazione della vocalità melodrammatica o di quella delle mondine o di quella delle voci bulgare, e via dicendo. Una indicazione operativa che ritengo
sicuramente valida è quella individuata nelle tecniche di
canto che fanno riferimento agli studi sulla voce di Gisela
Rohmert e ad una “naturalità” consapevole della emissione
vocale.
Molta della musica medievale in circolazione sopravvaluta la dimensione strumentale a scapito di quella vocale,
caricando esageratamente la presenza e la sonorità degli
strumenti nella esecuzione di buona parte dei repertori, con
il risultato di costringere ad una emissione vocale forzata
che conduce ad una poca cura del testo e del fraseggio.
Una cattiva abitudine, trovo, sia quella di caricare di percussioni la esecuzione di repertori che non solo non lo
richiedono ma che sembrano suggerire di evitarlo. E così
molta musica trobadorica, laudistica ed arsnovistica corre
dietro a modelli più prossimi a quelli di consumo e di moda
che impongono ritmi semplici ed inequivocabili, scanditi
rumorosamente per orecchie non esercitate ad un ascolto
qualitativo.
Sicuramente buon costume può essere quello di adeguare le scelte strumentali ai repertori, utilizzando strumenti e
organici strumentali desunti da fonti non musicali coeve e
geograficamente prossime, ricorrendo all’utilizzo di quegli
strumenti più probabili e timbricamente adeguati alle qualità
delle voci .
La notazione medievale, ma anche quella successiva,
non solo non prevede la precisa prescrizione degli stru-
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menti di accompagnamento ma sembra quasi non tenerne
conto, lasciando a modelli orali non determinati, e difficilmente delineabili, sia l’opportunità che la misura che le
modalità di un accompagnamento strumentale del canto.
In questo caso ci vengono in aiuto informazioni desumibili
da fonti diverse , iconografiche, letterarie, cronachistiche e,
solo in minima parte, trattatistiche; queste fonti suggeriscono spesso un utilizzo, moderato, degli strumenti nel repertorio vocale profano ed anche devozionale. Le chanson trobadoriche menzionano spesso isolati suonatori di viella che
accompagnano giochi e tenzoni amorose “....... En un vergier, clos d’aiglentier oi une viele; La vi dancier un chevalier et une damoisele...(Ce fut en mai – Chanson di Moniot
d’Arras) per altri versi le miniature delle Cantigas de Santa
Maria sono poi ricchissime di raffigurazioni di strumenti e
strumentisti impegnati in esecuzioni collegiali. Quanto di
tutto ciò possa essere considerato o simbolico o dato attendibile non è dato sapere.
Il repertorio profano medievale è stilisticamente estremamente ricco e vario ed è cosa nota che tutto questo ricco e
vario repertorio è essenzialmente costituito da musica che
oggi diremmo “colta”, ovvero proveniente da ambienti
acculturati che giudicano in qualche misura degno di essere tramandato, attraverso la scrittura, un prodotto artistico.
E’ in quest’epoca che vengono progressivamente delineandosi repertori che presentano caratteristiche stilistiche che
potremmo definire “nazionali”. Per quello che concerne le
fonti relative al repertorio musicale di argomento testuale
profano e compilato in lingua volgare, la cifra stilistica
determinante è quella trobadorica e trovierica. Questo
repertorio, che attraversa due secoli, introduce nuove forme
poetiche legate alla versificazione in lingua vologare e
struttura quella che nei secoli a venire sarà, con tutte le sue
varianti, la forma della canzone. A partire dal repertorio trobadorico che si diffonde, “parlando” provenzale, in
tutt’Europa e stimolando produzioni analoghe nei diversi
vernacoli all’interno delle quali trovano albergo stili e gusti
locali della musica di tradizione orale, si vengono progressivamente definendo ambiti e intenzioni stilistiche via via
più definite e varie.
Già all’interno della produzione trobadorica erano ravvisabili due precise modalità stilistiche: il trobar clus ed il trobar ouvert; il primo adeguato a temi severi ed intellettual-
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mente evoluti e spesso sposato a forme e modelli sia musicali che poetici più complessi ed articolati , il secondo,
musicalmente più lineare e di “facile ascolto” ed interpretazione, legato a temi e modelli poetici “leggeri”. Da questo
repertorio e dalle sue forme possono farsi derivare sia la
musica dei minnesanger che quella dei laudesi italiani o le
cantigas ispaniche. In ognuno di questi repertori è ravvisabile chiaramente una cifra stilistica che , in qualche misura,
ne definisce ancor oggi la origine geografico-culturale. Al
medioevo, ed ai musicisti medievali, spetta l’onore di aver
dato forma compiuta alla polifonia. Il sottile gioco contrappuntistico della scuola di Notre Dame diviene oggetto dell’attenzione di uomini di cultura che si dilettano di musica,
non si può ancora parlare di musicisti professionisti in
senso moderno, ed il gioco della polifonia affascina ed
attrae un pubblico colto e raffinato dando vita ad una ricchissima ed estremamente varia produzione lirico-musicale. Sarebbe veramente troppo lungo qui anche solo accennare ai diversi filoni stilistici che affiorano dalle carte del
XIII,XIV e XV secolo, qualche parola è però necessario
spendere riguardo al repertorio strumentale. Sopra ho
accennato al fatto che la quasi totalità della musica del
medioevo è squisitamente vocale ed infatti solo una piccolissima parte della musica trasmessa in notazione dal
medioevo può dirsi espressamente strumentale. La musica
strumentale è essenzialmente musica per danza, per l’uomo medievale non è pensabile una musica priva di testo se
non in funzione della danza. Il repertorio strumentale è,
fino a tutto il Trecento, poverissimo.
Non che non si suonasse o non si danzasse, ma questi
repertori venivano lasciati prevalentemente alla memoria
cangiante della tradizione orale e solo molto raramente
annotati (come nel caso delle istampitte dello “ Chansonnier
du Roi” o delle danze italiane raccolte nel codice conservato al Britisch Museum) Si dovrà aspettare la metà del
Quattrocento per avere i primi trattati di danza completi di
coreografie e annotazione del tenor musicale.
Così come è durante il medioevo che nasce e si sviluppa
una concezione musicale che determinerà la specificità
della musica dell’occidente, è sempre durante il basso
medioevo che si perfezioneranno le principali acquisizioni
teoriche (dal delinearsi dell’armonia al perfezionamento
della notazione musicale) e che si affermeranno gli stru-
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menti per fare musica destinati ad essere presenti per quasi
mille anni nella nostra cultura, fino alle soglie dell’era elettronica.
E’ quindi dalla curiosità di voler “risentire” quanto ascoltavano e componevano i nostri antenati medievali che prende forma la ricerca di ricostruire la musica dell’evo medio e
gli strumenti musicali dei quali si serviva. Ed è anche attraverso accurati studi sulle forme, sulle tecniche ed i materiali
che questo si renderà possibile attraverso la possibilità di
ricostruire un suono perduto.
Ipotizzare quale possa essere stato il primo strumento
per fare musica, in altre parole quando è accaduto che un
oggetto in grado di emettere un qualche “suono” sia stato
riconosciuto come tale da qualcuno, è sicuramente difficile
se non impossibile. In ogni caso, prima di poter intraprendere una qualsivoglia indagine o ricerca in questo senso,
dovremmo definire che cosa possa essere chiamato “strumento musicale”, ed a quali caratteristiche questo oggetto
debba poter rispondere. Purtroppo la categoria presenta
una varietà estrema di forme, condizionate da caratteristiche estremamente varie e determinate, per lo più, all’interno di una lunga serie di modelli culturali, tali da renderne
difficoltosa una soddisfacente definizione. Ciò che per qualcuno è qualche cosa che produce solo rumore per altri può
essere uno strumento musicale, ovvero un oggetto in grado
di produrre un suono. Ed anche le categorie dei suoni e dei
rumori, ed una loro eventuale esauriente definizione,
andrebbero indagate e meglio definite, ed a questo punto
quella che dovrebbe essere una breve premessa potrebbe
durare in eterno se non ci risolvessimo a prendere alcune
decisioni metodologiche che risulteranno, in una qualche
misura, sicuramente limitative ma certamente funzionali
alla continuazione del discorso; perciò ci basti qui la scelta di chiamare suono tutto ciò che avviene nel campo sensoriale dell’udibile e che può essere “organizzato” sulla
base di un qualche principio estetico o scelta cosciente e
strumento musicale ogni oggetto che possa essere in
grado di produrre un suono definito in questi termini.
E’ da lungo tempo che filosofi e teorici indagano sui fondamenti della “comunicazione” musicale ma a tutt’oggi il
meccanismo intimo di questo fenomeno non è stato individuato né tantomeno chiarito e parrebbe, in fin dei conti,
quasi improprio parlare, nel caso della musica, di comuni-
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cazione in senso stretto. La musica è un fenomeno che si
sviluppa nel contesto di una società, e si comporta per molti
versi come un fenomeno linguistico dotandosi progressivamente di grammatica, sintassi e, in una certa misura, di un
vocabolario, pur non potendo essere considerato, per molti
versi, un fenomeno linguistico in senso stretto. Ogni cultura
ha selezionato (tra gli infiniti possibili) una serie di strumenti per fare musica che ha via via perfezionato in maniera tale da renderli, progressivamente, sempre più consoni
ed adeguati al concetto di musica che andava definendo o
sviluppando.
La teoria musicale medievale, fortemente caratterizzata
da un disprezzo tutto platonico per qualsivoglia arte pratica,
ci pone di fronte ad una strana incoerenza tra teoria e prassi; nello stesso tempo in cui il teorizzare sulla musica continua ad essere estraneo alla stessa percezione fisica del
suono, una ricca iconografia ci consegna immagini frequentissime di strumenti musicali, quasi a sancire una scollatura netta tra ciò che viene teorizzato e ciò che viene praticato. E’ difficile poter capire quanto questo potesse essere
effettivamente reale, rimane comunque il fatto che le fonti
iconografiche (in particolar modo dopo l’anno Mille) ci consegnano una serie d’oggetti che altro non possono essere
se non strumenti musicali; fonti di natura diversa da quella
pittorica ci consegneranno inoltre testimonianze dirette di
una pratica musicale sempre più diffusa e che si rivolge
sempre più spesso all’ausilio dello strumento musicale.
Di questi strumenti, così spesso raffigurati e menzionati,
non resterà praticamente traccia. Nessuno di questi strumenti, se non rarissime e poco significative eccezioni, si
conserverà sino ad oggi per poterci testimoniare una parte
significativa di uno sforzo tecnologico ed artistico che porterà, proprio in questi secoli, impropriamente definiti come
“bui”, alla definizione ed al perfezionamento di tutti quegli
strumenti musicali che saranno parte integrante del divenire della musica occidentale sin quasi ai nostri giorni.
Di alcuni di questi strumenti , quelli più presenti nelle
fonti iconografiche e documentarie, intendo qui di seguito
fare una breve presentazione.
a) strumenti a corde pizzicate
Il presupposto fisico di questa modalità primaria di produ-
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zione del suono è stabilita da rigide regole di proporzione
stabilite a loro volta da leggi “immutabili” sancite dalla fisica acustica (e quindi considerabili come sempre valide): se
mettiamo in tensione una “corda” questa si manterrà perfettamente tesa lungo il suo asse. Se interveniamo sulla corda
spostandola dalla sua posizione di equilibrio questa tenderà
a ritornarvi e nel compiere questa azione produrrà una serie
di oscillazioni attorno al suo asse che il nostro apparato
uditivo percepirà come suono. Ora le caratteristiche di questo suono essenzialmente dipenderanno dal materiale con
cui è costruita la corda, dalla sua lunghezza e dal suo diametro (in generale: dal suo volume e dal suo peso specifico nonché dalle caratteristiche fisiche del materiale - durezza ed elasticità-). Le corde, negli strumenti storici, potevano essere di materiali diversi ma quelle più adeguate ad
ottenere un suono che avesse una certa durata ed una
certa qualità erano in genere le corde di minugia (ovvero di
budello animale) ma anche metalliche o di seta. In uno strumento musicale la corda sarà tesa su un telaio tra un punto
fisso ed uno mobile (ovvero una sorta di “vite” - piroli, chiavette etc. - sulla quale la corda viene avvolta e quindi
messa in tensione nella misura voluta - accordatura -) ed il
telaio sarà fornito di una cassa di risonanza (ovvero una
sorta di “scatola” generalmente di legno - ma a volte anche
corredata di membrane-) che servirà ad arricchire , dandogli maggiore volume, il suono prodotto dalla oscillazione
della corda ed a determinarne un particolare timbro (qualità del suono) che costituirà la caratteristica sonora del
particolare strumento.
Negli strumenti antichi si fa riferimento ad una serie di
modalità di utilizzo di questo principio elementare: prima
modalità è quella che appare evidente nella LIRA, dove
tutte le corde sono della stessa lunghezza ma hanno diametri leggermente differenti l’una dall’altra, gradualmente
dalla più sottile alla più grossa. Il suono di ogni corda (tesa
all’incirca con la medesima tensione sul telaio e messa in
comunicazione con la tavola armonica - parte maggiormente vibrante della cassa di risonanza- mediante un ponticello sul quale vengono fatte poggiare le corde) sarà
quindi calibrato su un grado della scala musicale, per ogni
corda quindi un suono della scala.
La LIRA era generalmente montata con sei corde (tante
quante erano le note dell’esacordo che costituiva l’unità
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fondamentale della musica dei secoli prima del mille e che
poi Guido d’Arezzo definirà con i nomi che, per buona
parte, arriveranno sino ai nostri giorni , ovvero Ut , Re, Mi,
Fa, Sol, La con, in seguito, l’aggiunta del Si).
Somigliante alla LIRA, dal punto di vista del principio
sonoro, è il SALTERIO. Anche in questo strumento, che l’iconografia associa spesso alla figura di re David, il suono
si ottiene pizzicando delle corde tese su un telaio munito di
cassa di risonanza, ma qui le corde non sono della medesima lunghezza ma via via più corte con un diametro (ovvero
una “grossezza”) che tende a rimanere costante. E’ sempre
la medesima legge fisica che stabilisce una proporzione tra
i suoni (a parità di tensione e di diametro) basata sulla lunghezza della corda. Tale proporzione fu studiata dai teorici
sulla base di principi matematici e percettivi (come il riconoscimento dell’ottava) e fissata in uno strumento musicale
che divenne estremamente caro agli studiosi: il MONOCORDO. Lo strumento, che appare per la prima volta
descritto nel De Musica di Boezio - (V / VI sec.), ovvero da
colui che rappresentò la massima autorità musicale per
tutto il medioevo, divenne lo strumento per mezzo del quale
studiare le complesse proporzioni matematiche delle scale
musicali e attraverso il quale insegnarne le esatte suddivisioni e stabilire quindi le “accordature”. Essenzialmente lo
strumento consiste di una lunga cassa di risonanza ai cui
estremi è fissata una corda tesa (munita di meccanismo di
accordatura) sollevata tra due ponticelli, tra i ponticelli è
posta poi, a contatto con la corda, una tangente scorrevole,
munita di indicatore, che scorre lungo una scala graduata
sulla quale sono riportati gli intervalli ricavati con il calcolo matematico. Una sorta di strumento accordatore ante litteram in grado di fornire con esattezza l’altezza delle note.
Nei SALTERI il suono era generalmente ottenuto sollecitando le corde con dei plettri o delle penne di volatili (le
migliori quelle d’aquila) acconciate allo scopo (da cui il
sinonimo di pennetta utilizzato spesso per il plettro) ; lo
strumento appare raffigurato dopo l’anno Mille ed ha la sua
maggiore fioritura attorno al ‘300. Sul finire del quindicesimo secolo si tenterà, con successo, di meccanizzarlo attraverso l’adozione di pennette, ovvero una pennetta, corredata di relativo meccanismo (saltarello), per ogni corda e fissata su supporti mobili collegati a tasti che, premuti, facevano sì che la pennetta “pizzicasse” la corda producendo il
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suono. Quella di rendere, in qualche misura, meccanici gli
strumenti sarà una costante che toccherà buona parte degli
strumenti musicali, molte volte per renderli adeguati al divenire musicale (in particolar modo per renderli sempre più
utilizzabili in ambito polifonico) altre volte, forse chissà,
anche per risparmiare sul numero degli esecutori (per una
sorta di taccagneria della committenza che, a parità di risultato, poteva trovare sicuramente preferibile pagare un
numero minore di esecutori). Nel SALTERIO il suono poteva anche essere ottenuto attraverso un’altra modalità di
sollecitazione della corda: la percussione. Per mezzo di
appositi martelletti le corde, percosse, erano in grado di
produrre un suono intonato ed adeguatamente sonoro e
timbrato. Questo tipo di strumento, il SALTERIO A PERCUSSIONE, trovò ampia diffusione, nel basso medioevo,
tra i popoli del Nord Europa diffondendosi in seguito anche
in Italia (dove però veniva chiamato salterio tedesco).
Alla famiglia delle corde libere pizzicate appartiene anche
l’ARPA, dove il principio di produzione del suono è legato
all’adozione di una serie di corde di differente lunghezza
montate su un telaio più simile a quello della lira che a quello del salterio, e pizzicate non con plettri o pennette ma
bensì con i polpastrelli. Le origini dell’arpa sono oscure ed
oggetto di discussione anche grazie ad un problema di
distinzione lessicale dalle lire; Dante la indica come uno
strumento di origine irlandese e molti studiosi sono concordi nel ritenere tale l’origine più probabile dello strumento
medievale europeo. Le prime probabili citazioni possono
essere fatte risalire al I secolo a.C. dove Diodoro Siculo
pare descriverla identificandola come la particolare lira dei
bardi celti. Durante il basso medioevo si distinguono due
momenti evolutivi dello strumento: quello romanico e quello gotico (arpa romanica e arpa gotica) essenzialmente
distinguibili per le proporzioni della forma e per il numero di
corde adottate. ( da dodici a ventuno). Le particolari caratteristiche timbriche e le possibilità polifoniche dello strumento faranno poi sì che non conoscerà mai momenti di
vera sfortuna.
Il principio sonoro delle corde libere prevede una corda
per ogni altezza (nota), questa caratteristica farà sì che,
con l’ampliarsi della scala ed il diffondersi dell’utilizzo delle
alterazioni cromatiche, si renderà necessario l’adeguamento dello strumento, pena l’oblio e l’abbandono, attraverso
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macchinosi espedienti. Mentre le lire a pizzico scompariranno ed i salteri si meccanizzeranno (perlomeno nella tradizione colta), le arpe si “moltiplicheranno” e, prima dell’adozione della pedaliera delle arpe moderne, si provvederanno di più ordini di corde dando vita ad “arpe doppie e triple” (ovvero con due o tre ordini di corde sovrapposti).
L’applicazione dei due principi che hanno distinto i precedenti strumenti descritti , ovvero l’adozione di corde di
spessore diverso ed eguale lunghezza e di corde di eguale spessore e diversa lunghezza, si vedranno riunite in una
particolare tipologia di strumenti: gli strumenti a corde
tastate.
La CITOLA, strumento a corde pizzicate di oscura origine
ma riccamente raffigurato nell’iconografia medievale, applica nello stesso tempo i due principi: su un telaio, formato
da una cassa di risonanza generalmente di piccole dimensioni e con fondo piatto e da un manico fissato ad un’estremità della cassa, alla cui sommità trovano alloggio i piroli
per l’accordatura, vengono tese una serie di corde di diverso diametro e di eguale lunghezza. Le corde non sono calibrate però per essere accordate per intervalli contigui (ad
es. : Re, Mi, Fa, Sol) ma invece presentando dei “vuoti” tra
una e l’altra corda (ad es.: Re, Sol, Si, Mi) . Le note mancanti verranno ottenute accorciando, sul manico, le corde
libere (ovvero tastando). Così da una corda accordata in
Re sarà possibile ottenere, accorciandone la parte vibrante
(che è quella compresa tra le dita che tastano e l’attaccatura delle corde sul ponticello della cassa di risonanza), il mi
ed il fa , per poi passare alla successiva corda libera che
suonerà un Sol , e via dicendo (ad es.: Re, mi, fa, Sol, la,
Si, do, re, Mi) . Sarà quindi anche possibile ottenere gli
intervalli di una scala cromatica e sarà possibile, adottando
una tecnica adeguata, controllare più suoni contemporaneamente (polifonia). L’iconografia relativa alla CITOLA è
essenzialmente basso-medievale e non è possibile , attraverso le fonti iconografiche, collegare lo strumento a strumenti analoghi più antichi. L’ipotesi più accreditata è che la
citola possa essere la variante a pizzico di uno strumento
ad arco o derivante dalla combinazione di uno strumento ad
arco (per forma e dimensione) con il LIUTO.
Quest’ultimo strumento viene fatto derivare, con buona
probabilità, da uno strumento usato nei paesi islamici (e
chiamato al ud - il legno- ; da cui in seguito, per corruzione
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linguistica: laud, luth, leuto, liuto). Il LIUTO appare nell’iconografia europea, con la forma che gli sarà caratteristica ovvero cassa ovale con fondo bombato e manico corto-,
attorno al X secolo. Lo strumento, probabilmente grazie alle
sue qualità timbriche, si diffonderà rapidamente in
tutt’Europa divenendo uno degli strumenti più rappresentati pittoricamente, forse anche grazie ai rimandi simbolici
che la sua forma a “mandorla” richiama in ambito religioso.
Nella sua forma medievale è generalmente montato con
quattro corde doppie (cori) e pizzicato con un plettro o una
penna. Il suo suono viene quasi unanimemente considerato
come caratterizzato da “dolcezza” e “soavità”, caratteristiche che lo renderanno presto degno della categoria “nobile” degli strumenti musicali. Lo strumento sarà poi assolutamente adeguato al volgersi polifonico della musica occidentale e sarà destinato ad una fioritura duratura che lo
vedrà modificarsi ed adeguarsi alle cangianti estetiche
musicali del Rinascimento e del Barocco; l’utilizzo polifonico dello strumento porterà quindi all’abbandono del plettro
in favore dei polpastrelli, che permetteranno un maggiore
controllo sulle corde e l’esecuzione di brani polifonici anche
di notevole complessità. Già sul finire del XV secolo il
LIUTO comincerà a vedersi progressivamente aumentare il
numero di cori (doppie corde), che passeranno presto da
quattro a cinque, poi a sei, sette fino a tredici, per dare
quindi origine a strumenti più grandi, muniti di lunghi manici adeguati a sostenere corde lunghe in grado di rendere
disponibili suoni sempre più gravi
b. Strumenti ad arco
Sempre attorno al X secolo verrà importato, anche in questo caso dalla cultura araba che, a sua volta, pare lo avesse avuto da popolazioni orientali molto più lontane, un
nuovo principio di produzione del suono sugli strumenti a
corda: l’arco. Il principio dell’arco musicale consiste essenzialmente nello sfregamento di una corda tesa mediante
qualche cosa che possa essere adeguato alla produzione di
una vibrazione costante. Lo sfregamento di una corda per
mezzo di una “matassa” di crine di cavallo tesa su un bastone (si viene così ad ottenere un piccolo arco - ovvero
archetto - simile a quello utilizzato per lanciare le frecce) è
in grado di mantenere in vibrazione costante una corda
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tanto quanto la lunghezza del crine lo permette. Forse per
i motivi estetici che vedevano accrescere la qualità di uno
strumento tanto più quanto la qualità del suo timbro si avvicinava a quella della voce, lo strumento ad arco ebbe grande fortuna nell’Occidente e fin dal suo apparire risulteranno
numerosissime
le
testimonianze
iconografiche.
Generalmente si fanno discendere gli strumenti ad arco
dallo strumento arabo chiamato rebab (che per le consuete contaminazioni linguistiche diverrà poi: rebel, rubeba,
ribeca); lo strumento è caratterizzato da una cassa (circolare o piriforme) munita di un manico e montato usualmente con un numero di corde variabile da una a tre. La caratteristica saliente dello strumento (tenuto in posizione da
seduti ed appoggiato su una coscia) era l’utilizzo dell’arco
di crine per la produzione del suono.
Dal rebab deriverà la RIBECA caratterizzata dalla forma
a pera con cassa e manico scavati in un unico blocco di
legno (come era già avvenuto per i primi liuti) e montata con
tre corde; La posizione nella quale verrà tenuto lo strumento passerà presto dalla posizione “a gamba” a quella “ a
spalla” , ovvero lo strumento verrà sostenuto appoggiato ad
una spalla o al petto, in posizione alta, e verrà suonato non
appoggiando lateralmente le unghie (come nella tecnica
araba ancor oggi in uso) ma tastando le corde verticalmente con i polpastrelli. A fianco della RIBECA, che si
vedrà progressivamente “specializzare” nel repertorio musicale da danza, verrà contemporaneamente sviluppandosi
uno strumento diverso, dapprima con cassa simile a quella
della ribeca o del liuto (ovale come questa ma con il fondo
piatto) e, successivamente, con modificazioni funzionali
della forma, che verrà chiamata VIELLA (l’origine del nome
è alquanto oscura).
Lo strumento monterà presto un numero di corde maggiore di quelle della RIBECA, che tenderanno a stabilizzarsi in
cinque, e verrà poggiato sulla spalla (raramente l’iconografia medievale lo ritrae in posizione “a gamba”). Il suono
viene prodotto mediante l’uso di un arco di crine di cavallo
che viene sfregato sulle corde (sia libere che tastate - come
nel liuto o nella citola) ottenendo così un suono ben timbrato per certi versi simile alla voce. La VIELLA può essere
considerata lo strumento più importante del basso medioevo e farà la sua apprezzata comparsa in tutti i contesti
sociali, dai monasteri alle piazze. Risulterà adeguata ad
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ogni repertorio, accompagnerà il canto e lo rinforzerà. La
tipologia delle vielle, durante il medioevo, può essere suddivisa essenzialmente in due “modelli” : la viella di bordone, (con ponticello piatto) utilizzata per il sostegno armonico (accompagnamento) del canto e la viella di canto, in
grado di eseguire “ogni sorta di melodia” grazie alla adozione del ponticello curvo che permette (mediante l’inclinazione dell’archetto) di raggiungere isolatamente ognuna
delle cinque corde e quindi in grado di mettere in condizione di eseguire melodie anche di ampia estensione. E’ proprio a causa del ponticello curvo, ed alla necessità di poter
raggiungere agevolmente con l’arco le corde estreme, che
dalla originaria forma ovale si passerà a quella caratterizzata dall’accentuazione dei fianchi rientranti. Così come si
è già detto del salterio, anche per gli strumenti ad arco
avviene una “meccanizzazione”, viene elaborato cioè uno
strumento in grado di concentrare in un unico esecutore le
possibilità di più esecutori. E, nel caso degli strumenti ad
arco, la meccanizzazione porterà con sé l’acquisizione di
una nuova qualità sonora che sarà quella del suono continuo.
L’arco di crine non è l’unico tipo di arco possibile, anche
una bacchetta di legno trattata con opportune resine permette di ottenere dei risultati di suono sufficientemente
apprezzabili, e se questa bacchetta diviene circolare (ovvero una ruota di legno) e quindi montata su un supporto che
permetta di azionarla (farla ruotare) per mezzo di una
manovella avremo individuato uno dei principi di funzionamento fondamentali degli strumenti ad arco circolare.
Questo tipo di strumenti, propri della cultura europea, troverà la sua realizzazione compiuta nella GHIRONDA. La
ghironda si compone essenzialmente di una cassa di risonanza (che potrà presentare forme anche molto diverse)
con all’interno montata una ruota di legno, collocata in
maniera tale da farne sporgere la parte superiore attraverso un foro sagomato praticato sul piano armonico. La ruota,
forata al centro del piano circolare, sarà montata su un asse
metallico che sporgerà dalla cassa con una manovella,
azionando la manovella la ruota “ruoterà” attorno al suo
asse; se metterò in contatto delle corde tese con il bordo
circolare della ruota queste vibreranno come se sfregate da
un archetto, con la particolarità però di produrre un suono
lungo e continuo, che perdurerà fintanto che la ruota sarà in
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movimento. Nella GHIRONDA le corde sono posizionate
sopra il piano armonico e tese tra il fondo e la testa (munita di piroli per l’accordatura). Il manico è poggiato sul piano
armonico ed è costituito da una serie di tangenti lignee,
azionate da tasti, che avranno il compito di accorciare progressivamente la corda in modo tale da ottenere i suoni
della scala musicale. La somiglianza con il MONOCORDO
ha fatto si che si pensasse la ghironda come derivata
appunto da questo strumento. Le corde poggiate sulla ruota
(generalmente da tre a sei) assolvono contemporaneamente alle funzioni principali dei due modelli di viella: le corde
di bordone (collocate esternamente al meccanismo dei
tasti) forniscono un suono continuo e fisso (una singola
nota) mentre quelle posizionate all’interno del meccanismo
produrranno i suoni della scala (corde di canto). Avremo
così uno strumento, azionato da un unico strumentista, in
grado di eseguire contemporaneamente accompagnamento
e melodia (successivamente verrà elaborato un ulteriore
meccanismo in grado di produrre, contemporaneamente
agli altri, un suono percussivo ritmico) . La ghironda appare nell’iconografia in epoca quasi contemporanea, se non
addirittura leggermente precedente, a quella della viella (X
secolo)
e
le
prime
forme
saranno
quelle
dell’ORGANISTRUM (strumento usato prevalentemente
nella funzione di bordone strumentale di sostegno al canto)
e successivamente a cassetta, caratteristiche della
SYNPHONIA (dove il nome stesso sottolinea la qualità
polifonica dello strumento). Il limite tecnico dello strumento
sarà quello che segnerà anche il suo declino. Sarà l’incapacità di adeguarsi agevolmente al divenire polifonico della
musica occidentale, infatti lo strumento è concepito per servire egregiamente soprattutto in ambito modale, che determinerà il suo progressivo abbandono nella musica “colta”
destinandolo invece ad un’ampia diffusione (che lo conserverà quasi intatto sino ai nostri giorni) in ambito popolare.
2. S TRUMENTI
A FIATO
Il principio fondamentale su cui si basa il funzionamento
degli strumenti a fiato è per molti versi analogo a quello che
determina il funzionamento di quelli a corda. Una colonna
d’aria (come ad esempio quella contenuta in un tubo) è in
grado di vibrare e quindi produrre un suono. Anche la colon-
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na d’aria contenuta in un tubo sonoro, come una corda tesa
su un telaio, sarebbe di per sé in posizione di equilibrio,
quindi “silenziosa”; per ottenere la “vibrazione” della colonna d’aria sarà quindi necessario agire dall’esterno, ad un’estremità del tubo, in maniera tale da provocarla.
Differenti sono le modalità attraverso le quali, negli strumenti a fiato, si ottiene la produzione del suono, esemplificabili in quattro categorie principali:
a. ad imboccatura naturale (come nel flauto)
b. ad ancia semplice (come nel clarinetto)
c. ad ancia doppia (come nell’oboe)
d. ad ancia labiale (come nella tromba)
a. Strumenti ad imboccatura naturale
Il flauto è forse il più antico degli strumenti del quale resti
traccia. Se il recente ritrovamento archeologico avvenuto in
Slovenia fosse, come parrebbe essere, effettivamente un
flauto in osso appartenuto all’Uomo di Nehandertaal,
potremmo pensare che la musica, e gli strumenti per fare
musica, anticipino, nel genere umano, persino le prime elementari forme di comunicazione linguistica.
Negli strumenti provvisti di imboccatura naturale l’aria
che esce dalle labbra del suonatore va a frangersi contro
uno spigolo situato nella parte iniziale del tubo producendo
un insieme di vibrazioni e di vortici; il tubo sonoro, che svolge a questo punto il ruolo di un “risuonatore” esalta la frequenza sulla quale è “tagliato” lo strumento (che dipende
principalmente dalla lunghezza del tubo).
Lo strumento più elementare che si avvale della produzione del suono sulla base dell’imboccatura naturale è
forse la SIRINGA (spesso anche chiamato flauto di Pan)
dove ad ogni tubo sonoro corrisponde una nota; lo strumento si compone di una serie di canne “tappate” sul fondo
. Le canne tappate hanno la particolarità di avere un suono
corrispondente ad un’ottava inferiore rispetto quelle aperte
in virtù del percorso doppio che la colonna d’aria deve effettuare per uscire dal tubo (ovvero andata e ritorno). La produzione del suono iniziale (ovvero gli armonici prodotti dall’urto su uno spigolo dell’aria soffiata tra le labbra) viene
ottenuta da un particolare atteggiamento delle labbra che
indirizzano il soffio sullo spigolo stesso del foro di entrata.
Le differenti note vengono ottenute semplicemente cambiando il tubo nel quale si soffia. Stessa modalità di produ-
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zione del suono avviene nel FLAUTO TRAVERSO, che così
viene chiamato a causa della posizione in cui viene sostenuto, ovvero di traverso rispetto alla direzione del soffio.
Sulla parte laterale superiore dello strumento è praticato un
foro attraverso il quale avviene l’insufflazione secondo le
modalità già illustrate nel caso della SIRINGA. Già in questo tipo di flauto viene applicato il principio del risparmio.
Infatti, visto che l’altezza del suono dipende dalla lunghezza del tubo, sarà possibile variare questa lunghezza praticando dei fori laterali attraverso i quali la colonna d’aria in
movimento potrà uscire, accorciando così, di fatto, la lunghezza attiva del tubo . Se praticherò una serie di fori, di
adeguata dimensione, ad un’adeguata distanza potrò
“accordare” il tubo sonoro a diverse altezze. Man mano che
con le dita aprirò i fori, in successione: da quello più vicino
al foro di uscita a quello più vicino all’imboccatura, otterrò
una serie di suoni corrispondenti alla scala musicale che
avrò impostato con la foratura. In questo modo sarà possibile ottenere da un unico tubo sonoro una serie di suoni che
avrebbe richiesto ventiquattro canne e più. Ottenuta la
prima scala “fondamentale” dello strumento potrò ottenerne una seconda (più alta di un’ottava) grazie ad un aumento di pressione del soffio e, se lo strumento è “costruito
bene”, potrò ottenerne anche una terza. Il FLAUTO TRAVERSO non è presente nell’iconografia medievale italiana
(anche se appare nell’iconografia addirittura etrusca) e
verrà, ancora per tutto il Rinascimento, chiamato flauto
alamanno (ovvero tedesco). Nel FLAUTO A BECCO (chiamato anche flauto dolce) la particolare costruzione della
testa dello strumento renderà più semplice l’imboccatura da
parte dello strumentista che si troverà così a dover semplicemente regolare la pressione di insufflazione, il resto del
lavoro , ovvero la direzione del soffio sullo spigolo, avverrà
automaticamente nella testa dello strumento appositamente
sagomata.
Il principio sulla base del quale si ricavano le note e le
scale è poi analogo a quello realizzato nel FLAUTO TRAVERSO. Il FLAUTO A BECCO si riprodurrà presto in famiglia strumentale con una serie di tagli diversi a partire dal
sopranino fino al basso. La lunghezza degli strumenti più
gravi renderà necessarie delle prolunghe attraverso le quali
avviare l’aria alla testa dello strumento e renderà anche
necessaria l’adozione di chiavi, ovvero prolunghe meccani-
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che fissate sullo strumento attraverso le quali chiudere fori
altrimenti troppo lontani per essere raggiunti dalle dita.
Lo strumento troverà ampia diffusione, tra Rinascimento
e Barocco, in tutti i paesi europei divenendo strumento adeguato sia alle esecuzioni domestiche della musica scritta
per le voci che come strumento solistico in grado di eseguire i passaggi più virtuosistici della nuova musica strumentale.
Per quanto strano possa sembrare lo strumento è quasi
assente nell’iconografia medievale italiana mentre diffusissimi sono strumenti che pur conservando il principio base
della imboccatura sviluppano tecniche diverse di controllo
del suono rispondendo ad esigenze esecutive particolari.
Uno di questi strumenti è il FLAUTO DOPPIO che ricorda
apparentemente gli aulos bicalami della tradizione grecoromana (che però erano strumenti a doppia ancia). Si tratta
di due flauti dolci di diverso taglio, e con forature diverse,
suonati contemporaneamente dallo stesso esecutore, il
suono che si ottiene è ovviamente polifonico ed il musicista
è così messo in grado di controllare allo stesso tempo due
diverse linee melodiche o una linea melodica ed il suo
accompagnamento.
Lo strumento veniva anche utilizzato come una sorta di
organo a bocca per i bicordi di accompagnamento del
canto. L’altro particolare modello di flauto a becco, anche
questo riccamente testimoniato dall’iconografia, è il FLAUTO A TRE FORI o flauto da tamburo. Lo strumento aveva
effettivamente tre soli fori sulla canna e veniva utilizzato
con una mano sola. Mediante variazioni di pressione del
soffio era però possibile ottenere una serie completa di
suoni corrispondente ad un’ottava e mezza. Ovviamente la
mano lasciata così libera dall’impegno esecutivo veniva utilizzata ad altri fini, ovvero per percuotere un tamburo
sospeso mediante una mazza. Si poteva così veder riunita,
in un unico esecutore, la possibilità di eseguire una melodia con il flauto, il cui suono era molto acuto e penetrante,
e nello stesso tempo il ritmo di accompagnamento con il
tamburo. L’utilizzo di questa combinazione di strumenti era
generalmente legata a situazioni di natura militare o festose dove permetteva ad un unico esecutore, da solo, di fornire l’adeguato supporto musicale alla danza.
Durante il basso medioevo si procederà quindi alla meccanizzazione del principio sonoro dei flauti a becco attra-
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verso l’adeguamento di uno strumento che era già appartenuto alla cultura greco-romana: l’hidraulos . Era questo uno
strumento munito di canne ad ancia dove il suono veniva
ottenuto mediante l’insufflazione meccanica. Un ingegnoso
meccanismo ad acqua forniva aria in pressione ad una
cassa stagna sulla quale, attraverso dei fori, erano poste
delle canne munite di ancia. I fori nella cassa venivano
aperti mediante tasti, quando i tasti aprivano i fori l’aria in
pressione metteva in movimento l’ancia e faceva suonare le
canne. Il suono era potente e fragoroso e lo strumento veniva utilizzato come supporto musicale agli spettacoli circensi.
Lo strumento scomparirà durante l’alto medioevo dai territori dell’ex Impero Romano d’Occidente, mentre verrà conservato nell’Impero Bizantino dal quale appunto, in seguito,
ritornerà in Occidente. Lo strumento, dopo il suo ritorno,
non ebbe però particolare “successo” e rimase più una
curiosità che altro.
Il principio dell’hidraulos verrà poi applicato ai flauti a
becco nell’ORGANO PORTATIVO.
In questo strumento l’aria viene immessa in una cassa
stagna (somiere) mediante un mantice azionato a mano,
sulla parte superiore della cassa sono praticati una serie di
fori (uno per ogni canna), ognuno dei fori è collegato ad una
leva (tasto) congegnata in modo tale da mantenere chiuso
il foro (e quindi non far passare l’aria) quando è in posizione di riposo ed invece aprire il foro (facendo passare l’aria
attraverso la canna) quando azionata. Le canne di questo
tipo di organo altro non sono che flauti dolci (costruiti in stagno, carta o legno) con un unico suono (senza cioè forature per le dita) ed ognuno di loro suonerà quando il tasto corrispondente verrà azionato dalle dita dell’esecutore. Ci si
trova quindi di fronte ad una sorta di flauto meccanico dove
il suonatore è in grado di controllare (con una mano) i suoni
delle canne, sia uno alla volta che più assieme, mentre con
l’altra mano aziona il mantice che fornisce l’aria necessaria
al funzionamento dello strumento. Si chiamerà organo portativo in quanto “portatile” , quando lo strumento comincerà
ad estendere il registro verso i suoni gravi (aggiungendo
quindi canne di dimensioni sempre maggiori) non sarà più
portatile e diverrà quindi positivo (ovvero da appoggiare).
Lo strumento dapprima risentirà della sua origine profana
trovando collocazione artistica nel repertorio laico, progres-
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sivamente, grazie alle qualità sonore degli organi positivi,
entrerà nelle chiese e lì troverà il suo massimo sviluppo.
b. strumenti ad ancia semplice
L’ancia, alla quale si è già accennato sopra, è l’accessorio essenziale ad un sistema di produzione del suono, nei
tubi sonori, che si avvale di lamelle vibranti (solitamente in
canna o metallo). L’ancia semplice consiste di una singola
lamella (libera o battente su un apposito supporto) che
viene messa in vibrazione dall’aria soffiata dall’esecutore.
La musica tra medioevo e rinascimento pare non adottare
strumenti musicali che impieghino questo tipo di soluzione.
E’ però ipotizzabile un utilizzo delle ance semplici forse
nelle canne di bordone delle cornamuse o in strumenti
musicali dei quali non è pervenuta testimonianza precisa.
c. strumenti ad ancia doppia
L’ancia doppia si compone di due linguette (generalmente in canna) affacciate l’una all’altra e legate in maniera tale
da essere separate da una sottile fessura attraverso la
quale possa passare l’aria. Quando l’aria verrà immessa,
con una certa pressione, nella fessura dell’ancia quest’ultima entrerà in vibrazione fornendo il suono iniziale che verrà
poi modificato ed arricchito dal tubo sonoro. Generalmente
il tubo degli strumenti a doppia ancia presenta una sezione
conica ed una foratura simile a quella del flauto. Il primo
strumento di questo tipo del quale si abbia notizia è l’aulos
greco che diverrà poi la tibia romana . Solitamente le raffigurazioni su pitture vascolari ci tramandano strumenti utilizzati in coppia e spesso legati da una fascia e stretti contro la bocca per aiutare lo strumentista nello sforzo di mantenere costante una pressione dell’aria che doveva essere
notevole. In epoca medievale strumenti analoghi (anche se
non utilizzati in coppia) appariranno attorno al XII secolo.
Gli strumenti verranno chiamati con termini derivanti dal
latino calamus , in italiano CIRAMELLO o CIALAMELLO, e
saranno caratterizzati da una certa potenza di suono che li
destinerà alla cosiddetta musica alta (musica dinamicamente forte destinata agli spazi aperti). I CIARAMELLI si
presenteranno in tagli diversi , più o meno acuti, ma comunque non in tagli gravi sin perlomeno al XV secolo. Accanto
agli strumenti dotati di un suono potente paiono affiancarsi,
ben presto, altri strumenti, sempre ad ancia doppia, che
alcuni cronisti descrivono come dotati di un certa dolcezza
di suono. Già in epoca antica si provvede ad una rudimen-
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tale meccanizzazione degli strumenti a doppia ancia
mediante l’adozione di un serbatoio d’aria con pressione
regolabile. Ciò avviene nella ZAMPOGNA o CORNAMUSA
mediante l’adozione di una sacca di tessuto animale (pelle)
trattata in maniera da risultare ermetica e provvista di un
foro di insufflazione (dotato di valvola) e di uno o più fori di
uscita ai quali venivano fissate i tubi sonori. Nel caso della
CORNAMUSA medievale la sacca ospitava una canna di
bordone (senza fori di intonazione quindi a suono fisso) e di
una canna di canto (munita di foratura tastabile per la esecuzione melodica). Successivamente le canne di bordone
aumenteranno ed alcuni strumenti della tradizione popolare
occidentale si doteranno di doppia canna di canto (utilizzata come nel caso del flauto doppio) come usuale nella tradizione araba. Il principio di funzionamento è semplice ed
ingegnoso: lo strumentista soffia nella sacca fino a che questa non è gonfia poi, mediante il braccio, la mantiene in
pressione costante integrando man mano l’aria perduta
nella produzione del suono. L’aria in pressione esce attraverso le canne applicate sulla sacca mettendo le ance in
vibrazione, la canna (o le canne) di bordone viene mantenuta intonata su un suono fisso che serve da accompagnamento alla melodia che lo strumentista viene eseguendo
sulla canna munita di fori di intonazione. Il suono che si
ottiene è potente, timbrato e caratterizzato da una elementare qualità polifonica.
d. strumenti ad ancia labiale
Il principio di funzionamento dell’ancia labiale è analogo
a quello delle ance doppie, in questo caso l’ancia è però
costituita dalle due labbra serrate dell’esecutore messe in
vibrazione dalla pressione dell’aria soffiata verso l’esterno
della bocca. La colonna d’aria contenuta in un tubo cavo
può venire messa in vibrazione da questo semplice “meccanismo” producendo un suono solitamente ricco di armonici e dotato di una certa potenza. Sulla base di questo principio si fonda il funzionamento di strumenti da segnalazione quali i corni (chiamati così perché effettivamente ricavati da corna animali resi cavi e muniti di una imboccatura
sulla sommità sottile). L’imboccatura solitamente consiste
in un incavo a tazza della dimensione richiesta dallo strumento e dal suono che se ne vuole ottenere. Il suono che si
può ottenere da un corno è solitamente costituito dai suoni
armonici ottenuti e controllati mediante la pressione eserci-
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tata sulle labbra e quindi dalla resistenza che queste
oppongono al passaggio del getto d’aria. Lo strumento che
utilizza l’ancia labiale è quello che i romani chiamavano
tuba costituito da un tubo in bronzo leggermente conico
con una apertura ad imbuto nella parte inferiore ed una
imboccatura (bocchino) in bronzo o in osso sulla sommità.
In genere la lunghezza superava il metro. Dopo l’anno
1000, ad imitazione delle trombe arabe, lo strumento
diverrà più lungo e sottile e si munirà di un padiglione più
ampio. Durante il basso medioevo lo strumento dapprima si
svilupperà in due taglie (tuba e tubecta) caratterizzate dall’altezza del suono. Nella tromba medievale il suono ricavabile dallo strumento è quello fondamentale e quello relativo
agli armonici (ottenibili grazie anche alla perizia virtuosistica di abili strumentisti) risultava quindi impossibile l’esecuzione di brani strumentali non espressamente concepiti
sulla base delle possibilità dello strumento. Sul finire del
medioevo la tromba acquisterà una maggiore versatilità
grazie all’adozione di un sistema “a slitta” (coulisse) formato da due tubi scorrevoli rientranti l’uno nell’atro che
mettevano in grado l’esecutore, durante l’esecuzione musicale sullo strumento, di allungare ed accorciare lo strumento consentendogli di ottenere tutti i suoni della scala musicale e permettendogli quindi di eseguire parti strumentali
fino ad allora ineseguibili.
La TROMBA DA TIRARSI avrà un notevole successo e
permetterà allo strumento di uscire dal ruolo al quale era
fino ad allora consegnato, in altre parole quello legato alla
musica delle bande civiche, per rivolgersi al repertorio d’arte.
S TRUMENTI A PERCUSSIONE
Strumenti a percussione sono considerabili tutti gli strumenti nei quali la produzione del suono avviene a mezzo di
una azione percussiva. Tralasceremo qui di indicare e
nominare l’enorme varietà di strumenti di questa natura sviluppati nella cultura occidentale o adottati da altre culture,
e ci limiteremo a descrivere quegli strumenti a percussione
messi in evidenza dalla iconografia.
Il più importante tra questi è sicuramente il TAMBURELLO CON SONAGLI, strumento che appare già nella sua
forma completa nell’iconografia romana. Il TAMBURELLO è
costituito da una cornice circolare in legno sulla quale viene
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tesa una pelle animale, la cornice è munita di asole all’interno delle quali sono inseriti dei piattini metallici. La dimensione dello strumento è variabile, grosso modo, dai 20 ai
40 centimetri di diametro. Le tecniche esecutive, lasciate
intuire dall’iconografia, sono affini a quelle ancora in uso
nella tradizione popolare.
Altro strumento a percussione assai diffuso nelle raffigurazioni medievali sono i naccarini costituiti da due tamburi
a ciotola di diversa grandezza percossi con mazzette di
legno ed il più delle volte sospesi ai fianchi dello strumentista. Questo tipo di strumento a percussione è di evidente
origine araba e deriva dai naqara impiegati dalle bande militari saracene. Solo più tardi , verso il periodo rinascimentale, appariranno i tamburi cilindrici a due pelli, muniti di tiranti in corda per l’intonazione, e percossi per mezzo di bacchette in legno ( forse anche questi derivanti dai grandi tamburi militari turchi). Altri strumenti a percussione estremamente diffusi saranno le CAMPANE, ovvero serie di campane intonate e di piccola dimensione percosse con martelletti e sospese su telai. A completare la serie degli strumenti
più raffigurati vengono poi i CIMBALI, ovvero piatti metallici muniti di maniglia e percossi tra di loro.
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Stili e strumenti
della musica nel
Rinascimento
Giovanni Toffano
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l concetto di Rinascimento, per quanto riguarda la storia
della musica e dei fenomeni musicali in genere, non
coincide completamente, quanto ad ambito cronologico,
con quello di altre arti. In particolare, la musica del
Rinascimento si può infatti collocare tra l’invenzione della
stampa musicale, ad opera di Ottaviano Petrucci a Venezia
nel 1501, e la nascita del melodramma e il conseguente
avvento della cosiddetta “era del basso continuo”.
Grazie appunto alla rivoluzionaria possibilità di stampare
la musica, aumentano considerevolmente le persone, musici professionisti, ma anche dilettanti, che possono avere
facilmente accesso alle fonti musicali.
Le prime pubblicazioni di Petrucci si occupano inizialmente del repertorio vocale a più voci di autori fiamminghi
in voga sul finire del Quattrocento. Presto, però, cominciano ad insinuarsi nuove forme musicali dove l’interesse si
sposta decisamente verso la produzione di compositori italiani. Emblematica è in questo senso la presenza, nel catalogo petrucciano, di ben 11 libri di “frottole”, che coprono un
arco temporale che va dal 1504 al 1514. Queste sono composizioni vocali-strumenteli, solitamente a quattro voci,
destinate ad avere un enorme successo in Italia nei primi
decenni del Cinquecento. In quest’epoca il centro culturale
della frottola è la corte dei Gonzaga a Mantova, grazie
anche alla presenza stimolante di Isabella d’Este, figlia del
melomane Ercole I di Ferrara, ed educata lei stessa al
canto e al suono del liuto. Proprio a Mantova approda,
intorno al 1494, Marchetto Cara (1470 ca.-1525 ca.), compositore di origine veronese e autore di un gran numero di
frottole. Cara diventerà ben presto la figura centrale nella
vita musicale mantovana, almeno fino al 1530. Una delle
caratteristiche salienti di questa nuova forma musicale è la
predominanza, nella gran parte delle composizioni, della
voce superiore, quasi una sorta di monodia accompagnata
dalle voci inferiori. Tale pratica esecutiva è provata dalla
presenza, sempre nel catalogo petrucciano, di ben due corposi libri di “Tenori e contrabbassi intabulati … per cantar e
sonar col lauto” di Franciscus Bossiniensis. Qui infatti troviamo la frottola a quattro voci trasformata in melodia per
una voce che canta con l’accompagnamento del liuto. Nulla
vieta però che alla voce, oltre che al liuto, possano essere
associati altri strumenti, sia della famiglia dei fiati, sia della
famiglia degli archi. A proposito dei fiati, si può ragionevol-
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mente supporre, e molte fonti iconografiche lo confermano,
che fosse diffusa la prassi di accompagnare e talvolta persino sostituire le voci con strumenti a fiato cosiddetti “bassi”
ovvero dalla sonorità più soave e contenuta, tale insomma
da non superare in volume sonoro una o più voci cantate.
Tra gli strumenti a fiato di questo tipo possono sicuramente
essere utilizzati i flauti dolci, che ebbero nel corso del
Rinascimento uno straordinario sviluppo e una considerevole popolarità. Il flauto dolce rinascimentale, in particolare,
si distingue per la forma estremamente semplice e stilizzata, in armonia con i canoni estetici del Rinascimento in
architettura, e per la cameratura interna sostanzialmente
cilindrica. Tali caratteristiche fanno sì che il flauto dolce di
quest’epoca sia uno strumento dal timbro sonoro, ma vellutato, adatto ad essere suonato sia insieme ad altri flauti
dolci di diverse taglie, sia come accompagnamento o in
sostituzione di voci umane. I flauti dolci in pochi anni
andranno a formare una vera e propria famiglia strumentale. Secondo Michael Praetorius, nella descrizione che dà
degli strumenti nella Sciagraphia all’interno del celebre trattato Sintagma musicum (Wolfenbüttel 1619), la famiglia dei
flauti dolci era costituita, durante il Cinquecento, da 8
esemplari, dal Klein Flöttlin di 21 cm. la cui nota fondamentale (ovvero più bassa) è il Sol 4 , al Groß Bass di 196
cm. con nota fondamentale il Fa 1 .
Ancora più popolare dei flauti è, nel corso di tutto il
Rinascimento, il liuto. “Il Liuto… è il più perfetto instrumento di tutti gli altri”. Questa frase di Giovanni Maria Lanfranco
(1533) riassume perfettamente tutta la considerazione che
godeva il liuto nel Cinquecento. Strumento solistico per
eccellenza, era lo strumento preferito dai nobili dilettanti,
che per tutto il XVI secolo furono i maggiori fruitori ed esecutori della musica colta. Proprio per questo tra le prime
composizioni strumentali stampate compaiono numerose
raccolte liutistiche. La prima di una lunga serie è
l’Intabulatura de lauto Lib. I di Francesco Spinacino, pubblicata a Venezia nel 1507 da Petrucci. Il liuto rinascimentale
classico ha la cassa armonica a forma di pera e costituita
da un numero variabile di listelli di legno, detti “doghe”, fissati tra di loro con strisce di pergamena, di carta o di lino.
Il piano armonico ha al centro una rosetta traforata e verso
il fondo è incollato il ponticello che regge le corde. Queste
sono suddivise in sei “cori”, tutti doppi, a eccezione del più
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acuto che è singolo. Sul manico sono sistemati i tasti, in
numero variabile da sette a nove, costituiti da legacci di
budello di pecora. Il cavigliere, ripiegato all’indietro, forma
quasi un angolo retto con il piano della tastiera. Il liuto fu
introdotto in Europa dagli arabi verso la fine del XIII secolo:
il nome arabo è al’ud e venne adottato, con alcune trasformazioni, da tutte le lingue europee.
Oltre alle forme musicali tipiche dello strumento, quali il
“tastar de corde” o il “ricercare”, le prime raccolte liutistiche
consistevano in brani vocali con accompagnamento di liuto.
Spesso era lo stesso esecutore che cantava la prima voce
di un brano vocale, per esempio una frottola, eseguendo
allo stesso tempo sul liuto le altre voci. Maestro di questa
pratica fu nel primo Rinascimento il già citato Marchetto
Cara, famoso in tutte le corti italiane per il suo soave “cantare al liuto”.
Tornando invece agli strumenti a fiato, non può essere
dimenticata la bombarda, uno degli strumenti più presenti
nell’iconografia rinascimentale, soprattutto quando vengono
raffigurate scene di musica all’aperto e danze. La bombarda, che in Italia nel Cinquecento è genericamente chiamata
“piffero” o “piffaro”, già nel Quattrocento faceva parte degli
strumenti cosiddetti “alti”, dotati cioè di una sonorità forte,
quindi capaci di suonare in ambienti aperti. Le ipotesi sulle
origini della bombarda sono due: secondo alcuni deriva dal
“cantus” della zampogna, mentre secondo altri sarebbe
stata importata in Europa dall’Oriente. Strumenti simili alla
bombarda sono presenti in tutte le culture orientali. I popoli islamici introdussero in Europa nel XII secolo uno strumento a cameratura conica e ad ancia doppia. I turchi lo
chiamano surna o surnay, i cinesi sona e gli indiani sanay.
Tutti questi termini assomigliano notevolmente alla parola
Schalmey, che indicava in Germania la bombarda soprano.
Anche la bombarda, come i flauti dolci, veniva costruita in
famiglie strumentali. Praetorius, in particolare, elenca sette
taglie di bombarde, dal Gross Bass Pommer di 294 cm
all’Exilent garklein di 42 cm. La bombarda soprano, o
Schalmey, e la bombarda contralto misurano rispettivamente 64 e 75 cm.
Altro importante strumento a fiato di quest’epoca è il
fagotto o dulciana. Come la bombarda ha cameratura conica, formata però da due tubi scavati parallelamente nel
medesimo blocco di legno e collegati tra loro da un’apertu-
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ra sul fondo dello strumento. In questo modo si ottiene uno
strumento dal suono grave, ma di dimensioni più contenute
rispetto alle bombarde di taglia grave. Infatti il Chorist
Fagott descritto da Praetorius misura 95 cm contro i 187 cm
della bombarda bassa che ha la medesima estensione nel
registro grave. L’origine del fagotto è probabilmente da collegarsi a quella della bombarda, della quale conserva gran
parte delle caratteristiche tecniche, ma non esteriori.
Contrariamente alla bombarda, il fagotto è uno strumento
nuovo nella scena musicale del Rinascimento. Una lettera
di Giovanni Testarossa, maestro di liuto di Isabella d’Este,
nel 1518 menziona per la prima volta un “fagot”, parlandone come di uno strumento del tutto nuovo. Riguardo infine
al termine dulciana, questo è un sinonimo del termine fagotto, come testimonia Praetorius che ritiene il nome “dulciana” o “dolcesuono” dovuto alla particolare dolcezza di timbro dello strumento. Il fagotto, come le bombarde, faceva
parte degli strumenti “alti”, ovvero dalla sonorità forte, ma
veniva usato anche in gruppi da camera e da chiesa. Il
fagotto corista, che ha un’estensione superiore di quattro
toni nell’acuto rispetto alla bombarda bassa, era la misura
più usata, specialmente all’inizio del XVII secolo, e da essa
si sviluppò in seguito il fagotto barocco e quindi quello
moderno.
La funzione principale delle bombarde e della dulciana,
durante il Cinquecento, era comunque quella di eseguire
musica all’aperto, in occasione di processioni e parate,
come evidenziano le illustrazioni de Il trionfo di
Massimiliano I (1526), ma anche per accompagnare balli
campestri.
Un ulteriore e curioso strumento in voga nel
Rinascimento è il cromorno. Come la bombarda e la dulciana si tratta di uno strumento ad ancia, ma anziché essere
libera, quindi a contatto diretto con le labbra del suonatore,
in questo caso è incapsulata. Di cameratura cilindrica e sottile, deve il suo nome alla caratteristica piegatura nella
parte terminale: infatti l’aggettivo krumm significa in tedesco “curvo” da cui il termine Krummhorn, tradotto in italiano
in cromorno. In Italia, nel Cinquecento, era detto storta
oppure cornamuto torto. Lo strumento veniva costruito in
legno di bosso o di acero e veniva piegato a vapore. La sua
forma particolare non ha alcuna influenza sulla sonorità. Le
taglie di cromorno indicate da Praetorius sono cinque, dal
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Gross Bass di 112 cm, al Klein Cant di 33 cm. Il cromorno,
pur avendo una limitata estensione, dovuta al fatto che l’ancia non è controllabile dall’esecutore, e una sonorità più
contenuta rispetto alle bombarde e alla dulciana, nondimeno possiede un timbro che si fonde molto bene con questi
ultimi strumenti.
Mentre, come abbiamo visto, una gran parte delle prime
stampe italiane del Cinquecento si occupa di frottole e di
raccolte per liuto, in seguito fioriscono pubblicazioni dedicate alla danza. Anche la musica da ballo tradisce la sua
origine dalla musica vocale per la presenza, soprattutto
nelle danze del primo Cinquecento, di melodie e canti popolari. Tuttavia, proprio grazie alla diffusione e al successo
editoriale delle pubblicazioni a stampa, la musica strumentale scritta per la danza comincia a costituire per la prima
volta un repertorio strumentale autonomo e getta le prime
basi per lo sviluppo della musica strumentale dei secoli
successivi. Una delle più fortunate raccolte italiane di
danze è senza dubbio il Primo Libro de balli di Giorgio
Mainerio (1535 ca.-1582), publicato a Venezia nel 1578.
Quasi tutte le 21 danze che costituiscono il libro di Mainerio
furono ripubblicate nel 1583 da Pierre Phalése nella raccolta Chorearum molliorum collectanea, a testimonianza della
grande popolarità di queste composizioni. Anche l’esecuzione di musica da ballo si presta a diverse soluzioni interpretative. Nella maggior parte delle cronache dell’epoca e
dall’iconografia si desume che gli strumenti più usati per le
danze erano i già citati “piffari”, costituiti nel Quattrocento
da due bombarde e da un trombone. Nel Cinquecento il
gruppo si allarga con l’aggiunta di una quarta voce di contralto (suonata preferibilmente da una bombarda) e con l’eventuale sostituzione del trombone al basso con altri strumenti gravi, come ad esempio la dulciana. Anche la famiglia
dei flauti dolci ben si adatta alla musica da ballo, soprattutto a quelle danze che venivano eseguite in ambienti cortigiani di non grandi dimensioni e a quei brani in cui vi è un
più spiccato movimento delle singole parti. Nemmeno alla
voce è preclusa la partecipazione alla danza. Molti balli,
infatti, si basano proprio su di una melodia vocale preesistente. Emblematico è ad esempio il caso della Pavana
Belle qui tiens ma vie, citata da Thoinot Arbeau
nell’Orchesographie (1588/89), uno dei fondamentali trattati sulla danza del Rinascimento.
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Rievocazione
e ricostruzione
tra ricerca, prassi
e spettacolo
Ilaria Sainato
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o scelto nel titolo di affiancare rievocazione e ricostruzione, ricerca e spettacolo perché vorrei mettere
in luce ed indagare divergenze e punti di contatto,
diversità di fini e linguaggi e possibili fruttuosi scambi di
metodi e strumenti di ricerca.
Inizieremo la nostra indagine dalla “ricostruzione”, e dalla
ricostruzione di “danze storiche” che è la cosa di cui mi
occupo più spesso e più direttamente.
Per “danza storica”, o “antica” si intende la danza colta
(sia di sala che di teatro) di ambiente per lo più elevato, in
un’arco temporale molto ampio, che si estende dal XV al
XVIII sec. (dall’apparizione dei primi trattati di danza all’avvento del balletto) e che comprende epoche, stili e culture
estremamente diversi fra loro.
La ricostruzione di una danza a partire da un testo, a qualsiasi epoca essa appartenga, ha bisogno di strumenti, metodi e regole. Regole rigorose da cui anche la pratica della rievocazione (per altro ormai altamente raffinata!) può trarre
giovamento e di certo spunti. Non intendo fare di questo articolo un “manuale di ricostruzione”: vorrei però tracciare delle
linee per una ricostruzione, a mio avviso, storicamente rigorosa per un’offerta qualitativamente valida (che si tratti di
spettacolo, rievocazione, offerta didattica o formativa), linee
che possano far riflettere e discutere storici, appassionati,
ricostruttori, danzatori, musicisti, organizzatori e quant’altri
abbiano il compito di scegliere o “confezionare” “prodotti”
convincenti, sotto vari punti di vista. Prendiamo come punto
di riferimento per la nostra discussione le definizioni di “ricostruzione” e “rievocazione” di un noto dizionario della lingua
italiana (G. Devoto - G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana; Edizioni Le Monnier - Firenze).
Ricostruzione: Nuova costruzione di una struttura o ripristino dell’integrità della stessa.
Fig. Integrazione o completamento di dati o fatti mediante
nuovi elementi venuti alla luce o congetture.
Rievocazione: Ritorno con la mente o nel parlare a fatti e
persone del passato. Commemorazione.
Diversi sono, a mio avviso, i “campi di interesse” delle due
discipline: la “rievocazione” mira alla riproposizione di un
avvenimento realmente accaduto, in tutti i suoi minimi particolari; la “ricostruzione” si propone di “rivitalizzare”, nel
nostro caso una danza, una musica ecc, a prescindere dal
fatto storico della sua effettiva esecuzione ma partendo da
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un’attenta ricerca e servendosi di elementi storici attendibili.
Una coreografia può essere stata inserita in un trattato in
onore di un certo signore o di un probabile mecenate solo
per fargli omaggio, senza che nessuno l’abbia mai realmente danzata, ma non per questo noi oggi non dobbiamo danzarla!
Cosa significa ricostruire una danza? Quali strumenti è
necessario avere?
Ci si può limitare a prendere un testo, lo si legge, si fa
quello che c’è scritto, gli si sovrappone, nel migliore dei casi,
la sua musica quando c’è, se no una che ci va più o meno
bene (“tanto le danzette sono tutte uguali...”) si farcisce con
un po’ di grazia (delle ballerine), con costumi più o meno
appariscenti, giochi di corteggiamento (“tanto le danze a
quello servivano!”), e il gioco è fatto!
Il risultato sarà banale e superficiale e non sarà accettabile se il fine della ricostruzione è di compiere passi avanti
nella conoscenza del repertorio e se, stando alla definizione
iniziale, ci si prefigge di ricostruire qualche cosa che è andato perso tramite delle congetture.
Il lavoro di ricostruzione di una danza, o di una musica, o
di un testo (teatrale, letterario...) è un’operazione complicata che investe molte competenze e discipline, forse più di
quelle umanamente “accumulabili” in una sola persona.
Nel caso ci si voglia occupare, come nel nostro specifico,
di una danza di ambiente colto, di un qualsiasi periodo (dal
Quattrocento al Settecento), bisogna avere a disposizione
una serie di competenze, o per lo meno “saper maneggiare”
vari strumenti di indagine.
1 - Imprescindibile, ovviamente, conoscere i trattati di
danza del periodo in esame, imparare il vocabolario dei
passi e il lessico tecnico usato nelle descrizioni delle danze,
saper leggere la notazione coreografica quando esiste.
Conoscere lo stile, gli ornamenti, i modi in cui le coreografie notate venivano realizzate.
In breve, acquisire competenze storico-tecniche relative ai
trattati coreutici di ogni periodo.
2 - Avere un’esperienza di movimento.
Conoscere quello che si può fare con il nostro corpo, le
reazioni e i meccanismi dei nostri piedi, delle mani, del viso,
del busto, delle gambe...
Tutti gli uomini e le donne, di tutti i secoli, hanno avuto due
piedi, due gambe, due braccia, una testa... come “noi” e per
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quanto avessero culture diverse dalla nostra, i meccanismi
con cui funzionava il loro corpo sono, e questo ci rassicura,
gli stessi con cui funziona il nostro; pur subendo diversi tipi
di condizionamento, pur possedendo tecniche diverse o
avendo capacità più o meno sviluppate, sono sempre andati
avanti, indietro, di lato e saltavano esattamente come noi.
3 - Sarebbe buona cosa avere conoscenze di musica e di
paleografia musicale.
Avere nozioni di contrappunto, sapere come si comportano
le melodie e quali erano i “meccanismi compostivi” del periodo che ci interessa, conoscere compositori e opere, studiare
i trattati di “musica pratica” e di teoria musicale coevi, studiare le diverse prassi esecutive “storiche”, sono elementi
utilissimi per una corretta ricostruzione.
Per quanto riguarda la ricostruzione di danze colte, le
melodie a loro connesse che sono giunte fino a noi, spesso
hanno bisogno a loro volta di un lavoro di ricostruzione:
devono essere arrangiate, in molti casi integrate con voci
aggiuntive che non sono scritte, oltre che “decrittate”.
Prendiamo in considerazione le danze del Rinascimento.
Per quanto riguarda il repertorio quattrocentesco, la notazione musicale è molto diversa dalla nostra, al punto che, per
renderla fruibile per un musicista moderno, è necessaria l’opera di uno specialista.
Problema analogo per il repertorio del Cinquecento e del
Seicento dove spesso le composizioni musicali relative alle
coreografie sono riportate in intavolatura per liuto, sistema di
scrittura musicale ormai caduto in disuso.
Il ricostruttore ha quindi bisogno di avvalersi di altre discipline: la paleografia musicale per la lettura della notazione
musicale (e anche la paleografia letteraria per la lettura dei
testi) oltre che (temibile e abusata parola!) la filologia sia
musicale che letteraria.
Per capire se c’è o no un errore o una lacuna nelle musiche per danza o nelle stesse coreografie (ed eventualmente
sanarlo con un margine minimo e legittimo di arbitrio) è
necessario avere cognizione di come si comportano i testi e
le loro tradizioni, che concordanze hanno le coreografie o le
musiche con altri trattati, raccolte, documenti diversi...
Lo studio della tradizione di un testo ci conduce ad un altro
interessante punto del nostro discorso: che storia hanno
avuto i trattati che si stanno esaminando, chi e perché li ha
commissionati o compilati, da quali ambiti sociali e culturali
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provengono. Sono questi elementi importantissimi per ricostruire un ambiente che ha generato l’opera culturale di cui
ci stiamo occupando.
4 - Bisogna conoscere e studiare il periodo, la cultura dell’età in esame, cercare di immedesimarsi nel modo di pensare dell’epoca, leggere la letteratura coeva, i trattati delle
altre arti: pittura, architettura, musica non di rado forniscono
interessanti paralleli ed inaspettate “illuminazioni”.
“L’uomo del Quattrocento” per esempio, era un’umanista,
un personaggio dalla cultura vastissima e composita, che si
interessava di arte, musica, astronomia, letteratura, retorica,
numerologia, danzava e tirava di scherma, si dedicava ai
commerci, alla politica e alle “relazioni sociali” in un preciso
e complesso quadro socio-culturale.
Tutto questo si riflette sulle produzioni umane, che siano
una cattedrale, un mottetto o una danza.
Così come l’estetica “barocca”, il gusto dell’ornamentazione, il gioco dei “pieni e dei vuoti”, delle linee curve ed esasperate in drammatiche spirali, la natura svelata solo attraverso l’artificio fino al punto di nascondere e dissimulare per
poi enfatizzare senza mai svelare le linee naturali del corpo,
si riflette chiaramente sulle composizioni coreutiche siano
esse “di sala” che di teatro.
Risulterà chiaro quindi quanto sia importante per il ricostruttore, contestualizzare e storicizzare un’opera attraverso
uno studio attento dell’epoca e della cultura che l’ha prodotta per evitare errori grossolani, banalità di interpretazione e
superficialità della resa.
Questo studio sarà tanto più utile se si tratterà di ricostruire non una singola opera ma un intero avvenimento.
Lo stesso rigore che si applica nel ricostruire un testo
(musicale, coreografico o di altra natura) lo stesso scrupolo,
gli stessi metodi di ricerca e gli stessi strumenti di indagine
ci possono quindi venire in aiuto nel ricostruire il quadro preciso di un evento (un matrimonio, la celebrazione di una vittoria, i festeggiamenti in onore di un nuovo sovrano...).
Così anche la “rievocazione” di un preciso momento storico o di un ben determinato avvenimento, servendosi dei
metodi e delle discipline di cui si serve la “ricostruzione” può
acquistare maggiore forza e attendibilità storica, maggiore
fondatezza, affrancandosi dal pericolo di essere solamente
nostalgico vagheggiamento di un evo in cui non ci è stato
dato di vivere e acquistando maggiore valenza di conoscen-
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za della storia che ci ha preceduti.
All’inizio del nostro percorso tra rievocazione e ricostruzione ho affermato che ciò di cui mi occupo in maniera più diretta è la ricostruzione di “danze storiche” e non solo per pura
speculazione scientifica, ma anche per riproporre e dare vita
a queste danze in forma di spettacolo.
A questo proposito mi sembra opportuno aprire una parentesi riguardo allo spettacolo, e in particolare riguardo l’utilità
di proporre spettacoli di danza storica e inserire momenti di
danza nelle rievocazioni storiche.
Ci sono, possiamo dire, varie categorie di spettacolo
di/con danza storica in relazione tra spettacolo e rievocazione.
1 - Spettacoli in cui il repertorio viene scelto solo per ragioni interne al programma stesso e non si pongono l’obbiettivo
di rievocare un’evento passato.
2 - Spettacoli che si prefiggono di ricostruire un evento
spettacolare del passato nel modo più fedele e completo
possibile, basandosi su cronache dell’evento, documenti,
testimonianze storiche di vario genere.
Si cercherà in questo caso di ricostruire gli apparati scenici, i costumi, l’ambiente fisico e tutto ciò che realmente è
accaduto. Si riproporranno esclusivamente le danze e le
musiche eseguite durante l’evento oggetto della ricostruzione, nello stesso ordine e con lo stesso organico con cui sono
state realizzate in quell’occasione.
Questa forma di spettacolo è, potremmo dire, a metà tra lo
“spettacolo” e la “rievocazione”.
3 - Un caso particolare (e particolarmente stimolante) che
si inserisce tra lo “spettacolo puro” e lo “spettacolo/rievocazione” è costituito dalle danze inserite in pezzi teatrali o
nelle opere.
Le notizie che restano di queste danze spesso sono ridotte al solo “argomento” (“danza di pastori”, “danza di ninfe”,
“danza di demoni”...) o a poche righe di didascalia (“dall’antro infernale escono le anime ingrate in numero di otto danzando”), nella maggior parte dei casi senza avere neanche
l’ausilio della musica usata, né il minimo cenno alle azioni
coreografiche compiute.
Come comportarsi allora? Rinunciare a ricostruire i numeri coreografici perché non abbiamo a disposizione abbastanza informazioni?
Io penso di no. E’ a questo punto che l’esperienza e le
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competenze assimilate dal ricostruttore sono più importanti, perché attraverso le conoscenze storiche e tecniche si
può, pur con una certa dose di arbitrio, tentare di dare la
propria interpretazione dell’evento. Non potremo mai essere sicuri di aver riprodotto l’evento “com’era”, ma io credo
che potremmo pensare di averlo ricostruito “come potrebbe
essere stato”.
4 - Spettacoli di danza storica inseriti in una rievocazione.
Nel caso ci siano notizie di danze eseguite durante l’avvenimento oggetto della rievocazione, logica vuole che chi
ha il compito di ricostruire le danze, cerchi di capire quali
sono, con che organico, quando, dove, in che contesto
sono state eseguite, ma non è detto che queste coreografie, o le musiche, siano state tramandate.
Spesso e nel migliore dei casi troviamo resoconti, cronache, lettere che parlano delle danze dando descrizioni per
lo più entusiastiche degli apparati, dei costumi dei ballerini,
dei movimenti e degli intrecci coreografici, ma rarissimamente si riescono a rintracciare le coreografie precise.
Allora, se la vocazione e il fine della rievocazione storica
è quello di riproporre un momento di storia nel modo più
completo possibile, ricostruendo tutti gli elementi che l’hanno formato, come bisogna affrontare il problema di lacune
di questo genere?
Spesso a questi problemi se ne aggiungono altri di “ordine pratico”: l’impossibilità di recuperare l’elevato numero di
ballerini previsti nella coreografia originale, la difficoltà di
decifrare, per esempio, a quale strumenti musicali i cronachisti si riferissero citando nomi come il “buttafuoco” o il
“dolcimele” che non hanno sicure corrispondenze nelle fonti
organologiche, per non dire della difficoltà di convincere stimati professionisti a suonare a cavallo di un ramo d’albero!
Ma allora, se decidessimo di lavorare con meno persone,
con strumenti a noi noti, con i musicisti semplicemente in
un angolo, toglieremmo validità alla rievocazione, saremmo
meno “storici”?
Se il tentativo di ricostruzione è cosciente e rigoroso e
fondato su solide basi metodologiche, anche nei casi in cui
le fonti si presentano lacunose e problematiche è possibile
realizzare un “prodotto”, a mio parere, storicamente valido.
Se è vero che non possiamo essere aderenti a come gli
eventi si sono effettivamente svolti, o per lo meno non possiamo esserne certi, d’altro canto, fare integrazioni esclusi158
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vamente sul piano congetturale o fare variazioni anche per
ragioni meramente pratiche (riguardo al numero di ballerini
impiegati, alla strumentazione di un brano , alla dislocazione
di musicisti o ballerini...) non toglie storicità all’evento, a
patto che queste decisioni siano prese con piena coscienza
e seguendo, come già detto, una metodologia scientifica:
scelte che anche le persone del periodo oggetto del nostro
studio sarebbero state in grado di fare.
E’ mia opinione infatti che se il lavoro è condotto con scrupolo e onestà intellettuale, in ogni caso può aiutare a ricostruire un contesto socio-culturale il più possibile completo.
In questo modo la “rievocazione” può essere l’occasione per
compiere un lavoro interessante anche dal punto di vista
scientifico, l’occasione per mettere in atto, per dare una
dimostrazione pratica di una “ricostruzione” scientificamente
valida.
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Interpretazione,
rappresentazione
e spettacolo
musica e poesia nell’evocazione
del medioevo
Francesco Bisetto
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el contesto di questo convegno, che tratta di rievocazioni storiche, il tema che mi è stato affidato può
essere inteso nel tentativo di fornire elementi per
una “migliore”, o “più corretta”, o “giusta” immagine di come
fosse uno spettacolo nel Medioevo, al fine di riproporlo,
almeno in alcuni elementi significativi, al gusto dei tempi
nostri. Va da sé che un tale tentativo sarebbe del tutto
vano, non solo perché le informazioni che possediamo sono
del tutto insufficienti a definire un’immagine complessiva di
quella cultura, limitandosi al più ad alcuni aspetti specifici e
settoriali, ma anche perché il prodotto che risulterebbe da
una, improbabile, imitazione puntuale di quei pochi elementi certi non costituirebbe uno spettacolo fruibile e comprensibile al gusto degli spettatori attuali. Tenteremo pertanto di
fornire alcuni elementi di riflessione, scusandoci in anticipo
se non forniremo indicazioni o suggerimenti pratici.
Cominciamo col dire che nel medioevo non esisteva il
teatro nè lo spettacolo strutturato alla fruizione degli spettatori, così come si intende nella cultura moderna. Agli inizi
del medioevo, a partire dal V secolo e fino allo strutturarsi
del dramma sacro da un lato e all’affermarsi della teatralità
giullaresca dall’altro, il teatro non esiste più: nel periodo del
basso Impero Romano si è fatta tabula rasa di tutto quell’immenso patrimonio culturale che, a partire dall’elaborazione greca, aveva costituito parte centrale del vivere civile, sia negli ambienti colti che in quelli popolari, costellando le città di teatri, arene, circhi destinati alla fruizione di
tutte le categorie sociali. La linea da seguire è pertanto
quella di ricercare la “teatralità” e la “spettacolarità” al di
fuori del teatro in senso proprio.
Sufficientemente documentato è il filone della rappresentazione religiosa (dramma liturgico – sacra rappresentazione) per la presenza di testi scritti; modesta e indiretta la
documentazione sulla teatralità popolare per la insufficienza di opere storiche dedicate allo spettacolo nel suo complesso.
Possiamo suddividere le rappresentazioni religiose in
quattro tipologie che, elencate in ordine di evoluzione cronologica sono: il DRAMMA LITURGICO, la LAUDA DRAMMATICA, la SACRA RAPPRESENTAZIONE e le FESTE
SACRE.
La prima forma drammatica che si presenta all’analisi
scenica è data dal dramma liturgico, diffuso in tutti i paesi
N
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cattolici e ben documentata sin dal IX - X secolo. Il dramma
liturgico rappresenta una forma di rito, viene rappresentato
in chiesa dai chierici, viene offerto ai fedeli come forma più
espressiva del simbolo rituale, ha lo stesso scopo delle raffigurazioni pittoriche e scultoree che ornano le chiese: raccontano le storie sacre con maggiore pathos e con un linguaggio più diretto di quanto non faccia la parola dei testi
sacri, scritti in una lingua, il latino, ormai incomprensibile al
popolo. Il più comune dei drammi liturgici italiani è l’Uffizio
del Sepolcro, e l’esempio più compiuto è quello di Padova.
Lo descriviamo brevemente per comprendere la natura
della rappresentazione simbolica. All’altare di San Daniele
è rappresentato il Sepolcro di Cristo, rappresentato simbolicamente dalla tavola d’altare; sull’altare è eretta, avvolta
dal velo funebre, la Croce, che rappresenta scenicamente il
Corpo di Cristo. I Custodi, all’alba, tolgono la Croce a questo altare, vi lasciano il velo e portano la croce a un altro
altare: ciò significa che il Corpo di Cristo non è più nel suo
Sepolcro, è risorto. Le Marie, che portano unguenti e turiboli, vanno verso l’altare di San Daniele, dove era il
Sepolcro, ma vi trovano due diaconi vestiti da angelo con le
ali e con un libro in mano, che rivelano ad esse la resurrezione. Le Marie tastano e alzano il velo, poi scendono e si
avviano all’uscita, cantando. Il dramma è tutto qui. E’ evidente che la rappresentazione è anti-scenica, anti-teatrale;
sottolinea gli elementi simbolici per dare più pathos alla
storia ben nota e codificata.
Altri Drammi Liturgici frequentemente rappresentati sono
“l’Apparizione in Emmaus”, con la cena allestita sull’altare
che prima simboleggiava il Sepolcro; l’ “Uffizio dei Pastori”,
dove la scena viene arricchita da tende o tavole dipinte; l’
”Uffizio dell’Epifania”, con animazione coreografica di processioni; l’ ”Annunciazione” con un primo tentativo di artificio scenico.
Nel 1200 si sviluppa in Italia centrale una nuova forma di
rappresentazione sacra, la Lauda Drammatica, non più in
chiesa, in un mondo di riti cristallizzati, ma nell’ambiente
laico delle confraternite, con testi in volgare che raccontano, drammatizzandole, vicende religiose, recitate da attori
in costumi realistici in un contesto scenico apposito, anche
se statico. Un primo riferimento può essere trovato nel rivoluzionario presepe plastico, allestito da San Francesco in
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Umbria nel 1223: ci si allontana dalla interpretazione simbolica per ricercare una rappresentazione partecipata. I
testi raccontano le storie del giovinetto resuscitato, del
Battista, dell’Anticristo, della Passione, dell’Epifania, della
creazione del mondo, ma possono anche diventare dei
Sermoni drammatizzati. La scena, dapprima limitata a un
monte, si svilupperà arricchendosi di quinte e paraventi, per
raffigurare luoghi diversi, come scuole e prigioni, ma anche
il paradiso o il deserto. Si svilupperà anche un’altra forma
espressiva, la mimica, come momento autonomo, svincolato dal testo. Proprio nell’ambito veneto la mimica assumerà
un’importanza particolare, diventando momento centrale e
caratterizzante dell’interpretazione drammatica del testo:
particolarmente importante sarà la confraternita pordenonese dei Battuti, che sviluppa e diffonde in un ampio territorio,
per tutto il 1300, una forma espressiva fantastica, lasciata
all’interpretazione individuale, dove il gioco mimico e i
movimenti collettivi legano fra di loro le scene frammentarie
cui è ridotto il testo, oramai semplice trama dell’azione. In
effetti nel Veneto la produzione di vere e proprie laude
drammatiche fu assai esile a confronto di una rigogliosa fioritura coreografica; alle rappresentazioni brevi e relegate in
ambienti chiusi si preferì il fasto coreografico dei cortei,
nella cui ricchezza si riflette un gusto gaudente di folla.
Basti ricordare le feste processionali che si svolgevano a
Venezia e a Padova, o i grandiosi Ludi all’aperto documentati a Treviso e a Padova alla fine del XIII secolo, e le feste
plastiche, con grandi quadri animati, che coinvolsero l’intera città di Vicenza alla fine del 1400. In tutti questi eventi la
parola scompare, il testo non esiste più o si riduce a un
semplice canovaccio, prende il sopravvento la forza allegorica dei movimenti di massa e la capacità espressiva della
mimica.
Una ulteriore forma di rappresentazione religiosa si svilupperà a Firenze nella prima metà del quattrocento: è la
“Sacra Rappresentazione”. Nasce all’interno delle
Confraternite giovanili, con uno spirito più giocoso, con
un’aria più di festa, con un intento di coinvolgimento, di
divertimento, di esperienza personale e di gruppo. Gli attori erano ragazzi o fanciulli raccolti attorno a “Compagnie di
pietà e devozione” dove imparavano una vera e propria arte
di mimica, di recitazione e di canto. Le rappresentazioni
avevano luogo negli oratori o nelle sedi delle Confraternite,
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nei refettori dei conventi, nelle chiese, nei piazzali di fronte
alle chiese, nelle scalinate dei templi, ma anche negli
spiazzi o nei prati. I testi avevano un tema morale da sviluppare, con riferimento alla storia sacra o alla vita dei
santi, intesi però come esempio e motivo di riflessione partecipata, non più quindi come rituale liturgico ipostatizzato.
L’azione prevale sulla regola, la fantasia agisce sullo spettatore coinvolgendolo nel tema trattato, la mimica e il canto
danno supporto emotivo al contenuto, l’allegria prende il
posto della contemplazione ieratica. Le scene sono costruite ma semplici, ariose; sul palco compaiono animali o “ingegni” teatrali, come discese di angeli, ascensioni, nuvole, o
artifici scenici che stupiscono e divertono, come terremoti,
edifici che crollano, statue che parlano. Lo spettacolo si fa
vario di momenti alternati di canti, intermezzi mimici, suoni
balli, giostre, battaglie. La decorazione diventa parte dello
spettacolo, con i costumi sgargianti o i fondali dipinti, con
un gusto per la rappresentazione come momento della vita
civile che ritroviamo in tutte le forme artistiche della Firenze
del quattrocento, ormai aperta alla coralità umanistica del
Rinascimento.
Infine, le “Feste sacre”. Le feste popolari in onore del
santo o in particolari momenti del calendario liturgico sono
sempre esistite, come antica è la tradizione delle processioni, ma nel millequattrocento divennero una forma strutturata di manifestazione, con grandi spettacoli coreografici
cui concorreva tutta una città sia per l’allestimento che per
la partecipazione.. Per tutta l’Italia, in quel Quattrocento di
arte e di guerre, le feste cui tutto il popolo era invitato a
intervenire, nello scintillio dei tornei, nel coreografico svolgersi dei cortei, nella statica imponenza dei quadri plastici,
non si possono né contare né descrivere. Cortei figurati,
carri pavesati, allegorie viventi, palchi addobbati principescamente nelle piazze, lungo le vie, nei cortili dei palazzi,
dove si svolgevano rappresentazioni prive per lo più di testi
ma fatte di mimiche, di teorie di comparse, di cavalcate, di
tornei: lo spettacolo diventa la festa, ma contemporaneamente, la rappresentazione diventa ostentazione, il contenuto diventa simulazione, il contesto assorbe il testo e lo
annulla trasformandolo al più in fiaba. Ecco allora i Trionfi e
le sfilate allegoriche di Napoli, i conviti all’aperto offerti da
Cardinali romani per nozze principesche, le feste che
accendono di passione tutta l’Italia, religiose sempre di
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nome e forse di intento, non mai di natura e di forma. Una
festa famosa è il Corpus Domini celebrato a Viterbo nel
1462: Il Papa, i Cardinali, i più alti prelati concorsero ad
allestire la scena, e il risultato fu fantasmagorico. Le vie
della città furono liberate dai portici e dagli sporti e furono
ricoperte di fiori; archi trionfali di fiorita ginestra e mirto e
lauro le coronarono e su tutti gli edifici furono appesi arazzi preziosi, e si allestirono templi fantastici e fontane che
sprizzavano vino, e i Cardinali si prestarono a fare da mute
comparse in quadri viventi o organizzarono di fronte alle
loro case scene mimiche: spettacolo dove la scena è una
città trasfigurata in metafora dell’opulenza e la festa non ha
più nulla di sacro.
Riprendiamo ora il filo della rappresentazione pagana,
supportati dagli elementi interpretativi offertici dalla tradizione religiosa. Ricordiamo che la cultura medioevale mette
a disposizione essenzialmente tre ambiti di riferimento, tra
loro distinti e in origine separati: i testi della drammaturgia
antica, la tradizione attoriale incarnata dai giullari, la
memoria del teatro filtrata dalla cultura cristiana. Tutti questi elementi portano concordemente a sostenere che vi era
una netta scissione tra parola e gesto. I testi classici, infatti, in mancanza di una loro rappresentazione scenica,
abbandonata da secoli, erano conosciuti e considerati solo
nella loro espressione letteraria, fruibile esclusivamente dal
mondo colto; i giullari, d’altro canto, vengono sempre rappresentati come privati della parola, condannati alla gestualità e alla gesticolazione, emarginati dalla società e prossimi alla maledizione della follia, porta di comunicazione
contemporaneamente con il demoniaco e con il sublime;
infine, l’unica idea di teatro che era presente nei secoli centrali del medioevo è quella proposta dalla cultura cristiana,
che stigmatizzava gli aspetti dionisiaci dello spettacolo,
demonizzato per le deviazioni trasgressive e orgiastiche
dominanti nel tardo Impero Romano, e guardava alla cultura classica con diffidenza, operando sui testi una attenta
opera di filtro e di censura. Anche negli ambienti laici si
distingue tra poeta e attore, tra parola e gesto, associando
al poeta e alla parola la contiguità con lo spirito e il divino,
e all’attore e al gesto l’espressione del corporeo e del
demoniaco. Nell’ambiente popolare la teatralità resiste,
però, trovando il suo terreno fecondo e diffuso nella festa.
La festa è esperienza comunitaria e momento in cui l’intera
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società si riconosce e si autorappresenta. Riti e feste, però,
pur contenendo azioni e momenti di spettacolo, non giungono mai a diventare teatro o rappresentazione, perché
manca quella estraneazione da sé e manifestazione ad altri
che è costituente della forma spettacolo. Mimi, pantomimi,
istrioni, sviluppano abilità specifiche attoriali e diventano
affabulatori, giocolieri, danzatori, cantanti, acrobati, addestratori di cani, ma, in assenza di un testo, di un mito da
rappresentare, espongono solo sé stessi e la loro situazione sociale degradata: sono “fenomeni” individuali e non
interpreti di una vicenda. I giullari si pongono in una linea di
continuità con i mimi e gli istrioni dell’Alto Medioevo; si configurano per abilità attoriche; diventano professionisti di
una comunicazione rivolta alla amplificazione e alla esteriorità. Rapidamente i giullari diventano uno dei principali portatori di oralità, di diffusori di storie, del mondo medioevale,
ma continueranno a essere visti con diffidenza dal mondo
cristiano, che ne teme il potenziale di corruzione del testo
implicito nella libertà espressiva e nella debolezza dell’impianto culturale, per cui si tenderà per lungo tempo a negare loro il diritto alla parola, a relegarli alla pura corporeità,
a immaginarli come coloro che danno spettacolo tramite il
proprio corpo. L’interdizione alla parola perdurerà sostanzialmente sino a quando i giullari si impadroniranno della
parola scritta, che è l’unico strumento in grado di farli uscire dall’ambito individuale del fenomeno per integrarli in una
rete culturale di riferimenti riproducibili a distanza di tempo
e di spazio. Il giullare dunque si specializza e diventa affabulatore e narra e drammatizza monologando, ma le storie
non gli appartengono, sono vite di santi o canzoni di gesta,
trasmesse come parole e come intrecci dalla memoria collettiva, per la quale non si pone il problema della rappresentazione, ma solo della trasmissione di una vicenda altrimenti destinata all’oblio. Il giullare non rappresenta, ma
espone. Quando i giullari avranno raggiunto la padronanza
della scrittura, scompariranno dalla scena pubblica per
lasciare spazio a una figura nuova e differente, quella del
trovatore, che è poeta, intellettuale, musicista, operatore
culturale, ma non più attore o mimo-giocoliere, origine che
anzi negherà come retaggio infamante. Con i trovatori si
realizza il connubio fra musica e poesia, che all’epoca dei
provenzali si attua in maniera concreta e non superficiale.
Dal XII secolo fino al 1280 i trouvères continuano nella
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ricerca dell’originalità, del riscatto rispetto agli schemi classici. L’originalità viene cercata nei dettagli, cioè nelle variazioni particolari all’interno del modello base; da uno schema
matrice derivano infinite variazioni modificando lunghezza
dei versi, ordine delle rime, ecc. La musica ha funzione
analoga a quella della struttura metrica: applica il principio
della varietà nell’unità. Il divertimento sta nell’invenzione, le
cose raccontate sono importanti per il modo in cui sono
presentate, la rappresentazione diventa il soffio vitale dell’esistenza. Purtroppo la vasta produzione poetica dei trovatori occitanici a noi giunta è accompagnata solo parzialmente dalla musica (delle 2600 composizioni di oltre 250
poeti solo 350 hanno una melodia propria). La produzione
musicale si estende per circa due secoli, da Guglielmo, IX°
duca di Aquitania (fine XI inizi XII secolo) sino a Guiraut
Riquier (seconda metà del XIII secolo), con una ricchezza
di influssi locali e una variabilità individuale che rendono
ardua una identificazione di canoni riassuntivi comuni, se
non la padronanza di una forma espressiva compiuta, rivolta alla comprensione delle corti, caratterizzata dall’impronta individuale, destinata al godimento di chi ascoltava.
Fin qui la storia del lontano Medioevo, e vorrei concludere con alcune annotazioni di Cesare Pavese:
“Noi tendiamo al dialogo, alla conversazione. Amiamo
evitare le lunghe note informative (la narrazione), anzi
anche queste le trasformiamo in discorso facendole in
prima persona e colorite secondo il personaggio che le pronuncia. Cerchiamo insomma, nella narrativa, il teatro, ma
non la scenica. Che venga dall’uso del cinema, che ci ha
insegnato a distinguere tra visività e parola, che prima il
teatro, fondeva? Ora accade che il cinema racconta visivamente, e il romanzo rappresenta verbalmente; e noi non
vogliamo più saperne di teatro, e quello del passato preferiamo leggerlo.”
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L’importanza della
musica nelle
rievozioni storiche
Massimo Andreoli
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ul fenomeno proliferante delle Rievocazioni Storiche
si è già detto e, personalmente, ho dedicato uno studio
relativo
al
territorio
Veneto
edito
dall’Associazione Claudia Augusta nel luglio 2003. Non tornerò quindi ad elencare quali siano i presupposti scientifici
e di ricerca necessari ad una realizzazione ottimale di un
evento rievocativo, ma cercherò piuttosto di concentrare
questa breve riflessione, che invito a fare a tutti gli “addetti
ai lavori” del mondo del Re-enactment e della Living
History, su taluni aspetti del nostro passato che troppo
spesso vengono tralasciati perché ritenuti di secondaria
importanza, erroneamente, rispetto ad altri.
In pratica, se molto spesso si riscontrano nelle armature
delle cosiddette Compagnie d’Arme una profonda ricerca
storico/oplologica, o negli abiti di nobili e popolani un’indubbia conoscenza dell’iconografia coeva, non si può dire
certamente la stessa cosa nei confronti di chi, in costume,
ripropone l’aspetto ludico/musicale: quanti improvvisati
giullari, quanti “pseudo-musici” che, al suono di moderne
cornamuse (che niente hanno a che fare con le più consone pive), insistono nel ripetere i soliti tre brani musicali (se
esistesse un’ Hit parade della Musica Medievale nelle
Rievocazioni, vincerebbe di gran lunga “In Taberna”…) perché non ne conoscono altri…nonostante la produzione,
sacra e profana, dall’Alto Medio Evo in poi ci abbia consegnato – pur se molto spesso senza scritture musicali o partiture - un patrimonio di brani davvero consistente e variegato.
Questa breve premessa è necessaria per introdurre i due
motivi principali che fanno della Musica una componente
fondamentale della Rievocazione Storica.
Iniziamo col dire che non vi può essere infatti una reale
Rievocazione Storica di qualsivoglia periodo, se chi la
opera non ha la dovuta conoscenza, e di conseguenza la
capacità di riproporli, di tutti gli elementi fondanti la civiltà
del periodo storico che si vuole rievocare.
Faccio riferimento, essendo ad oggi l’unico documento
sottoscritto e riconosciuto in Italia, al R.I.R.S., il
Regolamento Italiano per la Rievocazione Storica, che
all’art. 2 comma 1 cita : “La “Rievocazione Storica” (nota
anche con il termine di “Living History”: storia vivente) è
quella disciplina….che consente, attraverso un corretto
modo di proporre la storia, di esercitare un’importante azio-
S
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ne didattica e divulgativa in modo qualificato e documentato.”. E ancora, al comma 3 del medesimo articolo : “Fare
‘storia vivente’ significa dare ‘volto’, ‘spessore’, ‘realismo’
ed un’anima ai personaggi la cui vita quotidiana si intende
ricreare; ciò è possibile soltanto grazie ad una seria e documentata azione di ricostruzione che deve, obbligatoriamente, condurre in primo luogo alla veridicità….. nel restituire lo
spirito di una data epoca.”.
Dati tali presupposti, si può facilmente concludere che
non vi è Rievocazione Storica laddove non si riesca a
ricreare o restituire “lo spirito di una data epoca”, o dove
non si riesca ad “esercitare un’importante azione didattica e
divulgativa”.
Ma quali sono gli strumenti per garantire quindi ad una
qualsivoglia manifestazione la “qualifica” di Rievocazione
Storica?
In primis le testimonianze (reperti archeologici, fonti iconografiche, documenti, etc…) attraverso i quali raccogliamo
le necessarie informazioni per un’esatta ricostruzione storica. Quindi l’artigianato storico, che supporterà la realizzazione di qualsivoglia manufatto.
Grazie a tali strumenti potremo quindi esercitare una corretta Rievocazione Storica, laddove potremo ricostruire
tutte le componenti atte al suo svolgimento nel modo più
attendibile: l’ambientazione (o scenografia che dir si voglia)
e le azioni che in essa si devono svolgere (Living History o
animazione, intrattenimento didattico che dir si voglia).
E arriviamo ad un secondo punto interrogativo : quali
sono dette azioni? Tutte quelle che, insieme, costituivano la
quotidianità dell’epoca rievocata. Prendiamo il 1200, a quali
azioni dovremo far riferimento, volendone ricostruire uno
spaccato attendibile? Certamente non si potranno dimenticare o non tenere comunque nella dovuta considerazione la
vita nei campi di una civiltà per lo più agricola, l’attività militare e di “pubblica sicurezza” svolto dalle Milizie Cittadine,
la Taverna dove gli uomini passavano per lo più il tempo
libero giocando a dadi e a carte, il mercato che era il vero
cuore pulsante di ogni agglomerato urbano, la comunità
religiosa, così presente nella vita e - nella concezione
medievale – nella morte di ciascun individuo…. Tutte attività che venivano costantemente seguite ed eseguite con il
supporto essenziale della musica e del canto, che, laddove
non avesse un precisa connotazione liturgica (Musica
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Sacra), sottolineava tutte le azioni degli uomini (dai canti
militari – celebre quello del XVI secolo su “Giovanni dalle
Bande Nere” - alle canzoni da Taverna, a quelle di estrazione contadina) e delle donne (al mercato le compravendite
venivano spesso scandite dalle esibizioni dei giullari e dei
menestrelli).
Senza entrare nella Corte di qualche signore che, tra una
festa e un ricevimento diplomatico, aveva il dovere (soprattutto se Cavaliere) di conoscere l’arte del ben comportarsi
a tavola, dell’intrattenere la Dama con argomenti di elevato
tenore, del conoscere di poesia, musica e canto, ma rimanendo tra le mura di un qualsivoglia mercante o contadino,
chiunque aveva nella Musica una fedele e quotidiana compagna.
Se a Corte questa veniva eseguita con strumenti di pregio, in taverna probabilmente ci si divertiva di più ad
accompagnare improbabili e improvvisati cori con strumenti a percussione, pive e, in un secondo momento, flauti (in
quanto strumenti in dotazione anche ai soldati per parate e
campi di battaglia).
Comunque sempre la Musica era presente, e con un ruolo
davvero fondamentale, nello scandire la vita degli uomini.
Si può dire lo stesso per le Rievocazioni Storiche ? Direi
di no, dato che la Musica per lo più svolge un ruolo secondario (spesso deve limitarsi a “riempire i buchi” lasciati nel
programma dai duelli, dai cortei e dalle esibizioni di a-storici sbandieratori) ed è per questo affidata per lo più a dei
buoni e volonterosi autodidatti che, con un costume addosso e la cornamusa (!?) al fianco, pensano di reincarnare la
figura del musico del tempo antico.
E, dato proprio che nell’accezione comune il musico
medievale è solo un “tappabuchi”, sono pochi quelli che, tra
re-enactors e organizzatori di eventi rievocativi, dedicano
alla musica la dovuta attenzione e ricerca.
Una grave mancanza è anche infatti quella di chi, vestito
da perfetto Cavaliere, non sa neanche azzardare un passo
di un Passemezzo o di un Saltarello perché, secondo lui, la
danza è poco “marziale”.
Chissà quanti, tra i valorosi del XII, XIII o XIV secolo, di
fronte ad una bella Dama da conquistare avrebbero estratto il brando luccicante (l’enfasi è quella tipica del cavaliere
del XXI secolo) piuttosto che ripiegare su un “poco virile”
invito a danzare?
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Ecco, in conclusione, i due motivi per cui la Musica si
deve ritenere un elemento fondamentale per una corretta
ricostruzione storica:
1) Non si può prescindere da una fedele ricostruzione
di un periodo storico se non si prendono nella dovuta considerazione tutti i suoi elementi, che vanno dall’abbigliamento all’oplologia, dall’alimentazione all’arredamento, dall’arte visiva alla musica e alla danza.
2) La musica era parte integrante, se non addirittura
fondamentale, per tutte le classi sociali, pur con i dovuti
distinguo, sia nell’età classica che per tutto il Medio Evo e
il Rinascimento fino all’epoca Barocca (si pensi, per esempio, al Teatro Popolare - per il quale un grande compositore come Mozart scrisse “Il Flauto Magico” - che ebbe un
ruolo fondamentale nella creazione della cultura mitteleuropea a fianco dei Teatri d’Opera e di Stato) o per quella
Moderna. Non cadiamo nell’errore di ritenere la differenza
tra Musica Pop [olare] e Musica Classica figlia del XX secolo e che quindi l’uomo qualunque dell’antichità vivesse una
vita grigia, triste e noiosa. La maggior parte delle azioni
quotidiane era scandita , così come ogni grande evento
storico è stato accompagnato, da composizioni musicali,
canti e/o danze. Pertanto non vi può essere, per definizione, Rievocazione Storica se la medesima cura che viene
dedicata ad altre sue componenti, non viene rivolta anche
ad una “corretta esecuzione delle giuste musiche”, affidando le medesime a musicisti e ricercatori professionisti, operando la scelta di un repertorio coevo all’epoca rievocata e
utilizzando esclusivamente strumenti filologicamente realizzati.
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